cortocircuito n°11: gli ultimi selfie del capitale

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G L I U L T I M I S E L F I E D E L C A P I T A L E E a t a l y : i n t e r v i s t a | D r o g a , d r o g a, d r o g a C e r v e l l o s o c i a l e & t e c n o l o g i a | L e m e n z o g n e d e l m o n d o 2 . 0 L u n ic o v e r o v ia g g io v e r s o l a s c o p e r t a n o n c o n s i s t e n e l l a r i c e r c a d i n u o v i p a e s a g g i, m a n e lla ve r e n u o v i o c c h i M a r c e l P r o u s t

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Undicesimo numero del nostro cartaceo, per info: http://www.inventati.org/cortocircuito/

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GLI

ULTIM

I SELFIE DEL CAPITALE

C Eataly: intervista | Droga,

droga

, droga

Cervello sociale & tecnologia | Le

menzogn

e del mondo

2.0

“L’unico vero viaggio verso la scoperta non consiste nella ricerca di nuovi paesaggi, ma nell’avere nuovi occhi” Marcel Proust

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I persistenti venti di guerra nell’est dell’Ucraina, come la nuova situazione in medioriente, ha spinto molti a preoccuparsi per l'eventualità di un nuovo grande conflitto. Inoltre, cade l'anniversario dello scoppio della prima guerra mondiale. Come ricorda Paul Kennedy in un ar-ticolo uscito su Internazionale di luglio, l’assassinio dell’arciduca

go periodo, aveva subito una prima battuta d’arresto durante la grande depressione 1873-1893, quando spuntarono due nuovi poteri concorrenti: gli Usa e la Germania. Questi riuscirono a battere il modello britannico basato sull’impresa familiare, attraverso la propria maggiore capacità produttiva sulla scena mondiale. Il militarismo tedesco, in conclusione, rati-ficò ciò che i rapporti di forza tra le potenze impe-rialiste avevano già decretato: il dominio britannico doveva giungere a conclusione. E così fu, anche se la potenza imperialista uscita vincitrice dai due conflitti mondiali non fu la Germania, bensì gli Usa. Come vedremo nel dettaglio, le tre tendenze qui richiamate (differente tasso di accumulazione capitalista dei vari stati; cronica instabilità del sistema internazionale; ed intrinsecità del conflitto di classe nel sistema capi-talista) torneranno utili per comprendere il presente.

Africa e Medio OrienteMolti studiosi hanno proposto ragionamenti che strizzano l’occhio alla teorizzazione sullo scontro di civiltà che Samuel Huntington avanzò per la prima volta nel '93. La verità è però un’altra, perché ci tro-viamo, proprio come nei primi anni del '900, nella fase di una transizione egemonica, il cui esito rimane incerto e difficile da predire. Questo, ci sembra il por-tato della crescente biforcazione tra la supremazia militare americana ed il recente primato ottenuto dal-la Cina nel comparto produttivo. Perciò non può sor-prendere come all’espansionismo economico cinese si contrapponga un ritrovato militarismo americano, per proteggere con la forza i propri interessi prima che sia troppo tardi. Una prima faglia di collisione tra i due imperialismi in questione è rappresentata dall’Africa. Se quella messa in campo dalle esigenze del capitale “cinese” è una penetrazione “soft”, fatta di borse di studio per formare la classe dirigente af-ricana, di finanziamenti in opere infrastrutturali ed esportazione di migliaia di lavoratori nel continente, questo modello è sfidato dal classico imperialismo a stelle e strisce, ovvero forte presenza militare e sac-cheggi di risorse. Quest’ultimo è molto rilevante nell’Africa sub-sahariana, dove a breve, con la scusa di coordinare l'operazione internazionale anti-Ebola, giungerà anche un comando del Pentagono. Per il prossimo futuro è prevedibile una crescente instabil-ità nella regione, che potrebbe sfociare in numerosi eventi bellici di portata limitata, come successo in Mali qualche anno fa; sia per la centralità che l’Africa riveste per entrambe le potenze, che per il persis-tente gap militare che le separa, e che rende meno probabile (ma non impossibile) un conflitto globale. Un secondo teatro di confronto tra Cina e Usa è rap-presentato dal Medioriente. Qui la situazione è com-plicata dalla presenza di attori regionali di rilevanza (Qatar, Arabia Saudita, Israele, Iran) e dagli interessi che altre tre potenze emergenti detengono nell’area:

Francesco Ferdinando a Sarajevo mise in moto una sequen-za di eventi destinati ad archiviare quel lungo secolo, inaugurato dal Congresso di Vienna, di “sostanziale pace e prosperità per gran parte dell’Europa”. Pro-prio la trattazione più approfondita di ciò permet-terà una migliore comprensione del presente.

I limiti spaziali all’espansione territoriale ed il primo conflitto mondialeKennedy si interroga su quali siano stati i maggiori responsabili della prima carneficina mondiale. E la risposta è chiara: la Germania e le sue mire espan-sionistiche. Dal nostro punto di vista però, l’articolo contiene un grave errore metodologico riassumibile nella frase “il militarismo tedesco ha prodotto la prima guerra mondiale”. Inoltre, l’autore di Ascesa e declino delle grandi potenze, omette un particolare: nel secolo che lui ritiene pacifico e prospero, la Gran Bretagna, la potenza egemone attorno alla quale si strutturò l’equilibrio interstatale in Europa, condusse tra Asia ed Africa ben 72 campagne militari. Quindi dovremmo chiederci come mai ciò è avvenuto. La risposta va cercata, da un lato, nel differente tasso di sviluppo economico delle potenze capitaliste, quindi nella cronica instabilità del sistema interna-zionale; mentre dall’altro nell’improvvisa finitezza territoriale che il mondo conobbe alla fine dell'800. Secondo il ragionamento che Lenin propone ne L'Imperialismo fase suprema del capitalismo, la caduta del saggio di profitto, un limite intrinseco di questo modo di produzione, spinge gli stati all’espansione coloniale e alla guerra per la spartizione del mondo e delle risorse. E ciò accadde proprio a fine '800, quan-do le caselle libere sul mappamondo erano state quasi tutte occupate: l'emergente Germania non aveva possibilità di ottenere terre a suo favore con limitate guerre coloniali, di conseguenza la guerra tornò in Europa. Il dinamismo militare tedesco an-tecedente la prima guerra mondiale, non deve es-sere interpretato come un quasi-folle tentativo di affermazione mondiale da parte di Berlino, poichè rappresentava la sfida a un ordine mondiale centra-to su un’egemonia, quella britannica, che non aveva più ragione di perpetrarsi. Questa, vista la concen-trazione in Gran Bretagna della massima competi-tività produttiva, commerciale, e militare per un lun-

EDITORIALE

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Russia, Turchia, ed India. Il fenomeno dell'ISIS ha poi catalizzato molta attenzione mediatica sull’area, in particolare sulla dicotomia sunniti/sciiti. Gli sciiti sono il 10% dell’intero mondo islamico, tuttavia, grazie ad una distribuzione non omogenea sul ter-ritorio, sono maggioranza in Iran, Iraq e Bahrain. So-prattutto, però, sono al potere in Iran (dopo il 1979), in Iraq (dopo il 2003) e con un loro sottoinsieme, gli alauiti, in Siria. In genere, la cosiddetta mezza luna sciita, formata da Iran, Siria e sud del Libano (sotto il controllo del partito di Dio, Hezbollah) è stata rappresentata come antagonista al blocco delle petromonarchie capeggiato dall’Arabia Saudita e di natura sunnita. Tale rappresentazione è però fuor-viante. Infatti, se la principale motivazione che ani-masse la politica estera degli “stati sunniti” fosse la protezione e l’avanzamento di questo orientamento religioso, essi dovrebbero agire con forza e in tale direzione. Ciò però non avviene. L’evento più ecla-tante al riguardo rimane la decisione presa a marzo da Arabia Saudita, Bahrain e Emirati Arabi Uniti di ritirare i propri ambasciatori da Doha, creando una profonda divisione nel Consiglio di Cooperazione del Golfo. Le ragioni della spaccatura riguardano quanto successo in Egitto e Siria. Infatti, mentre i qa-tariani hanno sostenuto i Fratelli Musulmani (sun-niti) in Egitto, i sauditi hanno spalleggiato il colpo di stato dei militari; mentre i primi hanno foraggiato l’opposizione siriana al regime di Assad, i secondi hanno, almeno inizialmente, mantenuto un profilo basso temendo un possibile effetto contagio interno delle cosiddette Primavere Arabe. Ancora più evi-dente è quello che in queste settimane sta accadendo in Libia, dove in uno stato di caos totale due schi-eramenti principali si contendono il potere. Da un lato le forze golpiste di Khalifa Haftar, uomo della Cia, sostenuto da Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi; dall’altro l’organizzazione islamista di Omar al-Hassi spalleggiata dal Qatar. Cosa possiamo concludere? Semplicemente che in Medioriente, così come in Ucraina, quelle che possono presen-tarsi come tensioni etniche o religiose, sono sempre mosse da interessi economici delle potenze in cam-po. Lo sforzo da fare sta nel non cedere alle retoriche dello “scontro tra culture e civiltà diverse”, ma nel ricondurre tutto alla concretezza dello scontro fra interessi contrapposti. Interessi che, attenzione, pos-sono anche conciliarsi momentaneamente (come nella guerra in Ucraina) per poi tornare a scontrarsi. I padroni fanno sempre così, è la loro natura: non sono uniti, ma riescono ad essere unitari (e quindi a scatenare guerre, rompere alleanze per formarne di nuove e spartirsi il mondo) pur portando avanti la propria lotta di classe nei confronti di chi, come noi, se non si organizza autonomamente rimarrà sempre fregato. E per evitarlo bisogna andare ancora oltre nel ragionamento, contrattaccando: lo scontro non è

tra le civiltà, ma nella “civiltà capitalistica”, ormai sempre più simile alla barbarie, sempre più inu-mana a prescindere dall'area geografica. E' questa constatazione che ci fa sentire parte di un'umanità globale, internazionale, accomunata dagli stessi problemi legati alla priorità che l'economia assume nel nostro tempo; è questo che ci impone la necessità di un'unione globale, dell'internazionalismo e della solidarietà fra persone che vedono saccheggiato il proprio tempo di vita in funzione del profitto. Sono questi fattori, da non scordare mai, quelli che ci pos-sono tenere alla larga dalle retoriche nazionaliste delle potenze, egemoni o meno: queste, come abbia-mo detto si scontrano, ma si accordano, si organizza-no, hanno dei piani. Difendono sempre il loro inter-esse come classe, unita o meno. Noi non dobbiamo commettere l'errore fatale, come la storia ci ricorda, di legittimarne l'operato o schierarci in uno dei vari campi, perché non stanno agendo a caso, lo fanno per sviare l'attenzione dai sempre maggiori conflitti interni a loro stessi. Lo fanno per ricompattare le fila e avere nuova carne da cannone. In ogni parte del mondo, da sempre, ci sono conflitti dovuti alla ribel-lione contro lo stato di cose presente, solo che oggi lo possiamo vedere in diretta, e per la prima volta percepiamo (anche se non comprendiamo affondo) che la vita non potrà essere così in futuro, non fun-ziona già più. E allora vediamo che addirittura dagli Usa, dal ventre della balena, a maggio scorso parte il primo sciopero mondiale della storia indetto dai lavoratori dei fast food contro i salari da fame; che nella grande e lontana Cina nell'ultimo anno e mez-zo è stato registrato il record assoluto, nella storia del paese, di scioperi dei lavoratori, i quali hanno imposto forti aumenti salariali. Anche nella vecchia Europa sembra che le cose non saranno più le stesse e si assiste, in forme diverse dovute al passato del continente, a continue manifestazioni di insofferen-za. Potremmo continuare all'infinito con gli esempi, ormai quello che fino a pochi anni fa sembrava im-pensabile è diventato palpabile e sulla bocca di tutti: è in atto, e non da oggi, uno scontro di classe. Chi ci vuole sfruttare ha interesse nel parlare di altro, con statistiche di vario tipo, nuovi termini e spiegazioni rassicuranti, ma le cose peggiorano, le guerre con-tinuano e la miseria cresce all'aumentare dei super ricchi. Il problema, ora che lo stesso Obama all'Onu afferma che “nel mondo si avverte un certo disagio”, è iniziare ad organizzarsi per combatterne le cause. Respingere certe “soluzioni” calate dall'alto, che ab-biamo visto essere solo dei diversivi, e unirci come un network globale unitario, autonomo e deciso. Sarà durissima, magari #vinceremopoi e avremo anche noi i nostri Scilipoti: ma per certe cose, per le nostre vite e il nostro futuro, bisogna combattere.

inventati.org/cortocircuito

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La citazione può non risultare chiarissima. Marx sta parlando dello sviluppo del capitale fisso, dei macchinari, e della loro importanza crescente nel modo di produzione capitalista.Qui fa la comparsa il famoso concetto di “general intellect”. Ne hanno parlato in molti, da chi voleva contrastare la caduta tendenziale del saggio di saliva nella propria bocca, a chi, pur in buona fede, ha con-siderato questo concetto solo dal punto di vista “in-terno” all’economia politica.Il concetto, invece, è molto più ampio.Tutto si riduce ad avere (o non avere) una visione sociale, comunista, della storia della specie uma-na. La rapida automazione della produzione obbliga Marx a sottolineare come il lato sociale, collettivo, della conoscenza umana sia sempre più evidente; ciò non vuol dire che prima (prima dello sviluppo della tecnologia industriale, prima dell’avento della grande industria), tutto ciò non ci fosse già. Il cervello della specie umana è sempre stato…”sociale”. E’ da quando qualcuno inventò, anzi, noi inventam-mo, la ruota che l’umanità fa “proprie”, nel senso di “socializza”, le conoscenze di alcuni, le scoperte di pochi. I freni alla socializzazione delle conoscenze, delle scoperte, delle arti, sono dovuti semplicemente alla divisione in classi.La scoperta di uno è la scoperta di tutti: se gli antichi greci potevano filosofare era grazie a chi cucinava per loro, senza quest’ultimi nessun singolo avrebbe potuto filosofare su qualcosa. Se i grandi scienziati, i grandi poeti, i geni del Rinascimento, i grandi della

musica si sono potuti dedicare alle loro opere è per-ché potevano dedicarsi a tempo pieno a studiare, a scrivere, a scolpire, a comporre; era perché altri pen-savano a portargli qualcosa in tavola.La domestica di Newton ha scoperto il rapporto tra forza massa e accelerazione tanto quanto Newton stesso: senza di essa il solo individuo, preso a rac-cogliere le mele per mangiarsele, anziché permet-tersi di farsene cascare una in testa riflettendo sulla legge di gravitazione, non avrebbe scoperto proprio niente. Considerare i risultati di questi “geni” risul-tati individuali vuol dire accettare ciecamente la di-visione in classi e da essa dedurne una morale meri-tocratica squisitamente borghese.A tutto ciò si aggiunge il contesto culturale: se Mo-zart fosse nato tra gli aborigeni, dubito avrebbe com-posto il Flauto Magico.Il cervello è sociale perché gli esseri umani non sono tutti eremiti ma costituiscono, per l’appunto, una specie: il cervello o è sociale o non è.La divisione in classi, da che mondo è mondo, ha sempre creato barriere alla naturale socializzazi-one delle scoperte: mentre le prime scoperte (ruota, fuoco, ecc…) venivano naturalmente socializzate, senza ricorrere ad un tribunale per stabilire se il copyright della ruota era della Apple o della Sam-sung, con la divisione in classi la conoscenza diventò fruibile da pochi e si è velocementecreata l’ideologia individualista per la quale il singolo “genio” è l’unico ad aver prodotto una determinata opera.L’incessante sviluppo delle forze produttive, però, ha lentamente corroso queste barriere. Dopo la stam-

cervello sociale etecnologia

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pa, ad esempio, le idee iniziarono a circolare già più velocemente. Difficile stabilire chi sia lo scopritore della geometria cartesiana, dato che, tre secoli prima della pubblicazione delle opere di Cartesio, appun-ti recanti due “assi” comparivano già negli studi di Oresme (cfr. M. Clagett, “La scienza della meccanica nel medioevo”, Milano, Feltrinelli, 1981).Difficile stabilire chi sia il padre della “scienza” mod-erna: Galileo? Cartesio che era a conoscenza delle opere del Pisano? Chi ha inventato l’analisi infini-tesimale? Leibnitz o Newton? di chi è il copyright? di nessuno, perché, spinti dalla Storia, arrivarono alle stesse scoperte negli stessi anni.

Cosa dice Marx di nuovo? Niente. Sottolinea come lo sviluppo del modo di produzione renda sempre più evidente il carattere sociale della conoscenza umana.

(Karl Marx, “Grundrisse”, in “Opere Complete”, Roma,

Ed. Riuniti, 1974, Volume XXX, p. 92,)

La velocizzazione dei trasporti, delle comunicazioni, ciò che Marx chiama “l’annullamento dello spazio attraverso il tempo” - in una parola: internet - ha reso innegabile questo fenomeno. Non c’è contenuto che sfugga alla rete. Tutto è (po-tenzialmente) condivisibile.Internet ha reso immanente, contingente, ciò che fino ad ora era rimasto potenziale. Il “virtuale” sta rendendo reali le potenzialità del cervello sociale. Solo la divisione in classi riesce ancora ad impedire che tutti possano accedere alla rete.In altri casi, invece, il mancato accesso alla rete ri-manda a motivi ideologici, o psicologici.C’è chi si affretta a scagliarsi contro la tecnolo-gia (chissà poi perché)adducendo argomenti falsi. Mumford, nel suo interessantissimo lavoro “Tecnica e cultura”, si lancia in una invettiva squisitamente

“Lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a quale grado il sapere sociale gen-erale, knowledge, sia diventato forza produttiva immediata, e quindi le con-dizioni del processo vitale stesso della società sono passate sotto il controllo del general intellect, e rimodellate in conformità ad esso; fino a quale grado le forze produttive sociali sono pro-dotte, non solo nella forma del sapere, ma come organi immediati della prassi

sociale, del processo di vita reale. “

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nunciato in toto alla tecnologia “imperialista” e hanno optato per chiedere ospitalità politica in qualche squat dove, al massimo, giocano ogni tanto a Snake con il loro fedele Nokia 3310.Queste sono solo alcune delle forme di cretinismo antitecnologico a causa delle quali c’è ancora chi impe-disce a sé stesso di partecipare e di collaborare allo

ridicola contro il grammofono: “così quando fu inven-tato il grammofono la gente smise di imparare a suonare il violino, la chitarra ed il piano, nonostante la passiva audizione non potesse nemmeno lontanamente equiv-alere all’impegno dell’esecuzione”. Probabilmente Mum-ford, nel 1934, non capiva che stava vivendo nel secolo in cui proprio l’ascolto ha incentivato giovani musicisti a intraprendere lo studio di uno strumento: i ragtime di Scott Joplin registrati sui Piano Rolls (i “midi” di fine ‘800) hanno spinto fino ad oggi migliaia di pianisti a confrontarsi con le sue “Maple Leaf Rag” e “The Enter-tainer”; la prima registrazione di musica classica, esegui-ta dal pianista francese Alfred Cortot per la Victor Re-cords ha fatto da apri pista alla lunga serie di superlativi pianisti del ‘900, le cui registrazioni sono ormai fruibili da chiunque possa accedere a youtube, registrazioni che guidano generazioni e generazioni di pianisti nella ricer-ca della propria interpretazione. Se Paul McCartney non avesse potuto imparare la chitarra ascoltando i vinili jazz e ragtime di suo padre, pianista negli stessi anni in cui Mumford svarionava, se John Lennon non avesse potuto imparare a memoria gli accordi delle canzoni napole-tane (delle quali era un grande conoscitore) ascoltandole per ore e ore non avremmo avuto “Sgt. Pepper”, “White Album”, “Abbey Road” e gli altri capolavori immortali dei Beatles.Chissà che faccia farebbe oggi il buon Mumford se col-legandosi a youtube, potesse vedere quante centinaia di migliaia di giovani di tutto il mondo suonano questi bra-ni: su youtube ormai si inciampa più facilmente nei vari “tutorial” di certe canzoni che nelle versioni originali perché i tutoria hanno più visualizzazioni; contraria-mente a quanto sosteneva Mumford sono più le persone che ascoltano dei brani per imparare a suonarli di quanti li ascoltino passivamente, e per ogni brano ci sono cen-tinaia di utenti che grazie alla rete hanno uploadato il video in cui sono loro, in prima persona, a suonare.Un’altra ideologia diffusa è chi critica la rete perché “dà tutto a tutti” e quindi “chissà dove si va a finire!”. Il lato ideologico, borghese, e individualista di queste critiche sta già nella premessa: non si tratta, infatti, di “dare”, come se si dovesse “avere” certi servizi per “diritto”, si tratta di riappropriarsi di ciò che è socialmente nostro come specie, ciò che tutti noi abbiamo contribuito a creare, a realizzare, a produrre.Un altro approccio curioso al tema tecnologico è quello di Ivan Illic, esponente del’ “anarchismo cristiano” (?): nella tecnologia egli vede la causa della perdita della “convivialità”. Ciò che egli non capisce è che il #disagio della nostra epoca non è dettato dalla tecnologia, ma dalla mancanza di prospettive praticabili per il futuro. L’alienazione telematica si insinua là dove manca il lav-oro, là dove l’”amicizia” teorizzata da Illic è minata tanto da un erasmus, quanto da un trasferimento forzato da migliori condizioni lavorative: in questa disgregazione totale, un sorriso anche solo su skype, o una voce amica che fa squillare WhatsApp è l’unico -pur digitale- app-

iglio per un’umanità che si perde nelle maglie del capitale.C’è poi tutta una parte di sinistrume che, probabil-mente, schieratasi con la “buona” tecnologia sovietica, contro la “cattiva” tecnologia americana, ha forse perso qualche punto di riferimento e deve ancora scrollarsi dall’eschimo la polvere delle macerie del Muro di Ber-lino: crollato il finto mito dei “due blocchi” hanno ri-

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scambio di contenuti: ci dispiace per loro, vorrà dire che dovremo imparare - purtroppo- a farne a meno, forse non perdiamo granché, al limite sarà una risata - in full hd - che li seppellirà.Un esempio della cooperazione tecnologica che ci of-fre internet è quello dei software opensource. Lungi dai falsi miti sul fatto che sia “gratis” o non circoli denaro (la

versione di Linux più in voga, Ubuntu, è ormai portata avanti con investimenti in denaro e i programmatori che la sviluppano sono stipendiati), la metodologia open-source ci offre un esempio pratico di come i vari singoli si possano coordinare per contribuire alla produzione di un cervello sociale in vasta scala. Chiariamo: il software proprietario è anch’esso un risul-

tato collettivo, come le singole scoperte di cui parlavamo prima, ma per contribuire direttamente al codice di un programma come Microsoft Word bisogna essere as-sunti dai nipotini di Bill Gates; per scrivere una parte di Linux Debian, invece, basta associarsi liberamente ai programmatori che portano avanti quella distribuzione.

Certo, nel mentre che guardiamo, al solito fiduciosi, alle potenzialità della nostra specie, non possiamo non cogliere i lati -ancora- negativi dello sviluppo della rete. Essa, nonostante sia una delle spinte più rivoluzionarie, a memoria di capitale, degli ultimi decenni, è ancora un prodotto di questa società: rispecchia i lati sempre più marci di questa -si spera l’ultima - divisione in classi, porta a galla gli aspetti più perversi e macabri del #disa-gio dei nostri tempi, veicola gli ultimi scampoli di prof-itto sfuggiti alla caduta tendenziale, incurante dei tend-ini delle mani degli utilizzatori più giovani, incurante delle retine dei nostri occhi. Sicuramente la tecnologia che ci immaginiamo non sono gli inquinanti arnesi all-inclusive (smartphone e tablet a base di coltan, batterie inquinantissime che durano meno di un giorno, ecc…) che ci propinano oggi: forti della distinzione proposta da Mumford tra utensile, strumento, e macchinario, ci immaginiamo una tecnologia tale che l’uomo possa modellare secondo i suoi bisogni, e non subire a sec-onda di come fluttua il saggio di profitto. Una tecno-logia della quale l’uomo possa nuovamente tornare a ca-pirne almeno a grandi linee il funzionamento. Sogniamo la riappropriazione sociale della scienza, della tecnica, dell’arte e di tutti i saperi, l’abolizione di ogni forma di proprietà privata della conoscenza. Solo un contesto di questo tipo porterà a far riemergere i valori cari a Illic (e a chi scrive!): in una società nella quale non si dovrà scegliere la metropoli in cui vivere in base ad uno stage o a un corso di laurea, a un contratto di la-voro, non si avrà bisogno di parlarsi su Skype, ma po-tremo raggiungere la piazza in bici per parlare dal vivo dell’ultimo film visto in streaming, dell’ultimo libro letto (senza bisogno di crackarlo!) sul reader, o dell’ultimo al-bum ascoltato per intero su youtube.

Sta a noi, sta al cervello sociale, utilizzare questo potente strumento per quello che esso veramente rappresenta: la possibilità di coordinare simultaneamente grandi e pic-cole lotte locali per rilanciarle in tempo reale su scala internazionale, la possibilità di diffondere tutti quei con-tenuti fino ad ora inaccessibili, la possibilità di aggirare facilmente copyright, censure, e barriere di ogni tipo. Sta a noi, sta al cervello sociale, utilizzare la rete per trasformare la società in modo che la rete stessa possa diventare solo e semplicemente lo stru-mento per diffondere il meglio delle conoscenze che la nostra specie ha accumulato dal pollice opponibile in poi. )))

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La prima volta che ci siamo ac-corti che le nostre ricerche passate su Google, così come i nostri nomi utente e le nostre password, veni-vano memorizzate dal browser, ci è sembrata una trovata estrema-mente utile di Chrome o di Firefox. Quando accanto agli articoli che leggevamo online sono iniziate ad apparire pubblicità molto colle-gate alle nostre navigazioni prec-edenti, siamo forse rimasti legger-mente perplessi. Nel momento in cui tali pubblicità sono arrivate al nostro indirizzo e-mail, finalmente ci siamo resi conto che qualcosa non andava.Ma abbiamo probabilmente con-tinuato a pensare a Google, in-

sieme a tutte le sue declinazioni, a Facebook, a Twitter, come a strumenti bellissimi che ci per-mettevano di stare sempre in contatto con il mondo intero, di conoscere cosa facevano i nostri (non tanto e non solo) amici, di esercitare democrazia firmando petizioni o compilando ques-tionari. E di più: tutto questo gratuitamente.

Nell’ultimo libro di Ippolita, La rete è libera e democratica. Falso!, si parla di questo e di molto altro. Ippolita è un grup-po di ricerca attivo dal 2005 che si occupa di questioni legate all’effetto dell’informatica e della tecnologia sulla nostra vita.La quarta di copertina recita “Crediamo in una Rete libera, democratica, gratuita, tras-parente, imparziale. Crediamo in una rete rivoluzionaria […]. Crediamo nella circolazione gra-tuita di contenuti [...]. Ci crediamo, ma niente di tut-to questo è vero.”. Nel testo si analizza appunto come la re-torica imperante di una Rete che proprio per la sua gratuità e “apertura” risulti creatrice di democrazia non sia altro che una costruzione voluta da quelli che Ippolita chiama i nuovi pa-droni digitali, e avallata anche da quanti ritengono che basti un click per cambiare qualcosa. Ed uno dei maggiori problemi è che questa retorica, seppur inconsa-

pevolmente, l’abbiamo assimilata. Ci sembra meraviglioso che tutto possa stare nella Cloud, in questo mondo etereo grazie al quale non bisogna più preoccuparsi di salva-re i nostri dati, di trovare un posto dove conservare i ricordi, perché tutto è ovunque in ogni momento.Ma al di là di un giudizio di mer-ito su questa possibilità di avere sempre tutto subito, aspetto che in questo saggio non viene trattato e che probabilmente meriterebbe in altra sede delle riflessioni, nel cor-so del libro si tiene fede a quanto promesso nel titolo.

Per quanto riguarda il legame di Rete e democrazia, ci sono al-meno due aspetti che vengono analizzati. Il primo è la presunta democraticità insita alla Rete, fantasma duro a morire nel pen-siero dominante. L’esempio più analizzato è quello di Google. La ricerca di uno o più termini che ha come esito dei risultati ordinati per “importanza” da un algoritmo (il celebre PageRank) nasconde bene i suoi limiti, tanto da ap-parire qualcosa di completamente imparziale e quindi democratico. Per chi non lo sapesse, il principio che sta alla base dell’algoritmo che deve il suo nome a uno dei fondatori di Google, Larry Page, è che una pagina è importante se è citata da tante pagine importanti (cioè se ci sono tante pagine im-portanti che contengono dei link ad essa). Ma è facile capire che la

Recensione dell’ultimo libro di Ippolita

Le menzogne del mondo 2.0:

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Ippolita è un gruppo di attivisti di varia provenienza culturale che si occupa di approfondire problemi e contraddizioni insite nello sviluppo e nell'utilizzo delle tecnologie informatiche. Ha pubblicato altri testi su argomenti collegati ("Nell'acquario di Face-book", "Luci e ombre di Google", e "Open non è free").

“I servizi che utilizziamo li paghiamo con cose più preziose del denaro: le nostreinformazioni personali”

democraticità (ed anche l’utilità) di un tale meccanismo è forte-mente legata a un idea di inter-net come un enorme sfera con-vessa nella quale due punti sono collegati da una linea diretta su cui corrono le informazioni co-muni. Tuttavia più le conoscenze di cui necessitiamo diventano profonde, più ci rendiamo conto che moltissime sono le strade interessanti che hanno pochi ingressi e poche uscite e che in-ternet è più simile a una figura fortemente irregolare piena di ramificazioni anguste.

In secondo luogo, nell’ottica dei movimenti 2.0, la rete è demo-cratica perché genera democra-zia: quasi tutte le persone ormai hanno accesso a internet e pos-sono esprimersi su ogni prob-lema della società che venga loro proposto. Farlo non costa neanche troppo sforzo: basta un click. E allora esplodono le petizioni online, i sondaggi alla Beppe Grillo, gli eloquenti cinguettii di Twitter. Tuttavia l’idea che con una firma digi-tale su change.org o peggio con un “mi piace” su facebook pos-siamo adempiere ai nostri do-veri sociali è palesemente falsa e dannosa, nonché ridicola.

C’è di più nell’analisi di Ippol-ita. Non è solo la democrazia digitale a dimostrare presto la sua fallacia, ma anche, sempre partendo dal titolo, la libertà e la gratuità di internet. Tutti si saranno chiesti: come possono Google, Facebook ecc. garantirci una così vasta scelta di servizi se noi non gli diamo neanche un euro? Basta sfogliare i terms of service di alcuni di questi giganti per immaginarsi come può fun-zionare tutto.Google, Facebook e gli altri cam-

pano di pubblicità e per questa pubblicità noi siamo preziosi: i nostri account con tutte le in-formazioni che contengono sui nostri gusti e sulle nostre attività quotidiane Tutte le nostre azio-ni (un “mi piace”, l’ingresso in qualche gruppo, o più semplice-mente il visitare un sito internet) vanno a ingigantire le memorie dei Big Data. Soltanto per fare un esempio, sulla pagina https://www.facebook.com/legal/terms, articolo 10 comma 1 si legge “Gli utenti forniscono a Facebook l’autorizzazione a utilizzare il loro nome, l’immagine del pro-filo, i contenuti e le informazioni in relazione a contenuti commer-ciali, sponsorizzati o correlati (ad esempio i marchi preferiti) pubblicati o supportati da Face-book. Tale affermazione implica, ad esempio, che l’utente consen-ta a un’azienda o a un’altra entità di offrire un compenso in denaro a Facebook per mostrare il nome e/o l’immagine del profilo di Facebook dell’utente con i suoi contenuti o informazioni senza il ricevimento di nessuna compen-

sazione.” Non c’è bisogno di alcun commento, è la pratica del profil-ing: “I servizi che utilizziamo li paghiamo con qualcosa di più prezioso del denaro: le nostre in-formazioni personali e quelle dei nostri amici” recita Ippolita.E quindi non ci stupiamo quando scopriamo che la Cina sta elabo-rando sistemi di polizia hi-tech con tanto di casella e-mail e so-cial network governativi, perché è soltanto la versione “non demo-cratica” di ciò che viviamo e a cui diamo tutti i giorni il nostro con-senso, utilizzando Gmail, Goog-le+, Twitter e Facebook. Questi mezzi ci sono utili per ten-ersi in contatto, e persino organ-izzare assemblee, iniziative, lotte, ma hanno tutti gli effetti collater-ali di cui si è parlato ed altri an-cora, non ultimi quelli ambientali: l’informatica e i dati sono tutt’altro che eterei e ecosostenibili; occu-pano tutti uno spazio materiale all’interno di enormi data center per mantenere i quali è necessaria una quantità inimmaginabile di energia.

Dunque buona navigazione, e che la Vita 2.0 sia con voi.

“Nell’ottica dei movimenti 2.0, la rete è democratica perchè genera democrazia”

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Windows 8 gratuito: una rivoluzione Ma un torrent

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La tempistica del “ping-pong” fra la tendenza del capitale costante ad aumentare (secondo la tendenza del saggio dei profitti globali a cadere) e i prezzi della componentistica a diminuire, è stata molto velocizzata dall’informatica.Questa, infatti, rappresenta un mercato “gio-vane”: nato e cresciuto dopo la seconda guerra mondiale, a differenza di altri mercati già esist-enti e poi capitalistizzati, o cresciuti con la pri-ma industrializzazione, è lo “specchio” degli anni ’80-2000 (rispetto al mercato automobilis-tico, sviluppatosi tempo fa e che ha conosciuto una storia capitalisticamente “lineare”).In questo mercato non si possono (ancora?) riscontrare tutti quanti i sintomi “classici” dell’imperialismo o, meglio, sono cambiate di-verse cose da quanto analizzato da Lenin nel suo celebre libro: ad esempio il tipo di mo-nopoli da lui analizzati. Se infatti la creazi-one di un’oligarchia finanziaria, le continue acquisizioni di aziende e la formazione di al-tre di dimensioni sempre più grandi, unite all’esportazione di capitali e merci in tutto il mondo o al ruolo delle grandi banche sono re-altà che abbiamo sotto gli occhi, il tipo di mo-nopolio (o oligopolio) odierno nel campo infor-matico si differenzia notevolmente da quello, ad esempio, nel settore minerario o automobil-istico. Google, Facebook, Amazon o Microsoft, con tutte le contraddizioni del caso, rappresen-tano società che, nel loro campo, detengono “diritti di proprietà” su merci virtuali e fisiche (notizie, profili dei social network, programmi o dispositivi) che trasmettono o permettono di trasmettere informazione. Non stiamo dicendo che questa sia “la società dell’informazione”, poichè ogni società è società di informazione;

ma che c’è un’enorme differenza fra il possedere un monopolio su di una fonte energetica (car-bone o petrolio) o un prodotto lavorato come l’automobile ed essere proprietari di qualcosa che emette dati in continuo aggiornamento. I social network in particolare rappresentano una straordinaria fonte di rendita per vend-ere informazioni e pubblicità in base alla pro-filazione degli utenti (e qui stendiamo un velo pietoso su chi pensa che, per il semplice fatto di postare la foto di un gattino si produca valore nella società) ma, al tempo stesso, anche un vet-tore di comunicazione. Strumenti che sempre più spesso vengono utilizzati in ogni parte del mondo per organizzare proteste, rivolte, e dif-fondere notizie scomode. Sarà poco, dipenderà da infrastrutture chiuse il cui funzionamento è oscuro ai più, ma per la prima volta nella sto-ria ci sono strumenti “social” i quali, pur as-sorbendo e riflettendo ogni tipo di disagio e feticcio esistenti, permettono di andare oltre e fare potenzialmente “network” per sincroniz-zarsi sulle stesse frequenze. Con un hashtag come con una foto.Senza contare la crescente diffusione di stru-menti più raffinati e volti non solo alla condi-visione di dati, ma proprio alla produzione, dalla piccola come alla grande scala (le stam-panti 3D). Una contraddizione che vedremo esplodere fra qualche anno, visto che il Capi-tale tende a socializzare sempre più la pro-duzione, facendo in questo caso un grande e nuovo salto qualitativo, oltre che quantitativo. Ma in misura nuova, come nota Rifkin nel suo ultimo libro, attraverso il cosiddetto “internet of things”, ovvero i sensori montati su ogni og-getto con cui entriamo in contatto e il contrasto fra il capitalismo come lo conosciamo e quelli

<< Qui trova applicazione tutto quanto è stato detto nella prima sezione di questo Libro sulle cause che aumentano il saggio del profitto pur rimanendo cos-tante il saggio del plusvalore o anche indipendente-mente da esso e soprattutto il fatto che, dal punto di vista del capitale complessivo, il valore del capitale costante non si accresce nella stessa proporzione del suo volume materiale.Ad esempio, la quantità di cotone lavorata da un solo operaio filatore europeo in una fabbrica moder-na si è accresciuta in proporzioni colossali rispetto a quella che un filatore europeo riusciva a produrre in tempi passati con il filatoio a ruota. Ma il valore del cotone lavorato non presenta un aumento proporzi-onale alla sua massa.

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che lui chiama i “commons”.Un altro punto da guardare con attenzione è quello della velocità: …le contraddizioni della tecno-logia, potremmo dire, viaggiano alla velocità dei (Big) dati!Questa nuova tecnologia più di tutte incarna elementi “spuri”, non prettamente capitalistici: la condivisione di qualsiasi tipo di materiale, dai film ai libri pas-sando per musica e immagini, con la conseguente erosione della proprietà privata dei diritti d’autore attraverso la socializ-zazione delle proprietà individu-ali (singoli utenti che dopo aver comprato il “loro” dvd, il “loro” libro, decidono di condividerlo in rete e permetterne la fruizione a chi non lo ha comprato).Nell’informatica i prezzi scen-dono in picchiata di semestre in semestre, e questa giovane tec-nologia si sta dando anche una sua “moneta” (il Bitcoin) sgan-ciata dal controllo delle banche e originata da un algoritmo cripto-grafato.“Forma fenomenica”, per così dire, della caduta tendenziale del saggio del profitto, la caduta ef-fettiva dei prezzi della tecnologia ci stupisce sempre al ribasso: dal tablet della Samsung a 10€ , ai brani musicali a 0,99€ su iTunes.Il nuovo Windows 8 gratuito va in questa direzione, o, per essere

più precisi, in questa tendenza.Sono lontani i tempi in cui dovevamo installare il vecchio windows 3.11 con una decina di floppy disk sperando nella buona stella della fortuna (os-sia nel buon serial key “amico”). Oggi in un’oretta scarsa si può installare Linux su qualsiasi PC e accedere a versioni gratuite di qualsiasi tipo di programma: videoscrittura, impaginazione, video making, audiosequencer, ecc: basta un click, un torrent e via, possiamo avere la “nostra” copia digitale.Uno smartphone, device diffuso 8 anni fa al prezzo di 1000$, oggi si può comprare a meno di un normale telefono portatile, il loro sistema, Android, è anch’esso gratuito. Quando anche il Corriere ci ricorda che Windows 8<< Sarà gratuito, come dicevamo, lo scopo di tutto ciò è battere Android, che è gratuito, e iOS, che arriva preinstallato in tutti i device mobili della Mela. La nuova strategia quindi prevede la licenza gratuita per Windows 8.1 e Windows Phone 8.1 su tutti i device sotto i nove pollici. Una strategia che se da una parte erode i piccoli introiti di Red-mond dall’altra permetterà una maggior diffusione del sistema operativo, un calo nel prezzo dei

device e, si spera, incentiverà lo sviluppo di nuove applicazio-ni. A prescindere da Cortana e dall’estetica infatti Windows su mobile soffre di una carenza di app che si sta rivelando letale. Meglio allora darlo via gratis sperando però che venga adot-tato da più persone. >>Microsoft, quindi, si dimostra più “open” di Apple, ma molto, molto meno di …Google.Infatti l’uomo più ricco del mon-do è proprio il fondatore della Microsoft, ma, si noti bene, il suo patrimonio è UN SETTIMO del patrimonio dell’uomo più ricco degli anni ’50, Henry Ford.Questo giovane mercato sembra giocare d’anticipo sulla caduta tendenziale del saggio di prof-itto, flirtando al contempo con la crisi della legge del valore; la domanda che torrent, emule & soci pongono alla storia è sem-plice quanto spietata: “perché pagare quando si può socializ-zare?”.La risposta da parte di questo modo di produzione è farragi-nosa, contraddittoria, incongru-ente, quasi sempre tardiva, “cap-italism is writing…”.Ma intanto i bits non aspettano, la storia corre veloce sulle nos-tre connessioni 4G: “revolution loading…”.

Il medesimo fenomeno si riscontra per le macchine e per tutto il capitale fisso. In breve, la stessa evoluzione, che porta all’aumento della massa del capitale costante rispetto al variabile, tende a far diminuire, in seguito alla crescente produttività del lavoro, il valore degli elementi che lo costituiscono ed impedisce di conseguenza che il valore del capi-tale costante (per quanto in contin-uo aumento) si accresca nella stessa proporzione della sua massa mate-riale, cioè della massa materiale dei mezzi di produzione messi in opera

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da una stessa quantità di forza-lavoro. In alcuni casi particolari può anche accadere che la massa degli elementi del capitale costante si accresca men-tre il suo valore rimane invariato od anche diminuisce.Queste considerazioni hanno valore anche per quanto riguarda la svalor-izzazione del capitale esistente, ossia degli elementi materiali che lo costi-tuiscono, derivante dallo sviluppo dell’industria. Esso pure rappresenta uno dei fattori che agiscono continua-mente per ostacolare la caduta del sag-gio del profitto, quantunque in parti-

colari circostanze possa ridurre la massa del profitto, riducendo la massa del capitale che produce il profitto.Resta qui ancora una volta dimostrato che le medesime cause che determina-no la tendenza alla caduta del saggio del profitto agiscono al tempo stesso da freno nei suoi confronti.>>

(Karl Marx, Il capitale , libro III, sezi-one III legge della caduta tendenziale

del saggio di profitto, capitolo 14, cause antagonisctiche)

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Droga

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L'abuso di droga, di sostanze stupefacen-ti, è senza dubbio una delle cifre del mondo di oggi.Imprenditori e muratori consumano quo-tidianamente cocaina per aumentare le prestazioni lavorative, trentenni nostalgici del periodo in cui andavano a fumare nei giardini trovano nel passare tutta la sera a farsi le canne con gli amici sparando caz-zate l'unico momento di evasione da un preoccupante presente di precariato e dalla prospettiva di un futuro ancora più incerto, adolescenti si sbronzano fino all'incoscienza o fino a piantarsi in un albero, ragazzini nati nel ventunesimo secolo chiedono ai ragazzi più grandi nei giardini se hanno un po' di MDMA.Davanti a tale proliferazione del consumo di sostanze gli approcci di questa società sono stati diversi, e sono cambiati col tem-po. C'è l'approccio moralista, tipicamente cattolico, che condanna l'uso di droga come male assoluto, propinando slogan idioti come “il vero sballo è dire no”. Chi si sia sballato almeno una volta nella vita sa che è una cazzata enorme.C'è l'approccio criminalizzante, più tipi-co dei paesi protestanti, ma che ha avuto il suo momento anche da noi: il drogato viene considerato un delinquente e sbat-tuto in carcere, insieme ai veri delinquenti o presunti tali. Si è visto dove porta una politica del genere: sovraffollamento delle carceri, come se ce ne fosse bisogno.La palese futilità di questi due approcci ha portato allo sviluppo di atteggiamenti più morbidi da parte della società in cui vivi-amo, sostenuti da ambienti più o meno di sinistra. Così è nato l'approccio medical-izzante: il drogato è un deviante, parag-onabile o identificabile con un soggetto che ha disturbi psichici, e va perciò aiutato, curato da specialisti, medici, psicologi, as-sistenti sociali. È l'approccio dei nostri SerT, Servizi per le Tossicodipendenze, i servizi delle ASL dove si finisce in generale chi-unque sia trovato in possesso di sostanze illegali. La reale utilità di questi servizi è quantomeno dubbia, soprattutto quando si tratta di droghe leggere o di usi sporadici di sostanze che non generano un alto grado di dipendenza.

Ma poi, chi fa uso di droghe ha davvero bi-sogno di essere “aiutato”? Quello che pre-occupa senz'altro le istituzioni e il pubblico sono i comportamenti socialmente perico-

losi che conseguono all'uso delle sostanze, la guida in stato di alterazione psicofisica e così via. Tuttavia è facile notare che ci sono usi accettati socialmente e che si integrano “perfettamente” nel mondo in cui vivamo: la cocaina è la droga del successo, e il suo uso per fini lavorativi non può che essere salutato con gioia da un sistema che ha fatto della produttività un mantra indiscutibile. L'alcol, d'altra parte, che è ben più perico-loso di tante altre sostanze, è perfettamente legale; l'LSD invece, il cui uso a fini terapeu-tici e additrittura di crescita personale è ben documentato dal lavoro di Stanislav Groff, psichiatra di origine ceca, è proibito non solo nel suo uso “di strada”, ma perfino in ambito medico, ed il suo utilizzo è rimasto un'esclusiva dei militari e dei servizi seg-reti, che ne hanno fatto un uso tutt'altro che apprezzabile (come gli esperimenti di con-trollo mentale della CIA noti come progetto MKULTRA). Le istituzioni sanitarie, d'altra parte, non si peritano di innaffiare con fiumi di morfina i pazienti con la cosìdetta terapia del dolore.Anche in questo campo, come ovunque, lo stato di cose presente è gravido di contrad-dizioni.L'approccio più recente escogitato per af-frontare la diffusione dell'uso di sostanze è quello della riduzione del danno: si tratta di un approccio pragmatico, che vede nella diffusione delle droghe un mero dato di fat-to irriducibile e si limita a proporre soluzi-oni per evitare che l'assunzione di droga diventi qualcosa di pericoloso per sé e per gli altri, o quanto meno ridurre il danno, appunto. Si va dalla distribuzione di mate-riale sterile per i tossicodipendenti per evi-tare la diffusione di malattie infettive fino all'allestimento di chill out rooms, ovvero stanze dove smaltire la botta, in contesti quali le discoteche e i rave party.

Una parte importante è svolta dall'informazione sugli effetti delle sostanze.A Firenze esiste l'interessante caso del Cen-tro Java, che si trova in centro all'angolo fra via Pietrapiana e via Fiesolana, che sostan-zialmente porta avanti la linea della riduzi-one del danno. Abbiamo pubblicato un'intervista ai suoi operatori sul nostro sito. Purtroppo, benché si tratti di un progetto basato su fondi pub-blici, i politici della nostra città non si sono mai dimostrati molto interessati ad esso, preferendo usare la città come tramplino di lancio per la politica nazionale o semplice-

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mente troppo impegnati nel combattere il “degrado” scacciando i lavavetri e mettendo sempre più telecamere e polizia ad ogni an-golo.

Benché la riduzione del danno costituisca un notevole passo in avanti rispetto agli al-tri approcci, a nostro avviso è necessario fare un salto di qualità nell'analisi del fenomeno delle sostanze. Altrimenti restiamo in una prospettiva di mero contenimento e gestione della situazione senza andare al cuore dei problemi soggiacenti.Innanzi tutto vi sono questioni strutturali: la produzione e il commercio di sostanze è un'attività economica non diversa da tante altre, ed anzi sempre fiorente e che non con-osce crisi. Ne è la prova il crescente potere della criminalità organizzata, in Italia come altrove. In Messico i narcos sono ormai delle entità statali che controllano il territorio con il proprio esercito (uno di questi gruppi pare possegga perfino un sottomarino). In Giappone la Yakuza è solo l'altra faccia del potere statale. Nel nostro paese poi la situ-azione è ben nota e non ci dilungheremo su questo. Ci limitiamo a sottolineare che quan-to si parla di droga si parla innanzi tutto di interessi economici.

Vi è poi un aspetto di controllo sociale al quale abbiamo già accennato: la proibi-zione dell'uso di LSD all'indomani della rivoluzione psichedelica o la nuova ondata di eroina seguita all'invasione statunitense dell'Afghanistan non possono essere solo dei casi.Abbiamo parlato anche dell'uso performa-tivo delle sostanze, ed entriamo quindi nella dimensione lavorativa che oggi domina la vita della maggior parte degli uomini. Una dimensione dominata dalla alienazione, ov-vero dalla separazione dell'uomo dal prodot-to del suo lavoro; detto in altre parole dalla mancanza di senso della propria attività. Una mancanza di senso che non può che portare al disagio esistenziale, e quindi all'abuso di sostanze.Queste ultime considerazioni ci permettono di intravedere il cuore della questione: la presenza di pratiche di alterazione della co-scienza, di cui l'assunzione di stupefacenti è un sottoinsieme, ha caratterizzato tutte le civiltà. Ma il ruolo assegnato a queste prat-iche è stato diverso a seconda della cultura. Oggi, specie in occidente, tali pratiche sono ridotte a fenomeni di devianza sociale, ma in altri tempi e in altri luoghi sono state stru-

menti di iniziazione e di ricerca spirituale.Lo sciamanesimo e i riti di possessione sono presenti in molte culture definite “primitive”; sono culture che prevedono per la coscienza diverse fasi, tutte ugualmente accettate. Ciò che da noi viene interpretata come pazzia (o psicosi, come preferiscono esprimersi gli specialisti della mente) viene vista come contatto con l'invisibile, con il sacro: e men-tre da noi la società non ha altro da offrire al soggetto “impazzito” che una sterile terapia e una separazione dalla propria famiglia e dalla propria comunità, altrove si propongo-no vie d'uscita che comportano una assun-zione di responsabilità da parte dei gruppi sociali e addirittura la formazione di nuovi.Recentemente questi differenti approcci alle patologie della mente sono stati recuperati in ambito psichiatrico con l'etnopsichiatria, che prevede al posto delle terapie convenzi-onali la messa in atto di veri e propri riti tratti dalle tradizioni di appartenenza dei soggetti. Purtroppo sono pratiche che valgono solo per le etnie che mantengono il ricordo di queste tradizioni, cosa che non vale per gli occidentali.L'occidente infatti, con il capitalismo, ha pro-dotto una civiltà che invece prevede un'unica fase per la coscienza, che possiamo rias-sumere così: lavorare, consumare e non rom-pere i coglioni. Tutto ciò che esce dal binario della produttività viene vista come devianza, al limite come pazzia. Non stupisce che poi le persone, giovani e meno giovani, cerchino l'evasione da questa prigione mentale nei modi più estremi, dalla partecipazione ai rave party, che quanto meno mantengono un aspetto gioioso e di condivisione, fino ai disperati che passano il tempo premendo un bottone davanti allo schermo di un vide-opoker (ma quelli sono legali, per carità, e sono i tutti i bar).

La modernità tecnologica ci ha resi tracotan-ti, pensiamo di sapere tutto e di potere tutto. Ci mancano gli strumenti per interagire con l'ignoto, con ciò che trascende la nostra po-tenza; non lo rispettiamo, per questo ci schi-accia non appena irrompe nelle nostre vite sotto la forma di un banale imprevisto o di una disgrazia. Sarei pronto a scommettere che, se l'esame di maturità prevedesse anche un viaggio di dodici ore in stato alterato di coscienza, cose come il “disagio giovanile” diverrebbero presto un lontano ricordo. Ma finché persiste il capitalismo, una prospettiva del genere, a livello di massa, è impensabile.

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Come hai iniziato a lavorare per Eataly? Ero disoccupato ed avendo saputo dell’apertura di Eataly ho contat-tato direttamente l’azienda, senza affidarmi ad agenzie interinali, anche se molti vengono assunti tramite l’agenzia.

Che lavoro fai in Eataly?Aiuto cuoco, il piccolo Umpa Lumpa dello chef.

Com’è l’ambiente di lavoro?Con i colleghi il rapporto è molto positivo: giovani coetanei che con-dividono lo stesso disagio.

Che tipo di disagio?1.Flessibilità inesistente: l’orario settimanalmente viene fatto con un preavviso anche inferiore alle 24 ore. È difficile organizzarsi lib-eramente la vita così.2. Non esistono canali di comu-nicazione fra dipendenti, con la dirigenza aziendale. Niente as-semblee sindacali, l’ingresso a lav-oro la mattina avviene a scaglioni, nessun incontro di gruppo della dirigenza con i dipendenti. Ogni comunicazione viene data in ba-checa.3. È impossibile sperare di essere ascoltati: chi ha protestato perché era stato posto un limite di mez-zo litro d’acqua a dipendente al giorno, è stato preso da parte ed è stato ripreso con frasi tipo “usi parole forti…”.

E A T A L Y

Gli orari di lavoro sono rispettati?Sì, ma i contratti sono un’altra sto-ria: se serve un lavoratore per 32 ore, un contratto sarà da 26, così da poter ridurre l’orario liberamente. Oppure per più di 40 ore setti-manali di lavoro si fanno contratti forfettari a 1100 euro, per evitare di dover pagare straordinari.

Quindi la rappresentanza sindacale è inesistente? Sì. La possibilità di lavorare dipende dall’omertà: chi protesta può venir contattato dall’agenzia interinale per essere allontanato, o avvertito che polemizzare renderà difficile trovare lavoro a Firenze.

La retorica dell’azienda sul mangiare prodotti di qualità e sani, e sul “con-sumo critico” è concreta?All’ingresso del supermercato c’è una scritta enorme “Il primo gesto agricolo lo compie il consuma-tore, scegliendo ciò che mangia”. L’ipocrita attenzione per la qualità del cibo e al consumo mascherà uno spreco allucinante di cibo con quelche qualche imperfezione.Come esperimento di market-ing era stata costruita una cucina con friggitrice da 20000 euro che nel giro di una settimana è stata smontata. Loro 20000 euro li spen-dono così.

La clientela come è composta?Data la posizione, soprattutto da turisti. Tuttavia, soprattutto all’apertura,

erano tanti i fiorentini che en-travano in negozio attratti dall’ammaliante marketing, che si compiacevano che dei giovani la-vorassero lì.

Il non rinnovo del contratto come è avvenuto?Nessuno sa del proprio destino lì dentro se non si interessa. Si vive e si lavora costantemente in ansia. Vedendo il clima e le riduzioni del personale, sono andato a in-formarmi. Non ci hanno detto che volevano ridurre i costi fissi, ma che non eravamo idonei al mod-ello Eataly o che non avevamo l’atteggiamento giusto. Per tutti i mesi che sono stato lì, non mi han-no mai detto niente, pretendendo anche un impegno da parte mia che andava oltre il mio lavoro.

Ci sono prospettive di lotta e protesta?Le proteste contro Eataly sono molte ma vengono accusate di criticare un’azienda che dà la-voro. Lo stesso Farinetti parlava di mantenere l’80% del personale, quando adesso lavorano a Firenze meno del 50% dei dipendenti ini-ziali. Anche rimanendo nella sua retorica, è un fallimento totale. Anche a Firenze si muoverà qual-cosa.

Ancora una volta abbiamo conferma di come le parole dei padroni (riguardo i problemi della disoccupazione giova-nile in questo caso) siano ben distanti dai fatti.

Abbiamo intervistato un lavoratore di Eataly a cui l’azienda non ha rinno-vato il contratto a tempo determinato.

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Sabato 30 e domenica 31 Agosto i lavoratori di Eataly Firenze hanno sciopererato per l’intera giornata sostenuti da presidi di solidarietà.

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L’ associazione onlus Orti Collettivi Autogestiti, nasce dalla volontà di un gruppo di studenti della facoltà di Agraria di avvicinare il mon-do naturale alla città, con tutti i benefici che esso comporta, tramite la creazione di orti urbani gestiti collettivamente. Lo scorso anno, grazie agli stimoli ricevuti dalle collaborazioni con la rete Genuino Clandesti-no e con l’assemblea Terra Bene Comune (esperienza sfociata poi nella splendida realtà di Mondeggi Bene Comune), abbiamo deciso di creare

www.facebook.com/OrtiCollettiviAutogestiti

un’associazione per dare una forma alle idee e poter avere un campo d’azione più ampio. Oltre al lavoro stretta-mente agricolo, il progetto rappresenta un’azione politica ed un’attività sociale, per far fronte alla disgregazione e all’individualismo dilagante. Potremmo dire che la lotta al “degrado” (quello vero, il degrado sociale delle so-cietà classiste) la portiamo avanti noi, insieme a tutte quelle realtà che quotidianamente si battono per rendere viva la nostra città, occupando case, aprendo spazi sociali, organizzando manifestazioni.L' associazione si propone di prendere in gestione alcune aree verdi della città (sia con la concessione da parte del Comune che con forme di riappropriazione) sottraendole ad incuria ed abbandono, attraverso la col-tivazione di un orto sociale gestito da chiunque voglia partecipare. Vogliamo dimostrare quanto la pratica dell’autogestione sia alla portata di tutti e porti importanti benefici al quartiere ed alle persone. L’ orto collettivo è un punto d’incontro e di scambio di conoscenze, un luogo di aggregazione sociale, dove poter promuovere pratiche di condivisione e collaborazione. E’ uno spazio didattico per grandi e piccini dove poter conoscere i ritmi della natura e della vita. E’ un’agorà dove si trattano argomenti quali l'ecosostenibilità, l'autoproduzione e l'autodeterminazione ali-mentare. In un mondo globalizzato, dove i prodotti agricoli sono spostati da una parte all’altra per far gi-rare l’economia e tener in vita un sistema capitalista che distrugge l’ambiente e la società, anche il modo in cui fai la spesa è un’azione politica. Con l’orto urbano diamo un sostegno ed un impulso alla filiera corta e all’autoproduzione alimentare, anche dove la campagna non esiste più da anni. Lottiamo contro la concezione di agricoltura industriale, che insegnano anche all’università, che vede l’ambiente solamente come una risorsa da sfruttare anziché un delicato ecosistema nel quale vivere. Con l’apparente sem-plicità di coltivare un orto sviluppiamo la conoscenza e il rispetto per esso.

Il tipo di agricoltura che pratichiamo è quella Sinergica, che oltre ad essere un metodo biologico e ad impatto zero, rispecchia l’idea che abbiamo di una società giusta. Infatti uno dei concetti su cui si basa il metodo siner-gico è quello di “consociazione” fra le piante, ovvero, le colture vengono seminate o trapiantate su un cumulo di terra (“bancale”) tutte insieme (seguendo alcuni schemi e tabelle) senza la classica divisione in aree dell’orto. In questo modo le colture si aiutano a vicenda, per esempio alcune rilasciano particolari nutrienti nel terreno sviluppando microrganismi favorevoli, altre allontanano gli insetti dannosi.Dal 9 maggio abbiamo iniziato la gestione del primo orto nel parco di San Salvi. Il parco dell’ex manicomio fiorentino non solo si presta molto ad un progetto di recupero ed autogestione della terra, ma vede già presenti diverse realtà che lottano per sottrarre l’area ad incuria e speculazioni edilizie.

Vi invitiamo quindi a visitare l’orto e a partecipare alle assemblee di gestione, tutti i lunedì alle 17.30 nel parco di San Salvi.

O.C.A.

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