circolo ermeneutico

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Laura Antichi IL CIRCOLO ERMENEUTICO ASSEMBLAGGIO DI TESTI COME RIFERIMENTI DI LETTURA Bibliografia testuale di studio per classe quinta di Liceo – Filosofia ---------- NOTA: i testi sono stati assemblati con ISTAPAPER da Browser utilizzando il bottone Read Later Questa è un’esercitazione per il Mooc del Dol – Novembre 2013 Le pagine Web sono state salvate in una cartella su Istapaper, esportate in formato .epub, caricate in calibre e salvate in .rtf e successivamente in .doc-Word. ---------- Archive All • Download Newest Circolo Ermeneutico Circolo ermeneutico - Wikipedia it.wikipedia.org Ermeneutica treccani.it Circolo ermeneutico riflessioni.it L'ermeneutica in Dilthey isentieridellaragione.weebly.com PENSIERO ERMENEUTICO digilander.libero.it

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Esercitazione per Mooc Dol - novembre 2013

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Page 1: Circolo Ermeneutico

Laura Antichi

IL CIRCOLO ERMENEUTICOASSEMBLAGGIO DI TESTI COME RIFERIMENTI DI LETTURA

Bibliografia testuale di studio per classe quinta di Liceo – Filosofia----------

NOTA: i testi sono stati assemblati con ISTAPAPER da Browser utilizzando il bottone Read LaterQuesta è un’esercitazione per il Mooc del Dol – Novembre 2013Le pagine Web sono state salvate in una cartella su Istapaper, esportate in formato .epub, caricate in calibre e salvate in .rtf e successivamente in .doc-Word.

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Circolo ermeneutico - Wikipedia

it.wikipedia.org Disambiguazione – Se stai cercando l'atto di controllo e correzione delle ipotesi sul prototesto durante il processo traduttivo, vedi Circolo ermeneutico (traduzione).« Ciò che si deve comprendere è già in parte compreso. »(Hans-Georg Gadamer) Il circolo ermeneutico definisce il procedimento circolare che fonda ogni atto interpretativo. L'espressione fa riferimento all'ermeneutica, che in filosofia tratta della teoria dell'interpretazione (dal greco ἑρμηνευτική τέχνη - hermeneutikè tèchne, arte o tecnica della interpretazione).[1]

Il movimento circolare della interpretazione consiste nel muovere dalle parti che compongono il testo da interpretare al tutto e, viceversa, dal tutto alle parti.

Quando uno studioso si accosta a un testo da comprendere la sua mente non è del tutto vuota e sgombra dell'ambiente storico e culturale che l'ha formata nel tempo. Questo "tutto ideale", quindi, interviene prima ancora che si svolga il lavoro d'interpretazione e lo condiziona, lo impronta di sé. La conoscenza, cioè, risente dell'ambito storico e psicologico in cui essa si svolge, così che essa è il prodotto di una sovrapposizione circolare di nozioni.

D'altra parte vi è un continuo scambio tra le cose conosciute e quelle da conoscere, "le parti", che vanno a loro volta a modificare il complesso del sapere, "il tutto".

Friedrich Schleiermacher (1768–1834), filosofo e teologoottocentesco, fu il primo a occuparsi della natura circolare del comprendere.

Lo stesso concetto, ma solo in maniera accennata, era già presente nella filologiaellenistica.Un particolare interesse per il circolo ermeneutico venne espresso da parte degli esegetibiblici

fin dall'epoca della Controriforma.Il termine fu coniato da Dilthey nell'Origine dell'ermeneutica (1900) e fu ripreso nel XX secolo

da vari filosofi, tra cui Martin Heidegger (1927) e Hans-Georg Gadamer (1960).N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, UTET, Torino 1971 (seconda edizione).F. Brezzi, Dizionario dei termini e dei concetti filosofici, Newton Compton, Roma 1995.Centro Studi Filosofici di Gallarate, Dizionario dei filosofi, Sansoni, Firenze 1976.Centro Studi Filosofici di Gallarate, Dizionario delle idee, Sansoni, Firenze 1976.Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Garzanti, Milano 1981.E.P. Lamanna / F. Adorno, Dizionario dei termini filosofici, Le Monnier, Firenze (rist. 1982).L. Maiorca, Dizionario di filosofia, Loffredo, Napoli 1999.D.D. Runes, Dizionario di filosofia, 2 voll., Mondadori, Milano 1972.

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Ermeneutica

treccani.it ermeneutica Presente fin dall’antichità, il termine arte o scienza dell’interpretazione di un testo (poetico, letterario, giuridico, religioso, ecc.) ha assunto particolare rilevanza filosofica nel Novecento per opera delle correnti storicistiche, fenomenologiche ed esistenzialistiche. Se infatti l’e. è stata concepita per secoli come una scienza o una tecnica ausiliare rispetto alla filologia, alla teologia o alla giurisprudenza, nella misura in cui il linguaggio si presta a molteplici interpretazioni, o – soprattutto in campo teologico – a molti ‘sensi’ (letterale, allegorico, analogico, anagogico, tipologico, ecc.), già con il Romanticismo, e soprattutto con Schleiermacher si comincia a vedere nell’e. qualcosa di più profondo e autonomo come sforzo di comprensione che va molto al di là del testo e ricostruisce, con una sorta di congenialità, la mens auctoris. Con Dilthey, tra i maggiori esponenti dello storicismo e autore di studi fondamentali su Schleiermacher, il problema dell’e. viene ripreso e ampliato nel quadro di una «critica della ragione storica» volta a fondare la legittimità e l’autonomia delle scienze dello spirito rispetto alle scienze della natura cui si appellava il positivismo dominante. Per Dilthey l’e. è la scienza dell’arte dell’interpretazione e concerne quelle manifestazioni della vita spirituale che hanno trovato l’espressione più compiuta e conclusiva nello scritto. In tal senso l’e. ha una funzione centrale e portante nelle scienze dello spirito, il cui oggetto può esser colto adeguatamente solo attraverso un’interpretazione che realizzi in modo unitario e intuitivo il nesso tra vita, espressione e ‘comprensione’.

Verso l’ermeneutica filosofica. Se con Dilthey l’interesse pur rilevante per l’e. appare circoscritto all’interno del problema delle scienze dello spirito e impostato quindi ancora in senso prevalentemente metodologico, la svolta decisiva verso l’e. filosofica si ha con la fenomenologia di Husserl e con l’esistenzialismo di Heidegger. Nella sua polemica contro ogni forma di oggettivismo e naturalismo, Husserl mette in luce infatti il carattere intenzionale della coscienza, per cui ogni percezione è sempre legata a un orizzonte entro il quale soltanto diventa significante e il giudizio rinvia a tutta una serie di presupposti ‘precategoriali’. Su questa linea Heidegger, già in Essere e tempo(➔) (1927), concepisce l’e. non più come uno dei possibili modi d’intendere o di conoscere, contrapposto o coordinato ad altri, ma come il modo fondamentale di esistenza, essendo l’uomo precisamente un continuo autointerpretarsi e interpretare l’essere. Nella misura in cui l’esistenza è continua progettazione, anticipazione della morte, ‘cura’, il problema della verità va considerato in una dimensione anteriore e diversa rispetto a quella del giudizio dove è stato collocato dalla metafisica occidentale, da Platone a Hegel.

Il circolo ermeneutico. Il disvelarsi della verità presuppone sempre un’anticipazione di senso, una sorta di ‘pre-comprensione’ che è al tempo stesso il segno della sua intrinseca storicità. È questo il cosiddetto circolo ermeneutico per cui l’interpretazione è un processo che va continuamente dal tutto alle parti e viceversa: soltanto in riferimento alla struttura dell’esistenza come «esserci-nel-mondo» si rivela il senso di ciò che l’esistenza viene storicamente scoprendo e viceversa. L’e. filosofica, considerando indispensabile questo circolo (che agli occhi della logica e della filosofia tradizionale appare invece come vizioso, e cioè tale da inficiare la verità delle conclusioni raggiunte), si contrappone alla logica quale si è venuta configurando nella filosofia occidentale, e cioè come logica della proposizione e del giudizio. Si hanno così nella scia del pensiero heideggeriano forme di logica ermeneutica (H. Lipps), dove alla ‘morfologia del giudizio’ si cerca di sostituire la ‘tipologia del discorso’, o di logica semantica (J. Lohmann), che cerca d’individuare nella storicità e intersoggettività

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dialogica del linguaggio il vero a priori dell’uomo e della ragione. Con l’evolversi del pensiero di Heidegger dalla prospettiva fenomenologico-esistenziale di Essere e tempo verso una prospettiva ontologico-linguistica, l’e. ha acquistato ancor maggiore rilevanza filosofica. Il motivo heideggeriano del rapporto tra arte e verità, per cui l’arte non è espressione di una verità presupposta o comunque assoluta e metastorica ma è l’accadere della verità, porta con Gadamer a una revisione critica del concetto di coscienza storica che sfocia nell’affermazione dell’universalità dell’ermeneutica. La comprensione storica non consiste nella semplice ricostruzione del senso di un testo o di un momento del passato, come voleva lo storicismo, ma in una continua fusione di orizzonti dove, proprio come accade rispetto all’arte, vengono sempre di nuovo messi in gioco tanto l’opera quanto l’interprete in un processo sempre incompiuto e infinito qual è appunto il linguaggio. Proprio questa consapevolezza del primato della dimensione linguistica e dialogica rispetto a ogni possibile forma di pensiero ha portato a una certa convergenza tra l’e. filosofica e certi sviluppi della filosofia analitica del linguaggio, soprattutto dell’ultimo Wittgenstein, attento ai giochi linguistici e alla loro connessione con la prassi e le forme di vita.

Il panorama europeo. Se l’e. filosofica si è sviluppata soprattutto in Germania, non ne sono però mancate trattazioni originali e significative in Francia, soprattutto con Ricoeur, e in Italia con Pareyson e Betti. Prendendo le mosse dalla fenomenologia husserliana e con particolare attenzione al problema del male e del sacro da una parte e ai risultati della psicoanalisi dall’altra, Ricoeur considera compito essenziale dell’e. lo studio dei simboli, ossia di quei segni che, oltre ad avere un senso diretto e letterale, rinviano pure a uno o più sensi indiretti e figurati. Nell’adempiere a tale compito l’e. si dispiega in direzioni diverse, a seconda che riguardi l’archeologia della coscienza (psicoanalisi freudiana), la sua teleologia (fenomenologia hegeliana) o la sua escatologia (fenomenologia del sacro); direzioni tra le quali deve operare una continua dialettica per ritrovare in ciascuna di esse l’unità di senso che vi si esplicita. Pareyson è giunto ad affermare il valore ontologico e di verità dell’e. dopo aver approfondito il problema dell’interpretazione nell’estetica, dove già ne aveva evidenziato il carattere irripetibile e personale (cfr. soprattutto Estetica: teoria della formatività, 1954). Così in Verità e interpretazione (1971), attraverso la distinzione tra pensiero puramente espressivo di esigenze e situazioni pratiche e storiche, e pensiero rivelativo della verità, Pareyson pone l’e. al centro dell’intero discorso filosofico. Questo, infatti, è sempre personale e istituisce una molteplicità di interpretazioni singole e irripetibili del vero, e al tempo stesso tutte le unisce nella consapevolezza di possedere la verità senza esaurirla, ma alimentandosene continuamente nella storia. Lo storico e teorico del diritto Betti ha preso invece le mosse soprattutto dal campo giuridico per sviluppare una Teoria generale dell’interpretazione (1955) molto vicina alle impostazioni specificamente metodologiche del problema dell’e. dell’inizio del sec. 20°. Per quel che riguarda in partic. l’oggettività del processo ermeneutico, Betti ne ritrova la garanzia nel fatto che l’interprete, nel suo sforzo di ricostruzione del senso, ripercorre a ritroso il cammino creativo da cui è scaturita l’opera interpretata e la trasferisce in una soggettività diversa da quella originaria, ma a essa unita nella comune umanità.

Il pensiero di Gadamer. Anche nella sfera del diritto prevalse la linea di Gadamer che recupera in Verità e metodo(➔) (1960) il momento dell’applicazione della legge come momento costitutivo di ogni comprensione, segnalando conseguentemente il significato esemplare dell’e. giuridica, dove si evidenzia quella condizione della comprensione consistente nell’appartenenza dell’interprete al testo. Chi interpreta la legge non può, per Gadamer, assumere liberamente un punto di vista, ma deve partire dal presupposto necessario che «la legge obblighi ugualmente tutti i membri della comunità giuridica». Negli ultimi decenni del Novecento l’e. è stata indubbiamente una delle correnti filosofiche che ha

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avuto maggiore diffusione e risonanza, fino al punto che si è pensato di poterla definire la koinè del dibattito filosofico contemporaneo. Tale processo ha comportato per un lato l’emergere di nuovi importanti sviluppi dell’e., e per l’altro la possibilità di una sua comprensione più approfondita alla luce di una migliore messa a fuoco retrospettiva di molti suoi aspetti e articolazioni essenziali. A tale proposito grande importanza ha avuto la pubblicazione (1985-97) delle Opere complete di Gadamer, che presentano una panoramica vasta e unitaria del suo pensiero, sì da consentire di evidenziarne sempre meglio alcuni punti nodali: tra questi, la peculiarità della sua concezione della coscienza storica rispetto alle varie forme di storicismo.

Sviluppi recenti. Le teorie di Gadamer impressero un forte sviluppo dell’e. nel pensiero contemporaneo, con particolari approfondimenti nell’ultimo ventennio del Novecento da parte di Vattimo in scritti tra i quali vanno ricordati soprattutto La fine della modernità (1985) e Oltre l’interpretazione (1994). Come sottolinea Vattimo, a tale proposito non si può non richiamarsi anzitutto alla linea tracciata da Heidegger con il suo saggio sul moderno L’epoca dell’immagine del mondo (1938), e con la sua critica complessiva dell’umanismo come compimento della metafisica. Ma l’essenziale, per Vattimo, è leggere l’interpretazione heideggeriana della modernità, e quindi della peculiarità della tecnica moderna, al di fuori dei consueti schemi di ‘filosofia della cultura’, e cogliere così il valore propositivo (e non soltanto negativo) dell’interpretazione della scienza e della tecnica moderna come compimento della storia della metafisica. La filosofia ermeneutica trova legittimazione come rinuncia a qualsiasi illusione di preparare un ‘ritorno dell’essere’ e a leggere in questa chiave il pensiero heideggeriano, scorgendovi invece un invito a radicalizzare il motivo nichilistico, senza alcuna pretesa o presunzione di un superamento (nel senso tradizionale del termine) della metafisica. La filosofia ermeneutica va intesa piuttosto come la storia di un lungo addio, di un indebolimento interminabile dell’essere quale esito manifesto della sua storia. Per i suoi stessi legami con la tradizione romantica da una parte e con le tesi heideggeriane sulla portata veritativa dell’arte dall’altra, la filosofia ermeneutica non poteva poi non assumere un ruolo sempre più rilevante nel dibattito dell’estetica e della critica contemporanee. Particolare importanza ha avuto in questo quadro quella tendenza che va sotto il nome di estetica della ricezione, il cui maggiore esponente è stato lo storico della letteratura e filosofo Hans R. Jauss soprattutto in Esperienza estetica ed ermeneutica letteraria (1982). Richiamandosi al concetto gadameriano di Wirkungsgeschichte («storia degli effetti»), Jauss considera centrale, per una riabilitazione della storia della letteratura, prestare attenzione a un momento essenziale del processo estetico, indebitamente sacrificato, quello appunto della ‘ricezione’. Nel triangolo autore-opera-pubblico, quest’ultimo non è affatto una parte soltanto passiva, una catena di semplici reazioni, ma, a sua volta, un’energia produttiva di storia. Questa istanza, che si richiama al motivo ermeneutico della fusione degli orizzonti, dev’essere fatta valere tanto contro l’ideale di oggettività della vecchia storia letteraria caduta in discredito, quanto contro la pretesa di esattezza avanzata dai detrattori della comprensione storico-ermeneutica, muovano essi da presupposti di tipo sociologico oppure strutturalistico. Nonostante i numerosi motivi di consenso con Gadamer, Jauss assume però una posizione critica nei confronti della sua e, poiché vi scorge un privilegiamento della nozione di ‘classico’ come prototipo di ogni mediazione storica del presente: una tesi, sempre secondo Jauss, che deriva dal non voler abbandonare il concetto di mimesis che può invece valere soltanto per alcune e non per tutte le fasi della storia dell’arte. Sempre per quanto riguarda la ricezione, Jauss ritiene infine che si debba sottolineare la sua portata pratica ed emancipatrice attraverso la continua interazione tra Wirkungsgeschichte e ricezione, tra orizzonte dell’esperienza e orizzonte dell’attesa, da cui scaturisce una dialettica interna tra letteratura e storia universale, una sorta di mediazione

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ermeneutica che consente di evitare ogni forma di storicismo sociologico estrinseco. treccani.it

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Circolo ermeneutico

riflessioni.it SPECIAL_IMAGE-http://www.riflessioni.it/dizionario_filosofico/../visite-guidate-roma/visite-guidate-roma-verticale.gif-REPLACE_ME Visite guidate roma 

Concetto già duscusso da Heidegger (1889-1976) e sviluppato da Hans Georg Gadamer (1900-2002) che afferma la circolarità dei processi interpretativi. Dato un testo da interpretare, si evidenzia come l'approccio dello studioso non può che risultare caratterizzato da una ineludibile pre-comprensione del testo data dall'ambiente storico e culturale in cui vive, per cui la conoscenza è un continuo interscambio tra nozioni da apprendere e nozioni già apprese, tra apprendimento e atteggiamento interpretativo. La conoscenza  è così necessariamente situata entro un determinato orizzonte storico e psicologico, il frutto di una stratificazione circolare di nozioni.

 

 

 

Piccolo Dizionario Filosofico concesso gentilmente da www.forma-mentis.net Tutte le voci del dizionario sono state redatte da Synt

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L'ermeneutica in Dilthey

isentieridellaragione.weebly.com Dilthey vive nell'ambito di questa diffusa coscienza storica in cui confluiscono l'eredità sia di Schleiermacher che di Hegel e  si occupa di entrambi. Si trova in un'epoca in cui conta l'esperienza, l'empiricità del positivismo, ma vi è interesse anche per la filosofia precedente: il suo problema è quello di dare un fondamento alle scienze storiche. Bisogna realizzare un esame critico della ragione, non pura ma storica; bisogna assumersi un compito analogo a quello kantiano, non rispetto alla ragione, ma alla storia. Secondo lui però la tesi di Hegel, che afferma una relazione tra ragione e sviluppo storico, è dogmatica, perché comporta la pretesa di dedurre la storia da concetti a priori.

In quest'epoca, in reazione al positivismo, si sviluppano delle correnti filosofiche che tentano di recuperare l'originalità dell'esperienza umana: una di queste, il neocriticismo, o neokantismo, cerca di estendere la nozione kantiana di critica della ragione a tutti gli aspetti dell'esperienza. Dilthey si pone in parallelo al neocriticismo, ma con una differenza che secondo Gadamer rappresenta la sua grandezza: riconosce che l'oggetto della storia è diverso per principio da quello delle scienze naturali, è un'esperienza vivente in cui non si conosce un mondo esterno, ma una vita come la propria che non può essere oggettivata. Dunque anche il metodo storico sarà diverso rispetto a quello scientifico (cfr. la critica di Vico al cartesianesimo): egli distingue a questo proposito tra "comprendere" e "spiegare".Il "comprendere" è il modo di procedere delle scienze dello spirito (Geisteswissenschaften) ed è basato sulla comprensione del caso singolo nella sua storicità; lo "spiegare" è il modo di procedere delle scienze della natura (Naturwissenschaften) e si basa sulla spiegazione causale e sulla riconduzione del particolare sotto una legge universale  (il problema metodologico che vi è alla base, ossia se l'esperienza umana possa essere affrontata con strumenti costruiti sul modello delle scienze o con strumenti pensati sulla base della storicità dell'uomo, è tutt'altro che assente anche oggi).Nel caso delle scienze umane ci si propone quindi di conoscere un'esperienza individuale: il problema sarà come ciò possa assumere un valore generale, oggettivo, universale, perché sempre di scienze si tratta.

Approfondiamo allora la questione. Dilthey - che critica il soggetto di Kant (e anche di Locke e di Hume), perché in esso, a suo modo di vedere, "non scorre sangue" - ricorre nella fondazione delle scienze umane ai concetti di esperienza vissuta (Erlebnis) e di vita (Erleben). L'esperienza vissuta è un'unità psichica elementare in cui l'atto del conoscere non è diverso dall'oggetto conosciuto. La vita è il fluire temporale ed in continuo movimento degli Erlebnisse ed è orientata all'enucleazione di stabili unità di significato, essendo caratterizzata dalla connessione dinamica di teoresi, volizione e sentimento (riguarda cioè la totalità del nostro essere).La vita, cui tutti partecipiamo, è cioè caratterizzata da un ordine intenzionale e da una struttura caratterizzata da nessi interni reciproci (e non dal nesso di causa effetto, come avviene nelle scienze della natura).In questa prima fondazione delle scienze dello spirito (risalente in particolare all'opera Introduzione alle scienze dello spirito, 1883) Dilthey ricorre quindi al concetto di vita con il duplice compito di fondare razionalmente la conoscenza storica (ordine, struttura nella storia) e di riconoscere il carattere storico della ragione (vita). Ma proprio la nozione di vita posta al centro della comprensione della realtà umana conduce Dilthey, sulla scia di Schleiermacher, a individuare inizialmente nella psicologia l'organon delle scienze dello spirito. La comprensione è infatti rivolta all'individualità e la sua condizione di possibilità è in quella sorta di empatia che porta a "rivivere" il

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vissuto di una vita estranea a partire proprio dalle strutture costanti in cui si esprime la vita.

Diverse considerazioni portano il vecchio Dilthey (a partire proprio dal saggio Le origini dell'ermeneutica, 1900) a riconsiderare la propria impostazione psicologistica basata sulla certezza immediata dell'esperienza vissuta. Anzitutto una considerazione di carattere metodico secondo la quale la psicologia non può attingere un sapere immediato proprio perché ogni momento della vita sottoposto a osservazione -  come si sostiene nella Critica della ragione storica - è "fissato mediante l'attenzione che conserva ciò che in sé fluisce". Non è quindi possibile di per sé penetrare con il sapere l'essenza della vita.La lettura delle Ricerche logiche di Husserl con la loro critica antipsicologistica lo spingono poi a considerare la nozione husserliana di significato come polo intenzionale della coscienza.Ma soprattutto egli si accorge che la precedente impostazione psicologista va ridimensionata nel momento in cui l'oggetto da comprendere non è più costituito dall'individualità di un tu, ma dalle produzioni storiche, ovvero da ciò che Hegel chiamava spirito oggettivo, all'interno del quale Dilthey include anche le manifestazioni culturali di arte, religione e filosofia.Queste manifestazioni, a suo modo di vedere, sono segni che chiedono di essere compresi e interpretati: la comprensione è ora per Dilthey quel processo mediante il quale noi conosciamo un'interiorità proprio per mezzo di segni che ci sono dati dall'esterno (la vita cioè si esteriorizza nell'espressione e la comprensione è il percorso a ritroso, che  intende tornare dall'esteriorità dell'espressione all'interiorità della vita). L'ermeneutica (e non è più la psicologia) si candida allora a diventare l'organon delle scienze dello spirito per la sua capacità di mediare tra le oggettualità tramandate (il dato storico) e la soggettività dell'autore, tra l'esterno dei segni e l'interno della soggettività che in essi si esprime: l'interpretazione è così l'incontro tra individualità e universalità, è un processo che contribuisce alla formazione di un terreno comune, di una intersoggettività, di una oggettività condivisa, che è l'essenza stessa della nozione hegeliana di spirito.Dilthey si interroga così su come sia possibile conoscere un'esperienza che io non ho vissuto, ma che si presenta a me attraverso segni, tracce, espressioni. Il comprendere è infatti conoscere un'interiorità attraverso segni dati sensibilmente all'esterno. Bisogna dunque che l'esperienza passi dall'interno all'esterno: la vita umana si manifesta sempre attraverso segni, ad esempio artistici, culturali, ma solo nel linguaggio  (e in particolare, per la sua stabilità, nello scritto) l'interiorità trova un'espressione totale, più compiuta. L'ermeneutica consisterà nel conoscere un'altra vita nella sua individualità, per quanto correlata a un contesto, attraverso le sue manifestazioni. Ma una vita che "elabora pensieri", che si manifesta e si esprime è da sempre come "spirito": il Leben è pensato come Geist (questo stesso cammino l'aveva compiuto già Hegel nei suoi scritti giovanili che proprio Dilthey trova e porta in luce).Il tema hegeliano dello spirito oggettivo diventa dunque la questione centrale per Dilthey. Secondo Hegel si tratta di un grado del ritorno a sé dello spirito nel suo sviluppo razionale, ossia il grado massimo dello spirito finito prima di quello assoluto; il pensiero umano nella sua elaborazione adeguata, concettuale, può comprendere il senso complessivo di tale percorso. Dilthey ritiene che tutto ciò non sia accettabile perché lo spirito è invece vita che manifesta se stessa, non incarnazione del logos. Il concetto filosofico in Dilthey non ha dunque un significato di conoscenza, ma un significato espressivo: non coglie il ritmo razionale dello spirito, ma manifesta aspetti dell'esperienza storica.Arte, religione e filosofia sono anch'esse ricondotte allo spirito finito perché sono espressioni dello spirito umano, aspetti dell'esperienza umana: le manifestazioni della cultura non sono come in Hegel le forme in cui lo spirito conosce se stesso, ma rappresentano la vita in quanto spirito che

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manifesta, hanno un carattere espressivo, piuttosto che conoscitivo.

Un'ultima questione riguarda la coscienza storica che, nel confrontarsi con il passato dell'umanità, con l'universalità dello spirito, si pone il problema parallelo dell'universalità e obiettività del suo stesso sapere: Dilthey cerca di risolvere tale questione introducendo il metodo della "comparazione". Un fatto storico può essere compreso anche da altri che non l'hanno vissuto perché si può comparare con altri fatti di altre epoche. A questo proposito Troltsch (1865-1923) ha parlato criticamente del percorso diltheyano come di un cammino "dalla relatività alla totalità": a suo modo di vedere, infatti, Dilthey prima sostiene di non possedere il sapere assoluto di Hegel, ma se la storia è conoscenza dell'individuale, che è tale in quanto è una connessione, per conoscerlo devo poi compararlo, inserendolo quindi in contesto sempre più ampio che sfocia infine in una forma di sapere assoluto.La critica rivolta a Dilthey verrà poi rivolta anche a Gadamer: dopo aver fatto dichiarazione di finitezza, legata a quel carattere di apertura al futuro che non si trovava in modo soddisfacente in Hegel, in Gadamer vi sarebbe comunque poi la tendenza a pretendere di conoscere tutto l'insieme dell'esperienza umana.Consideriamo infine più ampiamente i rilievi critici mossi a Dilthey da Gadamer che in Verità e Metodo parla di un suo cartesianismo o illuminismo non risolto: quella diltheyana sarebbe infatti una posizione non capace di superare ancora i limiti di Schleiermacher nel suo metodo ricostruttivo, incapace cioè di riconoscere la distanza storica come costitutiva. In Dilthey convivrebbero per Gadamer due tendenze: l'ermeneutica della vita, nell'idea per cui si conosce la vita passata perché anch'io ne faccio parte, e l'ideale di una conoscenza metodica e obiettiva.In lui esisterebbe un rapporto intrinseco tra vita e sapere, in base al quale la vita tende a darsi un ordine, ma poi, per l'insicurezza e l'insondabilità della vita, Dilthey finirebbe col fare riferimento alla scienza opponendola alla vita.Su un piano generale, anche oltre la critica gadameriana, si può comunque sostenere che, nonostante la tematizzazione della storicità e dello spirito oggettivo come luogo in cui si storicizzano le espressioni della vita, la prospettiva diltheyana permane singolarmente antistorica. Ciò è collocato anzitutto con un mai abbandonato psicologismo, che fa da tramite fra Schleiermacher e Dilthey: comprendere l'espressione, interpretare lo spirito oggettivo, equivale a trasporsi in una vita passata, a penetrare uno psichismo estraneo, dunque ad abbattere la distanza temporale che ci separa da esso.La volontà di trasporsi in uno psichismo estraneo, obliando la propria situazione storica, cancella il senso più radicale della storicità e costituisce l'elemento più tipicamente antistorico dello storicismo. isentieridellaragione.weebly.com

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PENSIERO ERMENEUTICO

digilander.libero.it Per il pensiero ermeneutico, che si sviluppa in particolare nell'Ottocento con Schleiermacher e alle soglie del Novecento con Dilthey (vedi PROFILO STORICO Neokantismo, storicismo e filosofia della vita), qualsiasi testo, ma in generale qualsiasi espressione di vita oggettivata, non costituisce qualcosa di completamente estraneo all'interprete, in quanto questi è sempre in rapporto con il testo attraverso la tradizione e dispone già di una comprensione preliminare di esso. In Heidegger il problema ermeneutico è allargato alla struttura dell'esistenza, che è sempre un comprendere sebbene in forma per lo più implicita e non tematica. L'intero problema dell'essere tende così a risolversi in una radicalizzazione di questa comprensione pre-ontologica dell'essere. [...] L'interpretazione, che è promotrice di una nuova comprensione, de-ve aver già compreso l'interpretando. Si tratta di un fatto già notato da tempo, benché solo nell'ambito di forme derivate di comprensione e di interpretazione come l'interpretazione filologica. Questa cade nel domi-nio della conoscenza scientifica. Un tal genere di conoscenza richiede la rigorosa giustificazione dei propri asserti. Il procedimento dimostrativo scientifico non può incominciare col presupporre ciò che si propone di dimostrare. Ma se l'interpretazione deve sempre muoversi nel compreso e nutrirsi di esso, come potrà condurre a risultati scientifici senza avvolgersi in un circolo, tanto più che la comprensione presupposta è costituita dalle convinzioni ordinarie degli uomini e del mondo in cui vivono? Le regole più elementari della logica ci insegnano che il circolo è circulus vitiosus, Ne deriva l'espulsione a priori dell'interpretazione storio-grafica dal dominio del conoscere rigoroso.(13) Poiché il costituirsi del cir-colo è un fatto che non può essere eliminato, la storiografia finisce per doversi accontentare di procedimenti conoscitivi meno rigorosi. Si crede di poter in qualche modo ovviare a questa mancanza di rigore facendo appello al "significato spirituale" dei suoi "oggetti". Anche secondo l'opinione dello storiografo, l'ideale sarebbe, certo, che il circolo potesse essere evitato e trovasse fondamento la speranza di poter un giorno costruire una storiografia indipendente dall'autore, come sì presume lo sia la scienza della natura. Ma se si vede in questo circolo un circolo vizioso e se si mira ad evitarlo o semplicemente lo si "sente" come un'irrimediabile imperfezione, si fraintende la comprensione da capo a fondo. Non è il caso di modellare comprensione e interpretazione su un particolare ideale conoscitivo, che, in ultima analisi, è pur sempre una forma derivata di conoscere, smarri-tasi nel compito in sé legittimo della conoscenza della semplice-presen-za nella sua incomprensibilità essenziale. Il chiarimento delle condizioni fondamentali della possibilità dell'interpretazione richiede, in primo luo-go, che non si disconosca in partenza l'interpretare stesso quanto alle condizioni essenziali della sua possibilità. L'importante non sta nell'u-scir fuori dal circolo, ma nello starvi dentro nella maniera giusta.(33) Il cir-colo della comprensione non è un semplice cerchio in cui si muova qual-siasi forma di conoscere, ma l'espressione della pre-struttura propria dell'esserci stesso. Il circolo non deve essere degradato a circolo vitiosus e neppure ritenuto un inconveniente ineliminabile. In esso si nasconde una possibilità positiva del conoscere più originario, possibilità che è af-ferrata in modo genuino solo se l'interpretazione ha compreso che il suo compito primo, durevole ed ultimo è quello di non lasciarsi mai imporre pre-disponibilità, pre-veggenza e pre-cognizione dal caso o dalle opinio-ni comuni, ma di farle emergere dalle cose stesse, garantendosi così la scientificità del proprio tema.(43) (da M. Heidegger, Essere e tempo, trad it. Di P. Chiodi, UTET, Torino 1978) digilander.libero.it

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HANS GEORG GADAMER

filosofico.net SPECIAL_IMAGE-http://www.filosofico.net/firmagadamer.jpg-REPLACE_ME GADAMER (con il suo autografo) Hans Georg Gadamer (1900-2002), allievo di Heidegger a Marburgo, ha sviluppato alcuni aspetti del suo pensiero elaborando un'ermeneutica filosofica. Tradizionalmente, con ermeneutica ( dal greco hermeneus , che vuol dire colui che fa da interprete e media fra chi enuncia un messaggio e chi lo riceve ) s'intende la tecnica dell'interpretazione, elaborata e impiegata in discipline come la teologia, la filologia classica e la giurisprudenza, allo scopo di comprendere il significato di testi sacri o profani o delle leggi. Nell'Ottocento l'ermeneutica si era posta l'obiettivo di capire un autore meglio di quanto si fosse egli stesso compreso (caso tipico era stato quello di Schleiermacher con Platone). Per far questo si riteneva necessario riprodurre il passato in modo da riviverlo. La comprensione di un testo era vista come condizionata da un circolo fra la totalità del testo e le sue singole parti: il senso del tutto è ricostruibile a partire da quello delle parti, ma quest'ultimo, a sua volta, presuppone che sia conferito un significato preliminare al tutto. In queste prospettive il problema dell'interpretazione era concepito come proprio delle cosiddette scienze dello spirito, in primis della storiografia. In Essere e tempo Heidegger aveva, invece, mostrato che la comprensione è costitutiva della struttura dell'esistenza: l'esserci ha la prerogativa di comprendere se stesso e l'interpretazione è l'articolazione di questa comprensione, consistente nell'appropriarsi di quel che si è compreso. In tal modo, l'interpretazione cessava di essere soltanto un problema metodico e gnoseologico delle cosiddette scienze dello spirito, ma si trasformava in un più generale problema ontologico. Anche nella prospettiva di Heidegger essa appariva caratterizzata da un circolo: la comprensione, infatti, è sempre condizionata da una pre-comprensione, che si è venuta costruendo storicamente e nella quale l'esserci che comprende si trova situato, ma a sua volta la pre-comprensione è anche sempre messa in gioco e modificata attraverso la comprensione. Questo è il punto di partenza, che determina l'obbiettivo dell'ermeneutica filosofica di Gadamer: mettere in chiaro le strutture della comprensione e dell'interpretazione come strutture proprie dell'esistenza storica dell'uomo. Nato l'11 febbraio 1900 a Marburgo, Gadamer, la cui vita ricopre tutto il Novecento, ha studiato nell'università della città natale, dove nel 1922 ha conseguito il dottorato in filosofia con Natorp e nel 1929 la libera docenza con Heidegger. A Margurgo egli ha studiato anche filologia classica soprattutto con Paul Friedlander, che avrebbe poi scritto un ampio studio su Platone, e inoltre ha seguito le lezioni di storia delle religioni e di teologia tenute rispettivamente da Walter Otto e Rudolf Bultmann. Gadamer ha viaggiato molto anche per l'Italia (era cittadino onorario di Napoli, città di cui era innamorato); egli rievoca il suo primo impatto con Napoli scrivendo: " in uno dei quartieri popolari dove arrivai bighellonando vidi la seguente scena: da una stanza all'ultimo piano di un palazzo, si aprì una finestra e una vecchia signora calò una lunga fune con un cesto dal quale alcuni bambini che giocavano presero dei pupazzi ritagliati dalla carta colorata, con una gioia che mi commosse fino alle lacrime. Imparai che la povertà non esclude la gioia ". Convinto che " l'intesa tra gli uomini avviene sulla base di un orizzonte comune che vive nella lingua che parliamo, e nei testi eminenti che costituiscono il patrimonio di questa lingua " e che " l'esperienza di verità si dà solo nel dialogo, in quella dialettica di domanda e risposta che alimenta il movimento circolare della comprensione " , Gadamer intitolò il suo primo scritto l' Etica dialettica di Platone. Interpretazioni fenomenologiche del Filebo (1931). Dopo un periodo di insegnamento a Marburgo, Gadamer passa all'università di Lipsia, dove, con l'approvazione dell'autorità sovietiche di occupazione, è nominato rettore nel 1946-47. Successivamente passa a

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insegnare e Francoforte e poi, nel 1949, a Heidelberg, sulla cattedra tenuta da Jaspers; dal 1953 è direttore della "Philosophische Rundschau" e nel 1960 pubblica la sua opera più importante, Verità e medoto. Lineamenti di un'ermeneutica filosofica. Altri scritti, che illustrano e approfondiscono i temi della sua opera maggiore sono: Il problema della coscienza storica (1963, in francese); La ragione nell'età della scienza (1976); L'idea del bene in Platone e Aristotele (1978). A partire dal 1985 è in corso di pubblicazione l'edizione completa delle sue opere. A conferma del fatto che Gadamer fosse un ottimista, si può ricordare quanto egli affermò in un'intervista: " lei dice che sono troppo ottimista. Ma l'ottimismo non è una pecca. E neppure una virtù. E' un bisogno connaturato alla natura dell'uomo. Il pessimismo, invece, quello sì che è un lusso. Soltanto due 'borghesi' come Schopenhauer e Leopardi se lo potevano permettere... ". filosofico.net

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L'ermeneutica in Gadamer

isentieridellaragione.weebly.com D'altra parte, si può osservare come una piena e pura trasparenza critica sia impossibile senza ricadere nell'idea hegeliana dello spirito assoluto. Per Habermas l'ermeneutica manca di riflessione critica; per Gadamer l'ermeneutica (della finitezza) emancipa nella misura in cui mostra l'astrattezza dei metodi scientifici, dello storicismo, della coscienza estetica.Dal punto di vista gadameriano, effettivamente, la critica dell'ideologia di impianto francofortese può funzionare solo assumendo come criterio un Grund in qualche modo assoluto, dichiarato esente da ogni limitazione ideologica, mentre per l'ermeneutica ogni critica può esercitarsi solo a partire da un orizzonte storico-culturale determinato.

Nella terza parte di Verità e metodo viene esplicitato il carattere linguistico della comprensione, poiché "il linguaggio è il medium in cui gli interlocutori si comprendono e in cui si verifica l'intesa della cosa". Qui Gadamer applica al linguaggio le nozioni esaminate nelle parti precedenti: il linguaggio è gioco (perché trascende le singole soggettività); è trasmutazione in forma (perché ha un potere "creativo" e non meramente strumentale, nel senso che la denominazione non è un momento successivo e accidentale per la cosa, ma è ad essa coessenziale; la parola cioè concresce con la cosa e le appartiene, in quanto appartiene alla cosa l'esperienza che l'uomo ne fa); è storico (perché è nel linguaggio che la mediazione storica si deposita e si tramanda).Gadamer intende quindi il linguaggio, sulla scia del secondo Heidegger, nella sua funzione ontologica. Per lui non vi è possibilità di un'esperienza al di fuori del linguaggio: quest'ultimo precede l'esperienza in quanto complesso di relazioni che già sempre ci precede e ci determina. La dimensione linguistica ha un carattere universale che precede il parlante. L'uomo è sempre inserito in un orizzonte del mondo che è linguistico e che rappresenta una totalità di senso mai riducibile a oggetto. In questa prospettiva non è mai possibile un'esperienza prelinguistica, che fuoriesca dall'orizzonte del linguaggio.Il linguaggio presenta dunque un duplice carattere: da un lato è assoluto, universale, spirituale, ma dall'altro è finito, opaco, storico.Gadamer sinteticamente afferma: "L'essere che può venir compreso è linguaggio" (VM, 542).L'essere può essere compreso solo in quanto si dà nel linguaggio. Nel linguaggio è l'essere che si rende comprensibile. L'essere si manifesta a noi nel linguaggio.Ancora due rilievi. Il primo riguarda il fatto che l'interesse che guida e orienta l'interpretazione è per Gadamer fondamentalmente l'interesse per la verità: nello sforzo di comprensione dei testi non è soltanto il loro senso come tale che ci interessa, ma la supposta verità di quel senso, la "cosa stessa" cui il testo si riferisce.Tuttavia questa verità non si dà al di fuori della tradizione storica e del linguaggio che la esprime ed anzi si può dire che alla tradizione e al linguaggio e affidata senza residui.In secondo luogo, Gadamer parla di speculatività del linguaggio e cioè di un rispecchiamento in cui l'immagine rispecchiante (la parola) partecipa del manifestato e lo manifesta, al punto da risolversi in ciò, quasi scomparendo di fronte a ciò che manifesta (la cosa detta). D'altra parte, ciò che viene rispecchiato non ha un'esistenza propria indipendente dal rispecchiamento - che in questo caso sarebbe come una seconda esistenza - ma esiste soltanto nella parola rispecchiante.Il linguaggio è dunque per un verso una totalità assoluta, che non può essere trascesa, ma per altro verso non è assoluto perché non è produzione, ma soltanto autorappresentazione dell'essere. Il linguaggio dunque è speculativo: non produce l'essere, ma lo rappresenta e d'altra parte non si limita

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a riflettere l'essere, ma è l'unico modo in cui l'essere si dà (cfr. VM, 542).In conclusione si può evidenziare come l'ermeneutica gadameriana abbia un carattere universale perché riguarda heideggerianamente il comprendere come apertura al mondo nel suo rapporto con il passato. L'ermeneutica riguarda poi l'ontologia e un'ontologia linguistica, perché l'essere è linguaggio come apertura del e al mondo, come orizzonte della nostra comprensione del mondo.Contribuendo a urbanizzare la provincia heideggeriana (Habermas), con questo testo Gadamer ha universalizzato, sulla scia di un'ontologia del linguaggio, la problematica ermeneutica, dando impulso a un vasto movimento in cui si sono riconosciuti o con cui hanno dialogato autori come Pareyson, Vattimo, Ricoeur, Derrida, Rorty, Apel, Habermas. isentieridellaragione.weebly.com

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