dante e la cultura medievale - lettere.uniroma1.it e la...nella « biblioteca di cultura moderna »...

37
Nella « Biblioteca di Cultura Moderna » prima edizione 1942 Nella <<Collezione Storica» nuova edizione a cura di Paolo Mazzantini 1983 Nella <<Biblioteca Universale Laterza » prima edizione 1985 seconda edizione 1990 Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Bruno Nardi DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE nuova edizione a cura di Paolo Mazzantini introduzione di Tullio Gregory Editori Laterza 1990

Upload: nguyenhanh

Post on 17-Feb-2019

216 views

Category:

Documents


1 download

TRANSCRIPT

Page 1: DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE - lettere.uniroma1.it e la...Nella « Biblioteca di Cultura Moderna » prima edizione 1942 Nella

Nella « Biblioteca di Cultura Moderna » prima edizione 1942

Nella <<Collezione Storica» nuova edizione a cura di Paolo Mazzantini 1983

Nella <<Biblioteca Universale Laterza »

prima edizione 1985 seconda edizione 1990

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari

~.

Bruno Nardi

DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE

nuova edizione a cura di Paolo Mazzantini

introduzione di Tullio Gregory

Editori Laterza 1990

Page 2: DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE - lettere.uniroma1.it e la...Nella « Biblioteca di Cultura Moderna » prima edizione 1942 Nella

I

FILOSOFIA DELL'AMORE NEI RIMATORI ITALIANI DEL DUECENTO

E IN DANTE

l. Il problema sulla natura dell'amore, posto da Iacopo Mo­stacci. Risposta di Pier delle Vigne.

Intorno alla natura dell'amore avevano esposto profondi pen­sieri Platone, nel Convivio e nel Fedro, e Plotino, il quale, nel V libro della III Enneade, s'era posto il problema che riaf­fiorerà nella lirica del Duecento, «se l'amore sia un dio o un demone, oppure una passione dell'anima, o l'una e l'altra cosa insieme ». Ma nella lirica italiana del secolo XIII, il problema concernente la natura del sentimento amoroso fu sollevato la prima volta da Iacopo Mostacci, falconiere di Federico II, e trattato dipoi da numerosi rimatori, sia che avessero effettiva­mente qualcosa di nuovo da dire intorno a questo argomento, sia che ripetessero fino alla noia motivi ormai triti.

Poeti francesi, provenzali e siciliani, soffermandosi a riflet­tere sulla prepotente forza della passione amorosa, come i mi­gliori di essi l'avevano provata, si raffiguravano l'Amore come un nobile signore cinto della sua corte, oppure, ·influenzati· da quel po' di cultura classica che non s'era mai del tutto spenta anche nei Sç!coli barbarici, se lo rappresentavano, sull'esempio di Virgilio e sopratutto d'Ovidio, a guisa d'un dio benigno e crudele che impone una dolce e pur tormentosa signoria ai suoi fedeli. Si trattava certo di un'immagine letteraria, del cui valore puramente poetico erano consapevoli in quanto cristiani, anzi talora uomini di chiesa; ma che cosa svegliava nei cuori quella commozione a spiegare l'origine della quale gli antichi

Page 3: DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE - lettere.uniroma1.it e la...Nella « Biblioteca di Cultura Moderna » prima edizione 1942 Nella

10 Dante e la cultura medievale

poeti avevano foggiato il mito di Eros? Che cosa è mai que­st'amore che ora tiranneggia gli uomini colla violenza della pas­sione tormentosa, ora desta in essi ebbrezze di paradiso? Questo amore fatto di sospiri, di paure, di tremiti, di speranze, d'esta­tiche contemplazioni e d'angoscia, delle più nobili aspirazioni e dei più cocenti desideri carnali?

Il sonetto del Mostacci « Sollicitando un poco meo savere », rivela forse nel poeta il bisogno di uscire dal cerchio delle frasi consuete e delle immagini convenzionali, e di tentare nuove vie allargando l'orizzonte poetico per mezzo della riflessione filoso­fica. Ma per risolvere il problema da lui posto, occorreva solleci­tare un sapere che forse al trovatore siciliano mancava.

Egli pensava senza dubbio alle personificazioni dell'Amore, rappresentato convenzionalmente come il signore e il tiranno dei cuori, quando osservava che

ogn'omo dice ch'Amor ha ·potere, e li coraggi distringe ad amare,

Siffatto modo d'jp.tendere la passione amorosa porta a credere in una forza posta fuori di noi e soggiogante la nostra volontà a guisa di fato. Per conto suo, il nostro rimatore dichiara di non poter consentire di raffìgurarsi in questo modo l'amore, giac­ché questo non ha forma corporea visibile:

ma eo non [li] lo voglio consentire, però ch'Amore no parse ni pare.

Insistendo sulla rappresentazione consueta dell'amore come un dio, si trascurava di approfondire la passione amorosa nella sua realtà psicologica e ci si precludeva la via a intenderne la verace natura nelle sue varie manifestazioni. Il vero è, osserva il Mostacci, che l'uomo attraversa· un'età in cui l'amore è sentito più che nelle altre, nascendo dal piacere che suscita nel giovane la bellezza. In questo sentimento di piacere che prova l'età giovanile al cospetto della bellezza, pare a lui debba consistere l'amore di cui favellano i poeti: ,

Ben trova l'om un'amorositate, la quale par che nasca di piacere,

I. Filosofia dell'amore nei rimatori italiani del Duecento e in Dante 11

e zo voi dire om che sia amore. Eo non li saccio altra qualitate.

Per quanto il concetto, che il rimatore siciliano sostituisce alla raffigurazione tradizionale, fosse in sé povera cosa, non di meno aveva il merito d'invitare i poeti a sfrondare i loro canti dalle immagini retoriche, e di richiamarli a considerare il senti­mento amoroso nella sua realtà di passione umana. Del resto, della pochezza del suo concetto egli era consapevole, e ponendo la sua quaestio sull'amore, a quel modo che soleva farsi nelle scuole di diritto, di medicina, di filosofia e di teologia, invitava gli esperti di cose amorose a volerla « determinare », come dice­vasi in gergo scolastico, e ad illuminarlo della loro dottrina:

Ma zo che è, da voi [lo] voglio odere: però ven faccio sentenz[l]atore.

A lui rispose, fra gli altri, Pier delle Vigne, che del cuor dello stesso Federico II teneva ambe le chiavi. Sì, è vero che l'amore non ha forma visibile e « non si tratta corporalemente », rispondeva il capuano nel sonetto «Però ch'Amore no si pò vedere »; ma sarebbe stoltezza negarne per questo la reale con­sistenza, come fanno taluni. Anzi il suo invisibile potere sui cuori dimostra ch'esso ha una natura più nobile delle cose che si vedono e si toccano:

Ma po' ch'Amore si face sentire dentro dal cor signoreggiar la gente, molto maggiore presio de[ ve] avere che se 'l vedessen visibilemente.

Ma che cosa è allora questa invisibile forza che agisce den­tro dal cuore e signoreggia gli uomini? Pier delle Vigne se la cava con un vecchio paragone che risale per lo meno a Talete: come l'invisibile forza della calamita attira il ferro, così anche l'amore, sebbene non visibile agli occhi del corpo, esercita la sua signoria sui cuori.

Page 4: DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE - lettere.uniroma1.it e la...Nella « Biblioteca di Cultura Moderna » prima edizione 1942 Nella

12 Dante e la cultura medievale

2. Dottrina di Andrea Cappellano.

Ma i paragoni non riescono mai ad appagare per intero chi vuoi conoscere quello che una cosa è in se stessa e da che trae origine. Ora della natura dell'amore aveva tentato di dare una definizione Andrea, cappellano del re di Francia, nell'opera De amore o De deo amoris 1, che, composta sullo scorcio del secolo XII, tanta influenza doveva esercitare sulla lirica amorosa anche in Italia.

Andrea Cappellano si poneva, intorno all'amore, una serie di questioni che, come vedremo, saranno in gran parte quelle stesse che Guido Orlando porrà a Guido Cavalcanti:

Est igitur primo videre, quid sit amor, et unde dicatur amor, et quis sit effectus amoris, et inter quos possit esse amor, qualiter acquiratur amor, retineatur, augmentetur, minuatur, fìniatur, et de notitia amoris mutui, et quid unus amantium agere debeat altero fìdem fallente 2. ·

E nel primo capitolo egli dà dell'amore questa definizione:

Amor est passio quaedam innata procedens ex visione et immo­derata cogitatione formae alterius sexus, ob quam aliquis super omnia cupit alterius potiri amplexibus et omnia de utriusque voluntate in ipsius ainplexu amoris praecepta completi 3•

Passione è l'amore, poiché, prima ch'esso sia corrisposto, non v'è maggiore angustia di quella che prova un amante, di continuo in preda alla paura di non poter mai conseguire l'oggetto del suo desiderio. Ed è passione innata cioè istintiva, poiché non

l Andreae, Cappellani Regii Francorum, De amore libri tres. Recensuit E. Trojel, Havniae, MDCCCXCII. Salvatore Battaglia ha curato una nuova edizione del testo latino accompagnata da due traduzioni toscane inedite del secolo XIV (Roma, Perrella, 1947). Intorno a questa opera, v. Pio Rajna, Tre studi per la storia del libro di Andrea Cappellano, in Studi di filo!. ro­manza di E. Monaci, fase. 13, 1890, pp. 193-285; R. Bossuat, Drouart La Vache traducteur d'André le Chapelain, Parigi 1~26; M. Grabmann, Das W erk De Amore des Andreas Capellanus und das V erurteilungsdekret des Bischofs Stephan von Paris vom 7. Miirz 1277 (in Speculum, VII, 1932, I, pp. 75-79).

2 Lib. I, p. 3. 3 Lib. I, I, p. 3.

I. Filosofia dell'amore nei rimatori italiani del Duecento e in Dante 13

proviene da un vero sottilmente investigato colla ragione, ma dal solo nostro immaginare, suscitato in noi dalla vista che precede l'accendersi della passione. «Giacché quando uno vede una donna atta ad essere amata e formata a suo piacimento, subito comincia a desiderarla col cuore (statim eam incipit concu­piscere corde); poi quanto più pensa ad essa, tanto più arde d'amore, finché perviene ad un più intenso pensiero. Dopo di che comincia a riandare colla fantasia le bellezze di lei, a rappre­sentarne distintamente le singole membra e gli atti corrispon­denti, e desidera d'essere a parte dell'ufficio di ciascun membro. E quando è arrivato a un cosi intenso pensiero, l'amore non riesce a frenarsi, ma tosto procede all'atto; ché subito s'affanna a procacciarsi un aiuto e cerca di un messaggero... Ma perché nasca l'amore non basta un qualunque pensiero, ma occorre un'immaginazione eccessiva (cogttatio immoderata); giacché l'im­maginazione moderata non suoi tornare in mente, e perciò non ne può nascere l'amore» 4•

Ho reso la parola cogitatio di cui fa uso il nostro autore ora colla parola italiana pensiero, ora colla parola immaginazione, dando alla prima lo stesso significato della seconda, giacché il cogitare di cui intende il Cappellano, come risulta dalla defini­zione dell'amore, non è funzione dell'intelletto, ma di quella che i medievali chiamarono la vis cogitativa 5, che è, al pari della fantasia, uno dei sensi interiori. L'amore cosi inteso trae origine senza dubbio dall'istinto sessuale; e per questo lo scrittore fran­cese dichiara apertamente ch'esso non può sussistere fra persone dello stesso sesso, giacché l'amore tende al soddisfacimento di un bisogno naturale, e « si vergogna di quello che va contro natura» 6 • Ciò non di meno, esso non consiste nell'appagamento di questo bisogno, ossia in quello che altri scrittori chiamano il « fatto » (faitz), ma nell'« immoderata passione » che deriva dall'immaginazione. E su questo elemento fantastico è sorta ap­punto la poesia amorosa: ché, tolto questo elemento, ogni possi­bilità di poesia svanisce e non resta che la nuda e brutale passione

4 Lib. I, I, pp. 5-6. s Avicenna, De anima, IV, cc. 2-3; Averroè, De anima, I, comm. 66;

III, comm. 6 e 20; Giovanni della Rochelle, Summa de anima (ed. a cura dr T. Domenichelli, Prato 1882), II, 23; S. Tommaso, Summa theol., I, q. 78, a. 4.

6 Andrea Cappellano, I, n, pp. 6-7.

Page 5: DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE - lettere.uniroma1.it e la...Nella « Biblioteca di Cultura Moderna » prima edizione 1942 Nella

14 Dante e la cultura medievale

istintiva. L'amante, stimolato dall'impressione entrata in lui per la vista, si costruisce un mondo interiore d'immagini e colla sua facoltà « cogitativa » crea l'oggetto del suo amore, spesso tanto differente da quello che si dice reale, lo colloca su un piedistallo, l'avvolge d'un'aureola luminosa e l'adora come una divinità bale­natagli innanzi. Per rendersi degno della donna cosl idolatrata, e per meritarne la grazia e il sorriso, l'amante sente n bisogno d'innalzarsi sulla volgare schiera colla virtù e il valore. « O qual mirabil cosa è l'amore - esclama il Cappellano - poiché fa rifulgere l'uomo di tante virtù e gl'insegna a farsi ricco di tanti bei costumi. V'è inoltre nell'amore qualcosa che merita la più grande lode, poiché esso, in certo modo, rende l'uomo adorno della virtù della castità; ché chiunque è illuminato dalla luce dell'amore per una donna, non saprebbe pensare all'amplesso d'un'altra, anche se bella. Fintanto che il suo animo è rivolto a lei, l'aspetto d'ogni altra gli sembra deforme e volgare» 7•

Perciò sono incapaci di vero amore i Don Giovanni e libertini, « i quali, dopo aver molto pensato ad una donna e dopo avere anche colto i frutti del loro desiderio, tosto che ne vedono un'altra, desiderano gli amplessi di quella, e con animo ingrato dimenticano i favori ricevuti dalla prima. Questi tali quante ne vedono tante ne desiderano carnalmente. L'amore di costoro è pari a quello d'un cane impudico. Ora noi crediamo ch'essi sian da rassomigliare ad asini; giacché son mossi soltanto da quell'istinto naturale che rende gli uomini non differenti dagli altri esseri animati, non da quella vera nostra natura che, per la differenza della ragione che è in noi, ci rende diversi dagli altri animali » 8•

Non le ricchezze né la facilità di ottenere da una donna quello che le si chiede, suscitano in noi il verace amore; ma piuttosto la bellezza, la probità dei costumi, e il bel parlare. Ma anche quanto alla bellezza lo scrittore francese esorta a distin­guere la vera dalla falsa che le donne astute mettono in opera per mezzo di trucchi allo scopo di sedurre. Il vero amore per altro guarda più ai bei costumi che non alla bella forma. «L'uomo saggio come la donna saggia non rifiutano d'amare chi è deforme, se in esso riluca un'interiore bellezza di costumi. » Sl che la

7 I, IV, p. 10. s I, v, p. 13.

I. Filosofia dell'amore nei rimatori italiani del Duecento e in Dante 15

donna assennata non dona il suo amore guardando unicamente alle forme eleganti o alla nobiltà dei natali. « Soltanto la probità orna l'uomo di vera nobiltà e lo rende splendente di bellezza. Che se tutti discendiamo da un unico stipite e tutti abbiamo per natura una stessa origine, non la forma del corpo, non la maniera del vestire, ma la probità dei costumi ha distinto gli uomini in nobili e non nobili, e ha dato origine alle differenti prosapie. Ma molti son quelli che, pur traendo origine, per nascita, da ante­nati nobili, degenerando si son messi per altra via». All'oppo­sto altri si son fatti nobili per il loro valore, pur traendo origine da avi ignobili 9•

3. Teoria psicologica di Iacopo da Lentini.

Alla psicologia della passione amorosa d'Andrea Cappellano s'ispira il sonetto col quale il notaro Iacopo da Lentini rispon­deva alla quaestio sull'amore posta dal Mostacci:

Amor è un[o] desio che ven da core per abondanza de gran piacimento; e li occhi in prima generan l'amore, e lo core li dà nutricamento.

Il cuore, nella dottrina aristotelica, non solo è il primo organo che si forma nello sviluppo embriologico del corpo uma­no 10, ma esso è inoltre la sede di tutte le virtù, che, per mezzo di quei sottilissimi veicoli che sono gli spiriti esalati dal sangue grazie al calore, dal centro della vita s'irradiano a tutti gli altri organi e dànno a questi il potere di compiere le loro rispettive e specificl:te funzioni 11

• Anzi per Aristotele derivano dal cuore perfino i nervi 12• Galeno distinse invece tre membri principali: il fegato, il cuore e il cervello; nel primo pose la sede propria della virtù naturale; nel secondo, la sede della virtù vitale; e

9 I, VI. IO Arist., De gener. animal., II, c. 4. Cfr. G. M. Nardi, Problemi d'em·

briologia umana antica e medievale, Firenze, Sansoni, 1938, p. 95 sg. Il Arist., De part. animal., III, c. 3, 665a 12, 17; c. 4, 666b 14; De

somno et vigilia, c. 2, 456 a 5; De morte et vita, c. 3, 469 a 6·12; c. 4, 469 b 5.

12 De hist. animai., III, c. 5.

Page 6: DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE - lettere.uniroma1.it e la...Nella « Biblioteca di Cultura Moderna » prima edizione 1942 Nella

16 Dante e la cultura medievale

nel terzo, la sede della virtù animale 13• Dal cervello, e niente

affatto dal cuore, traggono origine i nervi, che, col cervello, sono lo strumento della sensazione interna ed esterna. Se non che nel medio evo s'era cercato, sull'esempio d'Avicenna 14, d'ac­cordare Galeno con Aristotele. I nervi che si diffondono per tutto l'organismo, si disse, derivano immediatamente dal cervello oppure dalla nuca, cioè dal midollo spinale; ma mediatamente dal cuore; e si comparò il cervello e il midollo spinale a un gran fiume le cui sorgenti si occultano nei monti. Dal cuore parimente traggono origine anche la virtù naturale e la virtù animale che hanno come organo e sede propria rispettivamente il fegato e il cervello. Ad ogni modo, anche secondo Galeno, nel cuore aveva la sua propria sede la virtù vitale. La quale viene così definita da Avicenna 15 :

Vitalis vero virtus est illa, quae spiritus esse conservat, qui sensus et motus vehiculum existit, et ipsum reddit aptum ad eorum impres­siones recipiendas, quum ad cerebrum pervenit, et facit ipsum poten­tem dandi vitam, ubicumque expanditur. Et huius quidem virtutis sedes et operationi ipsius processus est cor.

Ed anche Galeno riteneva, al pari d'Aristotele, che nel cuore, ove risiede la virtù vitale, si compiessero quei moti dell'animo che si dicon passioni, come la paura, l'ira, la gioia, tutti quei sentimenti insomma che provocano una dilatazione e costrizione del cuore 16

• La qual dottrina era comunemente accolta nelle scuole di medicina e di filosofia, come può vedersi dal commento di Alberto Magno al De animalibus 17 e ai Parva naturalia 18, da

13 Galeno, Methodus medendi, IX, c. 10; De placitis Hippocratis et Platonis (ed. Mueller, Lipsia 1874), VI, p. 499 sgg. sino alla fine del libro; VII, p. 596 sgg. Cfr. Costantino Africano, De communibus medico cognitu necessariis locis (che non è altro che la Pantegni di 'Ali ibn al-'Abbiis -noto nel medio evo latino come Halyabbas -, tradotta dallo stesso Costantino), I, c. 6; IV, cc. 2, 5, 9, 19 (in Constantini Mricani ... Operum reliqua hacte­nus desiderata, Basilea 1539).

14 Canon totius medicinae (secondo la versione arabico-latina di Ge-rardo da Cremona, seconda metà del sec. XII), I, fen l, dottr. 6, c. l.

15 Ibid. 16 Galeno, De placitis Hippocratis et Platonis, VII, p. 597. 17 Alberto Magno, De animalibus, I, tr. l, c. 5; IX, tr. 2, c. 4; XX,

tr. 2, c. 3. 18 Alberto Magno, De spir. et respir., I, tr. l, cc. 9-10, tr. 2, cc. 1-4;

De motibus an;mal., I, tr. 2, cc. 2-6.

I. Filosofia dell'amore nei rimatori italiani del Duecento e in Dante 17

quello del medico fiorentino Taddeo Alderotti alla Isagoge di Ioannitius 19 e dal Conciliator di Pietro d'Abano 20

, per non citare che alcune delle opere solenni. « Cor domicilium est vitae », insegnava pure Alfredo di Sareshel, che intorno al 1210 aveva dedicato il suo De motu cordis al compatriota ed amico, maestro Alessandro Neckam; « cor igitur animae domicilium est», poiché l'anima nel cuore s'unisce allo spirito vitale che esala dalla parte più pura del sangue sotto l'influsso del calore naturale 21

Dal cuore, dunque, e dallo spirito vitale, il quale è strumento delle virtù che emanano dall'anima, proviene anche questo moto o passione che Aristotele denominava q>CÀ'I')cnc;, distinguendolo dalla q>~ÀLa, cioè dall'amicizia; giacché la q>~À.La non ha quella concitazione e ,quell'appetito che son propri invece della q>LÀ'I')cnc; o amore sensuale. E lo stesso filosofo aggiungeva che, come dell'amicizia è principio la benevolenza, così dell'amore sensuale è cagione il diletto suscitato in noi dal vedere, « ea quae per visum delectatio », i) 8~&. 'tfjc; ~\j;Ewc; i)oovi} 22

Questa delectatio o l]oovi} è quella che nel medio evo si disse piacimento o piacenza in senso soggettivo; poiché in senso oggettivo queste parole significarono pure la bellezza, cioè la qualità per cui una cosa veduta piace, secondo il detto comune fra gli scolastici: « Pulchrum est quod visum placet ». E Witelo nella sua Perspectiva 23 scrivev~:

19 Taddeo Alderotti, Expositiones, Venezia 1527: In Isagogem Ioan­nitii, fol. 351 v-b, 358 v-o sgg.

20 Diff. 31, pr. 2; 41, pr. l; 57, pr. l; 59, pr. l. In taluni commenti della Vita nuova, I, 4 sgg., anzi che qualcuna delle fonti classiche, è citato, non si sa perché, il trattato De anima attribuito a Ugo da S. Vittore, e che invece è di Alcherio da Chiaravalle, monaco del sec. XII, il quale utilizzò la Pantegni di 'Ali ibn al-'Abbiis tradotta da Costantino.

21 Liber magistri Alvredi de Sareshel ad magistrum magnum Alexandrum Nequam de motu cordis, ed. Cl. Baeumker, in Beitriige zur Geschichte der Philosophie des Mittelalters, XXIII, 1-2, Miinster 1923, pp. 33, 34, 43, 45, 69, 80, 86, 93-94.

22 Arist., Eth. Nicom., IX, c. 5, 1166 b 30- 1167 a 6: « Benevolentia autem amicitiae quidem assimilatur, non tamen est amicitia ... Sed neque amatio est: non enim habet distensionem, neque appetitum. Amationem autem haec sequuntur ... Videtur utique principium amicitiae esse, quemad­modum eius quod est amare, ea quae per visum delectatio. Non enim inde­lectatus specie nullus amat » (secondo la traduzione latina di Roberto Gros-satesta, premessa al commento tomistico, lez. V). ·

23 IV, 148 (estratti in Cl. Baeumker, Witelo, nei Beitriige cit., III, 2, Miinster 1908, pp. 172-174). ·

Page 7: DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE - lettere.uniroma1.it e la...Nella « Biblioteca di Cultura Moderna » prima edizione 1942 Nella

18 Dante e la cultura medievale

Pulchritudo comprehenditur a visu ex comprehensione simplici formarum visibilium placentium animae, vel coniunctione plurium visibilium intentionum habentium ad invicem proportionem debitam formae visae.

Fit enim placentia animae, quae pulchritudo dicitur, quandoque ex comprehensione simplici visibilium formarum ...

Sic ergo pulchritudo comprehenditur a visu ex comprehensione simplici formarum visibilium placentium animae. Quaelibet tamen istarum visibilium intentionum non facit pulchritudinem in qualibet forma, in qua venit illa intentio ad visum ...

Ex coniunctione quoque plurium intentionum formarum visibilium ad invicem, et non solum ex ipsis intentionibus visibilium, fit pulchri­tudo in visu, ut quandoque colores scintillantes et similiter pictura proportionata sunt pulchriora coloribus et picturis carentibus ordina­tione consimili, et similiter est de vultu humano.

Piacimento in senso soggettivo, e cioè piacere e diletto che prova l'anima di fronte alla bellezza, è quello che desta nel cuore il desiderio amoroso 24

• L'immagine di donna bella, cioè l'inten­:done entrata in noi per mezzo della vista, provoca il sentimento del piacere e quindi, se questo è grande, l'amore. Ma l'impres­sione visibile non basta a generare l'amore, se il cuore non « li dà nutrigamento ». Questo nutrigamento non è altro che quella « immoderata cogitatio », quella « cogitatio plenaria » di cui ci ha parlato Andrea Cappellano, e che è essenziale alla vita della passione amorosa. L'immagine oggettiva, entrata in noi per la vista, è rappresentazione della cosa veduta nella sua fisica realtà e nel suo «esser verace », come dirà Dante 25, senza distinzione di bello o brutto, di «bono e rio»; soltanto l'interiore lavorio del cuore, cioè dell'immaginazione, può dar vita all'immagine piacente e svegliare il desiderio amoroso. Senza questo elemento fantastico, fonte della poesia amorosa, l'amore non nasce:

Ché li occhi rappresentano a Io core d'onni cosa, che veden, bono e rio, com'è formata naturalementè;

24 Giovanni della Rochelle, Summa de anima, ed. Domenichelli cit., II, c. 31: « Duplex est enim disposi do virtutis concupiscibilis moventis ad actus: placentia et displicentia. Quidam ergo actus exeunt ab ea secundum placentiam ... Boni... alterius placentia generat amorem et dilectionem ».

25 Purg., XVIII, 22-33.

I. Filosofia dell'amore nei rimatori italiani del Duecento e in Dante

e lo cor, che di zo è concepitore, imagina, e [li] piace quel disio: e questo amore regna fra la gente.

19

Il Notato accenna anche ad un'altra questione discussa da coloro che trattarono della natura dell'amore: può l'amore sve­gliarsi per un'immagine che non entri in noi per la vista? Il problema interesserà specialmente coloro che all'amore daranno un'origine soprasensibile, come vedremo; ma anche alla mente di quelli che non s'elevarono al concetto platonico e teologico del­l'amore, la quistione s'affacciò per quel che leggevano di Jaufré Rudel, innamoratosi per fama della contessa di Tripoli in Siria. Il Notaro ammette, sì, che

Ben è alcuna fiata om amatore senza vedere so 'namoramento; ma quell'amor che stringe con furore, da la vista de li occhi ha nascimento.

Un po' più crudamente Aristotele, nel luogo dell'Etica Nico­machea sopra citato, aveva detto che senza di quel piacere che è suscitato in noi dalla specie visibile non si dà amore: « non enim indelectatus specie nullus amat ». Ma è evidente che lo Stagirita intendeva parlare di « quell'amor che stringe con fu­rore », cioè di quello che è vera passione e non solo un vago sentimento senza concitazione.

4. Divulgazione della teoria di Iacopo da Lentini.

I pensieri accennati, più che esposti, da Iacopo da Lentini, saranno ripetuti fino alla sazietà dai rimatori italiani sino alla fine del secolo, senza che nei più di essi la dottrina intorno all'amore se n'avvantaggi gran che.

Così un anonimo del codice Vat. 3793, non trovando chi gli dica «chi sia Amore, ove dimori o di che cosa è nato», inclina a credere che quell'amore che la gente chiama signore, altro non sia « se non un nome usato » e ritiene la passione amoròsa « uno volere » nato da tre cose che « in una concor-

cs

i ~

t t

~ l ~ 1 ~

~ k

' t i t

Page 8: DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE - lettere.uniroma1.it e la...Nella « Biblioteca di Cultura Moderna » prima edizione 1942 Nella

20 Dante e la cultura medievale

danza... tegnono lo corpo in lor podere » e « sengnoregiano lo core », cioè: « Piaciere e pemsare e disianza » Z~>. Un altro ano­nimo dello stesso codice dichiara di non potersi vantare « di tanto savere » da rispondere « sentenziando » a chi gli avea chiesto

Che este amore e di che nascie e quando e ['n] qual parte del' o m ponsi a sedere.

Non di meno anch'egli ritiene che amore non sia cosa da poter vedere e toccare, e rifiuta il « van pensare » di quelli che ne fanno un dio:

Cà se deo fosse non facièra reo; cà 'n deitate è tutto dengno afare n.

Anche mastro Francesco è dello stesso avviso, sebbene sap­pia che il potere d'Amore «più che terena sengnoria si stende», e che esso tiranneggia la volontà dell'uomo, la quale pur «da sengnor teren ben si difende »:

C'amor sia deo non è la veritate, ché deo per bene già male no' rende.

Amore « fa reo », Amore « rende male per bene »: notiamo fin d'ora questo concetto pessimistico, implicito in quello dell'amore come passione, che s~rà largamente svolto dal Cavalcanti. Del resto, anche mastro Francesco ripete sulla natura della passione erotica quello che già sappiamo:

Quand'cm diven solicito e pensoso vegiendo un .bello viso e piacientero, amantenente Amor in cor rinchioso: c'Amore è un continovo pensero di quella cosa ond' orno è disioso 28.

26 Le antiche rime volgari secondo la lezione_del codice Vaticano 3793, pubblicate per cura di A. D'Ancona e D. Comparetti, t. IV, Bologna 1886, n. 331, p. 6.

n Le antiche rime volgari, n. 332, p. 7. 28 Le antiche rime volgari, n. 502, p. 188.

I. Filosofia dell'amore nei rimatori italiani del Duecento e in Dante 21

Lo stesso tema è ribadito in quest'altro sonetto anonimo dello stesso codice Vaticano:

Dal cor si move un spirito in vedere d'in ochi 'n ochi di femina e d'orno, per lo qual si concria uno piaciere, lo qual piaciere mo vi dico como:

e nasciene un benivolo volere, lo qua Amore chiamat'è per nomo; dentro dal core si pone a sedere, cà nom paria in più sicuro domo.

nascie di sangue netto pur c'al core, che l'animo de Pom ten 'n alegranza e sengnoregia ciascuno altro amore,

e falla stare in quella disianza; quello può dire om che sia. Amore: amor è. cosa con gran dubitanza 29 •

Ma se l'amòre fosse stato davvero «cosa con gran dubi­tanza » e l'autore di questo sonetto vi avesse ben riflettuto, non pare che si sarebbe dovuto limitare a ripetere quello che in sostanza aveva già detto il Notato, senza mettervi un solo accento che riveli la sua personale riflessione intorno al problema. E niente aggiunge neppur mastro 'Torrigiano da Firenze, il quale verso la fine del secolo XIII insegnava medicina a Bologna, ove scrisse un divulgatissimo Plus quam commentum super Micro­tegni Galieni, finché non si rese frate. Nei due sonetti che ci restano di lui su quest'argomento, egli torna a battere sul punto che amore non è dio se non « per similìa », cioè per similitudine,

.a cagione della forza ch'esso esercita su chi ama; ma in se stesso non è altro che «un disio del'arma » cioè déll'a~ima, della quale è come il timone 30•

Oggetto della passione amorosa è, come abbiamo visto, la « piacenza », cioè la bellezza sensibile che si rivela all'amatore per la vista. A parte i casi .nei quali sembra che il tema amoroso serva ad una semplice esercitazione letteraria, l'amore di cui trattano i rimatori dei quali abbiamo fatto cenno, è sicuramente una passione sensuale quale l'aveva definita il Cappellano, e ten­dente al possesso della cosa amata. Nqn parlo del possesso car-

29 Le antiche rime volgari, n. 337, p. 12. 30 Le antiche rime volgari, nn. 486-487, pp. 171-172.

Page 9: DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE - lettere.uniroma1.it e la...Nella « Biblioteca di Cultura Moderna » prima edizione 1942 Nella

22 Dante e la cultura medievale

nale, col quale il più delle volte, saziata la brama dei sensi, l'amore s'affievolisce e si spegne. V'è un possesso meno brutale, più fine, più delicato, più pudico, che inebria e non sazia, un amore che si nutre di sguardi, di sorriso, di luce, e il cui appaga­mento consiste nella certezza che sentimenti consimili albergano nell'anima della persona che s'ama.

È ben vero, per altro, che siffatto patema dell'animo deter­mina una sovreccitazione di sensi, che talora dispone e, diciamo pure, inclina al possesso carnale o almeno al desiderio di esso. Ma i rimatori del secolo XIII s'arrestano in generale sul limite imposto alla poesia dal freno dell'arte, e, quasi temessero di profanare la bellezza vagheggiata colla fantasia, non menan mai vanto di ciò che tacere è bello.

Ad ogni modo, posto che l'amore di cui intendevano è la passione definita da Andrea Cappellano e da Iacopo da Lentini, non era possibile sviluppare questa dottrina se non in due modi: o accentuare sempre più il carattere irrazionale e violento della passione amorosa, come fa Guido Cavalcanti; oppure far com­piere ad essa una catarsi artistica e morale, mettendo a profitto l'elemento immaginativo cui abbiamo accennato, come piacerà a Guido Guinizelli.

5. Principio di catarsi poetica della passione amorosa nella lirica del Guinizelli. .

Pura contemplazione della bellezza è l'amore per il Guinizelli.

E' par che da verace piacimento lo :futo amor discenda guardando quel ch'al cor torni piacente; ché poi ch'om guarda cosa di talento, al cor pensieri abenda, e cresce con disio immantenente; e poi dirittamente fiorisce e mena frutto 31•

Ma il fiore e il frutto del desiderio che il poeta vorrebb~ racco­gliere, altro non sono che uno sguardo pietoso e benigno della

31 Rime di Guido Guinizelli (in Rimatori del dolce stil novo a cura di L. Di Benedetto, Bari, Laterza, 1939), IV, 12-19.

I. Filosofia iell'amore nei rimatori italiani del Duecento e in Dante 23

donna amata, alla quale non chiede se non di rimeritare i suoi servigi col sorriso. La bellezza muliebre, come la intende il rima­tore bolognese, è fulgore di un'interiore bellezza d'animo la quale si rivela nell'armonia dei lineamenti, negli atti onesti, nel pare lare soave e sopratutto nel lampo degli occhi. Ed è, se non essenzialmente, almeno tendenzialmente, bellezza morale, che tra­sfigura e purifica quella che originariamente era definita dal Cap­pellano una passione strettamente connessa coll'istinto sessuale.

E non si pò appressar orno ch'è vile; ancor vi dico ch'ha maggior vertute: null'om pò mal pensar fin che la vede 32.

Amor di poeta è il « fino amore » e non può albergare se non in un « cor gentile» 33

• Amore e cuor gentile stanno tra loro come lo splendore sta al sole:

Ch'adesso che fu il sole, sl tosto lo splendore fu lucente né fu davanti il sole; e prende amore in gentilezza loco cosl propi:amente come calore in clarità di foco 34.

Come la luce del sole, raggiando sulla materia vile e purifican­dola, ne trae le pietre preziose colle loro mirabili virtù magiche e medicali 3S,

cosl lo cor, ch'è fatto da natura asletto, pur, gentile, donna, a guisa di stella, lo inamura 36_

Amore siffatto non può accendersi in cuor villano; poiché la prava natura ne spegne la fiamma, come l'acqua il fuoco. Per quanto splenda, la bellezza non riesce a riscaldare l'animo vile, come il sole non dà virtù al fango:

32 lbid., XV, 12-14. 33 lbid., v. 34 lbid.~ v, 5-10. 3S Sulle virtù medicali e magiche delle pietre preziose; cfr. Alberto

Magno, De mineralibus, II, tr. l, cc. 1-4. 36 Rime di G. Guinizelli, V, 18-20.

l ~ l ~i

Page 10: DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE - lettere.uniroma1.it e la...Nella « Biblioteca di Cultura Moderna » prima edizione 1942 Nella

24 Dante e la cultura medievale .

Fère lo sole il fango tutto 'l giorno: vile riman, né 'l sol perde calore 37,

Né basta ad accendere il «fino amore» la nobiltà della schiatta, poiché la vera nobiltà non s'eredita col lignaggio, « se da vertude non ha gentil core» 38

• Soltanto le belle imprese e i bei costumi, soltanto il valore dà all'uomo gentilezza; che è un concetto che sarà svolto con ampiezza da Dante, ed era già chia-ramente accennato dal Cappellano. ,

Nato da un bisogno di contemplazione estetica, il desiderio amoroso dell'anima nobile è pienamente appagato nell'obbedire al gentil talento di donna bella, se da lei si sente corrisposto e il suo servire trova in lei comprensione. Se l'innamorato ottiene questa niercede del suo servire, e sente il suo cuore battere all'unisono con quello di madonna, allora esso è pienamente beato, al pari delle intelligenze celesti la cui beatitudine consiste nell'obbedire a Dio, volgendo ciascuna il proprio cielo, e nel contemplare la divina essenza « oltra 'l v_elo » d'immagini sen-sibili 39• •

Né in un tal sentimento, sorto dalla catarsi della passione sensuale, il poeta trova alcunché di peccaminoso di cui abbia a pentirsi come cristiano. E se Dio rimprovererà l'anima sua d'aver seguito un vano amore, potrà rispondergli:

Tenea d'angel sembianza che fosse del tu' regno: non mi fu fallo, s'eo li posi amanza 40,

37 Ibid., V, 31-32. 38 Ibid., V, 33-40. 39 Ma pare che i codici abbiano « oltra cielo » o « oltra 'l cielo ». In­

torno alla quale espressione e in generale sui recenti tentativi di rendere intelligibile la quinta stanza della canzone guinizelliana « al cor gentil repara sempre amore», si veda l'articolo di C. Muscetta, Al èor gentil..., in Leo­nardo - Rassegna bibliografica, XII, 1941, pp. 145-152 (e la polemichetta che n'è seguita, ivi stesso, XIII, 1942, pp. 34-37 e 160-161), lo studio di M. Casella, Al cor gentil repara sempre amore, in Studi romanzi, XXX, 1943, pp. 5-53 (utile per quanto concerne la tradizione manoscritta e la ricostitu­zione del testo, non altrettanto per l'interpretazione «metafisica», più che ardita, strana), e la nota di A. Roncaglia, «Intendere» nella canzone di Guido Guinizelli, in Lingua nostra, VI, 1944-1945, pp. 21-25.

40 Rime di G. Guinizelli, V, 51-60.

I. Filosofia dell'amore nei rimatori italiani del Duecento e in Dante 25

Ma non sempre l'innamorato ottiene il guiderdone del suo servire, e spesso la donna amata sta di fronte a lui, chiusa nel suo orgoglio, come una rocca inaccessibile. E il tapinello che vi si aggira intorno, cercando invano una porta per arrivare al cuore di lei, dà sfogo ai suoi lamenti in canti appassionati, ondeg­giando fra la speranza e lo sconforto. Intorno a questo motivo son fiorite le rime più belle, perché più sincere, del « dolce stil novo », ispirate a una fine analisi dei sentimenti suscitati nell'animo dal desiderio amoroso che dettava dentro.

Si è parlato sovente di platonismo a proposito dell'amore cantato dal Guinizelli e dai seguaci del « dolce stil novo ». Ma forse l'espressione è abusiva ed è stata certamente abusata. Se un riflesso di platonismo si vuoi vedere in quella catarsi che il bolognese fa compiere alla passione erotica di Andrea Cappel­lano, in questo modo di esprimersi qualcosa di vero c'è, purché sia inteso con discrezione. Ché, per quanto purificato dal tocco leggero della poesia, l'amore di questi poeti oscilla sempre tra la tendenza platonica verso una pura bellezza morale, e una nuova forma di raffinato erotismo alessandrino. E di quest'ultimo la lirica degli stilnovisti ha infatti l'aerea musicalità, il sommesso e blando sospirare, interrotto da acuti accenti d'angoscia, da frequenti singhiozzi e da invocazioni alla morte come quella che sola può ridare all'anima sgomenta la pace perduta. C'è troppa passione, insomma, nel canto di questi nostri poeti, e troppa sofferenza, perché si possa parlare di amore platonico 41 •

41 Ben più oltre si sono spinti coloro che, come E. Anitchkof, Joachin de Flore et les milieux courtois, Roma 1931, p. 105, hanno visto nei senti­menti e nel linguaggio dell'« amor cortese » una filiazione della mistica cri­stiana, o comunque un'influenza di questa su quello, come E. Wechssler, Das Kulturproblem des Minnesangs. Studien zur Vorgeschichte der Renais­sance. Bd. l, Minnesang u. Christentum, Halle a. S. 1909. Contro di essi, É. Gilson, La théologie mystique de Saint Bernard, Parigi, Librairie Philo­sophique J. Vrin, 1934, pp. IV, 193-215, fa giustamente rilevare che l'amor cortese è sostanzialmente la passione carnale di cui parla Andrea Cappel­lano, che non può aver niente a che fare colla mistica. L'uno rispecchia la vita nelle corti principesche, l'altra la vita del chiostro. Anzi in certi casi, io penso, è piuttosto il linguaggio dell'amor profano che è stato trasferito a esprimere i sentimenti del mistico connubio dell'anima collo sposo divino. Vero è non di meno che, se non proprio la mistica monastica, un qualche influsso ha esercitato sull'amore cortese il sentimento cristiano che fermen­tava in tutta la società medievale. Cosi, quando una bella fanciulla è im­maginata simile a un angelo di Dio, venuto di cielo in terra, si tratta d'una rappresentazione comune anc'oggi a tutto il popolo cristiano, che alla fede

Page 11: DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE - lettere.uniroma1.it e la...Nella « Biblioteca di Cultura Moderna » prima edizione 1942 Nella

26 Dante e la cultura medievale

E sopratutto perdura in essi il sentimento della loro servitù alla forza tirannica della passione che li domina senza scampo. Il Guinizelli lo dice apertamente:

Orno ch'è priso non è in sua balla, conveneli ubidir, poi n'aggia doglia; ch'a auge! lacciato dibattuta è ria che pur lo stringe e di forza lo spoglia.

In pace donqua porti vita e serva 42•

6. Il pessimismo di G. Cavalcanti, e il suo fondamento aver­roistico.

Un motivo finemente platonico parrebbe ispirare questi deli­cati versi di Guido Cavalcanti 43

:

Angelica sembianza in voi, donna, riposa; Dio, quanto aventurosa fue la mia disianza! Vostra cera gioiosa, poi · che passa ed avanza natura e costumanza, ben è mirabil cosa. Fra lor le donne dèa vi chiaman come siete: tanto adorna pàrete ch'eo non saccio contare; e chi poria pensare - oltr'a natura?

Oltr'a natura umana vostra fina piagenza fece Dio, per essenza che voi foste sovrana.

negli dèi ha sostituito quella negli angeli. « Gli angeli belli stanno a mille in cielo », - canta Lola nella Cavalleria rusticana. Non mi sembra sia il caso di discutere l'interpretazione di Mario Casella che applica alla canzone guinizelliana gli stessi concetti metafìsici, di cui sarà detto più oltre, da lui applicati al Cavalcanti.

42 Rime di G. Guinizelli, XIX, 5-9. 43 Rime di Guido Cavalcanti (nello stesso volume di Rimatori del dolce

stil nova a cura di L. Di Benedetto), VI, 19-35.

I. Filosofia dell'amore nei rimatori italiani del Duecento e in Dante 27

Ma anche nell'atto in cui s'abbandona alla. contemplazione dell'angelica bellezza, il poeta si sente dominato da una forza a cui non potrebbe ribellarsi:

Ché solo Amor mi sforza, contra cui non val forza - né misura 44;

E ben presto la gioia d'amare torna in pianto:

Io non pensava che lo cor giammai avesse di sospir tormento tanto, che de l'anima mia nascesse pianto, mostrando per lo viso a li occhi morte 45.

Ma poiché vano è il dibattersi, per chi è caduto nei lacci della passwne amorosa, non resta che abbandonarsi ad essa, pur sentendo nell'anima la morte: « Omnia vincit amor, et nos cedamus amori». Pochi poeti hanno espresso come il Cavalcanti lo sbigottimento che accompagna il più completo abbandono alla potenza del desiderio amoroso:

E ancora:

Voi che per li occhi mi passaste al core e destaste la mente che dormia, guardate a l'angosciosa vita mia, che sospirando la distrugge Amore 46•

Per li occhi venne la battaglia in pria che ruppe ogni valore immantenente, sl che del colpo fu strutta la mente 47.

Amore del resto l'aveva avvertito:

Tu sai, quando venisti, ch'io ti dissi: poi che l'avei veduta, per forza convenla che tu morissi~.

44 lbid., VI, 43-44. 4s Ibid., VIII, 14. 46 Ibid., XII, 1-4. 47 Ibid., XV, 9-11. 48 Ibid., VIII, 40-42.

Page 12: DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE - lettere.uniroma1.it e la...Nella « Biblioteca di Cultura Moderna » prima edizione 1942 Nella

28 Dante e la cultura medievale

« Ut vidi, ut perii! ut me malus abstulit errar»! - sembra esclamare anche il rimatore fiorentino col pastore virgiliano. Coll'« anima vilmente sbigottita» 49

, tratto «di virtù in sl vii loco » da sentirsi in balìa della morte 50

, il Cavalcanti impreca perfino all'amore:

Quel punto maledetto sia ch'Amore nacque di tal manera, che la mia vita fera Ii fue di tal piacere a lui gradita st.

E la parola morte risuona ad ogni momento nel suo canto:

Menarmi tosto senza riposanza in una parte, dov'i' trovai gente che ciascun si doleva d'Amor forte.

Quando mi vider, tutti con pietanza dissermi: Fatto se' di tal servente che mai non déi sperare altro che morte 52•

Io vo come colui ch'è fuor di vita ... che sé conduca sol per maestria, e porti ne lo core una ferita , che sia, com'egli è morto, aperto segno 53.

Ma che cosa è, per il poeta fiorentino, quest'amore che «di vertù lo spoglia » e « fa la sua virtù 'n vizio cadere » 54

, que­st'amore la cui violenza l'uccide, sì da maledire il punto in che nacque in lui? Guido Orlandi, a cui il continuo lamentar del Cavalcanti dava sospetto 55

, gli pose formalmente il problema sulla natura dell'amore, sminuzzandolo in tante domande che sono in gran parte quelle a cui avevano risposto Andrea Cappel­lano e i· rimatori di cui abbiamo parlato, tranne una che doveva riguardare direttamente lui, il Cavalcanti: « È vita questo amore

49 Ibid., XV, l. so Ibid., IX, 1-8. 51 Ibid., XXIX, 31-34. 52 Ibid., Il, 9-14. 53 Ibid., XVI, 9-14 (cfr. Rime di G. Guinizelli, X, 8; XIII, 12-14). 54 Ibid., XXIX, 9-10, 18-20. 55 Vedasi la tenzone tra l'uno e l'altro in G. Cavalcanti, Rime, a cura

di E. Cecchi, Lanciano 1913, pp. 50-52.

I. Filosofia dell'amore nei rimatori italiani det Duecento e in Dante 29

o vero è morte? » 56• Al sonetto dell'Orlandi l'innamorato poeta di Manna V anna e della Mandetta rispose colla dotta canzone «Donna mi prega», che, ricordata da Dante 57

, e rimbeccata da Cecco d'Ascoli 58 , fu ritenuta un solenne trattato sulla natura dell'amore e meritò d'esser chiosata da commentatori antichi e moderni, la maggior parte dei quali, a dir vero, ne ha fatto tale strazio, se si eccettua il buon medico fiorentino Dino del Garbo, da rivaleggiare solo con gli sciagurati amanuensi che ce n'hanno tramandato il testo 59

Accingendosi a definire che cos'è l'amore, e a darci una dimo­strazione compiuta della natura di questo sentimento dell'animo, il Cavalcanti si rivolge a chi è addentro alle dottrine psicolo­giche, che fanno parte del sistema aristotelico della natura, e presuppongono la conoscenza di alcuni principii fisici:

Ed a presente conoscente chero ... . ché senza - natura! dimostramento non ho talento - di voler provare là dove posa, e chi lo fa creare ...

La sua vuoi essere insomma una trattazione, completa in tutte le sue parti, intorno all'essenza della passione amorosa, alle cause di essa e ai suoi effetti, fondata su principii della scienza naturale dell'anima. Come l'Aristotele del Berni, anche il nostro rimatore «non imbarca altrui senza biscotto », non pro­cede per impressioni, ma con metodo filosofico.

L'amore siede in quella parte dell'anima dove, secondo ·la dottrina aristotelica, sta la memoria, e dove insieme a questa stanno l'immaginativa e l'estimativa; cioè nell'anima sensitiva, di cui son potenze i sensi esterni e quelli interni, non che l'appe­tito sensibile che risiede nel cuore. Come un corpo diafano è reso luminoso dalla luce, così l'amore è formato d'un'oscurità cagionata in noi da una maligna influenza di Matte. Esso non è un dio immortale, ma è una qualità generata, ed ha nome di cosa sensibile; è passione dell'anima e appetito del cuore.

56 Ibid., p. 42. 57 De vulg. el., Il, xn, 3, 8. 58 Cecco d'Ascoli, L'Acerba, ridotta a miglior lezione e per la prima

volta interpretata ... da A. Crespi, Ascoli Piceno 1927, III, l, vv. 1938 sgg. 59 Si veda in proposito il saggio successivo.

Page 13: DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE - lettere.uniroma1.it e la...Nella « Biblioteca di Cultura Moderna » prima edizione 1942 Nella

30 Dante e la cultura medievale

'Fin da questa prima battuta, la dottrina dell'amore professata dal Cavalcanti ci si rivela intimamente connessa colla definizione del Cappellano, e fortemente colorita di pessimismo. Questo « accidente che sovente è fero », non da una benigna influenza di Venere procede, come pensano Dante 60 e Cecco d'Ascoli 6\

ma anzi da un maligno influsso di Marte, quando questo pianeta si trova nella « casa» di Venere, in congiunzione colla costella­zione del Toro o della Libbra, come insegnava 'Ali ibn Ric;lwan nel commento al Quadripartito di Tolomeo 62, ovvero nel suo « aspetto sestile o trino » in rapporto a Venere, come ricono­sce anche Cecco d'Ascoli nel commento ad Alcabizio 63 • Questo maligno influsso suscita nell'anima sensitiva la passione amorosa che in sé è un oscuramento della ragione, quando acquista tale intensità da andare « oltra misura di natura ».

Siffatta passione non sorge però in· noi, se prima unà forma bella non s'imprime nei nostri occhi e da questi nella nostra fan­tasia. Dalla fantasia l'immagine sensibile della bellezza, quando sia resa astratta da ogni materialità, è accolta nell'intelletto pos­sibile, ove si fissa come pura idea spirituale. Ma in questa parte dell'anima, cioè nell'intelletto possibile, non v'è gravezza di pas­sione, poiché l'intelletto non trae origine dalle qualità dei corpi misti, come l'anima sensitiva, ma è una sostanza separata da materia sémpre in atto e incorruttibile. Dell'intelletto possibile non è proprio il piacere suscitato dalla passione amorosa, ma soltanto la speculazione del vero: «non ha diletto, - ma con­sideranza »; si che ad esso non può pervenire niente che somigli alla torbida passione dell'amore.

L'amore pertanto 'non è una potenza o facoltà dell'anima, ma è una qualità, un accidente che scaturisce da quella potenza o parte dell'anima che è perfezione e forma del corpo. Questa po­tenza o parte dell'anima è quella sensitiva:

60 Con-v., II, v, 13-14; vm, 4-5; Purg., I, 19; Par., VIII, 1-12; IX, 95-96; Rime, C, 4.

61 L'Acerba, III, l. 62 Citato da Dino del Garbo, Scriptum super cantilena Guidonis de Ca­

valcantibus, ms. nella Bibl. Vaticana, fondo Chigiano, L. V. 176, fol. 29 vb. Cfr. Ptolomaei Liber quadripartiti... cum commento Haly Heben Rodan, Venetiis, per Bonetum Locatellum, 1493, tr. III, c. 13.

63 G. Boffito, Il commento di Cecco d'Ascoli all'Alcabizzo, Firenze, Olschki, 1905, pp. 33-35.

I. Filosofia dell'amore nei rimatori italiani del Duecento e in Dante 31

Non è vertute, ma da quella vène ch'è perfezione, che si pone tale, non razionale - ma che sente, dico.

L'anima sensitiva, dunque, e non quella intellettiva, è perfe­zione e forma del corpo umano, come insegnavano gli averroisti, e dall'anima sensitiva, e non da quella intellettiva, scaturisce l'amore. Questo chiarisce anche meglio quello che il poeta aveva detto prima, che cioè nell'intelletto possibile non v'è «pesan­za » di passione, né diletto amoroso, poiché l'intelletto è in sé una sostanza separata, eterna e incorruttibile, come appunto inse­gnava Averroè.

Da · questa teoria ·schiettamente averroistica che concepisce l'amore come passione dell'appetito sensibile, la quale ottenebra la ragione, deriva una morale che spiega il pessimismo di cui è soffusa tutta la lirica del Cavalcanti. Questa passione fuorvia il giudizio della ragione, perché l'intento perseguito tien iuogo del raziocinio, e quello che s'è fatto amico del vizio non discerne più chiaramente il bene dal male. L'Orlandi aveva chiesto se « è vita questo amore o vero è morte ». E il Cavalcanti risponde che, pur non essendo morte per se stesso, tuttavia « di sua potenza segue spesso morte », qualora ne sia fortemente ostaco­lata la virtù che nell'uomo è vita. E ciò non perché l'amore sia per se stesso contrario a natura, ché anzi nasce, come aveva detto Andrea Cappellano, da un istinto naturale; ma perché non si può dire che abbia vita l'uomo che, dominato dalla passione amorosa, si torce da « buon perfetto ». Ora il « buon perfetto », il 'tÉ.À.ELOV &:yaMv, secondo la dottrina morale d'Aristotele 64, con­siste, per l'uomo, nel vivere secondo ragione, anzi nella più alta delle virtù dianoetiche che s'attua nella vita contemplativa, ossia in quella che il nostro rimatore chiama « consideranza ». Perciò dice Dante 65 che «vivere ne li animali è sentire - animali, dico, bruti -, vivere ne l'uomo è ragione usare. Dunque, se 'l vivere è l'essere [dei viventi e vivere ne l'uomo è ragione usare, ragione usare è· l'essere] de l'uomo, e cosi da quello uso partire è partire da essere, e cosi è essere morto. E non si parte da l'uso del ragionare chi non ragiona lo fine de la sua vita? ».

64 Eth. Nicom., I, c. 5, 1097 b 8-21; c. 6, 1098 a 7-17; X; c. 7, 1178 a 5-7. 65 Conv., IV, vn, 11-12.

:j

l j

:;! ,. '· j,

r \1 il t: Ìi

~ <l :;,

Page 14: DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE - lettere.uniroma1.it e la...Nella « Biblioteca di Cultura Moderna » prima edizione 1942 Nella

32 Dante e la cultura medievale

Nel fine della vita consiste appunto per Aristotele il 't'ÉÀEL0\1 àycdl"6'V, il « buon perfetto », l'EùOCX.LIJ.O'Virx., la felicità e la per­fezione della vita umana. «Potrebbe alcuno dicere: Come? è morto e va? Rispondo che è morto [uomo] e rimaso bestia » 66•

In conformità di questo concetto aristotelico, l'uomo che, tratto dall'impeto della passione amorosa, si torce da buon perfetto, muore come uomo, perché, agitato dagli istinti, perde quella signoria su di sé, che forma l'ideale della vita perfetta, del 't'ÉÀELoc; ~ioc;, secondo Aristotelè 67 •

Ma poiché l'amore non è « oppost'a naturale», ché anzi è una passione innata, come insegna il Cappellano; e poiché la virtù è una mediocritas consistente in quel giusto mezzo che si mantien lontano dagli estremi ugualmente viziosi, ne viene, se­condo Aristotele 68

, che la virtù della temperanza o crwcpgocru\11] stia in mezzo tra la dissolutezza di chi non sa astenersi da alcun piacere, e l'insensibilità rusticana che da tutti rifugge. Argomen­tando in tal modo, taluni combattevano la castità perpetua, come quella che, essendo contraria alla natura, costringe l'uomo ad una lotta incessante coll'istinto 69

• In questo senso, anche il Caval­canti ammonisce che chi dimentica di dar soddisfazione al natu­rale bisogno d'amare, finisce ugualmente col perdere quella sta­bile signoria su di sé che è propria della virtù della temperanza.

Sottratta al controllo della ragione, la passione amorosa, in quanto tale, consiste in un desiderio smodato:

L'esser è quando lo voler è tanto ch'altra misura di natura torna,

sl che colui che n'è preso, non ha più pace. La passione ora lo fa · impallidire ora arrossire, ora Io costringe al riso ora al pianto, ora Io sbigottisce. Come tutti i sentimenti troppo intensi, non ha lunga durata. Inoltre siffatta passione, come quella che è suscitata da forte immaginazione, non nasce in chi ha scarsa sen­sibilità, come per lo più sono i villani, ma piuttosto nei cuori

66 Conv., IV, vn, 14-15; II, VII, 4; III, II, 18. 67 Eth. Nicom., I, c. 6, 1098 a 18. 68 Eth. Nicom., II, c. 2, 1104 a 22-26. 69 Cfr. S. Tommaso, Contra gent., III, 137; Eth. Nicom., II, lez. 2;

Summa theol., Il" II••, q. 152.

l l l

I. Filosofia dell'amore nei rimatori italiani del Duecento e in Dante 33

gentili, come insegnava il Guinizelli, d'accordo con quanto era stato affermato dal Cappellano 70

• Quand'essa si desta nell'animo, costringe l'innamorato a sospirare e a mirare in luogo a lui inter­detto, « in un fermato loco », sl che gli ostacoli frapposti tra la donna amata e il desiderio svegliano in lui la virtù irascibile, la quale, secondo la psicologia medievale, anela alla vittoria su ciò che è arduo, e consiste in un « ribollimento del sangue e del calore intorno al cuore » 71

• Ma per quanto egli arda dal desi­derio, la passione gl'impedisce di muoversi per arrivare all'oggetto che l'attira, e di darsi dattorno per conquistarlo; come colta da stupore, la sua mente non dà prova né di grande né di piccol sapere che gli soccorra.

Il tormento e l'affanno han tregua soltanto quando l'inna­morato ottiene mercede. Da simil complessione nell'amante e nell'amato, cioè da somiglianza di sentimenti da una parte e dall'altra, l'amore trae sguardi d'intesa, che danno ai due inna­morati la certezza e la gioia della mutua corrispondenza. Quando l'amore è cosl congiunto, in un nodo che lega fra loro due cuori, non può più restar nascosto e si rivela apertamente. Ma le beltà selvagge, le quali non corrispondono con dolci sguardi alla pas­sione ·dell'innamorato che invano chiede pietà, non ne feriscono il cuore sino a far « parere lo piacere certo »; ché il sentimento che prova l'amante dinanzi a una beltà selvaggia è piuttosto quello della paura. Solo l'amore corrisposto, dunque, dà gioia; l'amore non corrisposto è doloroso.

· L'Orlandi aveva domandato ancora, se l'amore ha figura, se « ha per sé forma o pur somiglia altrui »; e il Cavalcanti aveva promesso di provare « s'orno per veder lo po' mostrare». L'amore non ha figura, afferma egli ora, di guisa che si possa conoscere per mezzo della vista; anzi tutto, perché chi n'è preso, è acce-

70 De amore, I, XI, p. 235: « Dicimus enim vix contingere posse, quod agricolae in amoris inveniantur curia militare, sed naturaliter sicut equus et mulus ad veneris opera promoventur, quemadmodum impetus eis naturae demonstrat. Suflicit ergo agricultori labor assiduus et vomeris ligonisque continua sine intermissione solatia. Sed, etsi quandoque, licet raro, contingat, eos ultra sui naturam amoris aculeo concitari, ipsos tamen in amoris doctrina non expedit erudire ».

71 Arist., De anima, I, I, 403 a 30-31 (t. c. 16). Avicenna, De anima, IV, 4: «Ex ira habetur intentio voluntatis ad victoriam ». Giovanni della Rochelle, Summa de anima, ed. Domenjchelli cit., II, 30: « Vis ... irascibilis est appetitiva boni ardui expedientis »; cfr. ibid., II, 31. ·

Page 15: DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE - lettere.uniroma1.it e la...Nella « Biblioteca di Cultura Moderna » prima edizione 1942 Nella

34 Dante e la cultura medievale

cato e cade in esso col color della morte nel volto, per l'affluire del sangue al cuore, come dice Dante 72 ; inoltre, perché la forma com'è l'anima, per chi bene intende, non si vede; dunque tanto meno se ne vede una qualità com'è l'amore, il quale appunto è una qualità o accidente che procede dalla forma dell'uomo che è l'anima sensitiva. Privo di colore che lo renda visibile agli occhi, esso è « diviso da essere », cioè non ha una propria esi­stenza diversa da quella dell'anima in cui risiede 73 • « Assiso in mezzo oscuro», poiché risiede nella parte irrazionale dell'anima, l'amore cancella, cioè spegne, la luce dell'intelletto, consistendo, come abbiamo visto, in una tenebra della carne.

Non di meno, per quanto esso sia una passione tormentosa, chi n'ha fatto esperienza può attestare con verità, che, senza averne provato gli affanni, non è possibile ottenere la ricompensa che è concessa all'amore corrisposto.

Certo anche nel Guinizelli non mancano accenti dolorosi; anch'egli porta « morte scritta ne la faccia » 7\ anch'egli, colpito dallo sguardo della sua donna come da folgore

che fèr per la finestra de la torre e ciò che dentro trova spezza e fende 75,

dice di sentirsi simile ad una statua inanimata, che d'uomo ha solo la figura 76

• Se non che la sua disavventura consiste unica­mente nel destino avverso di amare « for misura » una donna dalla quale non si sente riamato. Ma intanto la speranza alimenta in lui la resistenza al destino:

n Rime, CIII, 45-47: e '1 sangue, ch'è per le vene disperso, fuggendo corre verso lo cor, che 'l chiama; ond'io rimango bianco.

73 Poiché secondo il detto ricavato da Aristotele, Metaph., VII, c. l, 1028 a 13-20 (t. c. 2), XII, c. l, 1069 a 20-24 (t. c. 2-3), l'essere si dice pro­priamente della sostanza in quanto può sussistere in sé e per sé; le qualità o accidenti non sono esseri ma proprietà dell'essere. S. Tommaso, Metaph., XII, lez. 1: « Ens dicitur quasi esse habens; hoc autem solum est substantia, quae subsistit. Accidentia autem dicuntur entia, non quia sunt, sed quia magis ipsis aliquid est:· sicut albedo dicitur esse quia eius subiectum est album. Ideo dicit (Aristoteles) quod non dicuntur simpliciter entia, sed entis entia, sicut qualitas et motus ».

74 Rime di G. Guinizelli, X, 14. 1s Ibid., XIII, 10-11. 76 Ibid., XIII, 12-14.

I. Filosofia dell'amore nei rimatori italiani del Duecento e. in Dante

e dicemi isperanza: sta a la dura, non ti cessar per reo sembiante dato, ché molto amaro frutto si matura e diven dolce per lungo aspettato 77•

35

E con questa speranza in cuore, che il frutto amaro maturando diventi dolce, sopporta la battaglia dei sospiri e attende, quando che sia, d'esser « guigliardonato grandemente ».

Per il Cavalcanti, invece, l'aspetto più doloroso del dramma non è dato tanto da questa lotta fra l'ardore del desiderio e il non ottener mercede, quanto dalla convinzione che, anche otte­nuta mercede e soddisfatto il desiderio, l'amore poco soggiorna, per cominciare una nuova battaglia; l'amore è insomma per lui un bisogno irrequieto e tormentoso della carne, una tenebra dei sensi, che tende ad allontanare l'uomo dal bene perfetto consi­stente nella vita secondo ragione.

Da questo sentire l'amore come tragica minaccia di morte, deriva forse nel Cavalcanti il bisogno di schivare le liete brigate, quel suo appartarsi in una sdegnosa solitudine per raccogliersi nella meditazione di quei veri che al suo spirito rivelavano Ari­stotele e Averroè. Sì che il ritratto che di lui ci tramandarono i contemporanei e coloro che dai contemporanei n'ebbero diretta notizia, mi sembra più veritiero che non quello che taluni moderni ne hanno disegnato, traendo lineamenti e colorito da un'inter­pretazione del tutto cervellotica dei suoi canti.

Un riflesso di pessimismo cavalcantiano ispira anche la can­zone di Lapo Gianni «Amor, nova ed antica vanitate », pur riconoscendo ch'essa esprime più il risentimento personale del poeta per le sofferenze inflittegli dall'amore, che non un vero concetto filosofico sulla vanità della passione amorosa; di guisa che l'invettiva contro il crudele dio non manca di patetici accenti umoristici. Nuova ed antica vanità, l'amore ingombra col suo potere la mente umana e rende, chi n'è preso, ignudo di senno, sì che si trova « diviso di sa vere e di bene in poco giorno » 78

.

«Mendico del più degno senso», cioè della vista, « orbo nel mondo nato eternalmente », corrompe l'uomo coi diletti carnali e spegne nella sua vista « il vero lume », sl che l'uomo è costretto

77 Ibid., XII, 5-8. 78 Rime di Lapo Gianni (nello stesso volume di Rimatori del dolce stil

novo a cura di L. Di Benedetto), XII, 7-9.

Page 16: DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE - lettere.uniroma1.it e la...Nella « Biblioteca di Cultura Moderna » prima edizione 1942 Nella

36 Dante e la cultura medievale

ad andar palpando in mezzo alle tenebre. 79• Anche per Lapo, come per il Cavalcanti, l'amore è un oscuramento della ragione, una tenebra dei sensi, ha l'instabilità della passione, « sorvizia » il debole cuore «e l'alma forsennata e l'altre membra» 80, ed è «principio naturato ... d'ogni reo » 81 • Parlate ora, se vi riesce, d'influsso platonico, o magari di misticismo!

Ma più di siffatti sfoghi amari contro il ·tormento della pas­sione amorosa, le meditazioni del Cavalcanti sollevavano un serio problema filosofico e morale che obbligava· ad un appro­fondimento della dottrina dell'amore. A questo approfondimento ha contribuito, più d'ogni altro, Dante.

7. Fase guinizelliana nello sviluppo del pensiero di Dante, e superamento di essa. La morte di Beatrice.

A diciotto anni Dante non aveva fatto ancora studi filoso­fici, ai quali si dedicò dopo il suò venticinqu~simo anno d'età, se dobbiamo credere alla sua stessa testimonianza 82, ma· aveva già veduto per se medesimo l'arte del dire per rima 83• E il primo verso di quella ch'egli ci presenta come la sua prima composi­zione poetica « A ciascun'alma presa e gentil core >>,·fatta cono­scere a «tutti li fedeli d'Amore», ce lo rivela già esperto del loro linguaggio e addentro alla loro tecnica. Fra coloro che risposero al sonetto del giovane poeta fu quegli che Pante chiama primo dei suoi amici, Guido Cavalcanti, il. quale, se 'non v'era già, doveva di li a un anno entrare a far parte del Consi­glio generale della città, e, com'era maggiore negli anni, età ormai maturo nell'arte del dire per rima. La consuetudine col Caval­canti e con Lapo, egli pure già consigliere del comune fiorentino, e la lettura delle rime del Guinizelli, debbono averlo reso attento osservatore dei moti dell'amore, via via che questo sentimento si svegliava nel suo animo di precoce adolescente.

Quali e quanti sono gli amori giovanili di Dante? .Certa­mente è possibile che siano più d'uno e diversi trà loro per inten-

79 Ibid., XII, 26-37. so Ibid., XII, 43-48. 8t Ibid., XII, 62-63. 82 Conv., II, xn, 1-7. 83 Vita nuova, III, 9.

I. Filosofia dell'amore nei rimatori italiam d_el Duecento e in Dante 37

sità, durata e qualità. Ma la pretesa di dedurli dalle rime è per lo meno imprudente, poiché la poesia si rende immagine del mondo interiore del poeta e dei sentimenti che l'agitano, ma non ci obbliga a pensare àd altra realtà da quella che la s'ua fantasia costruisce. È per questo che. nessun tribunale oserebbe prendere un!l composizione poetica per una testimonianza in base alla quale pronunziare· una condanna. . ·

Ora- a me pare che la lirica giovanile di D~nte si raccolga essenzialmente, apche se per avventura~ non esclusivamente, in- · torno all'amore poetico p.er Beatrice. Niente d'inverosimile che alcune .rime· del tempo della Vita nuova o posteriori a:d essa siano ispirate da altre donne, se Dante stesso ammetteva che amore « ben puÒ con nuovi spron punger 'lo fianco » e che invano gli s~ spreme contro ragione o virtù per tenérlo a freno 84;

ma è . pur vero ·che, tra i fantasmi costruiti dall'immag1naziÒne del giovane poeta, quello di Beàtrice occupa il posto centrale e me_gliq d'ogni altro riflette in sé l'immagine. spirituale del suo creatore.

Credo sarebbe l'ora di CQminciare a non occuparsi più degli scrit~i che insistono sul significato simbolico della Beatrice delle rime giovanili.85

: Beatrice è donna reale, di realtà,. si capisce, poetica. Essa, cioè, è nata dalla fantasia del po~ta, il quaie l'ha foggiata come donna ·vera, che· incarnasse quei sentimenti e quel­l'ideale di bellezza che a lui piacevano, ·sia o non sia vero quel che il Boccaccio narra della figlia:· di Folco. Portinari. "Quando Dante cominciò a poetare intorno a Beatrice, era ancora digiuno di studi' filosofici né s'agitavano nel suo animo i' gravi ·problemi che l'occuperanno più tardi. Il suo primo problema fu quello di comprenderè il prepotente sentimento che ·s'era ~vegliato nel suo cuore, osservandone in se stesso i movimenti; fu il problema. dell'amore, che, come sappiamo, era stato largamente discu'sso dai rimatori di cui abbiamo fatto cenno. ·

84 Rime, CXI, «Io sono stato con amore insieme». 85 Una brillante smontatura del castello di carte allegorico,- costruito

dal Mandonnet, ha fatto É. Gilson, Dante et la philosophie, Parigi, ]. Vrin, 1939, ·cap. I. Ben ·scarsa conoscenza dei problemi e della letteratura dan­tesca dimostra F. Orestano :che ha favorevolmente · riesaminato La Beatrice svelata di F. Perez, in Studi su Dante (Conferenze .e letture dantesche tenute a cura del Comitato milanese della Società dantesca italiana), IV, Milano, Hoepli, 1939, pp. 1-35. Cfr. B. Nardi, Nel mondo di Dante, Roma, Edizioni di « Storia e Letteratura», 1944, pp. 354-356.

Page 17: DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE - lettere.uniroma1.it e la...Nella « Biblioteca di Cultura Moderna » prima edizione 1942 Nella

38 Dante e la cultura medievale

Tra le rime dubbie, v'è il sonetto «Molti volendo dir che fosse Amore » 86

, che riprende in esame la questione già posta dal Mostacd, e alcune soluzioni di essa:

Ben fu alcun che disse ch'era ardore di mente imaginato per pensiero; ed alcun disse ch'era desidero di voler nato per piacer del core.

Abbiamo già trovato queste teorie in Iacopo da Lentini e in altri che lo imitarono. L'autore del sonetto torna ad affermare, come già avevano fatto altri e come fa pure Dante incidental­mente nella Vita nuova, che amore «non è sustanza, né cosa corpora! ch'abbia figura», ma piuttosto una passione del desi­derio che sopravanza ogni altro voler del cuore, e dura finché dura il piacere:

Anzi è passi9ne in disianza; piacer di forma dato per natura, sl che 'l voler del core ogni altro avanza: e questo basta fin che 'l piacer dura.

Niente dunque di nuovo, che non fosse già stato detto da altri, e sopratutto niente di tipicamente dantesco che ci obblighi ad attribuire il sonetto a Dante.

Il quale, per soddisfare alla cortese preghiera d'un amico che l'aveva richiesto che è Amore, rispose col sonetto «Amore e 'l cor gentil sono una cosa » '01, ove si rifà alla dottrina esposta nella· canzone del saggio Guinizelli ch'egli cita. L'amore è una cosa sola col cuor gentile, e l'uno è insep;rabile dall'altro, come l'anima razionale è inseparabile dalla ragione. L'uno e l'altro nascono dalla buona disposizione naturale; frutto alla sua volta della buona complessione del seme, della buona disposizione nel seminante, nell'atto della generazione, e dell'ottima disposizione del cielo; giacché «de l'umano seme e di queste vertudi più pura [e men pura] anima si produce». Nell'« anima ben posta», scende da Dio quel « seme di felicità » nel quale consiste la

86 Rime di dubbia attribuzione (Le opere di Dante, Testo critico della Società dantesca italiana, Firenze 1921), XXIX.

87 Vita nuova, XX, 3-5.

----- r

I. Filosofia dell'amore nei rimatori italiani del Duecento e in Dante 39

gentilezza o nobiltà umana, di cui son frutto i bei costumi da nobiltà inseparabili 88 • La «natura amorosa» che produce insieme nobiltà ed amore, è l'accordo delle buone qualità che concorrono alla generazione umana, e delle benigne influenze celesti, special-. mente del cielo di Venere 89

, le quali cose dispongono l'anima a ricevere il dono divino. Amore è il signore della nobiltà~, e la sua dimora è il cuore nobile. Il cuor gentile è quindi per sua natura sempre apparecchiato ad amare. Ciò non vuoL dire. che in esso l'amore sia sempre in atto; v'è sempre in potenza, cioè allo stato latente, come se dormisse. Per passare all'atto, ha bisogno d'esser risvegliato dalla vista della beltà femminea:

Bieltate appare in saggia donna pui, che piace a gli occhi sl, che dentro al core nasce un disio de la cosa piacente 91 •

Né basta a svegliare amore un'impressione fugace, momentanea; occorre che il desiderio acceso nel cuore duri e persista. Non basta insomma la puntura superficiale di una spina, bisogna che lo « stecco d'amore » 92 trafigga le carni e penetri in profondità, sì da produrre una piaga incurabile.

Sebbene ancora digiuno di studi filosofici, il pensiero del gio­vane poeta era destato alla filosofia dall'accettazione della teoria guinizelliana che affermava l'inseparabilità del sentimento amo­roso e della nobiltà o gentilezza, poiché la filosofia non è solo nei libri dei filosofi, ma dovunque la riflessione s'imbatte in un problema di pensiero. E sulla dottrina del Guinizelli, Dante me­ditò a lungo, finché non ritenne d'averne data, nel quarto trattato del Convivio, la dimostrazione in termini rigorosamente filoso­fici, come s'usava nelle scuole.

Intanto, mentre il suo pensiero lavorava ad approfondire la dottrina guinizelliana, il suo sentimento poetico l'accettava come norma morale delle sue creazioni. Se la donna del Guinizelli « tenea d'angel sembianza», sì che al poeta bolognese non pareva di far peccato in amarla, Beatrice appariva cosa miracolosa,

88 Conv., IV, xx, 6-10; XXI, 7. 89 · Conv., Il, v, 13-14. ~ Vita nuova, XII, 4; cfr. Rime, XC, 40-48. 91 Vita nuova, XX, 5. 92 Rime, CXIII, 4; cfr. più oltre, pp. 66-7.

,.ft

~'

il:

~~ ,, l! l• Il l

Page 18: DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE - lettere.uniroma1.it e la...Nella « Biblioteca di Cultura Moderna » prima edizione 1942 Nella

40 Dante e la cultura medievale

« venuta da cielo in terra a miracol mostrare » 93• Solo un breve tocco aereo, evanescente, rivela in lei la donna mortale: un tenue « color di perle » nel volto, qual si conviene alla bellezza mulie­bre, « non for misura » 94

; indi il nobile ·incedere senza alteri­gia 95

, e il fulgore degli occhi, dai quali escono spiriti d'amore a ferire chi la mira e a destare amore nèi cuori gentili 96• Più tardi Dante ricorderà la prima apparizione di lei, quando la vide « vestita di nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno, cinta e ornata a la guisa che a la sua giovanissima etade si conve­nia », e quando .fanciulla diciottenne gli apparve « vestita di colore bianchissimo, in nìezzo a due gentili donne » e volgendo gli occhi da quella parte ov'egli era molto pauroso, lo « salutoe molto virtuosamente », si che al poeta « parve allora vedere tutti li termini de la beatitudine » 97 •

Non v'è ragione di negar fede a quanto narra l'autore della Vita nuova, sull'origine dell'acceso sentimento amoroso che do­veva risvegliare in lui il più nobile ardore e purificarlo da ogni bassezza. S'è detto che il fantasma di Beatrice è troppo evane­scente, per darci l'immagine della donna vera; ed è sembrato che Francesca, nella sua irruenta passione, abbia contorni più precisi e sopratutto un'anima che manca a Beatrice. Ma la vera immagine di questa, più che nel ritratto diretto, va osservata riflessa nei sentimenti che suscita nell'animo del suo poeta.

Questi sentimenti sono dapprima quelli che ritroviamo negli altri stilnovisti, ed hanno quella « varietate » cui s'accenna nel sonetto « Tutti li miei penser parlan d'amore » 98 : la meraviglia, l'infiammato desiderio, la speranza, la paura, lo sbigottimento, i quali s'accordan tra loro solo « in cherer pietate ». Anche i due sonetti « Ciò che m'incontra » 99 e « Spesse fiate vegnonmi a la mente» 100 non solo non ci dicono nulla di nuovo, ma anzi tra­discono una leggera influenza della maniera del Cavalcanti e di Lapo. Sicché il primo componimento poetico, nel quale Dante rivela la sua inconfondibile personalità, è la canzone « Donne,

93 Vita nuova, XXVI, 6. 94 I bi d., XIX, 11. 95 Ibid., XXVI, 2, 6. 96 Ibid, XIX, 12; XXVI, 7. 97 Ibid., II, 3; III, l. 98 Ibid., XIII, 8-9. 99 Ibid., XV, 4-6. 1oo Ibid., XVI, 7-10.

I. Filosofia dell'amore nei rimatori italiani del Duecento e in Dante 41

ch'avete », colla quale, per confessione dello stesso poeta, che prendeva a trattare « matera nuova e più nobile che la passa­ta» 101

, hanno principio le « nove rime» 102•

Con questa canzone Dante acquistava coscienza della sogget­tività della sua creazione. Il delizioso racconto del cap. XVIII della Vita nuova palesa, nella sua ingenuità, quale è ormai il fine perseguito dalla sua nuova arte: « Lo fine del mio amore fue già lo saluto di questa donna,... e in quello dimorava la beatitudine, ché era fine di tutti li miei desiderii. Ma poi che le piacque di negarlo a me, lo mio segnore Amore, la sua mer­zede, ha posto tutta la mia beatitudine in quello che non mi puote venire meno », cioè «in quelle parole che lodano la mia donna». Ed egli ragiona di lei «per isfogar la mente» 103• Que­sta è appunto la beatitudine che nessuno può togliergli, perché la possiede tutta intera entro di sé: vagheggiare la luminosa crea­tura della sua immaginazione e dare libero sfogo all'onda del canto che freme nel suo petto. L'amore suo, qualunque ne sia stato lo stimolo e l'occasione, non è ormai più tempestosa pas­sione e parossismo di sensi, ma estasi contemplativa di una pura forma balzata innanzi all'occhio della fantasia dalle miste­riose profondità dell'anima.

Anzi discesa di cielo in terra, si che· il cielo n'è privo e la richiede a gran voce a Dio. Soltanto la Pietà intercede per lui che l'ama sulla terra: - Lasciate che goda della sua beatitudine il misero che teme già di perderla e che, quando l'avrà perduta, si sentirà dannato. Ma anche nella sua dannazione, egli gioirà del ricordo e potrà dire ai suoi compagni di sventura, privi come lui di beatitudine: Io l'ho pur vista quella che i beati sperano di godere eternamente per sé 104•

Venuta dal cielo e destinata a tornarvi, la bellezza muliebre sveglia amore nei cuori gentili e coll'amore ogni più nobile virtù:

Quando va per via, gitta nei cor villani Amore un gelo per che onne lor pensero agghiaccia e père

1o1 Ibid., XVII, l. 1o2 Purg., XXIV, 50-51. 103 Vita nuova, XVIII, 4. 104 lbid., XIX, 8. Inferno è qualunque luogo ove siano dannati. E dan­

nati son quelli che hanno perduto, senza speranza, la loro beatitudipe. La vita sulla terra senza la beatitudine è inferno.

Page 19: DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE - lettere.uniroma1.it e la...Nella « Biblioteca di Cultura Moderna » prima edizione 1942 Nella

42

;

Dante e· la cultura medievale

e qual soffrisse di starla a vedere, diverria nobil cosa, o si morria 105.

È il concetto del Guinizelli nel sonetto « I' vo' del ver la mia donna laudare » 106 :

Passa per via adorna e si gentile ch'abbassa orgoglio a cui dona salute, e fa 'l di nostra fé, se non la crede,

e non si può appressar orno ch'è vile; ancor vi dico ch'ha maggior vertute: null'om pò mal pensar fin che la vede.

Se la donna del Guinizelli ha virtù di convertire alla fede cri­stiana un infedele, Beatrice dà al suo poeta la certezza della salvezza eterna:

Ancor l'ha Dio, per maggior grazia, dato che non pò mal finir chi l'ha parlato 107.

Ma appunto perché di tanta nobiltà, appunto perché « venuta da cielo in terra a miracol mostrare », Beatrice non è fatta per rimanere a lungo sulla terra, e il cielo la reclama per sé. Cosi si fa strada. nell'animo del poeta il pensiero della morte della donna amata, sconosciuto al Guinizelli, al Cavalcanti, a Lapo e a Cino;· e mentre i più delicati e melodiosi versi sgorgano dal suo cuore coi sonetti « Ne li occhi porta là mia donna Amore » 108,

«Tanto gentile e tanto onesta pare» 109, «Vede perfettamente onne salute » 110

, questo pensiero è divenuto ormai in lui un doloroso presentimento. Nel suo vano immaginare, una voce fioca risuona al suo orecchio:

Morta è la donna tua, ch'era si 'bella! 111;

105 Ibid., XIX, 9. 106 Rime di G. Guinizelli, XV, 9-14. 107 Vita nuova, XIX, 10. 108 Ibid., XXI, 2-4. 109 Ibid., XXVI, 5-7. 11o Ibid., XXVI, 10-13. llt Ibid., XXIII, 24.

I. Filosofia dell'amore nei rimatori italiani del Duecento e in Dante 43

e già ne vede la bell'anima portata dagli angeli in cielo, e il corpo, che ·pietose donne copron d'un velo, giacere senza vita.

Di li a poco il presentimento si muta in angosciosa certezza:

Ita n'è Beatrice in l'alto cielo, nel reame ove li Angeli hanno. pace, e sta con loro, e voi, donne, ha lassate 112•

Non la mancanza del calor vitale, non l'ardore della febbre l'ha rapita, ma un benigno volere di Dio l'ha tolta alla terra,

perché vedea ch'esta vita noiosa non era degna di si gentil cosa 113•

I canti della lode si smorzano sulle labbra del poeta, che, preso dal desiderio di morire, dà sfogo all'angoscia e nel suo smarri­mento chiede alla donna beata la grazia di raggiungerla.

La morte è una cosa seria, e dinanzi ad essa ogni sentimento frivolo scompare. Se tutto finisce colla morte, la vita appare al credente una beffa crudele. Soltanto la fede nell'immortalità, la fede che il meglio di noi sopravviva alla dissoluzione della mate­ria, dà ai suoi occhi un pregio alla vita e accende nel suo cuore una dolce speranza che la ragione si rifiuta di credere vana. A questo argomento sarà dedicata una digressione nel secondo trat­tato del Convivio, ove, ragionando dell'immortalità dell'anima, par bello a Dante di terminare di parlare di « quella viva Beatrice beata » 114, « che vive in cielo con li angeli e in terra con la » sua « anima » llS. Il problema dell'immortalità dell'anima si con­nette cosi, nella mente di Dante, colla fede che lo splendore degli occhi della donna amata non s'è spento per sempre, ma anzi, liberata dal peso di sua mortalità, essa è divenuta

spirital bellezza grande che per lo cielo spande luce· d'amor, che li angeli saluta 116.

112 Ibid., XXXI, 10. 113 Ibid. 114 Conv., II, VIII, 7. 115 Ibid., II, II, l. 116 Vita nuova, XXXIII, 8.

Page 20: DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE - lettere.uniroma1.it e la...Nella « Biblioteca di Cultura Moderna » prima edizione 1942 Nella

,;.:! ... ,

44 Dante e la cultura medievale

Il pensiero che ella non è morta, ma vive di una vita più vera, la speranza di poterla rivedere, l'invocarla colla certezza d'essere udito da lei, dà conforto all'animo dolente e fa sì che l'amore trionfi della morte.

Col salire di Beatrice « di carne a spirito », anche l'amore del suo poeta s'affina, tendendo a spogliarsi da ogni scoria sen­suale e a librarsi nelle eteree regioni della luce. Una nuova espe­rienza alimenterà ormai la sua arte, e nuovi e più fulgidi oriz­zonti gli s'apriranno dinanzi. Dalla morte di Beatrice nasceranno il platonismo e il misticismo di Dante.

8. L'amore platonico del vero nella lirica allegorico-dottrinale. La vera nobiltà.

«Alquanto tempo» dopo la perdita della donna amata, poi­ché né il suo né l'altrui consolare valeva a confortarlo, Dante prese a leggere il De consolatione philosophiae di Boezio, e il De amicitia di Cicerone, per cercarvi qualche sollievo 117• Poiché Beatrice morì 1'8 giugno 1290, Dante aveva compiuto verosimil­mente il suo venticinquesimo anno d'età e varcato il limite ch'egli pone all'adolescenza. A questa età egli trovava duro entrare nella sentenza dei due autori presi a leggere, ma pure si sforzò di capirli quanto l'arte di grammatica ch'egli aveva e il suo naturale ingegno gli consentivano. Lelio, nel dialog() di Cicerone, gl'inse­gnava che l'anima non perisce col corpo e che la morte non tutto distrugge; ché anzi ègli, confortato dall'autorità degli antichi, da­

. gli ammaestramenti dei filosofi e dalla saggezza degli oracoli, riteneva le anime nostre d'origine divina e destinate, dopo la dissoluzione del corpo, a ritornare al cielo. Forte di questa sua fede, egli pensava che la morte non avesse spezzato i legami d'affetto che in vita lo avevano unito a Scipione. Del qual parere era stato lo stesso Scipione Africano il minore, che, presso a morire, aveva disputato coi suoi amici per tre giorni intorno alla repubblica, e la disputa aveva éhiuso trattando dell'immortalità nell'anima e confermando il suo dire con quel che in sogno gli era parso avergli rivelato Scipione Africano il maggiore. Sciolta dalla prigione del corpo, - diceva Lelio, - l'anima del mio

117 Conv., II, XII, 2.

I. Filosofia dell'amore nei rimatori italiani del Duecento e in Dante 45

amico è ascesa al concilio degli dei. Sicché l'attristarsene è piut­tosto segno d'invidia che d'amicizia 118

Nell'opera di Boezio poi Dante leggeva come nelle menti degli uomini è insito un naturale desiderio di felicità, che nessun bene di questa vita riesce ad appagare 119

, e come perfino negli animali sia un vago sentimento, a mo' di sogno, del principio da cui provengono e al quale confusamente aspirano come a fine ultimo della loro vita 120• Boezio gli apriva gli occhi intorno all'ori­gine della vera nobiltà 121 , e l'ammoniva che la bellezza del corpo è rapida e fugace e svanisce al pari di quella dei fiori in pri­mavera 122

Siffatti argomenti meritavano d'essere approfonditi; e per farlo, egli si dedicò allo studio della filosofia, recandosi « là . dov'ella si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li reli­giosi e a le disputazioni de li filosofanti; sì che in picciol tempo, forse di trenta mesi », egli cominciò « tanto a sentire de la sua dolcezza, che lo suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero » 123

Trenta mesi, anche senza contare il tempo trascorso fra il principio di essi e il giorno della morte di Beatrice, ci portano. alla fine del 1292, quando Dante era nel suo ventottesimo anno e da oltre due anni aveva varcato la soglia della gioventù. Ma se si deve tener conto anche dell'altra indicazione dello stesso Convivio, e di cui sarà detto fra poco, intorno al tempo in cui la donna gentile « parve primamente » ai suoi occhi, questa data va accresciuta di circa otto mesi, quanti verosimilmente ne tra­scorsero fra la morte di Beatrice e il giorno in cui tolse a leggere l'opera di Boezio e il dialogo di Cicerone. A ventott'anni com­piuti, dunque, Dante s'accorse che un nuovo e gagliardo amore era ormai nato nel suo animo e che esso l'occupava talmente da sopraffare perfino il pensiero di Beatrice. Che cosa può signifi­care questo, se non che la filosofia gli aveva dischiuso un nuovo mondo che l'attirava a sé, e che egli, lasciando da parte le rime della sua adolescenza, volgeva ormai la sua arte a cantare la

118 Cicerone, Laelius de amzcztza, IV, 13-14. 119 Boezio, De cons. philos., III, prosa 2. 120 Ibid., III, prosa 3. 121 Ibid., III, prosa 6 e metro 6. 122 Ibid., III, prosa 8. 123 Conv., II, xn, 7.

Page 21: DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE - lettere.uniroma1.it e la...Nella « Biblioteca di Cultura Moderna » prima edizione 1942 Nella

46 Dante e la cultura medievale

nuova passione accesa nel suo animo per la bellezza del vero? Allora si comprende perché, nel tempo stesso che intonava

la canzone «Voi che, 'ntendendo, il terzo ciel movete », con cui iniziava il ciclo delle rime allegoriche e dottrinali, sentisse il biso­gno di raccogliere il meglio delle sue liriche precedenti nel libretto della Vita nuova; con la quale espressione Dante volle indicare sicuramente l'adolescenza che ha termine a venticinque anni, ed è fervida e passionata 124 come i canti sgorgati dal suo animo in questa età conclusa dal dolore per la morte di Beatrice.

Un'autocitazione che Dante fa della Vita nuow nel secondo trattato del Convivio, ci attesta che l'amoroso libello al quale egli si riferisce, aveva una fine un po' diversa da quella che noi vi troviamo. Narra dunque Dante nel Convivio 125, riferendosi a ben tre anni, due mesi e alcuni giorni dopo la morte di Beatrice (quindi all'agosto del 1293, quando egli aveva ormai ventott'anni suonati, ed era entrato nel suo ventinovesimo! ):

Quella gentile donna, cui feci menzione ne la fine de la Vita Nuova, parve primamente, accompagnata d'Amore, a li occhi miei e prese luogo alcuno ne la mia mente. E sl come è ragionato per me ne lo allegato libello, più da sua gentilezza che da mia elezione venne ch'io ad essere suo consentisse; ché passionata di tanta mise­ricordia si dimostrava sopra la mia vedovata vita, che li spiriti de li occhi miei a lei si fero massimamente amici. E cosl fatti, dentro [me] poi fero tale, che lo mio beneplacito fu contento a disposarsi a quella imagine.

Ora nella Vita nuova, quale è giunta a noi, le cose stanno ben diversamente da qÙel che Dante narra in questo luogo del Convivio. lvi l'amore per la donna gentile è presentato invece come « avversario de la ragione » 126

, un « desiderio a cui sl vil­mente » il suo cuore « s'avea lasciato possedere alquanti die contra la costanzia de la ragione » 127

, un « desiderio malvagio » discacciato e distrutto, una «vana tentazione» 128, una « tribu­lazione » 129

• E fugata l'immagine della pietosa tentatrice, il volto

124 Ibid., I, I, 16·17. 125 Ibid., II, II, 1-2. 126 Vita nuova, XXXIX, l. · 127 Ibid., XXXIX, 2. 12s Ibid., XXXIX, 2, 6. 129 Ibid., XL, l.

I. Filosofia dell'amore nei rimatori italiani del Duecento e in Dante 47

della morta amica torna a risplendere al pentito poeta 130, che

per lei ascende alla .gloria dell'Empireo, « oltre la spera che più larga gira », sospinto da una « intelligenza nova » accesa in lui dall'amore 131 • La fine della Vita nuova, quale noi la leggiamo, è dunque assai diversa da quel che era quando Dante attendeva al Convivio 132• A spiegare la contradizione, non basta il dire che s'ha dinanzi una semplice dissonanza fra due momenti di­versi nello sviluppo della coscienza dantesca 133

• Qui non si tratta di valutazioni diverse di taluni avvenimenti in momenti diversi;

Bo Ibid., XXXIX, 2-5. 131 Ibid., XLI, 10. 132 Sulle contradizioni tra quello che s'afferma nel Convivio e ciò che

si legge nella Vita nuova, si veda L. Pietrobono, Il poema sacro, Bologna, Zanichelli, 1915, vol. I, pp. 90-109; nonché Il rifacimento della «Vita Nuo­va» e le due fasi del pensiero· dantesco, in Il Giornale dantesco, XXXV, N. S. V (Annuario dantesco 1932), 1934, pp. 1-82.

133 M. Barbi, Ra:donalismo e misticismo in Dante, in Studi danteschi, XVII, 1933, pp. 13-18; Introduzione a Il Convivio ridotto a miglior lezione e commentato da G. Busnelli e G. Vandelli. Vol. I, Firenze, Le Monnier, 1934, pp. XXIV-XXXIX. Il Barbi non nega l'esistenza delle contradizioni ri­levate dal Pietrobono e da altri, ma cerca di spiegarle per mezzo d'« aggiu­stamenti nella sua vita interiore» (Introduzione, p. XXVIII) che Dante poté fare, scrivendo il Convivio, nel «desiderio di rivendicare il suo buon nome»; sl che non pare strano al Barbi che Dante, «per fare apparire tutta l'opera sua di scrittore più armonica e più varia, fosse indotto a considerare come allegoriche anche rime che in origine e nella loro apparenza esteriore erano puramente d'amore, e a identificare la prima deviazione da Beatrice con la seconda, e la donna pietosa della Vita nuova con la filosofia» (p. XXXIII). Ché per il Barbi bisogna distinguere due serie di rime corrispondenti a due nuovi amori diversi da quello per Beatrice: l'una comincerebbe col sonetto della Vita nuova, XXXV, «Videro li occhi miei quanta pietate », e in essa si cantav·a l'amore per la donna pietosa, che sarebbe donna veta, com'è narrato nel libretto giovanile; l'altra, in cui si canta la filosofia, è quella che effettivamente cominciava colla canzone «Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete», com'è attestato dal sonetto «Parole mie» ·(Rime, LXXXIV). In questo duplice nuovo amore consisterebbe quella che per il Barbi è la duplice infedeltà o duplice deviazione da Beatrice, che nel Convivio Dante si studierebbe di ridurre ad una sola, all'amore della filosofia, per liberarsi dalla taccia di « levezza d'animo» (Conv., III; r, 11).

Tutto questo procederebbe spedito ad una sola condizione: che Dante stesso, mentre rinvia alla Vita nuova, avesse dimenticato quello che nel­l'allegato libello era scritto, se vi si leggeva quel che vi si legge oggi, o che sperasse l'avessero dimenticato i suoi lettori! Su questo argomento, si veda il primo saggio nel mio volume Nel mondo di Dante, contro il quale hanno fatto alcune osservazioni Siro A. Chimenz, in Orientamenti culturali, II, fase. l del gennaio 1946, e A. Pézard, Avatars de la «Donna gentile», in Buletin de la Soc. d'études dantesques du Centre Univers: Méditerranéen, I, n. l, 1949, pp. 7 sgg., che per altro non mi sembrano risolvere le con­tradizioni riconosciute anche dal Barbi.

l

l l 1

l ' l

i l l l

i il i

lj

Page 22: DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE - lettere.uniroma1.it e la...Nella « Biblioteca di Cultura Moderna » prima edizione 1942 Nella

48 Dante e la cultura medievale

si tratta invece di una citazione che Dante stesso fa di una sua opera, cioè della testimonianza d'un fatto. Secondo questa testi­monianza degnissima di fede, la Vita nuova, nella sua prima stesura, dopo aver narrato la morte di Beatrice e il dolore del poeta, doveva narrare come una donna gentile fosse primamente apparsa agli occhi di lui e avesse preso luogo alcuno nella sua mente, come il poeta ad esser suo consentisse, senza offesa alla memoria di Beatrice, e come lo suo beneplacito fosse contento « a disposarsi a quella imagine » della pietosa consolatrice.

E poiché questa donna gentile, secondo l'esplicita afferma­zione del Convivio 134

, è una donna allegorica, ne segue che essa era l'unica allegoria della Vita nuova, messa in fine dell'amoroso libello per preparare il lettore ad accogliere il nuovo genere di poesia al quale Dante volgeva ormai il suo animo 135•

Nel Convivio l'amore per Beatrice non è negato, ché anzi Dante espressamente dichiara che non intende « in parte alcuna derogare » alla Vita nuova 136

; ma piuttosto è lasciato in disparte, perché il nuovo si faccia grande e divenga perfetto.

Questo nuovo amore, « appresso lo primo amore » per Bea­trice, è dunque amore per « la bellissima e onestissima figlia de lo imperadore de lo universo, a la quale Pittagora pose nome Filosofia» 137

• E dopo la canzone del contrasto fra i due am9ri, il nuovo, ormai vittorioso sul primo, scioglie alla donna che l'ha suscitato l'inno della lode con la canzone «Amor che ne la mente mi ragiona », che Dante commenta nel terzo trattato del Convivio.

Qui l'amore non è più il solito «disio che ven dal core» e non è cagionato dalla piacenza sensibile che entra per gli occhi, ma è, come l'aveva definito col beato Ieroteo lo pseudo

134 II, xv, 12, III, xr, l. Se la testimonianza del Convivio (II, XII, 1-8) è ritenuta dal Barbi (Introduzione, p. XXIV) «netta e precisa» a dimo­strare quando comincia in Dante l'amore per la filosofia, perché non do­vrebbe essere altrettanto « netta e precisa » la testimonianza dello stesso Convivio, quando vi si legge che la donna pietosa della Vita nuova altro non era che la filosofia?

135 L'episodio col quale si concludeva la Vita nuova rientrava, come Dante ci fa sapere (Conv., II, n, 2-3), nel dramma della «battaglia» fra il nuovo amore e quello per Beatrice che teneva ancora la rocca della sua mente, ossia, com'io penso, fra la nuova poesia filosofica e la lirica stilnovi­stica. Intorno all'allegoria della donna gentile, si veda il secondo saggio del mio volume Nel mondo di Dante.

136 Conv., I, I, 16. 137 Conv., II, xv, 12.

I. Filosofia dell'amore nei rimatori italiani del Duecento e in Dante 49

Dionigi 138, una « virtus unitiva », ossia, come parafrasa Dante, « unimento spirituale de l'anima e de la cosa amata » 139

; e deriva da quella « mentibus hominum veri boni naturaliter inserta cupidi­tas », di cui parlava Boezio 140

, dal naturale desiderio di quel vero bene « quod taro diversis studiis homines petunt », che perfino gli animali terrestri, « tenui licet imagine », intravedono confusa­mente com~ in sogno, e al quale tendono come a lor principio e loro fine.« Omnis mortalium cura», dice ancora Boezio 141

, « quam multiplicium studiorum labor exercet, diverso quidem calle pro­cedit, sed ad unum tamen beatitudinis finem nititur pervenire ... sed ad falsa devius error abducit ». Di qui l'idea del pellegrino che Dante sviluppa in questo bel passo del Convivio 142, ove tutti gli amori e tutti i desideri umani son ricondotti alla loro vera ed unica radice:

Lo sommo desiderio di ciascuna cosa, e prima da la natura dato, è lo ritornare a lo suo principio. E però che Dio è principio de le nostre anime e fattore di quelle simili a sé,... essa anima massima­mente desidera di tornare a quello. E sl come peregrino che va per una via per la quale mai non fue, che ogni casa che da lungi vede crede che sia l'albergo, e non trovando ciò essere, dirizza la credenza a l'altra, e cosl di casa in casa, tanto che a l'albergo viene; cosl l'anima nostra, incontanente che nel nuovo e mai non fatto cammino di questa vita entra, dirizza li occhi al termine del suo sommo bene, e però, qualunque cosa vede che paia in sé avere alcuno bene, crede che sia esso. E. perché la sua conoscenza prima è imperfetta, per non essere esperta né dottrinata, piccioli beni le paiono grandi, e però da quelli comincia prima a desiderare. Onde vedemo li parvuli desiderare massimamente un pomo; e poi, più procedendo, deside­rare uno augellino; e poi, più oltre, desiderare bel vestimento; e poi lo cavallo; e poi una donna; e poi ricchezza non grande, e poi grande, e poi più. E questo incontra perché in nulla di queste cose truova quella che va cercando, e credela trovare più oltre ... Vera­mente cosl questo cammino si perde per errore come le strade de la terra. Che sl come d'una cittade a un'altra di necessitade è una ottima e dirittissima ~ia, .e un'altra che sempre se ne dilunga (cioè quella

138 De divinis nominibus, IV,ᤤ 12, 15, 17 (testo premesso alle lezz. 9 e 12 del commento tomistico).

139 Conv., III, n, 3. 140 De cons. philos., III, prose 2 e 3. 141 Ibid., prosa 2. 142 IV, XII, 14-19.

. li

Page 23: DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE - lettere.uniroma1.it e la...Nella « Biblioteca di Cultura Moderna » prima edizione 1942 Nella

50 Dante e la cultura medievale

che va ne l'altra parte), e molte altre quale meno allungandosi e quale meno appressandosi, così ne la vita umana sono diversi cam­mini, de li quali uno è veracissimo e un altro è fallacissimo, e certi meno fallaci e cerd meno veraci. E sì come vedemo che quello che dirittissimo vae a la cittade, e compie lo desiderio e dà posa dopo la fatica, e quello che va in contrario mai nol compie e mai posa dare non può, così ne la nostra vita avviene: lo buono cammi­natore giugne a termine e a posa; lo erroneo mai non l'aggiugne, ma con molta fatica del suo animo sempre con li occhi gulosi si mira innanzi.

Da queste considerazioni sgorgheranno più tardi i ·versi del Purgatorio 143 :

Esce di mano a lui che la vagheggia prima che sia, a guisa di fanciulla che piangendo e ridendo pargoleggia,

l'anima semplicetta che sa nulla, salvo che, mossa da lieto fattore, volentier torna a ·lui che la trastulla.

Di picciol bene in pria sente sapore; quivi s'inganna, e dietro ad esso corre, se guida o fren non torce suo amore.

Di questa naturalità del moto dell'anima umana verso il bene, che anche Aristotele aveva affermato ma non dimostrato, la ragione è tratta dal libro De causis, che è un estratto della Ele­mentatio theologica di Proclo, e che fu nella Scolastica uno dei più importanti tramiti d'influenza del neoplatonismo:

Ciascuna forma sostanziale procede da la sua prima cagione, la quaie è Iddio, sì come nel libro Di cagioni 144 è scritto... Onde, con ciò sia cosa che ciascuno effetto ritegna de la natura de la sua cagione,... ciascuna forma ha essere de la divina natura in alcun modo: non che la divina natura sia divisa e comunicata in quelle, ma da quelle è participata, per lo modo quasi che la natura del sole è participata ne l'altre stelle. E quanto la forma è più nobile, tanto più di questa natura tiene; onde l'anima umana, che è forma nobi-

143 XVI, 85-93. 144 Per questa citazione del Liber de causis, cfr. B. Nardi, Saggi di filo­

sofia dantesca, Milano-Genova-Roma, Soc. Editr. Dante Alighieri, 1930, pp. 117-119 [2' ed. Firenze, La Nuova Italia, 1967, pp. 106-109].

I. Filosofia dell'amore nei rimatori italiani del Duecento e in Dante 51

· lissima di queste che sotto lo cielo sono generate, più riceve de la natura divina che alcun'altra ... ; e però che 'l suo essere dipende da Dio e per quello si conserva, naturalmente disia e vuole essere a Dio unita per lo suo essere fortificare 145.

Che è quello che Dante leggeva anche nel De divinis nomi­nibus dello pseudo Dionigi, un altro autore il quale godé nella Scolastica d'autorità pari a quella delle Sacre Scritture, e tanto contribul ad avvicinare il pensiero cristiano a quello di Platino:

Sicut noster sol... per ipsum esse illuminat omnia, participare lumine ipsius secundum propriam rationem valentia, ita quidem et Bonum, super solem sicut super obscuram imaginem segregate arche­typum, per ipsam essentiam omnibus existentibus proportionaliter immittit totius bonitatis radios ... 146.

Et sic omnia ad seipsam Bonitas convertit, et princeps congre­gatrix est dispersorum, sicut principalis et vivifica deitas, et omnia ipsam ut principium, ut continentiam, ut finem d~siderant. Et Bonum est, ut Eloquia dicunt, ex quo omnia subsistunt et sunt, sicut ex causa perfecta deducta, et in quo omnia consistunt sicut in omnipo­tenti plantatione custodita et contenta, et ad quod omnia conver­tuntur, quemadmodum ad proprium singula finem: et quod deside­rant omnia intellectualia quidem et rationalia cognitive, sensibilia autem sensibiliter, expertia vero sensus naturali motu vivifici desi­derii, carentia autem vita et tantum existentia aptitudine ad solam substantiae participationem. Secundum eamdem manifestae iinaginis rationem et lumen congregat et convertit ad seipsum omnia videntia, quae moventur, quae illuminantur, quae calefiunt, quae totaliter a fulgoribus eius continentur ... 147.

Et omnia quaecumque sunt et fiunt, propter Pulchrum et Bonum sunt et fiunt, et ad ipsum omnia inspiciunt, et ab ipso moventur et continentur ... Omnibus igitur est Pulchrum et Bonum desiderabile et amabile et diligibile; et propter ipsum et ipsius gratia... omnia Pulchrum et Bonum desiderantia faciunt et volunt omnia quaecumque faciunt et volunt 143.

Secondo questa dottrina neoplatonica, che la lettura di Boe­zio e dello pseudo Dionigi divulgarono tra gli scolastici! l'amore

145 ·conv., III, n, 4-7. 146 De divinis nominibus, c. IV, § l (lez. l del commento tomistico). 147 Ibid., § 4 (lez. 3). 148 Ibid., § 10 (lezz. 8-9).

Page 24: DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE - lettere.uniroma1.it e la...Nella « Biblioteca di Cultura Moderna » prima edizione 1942 Nella

52 Dante e ·la cultura medievale

di cui Dante aveva cantato nella sua adolescenza, come avevano fatto gli altri rimatori, non è tutto l'amore, ma solo una· specie o, se vogliamo, una particolare rivelazione di quell'amor<:! che davvero « è palpito dell'universo intero », e in ciascuna cosa parti­colare si palesa per mezzo di una sua particolare tendenza, sl che può dirsi che ogni essere abbia un « suo speziale amore »: i corpi semplici « a lo luogo proprio » o « locus naturalis »; i corpi composti « a Jo luogo dove la loro generazione. è ordinata, e in quello crescono e acquistano vigore e potenza »; le piante a certi luoghi, secondo ·che la loro complessione richiede; gli animali al diletto sensibile; gli uomini, in quanto tali, ~<hanno loro proprio amore a le perfette e oneste cose». E poiché l'uomo è una sola sostanza che compendia in sé le ·proprietà e le virtù di tutti gli esseri inferiori ad esso, « tutti questi amori puote avere e tutti li ha·». Ma per la sua natura umana «o, meglio dicendo, angelica, cioè razionale, ha l'uomo amore a la veritade e a la vertude » 149•

Questo amore appunto destò nella mente di Dante lo studio della filosofia, della quale è simbolo la donna gentile. Il che egli tiene a dichiarare per escludere ogni falsa opinione, « per la quale fosse sospicato lo » suo « amore essere per sensibile dilettazione », quale sarebbe stato l'amore per una donna reale e non allego­rica

150• Col nuovo amore per la bellezza del vero, si affermava

in lui la virile coscienza di un tendere dello spirito umano oltre le caduche immagini del senso, verso l'eterno e l'assoluto; ma nello stesso tempo era, se non disconosciuta, certo svalutata, almeno nel concetto, l'arte delle rime dell'adolescenza, dalle quali si dipartiva. Svalutata non definitivamente, come vedremo, ma in quel preciso momento in cui il suo animo era tutto preso dalla meditazione sui problemi filosofici ..

Più d'uno di questi problemi dev'essergli parso di difficile soluzione, se Dante stesso, nella ballatetta «Voi che savete ragio­nar d'Amore» 151

, alla quale accenna nella canzone «Amor che ne la mente mi ragiona», èi confida che questa donna gli si mostrò « fera· e disdegnosa >> 152

• Sugli « atti disdegnosi e· Jeri » della sua donna, che gli chiudean « la via de l'usato parlare »,

149 Conv., III, III, 2-11. ISO Ibid., III, III, 12. 151 Rime, LXXX. , 152 Conv., III, «Amor che nella mente», 73 sgg.; cc. IX-X e xv, 19.

I. Filosofia dell'amore nei rimatori italiani del Duecento e in Dante 53

ritorna anche nella prima stanza della canzone « Le dolci rime d'amor ch'i' solìa » 153

; e nel commento a questa canzone, ci fa sapere come effettivamente questa donna « un poco li suoi dolci sembianti » gli « transmutasse... massimamente in quelle parti dove » egli « mirava e cercava se la prima materia de li elementi era da Dio intesa, - per la qual cosa un poco dal frequentare lo suo aspetto » si astenne, volgendosi a trattare della vera nobiltà contro l'opinione del volgo 154

Il problema della nobiltà era stato posto da Andrea Cappel­lano, là dove insegna che tutte le persone non minorate di mente o non impedite da altro difetto, possono « amoris pertingi acu­leis » 155

• All'esistenza del vero amore non si richiede la nobiltà del sangue, ma basta la probità dei costumi, « quae vera facit hominem nobilitate beati et rutilanti forma pollere. Naro quum omnes homines uno sumus ab initio stipite derivati unamque secundum naturam originem traximus omnes, non forma, non corporis cultus, non etiam opulentia rerum, sed sola fuit morum probitas, quae primitus nobilitate distinxit homines ac generis induxit differentiam. Sed plures quidem sunt, qui ab ipsis primis nobilibus sementivam trahentes originem in aliam partem dege­nerando declinant. Et si convertas non est propositio falsa» 156

L'amore, passando sopra a tutte le distinzioni e i pregiudizi sociali, può esistere anche fra nobili e plebei, se questi e quelli risplen­dono di quella vera nobiltà che trae origine dalla virtù.

Anche Boezio, nel terzo libro del De consolatione philoso­phiae, dopo aver detto che la nobiltà della schiatta è un nome vano, perché fondato sulla gloria altrui e non nostra, aveva cantato 157

:

Omne hominum genus in terris simili surgit ab ortu ...

Mortales igitur cunctos edit nobile germen.

Quid genus et proavos strepitis? Si primordia vestra

auctoremque Deum spectes,

153 Conv., IV, «Le dolci rime», 5-8. 154 Ibid., IV, I, 8-9. 155 Andrea Cappellano, De amore, I, v, p. 11. 156 Ibid., I, VI, pp. 17-18. 157 III, metro 6.

Page 25: DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE - lettere.uniroma1.it e la...Nella « Biblioteca di Cultura Moderna » prima edizione 1942 Nella

l

l l.

l i '·t.· t .. ·., :_~~.

:

i ~-

1 ' ~

l

54 Dante e la cultura medievale

nullus degener extat, ni vitiis peiora fovens,

proprium deserat ortum.

Col Guinizelli, come abbiamo visto, Dante aveva affermato l'inseparabilità dell'amore dalla gentilezza, ed Amore era per lui il « segnare della nobiltà». Ma il problema doveva diventare scottante per lui, proprio negli anni nei quali s'era immerso negli studì filosofici, per i nuovi ordinamenti di giustizia che in Firenze escludevano dalle cariche comunali i nobili che non si fossero fatti popolo, iscrivendosi ad un'arte. Forti dei loro privi­legi feudali consacrati da diplomi imperiali, i nobili fiorentini dove­vano verosimilmente menar vanto della definizione della nobiltà che s'attribuiva a Federico II di Svevia, il quale aveva detto ch'essa è « antica ricchezza e belli costumi» 158• In realtà questa definizione è d'Aristotele, che nel quarto della Politica 159 aveva riposto la nobiltà nella virtù e nell'antica ricchezza, come più tardi Dante stesso riconoscerà nella Monarchia 160; ma l'averla attribuita ad un uomo che alla maestà imperiale univa il credito di « laico e clerico grande » 161, doveva, nel vanto dei nobili di fronte al popolo, accrescerne il valore quasi di massima indiscu­tibile.

Pur col rispetto dovuto alla dignità imperiale, di cui Dante riconosce il fondamento naturale nella « necessità de la umana civilitade » 162

, egli afferma l'incompetenza dell'imperatore a deci­dere di quistioni filosofiche 163

, e fa della definizione attribuita a Federico un'acuta critica, dalla quale si sarebbe forse astenuto, se si fosse accorto che, in sostanza, essa apparteneva ad Aristo­tele, e l'avesse presa pel suo verso. La critica di questa defini­zione della nobiltà lo riconduce ad affermare il concetto, già espresso da Boezio, che tutto quanto il genere umano ha una comune origine e che « mortales ... cunctos edit nobile germen », e a definire alla sua volta la nobiltà come « seme di felicitade messo da Dio ne l'anima ben posta» 164

• Nobiltà è dunque quel

158 Conv., IV, III, 6. Cfr. ibid., IV, xx, 5. 159 IV, c. 8, 1294 a 21. 160 II, III, 4. 161 Conv., IV, x, 6. 162 Ibid., IV, IV, l. 163 Ibid., IV, VIII, 11- IX, 16. 164 Ibid., IV, xx, 9-10.

I. Filosofia dell'amore nei rimatori italiani del Duecento e in Dante 55

« nobile germen » che, secondo Boezio, è messo negli uomini dal padre di tutte le cose, un dono divino che è ricevuto in maggiore o minore abbondanza secondo che l'anima è apparecchiata a riceverlo. Il che conduce Dante a ricercare che cosa rende così dissimili tra loro le anime umane nel carattere, nell'ingegno e nelle tendenze, e sì diversamente disposte a ricevere il dono di Dio.

È questo il problema dell'individualità umana, tanto forte­mente sentita da Dante 165

• A risolvere il qual problema egli tende colla sua particolare dottrina sull'origine dell'anima.

È verosimile che la quotidiana consuetudine col. Cavalcanti abbia fornito a Dante occasione di discutere coll'amico averroista intorno al problema dell'individualità, come intorno a quello, dibattutissimo nelle scuole di filosofia e di teologia, dell'origine dell'anima umana. Certo è che due volte Dante ha trattato del­l'origine dell'anima, e due volte ha esposto una stessa dottrina, intermedia tra la tesi averroistica e quella tomistica. Per Aver­roè, forma e perfezione del corpo umano è solo l'anima sensi­tiva, la quale discende dalle qualità degli elementi uniti nella compagine del corpo; l'intelletto è separato in sé dall'anima sen­sitiva, e s'unisce ad essa solo nell'atto dell'intendere, poiché l'idea è astratta dall'immagine sensibile. Per Tommaso, i'intel­letto è una facoltà dell'anima umana che tutta intera è forma del corpo e tutta intera entra nell'uomo dal di fuori, in quanto è creata da Dio al termine del processo embrionale. Per Dante, invece, l'anima vegetativo-sensitiva discende da qualità, cioè da una virtù attiva proveniente dal cuor del generante, la quale si sviluppa sotto. l'influenza del cielo e, quando « l'articular del cerebro è perfetto », riceve da Dio, motore del cielo, l'intelletto possibile, che « potenzialmente in sé adduce tutte le forme univer­sali ». Di questo principio vegetativo-sensitivo generato col corpo e dell'intelletto creato da Dio « fassi un'alma sola », che vive, sente e pensa. Così l'umano e il divino si uniscono in un connu­bio indissolubile e intimo, per formare quella che si dice l'anima umana, sensitiva e intellettiva insieme, la quale è tutt'intera forma del corpo 165

165 Cfr. B. Nardi, I bambini nella candida rosa dei beati, nel vol. Nel mondo di Dante, pp. 317-334.

165 Cfr. B. Nardi, L'origine dell'anima umana secondo Dante, in Giorn. crit. della filos. ital., XII, 1931, pp. 433-456; XIII, 1932, pp. 45-56, 81-102;

' l q

li n q r';t :}

Page 26: DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE - lettere.uniroma1.it e la...Nella « Biblioteca di Cultura Moderna » prima edizione 1942 Nella

56 Dante e la cultura medievale

E poiché alla produzione dell'anima concorrono, insieme al­l'azione divina, varie cause naturali, come la complessione del seme e la disposizione del seminante, le quali possono essere migliori e men buone, e altresì la disposizione del cielo, che per il variare delle costellazioni può essere buona, migliore e ottima, ne segue che

de l'umano seme e di queste vertudi più pura [e men pura] anima si produce; e, secondo la sua puritade, discende in essa la vertude intellettuale possibile che detta è, e come detto è. E s'elli avviene che, per la puritade de l'anima ricevente, la intellettuale vertude sia bene astratta e assoluta da ogni ombra corporea, la divina bontade in lei multiplica, si come in cosa sufficiente a ricevere quella, e quindi si multiplica ne l'anima questa intelligenza, secondo che ricevere puote. E questo è quel « seme di felicitade », del quale al presente si parla. E ciò è concordevole a la sentenza di Tullio in quello De Senectute, che, parlando in persona di Catone, dice: « Imperciò celestiale anima discese in noi, de l'altissimo abitaculo venuta in loco lo quale a la divina natura e a la etternitade è con­trario». E in questa cotale anima è la vertude sua propria, e la intellettuale, e ·la divina, cioè quella influenza che detta è: però è scritto nel libro de le Cagioni: «Ogni anima nobile ha tre opera­zioni, cioè animale, intellettuale e divina». E sono alcuni di tale oppinione che dicono, se tutte le precedenti vertudi s'accordassero sovra la produzione d'un'anima ne la loro ottima disposizione, che tanto discenderebbe in quella de la deitade, che quasi sarebbe un altro Iddio incarnato 167•

Da questa divina semenza gettata da Dio nell'anima nasce e germoglia la virtù, per mezzo della quale l'uomo raggiunge il fine della vita, nel cui conseguimento consiste la sua perfezione e la sua ultima beatitudine. In tal modo, la nobiltà di cui parla­vano il Cappellano e il Guinizelli, veniva approfondita da Dante, che ne faceva una dottrina filosofica d'ispirazione schiettamente

La dottrina d'Alberto Magno sull'« inchoatio formae », in Rendiconti della classe di scienze morali storiche e filosofiche della R. Accademia dei Lincei, Serie VI, vol. XII, fase. 1-2, 1936, p. 31 sgg.; La posizione di Alberto Ma­gno di fronte all'averroismo, irì Rivista di storia della filosofia, II, 1947, pp. 213-214 [questi saggi sono ora raccolti nel vol. Studi di filosofia medieval~, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1960]. Vedasi anche, più avanti, il saggio VIII in questo volume.

167 Conv., IV, xxr, 4-10. Cfr. B. Nardi, Saggi di filosofia dantesca, p. 78 [2• ed. cit., p. 67].

I. Filosofia dell'amore nei rimatori italiani del Duecento e in Dante 57

platonica, come platonica era altresì la sua nuova dottrina del­l'amore. E così amore e gentilezza restavano indissolubilmente legati tra loro come nella teoria del Guinizelli, ma in un senso più alto.

9. L'errore del « Convivio» e il ritorno di Beatrice.

Nel sonetto «Parole mie che per lo mondo siete», che vor­rebbe essere il congedo che Dante prendeva dalle rime allego­rico-dottrinali alle quali aveva posto mano colla canzone « Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete», il poeta esorta le sue parole a non stare più in compagnia di quella donna gentile in cui errò, poiché con lei «non v'è Amore» 168

• Mettiamo pure che l'espressione « quella donna in cui errai » abbia il significato generico di un vaneggiamento amoroso; mettiamo anche che l'al­tra espressione « con lei... non v'è Amore » voglia alludere all'essersi dimostrata la filosofia « disdegnosa e fera », come nella ballata «Voi che savete ragionar d'Amore»; c'è però il fatto dell'interruzione del Convivio al quarto trattato, mentre dell'opera era stato steso il piano e la divisione in quindici trattati, fino a permettere all'autore citazioni anticipate.

Ora se mettiamo in relazione questo congedo coll'interruzione del Convivio, al quale attendeva nel 1306, quand'era ancora in vita Gherardo da Camino, morto nel marzo di quell'anno, parrebbe che Dante non fosse del tutto· soddisfatto né del genere di poesia nel quale s'era cacciato colle rime allegoriche, né dell'opera intra­presa col commento filosofico di esse. E a ripensarci bene, il nuovo genere di poesia e la stessa opera prosaica contengono un duplice errore.

Anzi tutto un errore artistico. La filosofia non diventa poesia, se il concetto pensato razionalmente non riesce a scaldare la fantasia e a trame immagini sensibili, viventi di vita autonoma, tali cioè che esprimano in sé la commozione dell'animo dell'arti­sta e la stessa commozione riescano a suscitare negli altri. Ora la donna gentile delle canzoni allegoriche è un puro simbolo astratto, cerebrale, costruito colla ragione sillogizzante, non colla fantasia fremente di passione. Sebbene essa rida, il suo riso, lungi

168 Rime, LXXXIV, 7-9.

ji ·.j r ~~ ~-n '~ 1\{ 'il :ì~ ~~ '~:

Page 27: DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE - lettere.uniroma1.it e la...Nella « Biblioteca di Cultura Moderna » prima edizione 1942 Nella

58 [)ante e la cultura medievale

dall'essere quella « corruscazione de la dilettazione de l'anima » 169

che Dante vorrebbe, è freddo e non vale il divino sorriso degli occhi di Beatrice. In fondo in fondo, c'è più poesia in certi mira­bili squarci della prosa del Convivio, ove tu avverti un ragionare concitato e il prorompere della passione, che non nelle canzoni tolte a commentare. Se di questo errore artistico Dante non si rese conto criticamente, come può fare tin moderno· che abbia meditato sulla vera natura della poesia, certç> dovette avvertirlo col fine intuito che è proprio dei poeti della sua specie.

Non meno evidente è l'errore filosofico. La filosofia di cui è simbolo la donna gentile, è massimamente in Dio, e quindi per modo minore e secondariamente nelle altre intelligenze: nelle intelligenze separate da materia, « per continuo sguardare »; nel­l'intelligenza umana, unita al corpo, « per riguardare disconti­nuato » 170• Siffatta filosofia è la Sapienza, « quam maxime De~s habet », come dice Aristotele nella Metafisica 171

, e in sé consi­derata non è « humana possessio ». Perciò Dante la chiama « sposa de lo Imperadore del cielo », anzi « non solamente sposa, ma suora e figlia dilettissima » 172

, e scorge in essa la Sapienza eterna dei libri Salomonici ·e il Logo giovanneo 173

• ·La sapienza umana non è altro che una partecipazione della Sapienza eterna, un dono divino, uno splendore della luce di Dio riflessa dalla mente dell'uomo. Allo stesso modo, il filosofo e martire cristiano Giustino affermava che i sapienti antichi avevano intravisto la verità intorno a molte cose, sebbene in modo confuso, per la particella a ognun d'essi congenita della Ragione o Logo divino, e che il Cristo, primogenito di Dio, altro non è se non « quella Ragione o Logo di cui tutto il genere umano è partecipe» 174

Non fa quindi meraviglia se Dante, dopo aver promesso che, a partire dal tredicesimo capitolo del terzo trattato del Convivio, egli avrebbe seguitato a trattare della filosofia umana 175

, dimen­tico di questa promessa, ci fa sapere che questa donna, mentre da un lato ci dimostra e ci lascia vedere una sua faccia, ce ne

169 Con v., III, VIII, 11. 170 Conv., III, XIII, 1-7. 171 I, c. 2, 983 a 6 (testo premesso alla lez. 3 del commento tomistico).

Cfr. il mio vol. Nel mondo di Dante, pp. 50-53. 172 Conv., III, XII, 14. 173 Ibid., III, XIV, 7; xv, 5, 16-17. 174 Apol., II, 13; I, 46. 175 Conv., III, XIII, 3.

I. Filosofia dell'amore nei rimatori italiani del Duecento e in Dante 59

nasconde un'altra, che sono le cose celate alla mente umana, oggetto di fede e non di ragione 176

; e verso la fine. del trattato, torna a ripeterei che essa era nel divino pensiero « quando lo mondo fece; onde seguita che ella lo facesse»; sl che egli può applicare alla donna gentile quello che nel libro de' Proverbi si legge in persona della Sapienza: « Quando Iddio apparecchiava li cieli, io era presente » ecc. Anzi torna a identificarla col Logo giovanneo, affermando che, poi che fatti fummo, per noi diriz­zare, in nostra similitudine venne a noi, cioè si fece carne nella persona di Cristo m.

La Sapienza, insomma, ossia la Verità, trascende la mente umana; nell'uomo c'è soltanto il riverbero della luce divina: che accende in noi il debole lume della ragione. Ma la ragione umana nori ha in sé la misura del vero. Senza un mistico contatto della mente creata colla luce eterna, senza quell'unimento spirituale dell'anima con Dio che è il primo e fondamentale amore dello spirito umano, questo resterebbe cerchiato dalle sue tenebre. Ora questa non è affatto una posizione razionalistica, ma anzi misti­cismo della più autentica marca platonica e agostiniana, al quale non riuscl a sottrarsi neppure Aristotele, tanto meno poteva osarlo san Tommaso 178

Trascendente la mente umana, la Sapienza è partecipata da questa per una « più che umana operazione » 179

• La capacità di pensare e di elevarsi alla conoscenza del vero è, nell'uomo, un continuo miracolo, cioè un avvenimento che sorpassa le fòrze della natura e abbisogna, per essere spiegato, del diretto inter­vento divino. Per quanto miracolosa in se stessa, la potenza della ragione umana avverte il proprio limite, e pensa che la verità che le si svela è solo un tenue raggio di una luce che il suo occhio non riesce a percepire, simile in questo all'occhio del pipistrello, il quale non può sopportare la luce solare 1ro.

Da siffatta ptemessa antirazionalistica e perfettamente mistica, la conclusione che Dante avrebbe potuto e dovuto trarre a fil di logica, era questa: la filosofia umana non basta a quietare il naturale desiderio di sapere, e soltanto la rivelazione in questa

176 Ibid., III, XIV, 13-14. m Ibid., III, xv, 16-17. 178 Cfr. B. Nardi, Nel mondo di Dante, pp. 216-218 e 225. 179 Conv., III, XIV, 11. 180 Conv., II, IV, 16-17. Cfr. Arist., Metaph:, II, c. l, 993 b 9-11.

Page 28: DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE - lettere.uniroma1.it e la...Nella « Biblioteca di Cultura Moderna » prima edizione 1942 Nella

60 Dante e la cultura medievale

vita e la visione beatifica di Dio nell'altra possono condurre lo spirito umano a quella perfezione cui aspira. Così appunto fa san Tommaso, d'accordo in questo c:on la tradizione agosti­niana. Invece Dante, con grande sorpresr ~el lettore, afferma con Aristotele e con gli averroisti che col guardare, quaggiù sulla terra, negli occhi e nel riso della Sapienza, cioè colla speculazione della « faccia che ella ne dimostra », « l'umana perfezione s'acqui­sta, cioè la perfezione de la ragione », « tanto cioè che l'uomo, in quanto ello è uomo, vede terminato ogni desiderio, e così è beato » 181

• Ma come può esser beato l'uomo, se la Sapienza, nella sua trascendenza, gli fa intravedere cose che « soverchian lo nostro intelletto »? Se « lo sguardo di questa donna fu a noi così larga­mente ordinato non pur per la faccia ch'ella ne dimostra vedere, ma per le cose che ne tiene celate desiderare ed acquistare »? Dante stesso sentì bene questa difficoltà e si pose il problema in questi precisi termini: «Veramente può qui alcuno forte dubi­tare come ciò sia, che la sapienza possa fare l'uomo beato, non potendo · a lui perfettamente certe cose mostrare; con ciò sia cosa che 'l naturale desiderio sia a l'uomo di sapere, e sanza compiere lo desiderio beato essere non possa » 182

A questo problema san Tommaso, fedele al detto di sant'Ago­stino: « Fecisti nos, Domine, ad te, et inquietum est cor nostrulli. donec requiescat in te » 183

, aveva risposto che nessuna scienza speculativa di questo mondo è capace di attuare tutta la potenza dell'intelletto umano e di appagare il naturale desiderio di sapere. Soltanto la visione beatifica di Dio nell'altra vita può farlo 184

Perciò egli subordinava la felicità imperfetta di questa vita alla felicità perfetta della vita eterna, e la filosofia alla rivelazione.

Aristotele aveva attribuito alla filosofia che l'uomo riesce a costruire colle forze della ragione umana, il potere di appagare il desiderio che abbiamo di sapere, e quindi di dare all'uomo una felicità perfetta in questa vita, nella misura che la mente umana riesce ad assomigliare alla mente divina colla quale è strettamente congiunta. Superiore per altro alla felicità di cui è capace l'uomo, è la beatitudine di Dio e delle intelligenze celesti; ché, mentre la vita divina è un atto eterno di contemplazione,

181 Conv., III, xv, 2-4. 182 Ibid., III, xv, 6-7. 183 Confess., I, r. 184 Contra gent., III, 25, 37-39, 48-50.

I. Filosofia dell'amore nei rimatori italiani del Duecento e in Dante 61

senza interruzione, ·l'uomo invece ne partecipa solo ad intervalli, per l'impedimento che alla vita contemplativa frappongono le necessità del corpo 185

Averroè ed alcuni aristotelici neoplatonizzanti attribuirono alla mente umana, giunta al termine del suo sviluppo, la capacità di

· unirsi in questa vita all'intelletto agente, che è una sostanza separata, e di conoscere per mezzo di questa tutte le forme imma­teriali. Inoltre, il commentatore di Cordova affermava che la specie umana è eterna e nel mondo vi sono sempre uomini che attendono alla speculazione del vero; di guisa che in ogni mo­mento tutto il saperè, di cui l'intelletto umano è capace, si trova attuato dalla convivenza umana senza interruzione, e il desiderio di conoscere è eternamente soddisfatto 186

Dante risolve il problema osservando che « lo desiderio natu­rale in ciascuna cosa è misurato secondo la possibilitade de la cosa desiderante ..... E però l'umano desiderio è misurato in que­sta vita a quella scienza che qui avere si può ..... Onde, con ciò sia cosa che conoscere di Dio e di certe altre cose quello esse sono non sia possibile a la nostra natura, quello da noi natural­mente non è desiderato di sapere» 187

• Questa limitazione del desiderio di sapere « a quella scienza che qui avere si può » è certamente conforme alla dottrina di Aristotele, ma non all'inse­gnamento teologico tradizionale, né, in particolare, al pensiero di san Tommaso, il quale scriveva: «Non igitur quietatur naturale sciendi desiderium in cognitione Dei, qua scitur de ipso solum quia est»; anzi, per lui, neppure la conoscenza naturale che di Dio hanno le menti angeliche, basta a saziare il loro naturale desi­derio 188• E l'Aquinate notava l'angustia in cui venne a trovarsi Aristotele che, per aver riposto il fine ultimo dell'uomo nella scienza che questo può procacciarsi in questa vita, fu costretto ad affermare che esso non consegue una felicità perfetta, ma quale è consentita alle sue forze 189

Più tardi, nella Monarchia, per render ragione in che modo

185 Arist., Et h. Nicom., X, c. 7, 1177 a 12-27; ibid., 1177 b 30 - 1178 a 7; ibid., c. 8, 1178 b 25-32; cfr. Metaph., XII, c. 7, 1072 b 15-25.

186 Averroè, De anima, III, comm. 5 digress. pars V, solutio 2•• quae­stionis; ibid., comm. 36, digress. pars IV.

187 Conv., III, xv, 8-10. Cfr. B. Nardi, Nel mondo di Dante, pp. 222-228.

188 Contra gent., III, 50. 189 Ibid., III, 48.

;; :l

·~ f

Page 29: DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE - lettere.uniroma1.it e la...Nella « Biblioteca di Cultura Moderna » prima edizione 1942 Nella

62 Dante e la cultura medievale

tutta la potenza dell'intelletto possibile può essere tratta all'atto in questa vita, Dante non avrà difficoltà a trar profitto dalla tesi averroistica, secondo la quale la. ragione umana è tutta spiegata non nei singoli ma nell'umanità presa insieme tw. Ed anche nel quarto trattato del Convivio tornava a ripetere, citando Averroè, che il desiderio della scienza, essendo un desiderio naturale, è a certo termine discendente, « sl che certo termine quello com­pie, avvegna che pochi, per male camminare, compiano la gior­nata » 191

Ma nello stesso trattato .quarto del Convivio, che segna un notevole sviluppo di pensiero sul terzo, egli comincia ad accor­gersi di questa sua incoerenza, e venendo a parlare dell'uso di speculazione che è proprio della nostra nobilissima parte, cioè dell'intelletto, cautamente dichiara che « questa parte in questa vita perfettamente lo suo uso avere non puote »; e più oltre dice ugualmente che la nostra beatitudine, nelle operazioni delle virtù intellettuali, è « perfetta quasi », ave il « quasi » annulla il « perfetta » 192• •

Nella Commedia la sete naturale di sapere è saziata soltanto dalla verità rivelata della quale « la ... Samaritana dimandò la gra­zia » 193

• Soltanto il Vero « di fuor dal qual nessun vero si spazia » può soddisfare appieno l'intelletto umano avido di conoscenza 194•

E gli spiriti magni ai quali non brillò la luce della fede, vivono nel limbo in un tormentoso desiderio senza speranza, « ch'etter­nalmente è dato lor per lutto » 195

• Tra loro è lo stesso Aristotele, << quello glorioso :61osofo al quale la natura più aperse li suoi segreti » 196

, « il maestro di color che sanno » 197, il « maestro e duca de la ragione umana ·in quanto intende a la sua finale opera­:Zione » 198 Se nel canto secondo del Paradiso Dante combatte

190 Mon., l, III, 6-9. Cfr. B. Nardi, Nel mondo di Dante, pp. 233 sgg.; Saggi di filosofia dantesca, pp. 257-270 [2• ed. cit., pp. 229-242; e si veda ora anche Monarchia, a cura di B. Nardi, in Dante Alighieri, Opere minori, Il, Milano-Napoli, Ricciardi, 1979,, pp. 294-303 note].

191 Conv., IV, XIII, 6-8. 192 Ibid., IV, XXII, 13, 18. 193 Purg., XXI, 1-3. 194 Par., IV, 124-126. 195 In/., IV, 40-42; Purg., III, 37-45. 196 Conv., III, v, 7. 197 In/., IV, 131. 198 Conv., IV, VI, 8.

I. Filosofia dell'amore nei rimatori italiani del Duecento e in Dante 63

la dottrina averroistica sulle macchie lunari già da lui professata nel Convivio 199 , e se nel canto ventottesimo corregge l'errore intorno alla disposizione degli ordini angelici già da lui seguito nello stesso Convivio 200 , l'errore poetico e filosofico che s'anni­dava nel simbolismo astratto della donna gentile è superato dal ritorno di Beatrice, di cui è messo ed araldo Virgilio.

Né l'uno né l'altra sono allegorie, ma persone vive 201• L'uno

è il poeta pagano che cantò l'impero di Roma, il « savio gentil che tutto seppe » 202 quanto la ragione umana può sapere colle sue sole forze 203 , e che al sapere filosofico congiunse la più alta ispirazione poetica, sì da parlare al cuore di Dante un linguaggio più umano di quello d'Aristotele. E l'anima di Virgilio, che in terra era stata fatta degna di annunziare la Redenzione 204

, poteva ora nel limbo comprendere e far comprendere a Dante che la filo­sofia non può dare all'uomo perfetta beatitudine. Beatrice alla sua volta è la stessa donna cantata nelle rime della Vita nuova, e che, salita di carne a spirito, non ha perduto né bellezza né virtù, e sopratutto non è morta, ma vive nella gloria e nella luce di Dio, come crede ogni sincero cristiano. Come tutte le anime beate, anche Beatrice possiede, nella visione della divina verità, un sapere che vince di gran lunga quello del più scaltrito teologo della Sorbona, sì che il desiderio di conoscere è in lei completamente soddisfatto.

Entrato in quest'ordine d'idee, Dante, che nel frattempo aveva interrotto il Convivio per attendere alla Monarchia, ebbe veramente quella mirabile visione di cui si parla alla fine della Vita nuova e che doveva risolvere tutte le antinomie del suo pensiero. Ed anzi tutto nell'immagine della donna glorificata vide una fonte di grande poesia, in cui i motivi vitali della poesia dottrinale erano riassorbiti dall'impeto della schietta vena lirica degli anni giovanili. Nella fiamma purissima e purificatrice del suo primo e immortale amore, egli poteva ora gettare tutti gli altri amori e tutti gli odi della sua anima, i suoi dolori, le pas-

199 Par., Il, 59-148; Conv., Il, XIII, 9; cfr. B. Nardi, Saggi di filosofia dantesca, pp. 5 sgg. [2• ed. cit., pp. 4 sgg.].

2oo Par., XXVIII, 98-135; Conv., II, v, 6. 201 Cfr. Gilson, Dante et la philosophie, pp. 72-73, 265-266. 202 In/., VII, 3. 203Purg., XVIII, 46-48. 204 Purg., XXII, 66-73.

Page 30: DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE - lettere.uniroma1.it e la...Nella « Biblioteca di Cultura Moderna » prima edizione 1942 Nella

64 Dante e la cultura medievale

sioni di parte, la scienza sacra e profana, l'umanità, la terra e il cielo, l'universo, per ricrearlo coll'onnipotenza della sua poe­tica fantasia.

E vide ancora che la filosofia aristotelica non bastava a sa­ziare il naturale desiderio dello spirito umano. La rivelazione cristiana aveva dischiuso agli uomini nuovi e più vasti orizzonti, nuovi cieli, una nuova terra, e sopratutto aveva acceso nella dolo­rante anima umana il desiderio di nuove conquiste spirituali e più liete speranze. Liberarsi dal simbolo astratto della donna gentile, voleva dire per Dante riconquistare coscienza concreta del corso della storia umana, nel quale l'antichità classiCa e il nuovo pensiero cristiano formavano due momenti: di cui il se­condo segnava un progresso sul primo, e il primo era avviamento e preparazione al secondo. Fare di Virgilio l'araldo di Beatrice, e della filosofia aristotelica una preparazione alla teologia, signi­ficava riconoscere che la vera filosofia era per lui, come fu per tutti nel medio evo, sl cristiani che musulmani, la teologia.

Mentre la mirabile visione operava sul suo spirito di poeta e di pensatore, Dante lasciava in disparte il Convivio, che doveva rimanere incompiuto 205

, e ripreso in mano il libretto giovanile della Vita nuova Io ritoccava qua e là e ne mutava la fine per farne una specie di prologo alla Commedia. Cosl l'amore per la donna pietosa, che nella redazione anteriore della Vita nuova « prese luogo alcuno ne la » sua « mente » e alla cui immagine il suo « beneplacito fu contento a disposarsi », venne presentato come un « desiderio malvagio e vana tentazione», di cui il risorto affetto per Beatrice aveva trionfato.

l O. Revisione della dottrina stilnovistica dell'amore. La fatalità dell'amore e la virtù del consiglio: la libertà del volere.

Col ritorno di Beatrice, sembra che si ridestino nell'animo del ramingo poeta tutti i ricordi della sua adolescenza. L'imma­gine della diletta fanciulla cantata negli ,anni più belli, risve­glia in lui le più dolci rimembranze di un mondo poetico che

205 Sull'incompiutezza del Convivio, quale risulta anche dal deplorevole stato della tradizione manoscritta, cfr. l'acuto libro di A. Pézard, Le «Con­vivio» de Dante, Parigi 1940, e la recensione che ne ho fatta in Nuova Antologia, a. 81o, 1946, pp. 221-226.

I. Filosofia dell'amore nei rimatori italiani del Duecento e in Dante 65

poteva trasformarsi ma non andar perduto. Anche nella gloria dei cieli che l'avvolge, noi riconosciamo nella donna della Com­media i noti tratti del virgineo fantasma della Vita nuova. Lo stesso divino sorriso degli occhi splendenti illumina ora e rischiara le oscure pagine dei trattati filosofici e teologici sui quali si curva, cercando pace e conforto, la fronte cogitabonda dell'esule che sogna il suo bel San Giovanni. E nella visione di quel sor­riso le aride dispute si animano dei colori della poesia, e il mondo intero pare trasfigurarsi alla fantasia· del poeta, la cui arte com­pie, insieme alla sua coscienza, la suprema catarsi.

Quanto alla sostanza, la dottrina dell'amore rimane nella Commedia quella che Dante aveva già formulata nel Convivio. Ma nel poema questa dottrina perde quel carattere di astratto filosofema che aveva nelle rime allegoriche e dottrinali, per diven­tare coscienza viva che obbliga il poeta ad una revisione del suo giudizio morale sulle azioni umane.

Per misurare tutto il progresso compiuto da Dante in questo senso, giovi ricordare una tenzone fra lui e Cino da Pistoia, che è sicuramente del tempo dell'esilio d'entrambi. Col sonetto « Dan­te, quando per caso s'abbandona», messer Cino aveva chiesto all'amico fiorentino se, in sostanza, l'anima nostra possa accogliere in sé un nuovo amore per altra donna, dopo che un antico e tenace amore s'è spento in essa. Dante risponde che ciò può ben accadere 206:

Io sono stato con amore insieme da la circulazion del sol mia nona, e so com'egli affrena e come sprona e come sotto lui si ride e geme.

Chi ragione o virtù contra gli sprieme, fa come que' che 'n la tempesta sona credendo far colà dove si tona esser le guerre de' vapori sceme.

Però nel cerchio de la sua palestra liber arbitrio già mai non fu franco, sl che consiglio invan vi si balestra.

Ben può con nuovi spron punger lo fianco, e qual che sia 'l piacer ch'ora n'addestra, seguitar si convien se l'altro è stanco.

206 Rime, CX-CXI.

!

ì

L

!

l l l l

Page 31: DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE - lettere.uniroma1.it e la...Nella « Biblioteca di Cultura Moderna » prima edizione 1942 Nella

66 Dante e la cultura medievale

Sotto gli assalti della passione amorosa l'animo non è libero, e chi tenta di tenerlo a freno colla virtù del consiglio e coi bei ragionamenti, fa come chi si mette a scampanare per far cessare la furia del temporale.

In questo sonetto Dante s'appella sopratutto .alla sua espe­rienza. Alcune sue rime che potremmo dire extravaganti, e non solo quelle petrose, parrebbero attestare che più d'una volta egli provò come amore « affrena e come sprona e come sotto lui si ride e geme ». Ma nell'epistola « Eructuavit incendium », che accompagnava il sonetto, egli cerca di giustificare filosoficamente la sua tesi:

Et fìdes huius, quanquam sit ab experientia persuasum, ratione potest et auctoritate muniri. Omnis namque potentia que post cor­ruptionem unius actus non deperit, naturaliter reservatur in alium: ergo potentie sensitive, manente organo, per corruptionem unius actus non depereunt, et naturaliter reservàntur in alium; cum igitur potentia concupiscibilis, que sedes amoris est, sit potentia sensitiva, manifestum est quod post corruptionem unius passiorìis qua in actum reducitur, in alium reservatur 2f17.

L'amore di cui canta Cino, e con lui gli altri stilnovisti, Dante compreso nelle rime dell'adolescenza non che in quelle petrose e in qualche altra, è dunque passione che risiede nel­l'appetito concupiscibile, sebbene più o meno purificato dal tocco leggero della poesia; e può cambiare d'oggetto, passando da una donna ad un'altra, senza che possiamo ribellarci ad esso o tenerlo a frerio colla ragione e la virtù. Questo confessava a Cino l'amico fiorentino, in un periodo della sua vita quando aveva ormai sco­perto che la radice profonda di tutti i nostri desideri è l'amore insito in noi per il bene perfetto.

Il pistoiese non tardò a far tesoro di questa filosofia dantesca. E di li a non molto confidava all'amico comune, il marchese Moroello Malaspina, che una nuova « mala spina » gli aveva punto il cuore, in guisa che sanguinando ne moriva. Al che il marchese rispondeva, a mezzo di Dante, che il vero amore non può albergare in « volgibile cor... ove stecco d'amor mai non fé foro », ma solo in cuore che sia veramente trafitto e mandi

2f17 Ep., III, 5.

l. Filosofia dell'amore nei rimatori italiani del Duecento e in Dante 67

fuori sospiri e lacrime sincere 208• E più seriamente Dante stesso

in proprio nome, come si conveniva ad uomo che ormai s'era del tutto dipartito da questo genere di rime non più confacienti alla sua età, lo ammoniva di non lasciarsi pigliare « a ogni un­cino », e con franchezza d'amico gli dava questa buona tirata di orecchi:

Chi s'innamora si come voi fate, or qua or là, e sé lega e dissolve, mostra ch'Amor leggermente il saetti. Però se leggier cor cosi vi valve, priego che con vertù il correggiate, si che s'accordi i fatti a' dolci detti 209 •

È difficile dire se l'ammonimento dell'amico riuscisse a rimet­tere sulla buona via il pistoiese; certo è invece che il rimprovero di volgibile cuore lo raggiunse in pieno, e che egli s'affrettò a discolparsi, sostenendo com'egli, cacciato dalla città natale e « fatto per greve essilio pellegrino », anche lontano per forza dalla sua donna, avesse pensato sempre a lei; e se aveva detto che altre donne l'avevano ferito, è perché in esse aveva trovato vicino a sé qualche somiglianza con quella che aveva abbandonata:

ch'un piacer sempre me lega ed involve, il qual conven che a simil di beltate in molte donne sparte mi diletti 210.

Il qual pensiero verrà ripreso dal Petrarca nel sonetto « Movesi il vecchierel canuto e bianco», insieme all'immagine del pelle­grino, di cui per altro il cantore di Laura, che non era « pian­gendo per lo mondo gito » per essere stato cacciato dal suolo natìo, farà una rappresentazione perfettamente oggettiva.

Dunque, prima Dante attribuiva all'amore sensuale una specie di fatalità, sl che gli pareva vano tentare di tenerne a freno la forza impetuosa colla virtù del consiglio; più tardi invece esor­tava l'amico pistoiese a correggere colla virtù la volubilità della passione amorosa.

208 Rime di Dante, CXII-CXIII. 209 Ibid., CXIV. 210 Ibid., CXV.

l l !

i

',o t ·;, •... l.

Page 32: DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE - lettere.uniroma1.it e la...Nella « Biblioteca di Cultura Moderna » prima edizione 1942 Nella

68 Dante e la cultura medievale

Questo affinamento del senso morale coincide colla conquista della sua libera personalità nella Commedia, e colla vittoria sulle passioni che ancora lo trattenevano sulla piaggia deserta, impe­dendogli l'ascesa al dilettoso colle.

Nel commento letterale alla canzone «Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete», Dante si domandava come va, se amore è effetto delle intelligenze del cielo di Venere, che la stessa virtù che aveva fatto sorgere in lui l'amore·per Beatrice, ora che questa era morta, aveva generato nel suo animo amore per la donna gentile. La risposta a questo problema è veramente interessante come documento del modo di pensar del poeta:

A questa questione si può leggermente rispondere che lo effetto di costoro è amore, com'è detto; e però che salvare noi possono se non m quelli subietti che sono sottoposti a la loro circulazione, esso transmutano di quella parte che è fuori di loro podestate in quella che v'è dentro, cioè de l'anima partita d'esta vita in quella ch'è in essa 211 •

Cecco d'Ascoli 212 poteva ben formare filosofiche ragioni con­tro la teoria esposta da Dante nel sonetto « Io sono· stato con amore insieme», e sostenere che quel che trae origine dal cielo «non prende mai contraria faccia»; ma Dante conosceva troppo bene l'arte di piegare a suo pro' i duttili principi dell'astrologia, nella quale, quando scriveva il Convivio, aveva fiducia non minore di quella dell'ascolano. E dalla varia disposizione del cielo traeva argomento per dimostrare come si produca nell'uomo più e men pura anima 213

• Ma nella Commedia, mosso dalle critiche dei teologi alle teorie astrologiche, non che dal bisogno di salvare il libero arbitrio che è la spina dorsale della personalità umana, faceva sulle influenze degli astri una sostanziale riserva:

Frate, lo mondo è cieco, e tu vien ben da lui.

Voi che vivete ogne ragion recate pur suso al cielo, pur come se tutto movesse seco di necessitate.

Se così fosse, in voi fora distrutto

211 Conv., II, VIII, 4-5. 212 L'Acerba, III, I, vv. 1974-82. 213 Conv., IV, XXI, 4, 7-8.

I. Filosofia dell'amore nei rimatori italiani del Duecento e in Dante

libero arbitrio, e non fora giustizia per ben letizia, e per male aver lutto.

Lo cielo i vostri movimenti inizia; non dico tutti, ma posto ch'i' 'l dica, lume v'è dato a bene e a malizia,

e libero voler; che, se fatica ne le prime battaglie col ciel dura, pòi vince tutto, se ben si notrica.

A maggior forza e a miglior natura liberi soggiacete; e quella cri a la mente in voi, che 'l ciel non ha in sua cura 214.

69

Liberatosi dal determinismo astrologico che uccideva nel­l'uomo la libertà del volere, il poeta chiede a Virgilio che gli « dimostri amore», al quale si riduce « ogni buon operare e 'l suo contraro ». E Virgilio risponde:

L'animo, ch'è creato ad amar presto, ad ogni cosa è mobile che piace, tosto che dal piacere in atto è desto.

Vostra apprensiva da esser verace tragge intenzione, e dentro a voi la spiega, sì che l'animo ad essa volger face;

e se, rivolto, inver di lei si piega, quel piegare è amor, quell'è natura che per piacer di novo in voi si lega.

Poi, come 'l foco movesi in altura per la sua forma ch'è nata a salire là dove più in sua matera dura,

così l'animo preso entra in disire, ch'è moto spiritale, e mai non posa fin che la cosa amata il fa gioire 215 •

In siffatta dottrina, nulla v'è di nuovo e di diverso da quello che abbiamo appreso da Iacopo da Lentini e da tutti i rimatori successivi che trattarono della natura dell'amore. La bellezza esistente fuori di noi imprime la sua immagine nella nostra facoltà conoscitiva, e questa per mezzo della fantasia la spiega interiormente, sì che nell'anima sensitiva nasce quell'appetito o desìo che è amore, e che non dà tregua all'innamorato, finché

214 Purg., XVI, 65-81. 21s Purg., XVIII, 13-33.

·i 1

' '·ti·.·. ..

~

Page 33: DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE - lettere.uniroma1.it e la...Nella « Biblioteca di Cultura Moderna » prima edizione 1942 Nella

70 Dante e la cultura medievale

questi non ha ottenuto la ricompensa delle sue pene, la mercede. Lo schema psicologico è esattamente lo stesso; di nuovo nell'espo­sizione di questa dottrina v'è soltanto l'armonia del verso, nella struttura del quale Dante è maestro insuperato, a tal segno che, come Rossini, anch'egli saprebbe far della bella musica perfino sulla lista del bucato.

Ma il pensiero del grande poeta non s'è contentato di ripe­tere in bei versi quello che molti avevano già detto a sazietà. Un dubbio s'affaccia al suo spirito, ed è tale da rivelare in lui la stoffa del pensatore acuto, abituato alla meditazione:

S'amore è di fuori a noi offerto, e l'anima non va con altro piede, se dritta o torta va, non è suo mertci 216.

Se l'uomo non ha una sua interiore misura del bene e del male, se bene è solo quello la cui immagine entra in noi dal di fuori e suscita nel nostro animo un sentimento di piacere, l'autonomia della coscienza morale è in noi irrimediabilmente annientata, e guida della nostra condotta sono soltanto le fugaci impressioni dei sensi, le illusioni del mondo esteriore. Un tal dubbio ci porta al cuore stesso della filosofia.

E Virgilio lo risolve, non senza consapevolezza della gravità di esso:

Quanto ragion qui vede dir ti poss'io; da indi in là t'aspetta pur a Beatrice, ch'è opra di fede.

Ogni forma sustanzial, che setta è da matera ed è con lei unita, specifica virtù ha in sé colletta,

la qual sanza operar non è sentita, né si dimostra mai che per effetto, come per verdi fronde in pianta vita.

Però, là onde vegna lo intelletto de le prime notizie, orno non sape, · e de' primi appetibili l'affetto,

che sono in voi, si come studio in ape di far lo mele; e questa prima voglia merto di lode o di biasmo non cape.

216 Purg., XVIII, 40-45.

I. Filosofia dell'amore nei rimatori italiani del Duecento e in Dante

Or perché a questa ogn'altra si raccoglia, innata v'è la virtù che consiglia, e de l'assenso de' tener la· soglia.

Quest'è il principio là onde si piglia ragion di meritare in voi, secondo che buoni e rei amori accoglié e viglia.

Color che ragionando andato al fondo, s'accorser d'esta innata libertade però moralità lasciaro al mondo.

Onde, poniam che di necessitate surga ogni amor che dentro a voi s'accende, di ritenerlo è in voi la podestate 217 •

71

Con siffatta dottrina che sottomette la passione al controllo della ragione e all'« innata virtù che consiglia », con questa dot­trina che riafferma la libertà del volere umano da ogni influenza venuta « di fuori », il principio che nella palestra d'amore « liber arbitrio già mai non fu.franco », il principio che proclamava la fatalità dell'amore, è ormai definitivamente superatO. Della nuova dottrina, intanto, il poeta faceva uso per rivedere il suo giudizio sul mondo poetico-morale della sua adolescenza.

11. La pietà per Francesca.

Quel mondo era caro al suo cuore quanto il ricordo di Bea­trice. Eppure egli non risparmia le sue censure agli spiriti più rappresentativi che ne facevano pàrte: non a Brunetto, che gli aveva insegnato « come l'uom s'etterna », e che pure egli danna sotto la pioggia di fuoco 218

; non al· Guinizelli, padre suo e degli altri suoi migliori « che mai rime d'amore usar dolci e leggiadre », al quale non risparm~a la pena dovuta a chi non servò umana legge, seguendo come bestia l'appetito amoroso, sebbene se ne fosse pentito prima di morire 219

; non a Guido Cavalcanti, cui rimprovera il disdegno per Virgilio 220

Molto s'è scritto sul ·disdegno di Guido per Virgilio. Fra le molte supposizioni fatte, ritengo più verosimili quelle che ten-

217 Purg., XVIII, 46-72. 21s In/., XV, 13-124. 219 Purg., XXVI, 76-93. 220 In/., X, 61-63.

l l Il

Page 34: DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE - lettere.uniroma1.it e la...Nella « Biblioteca di Cultura Moderna » prima edizione 1942 Nella

72 Dante e la cultura medievale

gono conto di ciò che Virgilio era per Dante. Lo studio del­l'Eneide aveva rivelato all'Alighieri una più alta forma di poesia e un più nobile e più virile concetto dell'amore che non fosse quello a cui s'erano fermati l'uno e l'altro Guido~ Nel poema virgiliano i medievali avevano creduto di scoprire sensi recon­diti, e sotto il velo dell'allegoria ritennero si celassero altissime dottrine filosofiche. Enea, che pur col cuore straziato segue la volontà del fato e si mostra insensibile alle disperate invocazioni di Didone, s'offriva alla mente di Dante come l'esempio del­l'uomo che, superata l'adolescenza, ha conquistato il perfetto do­minio di sé, ed ha raggiunto nella gioventù «li termini de la sua perfezione », perché in lui l'appetito naturale era cavalcato e tenuto a freno dalla ragione:

E cosl infrenato mostra Virgilio, lo maggiore nostro poeta, che fosse Enea, ne la parte de lo Eneida ove questa etade [la gioventù, ossia l'età matura] si figura; la quale parte comprende lo quarto, lo quinto e lo sesto libro de lo Eneida. E quanto raffrenare fu quello, quando, avendo ricevuto' da Dido tanto di piacere quanto di sotto nel settimo trattato si dicerà, e usando con essa tanto di dilettazione, elli si partìo, per seguire onesta e laudabile via e frut­tuosa, come nel quarto de l'Eneida scritto è! Quanto spronare fu quello, quando esso Enea sostenette solo con Sibilla a intrare ne lo Inferno a cercare de l'anima di suo padre Anchise, contra tanti pericoli, come nel sesto de la detta istoria si dimostra! Per che appare che, ne la nostra gioventute, essere a nostra perfezione ne convenga «temperati e forti» 221.

Questo non aveva imparato da Virgilio il Cavalcanti, il quale, chiuso nel suo pessimismo, aveva rinunziato a seguir Dante nel ricalcare le orme d'Enea, e s'era adagiato in una morale averroi­stica che lo isolava dalla società cristiana e tarpava in lui lo slancio della fantasia per più ardui voli 222•

221 Conv., IV, xxvr, 5-9. . 222 Sul «disdegno» di Guido, dopo il molto che se n'era scritto dopo

il Del Lungo, il D'Ovidio, il Pietrobono ed altri non pochi, è ritornato A. Chimenz (Il « disdegno » di ·Guido e i suoi interpreti, in Orientamenti culturali, l, 1945, pp. 179-188), sostenendo che il disdegno dell'averroista fiorentino anzi che contro Virgilio sia diretto contro Beatrice assunta a simbolo del pensiero teologico. [Cfr. ora, in proposito, B. Nardi, Dante e Guido Cavalcanti, in Saggi e note di critica dantesca, Milano-Napoli, Ric­ciardi, 1966, pp. 216-219].

I. Filosofia dell'amore nei rimatòri italiani del Duecento e in Dante 73

Ma il giudizio più severo sul mondo morale dello stilnovismo è pronunziato da Dante nel canto di Francesca. Come sia giudi­cato dall!J morale cristiana l'amore di cui cantano i poeti dei quali abbiamo· fatto cenno in principio di questo studio, e di cui tratta Andrea Cappellano, lo dice con schietta semplicità Chiaro Davanzati nella canzone:

Molti lungo tempo ànno de l'amor novellato, e divisatamente, che amore è e dond~à nascimento, ed ancora non ànno proprio vero trovato.

Per il Davanzati, vero amore è solo quello che vien da Dio; ogni desiderio carnale è tentazione del demonio; e amar donna che non sia la propria sposa, è peccato:

Dicie lo vangelisto che Dio fue primamente ch'ello criò quanto eie, con grande desiderio d'amore. Dunque, l'amor è Cristo e da lui è vegnente, da che l'amor non eie a lui dato per altro criatore ...

Non este orno vero se d'orno non è nato: ne l'amore non este disirar se da l'amore non vene. Amore propio e vero non este di peccato, e de lo peccato este voler donna che sua sposa non gli ène ...

Ongni disio carnale ello è tentamento che lo domonio facie ...

Anche per Dante ormai è peccato mortale, come per Chiaro, «voler donna che sua sposa non gli ène »; e per questo fa tor-

J

Page 35: DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE - lettere.uniroma1.it e la...Nella « Biblioteca di Cultura Moderna » prima edizione 1942 Nella

74 Dante e la cultura medievale

mentare dalla « bufera infernal che mai non resta » « i peccator carnali che la ragion sommettono al talento» 223

Ma nella rappresentazione dantesca ci colpiscono fin dal primo momento due particolari. Anzi tutto, il fatto che questi pecca­tori vengono prima e sono considerati meno rei dei golosi. San Gregorio Magno aveva detto che i « peccati carnali » hanno minor colpa dei «peccati spirituali »; e tra i peccati carnali aveva compreso anche la gola 224

• San Tommaso alla sua volta aveva giustificato questa dottrina, osservando che siffatti peccati « habent vehementius impulsivum, id est ipsam concupiscentiam carnis nobis innatam » 225, perché « maior concupiscentia praecedens iudicium rationis et motum voluntatis diminuit peccatum, quia qui maiori concupiscentia stimulatus peccat, cadit ex graviori tentatione, unde minus ei imputatur » 226

• Ciò non di meno, anche con quest'atte­nuante, egli sembra ritenere la lussuria un peccato più grave della gola m.

Un altro particolare degno di nota, si è che i peccatori nomi­nati nel secondo cerchio non sono spiriti volgari, ma « gente di valor »; come direbbe il Cavalcanti, cioè « cuori gentili ». Sono le « donne e i cavalieri » delle storie antiche e dei romanzi medie­vali, che pascevano la fantasia dei giovani delle classi agiate, avida di piacevoli fole. Messo dinanzi a questo mondo poetico che aveva dilettato la sua adolescenza, Dante prova per i pecca­tori carnali un sentimento di pietà e n'è « quasi smarrito » 228

Sullo sfondo tempestoso delle vecchie storie d'amore, tra rossi bagliori di violenza e sangue, è disegnato l'episodio stilnovista di Francesca da Rimini.

La donna che nella presente miseria si esalta nel ricordo del tempo felic,_e, e, dannata, non si pente della sua colpa perché petrificata in essa 229

, anzi filosofeggia. Filosofeggia riecheggiando

.223 Inf., V, 31-39. 224 Moralia, XXXIII, IL

225 Summa theol., l' nae, q. 73, a. 5. 226 Summa theol., I· nae, q. 73, a. 6, ad 2Um; cfr. Il' nae, q. 154,

a. 3, ad zum. m Summa theol., n• nae, q. 148, a. 3; De malo, q. 15, a. 2, ad 6um. 228 In/., V, 42-72. 229 S. Agostino (o meglio Fulgenzio), De fide ad Petrum, c. 3, n. 38:

« voluntas eorum talis erit, ut habeat in se semper malignitatis suae suppli­cium ... Consortibus diaboli cumulabit ipsa malignitas poenam ». Questo passo citat<J>da Pietro Lombardo, Sent., IV, dist. 50, esprimeva un concetto teo­logico comune nel medio evo. S. Bonaventura, Breviloquium, VII, c. 6,

I. Filosofia dell'amore nei rimatori italiani del Duecento e in Dante 75

concetti del Guinizelli. Mentre narra la sua storia, si difende; e, difendendosi, accusa. Nel verso «Amor ch'al cor gentil ratto s'apprende » 230, tu riconosci una eco intenzionale di quello del poeta bolognese: «Poco d'amore in gentil cor s'apprende» 231

Sembra dire: - Voi poeti, non avete forse insegnato che amore e cuor gentile sono una cosa sola, e l'uno non può stare senza l'altro? Qual meraviglia, dunque, se il cuor gentile di costui fu preso della mia bellezza? E non avete voi insegnato del pari che chi s'accorge d'essere amato pon può non ricambiare l'amore, se non ha animo spietato e selvaggio? Non avete sempre rappre­sentato l'amore come un tiranno che impone la sua signoria ai cuori e li costringe ad amare? - La breve ma concitata e baldanzosa narrazione che Francesca fa del suo caso, è un rias­sunto fedelissimo della filosofia dell'amore nei poèti prima di Dante e in Dante stesso prima della Commedia, ed è d'una logica serrata: - Amore costrinse lui ad amarmi; amore costrinse me a riamarlo; « amor condusse noi ad una morte». Dani:e riflette:

oh lasso, quanti dolci pensier, quanto disio menò costoro al doloroso passo! 232 •

Veramente, Francesca non s'era in alcun modo diffusa a par­lare dei suoi « dolci pensieri » né di quelli del compagno; ma Dante ha capito tutto il doloroso drainma, perché era il dramma dell'amore a lui ben noto, e il semplice accenno ai canti della sua adolescenza era bastato a ridestare in lui 11 ricordo non lontano di un mondo caro al suo cuore di poeta.

La storia di Francesca è una storia di passione e di peccato, troncata nell'attimo stesso del primo ed ultimo bacio, certezza e consenso ai « dubbiosi desiri », dalla morte che ha il potere di fissare per l'eternità quello che è l'ultimo nostro pensiero. Quella certezza e quel consenso son quanto i poeti stilnovisti chiama­vano la « mercede », il « guiderdone », il « frutto » delle pene d'amore.

n. 5: « Voluntas eius (cioè damnati) post mortem semper malo adhaeret sine susceptione poenitentiae ''· Cfr. S. Tommaso, Summa theol., Il' nae, q. 13, a. 4; Contra gent., IV, 93, 94.

230 In/., V, 100. . 231 Rime di G. Guinizelli, V, u. 232 In/.,, V, 112-114.

t t

' .i

l -~ \

- 1

Page 36: DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE - lettere.uniroma1.it e la...Nella « Biblioteca di Cultura Moderna » prima edizione 1942 Nella

76 Dante e la cultura medievale

Come ben dice il De Sanctis 233 , Dante in questo dramma rap­presenta la parte del coro che esprime la sua umana pietà sulla tragedia di queste due anime affannate. Ma tutto intento a mo­strarci in Francesca « la prima donna viva e vera apparsa sul­l'orizzonte poetico de' tempi moderni», «la prima donna del mondo moderno », non senza qualche grano di retorica enfasi, il De Sanctis non sembra essersi accorto che l'animo del poeta è agitato da due opposti sentimenti, come invece ha ben visto il Croce 234

, che contrastano fra loro, e dal cui contrasto deriva il carattere tragico dell'episodio. Ardente di quella amorosa pas­sione che avevano cantato i poeti provenzali e italiani e Dante stesso, Francesca merita anzi tutto la pietà che volentieri si con­cede a chi pecca per umana fragilità, e non per malizia. Ma col sentimento della pietà contrasta la nuova coscienza morale e cri­stiana di Dante il quale, pur compassionando i due amanti, non perdona ad essi l'aver sottomesso la ragione al talento e il non aver resistito alla passione, e li danna. E con essi dannava quanto v'era d'insidioso nella dottrina della fatalità dell'amore 235, di cui s'ammantava quella raffinata sensualità che, anche quando non sboccava nel « fatto »,.conduceva ad almanaccare colla fantasia quel che il Giusti chiamerebbe «un pudico adulterio» 236• Tanto

233 Saggi e scritti critici e vari, a cura di L. G. Tenconi, vol. III, Mi­lano 1938, pp. 351-368. Giuste riserve all'interpretazione desanctisiana e d'altri dell'episodio dantesco ha fatto M. Barbi, nello studio su Francesca da Rimini, in Studi danteschi, XVI, 1932, ripubblicato nel denso volumetto Dante, vita, opere e fortuna, Firenze, Sansoni, 1933, pp. 171-206, e di nuovo nel vol. Con Dante e coi suoi interpreti, Firenze, Le Monnier, 1941, pp. 117-151.

234 La poesia di Dante, Bari, Laterza, 1921, pp. 77-79.

235 Che non è precisamente una condanna né un rinnegamento delle dottrine sull'amore un giorno professate da Dante, come vuole M. Fubini in un importante articolo su Il peccato di Ulisse (nella rassegna Belfagòr, II, 1947, p. 462 n. [poi ristampato nel vol. Il peccato. di Ulisse e altri scritti danteschi, Milano-Napofi 1966, pp. 1-36]), del quale sarà detto più oltre, ma piuttosto una purificazione e una correzione.

236 Ritengo che nella lonza, che costituisce il primo impedimento a salire sul « dilettoso monte », sia simboleggiata la concupiscenza (Émi}v(..Lia) di cui parla Aristotele nell'Eth. Nicom., VII, c. 7, 1149 b 15-17: « concu­piscentia autem quemadmodum Venerem aiunt, dolosae enim cyprigenae et variam· corrigiam. Et Homerus: 'Deceptio quae furata est intellectum spisse sapientis '». Il « pel maculato » (In/., I, 33), la pelle « gaetta » (ibid., 42) o dipinta (In/., XVI, 10.8) parrebbero infatti derivare dalla «varia corrigia » dell'astuta Ciprigna, ossia dal ricamato cinto di Venere, del quale parla Omero (Iliade, XIV, 214-217), e in cui erano i lenocinii dell'amore e le allettanti parole che rubano il senno anche ai saggi. Questa derivazione

I. Filosofia dell'amore nei rimatori italiani del Duecento e in Dante 77

pudico che più d'un critico v'ha ravvisato influenze platoniche e perfino mistiche!

Era opinione del Manzoni, non condivisa però dal Fogazzaro, che «non si deve scrivere d'amore in modo da far consentire I'animo di chi legge a questa passione». E lo stesso Manzoni aggiungeva: «L'amore è necessario a questo mondo; ma ve n'ha quanto basta, e non fa mestieri che altri si dia la briga di colti­varlo; ... col volerlo coltivare, non si fa altro che farne nascere dove non fa bisogno. Vi hanno · altri sentimenti dei quali il mondo ha bisogno» 237

• Sono parole queste un po' fuori d'uso, oggi; ma ritengo che l'autore della Divina Commedia non le avrebbe disapprovate.

Non per vana e indiscreta curiosità, com'è stato giustamente osservato 238

, ma per comprender meglio come la passione che s'era accesa nei loro cuori condusse i due cognati al peccato, il poeta chiede a Francesca a che segno e in che modo arrivarono a rivelarsi i « dubbi~si desiri » e ad esser certi della reciproca corri­spondenza. Il Cavalcanti aveva detto, e Dante lo sapeva, che l'amore

de simil tragge complessione sguardo che fa parere lo piacere certo; non pò coverto - star quand'è sl giunto 239•

Ma non da sguardi di simile complessione ebbero certezza essa e Paolo che l'amore ardeva nel cuore d'entrambi. La lettura d'un

della lonza dal cinto di Venere parrebbe confermata dall'accenno alla corda di cui Dante era cinto e colla quale «alcuna volta» pensò di prender la fiera (In/., XVI, 106-8). Giacché la corda parrebbe il biblico « cingulum lum­borum » che gl'interpreti della Sacra Scrittura vogliono sia simbolo ora della giustizia ora della castità e della continenza [ora si veda anche, su ciò, B. Nardi, Novità sul «getto della corda» e su Gerione, nel vol. Saggi e note di critica dantesca, cit., pp. 332-354].

237 A. Fogazzaro, Discorsi, Milano 1898, p. 3 sgg.; G. Negri, Commenti critici estetici e biblici sui Promessi Sposi, Milano 1903; G. Mazzoni, L'Otto­cento, Milano, F. Vallardi, 1913, parte I, pp. 280-281 [questa pagina di Manzoni si può ora leggere in Opere di A. Manzoni, vol. III, Scritti non compiuti, poesie giovanili e sparse, lettere pensieri giudizi, a cura di M. Barbi e F. Ghisalberti, Milano 1950, pp. 615-616]. Dice il Fubini che il Manzoni «non avrebbe mai scritto il canto di Francesca». Però egli scrisse l'episodio della monaca di Monza; e, dopo averlo scritto, tornò a riscriverlo.

238 Cfr. M. Barbi, Con Dante e coi suoi interpreti, p. 147 sg. 239 Rime di G. Cavalcanti, I, 57-59; cfr. sopra, p. 33.

Page 37: DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE - lettere.uniroma1.it e la...Nella « Biblioteca di Cultura Moderna » prima edizione 1942 Nella

78 Dante e la cultura medievale

romanzo d'amore fornì l'occasione desiderata e imprevista al com­pimento dei loro non ancor ben fermi desideri:

Noi leggiavamo un giorno per diletto di Lancialotto come amor lo strinse; soli eravamo e sanza alcun sospetto!

Per più fìate li occhi ci sospinse quella lettura, e scolorocci il viso; ma solo un punto fu quel che ci vinse.

Quando leggemmo ... Galeotto fu il libro e chi lo scrisse: quel giorno più non vi leggemmo avante.

L'appassionato racconto è fatto dalla donna, più facile ad esser vinta dalla passione; in bocca di Paolo sarebbe stato meno conveniente; questi accompagna col pianto silenzioso e conferma coi singhiozzi la rievocazione di quell'ora suprema, che unì i due amanti in un attimo etern.o d'ebbrezza e di dannazione.

Or ti puote apparer quant'è nascosa la veritate a la gente ch'avvera ciascun amore in sé laudabil cosa 240.

Più forte della passione amorosa è il libero volere guidato dalla virtù del consiglio:

Onde, poniam che di necessitate surga ogni amor che dentro a voi s'accende, di ritenerlo è in voi la podestate 241 •

Il dolce tormento d'amore, come l'avevano cantato e conti­nuavano a cantarlo molti rimatori, era un aspetto della vita, non tutta la vita; e la loro poesia non era tutta la poesia. Deli­cata, sentimentale, fatta di gorgheggi d'usignolo, l'arte di quei rimatori ignorava la complessità della vita nei suoi molteplici e svariati aspetti: era idillio, monodia petrarchesca, cui la lira di messer Francesco darà i più patetici toni e fremiti sconosciuti. La nuova arte alla quale s'è rivolto il genio di Dante, è il poema. Tutta la vita nelle sue più complicate forme, tutti i sentimenti

240 Purg., XVIII, 34-36. 241 Ibid., 70-72.

I. Filosofia dell'amore nei rimatori italiani del Duecento e in Dante 79

che s'agitano nel cuore umano, dai più bestiali ai più divini, sono divenuti materia dell'altissimo canto. Il sacro e il profano, la terra e il cielo, l'oscena bestemmia di Vanni Fucci e l'orazione di san Bernardo, il sommesso sospirare e l'angelico trionfale Alle­luia si fondono in una polifonia piena, solenne, ricca di armo­niche dissonanze, quale non s'era mai udita.

Eppure in questo sovrumano coro di voci che s'elevano dalla sua anima presa dalla gioia del canto, i freschi motivi della poesia giovanile non sono stati dimenticati, e un orecchio attento può riconoscerli intrecciati a quelli or gravi e lenti, or concitati e impetuosi, or pacati e solenni dell'età matura. Così non s'è spento nel suo cuore l'amore che v'accesero gli occhi della fanciulla amata nella sua adolescenza 242

; ma anzi, purificato da ogni nube di mortalità, è diventato luce della sua vita, nell'ascesa dall'in­fima lacuna dell'universo alla gloria di Dio, « amor che muove i1 sole e l'altre stelle ».

242 Cfr. Purg., XXX, 32-33, 40-42, 48, 64, 115-138. Nel canto della ca­rità, Par., XXVI, uno spirito esorta il poeta, la cui vista è «smarrita e non defunta», a confidare nella donna che lo guida e il cui sguardo ha «la virtù ch'ebbe la man d'Anania », cioè il potere di curare la cecità. E il poeta, ricordando la virtù di quello sguardo che in terra aveva trovato la prima volta gli occhi di lui, e per gli occhi aveva acceso nel suo cuore la fiamma d'amore, riconosce in quel primo amore, come in tutti gli altri amori del cuore umano, pur diversi tra loro d'ardore, lo svegliarsi di quel naturale desiderio del bene che fa contenti i beati in Paradiso ed è principio e fine di tutti i desideri delle creature (vv. 7-18):

Io dissi: « Al suo piacere e tosto e tardo vegna rimedio a li occhi, che fuor porte quand'ella entrò col foco ond'io sempr'ardo.

Lo ben che fa contenta questa corte Alfa ed O è di quanta scrittura mi legge Amore o lievemente o forte».

il~ ~

~ ~

l