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DOBBIAMO ALL’ETOLOGO FRANCESE JEAN-JACQUES PETTER L’INVEN- zione del termine noyau (nucleo) per definire le società ad antagoni- smo interno. Quelle fondate sulla convivenza fra individui reciproca- mente ostili. Petter aveva individuato nel Lepilemur o lemure sportivo, protoscimmia del Madagascar, la specie da noyau per eccellenza. Tra- scorrendo dalle scimmie agli umani, il suo collega americano Robert Ardrey individuò nell’italiano l’idealtipo da noyau. Gli abitanti del noyau «lavorano per la divisione e per una grave mutilazione emotiva». Il contrario della nazione, dove «tutte le forze lavorano per il compro- messo e la pace interna». Sicché «le nazioni producono eroi, il noyau geni». «Il noyau guarda con occhio scettico l’eroe e spera che egli non cacci nessuno troppo nei guai» 1 . Stereotipi? Certo. Ma come tutte le leggende, anche quelle sul «carat- tere nazionale» attingono a un fondo di verità. «Right or wrong my country» non è il nostro pane quotidiano. Su questo sfondo conviene rileggere l’inciso con cui Massimo D’Ale- ma, aprendo il 21 febbraio in Senato il dibattito sulla nostra politica estera, ha indicato la premessa di qualsiasi geopolitica italiana: «Una cosa è certa. Un paese come l’Italia, che non è una grande potenza, non può ingaggiare sfide così delicate e complesse come quelle in cui siamo impegnati senza un consenso politico forte e chiaro» 2 . Il caveat dalemiano riassume il problema della politica estera ita- liana: come evitare che resti ostaggio dei teatrini di Montecitorio e delle corporazioni nostrane, che identificano l’interesse nazionale con il proprio, naturalmente opposto a quello della bottega rivale. Tanto che salvo rare eccezioni i politici italiani considerano superfluo interessar- 1. Cfr. R. ARDREY, L’imperativo territoriale, Milano 1984, Giuffré, pp. 224 ss. 2. «Comunicazione del Ministro degli Affari Esteri sulle linee di politica estera», bozze non corrette re- datte in corso di seduta, 21-2-2007, http://www.esteri.it/ita/0_1_01.asp?id=1905 MAI DIRE GUERRRA Cronopios e famas 7 007-22 Lim 3-07 Edito ok.qxd 8-05-2007 14:10 Pagina 7

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DOBBIAMO ALL’ETOLOGO FRANCESE JEAN-JACQUES PETTER L’INVEN-zione del termine noyau (nucleo) per definire le società ad antagoni-smo interno. Quelle fondate sulla convivenza fra individui reciproca-mente ostili. Petter aveva individuato nel Lepilemur o lemure sportivo,protoscimmia del Madagascar, la specie da noyau per eccellenza. Tra-scorrendo dalle scimmie agli umani, il suo collega americano RobertArdrey individuò nell’italiano l’idealtipo da noyau. Gli abitanti delnoyau «lavorano per la divisione e per una grave mutilazione emotiva».Il contrario della nazione, dove «tutte le forze lavorano per il compro-messo e la pace interna». Sicché «le nazioni producono eroi, il noyaugeni». «Il noyau guarda con occhio scettico l’eroe e spera che egli noncacci nessuno troppo nei guai» 1.

Stereotipi? Certo. Ma come tutte le leggende, anche quelle sul «carat-tere nazionale» attingono a un fondo di verità. «Right or wrong mycountry» non è il nostro pane quotidiano.

Su questo sfondo conviene rileggere l’inciso con cui Massimo D’Ale-ma, aprendo il 21 febbraio in Senato il dibattito sulla nostra politicaestera, ha indicato la premessa di qualsiasi geopolitica italiana: «Unacosa è certa. Un paese come l’Italia, che non è una grande potenza,non può ingaggiare sfide così delicate e complesse come quelle in cuisiamo impegnati senza un consenso politico forte e chiaro» 2.

Il caveat dalemiano riassume il problema della politica estera ita-liana: come evitare che resti ostaggio dei teatrini di Montecitorio e dellecorporazioni nostrane, che identificano l’interesse nazionale con ilproprio, naturalmente opposto a quello della bottega rivale. Tanto chesalvo rare eccezioni i politici italiani considerano superfluo interessar-

1. Cfr. R. ARDREY, L’imperativo territoriale, Milano 1984, Giuffré, pp. 224 ss.2. «Comunicazione del Ministro degli Affari Esteri sulle linee di politica estera», bozze non corrette re-datte in corso di seduta, 21-2-2007, http://www.esteri.it/ita/0_1_01.asp?id=1905

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si di ciò che accade oltre le nostre frontiere, giacché verrà comunqueinterpretato in chiave domestica: la politica estera come politica inter-na all’estero.

Un’altra Italia è possibile

Tale cortocircuito non è solo italiano. Non v’ha democrazia almondo che non debba convivervi. A distinguerci è la peculiarissimadifficoltà di produrre una sintesi politica per carenza di premesse con-divise su senso e obiettivi della comunità nazionale. Ciò che compro-mette la credibilità dell’iniziativa italiana nel mercato geopolitico glo-bale. La parabola delle nostre missioni all’estero è il rivelatore principedi questa tabe.

Dalla fine della seconda guerra mondiale l’Italia ha partecipato a108 missioni militari fuori dai confini nazionali. Ad oggi ne sono incorso 24 (carta a colori 1). Tutte ufficialmente incorniciate negli strettivincoli costituzionali (in particolare l’articolo 11), ossia sul «ripudiodella guerra» e sulla disponibilità a contribuire a missioni plurinazio-nali di ristabilimento della pace in coerenza con il capitolo VII dellaCarta dell’Onu. In caso di emergenza – come in Albania, con l’opera-zione Pellicano – anche muovendoci da soli.

Con l’eccezione della spedizione in Libano (1982-84), durante laguerra fredda le nostre proiezioni esterne erano molto limitate in uo-mini, mezzi e visibilità politico-mediatica. Dalla prima guerra delGolfo (1990-91) alla Somalia (1992-94), ai conflitti balcanici (soprat-tutto nel quinquennio 1995-99), fino all’attuale rivoluzione geopoliticanel mondo islamico nota come «guerra al terrorismo», la proiezioneesterna delle Forze armate italiane ha coinvolto contingenti sempre piùcorposi. In questi anni gli italiani hanno riscoperto i nostri soldati. E,in genere, li hanno apprezzati in quanto «soldati di pace». La professio-nalità e l’umanità degli italiani in uniforme ha contribuito a creareconsenso se non su ogni singola missione, almeno sull’utilità dello stru-mento militare impiegato in operazioni di pace.

Tale corrente di simpatia si è fondata sul «peacekeeping all’italia-na», marchio di fabbrica delle nostre Forze armate. Il nostro soldatonon ama sparacchiare a casaccio, è insieme efficiente e generoso, siidentifica con le popolazioni terrorizzate e bisognose. Questa l’immagi-ne dominante, almeno negli anni Novanta. Condita con qualche pro-pagandismo un po’ mellifluo, quasi che l’attività principale dei nostriuomini (e donne) all’estero consistesse nel distribuire leccalecca aibambini. Non sappiamo quanto tale crisma resista tuttora: purtroppo lepreziose rilevazioni di Difebarometro sono ferme al 2005, quando si

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cominciava a manifestare una certa erosione del consenso alle Forzearmate (58%, contro il 67% del 2002) 3. Forse oggi questa tendenza ri-sulterebbe più accentuata.

Qualcosa è cominciato a cambiare già con la guerra del Kosovo,alla quale abbiamo partecipato senza preoccuparci della coperturaOnu. Si scatenò allora un balletto semantico che ci accompagna inogni missione delicata. L’essenziale è non chiamare le cose con il loronome. Mai dire guerra.

Nel caso kosovaro, ci siamo raccontati la tragica favola del «genoci-dio», poi abbiamo battezzato «difesa integrata» le nostre bombe lanciatesulle città jugoslave. Insomma, ci capita di fare la nostra piccola guer-ra, non più pulita o meno sporca di quelle altrui, senza poterlo/volerlodire. Perché se lo dicessimo – si argomenta in camera caritatis – mine-remmo il consenso indispensabile a sostenere le missioni. In fondo, èun modo di ottemperare al postulato di D’Alema, rovesciandone la pre-messa: se non è possibile consentire sulla realtà effettiva, meglio co-struirne una virtuale. Purché serva a salvare la facciata (e il governo).Spesso funziona. Non aiuta però a coltivare un dibattito genuino. Per-ché sconta l’immutabilità del noyau.

La svolta si è compiuta con la «guerra al terrorismo». Le nostre mis-sioni di pace sono diventate più impegnative, visibili, controverse. Inparticolare nel caso iracheno, ieri, in quello afghano oggi. Antica Ba-bilonia (Iraq) e Isaf (Afghanistan) rispecchiano il dilemma fra fedeltàatlantica e vincoli domestici. Due priorità difficilmente componibili. Diqui una certa schizofrenia. In Iraq, ad esempio, non abbiamo parteci-pato all’attacco americano a Saddam – a differenza degli alleati bri-tannici e polacchi – salvo inviare un cospicuo contingente nel presuntodopoguerra e poi ritirarlo quando è risultato evidente che la guerracontinuava e l’opinione pubblica italiana non la sentiva propria.

È così arduo compiere scelte nette? Siamo obbligati a oscillare frafedeltà agli Usa e vincoli nazionali – ossia, visti da Washington, fraservilismo e tradimento?

No. Un’altra Italia è possibile. A una condizione: rispettare il principio di realtà, non raccontarci

frottole, scommettere sulla maturità degli italiani, liberare la discussio-ne pubblica dalle autocensure. Così contribuiremmo, fra l’altro, a pro-teggerci dalla dietrologia, inevitabile danno collaterale della langue debois.

Per valicare la linea d’ombra che ci separa da un’Italia adulta eresponsabile, serve l’impegno di chi ci dirige. Se alcuni fra i migliori

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93. Cfr. Difebarometro, rapporto n. 8, settembre 2005, a cura dell’Archivio Disarmo, www.archiviodi-sarmo.it

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leader della repubblica continueranno a ritenere che per salvare l’Ita-lia occorre inserirla in qualche orbita altrui – che non esiste – piuttostoche definire autonomamente il nostro profilo per contare nel negoziatopermanente con i partner europei e atlantici, resteremo confitti in unapparente destino. Finché aderiremo al pessimismo sul nostro vero opresunto carattere nazionale, non avvicineremo l’obiettivo. Dovremmofar qualcosa che ci riesce difficile: darci fiducia. Rispettarci, per essererispettati.

Su questa base sarà più agevole intendere fuori da ogni tabù i mu-tamenti del contesto globale nel quale operiamo. Di qui prenderanno lemosse i decisori, cui spetta l’onere di ridurre la complessità delle anali-si in scelte operative. Soprattutto quando si dovrà stabilire se e comepartecipare a missioni militari. Comunque le si voglia chiamare.

L’alleanza che non c’è

Come cambia il mondo in cui dobbiamo agire ed eventualmentecombattere? Anche qui, la dimensione militare aiuta a capire. Se paesiformalmente alleati si (dis)impegnano sul terreno secondo logiche na-zionali, vuol dire che tanto alleati non sono. Non è solo questione diculture diverse, di propensione alla guerra o di vocazione pacifica, diMarte o di Venere. È soprattutto materia di interessi. Soggetti molto di-versi per storia e per valori possono collaborare quando i loro obiettivistrategici convergono. È capitato ad americani e sovietici. Ma Stati affi-ni per radici ideologiche e impianto istituzionale finiscono per conflig-gere (pacificamente, si spera) quando i loro interessi vitali divergono. Èquanto accade oggi agli atlantici.

La potenza dominante nell’Alleanza è impegnata in una disastrosaguerra globale che ne sta minando influenza, prestigio, credibilità.Proprio gli obiettivi che presumeva di centrare con le esibizioni di for-za in Afghanistan e in Iraq. Sicché oggi la Nato, nostro riferimentostrategico per eccellenza, è un mastodonte senz’anima. Meglio, contante anime diverse: filoarabi e filoisraeliani, filorussi e russofobi, ame-rikani e occidentali per caso, ciascuno con le sue agende, i suoi caveat,i suoi cartellini gialli e rossi agitati contro le iniziative sgradite deipartner.

Per Washington la Nato può servire solo come strumento della suastrategia rivoluzionaria. Nel 2001 Bush ha deciso che questo assettogeopolitico non è sicuro per gli Stati Uniti e che un altro mondo, o al-meno un altro Medio Oriente, è possibile. L’America si suppone a untempo leader di questo mondo e levatrice di uno nuovo. In nome diuna missione universale che non le è peraltro riconosciuta da alcunaltro attore di rilievo, Gran Bretagna forse esclusa.

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Per un paese come il nostro, e per la maggior parte dei partner con-tinentali – la Vecchia Europa del vecchio Rumsfeld – intimamente con-servatori, il sovversivismo geopolitico di Bush è anatema. Gli esiti prov-visori delle sue campagne militari hanno consolidato tale giudizio,non solo europeo, facendone quasi un luogo comune. Di più. Per l’Ita-lia come per gli altri partner europei, pacifici per necessità o per espe-rienza, l’obiettivo della politica estera in tutte le sue componenti – poli-tica, economica, diplomatica, militare – è la stabilità. Lo ha specificatoa chiare lettere Giorgio Napolitano, osservando che la presenza dellenostre Forze armate nelle aree di crisi «non è stata mai finalizzata al-l’obiettivo di esportare la democrazia», pulsione che il presidente dellaRepubblica considera «molto ambigua e molto controversa» 4.

Fosse per i veteroeuropei il Muro di Berlino sarebbe ancora in pie-di e con esso l’Unione Sovietica, pegno della protezione e dell’aiutoamericano. Se per gli americani ogni problema deve avere una solu-zione, ove necessario armi in pugno, per gli europei deve avere unaconferenza. Quando non si può ignorarlo. Se sul terreno il soldatoamericano si corazza nelle sue protezioni ipertecnologiche e pretendedi essere temuto, l’europeo preferisce travestirsi da quasi civile e vuoleessere amato.

Un solo esempio. Mentre l’aviazione americana in Afghanistanbombarda senza troppo distinguere fra insorti, terroristi e passanti,una parte della fanteria olandese adotta un profilo bassissimo. Da coo-peranti. Soldati senza casco si aggirano fra la povera gente della pro-vincia di Uruzgan a riparare scuole e moschee, allestire ospedali dacampo e insegnare ai locali come si ripara un generatore o si costrui-sce un ponte. «Non siamo qui per combattere i taliban. Siamo qui perrenderli irrilevanti», spiega il colonnello Hans van Griensven 5. Blasfe-mia all’orecchio del suo comandante Nato, il generale americano DanMcNeill. E la chiamano alleanza.

Nel contesto attuale è quindi improbabile che si determini la costel-lazione per noi ottimale: la convergenza fra europei e americani conla benedizione dell’Onu (e magari del papa). A maggior ragione è dif-ficile calibrare le missioni militari. Sul piano interno, perché la logicastrumentale della politichetta – il governo manda le truppe e l’opposi-zione protesta, salvo ripetere la scena a parti invertite – tende a render-le divisive piuttosto che funzionali al perseguimento di interessi nazio-nali. Nei rapporti con i partner europei, atlantici o onusiani, perchéciascuno coltiva una propria idea su senso, utilità, scopi reconditi oespliciti dell’impresa. Per i soldati sul campo, questo significa spesso im-

4. S. BUZZANCA, «La democrazia non si esporta», la Repubblica, 12/4/2007.5. C.J. CHIVERS, «Dutch Soldiers Stress Restraint in Afghanistan», The New York Times, 6/4/2007.

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provvisare in assenza di ordini chiari. Arte nella quale abbiamo pochirivali. Ma così la missione diviene fine a se stessa.

Su questo sfondo, tre sembrano le aree davvero rischiose per i nostrisoldati all’estero. In ordine crescente: Balcani, Libano e Afghanistan.Vediamo.

Eterni Balcani

L’ex Jugoslavia è un vulcano ancora attivo. Nuove eruzioni sonopossibili soprattutto in Bosnia e in Kosovo, con ripercussioni in Mace-donia e in Albania. Paesi nei quali schieriamo oltre 2.800 uomini.

Nei Balcani adriatici gli americani hanno interessi minori: basimilitari (la più importante è quella kosovara di Camp Bondsteel), in-fluenza geopolitica in funzione anti-russa, controllo dell’Adriatico, vi-gilanza sulle ramificazioni jihadiste. Per il resto, hands off: Bush haaltre priorità.

Al contrario, dopo aver affiancato gli Usa nelle guerre in Bosnia ein Kosovo, noi europei restiamo in prima fila nella gestione del dopo-guerra. Per l’Italia la stabilizzazione dei Balcani è una necessità stra-tegica, visto che dalla frontiera orientale continuano a premere versola penisola traffici di droga, armi ed esseri umani (carta 1 e carta a co-lori 2), senza trascurare le piattaforme jihadiste incistate soprattuttonella Bosnia centrale.

Nei prossimi mesi si annuncia una crisi in Kosovo, dove la maggio-ranza albanese sta per proclamare l’indipendenza. La Nato è ovvia-mente divisa: gli americani sostengono l’autodeterminazione dei koso-vari, fra gli europei molti (fra cui noi) sono tiepidi, temendo un effettodomino nella regione e non solo. Consci che il fardello kosovaro alla fi-ne lo porterà l’Unione Europea, perché quello staterello sarà incapacedi reggersi sulle sue gambe e gli americani pensano di aver già dato.L’emancipazione di Pristina, de jure provincia serba, viola infatti lalegge non scritta per cui solo le repubbliche ex jugoslave possono diven-tare Stati internazionalmente riconosciuti. Un segnale anzitutto per iserbi e i croati di Bosnia, come per gli albanesi di Macedonia. Duepseudo-Stati sempre in bilico. Se crollassero, l’Italia sarebbe il primopaese europeo ad assorbirne le onde sismiche.

Inoltre, l’emancipazione formale del Kosovo contro la volontà diBelgrado significa isolare la Serbia, sbarrarle la strada verso la Nato el’Unione Europea, eccitarne le più cupe pulsioni nazionaliste e spinger-la verso la Russia. Mosca si vedrebbe così gentilmente regalato il piùimportante Stato ex jugoslavo, a completare la catena di territori sottosuo controllo o forte influenza che le offrono l’agognato sbocco sull’A-

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driatico: dalla Transnistria, via Moldova e Romania, alla Serbia e alMontenegro. Dove non poterono le divisioni di Stalin può la divisionefra gli occidentali. Putin ringrazia.

L’esercizio cui ci siamo dedicati in questi anni insieme ai partnereuropei e atlantici – dimenticare i Balcani – si sta rivelando wishfulthinking. Sarà bene abituarci a convivere con questa parte apparente-mente intrattabile del nostro «estero vicino», meglio se in modo più con-sapevole e attivo. Non solo reagendo ai conflitti, ma prevenendoli. Ciòche finora abbiamo stentato a fare. A che serve mandare truppe a se-dare le crisi (o a provocarle), se poi la politica e l’economia non seguo-no? L’Albania di oggi ha già dimenticato Pellicano (1991-93) e Alba

G R E C I A

ScutariKukës

Pristina

Prizren

Sofia

Tirana

Fieri

Debar

Salonicco

Trafficodi eroinadalla Turchia

Kakavi

Gjirokastra

Trafficodi eroina

per l’Italiae l’Europa

Trafficodi eroina

per l’Italiae l’Europa

M A C E D O N I A

S E R B I A

M O N T E N E G R O

A L B A N I A

Traffico di eroinaverso la Slovenia

Traffico di eroinaverso la Croazia

e poi via mareverso l’Europa

Trafficodi eroina

per l’Italiae l’Europa

B U L G A R I A

UlcinjSkopje

Pec

PodgoricaPresevo

Lezha

Bar

BajramCurri

Durazzo

K O S O V O

Rotte in espansionedei traffici di eroina

Rotte in calodei traffici di eroina

Centri di smistamentodell’eroina

1 - NUOVE ROTTE BALCANICHEConfine senza strade

di collegamentoe di controllo

SANGIACCATO

Valona

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(1997), operazioni militari e civili di successo, ma geopoliticamente edeconomicamente sterili. E pensare che qualcuno, tra cui diversi alba-nesi, immaginava di farne la ventunesima regione italiana…

Libano in stallo

Il Libano è il paradigma perfetto della nostra difficoltà a tradurrelo strumento militare in leva geopolitica. Eppure ne avevamo fatto unagrande scommessa per tornare a pesare in Medio Oriente. Subito dopola tregua che ha sospeso la guerra Israele-Õizbullåh, capitolo locale delconfronto strategico che oppone Teheran a Gerusalemme e Washing-ton, mentre le maggiori potenze esitavano o riluttavano, Roma decisedi impegnarsi a fondo nel Libano meridionale. Con l’operazione Leon-te abbiamo schierato oltre 2.500 uomini nell’ambito dell’Unifil, la mis-sione Onu deputata a presidiare il campo di battaglia, assicurandoce-ne la leadership. Obiettivi: segnalare il protagonismo del nuovo gover-no nella regione, dopo la latitanza del quinquennio berlusconiano; ri-vendicare il nostro buon diritto a contare nel negoziato con l’Iran, cuiBerlusconi aveva rinunciato, lasciando che ad occuparsene a nomema non per conto dell’Europa fosse il trio franco-anglo-tedesco; rilan-ciare una più vasta strategia mediterranea, giacché è in questo mareche da sempre si gioca il destino dell’Italia.

Alle intenzioni e ai soldati non sono per ora seguiti i fatti politici.Né i «grandi» europei né tantomeno gli Stati Uniti ci riconoscono unrango formalmente paritario nel Vicino o nel Medio Oriente. Abbiamograttato fino all’ultimo soldato per imbarcare la spedizione libanese,destinata a coprire un pericoloso vuoto geopolitico e a prolungare unostallo che serve a tutti. Ma la riconoscenza non è una categoria dellapolitica. Non siamo rientrati nel dialogo con l’Iran, peraltro ridotto aun filo sottile, largamente sotterraneo. Mentre il Consiglio di Sicurezzadelle Nazioni Unite, di cui facciamo parte, ha inaugurato la strategiadelle sanzioni contro Teheran, che colpiscono in special modo l’Italiain quanto primo partner commerciale dell’Iran. E malgrado le visitepolitico-diplomatiche nell’area mediterranea, si fatica a leggervi unacoerente strategia regionale, capace di circuitarvi nuovi flussi econo-mici, finanziari e culturali. Di disegnare insomma uno spazio comuneeuromediterraneo, nostra ideale garanzia di sicurezza e di sviluppo.

Finché la tregua regge e i nostri uomini restano nel «buco nero» delLibano meridionale, possiamo rendere meno profondo lo iato fra paro-le e risultati, costi e benefici. Anche se il flop della cellula strategica af-fidata per cinque mesi al generale italiano Giovanni Ridinò in sedeOnu, fagocitata e resa irrilevante dai francesi, ha incrinato le nostre

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speranze di usare Unifil come strumento di influenza. Eppure abbiamofra i libanesi un capitale di simpatia superiore a quello dei francesi odegli americani. Nell’élite locale non mancano coloro che si sono for-mati nel nostro paese o vi coltivano relazioni commerciali. Il Libano èla porta mercantile e finanziaria del Golfo. Molti dei suoi leader necondividerebbero con noi volentieri le chiavi, se solo dimostrassimo piùintensità e continuità nel rapporto con il loro paese. L’operazione Leon-te sarebbe una buona premessa, se politica ed economia – soprattuttobanche – seguissero. Forse non è troppo tardi.

Ma da un momento all’altro si può ricominciare a sparare. Il caospolitico interno e lo shock della sconfitta in Libano possono indurreIsraele alla prudenza nel breve periodo, ma anche a coltivare la vogliadi rivincita. La Siria ha riaperto il dialogo con gli Stati Uniti, ma insie-me ha spostato importanti unità militari al confine con il Golan, per si-gnificare a Israele che prima o poi si dovrà sistemare quel contenzioso.E Õizbullåh sta ricostituendo le sue scorte di razzi, che filtrano attra-verso il confine siriano (carta a colori 3). Se poi Bush dovesse tentarel’attacco alle installazioni nucleari iraniane, Israele sarebbe costrettoad attaccare il Libano per eradicare la minaccia del «partito di Dio». Ilquale a sua volta dovrebbe martellare lo Stato ebraico per conto diTeheran. A quel punto i contingenti Unifil sarebbero ridotti a potenzia-li bersagli in una guerra all’ultimo sangue. Non c’è equidistanza oequivicinanza che possa reggere in un Armageddon mediorientale.

Lost in Afghanistan

Per i duemila soldati italiani schierati sul teatro afghano è scattatol’allarme rosso. Stanno venendo al pettine le contraddizioni di unamissione internazionale partita per stabilizzare il paese e assisterlo nel-la ricostruzione, presumendo che gli americani avessero vinto la guer-ra contro i taliban. Premessa errata. La guerra continua. E noi ci sia-mo dentro. Non perché vogliamo la guerra, ma perché la guerra vuolenoi. Com’è stato possibile finire in questo cul di sacco?

L’Afghanistan è il laboratorio della spaccatura della Nato. Qui glialleati perseguono scopi diversi con mezzi diversi. La missione di guer-ra a guida americana, Enduring Freedom, sta infatti fagocitandoquella Isaf (in teoria di stabilizzazione e assistenza) a guida Nato. Omeglio, l’Isaf si preoccupa di stabilizzare se stessa, Enduring Freedomdi destabilizzarla. Turnazione vuole che oggi il comandante dell’Isafsia un generale americano, Dan McNeill, il quale non ama le sfumatu-re e i bemolle di alcuni alleati. Sicché oggi soldati dell’Alleanza atlanti-ca – americani, canadesi, olandesi, britannici – sono impegnati sulvasto fronte afghano contro taliban e insorti vari, mentre altri – italia-

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ni, spagnoli, tedeschi, francesi – sono soprattutto intenti a proteggere sestessi dietro una cortina di caveat. Salvo qualche poco pubblicizzatainiziativa delle forze speciali – incursori della Marina e del Col Mo-schin – condotta con gli americani di Enduring Freedom, i nostri sol-dati si attengono al vincolo parlamentare che vieta loro di parteciparealla guerra contro la nebulosa talibana. Il che non impedisce di finirenel mirino degli insorti.

L’operazione di controguerriglia scatenata dagli americani nell’Af-ghanistan meridionale e in quello occidentale sta portando la guerraverso i nostri soldati. Dalle province di Helmand e Farah gli americanirisalgono verso quella di Herat, a forte influenza iraniana, dove èschierato un nostro contingente. Con la coalizione comandata dagliUsa guerreggiano truppe afghane di modesta efficienza ma specialistein saccheggi, cui secondo il governatore di Helmand e il generale af-ghano Lawang si dedicano anche soldati stranieri 6. Tra le vittime deibombardamenti americani, oltre ai terroristi, centinaia di civili, ciòche contribuisce a screditare il governo di Kabul e ad alimentare le filedegli insorti. I quali non sono tutti inquadrati dai taliban vecchi onuovi. Talvolta si tratta di bande tribali che si contendono spicchi diterritorio.

Malgrado le proteste felpate degli italiani e di altri paesi Isaf, oltreche dello stesso Karzai, gli americani non si fanno condizionare daicaveat. Non ci sono zone franche per nessuno, nemmeno per gli alleatiriottosi.

La strategia americana ci porta diritti all’alternativa del diavolo:partecipare alla guerra (e sarà impossibile farlo senza dirlo), oppuretornare a casa. Possibilmente non da soli.

Siccome fare la guerra davvero implicherebbe la caduta di questogoverno, probabilmente prima o poi finiremo per andarcene. Già altrialleati, francesi, tedeschi e spagnoli in testa, hanno fatto sapere di nonvoler restare in eterno appesi all’Hindu Kush. Se al ritiro occidentale siaffiancherà il ritorno dei taliban a Kabul, insieme a loro vecchi o nuo-vi affiliati, la sconfitta sarà totale.

Eppure in questi anni nulla di imprevedibile è accaduto. Abbiamosolo messo la testa nella sabbia. Aggrappandoci a cinque illusioni.

A) Esiste uno Stato afghano. Un embrione fragilissimo, da rimetterein piedi secondo criteri più o meno democratico-occidentali.

Falso. Il cosiddetto Stato afghano è un insieme di territori più o me-no autonomi, controllati o contesi dai signori della droga e della guer-ra – taliban d’ogni colore inclusi – regolati da consuetudini tribali, et-

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166. E. PIOVESANA, «Il tallone di Achille», Peacereporter, 2-5-2007, http://www.peacereporter.net/detta-glio_articolo.php?idc=&idart=7878

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niche e religiose radicate nei secoli. E soprattutto esposto all’influenzadei vicini, a cominciare da Iran e Pakistan, come delle maggiori po-tenze mondiali, dagli Stati Uniti alla Cina, dall’India alla Russia.

A Kabul i feudatari locali possono tollerare al massimo un portavo-ce verso il resto del mondo, con funzioni di fundraiser. Purché non siaespressione di un unico gruppo di interessi o di una sola etnia, ma ilgarante di tutti (o quasi). Il fallimento occidentale è simboleggiato dal-l’idea davvero eccentrica di sovrapporre alle costituzioni materiali deiterritori afghani una sola costituzione formale basata sui princìpi illu-ministici della rivoluzione francese e di quella americana. Salvo statui-re all’articolo 3 che «nessuna legge può contraddire i princìpi e i precet-ti della sacra religione dell’islam» e stabilire che la costituzione è emen-dabile eccetto che nella necessità di aderire alla legge islamica (artico-lo 149) 7. Sicché oggi fra gli afghani democrazia è sinonimo di occupa-zione. E Karzai non è più nemmeno il sindaco di Kabul, mentre lastragrande maggioranza della popolazione lo considera un fantocciodegli americani. I quali peraltro l’avrebbero già scaricato se dispones-sero di un’alternativa meno improbabile. Intanto il Fronte nazionale,guidato dall’ex presidente Burnahuddin Rabbani e composto damujåhidøn, comunisti, monarchici e ultraconservatori, si candida conla benedizione iraniana e russa a succedere all’attuale governo.

B) Stiamo sconfiggendo i terroristi.Falso. È la Nato ad essere sulla difensiva contro i terroristi, ammes-

so che si vogliano definire tali tutti i combattenti contro il governo Kar-zai e le forze internazionali. Come osservava già l’estate scorsa un rap-porto del Senlis Council, un think tank internazionale ben ramificatoin Afghanistan: «Più che una missione offensiva contro una rete terro-ristica, Enduring Freedom si è trasformata in un’operazione difensivacontro una nuova forza di guerriglia proveniente dalle regioni tribalidel Pakistan e del Sud Afghanistan. Attualmente la spinta insurrezio-nale sta sempre più costringendo le truppe guidate dagli americani aschierarsi in una guerra civile» 8.

Cinque anni e mezzo dopo la sconfitta dei taliban, la grande mag-gioranza della popolazione è ostile al nuovo regime e delusa dagli oc-cidentali. Senza l’appoggio della gente non è possibile prevalere nellacontroguerriglia. Abbiamo perso la battaglia per «i cuori e le menti».Anche perché non rientra nei talenti americani. I quali ragionano permodelli e si disinteressano dei contesti. Gli ufficiali Usa studiano le les-

7. Per un approfondimento al riguardo vedi D. Coccopalmerio, «Juridical globalisation and the AfghanConstitution» e A.L. PALMISANO, «On informal justice in Afghanistan», alle pp. 27-36 e 37-75 di Afghani-stan, How much of the past in the new future, a cura dI G. PICCO e A.L. PALMISANO, Institute of Interna-tional Sociology, Gorizia, e International University Institute for European Studies, Gorizia 2007. 8. Cfr. «On a Knife Edge», rapporto del Senlis Council sullo stato dell’opinione pubblica nelle provincedi Helmand, Kandahar e Nangarhar (marzo 2007).

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sons learned in Kosovo e pensano di poterle applicare in Afghanistan oviceversa. Restano sempre una guerra indietro. Dunque non possonointerpretare il territorio in cui operano.

Valga un aneddoto. Un gruppo di ufficiali americani si presentaall’ufficio del Progetto Giustizia gestito dagli italiani a Kabul. «Uno deinostri ha travolto con il suo autoblindo un giovane afghano, ucciden-dolo. Erano le prime luci dell’alba, l’autista non l’ha visto. È stato untragico incidente. Come pensate si possa trattare il caso? Secondo il di-ritto consuetudinario è possibile? Bastano 5-6 mila dollari di compen-sazione alla famiglia?». Un esperto italiano risponde: «Quella sommaha un alto valore simbolico. Equivale al costo di un matrimonio. Malasciatemi parlare con la gente del villaggio dove il fatto è accaduto». Ilgiorno dopo, l’italiano riferisce agli americani: «Al villaggio mi hannodetto che se di incidente si tratta è sufficiente che l’investitore vada acasa del ragazzo ucciso e guardi negli occhi il padre. Questi capiràche non l’ha fatto apposta e tutto finirà lì, con il perdono dell’investito-re e un banchetto con la pecora che egli porterà alla famiglia. Diversa-mente, il padre si farà dovere di uccidere l’investitore alla prima occa-sione utile». Il soldato americano segue il consiglio dell’esperto italiano.Tutto va per il meglio. «Hey amico, adesso ho capito come bisogna farequi in Afghanistan», ringrazia l’americano. Il nostro sobbalza: «Ma no!Che cosa hai capito? Hai semplicemente obbedito alla legge di quel po-sto, in un’altra zona afghana possono valere codici affatto diversi».Questione di feeling.

Gli americani hanno perso la guerra di propaganda con i talibansoprattutto sul fronte economico. Hanno concentrato gli sforzi di rico-struzione al Nord, trascurando il Sud. In particolare, hanno sponsoriz-zato l’eradicamento forzoso del papavero da oppio, fondamento dell’e-conomia locale, a scapito dei ceti più poveri (carta 2). Molta gente è al-la fame. Nelle strategiche province di Helmand e Kandahar otto abi-tanti su dieci temono di non trovare cibo sufficiente 9. Si rimpiangel’ordine talibano. Non tutti sono in grado di pagare le tangenti agli uo-mini di Karzai, che così chiudono un occhio sui campi «proibiti». In-tanto i taliban proteggono i raccolti vietati, guadagnandosi la gratitu-dine dei coltivatori, e reclutano ex mujåhidøn ma anche giovanissimivolontari, pagati fino a 600 dollari al mese, dieci volte quanto guada-gnano i soldati regolari. Gli insorti si muovono agilmente in mezzo Af-ghanistan, anche perché le forze internazionali non possono tenere learee liberate dai taliban per insufficienza di uomini e mezzi. Il rischiodi fare la fine dell’Armata Rossa è piuttosto concreto.

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189. Così a pagina 20 di «Afghanistan Five Years Later. The Return of the Taliban», rapporto del SenlisCouncil (primavera/estate 2006).

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C) La gente afghana ci vuole bene e apprezza il nostro basso profilo.Falso. I locali sono talmente esasperati da non potersi concedere il

lusso della distinzione fra stranieri «buoni» o «cattivi». Per una popola-zione orgogliosa non è commendevole né la tendenza americana ditradurre i problemi in bersagli né quella nostrana di tenere i soldati alcoperto mentre intorno infuriano i combattimenti. Quanto alle attivitàdella Cooperazione italiana, l’impatto in termini di consenso è letteral-mente zero. Lo conferma un sondaggio svolto nel 2006 dalla AsiaFoundation per Usaid. Richiesti di identificare i paesi fornitori di aiutonei rispettivi distretti, gli afghani hanno menzionato Usa (48%), Giap-pone (12%), Germania (9%), India (6%) 10. Nessuno ha citato l’Italia.Speriamo di recuperare terreno con l’operazione Enduring Cheese (ve-di l’articolo di Franz Gustincich).

D) Americani e alleati hanno la stessa agenda.Falso. Per gli europei la priorità è stabilizzare l’Afghanistan per po-

terlo lasciare al più presto possibile. Per gli americani prima della sta-bilità vengono altri obiettivi. Anzitutto, snidare i terroristi e tenerli im-pegnati sul suolo afghano per evitare che colpiscano a casa loro. È lateoria della «carta moschicida», più volte evocata da Bush. Inoltre, gliUsa intendono mantenere alcune basi strategiche in Afghanistan infunzione di contenimento dell’influenza russa e cinese, oltre che inprevisione di un eventuale attacco all’Iran. È il caso della postazione diGhurian, presso Herat, a pochi chilometri dal confine iraniano.

L’approccio americano rivela un certo grado di schizofrenia, giac-ché si muove su scale diverse e non convergenti. I soldati a stelle e stri-sce combattono i taliban, come vuole il copione afghano. Intanto il go-verno di Washington sostiene il Pakistan, il quale alimenta gli stessi ta-liban che sparano ai militari americani, perché Musharraf serve a Bu-sh contro l’Iran. In particolare per fare impazzire la macedonia etnicairaniana, eccitando i baluci contro i persiani a partire dal Balucistanpachistano e da quello afghano. Di recente gli Usa hanno chiesto aMusharraf l’uso di installazioni logistiche nel Gopkrosh Range, a ridos-so del Balucistan iraniano. Operazioni coperte angloamericane eisraeliane in Iran sono in corso da anni e si stanno intensificando, inattesa che Bush decida se rischiare o meno l’attacco alle installazioninucleari e militari di Teheran.

Il Pakistan intanto usa i «suoi» taliban per raggiungere i propriobiettivi in Afghanistan: mantenervi un’influenza sufficiente a garan-tirsi profondità strategica in caso di attacco indiano e utilizzarlo cometerritorio di collegamento con l’Asia centrale ex sovietica, ricca di risor-se energetiche (carta a colori 4). Sempre che nel frattempo il regime di

10. Cfr. «Afghanistan in 2006», The Asia Foundation, p. 29.

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Musharraf non crolli sotto la spinta dei nemici interni – islamisti o me-no – e delle contraddittorie pressioni americane.

Dal punto di vista italiano, l’intreccio fra paranoia anti-indiana diIslamabad e tentazione anti-iraniana di Washington è una miscelaesplosiva. È fin troppo chiaro che in caso di conflitto irano-americanoil nostro contingente di Herat finirebbe nel mirino dei pasdaran.

E) Stare in Afghanistan significa proteggere il nostro rango nella Nato.Falsissimo. È vero che la ragione per cui restiamo in Afghanistan è

che non pensiamo di poterlo lasciare, dopo esserci congedati dall’Iraq,senza suscitare l’ira di Washington. Certo Bush non apprezzerebbe il ri-tiro italiano. Ma immaginare di cavarsela con un gettone di presenzamentre mezza Nato fa la guerra è piuttosto ingenuo. Le acrobazie ne-cessarie a impedire la caduta del nostro governo non inteneriscono gliamericani, che si muovono sul terreno senza considerare le conseguen-ze per gli italiani. Le «preoccupazioni» del nostro governo non li turba-no. Li confermano semmai nello stereotipo dell’italiano inaffidabile.

Ne risente anche il morale dei nostri militari, già sconcertati dai so-fismi pacifisti sulle «armi d’attacco» (cattive) e quelle «di difesa» (buo-ne): un’offesa al senso comune. Come ammette il generale Mario Arpi-no, «se fossi un comandante italiano in Afghanistan soffrirei moltissi-mo. Non ne veniamo fuori bene nel contesto internazionale. Un’al-leanza va rispettata soprattutto nei momenti difficili, anche se ci sono icaveat» 11.

Sentimento rispettabile. Così come si può capire l’insofferenza deigenerali americani, che privatamente smoccolano contro gli «imbosca-ti» europei. Sarebbe peraltro interessante che ci spiegassero perché do-vremmo combattere il nemico talibano mentre loro ne sostengono ilpadrino pachistano.

Clash in a civilization

Se la Nato affonderà in Afghanistan, non sarà solo una festa jiha-dista o di quella gran parte dell’universo islamico che odia l’Occidentetanto quanto l’invidia. Si brinderà a Mosca e a Pechino. A Washing-ton, fra i neocon inconcussi (e non solo), il patriottico dolore per lasconfitta sarà lenito dalla segreta gioia di essersi sbarazzati di un fasti-dioso strumento con cui gli europei sono riusciti troppe volte a imbri-gliare l’interventismo a stelle e strisce. Dovunque nel mondo celebre-ranno insieme i pacifisti per principio e quelli d’occasione.

La lezione afghana va interpretata nel contesto del dopo-guerrafredda. Senza Est non c’è Ovest. Quanto meno, va ricreato volta per

11. F. BILOSLAVO, «Questa è solo un’azione tattica, il vero attacco sarà più avanti», intervista al generaleMario Arpino, il Giornale, 9/4/2007.

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volta. Perché non è più frutto della convergenza di interessi che permezzo secolo ha oscurato le diversità culturali fra gli atlantici. Su que-sto i neocon hanno ragione: abitiamo pianeti differenti. Più che le ca-tegorie di Kagan – venusiani contro marziani 12 – a spiegare lo scontrodi mentalità vale forse il genio dello scrittore franco-argentino JulioCortázar. Il quale distingueva due tipi umani: cronopios e famas. I pri-mi sanno che le tartarughe sono grandi ammiratrici della velocità equando le incontrano tirano fuori i gessetti colorati per disegnare unarondine sulla loro curva lavagna. I secondi per prevenire il mal di golasradicano un eucalipto invece di comprare una scatola di Valda 13.Europei continentali e angloamericani?

Che gli americani vogliano fare della Nato uno strumento globale aprotezione della loro sicurezza nazionale, o in alternativa metterla ariposo, è perfettamente legittimo. Come lo è la tendenza italiana e vete-roeuropea a concepire l’Alleanza atlantica come architrave della sicu-rezza collettiva in Europa, purché siano gli americani a pagare. Dicerto le due Nato non possono convivere. Vincerà la Nato angloameri-cana o quella dei vecchi partner euroccidentali? Nessuna delle due?

Inutile mascherare il conflitto. Conviene esplicitarlo, per trovare uncompromesso. Ed evitare che la crisi della Nato lasci l’Italia a galleggia-re solitaria in un mare in tempesta. Possiamo batterci per profilareuna Nato più vicina ai nostri interessi, più o meno coincidenti conquelli degli altri europei occidentali. Per questo dovremo essere dispostia investire nella sicurezza, possibilmente in base alle esigenze effettivee non a quelle delle lobby militar-politico-industriali che trattano il bi-lancio della Difesa come cosa loro. Nella speranza di riportare l’impie-go dello strumento militare alla sua nobile (e democratica) funzione diancella della politica. Non suo sostituto.

Nel frattempo, ci arrangeremo con le missioni à la carte.

12. Cfr. R. KAGAN, Paradiso e potere, Milano 2003, Mondadori.13. Cfr. J. CORTÁZAR, Storie di cronopios e di famas, Torino 1997, Einaudi.

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