cento anni di chirurgia

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Eugenio SANTORO Luciano RAGNO CENTO ANNi di ChiRuRGiA Storia e Cronache della Chirurgia italiana nel XX° Secolo Edizioni Scientifiche Romane

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Page 1: CENTO ANNi di ChiRuRGiA

Eugenio SANTORO Luciano RAGNO

CENTO ANNi di ChiRuRGiA

Storia e Cronache della Chirurgia italiana

nel XX° Secolo

Edizioni Scientifiche Romane

Page 2: CENTO ANNi di ChiRuRGiA

Ad Anna. E a Marisa.

Per la loro straordinaria pazienza

Page 3: CENTO ANNi di ChiRuRGiA

indice

Presentazione .........................................................Ringraziamento .....................................................

PaRte PRimail futuro ha un cuore antico

cap. 1 - Origine della Chirurgia moderna .......cap. 2 - Nascita della Società Italiana

di Chirurgia ...........................................cap. 3 - Evoluzione della Chirurgia nel ‘900 ...

PaRte SecondaLe Scuole chirurgiche italiane

cap. 4 - Scuola Romana ......................................cap. 5 - Scuola Napoletana ................................cap. 6 - Scuola Siciliana ......................................cap. 7 - Scuola di Torino ....................................cap. 8 - Scuola Lombarda ..................................cap. 9 - Scuola Veneta .........................................cap. 10 - Altra Italia Chirurgica ..........................

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Pag. 9» 11

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» 25» 37

» 51» 75» 93» 107» 123» 147» 161

Page 4: CENTO ANNi di ChiRuRGiA

PaRte teRzaFatti, fattacci, uomini e luoghi

cap. 11 - La chirurgia nelle grandi calamità .....cap. 12 - Le guerre: chirurgia al fronte ..............cap. 13 - Mussolini malato ..................................cap. 14 - Il bombardamento di S. Lorenzo ........cap. 15 - L’attentato a Togliatti ............................cap. 16 - Al capezzale dei Papi e del Re ............cap. 17 - Trapianti in Italia ...................................

PaRte QuaRtaLa Società italiana di chirurgia

cap. 18 - La struttura societaria e la sua evoluzione ..............................................

cap. 19 - Presidenti e Consigli Direttivi .............cap. 20 - I Congressi Nazionali ed il progresso

della scienza ...........................................cap. 21 - Le altre Società Chirurgiche ................

Bibliografia .............................................................

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Pag. 185» 191» 207» 215» 221» 229» 253

» 275» 285

» 309» 339

» 363

Page 5: CENTO ANNi di ChiRuRGiA

PRESENTAZIONE

Questo libro vuole contribuire alla conoscenza della Storiadella Chirurgia Italiana nel XX° Secolo, un secolo di meravi-glie, nel quale il progresso delle Scienze ha sconvolto, travol-to e trascinato anche la Chirurgia da un faticoso e laboriosopassato verso un futuro certamente fantastico.

Il libro è scritto a due mani perché la sua testimonianzaabbia un più vasto spessore: quello di chi, col cuore e conl’impegno quotidiano, questa vicenda l’ha vissuta dall’inter-no e quello di chi, con attenzione e con passione, l’ha seguitaprofessionalmente dall’esterno. Dunque, un chirurgo che hapercorso la seconda metà di questo Secolo ed un giornalistache di quel percorso, nello stesso periodo, ha raccontato tutti ipassaggi.

Scrivere la storia chirurgica di questo meraviglioso XX°Secolo è stato un atto di gioia e di curiosità. Rivivere glieventi, gli uomini, i luoghi, incontrare coloro che c’erano daprotagonisti o da spettatori, ricercare nelle memorie sepolteemozioni sempre vive, è stata una grande felicità.

In cento lunghi anni, in cento Città grandi e piccole, inmille Ospedali, la storia e la cronaca si sono inseguite comein un dedalo: percorrerne i sentieri è risultato sempre parzia-le, per quanti sforzi di completezza si siano fatti. Così tante

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notizie si sono riuscite a trovare, ma molte altre sono stateomesse non per scelta, ma per necessità o meglio per l’impos-sibilità di fare di più.

La vicenda complessiva, la Storia della Chirurgia Italianadi questo Secolo, è però di per sé più forte delle omissioni e fi-nisce col prevalere, delineando un proprio alto profilo, quellodi uno straordinario progresso, scientifico, organizzativo,culturale e professionale, in un grande Paese moderno.

Lo scritto è diviso in quattro parti.La prima parte delinea in maniera sintetica la nascita del-

la Chirurgia moderna e la sua evoluzione in Italia durante ilXX° Secolo, tra grandi scoperte e straordinari risultati.

La seconda è dedicata alle Scuole chirurgiche cresciute traUniversità e Ospedali, nelle grandi Città e nelle regioni ita-liane, raccogliendo e portando avanti il testimone di storie se-colari e millenarie che hanno fatto del nostro Paese un fulcrodi civiltà anche medica.

La terza parte è cronaca sociale, di quando la chirurgia èuscita dal tempio ed è scesa tra la gente per misurare la pro-pria dimensione con la storia vera: eventi, avvenimenti, uo-mini e luoghi nei quali e con i quali la Chirurgia Italiana diquesto Secolo si è incontrata traducendo, nell’episodico e nelcomprensibile, la propria complessa realtà.

La quarta è dedicata alla Società Italiana di Chirurgia chenell’intero Secolo è stata il filo conduttore ed il riferimentoineludibile di tutta l’attività chirurgica in Italia e di tutti co-loro che ad essa hanno legato la propria vita.

Mancano altre parti che altri scriveranno, prima tra tutte,quella della critica degli eventi, che solo da una distanzamaggiore può assumere un giusto profilo.

Nel volume, con la cronaca, è stato possibile solo esprime-re l’entusiasmo che da vicino questa storia positiva ha pro-dotto in noi e in altri come noi, nella felice convinzione di es-sere stati partecipi di una grande e meravigliosa avventura.

Gli Autori

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RINGRAZIAMENTO

A tutti i chirurghi, anziani e giovani, che ci hanno aiutatocon i loro ricordi e le loro ricerche ed a quelli che non ci sonopiù, ma che hanno lasciato scritti preziosi.

Ai generosi sostenitori che hanno reso il nostro sforzoplausibile e possibile.

Ai gentili lettori che, con la loro attenzione, renderannoomaggio, oltre che al nostro modesto sforzo, anche e soprat-tutto a cento anni di lavoro dei Chirurghi Italiani nel XX°Secolo.

Roma ottobre 2000

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Parte Prima

Il futuro ha un cuore antIco

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Cap. I

ORIGINE DELLA CHIRURGIA MODERNA

L’inizio della Storia della Chirurgia moderna è proba-bilmente datato gennaio 1845, Boston-MassachussettsGeneral Hospital. John Collins Warren aveva all’epoca67 anni ed era il Chirurgo Capo di quella Università damolti anni. La sua capacità professionale era nota ed ap-prezzata da tutto il Nord America, la sua autorità indi-scussa.Non lo stesso può dirsi della sua apertura menta-le; pensava che, in quegli anni e con lui, la Chirurgiaavesse raggiunto il proprio apice e che comunque Chi-rurgia e dolore, rapidità ed abilità fossero inscindibili.

Quel giorno, alla fine della seduta operatoria, davan-ti agli attoniti studenti e giovani medici, Warren feceentrare un dentista di Hartford, di nome Wells che asse-riva la possibilità di eliminare il dolore dagli atti chirur-gici, come dalle estrazioni dentarie, utilizzando il gasesilarante ossia il protossido d’azoto. In quegli anni conil protossido di azoto si facevano degli straordinarispettacoli teatrali: gli spettatori erano invitati sul palcoper respirare il gas. Dovevano essere uomini di assolutarispettabilità perché lo spettacolo non degenerasse.L’effetto del gas faceva ridere, cantare, ballare, parlare ostrillare.

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Wells aveva notato che talora, durante lo spettacolo,alcuni degli spettatori finivano in un sonno profondo ecadevano in terra in qualche caso ferendosi o sbattendola testa ma senza lamentarsi. Aveva così fatto uso delgas per le sue estrazioni dentarie, con successo.

Quel giorno nell’anfiteatro del Massachussetts Gene-ral Hospital l’esperimento riuscì solo in parte. Il pazien-te inalò il gas, cadde nel sonno ma al termine dell’estra-zione dentaria lanciò un grande ruggito. Era un pazien-te grasso e forse il gas non era stato sufficiente ma ciòbastò a Warren per allontanare lo sventurato Wells econfermare definitivamente le sue tesi. Invece era natala Chirurgia indolore.

L’esperimento fu ripetuto l’anno successivo ad otto-bre. Warren ammise un altro dentista, allievo di Wells, dinome Morton, che, con un chimico di chiara fama a quel-l’epoca, il prof. Jackson, di Harward, avevano a lungo di-scusso le proprietà esilaranti ed anestetiche di molti pro-dotti chimici. Quel giorno Morton nello stesso anfiteatrodel M.G.H. usò l’etere solforico. A quel primo malato ad-dormentato, di nome Abbott, Warren potè togliere senzaun lamento un tumore della ghiandola mascellare. A fineintervento il suo storico scetticismo lasciò posto in lui ein tutti gli astanti a una grande emozione.

Il secondo grande evento destinato a cambiare la sto-ria avvenne, invece, alla stessa epoca da quest’altra par-te dell’Oceano, nella grande Vienna imperiale, con lascoperta del contagio delle infezioni e con l’avvio delleprocedure di antisepsi e asepsi.

Ignaz Philip Semmelweis nel 1846 era assistentepresso la Clinica ostetrica dell’Ospedale Generale diVienna. In quell’anno morirono di febbre puerperale al-meno 36 pazienti su di un gruppo di 208. Erano donnedi povera condizione economica, giacchè a quell’epocale donne rispettabili partorivano a casa. Semmelweissoffriva di quelle morti, alle quali invece il prof. Klein,che della Clinica era il Direttore, sembrava indifferente.

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La clinica era fatta di due corsie di pochi letti: in unavenivano addestrate le levatrici, nell’altra, dove lavora-va Semmelweis, i medici. Delle donne morte gli stessimedici facevano le autopsie, la cui tecnica Semmelweisaveva appreso da Rokitansky. La mortalità nella corsiadei medici era superiore di dieci volte a quella dellacorsia delle ostetriche. Poiché l’accettazione nelle duecorsie avveniva a giorni alterni, le partorienti viennesiche sapevano dell’alta mortalità nella corsia dei medicievitavano di ricoverarcisi, trattenendo le doglie.

L’intuizione di Semmelweis fu che le mani dei medi-ci trasportavano l’infezione dalla sala settoria, dall’au-topsia, dai cadaveri alle partorienti. Il 15 maggio 1847Semmelweis affisse un avviso sulle porte della sua cor-sia: “Si fa obbligo ad ogni medico e studente, che vengadalla sala anatomica, di lavarsi accuratamente le maniprima di entrare nella corsia del reparto maternità ser-vendosi della bacinella di acqua di cloro posta all’in-gresso”. All’epoca, Semmelweis nulla sapeva di micro-bi e la sua intuizione fu perciò ancora più clamorosa. Lamortalità scese dal 12 al 3 per cento; tuttavia il proble-ma non era superato.

Nell’autunno del 1847, tutte e dodici le pazienti dellacorsia contrassero la febbre puerperale e nove ne mori-rono. Semmelweis capì che la febbre l’avevano trasmes-sa i medici e gli studenti visitando una malata dopol’altra. Ordinò così che, tra una visita e l’altra, era ne-cessario lavarsi le mani e che anche gli strumenti venis-sero lavati, anziché puliti sulle falde delle giacche deimedici, e infine fece isolare le pazienti infette.

Questa rivoluzione organizzativa, malgrado glistraordinari successi clinici ed il crollo della mortalità,creò a Semmelweis grande inimicizia nell’ambiente apartire da studenti e infermiere il cui impegno, tralavaggi e pulizie, era andato crescendo di giorno ingiorno. Nel dicembre 1847 il giornale della Reale Impe-riale Associazione dei Medici di Vienna, pubblicò a fir-

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ma del Dott. Hebra un resoconto degli esperimenti diSemmelweis.

Sopraggiunse il 1848, l’anno delle insurrezioni na-zionali in tutta Europa. I ribelli ungheresi alzarono lavoce e le armi contro l’Imperatore d’Austria e Sem-melweis, che era ungherese di nascita, pagò per quellainsurrezione e perse il suo posto alla Clinica Ostetrica.Il suo stesso capo, prof. Klein, lo denunciò come tradi-tore e si adoperò perché non gli fosse rinnovato l’incari-co. Semmelweis lasciò Vienna e tornò a Budapest a fareil medico generico, poi il 20 maggio 1851, venne nomi-nato Direttore Onorario, ossia senza retribuzione, delReparto di maternità dell’Ospedale “S. Rocco”. Doposei anni di duro lavoro, anche qui ridusse la mortalità ameno del uno per cento e nel 1855 fu nominato Docentedi Ostetricia presso l’Università di Budapest. Nel 1857,in apprezzamento per i suoi studi, gli fu offerta la Cat-tedra a Zurigo che rifiutò probabilmente nel timore diripetere la disgraziata esperienza viennese. Ormai peròla sua dottrina aveva fatto il giro del mondo. L’antise-psi era comparsa in tante sale operatorie e ospedali. Eranata la Chirurgia pulita, il cui profeta fu Joseph Listerdi Glasgow con l’impiego intensivo dell’acido fenico.

Gli anni ’60 e ’70 furono un grande fervore di studiclinici. La rivoluzione si era compiuta. La Chirurgia eradiventata indolore e pulita. Era sparita la sofferenza edera crollata la mortalità. Si aprivano i grandi spazi dellaChirurgia viscerale in tutto il mondo ed anche in Italia.

In quegli anni anche la Chirurgia italiana stava pervivere una assai fertile stagione che resterà legata al no-me di Edoardo Bassini e del suo “metodo radicale per lacura dell’ernia”. Sino a quel 1887, nella millenaria storiadella Chirurgia, si erano avvicendati tanti metodi più omeno cruenti per mettere rimedio a quella infermità co-sì frequente ed alla lunga invalidante: tutti con pocosuccesso. Bassini,all’epoca Professore a Padova, mise afrutto i lunghi studi di anatomia che in gioventù aveva

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fatto all’Università di Pavia. Da quel giorno, e per alme-no cento anni, la sua tecnica sarà applicata ovunque elui sarà probabilmente il chirurgo, il nome più conosciu-to e riconosciuto nelle sale operatorie di tutto il mondo.

Bassini era nato nel 1844 a Pavia ed in quella Univer-sità si laureò a 22 anni. Era il 1866, anno di grandi fer-menti rivoluzionari e di guerre risorgimentali. Il giova-ne Edoardo appena laureato seguì il destino di tantigiovani di quell’epoca e corse al fronte. Si arruolò neiCacciatori delle Alpi, partecipò alle battaglie del dopoCustoza, in Val Camonica, sull’Adamello, ricacciandogli Austriaci oltre il Tonale. L’armistizio e la pace frena-rono lo slancio di quell’esercito e di quei giovani manon l’entusiasmo. E così l’anno dopo, il 1867, Bassini edi suoi studenti seguirono a Roma i fratelli Cairoli. Inquell’ottobre a Villa Glori ci fu gloria e sconfitta per tut-ti, morte e ferite per molti. Morì Enrico Cairoli tra lebraccia del fratello Giovanni anch’egli ferito. E fu colpi-to al ventre dalla baionetta di uno zuavo anche Bassiniche fu ricoverato al “Santo Spirito”, antichissimo Ospe-dale Romano limitrofo alla Basilica di S. Pietro. Pareche Pio IX° visitasse i feriti ed a quel giovane lombardo,in pericolo di morte per una peritonite stercoracea, ab-bia detto: “Speriamo che guarisca e che metta giudi-zio”. La sua fistola guarì ma ci mise un anno e richiesetutta l’abilità dei suoi colleghi della Clinica Chirurgicadi Pavia e del suo illustre direttore prof. Porta.

Guarito dalla grave ferita, Bassini mise giudizio, di-menticò i suoi ardori rivoluzionari e si dedicò intera-mente alla Chirurgia. Fu dapprima Assistente ed Aiutodi Porta. In quella antica Università a quell’epoca lavo-ravano ed insegnavano nomi illustrissimi: Camillo Gol-gi che sarà più avanti il primo Premio Nobel italianoper la Medicina, Edoardo Porro che per primo eseguìun taglio cesareo demolitore, Carlo Forlanini inventoredel pneumotorace terapeutico, Francesco Orsi e PietroGrocco, illustri clinici medici.

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Ma pur con tanti eccezionali Maestri, quel talento in-quieto che era Edoardo Bassini, anche su consiglio diPorta, prese la strada dell’estero: andò a Vienna dalgrande Billroth, poi a Berlino da Langhenbek ed infinein Inghilterra a Glasgow, a Edimburgo, a Londra ovun-que fossero applicate le teorie di Lister sull’antisepsi.Nel 1875 a 31 anni dovette tornare in Italia per gli esa-mi di Libera Docenza e per la morte improvvisa di Por-ta cui subentrò Enrico Bottini. Per lui ci fu un incaricodi “Chirurgia moderna” a Parma ma poco dopo scelseil Primariato di La Spezia che occupò per concorso, fa-cendo di quell’Ospedale e di quella città un punto di ri-ferimento per tanti chirurghi, anche stranieri. Solo nel1882 ottenne per concorso la Cattedra a Padova. È l’an-no della fondazione della Società Italiana di Chirurgiama lui non partecipò a quelle Assemblee romane.

A Padova lavorò duramente. Propose una chirurgiadiversa e nuova ed uno stile di vita che Umberto Bor-ghetti, Primario chirurgo dell’Ospedale Bassini di Mila-no celebrerà in un lucido ricordo.

Innumerevoli sono in realtà i contributi originali diBassini alla chirurgia, molti i suoi metodi che vanno inve-ce sotto i nomi di altri. Per ritrovare la verità bisognaspesso in letteratura ricercare la descrizione originale diqueste metodiche sotto il nome, nel migliore dei casi, diqualche suo assistente: modestia, umiltà da parte sua, ge-nerosità nei confronti degli allievi. Chi si ricorda oggi chela chirurgia delle tiroide è stata iniziata e ben codificatada Bassini, prima che da Kocher? Ma della brillantissimasua casistica dà una breve notizia solo uno degli allievi, ilCatterina su di una rivista locale. Chi si ricorda, o sa, chedi Bassini è l’intervento di isterectomia subtotale che sidiffuse poi in tutto il mondo sotto altri nomi? Sua è unaparticolare metodica per il trattamento della palatoschisi,sua, ma descritta dagli allievi, è la tecnica dell’amputazio-ne interscapolotoracica con legatura primaria dell’arteriasucclavia, sua è una tecnica per l’anchilosi temporo man-dibolare, sua la resezione ileocolica, sua la miglior tecnicaper la fissazione del rene mobile. Sua, e di enorme impor-

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tanza, la sutura vasale. Bisognerebbe davvero rivendicaretutti gli originali contributi di quest’uomo di cui ho citatosolo alcuni. Risalterebbe ancor più luminosa la sua figuradi pioniere della chirurgia nei campi più svariati.

Ma l’intervento di cui nessuno poteva toglierli il meri-to fu la scoperta del metodo di cura radicale dell’ernia in-guinale. Fu definita un’opera eccelsa, sommamente bene-fica, imperitura. In questa sede credo di dover sottolinea-re soprattutto l’importanza sociale di quest’intervento:basti pensare che di quella infermità circa il 15 per centodegli individui sembra essere affetto, e si può subito ave-re un’idea di quanto sollievo e profitto l’umanità abbiatratto da un metodo di cura radicale di un’affezione forte-mente limitativa dell’attività personale, per i pericoli cherappresenta, specialmente per chi è dedito a fatiche pe-santi come i contadini e gli operai.

Quest’intervento, rapidamente diffusosi in tutto ilmondo, ha voluto significare il ricupero al lavoro di unamoltitudine immensa di uomini e gli diede una fama im-peritura. Chirurghi di ogni parte vennero alla sua clinicaper apprenderlo e lo adottarono, talchè si può dire chenon ci sia chirurgo che non la abbia riconosciuta come lametodica più sicura per evitare una recidiva della infer-mità. Quando ricorse il 50° della prima operazione di Bas-sini con il nuovo metodo, nel 1937, e convennero a Pado-va i migliori chirurghi del mondo, anche coloro che ave-vano cercato di portare modifiche dovettero convenireche le migliori statistiche, i migliori risultati, in mani dichiunque, li aveva dati ancora la tecnica originale, così co-me egli l’aveva minuziosamente descritta.

Ma in quel Congresso il mio indimenticabile MaestroMario Donati, successore sulla Cattedra di Padova diEdoardo Bassini, disse una cosa di grande rilievo, e fuforse quella l’osservazione più acuta, che egli aveva delresto già espresso nel 1922 nella sua prolusione padova-na: “Il Bassini ha con questa tecnica introdotto in chirur-gia un principio di altissimo valore che fu posto e rimanecome cardine della tecnica operatoria moderna, il princi-pio cioè della ricostruzione a strati delle ferite e delle par-ti, sul tipo della struttura fisiologica”.

Bassini era in quegli anni un uomo schivo. Parteci-pava eccezionalmente alla vita sociale, ciononostante,

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per i suoi meriti, nel 1904 fu nominato Senatore del Re-gno. Viveva da solo in una piccola casa vicino all’Ospe-dale. Dedicava il tempo libero alla sua tenuta agricola aVigasio che raggiungeva a cavallo.

Per lui scrivevano i suoi allievi, Catterina, Spangaro,Austoni e Preto che nel 1904 fondò l’Ospedale milanesededicato appunto al Maestro.

Scrisse però di suo pugno la descrizione originaledel metodo.

Con questo metodo che è quello che propongo e dal1884 esclusivamente uso, operai 262 ernie, e precisamenten.251 ernie inguinali tra libere ed irriducibili, ed 11 stroz-zate.

Prima di riferire il risultato delle operazioni credo con-veniente dare la descrizione del metodo operativo.

Ecco come opero nell’ernia inguinale esterna, acquisita.Uso la profonda anestesia e s’intende una rigorosa me-

dicazione antisettica.Incido gli integumenti della regione inguino-scrotale

erniosa; denudo l’aponeurosi del grande obliquo per laparte di essa che corrisponde al canale inguinale; apertu-ra dell’ernia, mettendo a nudo i pilastri dell’anello ingui-nale sottocutaneo; chiudo i vasi sanguinanti.

Questo costituisce il primo momento dell’operazione.Nel secondo momento taglio l’aponeurosi del grande

obliquo dall’anello inguinale esterno fino al di là del livel-lo dell’anello interno; dissecco poi sopra e sotto a guisa didue lembi l’aponeurosi del grande obliquo, indi distaccoe sollevo in totalità il cordone spermatico ed il collo delsacco erniario.

Tenendo l’indice sotto le dette parti isolo dagli elemen-ti del funicolo spermatico il collo del sacco erniario finoall’imboccatura dell’ernia. Questo isolamento riesce senzagrande difficoltà, cogli strumenti ottusi, sia che si tratti diernia acquisita che di congenita. L’isolamento del collodel sacco dev’essere fatto fino entro la fossa iliaca; cioè aldi là dell’imboccatura del sacco stesso.

Subito dopo isolo il corpo e fondo del sacco e lo ripie-go all’esterno. Apro il fondo del sacco ed esamino se onon esistono aderenze delle viscere erniose. In caso di

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aderenze o di omento ispessito tolgo le aderenze ed estir-po, ove è conveniente, l’omento. Ridotte le viscere attorci-glio il sacco (collo) ed applico al di là dell’imboccatura unlaccio e recido mezzo centimetro sotto la legatura. Se l’er-nia è voluminosa e quindi il collo e la bocca del sacco lar-ghi oltre la legatura semplice, applico sotto (all’esterno) diquesta una legatura mediata in due parti, per assicurarela chiusura ed impedire la sfuggita del laccio. Il peritoneocosì legato si ritira nella fossa iliaca interna.

Con l’estirpazione del sacco e la legatura di esso al dilà della imboccatura resta finito il secondo momento del-l’operazione.

Nel terzo momento devio il cordone spermatico isola-to stirandolo leggermente in alto sulla parete addominalee se occorre anche il testicolo tirandolo fuori dallo scroto:faccio con uncini acuti e larghi stirare in basso l’inferioreed in alto il superiore dei lembi dell’aponeurosi del gran-de obliquo e così riesce facile disseccare la doccia formatadal legamento di Poupart fino al suo bordo posteriore, edun centimetro al di là del punto ove il cordone spermaticoesce dalla fossa iliaca; poscia distacco per dissezione dal-l’aponeurosi del grande obliquo e dal connettivo adipososottosieroso il margine esterno del muscolo retto anterioredell’addome, ed il triplice strato formato dal muscolo pic-colo obliquo, dal muscolo trasverso e dalla fascia vertica-lis del Cooper, fintanto che detto triplice strato riunitopossa essere avvicinato senza difficoltà al bordo posterio-re isolato della corda di Poupart.

Ciò fatto cucio queste due parti fra loro con sutura no-dosa per il tratto da 5 a 7 cent. che corre dalla spina delpube infuori fino contro il cordone spermatico spostatoper un cent. circa verso la spina anteriore superiore dell’i-leo.

Così è compiuto il terzo momento dell’operazione e ri-fatta l’apertura interna od addominale e la parete poste-riore del canale inguinale.

Nella sutura che sopra dissi è bene usare seta e puntistaccati, comprendere due o tre centimetri di margine deltriplice strato muscolo aponeurotico. I due primi punti,applicati appena all’esterno del pube, comprendono an-che il margine esterno del muscolo retto anteriore dell’ad-dome.

Finito questo momento dell’operazione se si eccita il

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vomito all’ammalato (io lo feci nelle prime 50 operazioni)la regione inguinale si mostra già capace di resistere allapiù forte pressione endo-addominale, ed il triplice stratomuscolo aponeurotico fissato al legamento di Poupart sipresenta fortemente teso ed immobile nella sua nuova po-sizione.

Nel quarto momento od atto operativo metto in posi-zione il cordone spermatico, ed il testicolo, se fu deviato,riunisco con sutura l’aponeurosi del grande obliquo finoad avvicinare i bordi dei pilastri al cordone ed unisco lacute; infine medico.

Uso la fognatura nei soli casi di ernia molto volumino-sa, antica, appo cui la dissezione ed isolamento del saccoerniario riuscì assai difficile.

In quella fine secolo la Chirurgia oltre che cambiarenella sostanza, dopo Warren, Wells e Morton, Sam-melweis e Lister, cambiò anche nella forma: nel 1883 fuaccantonata la tradizionale redingotte che con i nuoviconcetti dell’asepsi poco si conciliava. In quell’annoGustave Neuber introdusse l’uso del camice e del cap-pellino, nel 1888 William Halsted impiegò i guanti digomma. Infine il grande Mikulicz nel 1899 cominciò adutilizzare le mascherine.

Nel frattempo nel 1892 alla Sorbona ci fu lo storicoincontro tra Lister e Pasteur: fu quasi una festa di ma-trimonio tra Chirurgia e Biologia e sarà foriera deigrandi progressi del XX° Secolo.

Così negli anni ’80 di quel XIX° Secolo la Chirurgiaed i Chirurghi sentono di essere usciti dall’empirismo edalla barbarie affrontando il loro lavoro come Arte e co-me Scienza. E così nacquero le Società Scientifiche Chi-rurgiche.

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Cap. II

NASCITA DELLA SOCIETÀ ITALIANA DI CHIRURGIA

In quel contesto, in quell’Italia che a fatica diventavaStato, in quella Roma che stentava a riconoscersi Capi-tale, nacque la Società Italiana di Chirurgia. Era il 1882.Tutto iniziò con una lettera circolare datata 20 gennaioed indirizzata per l’iniziativa di sette uomini illustri aiChirurghi conosciuti del Paese:

Egregio Collega, da qualche tempo corre fra i Chirurghi Italiani non già

la idea ma il vivo e sentito desiderio di riunirsi e collegar-si in Società, intesa a far conoscere, apprezzare e diffonde-re il lavoro ed i trovati della Chirurgia Italiana.

In diverse occasioni codesto desiderio ebbe a rendersipalese con generale plauso ma come avviene di molte co-se utili e proficue che pure si vogliono, e nullameno ri-mangono allo stato latente per difetto d’iniziativa, cosìquesto desiderio, che è nella mente e nell’animo di molti,rimarrebbe senza effetto se qualcuno non si decidesse avivificarlo.

I sottoscritti pertanto, avendo avuta l’opportunità diradunarsi per altro scopo in Roma, stabilirono di costi-tuirsi in Comitato promotore per attuare siffatta idea.

Non si può nascondere, né varrebbe il farlo, che in Ita-

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lia si conoscono meglio le produzioni estere delle nazio-nali; e con questo plagio alle altrui operosità ed intrapen-denza, si incorre in una colpevole dimenticanza di ignora-re quel po’ di buono che anche fra noi si sa produrre.

Riunendoci pertanto una volta all’anno, ed avendo co-sì opportunità di meglio conoscerci, avremo anche occa-sione di stimarci di più.

Le adunanze sarebbero stabilite per le ferie Pasquali, ela prima si farebbe in Roma, ove l’Assemblea dei conve-nuti discuterebbe il proprio regolamento fondamentale eprocederebbe alla nomina delle cariche in quello stabilite.

Le consecutive adunanze annuali dovrebbero volta avolta avvenire in diverse città designate precedentementedall’Assemblea.

Alla Società devono compartecipare i Professori diChirurgia delle varie Università Italiane nonché quei Pri-mari di cospicui Spedali, od anche liberi, i quali pel valoredelle loro produzioni godono di meritata rinomanza: me-ta della Società essendo quella di favorire con nobile emu-lazione il progresso della Scienza ed il perfezionamentonell’arte.

Lo scopo elevato cui mira la proposta Associazione, edil bene che potrà ridondarne al decoro e al lustro dellaChirurgia nazionale, giova ritenere, non troveranno lan-guido lo spirito dei contemporanei, e la Società fin dal na-scere porgerà larghe promesse di una vita feconda e rigo-gliosa.

I firmatari erano sette. Ferdinando Palasciano era nato nel 1815 a Capua,

grande protagonista della Scuola Chirurgica Napoleta-na, Primario di vari Ospedali di quella città e poi Diret-tore della Clinica Chirurgica. Di lui si ricordano, oltre ilgrande lavoro scientifico e professionale, anche gesti si-gnificativi e clamorosi, come le dimissioni dalla Catte-dra per protesta contro la collocazione del suo repartoaccanto ad uno di malattie infettive, fonte di contagioper i suoi operati. All’epoca ancora poco si sapeva diinfezioni ma in seguito la storia, più che i fatti, gli det-tero ragione. Si ricorda anche il processo e la condannache subì per aver assistito i feriti nemici durante l’asse-

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dio di Messina nel 1848, disobbedendo, da capitanomedico dell’esercito borbonico, agli ordini del generaleFilangeri. Di quelle idee di solidarietà umana egli fece ilproclama della neutralità che fu ripreso nella Conven-zione Internazionale di Ginevra che dette vita alla Cro-ce Rossa Internazionale.

Giuseppe Corradi era nato a Pisa nel 1830, Direttoredella Clinica Chirurgica di Roma, appena Capitale, dal1870 al 1872 e poi di quella di Firenze, dove morì nel1907. Fu uno dei padri dell’Urologia. Ed inoltre CarloGallozzi di Napoli, Enrico Bottini di Pavia, Pietro Lore-ta di Bologna, Enrico Albanese di Palermo, CostanzoMazzoni di Roma che diventerà, l’anno successivo, ilprimo Presidente.

Il successivo atto di Fondazione della Società portala data del 3 aprile 1882, anticipando di un anno la fon-dazione della Società Francese di Chirurgia. La SocietàTedesca era stata fondata un anno prima. La primaadunanza fu aperta da Palasciano ed il suo discorso fuforte e vibrante.

Egregi Colleghi,uomini i quali han consacrata la loro vita all’insegna-

mento dell’Arte ed al culto della Scienza, i Promotori diquesta adunanza, han voluto concedermi il gradito onored’indirizzarvi la parola in loro nome, onore che accettaiobbligatovi dal non lieto privilegio dell’età.

Essi desiderano che io vi esponga i loro intendimentinella fondazione della Società Italiana di Chirurgia, ondeciascun membro possa meglio e più efficacemente colla-borarvi.

Chi si facesse a considerare spassionatamente l’odier-no grado di coltura scientifico-pratica dei Chirurghi delnostro Paese potrebbe per avventura trovar superflua l’i-stituzione di una speciale Società, essendo che già, senzauna tale istituzione noi avessimo ben poco da invidiarealle altre Nazioni sì per quanto si appartiene alle scientifi-che investigazioni, e sì per quel che riguarda l’attitudine el’abilità di eseguire le più ardite operazioni.

Ma, senza metter niego a siffatte considerazioni, i pro-

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motori della Società stimano dovere impreteribile di cia-scuno di noi il non trascurare nulla che possa contribuireal miglioramento delle nostre condizioni intellettuali edall’aumento della nostra efficienza pel vantaggio degli in-fermi che ci afffidano la loro vita. E già gli Atti della sezio-ne chirurgica dei Congressi degli Scienziati Italiani sononel dominio della Storia per poter ineluttabilmente prova-re di quanta utilità e di quali vantaggi sian capaci taliadunanze. Ciò che gli Atti non han potuto trasmettere eche solo i pochissimi superstiti di quelle memorabili adu-nanze potrebbero attestare, è la espressione dei nobili sen-timenti e delle generose aspirazioni generati da quelleadunanze, quando i fratelli divisi da sette sospettose ti-rannidi stringevano commossi le loro destre nei dolci no-mi dell’Italia e della Scienza. Deh! Possa il solo palazzodei dogi, che ora ha la fortuna di parlarvi, evocandone larimembranza trasfondere nei vostri cuori l’eco di queisentimenti e di quelle aspirazioni!.

I promotori della presente adunanza non ignorando ilpoco favore che incontra oggidì lo spirito troppo rigidodelle Accademie, e non dissimulando neppure le disillu-sioni generate dalla precarietà e dalla soverchia libertà deiCongressi, han prescelta la forma di Società, la qualementre adotta l’esame ponderato delle Accademie, nonesclude la libera concorrenza dei Congressi. Ma implicaprincipalmente il sacro legame della fratellanza durevole,della stima e dell’amore reciproco dei membri, del “cia-scuno per tutti e tutti per ciascuno”. E siatene sempre per-suasi, o Signori, se noi vogliamo rialzarci nella stima delpubblico, bisogna che cominciamo a stimarci ed amarcifra noi stessi. E questo deve essere e sarà il fine precipuoda non perdersi mai di vista dalla nostra Società.

Riuniamoci e manteniamoci uniti con tali intendimen-ti; ed avremo ben presto la soddisfazione di veder finite laperizia forzosa, la denunzia legale e la schiavitù dellaChirurgia. E se per sventura d’Italia ritorneranno ancorauna volta alla Minerva gli uomini di lettere che campanodi politica, non si ripeteranno mai più le ignomie cui sog-giacque la Clinica Chirurgica di Napoli nel 1866 e l’esclu-sione dei Chirurghi dal Consiglio Superiore della Istru-zione Pubblica per 20 anni durata.

Io non vi ho mai parlato di Scienza, perché sono inti-mamente convinto che, sotto un tale aspetto, se lavoriamo

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ed incessantemente lavoriamo, l’avvenire non potrà man-carci: perché nessuno oserà mai negare agli Italo-Greci illoro atavismo chirurgico, e perché noi abbiamo l’invidia-bile retaggio dei principii tradizionali immutabili dell’ar-te, che già in varie occasioni alcuno tra noi venne espo-nendo, e che con vera compiacenza si odono ogni giornoqui ricordati da chi si assunse il difficile compito d’indi-rizzare i giovani allo studio della Chirurgia.

Erano tempi romantici. Del tutto in linea con le ideee le espressioni di Palasciano. Quel giorno Il Messaggeron. 92 del suo IV° anno di pubblicazione apriva con unfondo intitolato “Giustizia!” In realtà vi si raccontavadelle sfrenate corse degli Omnibus a cavalli per le viedi Roma che provocavano morte e feriti.

Ieri a Roma, il cocchiere dell’omnibus di un albergo,desideroso di sopravanzare il legno di un suo compagno,si condusse in modo che mise sotto le ruote tre giovanetti.Uno è morto, l’altro è all’ospedale, il terzo per miracolosolo fu salvo.

È la prima volta che questo avviene?Chi vive a Roma sa che non v’è un fatto così comune.

Si parla un momento delle vittime, si compiangono, si do-manda un po’ più di vigilanza da parte delle guardie mu-nicipali; poi è finita.

I morti si sotterrano, le famiglie piangono, e nessunopensa a provvedere. Qualche rara volta il cocchiere è con-dannato a cinque lire di multa o tre ore di carcere; e non cisi pensa più.

Questa non è giustizia; questa è scelleratezza bella ebuona. La vita dei cittadini deve essere rispettata, e chil’assale deve essere punito con severità tremenda.

Gli antichi dicevano: Occhio per occhio, dente per den-te, vita per vita. Era feroce ma giusto; se fosse stata sem-pre eseguita questa legge, non si avrebbe lo scandalo del-l’impunità di molti bricconi.

Si parla di disgrazie. Ma forse il cocchiere non sapevache sulla strada ci potevano essere delle persone, delledonne, dei bambini? E nondimeno è andato avanti. Paghidunque il fio della sua imprudenza omicida.

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Il giorno dopo le notizie dello stesso giornale, purdiverse, avevano l’identico straordinario tono. Il titolodel fondo era “Vittoria pacifica”: si commentava l’avve-nuta vendita del vino italiano alle cantine della Cameradei Deputati inglese.

La Camera dei Deputati inglese e il Reform-club, il cir-colo più importante di Londra, che conta molte centinaiadi soci, hanno adottato per le loro cantine la provvista deivini italiani.

Fino ad ora tutte le cantine inglesi di lusso erano ap-proviggionate dai vini di Francia e di Spagna. Ma unbuon bicchiere del nostro barolo vecchio, una buona bot-tiglia di marsala hanno convertito parecchie ostinazioni, efatto passare innanzi i nostri vini.

Non si tratta di una piccola faccenda. I cinquecento de-putati del Parlamento inglese sono bevitori di tanta forza,che bastò il chiudere la cantina a una data ora per chiude-re al tempo stesso la seduta. Senza vino, senza deputati;così la pensano a Londra.

Ma non sono le poche migliaia di bottiglie quelle chedanno importanza al fatto.

Quello che bisogna notare è lo strappo fatto alla modadell’alta aristocrazia, avversissima finora a servirsi dei vi-ni italiani.

In Francia la filossera ha saputo così ben fare che hadistrutto la maggior parte dei vigneti, rendendo scarsa ecostosissima la produzione; sicchè il buon vino di Franciaè salito a prezzi favolosi.

Da noi la filossera non fa ancora danno, e speriamoche non ne faccia in seguito. Perciò il vino che dall’Italiava all’estero rappresenta la bellezza di duecento milionidi litri.

Nella primavera dell’anno successivo, il 1883, si ten-ne il primo Congresso a Roma, nella sala dell’Accade-mia Medica dell’Ospedale “Santo Spirito”, ove avevaallora sede la Cattedra di Clinica Chirurgica dell’Uni-versità, diretta dall’Illustrissimo professor CostanzoMazzoni, Primario di quell’Ospedale e, dall’Assembleadell’anno prima, nominato Presidente della neonata so-

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cietà. Quella mattina, Mazzoni era passato prima incorsia a vedere i suoi malati ed arrivò nell’aula alle ore9,30. Già erano presenti il rappresentante del Prefettoed il Preside della Facoltà Medica di Roma, professorGalassi. Erano anche presenti trenta Soci, tra gli altri:Corradi che aveva preceduto Mazzoni nella Cattedraromana; Bottini, che aveva firmato l’atto di fondazione;Durante che succederà a Mazzoni nella Cattedra e nellaPresidenza della Società; l’altro Mazzoni, Gaetano, Pri-mario al “S. Giovanni” di Roma; D’Urso, che sarà clini-co chirurgo a Messina, morendovi nel terremoto del1908 e Postemsky, polacco d’origine, primario dell’O-spedale della Consolazione a Roma, il cui nome è rima-sto legato all’intervento di ernioplastica.

Egregi Colleghi, Ecc.mi Signori – disse Mazzoni apren-do i lavori- l’Illustre mio Predecessore il Palasciano di Na-poli, inaugurando nel decorso anno la prima adunanzadella Società Italiana di Chirurgia, dimostrò con fermeparole, come la fondazione di una Società di ChirurghiItaliani avendo lo scopo di riunire tutte le forze Chirurgi-che in un sol fascio, dovesse riuscire proficua all’Arte, allaScienza ed alla Classe.

In verità appo Noi la Classe Chirurgica, sebbene godaprivilegi ed alta posizione sociale, nullameno spesso è di-menticata e più spesso costretta ad atti che la rendonoschiava ed umiliata. Parlino per me quei Chirurghi, i qua-li obbligati ad obbedire alle esigenze del foro, debbonosopportare fatiche ingrate e penose, sempre rimuneratecon umiliante e indecorosa mercede, per non dire con ve-ro danno dei propri interessi. Parlino i Chirurghi dellepiccole condotte, i quali dopo lungo e onorato eserciziotrovano per compenso l’abbandono e lo sconforto.

Eppure nessun’altra professione rende alla Società be-nefici maggiori né più segnalati.

Contro siffatta situazione non vi ha che un solo rime-dio, l’unione cioè salda e concorde fra Noi, stretta dallastima reciproca o confortata dal reciproco consiglio, osser-vando quel patto di fratellanza, come si trova scolpito infronte al nostro Diploma “Ciascuno per tutti, tutti per cia-scuno”.

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Con tale intendimento soltanto la intiera nostra classepotrà elevarsi a più puro orizzonte e circondarsi di quelprestigio, che rende gli uomini e le cose apprezzati e pro-tetti.

E perché questa concordia riesca efficace e duraturaoccorre che sia corroborata dal lavoro veritiero, efficace;da quel lavoro ispirato alla tradizione dell’arte e feconda-to dai lumi del progresso.

E per tanto a me sembra che sia di grande conforto ilpensare, come in mezzo alla grande volubilità delle uma-ne cose, Noi possiamo in Chirurgia attenerci ad un puntoassai saldo: intendo dire alla tradizione dell’arte, la qualenelle recenti istituzioni, anziché perdere di sua efficacia,trova invece una solenne conferma. E con un senso di ri-verente ammirazione non posso non ricordare, come quiin Roma, in questo centro dell’antica sapienza, avesseesercitata la Chirurgia Arcagato, Asclepiade; come avessequi dettata l’immortale sua opera quell’Aulo CornelioCelso, sempre grande e sempre nuovo; come Galeno quiesercitasse la Chirurgia presso i Gladiatori e presso ognipersona, che desiderasse la sua opera. La sua Apoteca si-tuata presso il tempio della Pace fu distrutta in gran partedall’incendio del tempio, e con essa furono distrutte an-che molte sue opere di Chirurgia.

Ciò che dirò di Archigene di Musa e di te o Antillo! ….Che delle tue opere, delle quali i pochi brani laceri, salvatidalla voracità del tempio ispirano tanta ammirazione etanto desiderio!

L’esercizio della buona Chirurgia in Roma continuò fi-no al secolo VI° per opera di quel Paolo di Egina che, pre-vedendo vicina la fiumana della decadenza, riuniva in unmanuale tutta l’arte chirurgica, raccogliendo dal tesorodella tradizione di tutti quei Grandi che l’avevano proce-duto, quanto di meglio vi era e descrivendo con moltaprecisione e particolarità ogni più piccola operazione.

Viaggiando Paolo pei centri più popolati del mondoallora conosciuto, apportò dovunque i benefici della suaarte e della sua scienza e col suo manuale esercitò, dopodieci secoli, una grande autorità sui nuovi destini dellaChirurgia.

Pertanto colla decadenza dell’Impero Romano decade-vano le scienze e le arti e con esse anche la Medicina e laChirurgia.

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Questa infatti non contava più fra i suoi cultori uo-mini di genio e di valore; ma gente empirica ed igno-rante, e soprattutto i Monaci, i quali anche contro leingiunzioni dell’impetuoso Bonifazio VIII, che loroproibiva di servirsi del ferro e del fuoco nelle malattie,continuavano pur tuttavia nell’esercizio della Chirur-gia.

Non pertanto la tradizione della Chirurgia Greco-Ro-mana perdurava in Italia per venti secoli non mai inter-rotti, e non senza una qualche gloria, per aver cooperatoefficacemente a ricondurla al suo avito splendore.

In verità apprendiamo dalla storia, come anche nelmaggior fondo del Medio-Evo, degli sprazzi di luce si sia-no manifestati in diversi luoghi dell’Italia; e come questaluce sia venuta mano mano crescendo attraverso i secoliXVI° e XVII°, nella qual’epoca la Chirurgia Italiana, senon fu madre, fu certamente sorella maggiore alle altreNazioni.

A voi eruditi e dotti nella Storia dell’Arte non debborammentare alcun nome di quei grandi Chirurghi, chevissero in quei secoli. Non debbo parlarvi dei meriti, nédelle opere del Benivieni, del Berengario da Carpi, delCardano, del Mariano Santo da Barletta. Non debbo ricor-dare la sua abilità nella cura delle malattie delle vie urina-rie, e nemmeno di quella del Ferri, del Durante Sacchi,tanto decantati nella cura di simili malattie, anche daiChirurghi stranieri. Non debbo ricordarvi l’influenzaesercitata da Alfonso Ferri e dal Bartolomeo Maggi nellacura delle ferite da arma da fuoco. E debbo anche astener-mi dal parlarvi del Faloppio e della sua Scuola; di quelladell’Acquapendente e dei suoi allievi sparsi in molte re-gioni dell’Europa. E debbo anche tacere sulla dottrina emaestria del Tagliacozzi nel correggere le deformità delcorpo, nella quale arte la sua abilità era riconosciuta inlontane regioni, e che Beniamino Genga fu il primo a stu-diare l’Anatomia sotto il rapporto chirurgico e il primo apubblicare qui in Roma il primo libro col titolo di Anato-mia Chirurgica e il primo a inventare e praticare l’ische-mia artificiale.

Cosa dovrei dirvi del Piazzoni e del Parma che davanosperimentalmente corsi completi di operazioni Chirurgi-che?… Che del Magati, il quale per primo istituiva la me-dicatura per occlusione, e rara?

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Cosa ripetervi infine del Severino, Chirurgo espertissi-mo e tuttora ricercato e consultato dai più distinti eser-centi.

Non la finirei più se tutti volessi accennare i nomi diquei sommi, che Voi tutti conoscete e sapete circondati daquell’aureola di gloria, che ha reso la Chirurgia Italiana diquei secoli rispettata e imperitura.

Che se nel secolo XVIII° è sembrato il contrario, ciò èdipeso, né dagli uomini, né dalle opere loro, sibbene daragioni politiche.

Le altre Nazioni sodamente costituite si trovavano giàpiù o meno accentrate con intendimenti di comune inte-resse.

L’Italia divisa in sette diversi Stati, che le laceravano ilcuore, aveva anche divisa la Chirurgia, la quale per diffi-coltà di confine era anche ignorata da gran parte dei Chi-rurghi nostrani.

Ma se si volesse soltanto col pensiero immaginareriuniti in un solo sodalizio il Morgagni, il Valsalva, ilTroja, il Molinelli, il Guattani, il Bertrandi, il Nannoni,il Palletta, il Cotugno, l’Asdrubali, il Brambilla, il Mala-carne, il Monteggia, lo Scarpa, il Flajani e tanti altri e siriunissero insieme le loro opere, difficilmente potremmoessere convinti d’inferiorità in faccia a qualunque altraNazione.

E questa è una prova ineluttabile della necessità diconservare sempre riunite le forze chirurgiche della interaNazione e di avere sempre innanzi alla mente il concettodel “Ciascuno per tutti, tutti per ciascuno”.

Vi è il decoro della Patria, l’incremento dell’arte e dellascienza e l’utile di ciascuno.

Egregi Colleghi! Io non feci che rammentare a Voi fattie glorie che Voi tutti conoscete.

A me è sembrato opportuno il ricordarle convinto che“forsan et haec olim meminisse juvabit”. E di averle ricor-date gioverà a Noi per conservare eterna riconoscenza aquei Sommi nostri Padri, che colle loro opere ci traman-darono il vanto dell’Atavismo; e gioverà a quei che ver-ranno perché, spaziandosi essi nei vasti campi dell’inces-sante progresso della scienza, imparino pure che i fonda-menti dell’arte Chirurgica si trovano tutti nella tradizione.

Il discorso è vivamente applaudito.Quel giorno non c’erano Gallozzi, Loreta ed altri ma

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soprattutto non c’era Palasciano, fondatore della So-cietà e Senatore del Regno; il suo spirito era però nel-l’Aula e nella Società stessa: un grande applauso accol-se la comunicazione di Mazzoni sul Premio che Pala-sciano istituiva per la Società. L’importo, il tema, il pro-gramma sono una straordinaria testimonianza di quel-l’epoca romantica: una medaglia del valore effettivo di500 lire e cinquanta copie del lavoro stampato sugli Attidella Società, una giuria composta dai presenti nel Con-gresso successivo, un testo di Autore, scritto in italiano,francese o latino, coperto da un motto; il tema “la neu-tralità dei feriti e l’aumento dei soccorsi ai feriti in guer-ra negli ultimi venticinque anni con norme e consigliper cavarne maggior profitto in avvenire.”

In quella giornata si discussero comunicazioni libere.Cominciava così una lunga e gloriosa storia.

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Cap. III

EVOLUZIONE DELLA CHIRURGIA NEL ‘900

I cento anni di Chirurgia del XX° Secolo quasi coinci-dono con i primi cento anni della chirurgia moderna.Emblematicamente si può ricordare che nel 1899 Miku-licz introdusse l’uso delle mascherine e che solo pochianni prima erano state inventate le autoclavi per la ste-rilizzazione ed impiegati camici e guanti di gomma.

Le sale operatorie con l’inizio del ‘900 cominciaronoa diventare tali; prima erano a lungo state o anfiteatrididattici o luoghi appartati non dissimili dalle cucinedomestiche.

Nel “Policlinico Umberto I°” di Roma, inauguratonel 1899 le camere operatorie dei padiglioni chirurgiciche sono sopravvissute sino agli anni ’80 del XX° Seco-lo, rappresentarono il momento tecnico più avanzatodella organizzazione chirurgica di inizio secolo. Ovvia-mente erano prive di impiantistica e di sistemi di sicu-rezza ma erano davvero ampie, contenevano due lettioperatori ciascuna e soprattutto erano costruite all’ulti-mo piano con grandi vetrate sul soffitto rotondo che erail tetto dell’edificio, affinché la luce del sole cadesse co-piosamente sul letto operatorio.

Trent’anni più tardi, non sono dissimili le nuove sale

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operatorie dell’Istituto “Regina Elena”, ma in più, unadi esse è dotata di una completa parete di vetro, perconsentire agli altri medici di assistere agli interventidall’esterno della sala operatoria. Da quella posizioneera però difficile avere più che una visione d’insiemeed il chirurgo teneva celati i segreti della sua arte.

Dopo la IIa Guerra Mondiale c’è l’esplosione tecnolo-gica e i macchinari invadono le sale operatorie. È uncrescendo di respiratori automatici, sistemi di monito-raggio, elettrobisturi, aspiratori, scialitiche, endoscopisino a che la chirurgia mininvasiva introduce anche mi-ni impianti televisivi.

I locali assumono caratteristiche sempre più avveni-ristiche, grandi maioliche alle pareti sino al soffitto, pa-vimenti in materiali sofisticati. Sistemi di sospensionesui quali girano monitor, pompe, infusori, defibrillatori,manometri ed altro.

Tubature e cavi flessibili sbucano da pareti, pavi-menti o soffitti, per gas, per liquidi, per aspirazione. Edancora i sistemi di sicurezza per l’eliminazione dei gas,contro i rischi da correnti elettriche, la regolazione au-tomatica della temperatura ambiente e la sterilizzazio-ne dell’aria, sino ai flussi laminari e agli allarmi antifu-mo.

Le luci diventano soffuse ed autoregolanti, le porte achiusura automatica con cellule fotoelettriche e i tavolioperatori, dai tavolacci di inizio secolo, diventano me-ravigliosi congegni metallici, snodabili per le diverseposizioni del malato, a funzionamento elettrico e tele-comandato.

Insomma la distanza con le navi spaziali tende a ze-ro: per l’esplorazione dello spazio-corpo, giù giù versola cellula e l’infinito del genoma, c’è la stessa tecnologiache per lo spazio-atmosfera, verso la Via Lattea e l’altroinfinito.

Lo stesso vale per lo strumentario chirurgico. I ferri,almeno quelli da taglio e da presa, cambiano poco, anzi

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parte di essi seguitano ad essere quelli dei libri di Cel-so. Il bisturi, le forbici, le pinze, portano però per lo piùnomi di chirurghi illustri dei secoli XVIII° e XIX° ed ini-zio XX°: Péan, Mikulicz, Kocher, Kelly e poi Mayo, Met-zenbaum, Allis, sino a Francesco Durante ed alla suaapprezzatissima pinza chirurgica. Cambiano invece imateriali: leghe sempre più sofisticate, metalli eccellen-ti, dall’acciaio al tantalio. E compaiono strumenti piùcomplessi, dal gastrostato di inizio secolo per le anasto-mosi gastrodigiunali dopo resezione antrale, all’angio-stato di Dogliotti per l’anastomosi porta-cava che facili-terà tutta la chirurgia dell’ipertensione portale ed a tuttigli altri angiostati per chirurgia vascolare e ferri percardio o neurochirurgia, importati d’oltreoceano.

Ed evolvono anche i materiali di sutura. Nel 1876 erastato prodotto il catgut e prima ancora il lino e la seta.Nel 1920 compaiono gli aghi atraumatici, ossia ago e fi-lo come tutt’uno, inscindibile ed i fili sintetici di nylon.Ci sarà in quel primo ‘900 un grande fermento alla ri-cerca di sistemi di sutura meccanica, come le anastomo-si intestinali col bottone di Murphy.

Le vere cucitrici automatiche comparvero in Russianegli anni ’60: tecnologia primordiale ma di grande ef-ficacia, come lo fu anche quella degli Sputnik per leesplorazioni spaziali. Subito dopo la ricerca americanadette i suoi frutti, nacquero gli Stapler e la chirurgia vi-scerale migliorò i propri risultati in maniera significati-va. Le suture manuali, quelle con l’ago ed il filo, arre-trarono di fronte alle macchine. Non basterà a risolle-varne le sorti, la produzione di fili sintetici riassorbibilicostituiti da acido di poliglicolico: sono solo un miglio-ramento tardivo di tecniche in declino. Il futuro, diconogli esperti, verrà dalla chimica e sarà delle colle.

Con gli anni ’70 si apre la strada delle fibre di vetro ene consegue uno straordinario sviluppo delle endosco-pie. Poco dopo saranno gli ultrasuoni ed i laser ad ar-ricchire le sale operatorie. Infine, l’ultimo decennio è

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caratterizzato dalla chirurgia mininvasiva in ogni setto-re, nella chirurgia addominale, in quella toracica, inquella sottocutanea, in quella delle cavità articolari. È ilmomento della miniaturizzazione. È la volta della chi-rurgia endoluminale, in urologia, in chirurgia vascolaree cardiaca, in neurochirurgia. Si apre la strada della ro-botica, dell’informatica, della realtà virtuale.

La tecnologia diventa momento centrale nel lavorodel chirurgo e condiziona la qualità e lo sviluppo: na-scono i chirurghi laparoscopici, i radiologi interventisti,i chirurghi endovascolari e gli endourologi, gli speciali-sti del laser, gli ecoendoscopisti, gli endoscopisti opera-tivi. Ogni macchina richiede e definisce un proprioesperto, talvolta un nuovo chirurgo.

Ma altri grandi eventi hanno determinato il progres-so della chirurgia nel 20° secolo. Prima di tutto gli anti-biotici. Fleming scoprì la penicillina negli anni ‘20 ma lasua efficacia e diffusione è storicamente legata alla IIa

guerra mondiale. E simultaneamente nel 1922 era statasintetizzata l’insulina ed avviata la regolazione farma-cologica del diabete. Fu nell’insieme, la seconda svolta,dopo Lister e l’antisepsi, nella guerra alle infezioni.

L’altro grande progresso fu la terapia infusionale en-dovenosa e le emotrasfusioni, dopo la definizione deigruppi sanguigni. Una grande strada di scoperte, daiderivati del sangue, alla separazione delle sue compo-nenti, al suo recupero intraoperatorio, alla nutrizioneparenterale totale.

E ancora il curaro ed i suoi derivati, proprio quellodelle frecce mortali delle tribù indiane del Nord Ameri-ca. Saranno la tubocurarina prima e la succinilcolinapoi, gli eredi naturali, che apriranno la strada all’ane-stesia per intubazione, alla baronarcosi, al cosiddetto ri-lasciamento muscolare, al controllo completo della fun-zione respiratoria in corso di intervento e di conseguen-za, all’accesso chirurgico ideale nelle grandi cavità tora-cica e addominale. L’anestesista diventa uno specialista

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a pieno titolo: per tutta la seconda metà del secolo saràl’amico inseparabile del chirurgo. Ed assumerà anchealtri profili altrettanto pregnanti, come rianimatore e te-rapista del dolore. Cambia in tal modo anche l’organiz-zazione del lavoro, o meglio, il percorso assistenzialedell’operato: non più dalla degenza alla sala operatoriae ritorno, nella commozione dei parenti al capezzale,ma dalla sala operatoria ai centri di terapia intensiva esubintensiva, nell’isolamento gelido e tecnologico, do-ve solo le macchine hanno voce, perché tutto ritorni co-me prima, presto e bene, nella trepidazione dei parentibloccati dietro vetrate implacabili e nei corridoi dei pas-si perduti.

E nel rapporto tra malato, malattia, intervento, rico-vero, ospedale, dimissione e convalescenza, tanta acquaè passata durante il 1900 modificando aspettative, of-ferte e richieste.

Nel 1925, quando il Re d’Italia si operò di ernia, isuoi diari rivelano che restò immobilizzato a letto diecigiorni. L’immobilità era considerata fondamentale. Enon solo per l’ernia. Ad esempio, i chirurghi affrontanola prima Guerra mondiale con la generale convinzioneche le ferite addominali non dovessero essere operate eche l’infermo dovesse restare immobile. Ci si riferiva al-la dottrina di Reclus secondo il quale le piccole perfora-zioni intestinali guarivano per erniazione della mucosae quelle grandi per accollamento delle altre anse, favo-rito dall’immobilità. Bastò quella guerra a smentire Re-clus ed a spingere i chirurghi ad operare i poveri peri-tonitici. Non bastò invece per una riabilitazione più ra-pida del Re operato e degli altri milioni di erniosi pri-ma e dopo di lui, sino a che non cambiò la filosofia eprevalse il concetto di pronta riabilitazione, di ritornoprecoce a casa, di recupero stimolato della piena inte-grità.

All’inizio del Secolo il malato accedeva controvogliaal ricovero, l’Ospedale veniva guardato come luogo di

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sofferenza e di morte. Meglio era curarsi a casa ed an-che operarcisi. Solo con gli anni ’60 con le RiformeOspedaliere e la qualificazione degli Ospedali, la genteacquista la fiducia nel ricovero, vi accede con la speran-za di ritrovare la salute, di guarire con la chirurgia. Edil ricovero e la degenza assumono addirittura un valoretaumaturgico. La richiesta diventa di ricovero per ogninecessità, di ricoveri lunghi, di convalescenze tutte inOspedale.

Un vento nuovo e diverso soffierà solo a fine secolo:la chirurgia sempre più sofisticata e meno invasivacomporta un trauma minore e l’aspirazione degli infer-mi è di giovarsi con fiducia di tutto il progresso, peravere cure ed interventi a rapida guarigione ed a brevedegenza. Cambia perciò la struttura stessa dell’Ospeda-le: non più tante degenze ma tanti servizi. La gloriosacorsia Sistina dell’Ospedale Santo Spirito in Sassia diRoma, la più antica del mondo, 800 anni di vita celebra-ti nel 1998, forte di oltre 200 letti, cambia destino e di-venta una straordinaria area monumentale per Conve-gni: tanti letti non servono più. L’Ospedale del SantoSpirito in Sassia costruito nel 1198, a ridosso della Basi-lica di San Pietro, per soccorrere i pellegrini e che nelmassimo della espansione accoglieva sino a 1300 infer-mi, con l’ultima ristrutturazione del 1998 per far fronteai bisogni del Giubileo del 2000, dilata i servizi e limitala propria area di degenza a 220 letti.

Nei venti anni a cavallo dell’inizio del XX° secolo lachirurgia che sostanzierà i successivi decenni vienequasi tutta pensata, descritta e sperimentata. L’aneste-sia e l’antisepsi sono state le due condizioni permittentima morbilità e mortalità sono ancora troppo alte.

In quell’epoca, i libri di testo erano quelli di Medici-na Operatoria di Francesco Occhini e di Durante eLeotta, Scuola romana: descrizioni anatomiche stupen-de, per la chirurgia degli arti, delle articolazioni ed an-che del tronco ma non dei visceri. La chirurgia toracica

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ed addominale, cosiddetta maggiore, ha ancora biso-gno di decenni per essere sistematizzata. Lo farà neglianni ’40 Uffreduzzi e dopo le sua prematura morte locompleterà Dogliotti, Scuola di Torino, nel 1948 ed è ilprimo testo italiano di chirurgia completo ed enciclope-dico. Trenta anni dopo sarà aggiornato da Angelo Palet-to, erede della stessa Scuola.

Ma quale è stata la chirurgia durante il Secolo e qua-le la sua evoluzione? Si possono individuare tre fasi, se-parate dalle due guerre mondiali.

La prima fase può essere definita pionieristica ed èdirettamente collegata alla seconda metà del secoloXIX°: è la chirurgia asettica ed indolore ossia la chirur-gia moderna che si misura con i nuovi grandi problemipassando dall’esterno all’interno del corpo umano. Ilchirurgo diventa a sua volta internista, affronta la pa-tologia viscerale, strappa ai medici competenze dia-gnostiche, propone la chirurgia digestiva, dello stoma-co e del colon, quella urologica dei reni e della vescica,quella ginecologica e quella cranica per i traumi e nonsolo.

La chirurgia dello stomaco anche nelle mani di Bill-roth ha una mortalità alta. A Pèan, che in realtà avevafatto la prima resezione gastrica per cancro, la pazienteera morta subito. Anche Miles, quando propose e pub-blicò nel 1910 la resezione addomino-perineale del ret-to, dovette riportare un’alta mortalità. I grandi clinicichirurghi italiani dell’epoca Durante, D’Antona, Bassi-ni, Bottini, Bruno, Ceccherelli esitano molto di fronte atante difficoltà e complicanze. Sposano con grande en-tusiasmo la chirurgia della tiroide, della mammella,dell’ernia, degli arti, delle ossa, del collo, della faccia,della bocca e per tale via si avventurano nel cranio. Perqueste chirurgie ci fu il grande riconoscimento interna-zionale con l’assegnazione, per tutti, a Kocher del Pre-mio Nobel nel 1909 per la chirurgia della tiroide.

E prima della IIa guerra mondiale tutta la grande

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chirurgia viscerale era stata inventata.

Il primo intervento addominale in elezione coronatoda successo fu di E. McDowell che nel 1809 asportò unvoluminoso tumore ovarico.

Nella seconda metà del secolo XIX° la chirurgia visce-rale si legò al nome di Theodor Billroth, Clinico chirurgodi Vienna e padre della chirurgia resettiva dello stomaco,che propose la resezione gastrica distale nelle due ben no-te varianti ricostruttive con o senza esclusione duodenale.La prima resezione pilorica per cancro è probabilmenteattribuibile a Pèan nel 1879 con esito sfavorevole. Billrothfu anche il primo ad eseguire la laringectomia totale.

Simultaneamente R. Von Volkman eseguiva le primeescissioni di cancro del retto e nel 1889 McBurney propo-neva l’appendicectomia.

Nel 1890 Halsted a Baltimora introdusse, con l’uso deiguanti di gomma, anche il concetto di chirurgia regionaleinventando la mastectomia radicale per cancro. Neglistessi anni Young eseguiva la prostatectomia.

Nel nuovo Secolo XX° le tappe della chirurgia viscera-le sono segnate nel 1906 da Wertheim con l’isterectomiaallargata, nel 1910 da Miles con l’amputazione addominoperineale del retto, nel 1913 da Thorek con l’esofagecto-mia.

La guerra accelerò i tempi per la chirurgia nelle ca-vità celomatiche. Le suture intestinali e le resezioni vi-scerali dei feriti divennero uno straordinario laborato-rio di progresso negli ospedali militari da campo, le co-siddette Ambulanze di Armata, dislocate sul fronte, co-mandate da grandi clinici come Giannettasio e Alessan-dri. Molti di quei feriti morirono ma molti guarirono te-stimoniando che la chirurgia addominale era possibile.

La seconda fase della chirurgia del XX° secolo èquella dei capitani coraggiosi.

Dovunque nel Paese, in Ospedali grandi e piccoli, incondizioni ambientali certamente precarie, tutto quelloche era stato descritto cominciò a diventare realtà prati-ca. Lo testimoniano gli Atti dei Congressi della Società

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Italiana di Chirurgia nei quali già figurano casisticheimportanti di patologia e chirurgia viscerale sullo sto-maco, sulle vie biliari, sul colon, non senza dispiaceriquanto a morbilità e mortalità.

Analoga era la situazione in tutto il mondo. Hart-mann, Chirurgo dell’Hotel Dieu di Parigi, pubblicandonel 1931 per la Masson il suo libro “Chirurgia del retto”riporta l’intera casistica del suo servizio di cinque anni trail 1919 e il 1923, così sintetizzata: testa e collo 531 opera-zioni, 29 morti; torace e rachide 512 operazioni, 24 morti;fegato, milza e pancreas 160 operazioni, 17 morti; addo-me, stomaco ed intestino 1998 operazioni, 148 morti; anoe retto 485 operazioni, 14 morti; vie urinarie 87 operazio-ni, 8 morti.

Nel complesso 6747 interventi con 307 morti ossia unamortalità del 4,5%.

Ma nel dettaglio le cifre sono più dolorose, se si esami-na la sola chirurgia viscerale vera e propria: 19 emicolec-tomie destre con 5 decessi, 11 resezioni del colon pelvicocon 2 decessi, 202 gastroenterostomie posteriori con 30decessi, 30 gastrostomie con 11 decessi, 16 amputazioniaddomino-peritoneali del retto con 7 decessi e 30 amputa-zioni solo perineali del retto con 4 morti.

Delle 7 Miles decedute 2 morirono per cellulite pelvi-ca, 1 per pielonefrite, 1 di pelviperitonite, 1 di polmonitebilaterale. Non è descritta la causa di morte dei due casirestanti.

Ed in quegli anni si completano le proposte tecnichesugli organi più difficili, il pancreas con Wipple nel1935 ed il polmone con Graham nello stesso periodo.Ed anche prendono l’avvio gli studi sui trapianti cheavevano ottenuto grande riconoscimento col PremioNobel concesso a Carrel nel 1912. E si affaccia l’ipotesidella chirurgia cardiaca e vascolare con l’embolectomiadell’arteria polmonare proposta da Trendelemburg erealizzata anche a Roma in una notte del 1935 da Val-doni e Stefanini, poco più che trentenni.

La terza fase della Chirurgia del Secolo prende il via

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nella tragedia della II Guerra Mondiale quando con ba-ronarcosi, emotrasfusioni ed antibiotici tutto divienepossibile. Dilaga la grande chirurgia viscerale ed anchequella del cuore, del polmone, del fegato, della aorta,dei trapianti e di tutte le protesi. Nasce lo slogan “gran-de taglio, grande chirurgo” o “grande chirurgo, grandetaglio” ed ogni manovra sembra possibile e giustificata.La chirurgia dei tumori diventa regionale e radicale.Comincia la straordinaria avventura dei trapianti d’or-gano. Per tutto ciò, la morbilità conseguente sembra ra-gionevole e contenuta, l’invalidità, anche permanentema inevitabile, la mortalità compatibile con la necessitàe la speranza.

Sono gli anni delle gastrectomie totali, delle esofa-gectomie con ricostruzioni cervico-addominali, dellepneumonectomie intrapericardiche, delle pancreasecto-mie regionali con resezione vascolare, delle proctoco-lectomie totali, delle nefrectomie allargate, delle pelvec-tomie radicali, dei trapianti d’organo. La teoria e i risul-tati tecnici spingono a considerare questi interventi co-me la sola soluzione possibile soprattutto nel cancro. Lescuole chirurgiche si caratterizzano e competono pro-prio sulla aggressività e sulla estensione della exeresi.Per almeno 30 anni si avanza solo su questa strada.

Poi l’introduzione della quadrantectomia nel cancrodella mammella, il rapido abbandono della mastecto-mia radicale devastante, aprono un’altra strada, quelladella chirurgia ragionata, dell’exeresi più limitata, delrispetto dell’integrità dell’organismo, della invasivitàcontenuta, del recupero delle funzioni organiche, dellaimmagine corporea, della vita di relazione e di quellalavorativa. Ritrovano il loro legittimo ruolo, le gastrec-tomie subtotali, le resezioni coliche segmentarie, le lo-bectomie polmonari mentre si discute e si studiano lelinfoadenectomie e le terapie integrate.

La Tecnologia diventa, per questo nuovo credo, unpotente motore. Di ogni organo la Chirurgia si limita ad

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asportare solo la parte malata, tentando di reinstaurareuna sufficiente funzione e si cerca la strada per comple-tare il risultato chirurgico con altre terapie. La riabilita-zione diventa un momento fondamentale anche in chi-rurgia. Sorge la Chirurgia mininvasiva, quella con lesonde, quella del massimo rispetto del corpo. Tramontal’ipotesi del “grande chirurgo, grande taglio”.

Su questo scenario si chiude il meraviglioso XX° se-colo.

La prospettiva è quella di un futuro ancora piùstraordinario per il quale si possono formulare tantestravaganti ed immaginifiche ipotesi ed una sola cer-tezza: succederanno cose bellissime per la storia del-l’uomo e per la sua salute. Per quanto riguarda i chi-rurghi in generale, sorge un grande dubbio, se cioènello straordinario sviluppo tecnologico lo strapoteredelle macchine non prevarrà sull’uomo e se insommadopo tanti millenni il medico non debba lasciare il cen-tro del campo diagnostico-terapeutico alla macchina,rassegnandosi a diventarne non l’utilizzatore ma l’assi-stente.

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Parte Seconda

Le ScuoLe chirurgiche itaLiane

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Cap. IV

LA SCUOLA ROMANA

Quell’inverno del 1966 era cominciato dolcementesenza freddo e senza pioggia come molti inverni roma-ni di quei decenni. L’Italia del boom godeva della stabi-lità dei Governi presieduti da Aldo Moro: poca inflazio-ne, poca conflittualità, molto benessere, consumismo eassistenzialismo. Nessun presagio evidente del ’68 chepure era alle porte. Roma capitale cresceva di immigra-zione ed alta natalità e con essa si espandevano i quar-tieri dormitorio e le borgate.

In questi primi giorni di novembre ’66 Roma ritrovavail suo volto di Capitale della pace: era arrivato Arvell Ha-riman, Ambasciatore viaggiante del Presidente Johnson,per discutere col governo italiano la soluzione negozialeper la pace in Vietnam. Dopo gli incontri cordiali con Mo-ro, Nenni e Fanfani, Hariman aveva incontrato Paolo VI°e gli aveva illustrato i risultati della Conferenza di Mani-la: tutto il Sud est asiatico aveva fatto pressione sugli USAper la pace.

Hariman portava dunque un soffio di speranza e dopoManila lo stesso Johnson era andato in giro tra Nuova Ze-landa, Australia e Thailandia proprio a spiegare che an-che per gli USA, dopo anni di rovinosa guerra, ormai laprospettiva era una dignitosa pace.

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Ma in quei giorni Roma si era risvegliata nella buferaatmosferica con raffiche di vento a cento all’ora, alberisradicati e tetti volati via. Era l’antefatto di un cataclismaimminente: quel sabato a Firenze verrà giù l’alluvione piùimportante del Secolo e la città verrà sommersa di acquae fango.

Quella sera del solito primo mercoledì del mese, co-me da tradizione, c’era nell’aula della Clinica chirurgi-ca del Policlinico Umberto I° una Seduta Scientifica del-la Società Romana di Chirurgia. Tra i busti di Duranteche domina l’atrio e quelli di Alessandri e Paolucci chesi affacciano a lato delle porte di accesso, in quell’aulac’era, e c’è sempre, un’aura da storia della chirurgia.

Dunque presiedeva Pietro Valdoni, grande Maestro,erede di quei grandi Maestri e Direttore della ClinicaChirurgica. Per lui nel futuro in quell’aula non ci sarà ilbusto ma una targa che gli dedica l’anfiteatro.

Nella folla di assistenti e aiuti della Università e de-gli Ospedali erano presenti tutti o quasi i pochi che con-tavano: gli altri due Professori Ordinari, Paride Stefani-ni patologo chirurgo e Giovanni Marcozzi semeiotico,ed i Primari Ospedalieri dell’epoca, Guido Chidichimodel “San Giacomo” ancora chirurgo generale ma già colcuore e la mente alla cardiochirurgia, Mino Moraldi del“S. Spirito”, i due fratelli Sciacca, Ferdinando del “SanGiovanni” e Beniamino del “Sant’Eugenio”, GiuseppeGrassi pure lui del “San Giovanni”, fresco fondatoredel Collegium Internazionale Chirurgia Digestiva, eGuerrieri del “San Camillo”, reduce da un incarico uni-versitario a Perugia, Mazzarella Farao del “S. Filippo”.Mancavano quelli che frequentavano meno, i fratelliSovena, Enrico ed Aldo, Margottini del “Regina Elena”,De Lollis del “Fatebenefratelli”, Carlo Santoro ancoraPrimario al “San Camillo”, che era il Decano dei prima-ri, già alla soglia della pensione e che sopravviverà atutti, morendo quasi centenario.

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Quando Valdoni, seduto da solo dietro la lunga Cat-tedra, le gambe accavallate e la testa reclinata sullaspalla, prese il microfono si fece immediato silenzio, co-me sempre succedeva per il suo carisma. “Prima di ini-ziare la seduta - disse - voglio comunicare che da oggi ilprofessore Paride Stefanini non è più Professore di Pa-tologia Chirurgica ma di Clinica Chirurgica”.

Tacque e ci fu un applauso. Stefanini seduto in primafila, abito grigio, baffi e capelli già bianchi, si alzò e rin-graziò con un cenno di inchino: quel giorno era iniziatauna nuova fase della Storia Medica e Chirurgica Roma-na, quella della moltiplicazione delle Cattedre e dei Pri-mariati, delle Facoltà di Medicina e degli Ospedali.

Nei quasi cento anni precedenti, quelli di Roma capi-tale d’Italia a partire dal 1870, l’unica Facoltà della Uni-versità “La Sapienza” aveva avuto pochi Professori dichirurgia, mai più di tre, ed il Pio Istituto di S. Spirito,gigante ospedaliero che raggruppava gli Ospedali dellacittà, aveva avuto pochi Primariati di Chirurgia fino adun massimo di dieci. Per antica tradizione preunitaria,il Clinico chirurgo era stato uno dei Primari e risiedevanel suo Ospedale. Costanzo Mazzoni, primo Presidentedella Società Italiana di Chirurgia tra l’82 e l’85, era Pri-mario al “S. Spirito” (il più antico Ospedale Italiano, co-struito nel 1198) e lì insegnava. Solo nel 1899 per vo-lontà di Baccelli, grande Clinico Medico e Ministro del-la Pubblica Istruzione, e di Francesco Durante, secondoPresidente della Società Italiana di Chirurgia, successo-re di Mazzoni anche nella Cattedra, e Senatore del Re-gno, fu costruito e inaugurato il “Policlinico UmbertoI°”, eletto a sede dell’Università oltre che Ospedale. Visi trasferirono tutti i Clinici e tutti i Docenti ed i PrimariOspedalieri che vi operarono sino agli anni ’70, conser-varono la qualifica di Professori Aggregati.

Il Policlinico dunque divenne il cuore Accademicodella Città Medica, qui si formeranno per tutto il secoloquasi centomila medici.

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Non fu tutta gloria. Lo racconta Raffaele Paolucci diValmaggiore nel suo libro autobiografico Il mio piccolomondo perduto. Il 7 novembre 1938 fu chiamato a succe-dere a Roberto Alessandri alla Direzione ed alla Catte-dra della Clinica Chirurgica del “Policlinico UmbertoI°”. Paolucci lasciava il cuore a Bologna ove aveva inse-gnato e lavorato per molti anni all’Ospedale Policlinico“S. Orsola”. Il contrasto tra quella realtà tranquilla e or-dinata e la Roma Capitale dell’Impero fu traumatico.

Erano anni che non rivedevo la Clinica Chirurgica diRoma, da quando la frequentavo come aiuto volontario diAlessandri, negli anni tra il 1922 ed il 1924. Ricordavo cheodorava di vecchiume, mi accorsi che il ricordo era moltomigliore della realtà.

Mi sentii cadere la braccia. Un’aula altissima con la voltaa cupola, come una chiesa, con i gironi di cemento edamianto; la voce si disperdeva e bisognava sgolarsi per farsiintendere, ed in questo sforzo affannoso se ne andavano ipensieri, emigravano le idee, era impossibile non diventaremonotoni e noiosi gridando sempre dal principio alla fine.

La gioia dell’insegnamento era perduta.Ma perchè non rinnovavano in quel momento la Clini-

ca? Da un lato si parlava di spese militari improrogabilied urgenti, dall’altro stava il fatto che decine e decine dimilioni erano già stati spesi per la Città Universitaria.

Ed ora eccomi là in quel letamaio ove non ci potevaneppure rinchiudere nel proprio guscio e lavorare in si-lenzio, chè la clinica si svolgeva lungo i corridoi in comu-nicazione con altri reparti, e per questi corridoi passavanole cibarie, passavano i panni sporchi e puliti, passavano icarrelli del latte e delle medicine, passavano i parenti de-gli ammalati, passava senza tregua una folla innumerevo-le di medici, di studenti, di facce note ed ignote, di uomi-ni frettolosi e di tardigradi affaccendati.

Una biblioteca a piano terra, delle sale operatorie de-crepite. Dei laboratori sguarniti, pieni di uggia e di umido-re, un reparto radiologico anche esso a pian terreno, e, tol-te due sale passabili, le altre con gli ammalati ammassatil’uno accanto all’altro, in una promiscuità inverosimile.

Così era, questa è la Regia clinica chirurgica della Ca-pitale.

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Paolucci si adattò alla vita romana.Il Regime, col quale ebbe un rapporto sofferto, lo no-

minò (così voleva lo Statuto dell’epoca) Presidente del-la Società Italiana di Chirurgia nel 1940 e tale rimase si-no al 1946. Fu anche nominato Vicepresidente della Ca-mera dei Fasci e delle Corporazioni. Tenne la Cattedraper quasi venti anni. Attraversò la guerra, la caduta delregime, quella del Regno e la ricostruzione. Sopportò eforse soffrì, i Primari Ospedalieri arrembanti, veri eredidella Scuola Romana, che dirigevano i tre Padiglionichirurgici del Policlinico proprio dietro la Clinica Uni-versitaria. Nomi importanti quelli di Egidi, Chiasserini,Matronola, Puccinelli, Urbani e dovette convivere conBastianelli, il più grande di tutti, di lui molto più anzia-no e che pure gli sopravvisse.

Raffaele Bastianelli era nato nel 1863 nella Roma di PioIX°. Era, dunque, bambino quando i bersaglieri del Red’Italia entrarono a Roma destinata Capitale d’Italia. Silaureò 24enne nel 1887 con una tesi sui movimenti del pi-loro che ottenne il Premio della Fondazione Girolami el’onore di essere pubblicata in Italia ed all’estero. Quel-l’anno stesso, appena laureato, tempi felici, divenne Ag-giunto all‘Ospedale S. Giacomo e l’anno dopo Aiuto.

Nel 1896 a 33 anni diventò Primario all’Ospedale dellaConsolazione, uno dei sette ospeda li storici di Roma.Quando le ruspe spazzarono via il Borgo tra il Campido-glio ed il Colosseo per far posto alla Via dell’Impero, an-che l’Ospedale della Consolazione scomparve per sempree Bastianelli, per così dire in mobi lità obbligatoria, andòPrimario al Policlinico ove rimase sino al 1931.

La sua chirurgia era entrata dalla cronaca nella leggen-da. Di lui Cushing, grande ed indimentica to maestro sta-tunitense, disse che era il miglior chirurgo che avesse maivisto operare. Nel 1893 aveva operato e pub blicato un ca-so di tumore del mediastino. Due anni più tardi un sarco-ma della fossa cranica ante riore. Nel 1895 pubblicò unamono grafia sulle infezioni delle vie uri narie ed all’iniziodel nuovo secolo vari lavori di Chirurgia dell’anca. Cultu-ra poliedrica dunque, capa cità chirurgica senza limite.Aveva operato negli oltre 40 anni della sua vita ospedalie-

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ra la Roma pove ra e la Roma ricca, gente di tutto il Paesevenuta da lui alla ricerca della salute, ed anche la CasaReale. Due anni prima del pensionamento, dunque per isuoi grandi meriti professionali fu nominato Senatore delRegno. In quel 1931, quasi settantenne, cominciò la suaseconda vita e fu chiamato a dirigere il nascente IstitutoTumori dedicato alla Regina, l’Ospedale Oncologico dellaCapitale.

Contribuì con Pietro Baccelli anch’egli Senatore e Pre-sidente degli Ospedali Fisioterapici, Ettore Marchiafava,Alessandro Massea, Francesco Pentimalli e agli archi tettiDanesi e Negri a realizzare l’Istituto e che da allora hasempre rappresentato un riferimento certo e qualificatoper tutta l’oncologia italiana. Diresse il “Regina Elena”per quasi 20 anni sino al 1950 quando ad 87 anni fu nomi-nato Direttore onorario. In quegli anni aveva partecipatoalla Fondazione della Lega italiana per la Lotta contro iTumori della quale fu poi il Presidente effettivo e Presi-dente onorario. Nel 1947 presiedette il 49° Congresso del-la Società Italiana di Chirurgia. E fu, nei primi cento annidi vita della Società, l’unico non accademico romano adaver avuto questo alto onore. Tre anni più tardi, nel 1950,al 52° Congresso di questa Società, fu relatore sul cancrodel retto. Quella relazione di mezzo secolo fa contiene,anche per l’odierno lettore, tante verità insuperate e tanteeccezionali intuizioni. Meritò, se così si può dire, l’elogiodiretto del professor Abel, allievo ed erede di WilliamsMiles, padre della chirurgia rettale, morto 78enne, tre an-ni prima.

Lasciato il “Regina Elena”, Bastianelli continuò lapropria atti vità chirurgica nella sua Clinica personaleche aveva costruito in via Morgagni e che dopo la suamorte cessò di esistere. In quella Clinica visse i suoi ulti-mi anni, un po’ solo per l’inevitabile premorienza diamici ed allievi e soprattutto dopo la morte del fratellomedico che come lui aveva preferito la medici na ad ognialtra scelta di vita, com presa la famiglia. Insieme aveva-no viaggiato il mondo da giovani riportando dagliOspedali inglesi, tedeschi ed americani, novità, scienza,strumentario, progresso. Insieme sugli scanni del Sena-to; quasi insieme morirono, in quei primi anni dopo lafine della secon da Guerra Mondiale, loro che erano natinel Risorgimento.

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Merita di essere ricordata la storia che vuole GuidoEgidi introdursi inosservato nella camera operatoria diPaolucci, mentre questi era alle prese con un’ulceraduodenale difficile. Egidi era un noto chirurgo gastricorapido ed essenziale ed era Autore di un atlante di chi-rurgia dello stomaco. Quando alla fine Paolucci stancolasciò il tavolo operatorio, si trovò a sorpresa davantiEgidi sorridente che lo salutò ricordandogli, in memo-ria della impresa di Pola, che poteva essere più facileaffondare una nave che non il duodeno!

Ma per Paolucci, che pure fu grande Maestro diChirurgia e pioniere della Chirurgia Toracica, gli ultimianni nella neonata Repubblica, furono quelli dellacompetizione con Pietro Valdoni, più giovane di lui diquasi 10 anni, erede diretto di Roberto Alessandri, ri-tornato a Roma nel 1946 come Patologo Chirurgo,astro brillante della Chirurgia Italiana, grande Chirur-go e grande Leader, creatore della cardiochirurgia aRoma ed in Italia.

Paolucci morì a 65 anni nel 1958. Il suo cuore cedetteall’improvviso. Aveva sopportato grandi eventi daquando nel 1917, giovane tenente, a nuoto col maggioreRossetti, aveva forzato la difesa del porto di Pola ed at-taccato la torpedine esplosiva sotto la “Viribus Unitis”,corazzata austriaca considerata invincibile, provocan-done il clamoroso affondamento. Ebbe, giusta ricom-pensa, la medaglia d’oro al valor militare.

La scomparsa improvvisa di Paolucci aprì una lottadi successione inattesa. Candidato naturale era EttoreRuggieri, allievo dello scomparso e Clinico Chirurgo aNapoli. Prevalse invece Paride Stefanini anch’egli Chi-rurgo eccellente, aggressivo e moderno e grande amicodi Valdoni.

Insieme erano stati assistenti di Alessandri e la famo-sa notte in cui Valdoni fece l’embolectomia polmonare,era Stefanini che lo aiutava. Quel rendiconto operatoriodel 1935 è straordinario.

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Opera il dott. Valdoni; assiste il dott. Stefanini. Senzadisinfezione delle mani si indossano i guanti sterili, poi icamici; disinfettata la pelle con tintura di iodio si preparail campo sterile. L’intervento si inizia al 7° minuto dall’av-venuta embolia. Dagli esperimenti eseguiti su cadaveri,avevo notato come fosse più facile di ag gredire il pericar-dio e di scollare la pleura sosti tuendo alla incisione delMeyer (a T rovesciato con resezione della 2a e 3a costola)una incisione pa rallela al margine sinistro dello sternocon rese zione della 2a, 3a e 4a cartilagine costale. In que -sta maniera la breccia è più ampia, non vi è bisogno di re-secare il margine sternale e nell’an golo inferiore si domi-na bene il seno pleurico nel tratto in cui devia verso sini-stra dalla linea mediana, lasciando scoperta l’aia pericar-dica.

Si pratica rapidamente l’incisione verticale para -sternale. Il malato che in questa fase ha ancora dei movi-menti respiratori spontanei non reagisce affatto alle ma-novre praticate senza alcuna anestesia. Si incide il petto-rale e si scoprono la 2a, 3a e 4a cartilagine costale dalla in-serzione alla prima porzione della costola ossea. Rapida-mente si speriostano le tre cartilagini che vengo no reseca-te. Legatura del fascio vascolo-nervoso in tercostale 3a e4a. La pleura è quasi completamen te trasparente ed è benvisibile il disegno polmo nare. Scoperto il pericardio inbasso, questi ap pare quasi del tutto coperto dal senopleurico anche in basso. Nella manovra di scollamentodel seno pleurico questo si lacera e l’aria entra con un ru-more caratteristico. Il polmone però si collassa poco per lostato di enfisema polmonare in cui si trova. Aperto il peri-cardio verso la punta del cuore, da esso fuoriesce scarsaquantità di li quido citrino chiaro. Con un colpo di forbicesi completa l’apertura del pericardio fino alla base delcuore mettendo in evidenza, l’arteria polmo nare. Il ven-tricolo destro è disteso, le vene coro narie bene appari-scenti, il muscolo cardiaco flac cido. Le contrazioni cardia-che sono irregolari, po co valide o fibrillari. Per mezzo del-la sonda di Trendelenburg passata sulla guida del dito simet te in sito il laccio di gomma attorno all’aorta e si inci-de l’arteria polmonare poco sopra le valvole per 2 cm.verso l’alto. Esce dal cuore un grosso fiotto di sangue ne-ro che si arresta con la trazio ne sul laccio; assieme al san-gue è uscito un fram mento di trombo di 10 cm., molto

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grosso. L’in troduzione della pinza da embolo nel ramodestro non riesce; senza insistere dopo il primo tentativosi introduce la pinza nel ramo sinistro e si estrae un em-bolo lungo 27 cm. che si rompe in 3 frammenti di cui l’ul-timo viene estratto con una nuo va presa. Si allenta il lac-cio e si chiude con il dito l’incisione.

Poichè il malato non respira, si pratica no manovre direspirazione artificiale e il cuore che era diventato immo-bile riprende a pulsare do po alcuni colpi, impressi con ildito sul muscolo. Ristabilitasi in circa un minuto la con-trazione car diaca valida, si tira nuovamente sul laccio e siestrae dal ramo destro un embolo di 27 cm. non frantu-mato. Nuovo allentamento del laccio e chiu sura digitaledell’incisione. Riprende ora il re spiro, la pulsazione car-diaca si fa valida. Tirando di nuovo il laccio si applica la-teralmente la pinza da sutura. Sono passati 13’ 30” dall’i-nizio dell’em bolia. Ora il malato ha ripreso bene il respiroe la pulsazione che si trasmette anche alla periferia. Siaspira del sangue versato nella pleura e si deterge il cam-po operatorio. Il polmone che nonostante l’apertura dellapleura si espande bene, viene di varicato dall’assistente al-l’esterno. Il malato inco mincia ad agitarsi, a dire parolesconnesse e deve venire tenuto fermo sul campo operato-rio. La su tura della polmonare viene praticata come su -tura continua a tutto spessore con seta vaselli nata e pre-senta difficoltà notevole per la profon dità del campo ope-ratorio e specialmente per la continua espansione del pol-mone. Occorre dare per due volte dei punti supplementa-ri per assicurare una emostasi completa togliendo e rimet-tendo per due volte ancora la pinza da sutura, la cui mes-sa a posto richiede sempre la trazione sull’aorta con il lac-cio. La sutura riesce finalmente emostatica.

Si asciuga con tamponi una parte del sangue ver sato esi mette un punto di accostamento del lembo sinistro delpericardio ai resti del muscolo pettorale sul margine de-stro dell’incisione. La sutura dei due foglietti pericardici èimpossibile per il notevole divaricamento dei marginiprodotto dalla distensione del cuore. Segue la sutura delpettorale, del sottocutaneo e della pelle con grap pette.

Alla fine dell’intervento si pratica una piccola incisio-ne sulla ascellare media nell’8° spazio in tercostale e si in-troduce nel cavo pleurico una son da di Pezzer a tenutad’aria a cui si applica subito il tubo che porta alla bottiglia

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di aspirazione. Dal cavo pleurico esce aria e sangue. Lasutura cuta nea è stata fatta senza anestesia ma ha provo-cato manifestazioni molto notevoli di dolore da parte delmalato. Il malato viene messo a letto inconscio e deliran-te. Si pratica un’iniezione di Digalén, di canfora e di mor-fina. Il polso è ben percetti bile, leggermente aritmico, lapressione arteriosa massima di 95, minima di 65. Nel po-meriggio il malato è ancora delirante, il polso è semprevalido, vi è modica dispnea. Il tubo di aspirazione nondrena più. Al malato si som ministra ogni 4 ore una inie-zione ipodermica di morfina e di eupaverina. Il giorno se-guente vi è un leggero migliora mento nelle condizioni delmalato, l’agitazione è diminuita e si alimenta bene. In ter-za giornata sono scomparse le aritmie e si continua ogni 6ore l’iniezione di eupaverina. Con inalazioni dì ben zoatosodico ogni 2 ore la dispnea diminuisce no tevolmente.Una radiografia eseguita al letto del malato mostra chenon vi è traccia di pneumotorace, mentre vi è un versa-mento alla base di si nistra. Ha piccole elevazioni termi-che. In quarta giornata scompare il delirio; il polso è rego-lare, ritmico e il malato si nutre abbondantemente. Si to -glie il drenaggio pleurico dopo essersi accertati che il ca-vo del drenaggio è separato dal cavo pleu rico contenenteliquido. Da allora le condizioni vanno rapidamente mi-gliorando nonostante la persistenza del liquido raccoltonel cavo pleurico di sinistra. Le piccole elevazioni termi-che sono scomparse e il malato è in condizioni così buoneche in 14a giornata si alza e da solo può fare alcuni passi.La ferita operatoria è guarita per prima men che in corri-spondenza dell‘angolo inferiore dove vi è una necrosi su-perficiale e molto limitata nel sottocutaneo. Il malato per3 giorni si alza si nutre regolarmente; dopo il quarto gior-no insor gono però edemi degli arti inferiori del sacro. Persuggerimento del prof. Frugoni si praticano delle iniezio-ni di tachidrolo e vari cardiocinetici e si procede fraziona-tamente all’estrazione del li quido pleurico nella quantitàcomplessiva di 1300 cmc. Questo è di colore chiaro ed hacaratteri d’un essudato. Dopo l’estrazione il liquido nonsi riforma più però persistono più accentuati alla sera gliedemi sacrali e degli arti inferiori. Un elettro -cardiogramma mette in evidenza delle alterazioni chepossono ricondursi a fatti non molto gravi di alterato cir-colo coronario, mentre l’esame radiologico e radiografico

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fa escludere la presenza di li quido nel cavo pericardico.Gli edemi sono con tutta probabilità in rapporto con lostato di indebolimento del miocardio. In seguito alle cureassidue il malato va migliorando. (Ringrazio qui calda-mente il prof. Frugoni e l’amico prof. Pozzi, suo aiuto, perl’interessamento preso al caso e per l’esito così favorevoledelle cure condotte). A un mese di distanza dall’inter -vento il malato è decisamente avviato verso la gua rigione.Gli edemi sono quasi del tutto scomparsi e limitati alle re-gioni malleolari e scompaiono du rante il riposo notturno.La crasi sanguigna è andata pur essa migliorando e il nu-mero di globuli rossi è aumentato da poco più di2.000.000 a 3.600.000 circa. Il malato è in ottime condizionipsichiche, si nutre abbondantemente. La diuresi è perfet-ta. Il liquido pleurico non si è più riformato. L’esame ra-diografico mostra lo spostamento dell’aia cardiaca versodestra non ingrandita, con una modica dilatazione aorticacon una chiazza di calcificazione.

Il miglioramento va sempre più accen tuandosi e il ma-lato abbandona la Clinica il 18 gennaio completamenteguarito persistendo anco ra soltanto un modico grado dianemia.

Con la fine degli anni di Alessandri, le strade di Val-doni e Stefanini si erano separate. Valdoni, accademico,attendista, elittario, andò in cattedra a 39 anni nel 1939appunto, prima Cagliari, poi Modena, poi Firenze in ra-pida successione, infine Roma nel 1946. Stefanini, piùirruento ed avventuroso, andò prima aiuto al “S. Giaco-mo”, tentò senza riuscirvi il Primariato del “ Fatebene-fratelli” ed alla fine, era il 1941, scelse L’Aquila, quandoil capoluogo abbruzzese era una rocca davvero poco ac-cessibile da Roma e dal resto del mondo. Lì inventòuna chirurgia che non c’era mai stata, divenne in breveil Chirurgo di tutto l’Abruzzo, ossia di quelle tantemontagne. Alla fine della Guerra i suoi meriti, la stimae l’amicizia di Ermini, Rettore dell’Università di Peru-gia (sarà poi Ministro della Pubblica Istruzione) gli val-sero la Cattedra in quella Università.

Fu forse per la chirurgia l’ultimo caso di ritorno in

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Università dagli Ospedali, che prima era stata la regola.Anche il suo Maestro, Roberto Alessandri, era arrivatoalla Cattedra di Roma dopo essere stato precedente-mente Primario al “S. Giacomo” e poi al “PoliclinicoUmberto I°”: la Facoltà di Roma lo aveva chiamato allaunanimità a succedere a Francesco Durante nel 1919,considerandolo il migliore dei suoi allievi, come scrisseT. Ferretti nel “Policlinico -Sezione pratica” in quellostesso anno.

Chiamatovi dal voto unanime della Facoltà Medica, ilProf. Roberto Alessandri sale oggi in cattedra di quellaClinica Chirurgica, che fu gloria e vanto di Francesco Du-rante.

Di tutti gli allievi che circondarono l’insigne Maestro,per grande e lunga dimestichezza, felice armonia di senti-menti, niuno poteva essere più fedele interprete degli in-tendimenti, scientifici e clinici di colui, che creò la Chirur-gia Italiana; niuno, per convinzione e per fede, strenuocampione degli alti ideali e delle nobili tradizioni dellaScuola

L’Alessandri non è un chirurgo ed un clinico dell’ul-tim’ora: negli Ospedali di Roma, maestro indiscusso edimpareggiabile della Chirurgia più audace e brillante, su-però vincendoli per concorso, tutti i gradi della gerarchia,fino a che, nel 1903, non divenne Chirurgo Primario all’O-spedale di S. Giacomo prima, al Policlinico Umberto I°poi.

I cimenti dolorosi della guerra mondiale lo videro inprima linea portare il soccorso volontario della sua scien-za e della sua grande pietà fin presso le trincee e tra lagragnuola dei proiettili d’ogni misura. Fu così che, comeDirettore della Ambulanza d’Armata, a Gorizia, si guada-gnò la medaglia d’argento al valore.

Senza tener conto degli insegnamenti preziosi che consignorile dovizia egli profon deva a piene mani, nel gior-nale “La Clinica Chirurgica” del quale è Direttore, sonoben 145 le pubblicazioni sue, che fin’oggi han veduto laluce.

Gli studi sulla Patologia e sulla Chirurgia del rene for-mano “testo” e non han forse rivali nella letteratura stra-niera. Dai primissimi “sulle lesioni dei singoli elementi

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del cordone sper matico” e le loro conseguenze sulla glan-dola genitale, a quelli “sulla vaginale del testicolo”, sui”tumori d’origine surrenale”, sulla “legatura della venaemulgente, degli elementi dell’ilo renale”, ecc., ecc., ai piùrecenti sulla “pielotomia nella calcolosi renale”, ecc., ab-biamo tutta serie di osservazioni e di studi, che nel loroinsieme formano un vero e proprio trattato di Patologia edi Clinica speciale.

Osservazioni e indicazioni preziose troviamo poi nellaserie ricchissima di lavori sulla Chirurgia di Guerra, lavo-ri che sono i più recenti e nei quali l’A. ha profuso tantadottrina e una ricchezza di buon senso e d’esperienza,quante basterebbero a creare la fama di più di un clinico.

Stefanini era stato da poco chiamato a Pisa quandomorì Paolucci e si rese vacante Roma. Tornò dunquedopo 18 anni, nel 1959, nella sua città, accolto dalla sim-patia dei romani medici e non, che in lui, semplice espontaneo, ritrovavano il loro modo di essere. In breveconquistò la città ed anche l’Accademia. Lasciò a Val-doni il monopolio della cardiochirurgia, avventurando-si nel mondo inesplorato dei trapianti ed attivando lechirurgie specialistiche vascolare e toracica.

Al Policlinico si dovette accontentare del poco cheValdoni gli lasciò.

Il grande Clinico Valdoni tenne per sé il fabbricatooriginale della vecchia clinica chirurgica ed il nuovofabbricato da lui stesso costruito per un totale di circa400 letti. E tenne con sé un numero straordinario diAllievi superiore a cento. Intorno a lui in quegli annisi erano raccolti i figli della Roma bene ed anche i mi-gliori talenti. La sua Scuola aveva già prodotto PieroTonelli, rimasto in Cattedra a Firenze al posto delMaestro ma nella Capitale tra quei cento crebberoLanzara, Biocca, Provenzale, Fegiz, Tagliacozzo, Mon-ti, Leggeri, i fratelli Stipa che poi seguirono Biocca, DiPaola ed Angelini che seguirono Fegiz, Ricceri e Cap-pellini che entrambi morirono immaturamente eFrancesco Tonelli che il padre aveva mandato alla

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Scuola del suo Maestro. E poi tanti altri: i cardiochi-rurghi come Benedetto Marino, gli anestesisti comeMazzoni, i plastici, i vascolari e tutti quelli da Blasuc-ci a Thau che lasciarono l’Università per i PrimariatiOspedalieri.

Stefanini arrivò col piccolo gruppo che da Perugia loaveva seguito a Pisa ove rimase Selli ad occupare quel-la Cattedra. C’erano Castrini e Coppola che nel ’62 an-darono il primo in Cattedra a Perugia ed il secondo alPrimariato di Lucca, Costante Ricci, Alberto Baglioni,Vincenzo Speranza e Massimo Ermini. Dalla ClinicaChirurgica di Valdoni, ex Paolucci, emigrarono pochigiovani, Fiorani, Campioni, Carboni, Gentileschi, Riz-zo, Pasquini, ed altri arrivarono dai diversi Ospedalid’Italia, Ribotta da Magliano Sabina, de Santis da Na-poli, De Feo da Barletta, Mercati da Perugia, Fedele daun Padiglione Ospedaliero del Policlinico, Cortesini dalS. Giovanni con Casciani che lasciava la Clinica Medicadi Condorelli. Ed in quei primi anni affluirono i neolau-reati e si laurearono i primi interni, Arullani, BenedettiValentini, Pistolese, Bonanome, Santoro, Carotenuto,Basso, Trecca, Cucchiara.

Da quella sera dunque in cui Valdoni annunciò losdoppiamento della Cattedra di clinica chirurgica co-minciò l’era nuova. Successivamente nacque la IIIa Cli-nica di Marcozzi che di Paolucci non solo era l’eredema anche il marito dell’adorata unica figlia. E con luicrebbero Di Matteo, Martinelli, Beltrami, Messinetti,Montori, Campana e tanti altri.

Crebbe splendidamente anche l’Università Cattolicacon il Policlinico “Agostino Gemelli” affidando le Cat-tedre chirurgiche prima a Castiglioni e Puglionisi e poia Crucitti, Picciocchi, e ad altri più giovani ma altret-tanto valenti. Per il Policlinico “Gemelli” passerà tantastoria della città e del Paese per i molti pazienti illustriche vi furono ricoverati ma soprattutto per lo straordi-nario intervento con cui Francesco Crucitti salvò la vita

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a Papa Giovanni Paolo II°, ferito in piazza S. Pietro il 13maggio 1981.

Crebbero intanto altri Ospedali, il “Sandro Pertini” aPietralata, il “Grassi” di Ostia, e prima il nuovo “S. Gio-vanni” ed il nuovo “S.Eugenio” e quelli religiosi, il “S.Pietro”, il “San Carlo”, il “Cristo Re” e si moltiplicaronoi Primari Ospedalieri che da 10 degli anni 60 divente-ranno 25 a fine secolo.

Ed aumenteranno le Facoltà di Medicina con la crea-zione dell’Università di Tor Vergata nel 1981, con ilCampus Biomedico nel 1993 e con la seconda Facoltà diMedicina de “La Sapienza” nel nuovo Ospedale “S.An-drea” nel 1999.

Anche l’Istituto per i Tumori Regina Elena fondatonel 1932 subirà in seguito una simile espansione, i Pri-mariati di Chirurgia Generale dall’unico di Bastianelli epoi di Margottini, cresceranno a due con Ruggeri primae Frezza e Manfredi poi, a tre con l’aggiunta di Strado-ne e poi con Cavaliere, Santoro e Campioni, oltre aquelli delle specialità chirurgiche: l’urologia di Cancri-ni, la ginecologia di Marziale e poi di Atlante, l’otorinodi Garfagni prima e poi di Francesco Marzetti, scom-parso prematuramente, e infine la neurochirurgia diAntonio Riccio e poi di Emanuele Occhipinti.

Il nome di Renato Cavaliere resta legato alla introdu-zione della perfusione ipertermica nel trattamento dei tu-mori degli arti, che realizzò per primo nel 1964. Con que-sta metodica, ripresa in tutto il mondo, sono stati trattaticon straordinari successi centinaia di pazienti prima con-dannati all’amputazione. Cavaliere sul fronte delle neo-plasie avanzate, trenta anni dopo divenne punto di riferi-mento nazionale per le peritonectomie.

Dante Manfredi negli anni ’80 avviò la chirurgia reset-tiva epatica secondo la Scuola Vietnamita.

Con Santoro dopo il 1990 fu potenziata l’attività diChirurgia viscerale che riprendendo l’originaria imposta-zione di Bastianelli ridiventò pilastro fondamentale del-l’attività dell’Istituto affiancando quella tradizionale di

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chirurgia mammaria. La chirurgia epato-bilio-pancreaticamoderna, quella gastrica e quella del retto, anche nella lo-gica delle terapie multimodali, diventeranno oggetto dispecifica attività clinica e di ricerca. Fu anche avviata conrilevanza nazionale ed internazionale la chirurgia laparo-scopica delle neoplasie del colon, dello stomaco e del pan-creas. Ebbe infine rilievo la chirurgia di sostituzione del-l’esofago cervicale con anse digiunali trapiantate al collo,con metodo microchirurgico, mai eseguita in precedenzaa Roma.

Per l’Istituto il Secolo si chiude con il trasferimentodalla vecchia storica sede antistante il Policlinico Um-berto I°, nella nuova avveniristica sede dell’Ospedale“S.Raffaele” all’Eur.

Quattro anni dopo quella storica sera del 1966, Pie-tro Valdoni settantenne ma in eccellenti condizioni fisi-che e mentali, lasciò l’insegnamento, la Cattedra, la Di-rezione della Clinica e delle Scuole di specializzazioneche aveva creato. Lasciò un’eredità formale a PaoloBiocca che lo sostituì nella cattedra ed una sostanziale aGianfranco Fegiz. Entrambi saranno anche Presidentidella Società Italiana di Chirurgia. Morì sei anni dopo,lui forte fumatore, per un cancro del polmone, che dia-gnosticò da solo e per il quale da solo definì il piano dicura. Fu giustamente commemorato come il Padre del-la Chirurgia contemporanea. Paride Stefanini lo ricordòsul quotidiano romano Il Tempo.

Valdoni è nato chirurgo e chirurgo è stato sempre.Chirurgo tra i più grandi, certamente è il più grande

del Suo periodo nel nostro Paese, uno fra i maggiori delmondo: accanto a una tecnica prodigiosa, aveva una ca-pacità di intui zione rapida delle situazioni morbose cuiseguiva una rapida, talora coraggiosa decisione. Ri cordo,durante gli anni della permanenza vicino a lui, nella Cli-nica Chirurgica di Alessandri, il primo caso nel nostroPaese di operazione di Trendelemburg

Egli, per primo in Italia, ha fatto la legatura del dottodi Botallo pervio (dotto arte rioso di Botallo che fa comu-

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nicare nel circolo fetale, nella vita intrauterina, la circola-zione aortica con quella polmonare e che è causa di gravidisturbi se alla nascita rimane pervio). È stato il primo afare la divulsione della valvola mitrale secondo la tecnicadi Blalock e ha idea to una notevole quantità di tecnichepersonali in vari campi della chirurgia.

Sono questi, la chirurgia addominale e toracica, com-presa la chirurgia cardiaca, i settori in cui egli si è dedica-to poi con maggior interesse durante gli anni romani.Non c’è però cam po della chirurgia cui Valdoni non si siaaccostato con successo. Io ricordo ad esempio che nel 40 -41 egli fu il primo ad operare un’ernia discale nel nostropaese. Ecco quindi la vastità de gli interessi del chirurgo edello scienziato che sono una delle caratteristiche princi-pali del No stro.

Valdoni era un uomo per il quale la più stretta osser-vanza del dovere rappresentava l’a spetto particolare dellalegge morale che si era eretto a guida delle sue azioni.Quando egli fu consigliere del comune di Roma, nonmancò ad una sola seduta destando la sorpresa e l’am -mirazione di tutti i colleghi. Lo stesso senso del dovereegli ha portato nella scuola, dall’inse gnamento agli stu-denti alla formazione di schiere di chirurghi che oggi oc-cupano posti rilevanti nell’ambito universitario e nell’am-bito ospedaliero

Egli ha avuto riconoscimenti ambitissimi in ambito na-zionale ed internazionale. È stato presidente, più volte,della Società italiana di Chirurgia, ed infine è stato nomi-nato presidente onorario di questa Società, carica creataproprio per lui, per indicare in lui il promotore direi, dellamoderna chirurgia nel nostro paese

All’estero i riconoscimenti sono stati innumerevoli.Dalla laurea ad honorem che egli ha avuto in diverse Fa-coltà mediche estere, alle nomine a membro onorario dimolte so cietà e voglio ricordare tra le altre le due Societàchirurgiche più importanti, l’International College of Sur-geons e la Sociètè Internationale de Chirurgie, alle onori-ficenze che gli sono venute da più parti, fra le quali, quel-le a lui particolarmente care, dallo Stato pontificio per l’o-pera prestata a due Papi, Papa Giovanni XXIII° e PapaPaolo VI°.

Ha lasciato Valdoni ai suoi allievi e alle schiere di chi-rurghi che verranno dopo di loro, due opere fondamenta-

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li e di grandissimo contenuto dottrinale: una il “Trattatodi patologia chirurgica” di cui sono state fatte numeroseedizioni e ristampe e che è il libro di patologia chirurgicapiù usato fra gli studenti di medicina nel nostro Paese,l’altra è “L’Atlante di tecni che chirurgiche” che egli, negliultimi periodi della sua malattia, ha visto con grandesoddisfa zione edito in inglese.

Cinque anni dopo si spense anche la grande voce diParide Stefanini. Anche la sua vecchiaia fu tormentatadalla malattia neoplastica, per la quale da solo scelse lecure ed accettò la sofferenza. Fu commemorato in pri-mis dall’allora Presidente in carica della Società Italianadi Chirurgia, Pierluigi Cevese.

Paride Stefanini rappresentava il più dinamico di tuttinoi, l’uomo che trovava il mo mento di dedicare la suafebbrile attività alle più differenti iniziative di ordine cul-turale, assi stenziale ed umano.

Sotto questo profilo lo ricordiamo animatore entusia-sta ed indefesso della scuola prodi giosa da lui diretta edalla quale mossero i primi passi tanti altri colleghi, oggicattedratici di chirurgia generale o di specialità chirurgi-che. Lo ritroviamo relatore attento, preciso e impe gnato,in congressi nazionali ed internazionali, sui più disparatiargomenti di chirurgia appli cata; lo rivediamo presidenteo consigliere di società internazionali, di società ed acca-demie nazionali, sempre presente e sempre ideatore dinuove iniziative, intese al progresso delle co noscenze chi-rurgiche.

Come accademico, gli spettano tanti meriti come quel-lo di aver collaborato al program ma di riforma sanitariaed alla ristrutturazione della facoltà medica e di esserestato pratica mente il fondatore delle facoltà mediche del-l’Aquila e di Mogadiscio.

Chirurgo distinto, allevato con Valdoni alla scuola delgrande Alessandri, cominciò ben presto la sua attivitàoperatoria che a poco a poco si diresse ad aggredire quasitutti gli organi dell’anatomia umana; ma la sua tempra edil suo stile lo portarono a vagheggiare una chirur gia di-versa da quella demolitiva e questo suo orientamentoraggiunse finalmente il traguardo ed il premio quando

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poté iniziare, in Italia per primo, la chirurgia dei trapiantid’organo, se gnatamente del trapianto renale.

La rivoluzione iniziata quella sera del ’66 si com-pletò negli anni ’80: la riforma universitaria, la cosidet-ta tabella 18, modificano il curriculum degli studi e gliinsegnamenti, non più clinica, patologia, semiotica ecc,ma semplicemente chirurgia generale o chirurgia dige-stiva, chirurgia oncologica. Centodiciassette anni dopol’Unità d’Italia scompariva una delle categorie più illu-stri dell’Accademia, quella dei Clinici chirurghi e medi-ci. Simultaneamente, il Policlinico Umberto I° venivaconsegnato interamente all’Università: la componenteospedaliera si trasferiva al nuovo ospedale “SandroPertini”. Ma la Chirurgia universitaria colse l’occasioneper frammentarsi ulteriormente con oltre 20 ProfessoriOrdinari di Chirurgia Generale, con altrettanti Associatied un numero di Primariati passati dai 5-6 dei primi 60anni del XX° secolo, ad oltre 30. In fisica il fenomeno sichiama implosione, in chirurgia fu definito polverizza-zione. Ma al tempo stesso si alzava ulteriormente il mu-ro tra Università ed Ospedali. Dopo Stefanini, anni ’40,nessun ospedaliero era più stato chiamato in Universitàa Roma. Negli anni 80 e 90 anche il percorso inverso di-venta assai arduo.

Negli anni ’70 e ’80 un gruppo di Chirurghi con pre-cedenti universitari aveva affiancato gli Ospedalieri pu-ri alla guida delle Divisioni Ospedaliere: tra i primiManfredi, Fedele, Porzio, Santoro, Cucchiara, Thau, Ca-rotenuto, Tersigni, tra i secondi Ascani, Bandini, D’O-nofrio, Puntillo, Gargiulo, Cavaliere, Mascagni e tantialtri.

Negli anni ’90 il muro si alza ancora. Lo supera AldoMoraldi, sull’esempio del padre. Gli Ospedalieri per ilresto riproducono se stessi, con orgoglio: primo tra tuttiTitta Grassi, eccellente figlio di tanto padre, poi GiorgioMassi ma soprattutto il gruppo cresciuto con Santoro:

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Carlo Allegri, Massimo Mulieri, Franco Scutari, AlfredoGarofalo, Marco Sacchi in Chirurgia Generale, Aldo Fe-lici in Chirurgia Plastica, Giuseppe Gentile e FrancoCiaraldi in Urologia.

Ed a fine Secolo Roma riserva una particolare sor-presa. Nell’ultimo Concorso di Cattedra di Chirurgia,vince tra gli altri, Chiara Montesani, moglie di GiorgioRibotta: sarà la prima donna Professore di Chirurgia ePrimario nella Capitale.

Attraverso queste e molte altre vicissitudini, la Scuo-la Romana ha improntato tutto il secolo della ChirurgiaItaliana e della Società Italiana di Chirurgia, spargendola propria luce anche oltre i confini d’Italia. L’allocuzio-ne di Santoro al 100° Congresso della Società, tratteggiail legame tra Roma e la Società.

La Storia della Società Italiana di Chirurgia è forte-mente intrecciata con quella della nostra Città Capitale.Nove dei trentadue Presidenti che mi hanno precedutosono professionalmente romani tutti Clinici Chirurghidella Sapienza. Nessun altra Università Italiana tanto haavuto e tanto ha dato alla nostra Società.

Costanzo Mazzoni fu il Primo Presidente della nostraSocietà nel 1883. Era il grande Chirurgo della nuova Capi-tale d’Italia, da giovane in quegli anni eroici era divenutonoto come il Chirurgo della cannuccia per avere salvato lavita ad un infermo che stava per soffocare incidendo latrachea con un temperino che aveva in tasca ed introdu-cendovi una canna di bambù. Mori poco più che sessan-tenne per un attacco cardiaco lungo la rampa di scale chesaliva per andare a visitare un infermo. Scrisse di lui Bac-celli commemorandolo “posto tra l’altrui beneficio e lapropria conservazione preferì l’opera pietosa e cadde sulcampo del dovere, insegnandoci non solo a vivere ma an-che a morire”

Gli succedette nella cattedra e nella Presidenza dellaSocietà Francesco Durante, la cui autorevolezza fu taleche mantenne la carica ininterrottamente per 34 anni,quando per limiti d’età, rinunciò anche all’insegnamentoe si ritirò nella sua Letoianni.

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Con lui si chiude anche l’epoca per così dire monarchi-ca della nostra Società. Dal 1920 le Presidenze diventanobrevi, uno o due anni spesso coincidendo con la Presiden-za del Congresso.

Con il 1930 si ritorna all’antico. Prima Roberto Ales-sandri, sino al ‘39, poi Raffaele Paolucci sino al ‘46. Terzoe quarto, Presidente Romano, chirurghi di grande presti-gio e Maestri di grandi Scuole.

Di Alessandri ricorderò che prima di assumere la Cat-tedra della Sapienza era stato Primario Ospedaliero peroltre 15 anni all’Ospedale S. Giacomo prima ed al Policli-nico Umberto I poi, aveva dato il meglio di se nella IGuerra Mondiale nelle trincee del Friuli, guadagnandosila medaglia d’argento al valore. Per la Scuola Romana fuil padre della Chirurgia moderna e furono suoi allieviValdoni e Stefanini.

Di quella Grande Guerra fu protagonista indimentica-to anche Raffaele Paolucci di Valmaggiore, del quale inquesti giorni ricorre l’ottantesimo anniversario della stori-ca impresa di Pola. Ebbe la medaglia d’oro al Valor Mili-tare. Fu Senatore della Repubblica.

Di Valdoni e Stefanini, mio maestro, quinto e sesto Pre-sidenti Romani della Società, nulla posso aggiungere alcommosso, devoto e vivo ricordo di molti qui tra noi, loroallievi che quotidianamente ne perpetuano la memoria el’opera eccelsa. Ai loro nomi resta legata in Italia rispetti-vamente la Chirurgia Cardiaca e quella dei trapianti d’or-gano e ad entrambi la grande chirurgia viscerale e vasco-lare.

Settimo Presidente romano fu Paolo Biocca, erede di-retto di Valdoni, come Gianfranco Fegiz, ottavo Presiden-te, presente stasera fra noi. Fegiz fu anche per molti anniSegretario della Società. Come fra noi stasera è ancheGiorgio Di Matteo, nono Presidente romano nel cui Con-siglio mi onoro di avere servito da Vice.

L’intreccio tra Roma e la chirurgia è poi particolarmen-te intenso a livello Congressuale. 51 dei nostri 100 Con-gressi hanno avuto luogo a Roma, compreso l’odierno dicui va il merito a Giorgio Ribotta, con il ringraziamento ditutti noi.

51 Congressi Romani, dalle Aule dell’Accademia Me-dica, a quelle della Sapienza sede centrale, a quelle delPoliclinico Umberto I° ed infine dal 1964 a quelle dell’Ho-

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tel Hilton sempre in un susseguirsi di grandi temi e gran-di dibattiti di casistica e dottrina nel continuo aggiornarsidella pratica clinica per una chirurgia al passo con i tempiin Italia e nel mondo.

E Roma capitale d’Italia e della Chirurgia Italiana havissuto anche attraverso l’opera dei chirurghi la vita so-ciale e politica di questo secolo. Ho ricordato eventistraordinari della prima guerra mondiale, debbo ricorda-re il contributo dato dai Chirurghi alla seconda guerramondiale dalla quale in molti non tornarono negli Ospe-dali Romani, come anche avvenne per tante altre città edaltri Ospedali Italiani.

Debbo ricordare tra gli altri meriti, non trascurabilidella Chirurgia Romana, l’impegno eccezionale per ilbombardamento di S. Lorenzo, quando il Policlinico e glialtri Ospedali furono sommersi dai feriti di quella im-mensa tragedia.

Ed infine gli attentati che potevano cambiare la storia,ai quali la chirurgia romana fece fronte: l’attentato al Du-ce, quello a Togliatti, quello al Papa. Mi sia così consentitoricordare la figura eccelsa di Francesco Crucitti che stase-ra dolorosamente non è più tra noi ed alla cui ferma ma-no, questo Secolo molto deve.

Quale è stata dunque la Chirurgia romana ed il suocontributo al progresso?

È stata innanzitutto una chirurgia coraggiosa e radi-cale. È stata una chirurgia anatomica ragionata, fattacon la pinza e con la forbice, utilizzando il dito o la viasmussa solo quando indispensabile. Non a caso il nomedi Durante è rimasto legato alla pinza chirurgica. È sta-ta una chirurgia didattica per aver formato generazionidi chirurghi ed un numero straordinario di ProfessoriUniversitari per tutte le grandi città da Firenze a Trie-ste, da Cagliari a Palermo, da Pisa a Napoli ad Ancona,all’Aquila ed un numero eccezionale di Primari perogni angolo del Paese, oltre che per la città capitale. Edè stata una chirurgia innovativa. Qui nacque e crebbenelle mani di quei chirurghi generali, da Durante a Ba-stianelli, da Alessandri a Puccinelli, a Paolucci, a Chidi-

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chimo, a Valdoni, a Stefanini, tutta la chirurgia speciali-stica, dalla neurochirurgia all’ortopedia, alla ginecolo-gia, all’otorino, all’urologia sino alla cardiaca, alla va-scolare, alla toracica, alla plastica, a quella dei trapiantid’organo. Ma qui è anche ovviamente cresciuta la gran-de chirurgia generale e digestiva, quella radicale delcancro, quella delle grandi demolizioni e quella conser-vativa della mammella, dello stomaco, del retto, quellaepatica ed infine la mininvasiva.

Per l’intero secolo, i chirurghi romani hanno moltoimparato girando per il mondo con grande curiosità egrande amore, ma anche molto hanno insegnato almondo dalle loro sale operatorie, dal loro straordinarioquotidiano lavoro, dai loro studi, dalle loro meraviglio-se casistiche.

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Cap. V

SCUOLA NAPOLETANA

Fa freddo in questa alba dell’undici novembre 1972.Napoli si sta svegliando. I rari passanti che comincianoa percorrere le vie del centro della città notano un viavai di ambulanze. Che strano. Nessuna però ha accesola sirena e nemmeno il lampeggiante. E non si ha nep-pure notizia – a Napoli il tam tam è più rapido della ra-dio- di incidenti o, peggio, di cataclismi che potrebberospiegare questa concentrazione di ambulanze.

Le ambulanze arrivano nel vecchio Policlinico, cari-cano i malati e poi via, a gran velocità verso la Cappelladei Cangiani dove scaricano le lettighe. Qui sempre ingran fretta, i portantini accompagnano i malati nellestanze del II° Policlinico fresche di tinteggiatura. Allafine del gigantesco trasloco di malati e letti, ci si accor-ge che sono stati dimenticati i “pappagalli”. E così, que-sta volta a sirene spiegate perché il traffico ormai ingol-fa le strade, ambulanze cariche di soli “pappagalli” dalcentro ritornano al nuovo Policlinico.

Guida questa immensa “operazione infermi”, Giu-seppe Tesauro, Professore di Clinica Ostetrica prima aSassari, poi a Messina, infine a Napoli e adesso Rettoredell’Università napoletana. Il suo forte, volitivo, deter-

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minato temperamento e le sue notevoli capacità orga-nizzative lo vedono protagonista di un’impresa storica,la realizzazione a Napoli della II° Facoltà di Medicina eChirurgia. Entusiasmo per l’idea ma anche opposizioni,polemiche, contrasti e rivalità. Il numero degli studentidella Facoltà di Medicina e Chirurgia ha superato digran lunga il limite di guardia. C’è bisogno di una nuo-va Facoltà con una nuova sede, il II° Policlinico.

Le polemiche e le rivalità, anche all’interno del mon-do accademico di Napoli, ritardano l’apertura del nuo-vo complesso e così Tesauro, avuto il decreto del Go-verno, con un blitz rompe gli indugi. In una mattinatavengono trasferiti, armi e bagagli, e cioè corpo accade-mico e pazienti delle seconde Cattedre. Alla prima Fa-coltà rimangono solo le prime Cattedre.

E così prende avvio, con un’originale inaugurazione -quella ufficiale con le autorità non ci sarà mai- il II° Poli-clinico, una delle tre grandi opere pubbliche di Napolidel dopoguerra, le altre sono la Tangenziale e il CentroDirezionale. Napoli si arricchisce di un nuovo grandecomplesso per la sanità pubblica. Un altro anello di unalunga catena che non ha uguali in Italia.

La città partenopea infatti si distingue nel panoramadella cultura, e in particolare di quella medica, perché -come dice Vincenzo Mezzogiorno, Cattedra di AnatomiaUmana alla IIa Università e cultore di Storia della Medici-na – “ la storia della Scuola di Medicina di Napoli è storiadi lunghi precorrimenti e di lontane anticipazioni”. Lun-ghi precorrimenti perché le origini risalgono a quandoNapoli era città greca, alla Schola Medicorum sotto il do-minio dei Romani, ai Monasteri, naturale asilo della cul-tura medica. E via via fino al 1140 quando Ruggero II°,nel famoso Comizio di Ariano, promulgò la legge che im-poneva a coloro che volessero esercitare la medicina o lachirurgia un esame innanzi ai suoi ufficiali e giudici, pu-nendo i contravventori con il carcere e la confisca dei be-ni. E si può continuare con Federico II° che dettò ai suoiVassalli, riuniti a Melfi, le “Costituzioni” che nel libro ter-

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zo hanno per titolo “De Medicis”, decretando regole diun’impressionante modernità. E poi il periodo Angioino equelli Austriaco e Borbonico.

Ma c’è un altro elemento che distingue Napoli medicanon solo nel trasmettere il sapere ma nel curare le grandimalattie: la nascita di ospedali che, con una visione mo-derna, si potrebbero definire “Istituti specializzati”. Bastipensare che a partire dal XVI° secolo Napoli ha avuto nonmeno di 75 ospedali. Un’eccezionale cultura medica percombattere grandi malattie: il “Monaldi” per la tubercolo-si, il “Pascale” per i tumori, il “Santobono” per le malattiedell’infanzia, realizzazioni che hanno rappresentato anti-cipazioni di una visione moderna della medicina. L’Ospe-dale e l’Università, i due poli della Ricerca e dell’Assisten-za con un raggio d’azione che esce dai confini della città edella Campania, investendo tutto il Sud. L’Ospedale“Cardarelli” infatti è ancora la più grande struttura sani-taria del Meridione.

E non si possono dimenticare l’Ospedale “degli Incu-rabili” che nel 18° secolo, sotto Carlo III°, fu sede ufficialedegli insegnamenti di medicina e chirurgia; l’Ospedale“S.Giacomo Apostolo”, fondato nel 1540 per i militarispagnoli e soppresso nel 1809; l’Ospedale “Santa Mariadella Pace” per infermi di mali acuti; l’Ospedale “SantaMaria di Loreto”, distrutto durante il II° conflitto mondia-le e ricostruito nel 1959, fondato da Ferdinando II° inquello che era stato uno del quattro Conservatori: vi ave-vano studiato Cimarosa, Paisiello e Pergolesi; l’Ospedale“S.Francesco di Paola”, la prima struttura per curare i re-clusi; l’Ospedale “Gesù e Maria”, vecchio monastero, sop-presso nel 1809 e nel 1863 riadattato per accogliere le cli-niche mediche e chirurgiche.

Il più antico e il più nobile tra tutti gli Ospedali è quel-lo “degli Incurabili”, il nome esatto è “Ospedale di SantaMaria del Popolo degli Incurabili”, creato dalla nobildon-na Maria Longo. Rimasta vedova molto giovane, fu avve-lenata da una cameriera e rimase paralizzata. Nel 1519 sirecò a Loreto per implorare la guarigione. Guarì miraco-losamente e, per sciogliere un voto, raccolse fondi per unospedale che venne aperto l’11 marzo 1519. Il nome Incu-rabili non venne dato perché l’ospedale fosse riservato achi non poteva più essere curato ma agli infermi che permancanza di mezzi, non potevano curarsi nelle loro case.

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La Napoli medica moderna ha inizio con l’Unità d’I-talia quando la città, liberata dalla signoria dei Borboneed entrata a far parte del Regno, getta alle spalle un se-colo tempestoso. Al Dicastero della Pubblica Istruzioneva De Sanctis che opera una riforma politica e moraleche non può non avere ripercussioni anche sulla Fa-coltà Medica di Napoli perché il neo Ministro, con la di-rittura e la diligenza che lo distinguevano, si rende con-to che era necessario procedere in primo luogo allariforma degli uomini, quindi ad una rivoluzione negliincarichi. Con decreto al vertice della clinica chirurgicava Felice De Renzis che, due anni dopo, ha l’idea di isti-tuire la Cattedra di Medicina Operatoria e di affidarla aCarlo Gallozzi che successivamente occuperà la Catte-dra di chirurgia generale, sarà nominato Senatore e poiRettore (dal 1902 al 1903).

A De Renzis – racconta Vincenzo Mezzogiorno – vie-ne chiamato a succedere Ferdinando Palasciano: lo stu-dioso tiene alto il nome della chirurgia napoletana, af-fermandosi non solo come il chirurgo più colto dei suoitempi ma anche come l’operatore più geniale e più ar-dito. Episodio significativo del suo acume clinico èquello della ferita al piede di Garibaldi in Aspromonte,ferita non guarita e ribelle ad ogni cura. Palasciano,contro il parere di altri chirurghi italiani e stranieri, neindividua la causa nella presenza di un proiettile rite-nuto: Garibaldi stesso con una lettera affettuosa mostragratitudine “ai lumi del suo sapere”.

Il nome di Palasciano è anche strettamente legato al-la fondazione, sul piano concettuale, della Croce Rossa,perché fin dal 1860 in una comunicazione da lui tenutaall’Accademia Pontaniana di Napoli, afferma che“…..le potenze belligeranti devono riconoscere recipro-camente il principio della neutralità dei combattenti fe-riti o gravemente infermi per tutto il tempo della cura”.Ed è soprattutto legato alla fondazione della Società Ita-liana di Chirurgia della quale fu il vero promotore.

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L’opera didattica di Palasciano viene stroncata quasisubito a causa del trasferimento degli Istituti CliniciUniversitari dall’Ospedale “degli Incurabili” al “Con-vento di Gesù e Maria”. Palasciano si oppone tenace-mente al trasferimento della Clinica Chirurgica in localiin cui dovevano essere accolte anche le malattie conta-giose, rifiutandosi di aprire il corso. Invitato dal Mini-stro dell’Istruzione, Domenico Berti, a recedere dal suoatteggiamento, Palasciano rimane più che mai fermonel suo proposito e il Ministro lo sospende dall’inse-gnamento. Palasciano allora lascia la Cattedra.

Dopo Palasciano alla Cattedra di Clinica Chirurgicasuccedono prima Carlo Gallozzi e poi Antonino D’Anto-na: sarà quest’ultimo, siciliano di nascita, il primo gran-de chirurgo della Scuola Napoletana nel XX° Secolo.

Antonino D’Antona nasce a Riesi (Caltanisetta) nel1842. Si iscrive all’Università di Palermo dove frequenta iprimi quattro anni del corso di medicina. Quindi, si tra-sferisce a Napoli dove insegnano tre grandi maestri: An-tonio Cardarelli, Carlo Gallozzi e Otto van Schron. Si lau-rea nel 1865. Subito dopo la laurea inizia la sua formazio-ne frequentando i più prestigiosi centri medici d’Europa:a Vienna da Billroth, a Lipsia da Tiersch, a Berlino da Lan-genbeck, a Bristol da Spencer, a Edimburgo da Lister. Tor-nato a Napoli a 27 anni viene nominato, con decreto mini-steriale del 1872, preparatore di medicina operatoria pres-so la clinica chirurgica e confermato sino al 1880. È unodei primi in Italia ad introdurre e far conoscere l’antise-psi. Chirurgo eclettico, particolarmente appassionato allachirurgia del sistema nervoso idea un metodo per la de-terminazione della topografia cranio-encefalica. La sua fa-ma oltrepassa i confini d’Italia e viene chiamato per ese-guire ardui interventi chirurgici in Grecia, in Inghilterra,in Egitto. Parlando di lui l’inglese Watson Spencer a Lon-dra si esprime dicendo: “ È certamente il più grande clini-co europeo”. Si racconta di lui che la mattina del 1 no-vembre 1869 fu chiamato urgentemente a palazzo realeperché la principessa Margherita di Savoia, moglie delprincipe di Piemonte Umberto (il futuro Umberto I°), sidibatteva ormai da ore tra le doglie del parto senza che

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avvenisse la nascita. Il D’Antona dopo approfondito esa-me della situazione, decise di mettere in atto un tratta-mento insolito ed originale. Nascosto nella camera da let-to della partoriente spara improvvisamente un colpo dipistola in aria. La principessa Margherita, spaventata, fupresa da violente contrazioni che agevolarono in mododeterminante l’opera del D’Antona e quasi immediata-mente avviene la nascita del bambino. Spararono i canno-ni di Forte Sant’Elmo. Era nato il futuro Vittorio Emanue-le III°.

Nel 1884 è nominato ordinario di propedeutica e pato-logia speciale chirurgica. Scrive una monografia da tuttiapprezzata sulla “Infiammazione”. Le sue relazioni neicongressi nazionali ed internazionali fanno testo nel pro-gresso tecnico chirurgico. Nel 1902 succede a Gallozzi nel-la Cattedra di clinica chirurgica. È tra i soci fondatori del-la Società Italiana di Chirurgia. Nel XXX° anno del suo in-segnamento, lui vivente, viene inaugurato nell’aula dellaclinica chirurgica dell’Università di Napoli un suo bustobronzeo. Viene nominato nel 1896 senatore del Regno d’I-talia. La sua morte avvenuta nel 1913 a 71 anni suscitagrande cordoglio in tutta la nazione.

La più grande amarezza della sua vita fu subire un pro-cesso perché accusato di omicidio colposo per aver dimen-ticato un corpo estraneo, “una pezza” nell’addome di unmalato, affetto da neoplasia epatica, e da lui laparotomiz-zato. Il primo processo celebrato davanti all’Alta Corte diGiustizia (trattandosi di un senatore del Regno) è favorevo-le al D’Antona per insufficienza d’indizi contro l’onorevoleSenatore. In un secondo processo, che ha ancora più eco intutta Italia, dopo giorni di sedute, clamorosamente la partecivile abbandona l’accusa e l’Alta Corte di Giustizia assol-ve il professore “ per non aver commesso il reato”.

Da vero maestro crea una fiorente scuola; degli allieviche tornarono in Sicilia ricordiamo Gaspare D’Urso che fuprofessore di clinica chirurgica a Messina, Giuseppe Mu-scatello che fu clinico chirurgo a Catania, Ernesto Tricomiche fu anche allievo di Durante ed insegnò a Palermo edAntonino Turretta, Primario dell’Ospedale “S.Antonio” diTrapani.

Con il XX° Secolo e dopo la prematura morte diD’Antona a 71 anni nel 1913, irrompe sulla scena della

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chirurgia napoletana Giovanni Pascale, figura di gran-de spessore in particolare nella lotta alla tubercolosi edai tumori. “ Grande dottrina, profonda umanità ma so-prattutto grande conoscitore di uomini e naturale atti-tudine organizzativa”, così lo ricorderà Torraca.

Con Giovanni Pascale prendono avvio due grandieventi legati tra di loro: la Lega Italiana per la Lottacontro i Tumori e la Fondazione Pascale, poi Istituto Pa-scale per lo Studio e la Cura dei Tumori.

Dice il professore Giovanni D’Errico, Presidente Na-zionale della Lega Tumori sino al 2000: “ La prima voltache si parlò della necessità di costituire in Italia un’As-sociazione contro i tumori fu a Napoli, in occasione delCongresso della Società Italiana di Chirurgia nell’otto-bre 1921. I chirurghi di allora, che erano protagonisti,ieri come oggi, della lotta ai tumori si convinsero a co-stituire un’Associazione, poi denominata Lega Italianaper la Lotta contro i Tumori, con le finalità di sensibiliz-zare l’opinione pubblica al problema del cancro, per fa-vorire l’informazione e la diagnosi precoce e convincerela gente che il cancro non era una malattia fatalmentemortale ma un male curabile”.

Protagonisti della Lega Tumori nei primi anni, e an-che dopo, furono i chirurghi. Tra gli altri: Raffaele Ba-stianelli, vanto della chirurgia italiana, primario chirur-go dell’Istituto Nazionale dei Tumori Regina Elena ePresidente della Lega Tumori dal 1935 al 1943; PietroBucalossi, eminente chirurgo oncologo, Direttore dell’I-stituto Nazionale dei Tumori di Milano, Ministro deiLavori Pubblici, Sindaco di Milano e Presidente dellaLega Tumori dal 1974 al 1980; Umberto Veronesi, Mini-stro della Sanità, Direttore dell’Istituto di Tumori a Mi-lano e poi fondatore e Direttore Scientifico dell’IstitutoEuropeo di Oncologia, Presidente per lunghi anni dellaSezione Provinciale di Milano della Lega Tumori ecomponente del Consiglio Direttivo Nazionale; Giusep-pe Zannini Presidente Nazionale della Lega Tumori dal

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1991; Gianni Ravasi, illustre chirurgo del torace, Presi-dente della Sezione Provinciale di Milano della LegaTumori per molti anni e vice Presidente nazionale.

La “Fondazione Pascale” prende avvio proprio dallaLega Tumori.

Pascale, a più riprese, fu Preside della Facoltà di me-dicina, membro del Consiglio Superiore della PubblicaIstruzione, Presidente della Società Italiana di Chirur-gia e Presidente dell’Accademia Reale di Scienze Medi-che, Senatore del Regno ed ebbe il grande merito diaver intuito che erano ormai maturi i tempi per dareunità di indirizzi e di sviluppi all’oncologia.

Nel 1927, essendo stato nominato Presidente di Na-poli e Provincia della neocostituita Lega Italiana per laLotta contro i Tumori, entrò subito, come era suo costu-me, nella fase di realizzazione, costituendo un “Centrodiagnostico” all’interno della clinica chirurgica dell’U-niversità, destinando ad esso un intero piano, con unlaboratorio scientifico, una biblioteca specializzata edue reparti per pazienti cancerosi, di 12 letti ciascuno.

L’ambizione di Pascale, però, era quella di fondare aNapoli un Istituto oncologico, che corrispondesse alleesigenze del Mezzogiorno d’Italia, così come si era fattoal Nord, con l’Istituto “Vittorio Emanuele III” di Milanoe, al Centro, con l’Istituto “Regina Elena” di Roma. Eglicostituì il primo fondo finanziario, con un forte versa-mento personale e si prodigò per la raccolta di altricontributi che, per il grande prestigio di cui godeva,vennero, prontamente, dalla Provincia di Napoli, dalComune di Napoli, dalla Banca d’Italia, dal Banco diNapoli, dalla Direzione Generale della Sanità, dall’Isti-tuto Nazionale delle Assicurazioni e da altri Enti. Fucostituita così la “Fondazione Senatore Pascale-EnteMorale”, con R.D. del 19 ottobre 1933. Il 14 marzo 1934vennero appaltati i lavori per la costruzione dell’edifi-cio da destinare alla Fondazione, in seguito a precisedisposizioni del Capo del Governo, il quale assegnò al-

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lo scopo la somma di 1.200.000 lire. Fu nominato, quin-di, il primo Consiglio di Amministrazione, Presidentelo stesso Pascale. Purtroppo il 28 ottobre 1936, quandosi andava delineando il decollo dell’attività clinica dellaFondazione, Giovanni Pascale moriva mentre si accin-geva ad eseguire un intervento chirurgico.

Nonostante non ci fosse più la guida del senatorePascale, la Fondazione fa strada conquistando un ruolodi grande valenza nel panorama scientifico della ricercasui tumori, non solo in Italia. Una grande scuola di chi-rurghi come: Giuseppe Milone, Diego Rodinò, Giovan-ni D’Errico, che sarà anche Direttore Scientifico dell’I-stituto e Presidente della Lega Italiana per la Lotta aiTumori e poi Franco Claudio, Enrico Percesepe e Ro-molo Cerra. E ancora Giuseppe La Raia, Luciano Capo-rale, Andrea Cifariello, Costantino Giardino, LuigiChiarello, Bruno Stendardo, sino a Valerio Parisi e Ni-cola Mozzillo.

Succedette a Pascale, alla Cattedra di Clinica Chirur-gica, Luigi Torraca. Di carattere non facile, formò moltichirurghi ma non una vera Scuola. Fu il primo Presi-dente della Società Italiana di Chirurgia dopo la II°guerra mondiale.

“Quel che colpisce di lui- scrive un suo allievo,A.Aghina – era la profonda e vastissima cultura, nonsoltanto chirurgica ma anche storico-umanistica, che gliderivava dall’ambiente nel quale, da giovane, si era for-mato. Suo padre, il senatore Francesco, era stato unodei maggiori storici della letteratura italiana, discepoloprediletto del De Sanctis, cui succedette alla Cattedra,autore di un insuperato commento della Divina Com-media, dedicato appunto al figlio Luigi. Egli forse nonfu un chirurgo brillante (nel senso che oggi si dà a que-sto termine) ma certamente fu un operatore aggiornato,coscienzioso ed onesto, che univa la minuziosità e laperfezione tecnica ad un equilibrato senso clinico e dia-gnostico. L’intervento, nelle sue mani, si svolgeva con

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un ritmo preciso, codificato, quasi liturgico, che consen-tiva, a chi lo osservava, di comprenderlo e seguirlo conchiarezza in ogni sua fase. Un chirurgo straniero ebbe adire di lui: opera per il malato e non per il pubblico”.

A Torraca succedette Ettore Ruggieri, romano diScuola, allievo di Raffaele Paolucci, pioniere della chi-rurgia toracica e in particolare delle exeresi polmonariper cancro. Fu anch’egli Presidente della Società Italianadi Chirurgia, della quale era stato in gioventù Segreta-rio, poi Consigliere e Vice Presidente. Alla chirurgia, alsuo lavoro, ai suoi studi, a sua moglie ed ai suoi allievi,Ruggieri che non aveva figli dedicò la sua intensa vita.Del suo amore per la Società e per la chirurgia fa grandetestimonianza la donazione che volle fare tramite il te-stamento della moglie signora Pia Damiani della pro-pria villa in Cortina D’Ampezzo. La villa fu poi vendutadalla Società ed il ricavato costituisce il Fondo Ruggieriattraverso il quale ogni anno la Società assegna un Pre-mio in denaro ad un’opera di chirurgia di particolarepregio e Borse di Studio a giovani meritevoli.

Di vasta cultura umanistica, valente operatore, allasua Scuola si sono formati eccellenti allievi. Di essi Roc-co Docimo che andrà ad occupare nel 1996 la carica diPresidente della Società Italiana di Chirurgia, 34 annidopo il Maestro. Docimo dice di lui: “Ricordo i suoi at-teggiamenti mentali e quelli tecnici, il suo modo di ra-gionare e di parlare, l’elegante delicatezza, l’estremasensibilità, la serafica pacatezza e l’invidiabile sempli-cità del suo nobilissimo animo, fuori e dentro la salaoperatoria. Chirurgo eccellente, mecenate”.

Dopo Ruggieri, con Lanzara alla Cattedra di ClinicaChirurgica e con Ivo Bifani Sconocchia alla Cattedra diPatologia Chirurgica, nasce a Napoli la IIa Facoltà diMedicina e Chirurgia, dove assumono la Cattedra diclinica chirurgica Giuseppe Zannini e quella di Patolo-gia chirurgica Beniamino Tesauro.

Giuseppe Zannini diventerà un grande leader di

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quella II° Facoltà e della Chirurgia Napoletana oveformò una grande Scuola. Furono suoi allievi eccellentitra i tanti: Francesco Mazzeo che fondò la Società Italia-na di Chirurgia Oncologica, Mario Santangelo che ini-ziò l’attività dei trapianti di fegato a Napoli pur divi-dendosi tra la chirurgia e la politica che lo condusse si-no all’Assessorato della Sanità della Regione Campa-nia, Maurizio Cotrufo cardiochirurgo, Raffaele Jovino,Guido Masella, Ruggero Nigro, Ordinari di Chirurgia aNapoli, Catanzaro, Palermo.

Fu Presidente e Presidente Onorario della Società Ita-liana di Chirurgia, aggiornandone lo Statuto ed il Rego-lamento negli anni ’80. Fu Membro e Presidente delConsiglio Superiore di Sanità. Fu molte altre cose ma so-prattutto un grande chirurgo ed un grande signore.

Andrea Renda, l’allievo che per più tempo, dal 1965 al1992, ha collaborato con Giuseppe Zannini, così ricorda ilMaestro al suo arrivo a Napoli: “Giunse a Napoli alla finedegli anni ’50 dopo un distacco doloroso ma razionale daValdoni che ammirava moltissimo e di cui emblematica-mente ricordava sempre l’intuito clinico e l’atteggiamentopolitico in tanti episodi, come ad esempio in occasionedel ferimento di Togliatti che venne, come noto, trattato eguarito da Valdoni e dai suoi. Passò quindi dal pragmati-co Valdoni all’umanista Ruggieri, e dei due maestri seppeassorbire il meglio con l’intelligenza e la fredda raziona-lità che lo caratterizzavano.

Napoli è stata una scelta fortunata; da questa città èstato coinvolto in sentimenti e comportamenti per luinuovi, simpatizzava moltissimo con la napoletanità, con-dividendone molti aspetti ed integrandosi (senza farsipermeare) in un amore reciproco.

Tutti subivano il suo fascino, colleghi, allievi, studentie soprattutto pazienti. Facile comprendere come il succes-so personale e professionale divenne rapidamente note-volissimo.

Raggiunse la Cattedra di Semeiotica Chirurgica nel1963 e da allora conquistò una serie di traguardi e ricono-scimenti progressivamente crescenti, fortemente voluti e

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sicuramente meritati. In Clinica Chirurgica nel 1971; di-venne Preside nel 1972 della neonata IIa Facoltà di Medi-cina e Chirurgia al Nuovo Policlinico non ancora comple-tamente ultimato.

Il decennio tra il ’70 e l’80 è stato per lui esplosivo disuccessi. Presidente della Conferenza permanente deiPresidi di Medicina, Presidente e successivamente Presi-dente Onorario della Società Italiana di Chirurgia, Presi-dente del Consiglio Superiore di Sanità, Presidente di nu-merose Società Scientifiche Nazionali ed Internazionali,tra le quali l’Unione Medica del Mediterraneo Latino, laSezione Italiana dell’International College of Surgeons, laSocietà Napoletana di Chirurgia cui egli teneva molto, edi cui è stato a giusta ragione Presidente Onorario, allecui sedute regolarmente partecipava vivificandole con lasua esperienza.

Era un personaggio che con eccezionali deroghe nonlasciava mai trasparire i propri sentimenti, non per questoinesistenti ma, anzi, in alcuni casi particolarmente teneri.Era abituato ad esaltare il “saper essere” accanto al “saperfare”, conferendosi sempre un tono che ha rappresentatouno dei motivi più importanti del suo successo. Facevaciò con la coscienza di poter essere talvolta disinterpreta-to ma con la convinzione che questo comportava il suoruolo, perché così gli era stato insegnato.

Quando Zannini nel 1986 lascia l’insegnamento glisuccede Beniamino Tesauro che aveva conosciuto Zan-nini quando era ancora studente. Beniamino Tesauroabitava a Messina dove il padre era titolare della Catte-dra di Clinica Ostetrica. Messina era una grande basenavale nella Seconda Guerra Mondiale. E qui giunsero,per motivi legati proprio alla guerra, Zannini, sottote-nente medico, Frugoni, tenente medico, e Ruggieri ca-pitano medico. Tante le serate trascorse da questi medi-ci in casa Tesauro dove, di nascosto ma non tanto, siascoltava Radio Londra.

Di coraggio Zannini ne aveva sempre avuto e Tesau-ro ricorda gli anni della contestazione universitaria aNapoli. Nell’aula della clinica chirurgica c’è un’assem-

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blea di studenti. Un clima infuocato. Volano parolemolto pesanti. E anche minacce. C’è chi urla e chi suonala chitarra. E chi lancia insulti. Gli studenti proclamanole loro richieste: molti appelli, esami più semplici, dia-logo con i docenti, frequenza facoltativa. Ad un trattoZannini, che aveva ascoltato a lungo con altri membridella Facoltà, si alza, chiede un po’ di silenzio e con untono molto pacato dice: “Se avete la bontà di ascoltarmivorrei rispondere. Sono esterrefatto dalla ingenuità del-le vostre richieste. Non avete saputo chiedere niente diimportante, avete chiesto l’inutile. Preparate migliori ri-chieste e ritornate”. Silenzio nella grande sala: alla spic-ciolata gli studenti se ne vanno.

Ma Napoli chirurgica non è solo Università. È ancheScuola Ospedaliera, di grande livello: Giuseppe Corteseall’”Ascalesi”; Raffaele Chiarolanza al “Pellegrini”, di-venterà senatore; Alfonso Giovanni Chiarello, anche luisenatore, al “Pellegrini”, ospedale storico al centro dellacittà; e poi Leonardo Radice,Perrotta,Carone, FaustoLanzillo sino a Vincenzo Vallefuoco, Domenico Molino,De Vincentiis, Edoardo De Bellis e soprattutto Giusep-pe Angrisani, grande voce ospedaliera della Scuola Na-poletana in Italia ed all’estero, Primario del “Cardarel-li”. E poi i giovani di fine Secolo come Cuomo e Calise,dediti alla Chirurgia dei Trapianti, Belli e Corcione.

E parlando di Napoli medica non si può trascurare il“Monaldi”, già sanatorio “Principe di Piemonte”, lagrande struttura specializzata nello studio e nella curadella tubercolosi. Un’opera eccezionale in un’epoca incui la TBC era un flagello. Napoli si pose all’avanguar-dia. Con il “Pascale” per lo studio e per la cura dei tu-mori, il grande “Monaldi” è la frontiera più avanzataper la tbc. Nasce nel 1939 come Istituto Specializzato: ilsuo nome originario è “Principe di Piemonte” ma tutti inapoletani, lo conoscono come “il sanatorio a Camaldo-li”. Direttore è il tisiologo Attilio Omodei Zorini, il pri-mo studioso a proporre ed attuare la chemioprofilassi

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antitubercolare mediante isoniazide, pratica che è stataapplicata in molte nazioni e che ha contribuito a ridurrenotevolmente l’incidenza della tubercolosi. QuandoOmodei Zorini lascia Napoli per occupare a Roma ilposto di Morelli, prende la direzione del sanatorio Vin-cenzo Monaldi, allievo di Baglioni e di Morelli, pioneredegli studi della tubercolosi, eminente studioso dei tu-mori e delle malformazioni del polmone. Alle grandidoti di clinico aggiunge quello di uomo di Stato, primaSenatore, poi Ministro della Sanità. Gli verrà intitolatoil “Sanatorio a Camaldoli” ma la chirurgia Polmonareera gestita da Pasquale Abbruzzini, romano.

Pasquale Abbruzzini era nato a Roma nel 1900 e vi siera laureato nel 1924, malgrado fosse partito volontarioper la guerra nel 1917. Fu Assistente ed Aiuto negli Ospe-dali di Roma. Quando nasce la lotta alla tubercolosi è inprima fila e negli anni ’30 va all’estero a studiare l’orga-nizzazione degli Istituti Sanatoriali a Davos, a Leysin, aBerk sur Mer, a Berlino e nel 1934 prende servizio nellaChirurgia dell’Istituto Carlo Forlanini di Roma diretta daManfredo Ascoli allievo di Alessandri.

Nel 1936 va con la Croce Rossa in Spagna a dirigere unnucleo chirurgico operante al fronte di quella guerra civi-le. Meriterà la medaglia di bronzo al valore militare.

Nel 1939 diventa libero Docente ed assume il Prima-riato di Chirurgia Toracica all’Istituto Principi di Piemon-te, a Napoli, a fianco dei grandi Clinici tisiatri OmodeiZorini e Vincenzo Monaldi. Compì un gran lavoro: sonogli anni della collassoterapia con la pleurolisi e le toraco-plastiche. Abbruzzini va in Inghilterra a Londra, a Shef-field e Leeds, la sua a Napoli è una chirurgia d’avanguar-dia, e dal 1943 comincia le exeresi polmonari.

Restò a Napoli 16 anni e si legò alla Città ed all’Ospe-dale con tanto amore.

Lasciò Napoli per Milano nel 1955 dove metterà apunto la sua nota tecnica per il trattamento transmediasti-nico delle fistole bronchiali.

Continuò ad operare però ovunque in Italia, specie neiSanatori del Sud a Salerno, Torre del Greco, Cosenza eCatanzaro ed in Sicilia a Catania, Siracusa, Trapani e Pa-

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lermo.E continuò a viaggiare per apprendere ed insegnare, in

Nord Europa, in Germania, in Svizzera, negli Stati Uniti.Nell’ottobre del 1948 fondò a Bologna la Società Italia-

na di Chirurgia Toracica con Paolucci, Dogliotti, Valdoni,Biancalana ed altri e dette vita alla Rivista “La ChirurgiaToracica”. Restò Segretario della Società e Direttore dellaRivista per 37 anni, durante i quali curò tutti i Congressibiennali della Società.

Tornò nella sua Roma ottantenne per continuare ad at-tendere alle sue attività culturali: qui chiuse la sua vitanel 1985.

Ricorda Luigi Speciale, che fu suo Aiuto e che lo com-memorò all’Accademia Lancisiana di Roma, che sulla pa-rete del suo studio al Sanatorio di Napoli c’era scritto agrandi lettere il motto della sua vita: “Un arco che ama ilsuo dardo,..un dardo che brama il suo segno..un segnoche è sempre lontano”

La Napoli Chirurgica di fine XX° Secolo è ancorauna grande fucina di uomini e di idee. È nata la Secon-da Università con sede a Caserta, assorbendo la primaFacoltà di Medicina della Federico II° e dando vita adue corsi di laurea in medicina, uno a Caserta ed uno aNapoli. La chirurgia a Caserta viene affidata in primaapplicazione a giovani Professori Associati, quella diNapoli fa riferimento ad Alberto Del Genio, allievo diLanzara.

Sono cresciute le specialità in Università e negliOspedali: la cardiochirurgia, la neurochirurgia, la chi-rurgia vascolare. Si sono affermate l’urologia, la chirur-gia toracica, la chirurgia oncologica. I più giovani han-no imparato la chirurgia mininvasiva, la chirurgia en-dovascolare, la radiologia interventistica, i trapiantid’organo. E Napoli ritorna Capitale almeno per la chi-rurgia come lo era prima dell’Unità d’Italia e come l’haricordata in una straordinaria allocuzione GiuseppeAngrisani nella maestà del Maschio Angioino, alla pre-senza del Ministro della Sanità Guzzanti, nel 1995.

L’opera ospedaliera per la città di Napoli occupa un

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posto preminente nella sua storia ed è consona alla naturasentimentale, alla formazione della quale concorre il suocielo ed il suo mare e il carattere del suo popolo.

Un secolo fa, Napoli era la quarta città d’Europa perpopolazione dopo Londra, Parigi e Costantinopoli, aven-do dietro di sé Berlino, Vienna, Pietroburgo ed altre città.

Un secolo fa a Napoli – quand’era Capitale- vi eranodieci Ospedali nei quali accorrevano da tutto il mondoper essere curati.

Ferdinando II che aveva ereditato dal nonno molti deisuoi difetti “ridanciano e volgare”, per bocca della moglieera stato definito anche “un re lazzarone”, dopo che leaveva tolto la sedia di sotto, e che dal popolo era chiama-to più generosamente “Re burlone”, fu dopo Carlo III ilmigliore dei Borboni.

Sotto il suo Regno le opere pubbliche subirono ungrande impulso, dalle ferrovie alla navigazione, dal com-mercio all’agricoltura; si raggiunsero dei veri primati, re-stava purtroppo la sua mentalità municipale ed una scar-sa visione panoramica delle cose. Tuttavia, anche l’assi-stenza sanitaria migliorò.

Nel 1834 uno dei quattro conservatori di musica- oveavevano studiato Cimarosa, Paisiello e Pergolesi- fu tra-sformato in un nuovo nosocomio, l’Ospedale S.Maria diLoreto, di 600 posti letto che risultò utilissimo nelle epide-mie di colera e tifo che seguirono negli immediati annisuccessivi.

Francesco Petrunti, fu il primo Direttore di questoOspedale, ove eseguì i suoi più prestigiosi interventi. Egliera il bisnonno, dal lato materno, del Prof. Fausto Lanzil-lo, che –per gioco del destino- fu il primo chirurgo Diret-tore del Nuovo Ospedale Loreto che era stato distruttodai bombardamenti aerei dell’ultimo conflitto bellico, mapoi ricostruito nello stesso sito.

Petrunti, dopo essere stato Aiuto e poi Primario degliIncurabili svolse la sua maggiore attività chirurgica nel S.Maria di Loreto.

Venivano per farsi operare da Lui da tutto il mondo.Si racconta che recatosi un giorno a Bellavista nella sua

villa di Portici, vi trovò, come dono di riconoscenza di unlord inglese che era stato da lui operato per calcoli vesci-cali, una carrozza con una magnifica pariglia di cavalli.Sorpreso e compiaciuto riprese la via del ritorno per la

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sua dimora cittadina in Piazzetta Nilo a Spaccanapoli malungo la strada si incontrò con un suo vicino di casa, notojettatore, certo don Ciccio che, appresa la notizia, si com-plimentò ammirato, ma la carrozza con il suo automedon-te non riuscì a varcare la soglia del portone che uno deisuoi cavalli inciampò e si spezzò una gamba. Potenza del-la jella?

Fra i suoi pazienti Petrunti ebbe due Re: GioacchinoMurat fu operato per ernia inguinale e gli donò una tazzadi porcellana su cui era inciso un gallo e sotto questa fra-se: “La nostra amicizia finirà quando questo gallo can-terà”. L’altro monarca da lui operato fu Francesco II°, fu-turo ultimo Re di Napoli. Si dice che Petrunti, chiamato aCorte d’urgenza, nelle tarde ore della notte, per visitare ilprincipe ereditario, non volesse togliersi il soprabito, se-condo l’invito fattogli dal maestro di cerimonia, principedi Bisignano, maggiordomo di casa reale e risoluto nellasua decisione. Petrunti stava per andarsene, quando fuproprio Ferdinando che mandando alla malora l’etichettadi Corte, insistette che il Chirurgo restasse col cappottopurchè soccorresse il figlio malato.

Mentre a Napoli, dunque imperava il Borbone eGioacchino Murat veniva fucilato a Pizzo di Calabria nel1815, a Capua nasceva un precursore ed iniziatore di nuo-ve idee sociali e umane: Ferdinando Palasciano. Laureato-si a Napoli, fu Primario di vari Ospedali, divenne poi Or-dinario di Clinica Chirurgica. Nel 1882 fondò la SocietàItaliana di Chirurgia. Al grande dimenticato, al quale solopiù tardi si assegnava una targa viaria di una piccola stra-da di Napoli, la sua città natale intestava l’Ospedale. Al-l’ingresso di questo Ospedale vi è una lapide marmoreadettata da Guido Baccelli: “A Ferdinando Palasciano Chi-rurgo di fama mondiale, creatore della Croce Rossa suicampi di battaglia, Capua genitrice”.

Con lui e con i chirurghi napoletani si diffondevanonel mondo grandi pensieri. Gli studi non si fermaronocon loro ma si estesero e s’intensificarono nella Scuola,dove trovarono il necessario alimento, soprattutto perl’influenza di grandi Maestri del passato. Il cielo di Na-poli era il più adatto a riscaldare con il nuovo Sole deglistudi quei generosi cuori, dando il sapere come sensomorale.

Questa mia sosta su quel periodo non è ornamento re-

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torico ma un’accorata esortazione al risveglio civile dellecoscienze delle generazioni successive. Raccogliete, mieicari giovani Colleghi napoletani, la fiaccola ardente delnostro luminoso passato. Si riaccenda in voi l’orgoglio ela dignità professionale perché Napoli, la nostra Napoliriconquisti il suo posto e ritorni gloriosa tra le Capitalidell’arte, del pensiero e della cultura europea.

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Cap. VI

LA SCUOLA SICILIANA

È l’unico rimpianto di Attilio Basile. Non aver potu-to insegnare e operare nella nuova sede della ClinicaChirurgica dell’Università di Catania. Eppure Basilequesta opera l’aveva fortemente voluta invitando a rea-lizzarla il più famoso degli architetti dell’epoca, il pro-fessor Nervi. Non ho mai progettato un Ospedale néuna Clinica, soleva dire il famoso architetto, ma accolsel’invito di Basile, forse anche perché un suo figlio eracompagno di studi di un nipote del chirurgo. Nervi sce-glie il luogo per l’edificazione dell’opera in un area chedomina il mare: gratis il panorama ma molto onerosada realizzare. E soprattutto molto pesante il numero de-gli anni per la costruzione, circa venti. E così Basile nonfa in tempo a lavorare in quella opera che aveva forte-mente voluto, perché giunge prima l’epoca del suopensionamento

Con questo rimpianto, Basile racconta la storia dellaScuola siciliana di Chirurgia. Ne nasce il quadro di unaScuola chirurgica di grande spessore culturale e scienti-fico che, nell’europeizzazione della cultura medica e diquella chirurgica, in particolare nell’Ottocento e nellaprima parte del Novecento, vede un importante punto

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di riferimento. Molti medici siciliani a costo di grandisacrifici, frequentano i Centri di riferimento più noti, daVienna a Berlino, da Lipsia a Londra, Edimburgo, Bri-stol, Parigi diretti da grandi ricercatori e straordinariclinici come Billroth, Tirsch, Langenbeck, Spencer, Li-ster, Virchow e altri.

Grande attenzione all’europeizzazione della culturamedica ma anche, per ciò che riguarda l’applicazionetecnica, alle Scuole di due famosi chirurghi siciliani,Antonio D’Antona a Napoli e, soprattutto, FrancescoDurante a Roma. Non sono pochi i chirurghi sicilianiche si formano nelle due Scuole per tornare poi in Sici-lia quali responsabili di Cliniche universitarie e Divisio-ni ospedaliere.

Dalla Scuola di D’Antona, D’Urso che muore nel ter-remoto del 1908, Giuseppe Muscatello, clinico chirurgoa Catania; Ernesto Tricomi, clinico chirurgo a Palermo;Antonio Turretta dell’Ospedale S.Antonio di Trapani.Allievi siciliani di Durante insegnarono nelle tre Uni-versità dell’Isola: a Palermo Parlavecchio, Tricomi eLeotta; a Catania Gussio e Brancati; a Messina D’Urso,allievo anche di D’Antona.

Tre le Università, con relativa Facoltà di Medicina, inSicilia: Palermo, Catania e Messina.

La Scuola Chirurgica di Palermo nasce ufficialmentecon un corso di clinica chirurgica nel 1843 inserita nellostatuto dell’Università eretta nel 1805 quale emanazionedell’Accademia di Scienze Mediche, sorta nel 1621, la piùantica d’Europa antecedente anche alla famosa Accade-mia Leopoldina di Vienna istituita nel 1652. Primi illustrichirurghi Giovanni Gorgone e il suo allievo Enrico Alba-nese, uno dei sette promotori della fondazione della So-cietà Italiana di Chirurgia.

La Scuola chirurgica di Catania affonda le sue origininel tempo: nel 1600 la chirurgia ha la dignità di un corso aparte con il “baccellerato”, la “licenza” e infine la “lau-rea”. Tutti gli esami in latino. Nell’800 l’evoluzione dellachirurgia a Catania non ha impulso paragonabile a quello

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di Palermo: ormai le Università nell’isola sono tre e quin-di gli studenti si suddividono. Inoltre con la Legge DeSanctis l’Ateneo catanese viene declassato, decisione cheviene annullata 23 anni dopo, esattamente nel 1885. Primigrandi chirurghi Euplio Reina, Francesco Durante (soloper un anno) e Gesualdo Clementi. E dopo questi, Giu-seppe Muscatello.

La Scuola chirurgica di Messina nasce in un Ateneoche vive momenti molto travagliati per via di chiusure eriaperture a seguito di rivolte, prima quella contro glispagnoli, poi quella contro i Borboni. E subisce anche ilpeso di un declassamento fino a quando nel 1885 può ri-prendere la qualifica di primo grado.

Purtroppo arriva il terremoto che nel 1908 distruggeMessina decimando il Corpo Accademico dell’Università.Ma l’Ateneo trova la forza di reagire e raggiunge di nuo-vo quella valenza scientifica che aveva conquistato nelpassato.

Ci sono figure importanti nella chirurgia della Siciliadurante il Novecento. A Palermo, dall’inizio del Secolo,si susseguono chirurghi illustri come Giovanni Argen-to, allievo di Albanese, Iginio Tansini, sceso da Lodi eritornato al Nord, precisamente a Pavia dopo dieci annia Palermo diventando anche Preside, e Gaetano Parla-vecchio, secondo in Italia e terzo nel mondo, a compie-re una sutura del cuore per una larga ferita. E ancoraErnesto Tricomi, primo in Italia ad eseguire un’epatec-tomia sinistra per cancro e secondo al mondo dopoScheatter a eseguire una gastrectomia totale e FrancescoPurpura.

Ma la Chirurgia Palermitana, alla quale Giuseppe DiGesù ha dedicato molto studio nel 1996 e 1997, e quelladi tutta l’Isola, ruotano nella prima metà di questo Se-colo intorno alla figura ed all’opera di Nicola Leotta cli-nico chirurgo di Palermo dal 1930 al 1948.

Nicola Leotta era nato ad Acireale nel 1878 ed a Cata-nia si laureò in Medicina nel 1901. La sua formazione chi-rurgica si svolse però a Roma sotto la guida di un altro si-

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ciliano illustre, grande Maestro di Chirurgia quale fuFrancesco Durante. Leotta percorse nella Clinica Chirur-gica Romana, tutte le tappe della carriera dall’Assistenta-to alla libera docenza, alla titolarità dell’insegnamento si-no al conseguimento del Primariato negli Ospedali Riuni-ti di Roma.

Partecipò alla prima guerra mondiale dirigendo unglorioso ospedale da campo e conseguendo la croce almerito di guerra.

Nel 1924 lasciò Roma. Prima per Cagliari come Profes-sore di Patologia chirurgica, poi per l’Argentina, BuenosAires come Professore di Clinica chirurgica Honoris Cau-sa, poi per Bari nel 1924 con l’incarico del Ministro Genti-le di fondare quella Università. In quest’ultima occasioneNicola Leotta dimostrò tutte le sue capacità organizzativee potè esprimere tutta la sua grande esperienza didattica,scientifica ed operatoria che aveva acquisito nel corso deiventi anni di servizio espletato nella prestigiosa Clinicachirurgica dell’Università romana, riuscendo così ad av-viare egregiamente l’Ateneo pugliese, ed a conferire allaprima Scuola che fondava, gli stessi intenti e le medesimeprerogative di interessi nella ricerca, di esperienza nelladidattica e di prestigio nell’attività chirurgica, che aveva-no contraddistinto tutta la sua carriera. Tutto questo gli fuconsentito anche dal ruolo istituzionale sempre più im-portante che la sua figura via via andò assumendo neglianni successivi e che culminò con la carica di Rettore Ma-gnifico che tenne per tutto il biennio 1927-29.

Nell’anno successivo fu chiamato alla Clinica Chirur-gica dell’Università di Palermo in quegli anni ubicata al-l’Ospedale della Concezione e poi nel 1939 nei nuovi loca-li del Policlinico alla Feliciuzza. Per la costruzione deinuovi Padiglioni Universitari aveva attivamente collabo-rato in quegli anni ricoprendo tutte le più prestigiose cari-che accademiche: Preside dal 1932 al 1934 e poi RettoreMagnifico dal 1939 al 1943.

Egli fu Chirurgo generale nel senso pieno della defini-zione, ed anche se dimostrò di privilegiare l’ambito dellepatologie addominali, i suoi interventi sulla tiroide, sul-l’apparato urinario e sul sistema scheletrico destaronosempre ammirazione da parte degli allievi anche per lagrande percentuale di successi che riuscì ad ottenere. Vainoltre sottolineata l’attività operatoria svolta in ambito

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neurochirurgico che perseguì sempre con passione, con-seguendo risultati prestigiosi sulle orme lasciate, lungoquesto percorso ancora agli inizi, dal suo Maestro, fortu-nato pioniere in questo campo della chirurgia.

Tra le opere da lui pubblicate va ricordato, in partico-lare per i riflessi ch’esso ebbe sulla preparazione di unavasta schiera di giovani medici, il suo trattato di Tecnicachirurgica e le magistrali Relazioni alla Società Italiana diChirurgia sulla tubercolosi polmonare e sulla Sindromedolorosa addominale destra che portò il suo nome.

Lasciò per limiti di età la Cattedra nel 1948 ma conti-nuò a lavorare e studiare fino a quando ne ebbe forza.Morì nel 1963.

Suo allievo ed erede fu Saverio Latteri che compì iprimi passi accanto a Tricomi in quella prestigiosa Cli-nica Chirurgica Palermitana, prima di passare alla “cor-te” di Leotta. Si trasferi poi per insegnare ed operare aCagliari ed a Modena e quindi a Messina. Tornò a Pa-lermo per succedere a Leotta. Latteri fu il primo ad ese-guire in Sicilia resezioni polmonari per cancro e la tora-cizzazione dello stomaco dopo resezioni esofagee. Lasua Scuola è stata continuata dagli allievi GioacchinoNicolosi, Gerlando Maragliano ed Attilio Basile.

La storia della famiglia Latteri si intreccia per moltidecenni con quella della Chirurgia Siciliana. Dei suoi fi-gli, Ferdinando sarà clinico chirurgo a Catania negli an-ni ’80 e ’90, deputato al Parlamento ed infine Rettore inquella Università, Adelfio sarà professore di Chirurgiaa Palermo. Dei suoi nipoti, figli del fratello, FrancescoSaverio sarà anche lui clinico chirurgo a Catania e pre-siederà il 101° Congresso Nazionale della Società Italia-na di Chirurgia, Ferdinando farà invece l’Ortopedico.

Altre famiglie hanno molto dato alla Chirurgia Sici-liana. Quella dei Titone ad esempio. Michele Titone vis-se cento anni dal 1861 al 1961 e fu Primario all’Ospeda-le Civico ove rimase famoso per la chirurgia della tiroi-de e per le prime laringectomie. Partecipò attivamente

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ai primi Congressi della Società Italiana di Chirurgia.Uno dei suoi figli, Girolamo, ebbe anni dopo lo stessoPrimariato e gestì la Chirurgia d’Urgenza della Paler-mo degli anni ’40 e ’50. Era nato nel secolo precedente,nel 1886, e la sua formazione tra le due guerre fu discuola tedesca con quei grandi maestri che furono Fin-sterer e Brown.

Della terza generazione Michele Titone, ottenne ilPrimariato nel 1974 all’Ospedale Cervello quando an-cora lo zio Girolamo era vivente. Erano anni di tragichevicende di mafia, nelle quali gli Ospedali venivano ine-vitabilmente coinvolti. Talora però gli eventi di tal ge-nere assumevano caratteristiche sorprendenti.

Quando Titone arrivò al Cervello trovò ricoverato ilben noto Padre Agostino Coppola, prete spretato, unpo’ grasso, un po’ calvo, sempre sorridente, con l’ariamite, personaggio di rilievo della mafia della Costaorientale di Palermo, detenuto-degente da oltre un an-no per una bolla gigante di enfisema polmonare, sottosorveglianza armata, con due guardie mattina, pome-riggio e notte. Il Cervello era stato un ospedale pneu-mologico e la pneumopatia bollosa del Coppola giusti-ficava il ricovero. Per la verità l’indicazione chirurgicaera chiara ma erano mancati la volontà, la determina-zione, lo strumentario, il sangue ed anche i chirurghi.Coppola nel frattempo era diventato punto di riferi-mento di tutto l’Ospedale. Altri infermi godevano deisuoi privilegi alimentari e lui divideva con altri, guar-die comprese, le sue famose salsicce. La sua ex perpe-tua, che poi sposò, aveva libero accesso. Insomma unavita da non finirla mai! La Suora caposala sapeva, sof-friva, arrossiva.

Invece un bel giorno, la casa circondariale dell’Uc-ciardone ricominciò a mandare fonogrammi di solleci-to, proprio quando il nuovo giovane Primario iniziavail suo Servizio. Anche Coppola si arrese ed accettò l’in-tervento. Si trovarono gli strumenti, il sangue, consu-

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lenti e quanto altro serviva. Piero Bazan, che poi saràProfessore di Chirurgia generale era il consulente per laChirurgia toracica. Coppola entrò in Sala Operatoriacon il suo solito sorriso e l’aria mite, la vacanza era fini-ta. Prima di addormentarsi si rivolse a Titone “Dottò, glidisse, mi raccomando a voi, ca si me raccomanno a Dio, su-gnu futtuto”. Ebbe buona sorte malgrado i suoi moltipeccati. Sopravvisse all’intervento ed a molti processiper delitti di mafia. Soccombette alla fine ad un altrodei suoi peccati, con una cirrosi alcolica incurabile.

Il rapporto col mondo della violenza e della malavi-ta è purtroppo andato anche di là del professionale edell’umano per diventare dramma anche dalla partedei chirurghi. Una tremenda mattina della primaveradel 1978 Sebastiano Bosio, Primario di Chirurgia Vasco-lare dell’Ospedale Civico, uscendo dal suo studio, cad-de sotto i colpi d’arma da fuoco di un killer venuto dalnulla e nel nulla sparito. Bosio era un professionista digrande qualità e di eccellente famiglia, allievo di Latteria Palermo e di Dubois a Parigi, aveva fondato a Paler-mo la Chirurgia Vascolare. Era un uomo sereno, riser-vato, dalla parola difficile, grande lavoratore, una mo-glie bella e gentile, dei bravi figli. Non aveva colpe dapagare. Pagò chissà per chi o per cosa, alla violenza cie-ca. In quella Chirurgia Vascolare del Civico, la morteviolenta colpiva ancora: tre anni prima nella tragediaaerea di Punta Raisi, nello schianto dell’aereo contro ilmonte Pellegrino, aveva perso la vita Ninni Ales, figliodi un poeta ed aiuto prediletto di Bosio.

Attilio Basile è un’altra delle grandi figure dellaScuola Siciliana: prima a Messina nell’Ateneo che ave-va visto grandi Maestri come Ernesto Tricomi, GaspareD’Urso, Stefano Puglisi Allegra, Giuseppe D’Agata, Sa-verio Latteri, Luigi Carmona. Quando Basile lasciaMessina per andare a Catania subentrano G. Barresi eG. Brancato, allievi di Carmona e S.Navarra suo allievo.

Anche Navarra come Basile diventerà un leader na-

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zionale della Chirurgia Universitaria, sarà membro delCUN, caposcuola con tanti allievi nelle Cattedre e Pri-mariati di Messina e Provincia e sarà eletto Presidentedella Società Italiana di Chirurgia. Attilio Basile va adoccupare quella prestigiosa Cattedra catanese che erastata dall’inizio del Novecento di Gesualdo Clementi,Sebastiano Gussio, Giuseppe Muscatello, Achille MarioDogliotti, Edmondo Malan ed infine Raffaele Brancati,siciliano di Pachino, chirurgo che sapeva amare allostesso tempo il bisturi e la musica, concedendosi mo-menti di relax dopo un intervento suonando il flauto.

Eugenio Santoro da Presidente della Società Italianadi Chirurgia, nel 1999 a Catania, al 101° Congresso del-la Società Italiana di Chirurgia rende uno specificoomaggio alla figura di Attilio Basile in occasione deisuoi novanta anni.

È un grande onore per me, a nome e per conto dellaSocietà, rendere omaggio al Prof. Attilio Basile. Egli è sta-to ed è non solo per la Chirurgia Siciliana un punto di ri-ferimento insostituibile, un collega ed un amico di straor-dinaria umanità, un grande Maestro di Chirurgia.

La sua assidua ed autorevole presenza tra noi, ancoranegli ultimi anni, è un regalo grande che un positivo de-stino ha riservato alla Società, ai suoi Soci, alla ChirurgiaItaliana.

A titolo personale, mi sia consentito ricordare l’incon-tro con lui da me cercato in quel pomeriggio piovoso diun Congresso a Nizza della Società Francese di Chirurgianel quale le sue parole di augurio, il suo sorriso paterno,mi spinsero definitivamente a porre la mia candidaturaalla Presidenza della Società.

Se oggi dunque sono qui a celebrarlo è anche perché ilmio destino da quel giorno mi ha riservato un percorsocompleto, quello per ritornare ancora da lui a dirgli gra-zie per quel sostegno e quel sorriso.

Da Presidente della Società debbo ricordare le tanteenergie, il prestigio e l’amore che il Prof. Basile ha riserva-to alla nostra Società.

La leggenda, credo proprio la leggenda, di questa fine

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Secolo, vuole che divenne Socio prima della SecondaGrande Guerra, nel 1939, quando la gran parte di noi nonera ancora nata ed io stesso ero in fasce.

Seguì, nel suo prestigioso Curriculum Societario, tuttele tappe che i Soci brillanti percorrono. Frequentò conpuntualità i congressi, presentò comunicazioni, e poi furelatore su più temi tra i quali mi è doveroso ricordare lapreziosa Relazione del 1964, sul cancro dell’esofago, equella del 1973 sull’esofagite da reflusso.

Entrò nel Consiglio Direttivo come Consigliere nelbiennio 1966-1968 con Biancalana Presidente. Vi fu rielet-to nel 1971-1973 con la Presidenza Valdoni.

La sua autorevolezza scientifica ed il prestigio dellaCattedra di Clinica chirurgica di Catania, di cui era titola-re, la stima ed il consenso unanime dei Colleghi della So-cietà, lo portarono alla Presidenza nel triennio 1976-1979succedendo a Malan.

Fu un triennio operoso e significativo: collaboraronocon lui Colombo e Marcozzi come Vicepresidenti, Bale-strazzi, Castrini, Galletti, Tesauro, Tonelli e Zanella comeConsiglieri. Fegiz era Segretario e Cappellini Tesoriere. Diquegli anni dobbiamo ricordare i congressi di Firenze1977, di Roma 1978 ed infine quello di Catania del 1979che lui stesso presiedette portando in questa Sicilia Orien-tale, per la prima volta, il Congresso dopo 96 anni di vitadella Società.

Espresse nella sua attività e nella sua Presidenza lagrande umanità e la grande esperienza che aveva matura-to in una lunga vita professionale e didattica.

I discorsi inaugurali in quei Congressi della sua Presi-denza contengono preziosi segnali del suo grande amoreper la Chirurgia e per l’Università, per l’insegnamento ela formazione dei giovani. Immaginò e sollecitò leggi chepoi verranno, quella sul numero chiuso contro la pletoramedica, quella sulla specializzazione retribuita con i pro-grammi di addestramento, l’orario di servizio e l’utilizza-zione degli Ospedali per la formazione professionale co-me poi l’Europa ci impose.

Nel suo tanto viaggiare aveva visto per il mondo cosemigliori che sognava e proponeva alla nostra Società ed alPaese.

Tornò più volte sulla “formazione permanente delChirurgo” e nominò in Società un apposito vicesegretario.

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Quella intuizione dovrà aspettare oltre 20 anni per diven-tare Legge con l’attuale discussa Riforma.

Da membro del CUN, quale fu dal 1979, oltre che daPresidente della Società, dedicò tante cure ai problemidella Facoltà di Medicina denunciandone il degrado post-’68 e la necessità del recupero della funzione didattica edi ricerca anche attraverso atti riformatori e appositi fi-nanziamenti.

Dai suoi atti e dai suoi scritti Societari ci viene incon-tro, con lo Scienziato, con il Maestro, con il Leader, an-che il suo straordinario spessore umano che voglio ritro-vare per tutti, attraverso questo significativo passaggiodel suo discorso inaugurale del Congresso di Firenze:“una parola infine – scrive Basile – sulla necessità di cu-stodire e rispettare la libertà professionale, che è semprestata uno dei fondamenti basilari dell’attività del medicoin genere. Non può non essere rispettata la libertà per ilmalato di affidare la propria salute e la propria vita achi, per suo giudizio, gli offra il migliore affidamento,così come non può non essere rispettata la libertà per ilmedico od il chirurgo di soccorrere chi gli ha concesso lapropria fiducia. Ripetendo quanto è stato già affermatodai miei predecessori, la chirurgia non può essere anoni-ma dal punto di vista etico: il malato va direttamente dalsuo chirurgo, è un uomo che affida ad un altro uomo ildono supremo della vita e questo ci sembra un suo dirit-to inalienabile. Egli cerca conforto, speranza, coraggio inchi ha fiducia. Il chirurgo deve liberarlo dalla paura, de-ve offrirgli una mano generosa affinchè esso abbia la for-za di lottare per vivere. E questo costituisce la più gran-de attrattiva della nostra professione. Ci auguriamo –conclude Basile – che, entrando nelle grandi spire delservizio sociale, questa libertà non abbia crudeli meno-mazioni”.

Ventidue anni dopo, questo splendido messaggio è an-cora assolutamente vivo ed attuale per la meditazione diciascuno di noi nel presente, e testimonia come di uominiveri e giusti quali il Prof. Basile il segno e la traccia sonostati, sono e saranno perenni.

In quel Congresso del ’99, a Catania, tutta la Sicilia sistrinse attorno al Maestro nonagenario e lo stesso Sin-daco della città, Bianco, ebbe parole bellissime per lui e

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per la Chirurgia Italiana in una sontuosa inaugurazioneal Teatro Bellini.

Fu quel Congresso il trionfo di Saverio Latteri e delsuo gruppo coordinato da Piero Banna, Primario al“Ferrarotto” ed Assessore Comunale a Catania. Il gior-nale del Congresso, un’edizione speciale del BollettinoSIC- Chirurgia Duemila, riportò una particolare intervi-sta che Ragno fece a Basile.

Mi accoglie sulla porta dello studio. Una vigorosastretta di mano. E un gran sorriso. Sereno, elegante, in ca-micia, chiedendomi scusa della giacca “ma a Catania oggifa veramente caldo”. Sa che sono venuto ad intervistarloper la cerimonia in suo onore che oggi apre il Congressodella Società Italiana di Chirurgia. E subito dice che è “unpo’ emozionato”.

“Vede- aggiunge- è una festa che mi inorgoglisce. Mifa piacere che si ricordino dei miei lunghi anni al servi-zio della chirurgia. Permetta, vorrei correggere: al servi-zio dell’Uomo, sano o malato. Dell’uomo malato perchéha bisogno del massimo aiuto, vive nella paura, chiede ate chirurgo la vita. E dell’uomo sano, di colui che vienecon una diagnosi, teme la conferma e ottiene la speratasmentita. Devi essere sicuro di non commettere un erro-re. Sarebbe un colpo tremendo per il paziente che haidavanti”.

Ho incontrato tante volte il professore Attilio Basile,trenta, venti, pochi anni fa. C’è sul volto il segno degli an-ni che passano ma sono sempre uguali lucidità e sicurez-za. Questa volta lo trovo un po’ melanconico, non triste.Quando gli chiedo di dirmi il momento più bello dellasua lunga vita da medico mi risponde: “Quando mi sonorecato a specializzarmi a Vienna, dove ho incontrato ilmio Maestro, il professore Wolfang Denk, successore delgrande Billroth, mi ha voluto molto bene. Dopo la guerrami telefonò per dirmi che ogni volta che sentiva notiziesulla guerra in Italia andava con il pensiero alla mia vita”.Un bel ricordo ma velato di malinconia. Ed è melanconicoanche quando gli chiedo il momento più triste della suavita: “La perdita di mia moglie”, mi dice.

Gli faccio notare del suo vezzo anche a novant’annidelle iniziali ricamate sulla camicia.

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“Era un’abitudine di mia moglie”. E diventa di nuovomelanconico.

Gli chiedo quale sia stato l’intervento chirurgico chepiù gli ha dato soddisfazione professionale. “Il primo tra-pianto di rene, un’operazione lunga, molto complessa. Ri-cordo che per ore ed ore rimasi al tavolo operatorio con imiei assistenti. Quando salii in auto per tornare a casa eb-bi un momento di commozione, il segno della fatica e an-che la gioia di avere effettuato un gesto medico di grandevalenza”.

E la delusione? “Ogni volta che ho perduto un pazien-te ho provato il dramma della sconfitta”.

Cominciamo a parlare della chirurgia di oggi. E glichiedo tre consigli, per uno studente, per un chirurgo eper la Società Italiana di Chirurgia. “Allo studente direi diprepararsi ad una vita di sacrifici, ad un chirurgo di esse-re sempre degno della grande fortuna che ha avuto di la-vorare al servizio dell’Umanità e alla Società Italiana diChirurgia direi di dedicarsi con il massimo impegno all’e-ducazione e all’aggiornamento del chirurgo”.

Lunghi anni al tavolo operatorio, ma quando il lavoroè sembrato più delicato? “Quando dovevo operare unbambino, specie in emergenza. Occorre tanta tenerezza.Ricordo i piccoli pazienti che ti guardano pieni di pauraprima dell’operazione e comunicano la loro sofferenza, epoi, dopo l’intervento, ti sorridono per dirti che adessoper merito tuo non soffrono più”. Lunghi anni in salaoperatoria, sacrificando anche i momenti destinati alla vi-ta familiare, come quando pronto per andare a teatro o aduna cena di gala deve dire alla moglie che l’appuntamen-to può aspettare. E quasi sempre addio teatro e addio ce-na.

Ero andato all’appuntamento con il Prof. Basile perparlare della cerimonia d’apertura del Congresso. Alla fi-ne scopro che abbiamo parlato della Signora Basile, dimalati senza un nome, di giovani che sognano di fare ilchirurgo, di bambini impauriti, di un professore austria-co. Abbiamo parlato della vita. Ritagli di vita di un gran-de chirurgo ma soprattutto di un signore che sta onoran-do la vita.

Ma la chirurgia in Sicilia è anche fatta di tanti Ospe-dali grandi e piccoli e di tante Provincie ove l’Univer-

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sità proprio non c’è. Ciascuno di questi Ospedali hacercato di corrispondere alle esigenze dei malati ed alledifficoltà di organizzazione e di attrezzature che ancoracaratterizzano il Sud d’Italia, ben oltre la Sanità.

Tanti chirurghi si sono succeduti in questi Ospedali,talora migrando tra più sedi, talvolta restando per sem-pre legati alla stessa struttura, Chirurghi valenti, uomi-ni generosi in una terra difficile e profondamente deditial proprio lavoro. Tra i tanti, tantissimi nomi viene su-bito incontro Rosario Mineo che si è per 30 anni identi-ficato con gli Ospedali di Catania, dapprima Primarioal “Garibaldi” e poi al nuovo “Cannizzaro” alla cui rea-lizzazione molto partecipò. Mineo, grande sportivo ingioventù, era stato assistente universitario con Biocca equasi ottantenne in riconoscimento dei suoi meritiumani e professionali fu nominato Presidente Onorariodella ACOI, Associazione Chirurghi Ospedalieri Italia-ni, a rappresentare la chirurgia operosa e sostanziale,non necessariamente affermata ma fondamentale intutta la Sicilia e in tutta l’Italia.

E con Mineo, negli ultimi decenni del Secolo, altrichirurghi generosi, Francesco Mangione a Ragusa, En-zo Bosco a Siracusa, Nino Gristina al “Civico” di Paler-mo, e Roberto Mannino e poi Enzo Mandalà a “VillaSofia”, Marcello Semilia a Trapani, Giuseppe Rizzo, pri-ma a Corleone e poi a Termini Imerese. E ancora EttoreTorcevia a Termini Imerese scomparso giovane quandoancora un grande futuro lo aspettava, Angelo Savatteried Armando Buscaglia ad Agrigento. E soprattutto Bal-dassarre “Sasà” Lauria, Primario ad Alcamo, formazio-ne romana, grande cuore siciliano, chirurgo di razza,sarà Vice Presidente nazionale dell’ACOI e senatoredella Repubblica. Ultimo ma solo in ordine di tempoGiuseppe Idotta, anche lui di scuola romana, allievo diSantoro, Primario a Lipari proprio dal 2000.

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Cap. VII

LA SCUOLA DI TORINO

Prime ore del pomeriggio del 14 aprile del 1943. Tan-ti camion militari, poche auto civili sull’autostrada cheunisce Torino a Milano. Due medici torinesi diretti aNovara stanno commentando le notizie sulla guerraapprese la mattina alla radio. Ad un tratto, è il 27° chi-lometro da Torino, i due medici scorgono un’autoschiantata contro il pilone di cemento di un cavalcavia.Nella macchina c’è una sola persona con il capo forte-mente reclinato in avanti ed il tronco serrato fra sedile ecruscotto, contro il volante spezzato. I due medici tasta-no il polso, nessun battito. La mano ricade inerte. Nonè possibile alcun soccorso ed è difficile – bisognerà at-tendere i vigili del fuoco – rimuovere il corpo e scoprirechi sia l’automobilista che ha concluso l’esistenza in unincidente forse dovuto a malore. I due medici – notichirurghi di Torino – apprenderanno la mattina dopoda La Stampa che la vittima era ben nota a loro, come atutto il mondo scientifico italiano: Ottorino Uffreduzzi,Direttore della Clinica Chirurgica dell’Università di To-rino.

È notte quando il professore Achille Mario Dogliottilascia la Clinica Chirurgica di Catania, dove è Direttore,

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e raggiunge la sua abitazione. Una telefonata da Torino:“Caro Professore – dice una voce che non nasconde l’e-mozione – devo darle una triste, drammatica notizia: ilprofessore Uffreduzzi, il Maestro, è morto oggi in unincidente stradale”.

“Tutto in quel momento mi parve nella vita inutile –scrive il professor Dogliotti ricordando il Maestroscomparso su Minerva Medica – ebbi la sensazione del-l’irreparabile e piansi lungamente. Il giorno seguenteda più parti dell’isola mi cercarono per avere notizie,persone amiche che anche laggiù tanto l’amavano. Ven-ne un ferito di guerra da un borgo etneo, ancora invali-do, e riconobbi in lui uno dei mille soldati che ebberodal Maestro il soccorso salutare e il conforto della suaineguagliabile bontà, venne una vecchia suora che l’a-veva conosciuto nell’altra guerra al lavoro nei posti chi-rurgici della Armata dell’Isonzo e ne conservava il pre-ciso ricordo quasi di un simbolo di sapere, di pietà, dicristiana carità”.

Con il cuore affranto, accompagnato dalla moglieNellina, Dogliotti affronta il lungo, pericoloso viaggioda Catania, dopo una sosta a Roma al Ministero dellaPubblica Istruzione, a Torino fra paurose incognite dimartellanti azioni di guerra. L’attende quella Cattedrache era stata del suo Maestro. È l’estate del 1943 quan-do Dogliotti assume la direzione della Clinica Chirurgi-ca di Torino, lasciando la sua clinica di Catania nellemani di un allievo prediletto, Edmondo Malan che,successivamente, andrà a Genova e poi a Milano e saràanche lui Presidente della Società Italiana di Chirurgia.

Da questo momento, Torino, per merito di AchilleMario Dogliotti, torna ad essere Capitale dopo esserestata a lungo provincia. Una bella provincia, comun-que, per quanto riguarda la chirurgia. Una provinciaprotagonista di quel trapasso che aveva visto all’iniziodell’Ottocento, la chirurgia trasformarsi da artigianatoa scienza sotto l’incalzare delle novità scientifiche, pro-

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venienti dall’Inghilterra, dalla Scozia e dagli Stati Unitie poi dalla Germania.

Il secolo XX° si apre in Piemonte con personalità digrande rilievo al vertice delle Cattedre di Chirurgia eproprio nel 1900 muore il grande Maestro Lorenzo Bru-no.

Con il nuovo Secolo diventa Direttore della ClinicaChirurgica Antonio Carle, nato in quella provincia diCuneo che aveva dato i natali a Alessandro Riberi e lidarà alla famiglia di Achille Mario Dogliotti. AntonioCarle lascia un segno profondo nella realtà scientificadel Piemonte, lavorando all’insegna di una frase presain prestito al grande Billroth: “La chirurgia, al di fuoridella patologia e delle altre scienze fondamentali, di-venta fredda tecnica e spesso pericoloso empirismo; apoco vale il virtuosismo della mano, se questa non èguidata dalla mente illuminata”.

Carle, Senatore del Regno, dà il via alla collaborazio-ne fra Chirurgia e Scienze biologiche fondamentali. Ec-cezionale la sua opera: tante ricerche, tante relazioni,tantissimi infermi operati e molti valenti allievi.

“Agli inizi del Novecento, quando Carle è in pienaattività- scrive Giorgio Cosmacini - Torino vantava unagloriosa tradizione chirurgica. Ma un famoso, e un fami-gerato, chirurgo subalpino, a proposito delle accurate einsistite disinfezioni post-operatorie proposte ed attuatedai listeriani, cioè i seguaci del metodo antisettico di Li-ster, introdotto in Italia dal clinico chirurgo di Pavia En-rico Bottini, era solito ripetere che si trattava pure digrandi innovazioni ma in fondo usarne e non usarne fa-ceva lo stesso, perché vi erano pareri pro o contro inegual numero e di eguale importanza. E in coerenza conciò si asteneva da ogni pratica disinfettante”.

Cosmacini aggiunge che “Carle aveva reagito a talescetticismo imperante, facendosi paladino della fonda-mentale importanza, appresa a Vienna, della medica-zione con jodoformio in chirurgia”.

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Ma il chirurgo del primo Novecento, secondo Raf-faele Paolucci, “era venuto su nell’alone di quell’esibi-zionismo chirurgico della rapidità, che fu anche dei no-stri vecchi che, discendendo li rami, qualcuno di noi, eforse anche un po’ chi vi parla, ha ancora conservato:fate presto. Il che era, in parte, una necessità collegataai pericoli derivanti dalle pessime anestesie cloroformi-che ma in parte scaturiva, dopo tanto secolare terroredell’atto operatorio, dal desiderio di mostrare la trion-fale capacità dominatrice del male. Il grande chirurgo –sono ancora parole di Paolucci ricordate da Cosmacini– operava uno dietro l’altro, con vertiginosa rapidità,vari pazienti, ed il pezzo asportato veniva gettato perterra ed andava a finire in un angolo della stanza framormorii di ammirazione, mentre egli sembrava comequei giocatori da circo equestre che, dopo terminato illoro esercizio, pongono le mani sui fianchi, fanno unamossetta e un inchino e dicono anche voilà”.

Il Maestro Antonio Carle non era certo come queichirurghi descritti da Paolucci.

Carle era nato a Chiusa Pesio,provincia di Cuneo, nel1854. Si laureò a Torino nel 1878 e cominciò la sua vitaprofessionale nel vecchio S. Giovanni. Nel 1881, pochi an-ni dopo Lister, iniziò una serie di ricerche sull’antisepsicon iodoformio. Si recò all’estero, dapprima da Pèan poida Billroth, che come scrisse lui stesso, gli lasciò il segnoed il metodo.

Ritorna a Torino e trasforma il Mauriziano in una fuci-na di ricerche. Nel 1884 consegue con Rattone il primosuccesso, dando la dimostrazione dell’infettività del teta-no, prima che Nicolaier lo scoprisse e Tizzoni e Kitasatolo coltivassero; nel 1886, con Angelo Mosso studia le mo-dificazioni della circolazione cerebrale durante la narcosi:inizia così quella collaborazione tra chirurgia e scienzebiologiche fondamentali, che saranno una caratteristicadell’impronta scientifica di Carle. Conseguita la docenzaviene nominato Comprimario al Mauriziano. Iniziano inquegli anni gli studi sulla tiroide, nel 1888 studia sui cani

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l’effetto dell’asportazione della tiroide, nel 1890 studiacon Lustig l’etiologia del gozzo endemico e per la primavolta riesce a dimostrare il potere gozzigeno dell’acqua dialcune fontane della Valle d’Aosta, dimostrando l’infon-datezza dell’ipotesi infettiva. È nominato Primario nel1888 alla morte di Pacchiotti.

Nel 1893 la Facoltà lo chiama per acclamazione: è cosìprofessore straordinario nel 1894-1895.

Nel 1894 all’XI° Congresso Medico-Chirurgico Interna-zionale di Roma presenta il più vasto contributo mondia-le sulla chirurgia delle affezioni benigne dello stomacosottolineando per la prima volta l’importanza del rista-gno gastrico. Nel 1897 pubblica i risultati della terapiachirurgica dei tumori della tiroide; nel 1898 pubblica conFantino una monografia su 100 casi di carcinoma gastricocon risultati a distanza non dissimili da quelli attuali;sempre nel 1898 esegue e descrive la coledocotomia tran-sduodenale indipendentemente da Kocher e da Pozzi.

Nel 1899 alla neonata Società Italiana di Chirurgia pre-senta una relazione ancora oggi classica su 323 casi di ti-roidi operate in cui è descritta con sorprendente luciditàla fisiopatologia della ghiandola. È considerato uno deipiù abili operatori di tiroide d’Europa, al pari di Kocher aBerna. Esegue importanti studi sulla chirurgia del rene esulla chirurgia ginecologica. Sempre alla fine del Secolo,alla Società Italiana di Chirurgia presenta una relazionesu 279 interventi di isterectomia per fibroma con un pro-prio procedimento tecnico perfetto, ancora oggi adottato;fece inoltre costruire una pinza angolata per la chiusuradella vagina che Wertheim descrisse dopo di lui e che in-giustamente da lui prese il nome.

Pochi sanno inoltre che l’intervento di isteroannessec-tomia allargata che va sotto il nome di intervento diWertheim, fu applicato da Carle alcuni anni prima; e que-sto perché Carle pubblicava volentieri i risultati chirurgi-ci, ma molto poco volentieri i particolari di tecnica.

È in questo periodo, in cui molte specialità ancora nonerano nate, che egli divenne un ginecologo perfetto ed in-superato. La tecnica può in seguito aver seguito orienta-menti differenti, ma nessuno può ricordare senza un fre-mito di ammirazione un’operazione di isterectomia vagi-nale, che egli compiva spesso in non più di 4 o 5 minuti,con pochi tagli e delicate manovre, senza spargimento di

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sangue, con una prontezza ed eleganza, da nessuno a no-stra conoscenza mai eguagliata. Ma il Carle sapeva accet-tare serenamente i perfezionamenti e abbandonava senzarimpianti pratiche, che pure gli avevano valso innumere-voli successi, quando comprendesse i vantaggi per l’am-malato di ricorrere a nuovi metodi: così seppe piegarsi al-le nuove necessità e l’operazione che egli compiva in cosìbreve tempo divenne più lenta, più minuziosa, con unaperfetta emostasi preventiva, con la chiusura del cavo pe-ritoneale e quindi più sicura.

Sull’indicazione del Bozzolo eseguì la splenectomiaper malattie nuove ed interessanti quali il morbo di Banti,l’anemia splenica, ecc. sui quali casi riferiva all’Accade-mia piemontese nel 1901. Portò importanti contributi allachirurgia cerebrale, riferendo su numerosi casi al Con-gresso della Società Italiana di Chirurgia nel 1898. Nel1912 al Congresso Internazionale contro la tubercolosi ri-feriva sulla cura della tubercolosi renale, dimostrando lanecessità che il rene superstite sia funzionalmente suffi-ciente, piuttosto che immune dal processo tubercolare.

Nel 1900 alla morte di Lorenzo Bruno, Carle gli succe-dette alla clinica chirurgica che tenne per più di 20 anni.Venne anche nominato senatore.

Giunse infine l’apoteosi, perché tale fu la solennità cheprecedette purtroppo di poco la sua fine. Saluto affettuo-so di Principi, omaggio di scienziati, fiori e benedizioni dimigliaia di umili, che avevano per lui riconoscenza e ve-nerazione e che vedevano in lui un essere quasi sovruma-no, cui fosse consentito di compiere miracoli.

Negli ultimi anni della sua vita, che si spense nel1927, tornava sempre più spesso nella sua campagna alpaese natio, a coltivarla e, come scrive Uffreduzzi com-memorandolo alla Regia Accademia di Medicina di Tori-no nel 1928, ad assistere al rinnovantesi miracolo dellaprimavera.

Intanto a Torino nascevano e crescevano grandi emoderni Ospedali, il “Mauriziano”, il “Maria Vittoria”e nel 1935 la nuova sede delle “Molinette”.

La successione di Antonio Carle va a Mario Donati,modenese di nascita, laurea a Torino, Cattedra di Pato-logia Chirurgica a Modena prima ed a Padova dopo.

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Sua l’iniziativa nel 1931 di fondare la Società Piemonte-se di Chirurgia. Regge la Cattedra di clinica chirurgicadi Torino dalla morte di Carle, suo Maestro, fino al 1932quando viene chiamato alla Clinica Chirurgica di Mila-no. Al suo posto, Ottorino Uffreduzzi, agrigentino dinascita, subito nella Scuola di Carle; Professore Ordina-rio nel 1925.

Uffreduzzi, operatore ardito, misurato e preciso, conuna nobiltà di tratto che lo distingue dal vecchio tipo dichirurgo. Un grande clinico e un eccellente ricercatore.Rimangono famosi alcuni suoi esperimenti per la sosti-tuzione in baronarcosi dell’esofago, anticipando di 30anni la moderna chirurgia del mediastino. Suo il terzocaso di letteratura mondiale di correzione di ermafrodi-smo vero. Importanti le sue innovazioni sui trapiantiossei e nervosi.

Ottorino Uffreduzzi è da pochi giorni nella stanzache fu di Carle, quando alla sua porta bussa un giovanemedico. Si presenta: “Mi chiamo Achille Mario Dogliot-ti, scusi l’ardire – dice con visibile imbarazzo misto aduna sicurezza non comune comunque a quell’età – masarei veramente onorato di essere chiamato da lei comeallievo. Se permette, illustro quanto ho fatto fino adora”.

Dogliotti in questo momento ha 23 anni. Nato a Tori-no il 25 settembre 1897 da una famiglia con lontane ori-gini nel cuore delle Langhe Cuneesi, cresce ad Alba do-ve il padre, medico, è anche Sindaco. E delle LangheCuneesi Dogliotti prende quei segni caratteristici dellagente, il buon senso, la parsimonia, la giusta misura.Quando scoppia la Guerra Mondiale, studente alla Fa-coltà di Medicina a Torino, chiede di essere inserito fragli aspiranti ufficiale Medico e, come volontario, vivesul Carso e sul Piave il dramma dei fanti e a Trento lagioia della vittoria.

Quale è stato il tema della sua tesi di laurea?, chiedeUffreduzzi. “Splenectomia nell’ittero emolitico” – ri-

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sponde Dogliotti - l’ho discussa pochi mesi fa”. Uffre-duzzi si convince e dà il suo assenso.

Tutte le mattine – scriveranno gli allievi di Dogliottinel libro dedicato al Maestro – nelle vecchie altissime te-tre corsie a croce greca del S.Giovanni, adorne di busti dibenefattori innicchiati nelle pareti, un gruppo di giovaniin camice bianco si aggirava tra i letti con i baldacchini inattesa del Direttore per la visita abituale dei malati da fareletto per letto. Non è senza emozione che i più anziani dinoi rievocano quelle lontane giornate. In quel grigiore sta-tico la scena ad un tratto si animava, i camici bianchi ac-correvano, era arrivato il Professor Uffreduzzi, il faro del-la loro attrazione e tutti erano intorno a lui, al grandeMaestro, l’uomo pieno di fascino, il più affettuoso dei pa-droni al quale tutti si sentivano legati dalla più viva am-mirazione.

Nel gruppo degli assistenti spiccava la figura di ungiovanissimo, colpiva il suo sguardo risoluto, la capacitàdi collocarsi al di sopra del livello abituale nelle conversa-zioni cliniche: a vederlo, già allora era chiaro che il Dott.Mario Dogliotti sarebbe andato lontano. E Mario Dogliot-ti aveva subito saputo interessare Uffreduzzi e divenirneil prediletto figlio spirituale che non dimenticò mai ciòche doveva al suo Maestro, al quale continuò a guardarecon gratitudine ed affettuosa fedeltà.

All’inizio della carriera era stato per parecchi anni in-terno alla Clinica. Furono anni laboriosi e fecondi; egliaveva subito compreso che prima di lasciarsi conquistareda problemi di strategia operatoria – è ancora scritto nellibro di Dogliotti – conveniva piegarsi agli studi di anato-mia normale e patologica, ma fu soprattutto la fisiopato-logia ad appassionarlo come forma di elaborazione delpensiero che più si addiceva alla curiosità del suo spirito.

Le sue giornate erano piene: il lavoro della cameraoperatoria, l’assistenza ai malati nelle corsie, il serviziod’urgenza, la chirurgia sperimentale nelle ore serali, spes-so sino a notte avanzata. Ma egli sapeva trovare il tempoanche per gli sport preferiti, il tennis e particolarmente lascherma, che lo vide più volte campione del fioretto.

Sono di questi primi anni i suoi lavori sperimentalisul processo di guarigione delle ferite dell’intestino e delcervello, sullo shock traumatico, sulla vascolarizzazione

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del rene, sulla occlusione intestinale, sulla trasfusione delsangue. Intuita l’importanza di portare sostanze medica-mentose ad alta concentrazione nell’intima compaginedei tessuti seguendo la via arteriosa, tentò la cura di al-cuni tumori maligni incannulando l’arteria regionale o diorgano, iniettandovi per ore e per giorni arsenobenzolied altre sostanze. I modesti risultati allora ottenuti rap-presentano tuttavia un primo passo verso quella circola-zione isolata che oggi appare come assai promettente esono la premessa ai suoi studi di Scuola tuttora in corsoper ottenere un blocco radiante regionale con un’unicainiezione di radioisotopi granulari di provata azione an-tineoplastica.

Ma è il dolore, quel lancinante dolore che agguantail paziente togliendogli le forze, quasi snaturandolo, adattrarre l’interesse di Dogliotti che mette a punto meto-di originali come il blocco alcoolico sottoaracnoideodelle radici per il trattamento delle algie ribelli e l’ane-stesia peridurale segmentaria. E poi il grande interesseper la neurochirurgia portato avanti dal 1935 al 1937come direttore dell’Istituto di Patologia Chirurgica aModena. Un’esperienza positiva nella città emiliana co-ronata dal superamento nel 1937 del concorso per laCattedra di Clinica Chirurgica di Catania ove assumel’eredità, non facile, del Muscatello.

E arriva la guerra. Nel 1942 con Uffreduzzi e Fasiani,Dogliotti chiede di essere inviato quale consulente diarmata al seguito del Corpo di spedizione italiano inRussia. E il Centro chirurgico italiano di Voroscilovgradvede miracoli di improvvisazione chirurgica, ai limitidel possibile e, da parte dei medici italiani, atti di gran-de chirurgia ma anche di grande umanità come quan-do, una notte, Dogliotti viene chiamato ad assistere uncivile che rischiava di morire. Con tutta probabilità uncapo partigiano russo. Ne parliamo a pag. 201.

Al rientro a Catania, dove Malan aveva coperto lefunzioni di supplente, Dogliotti continua l’opera del

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chirurgo di guerra nelle caverne del sottosuolo lavicoin cui venivano trasportati i feriti nei bombardamentidal mare e dal cielo. E in una giornata di grande lavoroper salvare la vita alle vittime del conflitto giunse la no-tizia della morte del suo caro Maestro Uffreduzzi. Poi iltrasferimento a Torino per assumere la Cattedra di Cli-nica Chirurgica. All’incarico ambiva anche Luigi Stro-peni che, deluso, lasciò la Patologia chirurgica per an-dare a Genova: al suo posto Luigi Biancalana, allievo diUffreduzzi. Stropeni sarà Presidente della Società Italia-na di Chirurgia dal 1953 al 1954, come pure Biancalanadal 1967 al 1968.

La guerra ancora semina la morte in tutta Italia. EDogliotti non si tira indietro. Con in tasca “visti” tede-schi, fascisti e partigiani, tutte le settimane va in bici-cletta da Torino a Bra, fino ad Alba e Mondovì per ope-rare i malati trasferiti in provincia a causa dei bombar-damenti, spesso con strumenti di fortuna.

Finalmente scoppia la pace. E torna il sereno. Do-gliotti non si concede soste: potenzia la Clinica Chirur-gica di Torino, con l’originale sala operatoria antibioticaa sterilizzazione totale, e dà alla stampa il “Manuale disemeiotica e diagnostica chirurgica” in due volumi.

Tante, e molto clamorose, le innovazioni in campochirurgico da lui proposte come – è il maggio del 1951 –il primo intervento in circolazione extracorporea par-ziale per tumore mediastinico e, pochi giorni dopo, l’o-perazione in circolazione extracorporea totale a cuoreesangue per un vizio mitralico. Di pari passo, questavolta con il fratello Giulio Cesare, direttore della ClinicaMedica, le ricerche di Chirurgia endocrina.

Anni di grande impegno e di felici intuizioni. Consalutari pause dedicate alla scherma – grandi successiconquista “il mancino chirurgo” scrivono le cronache –e al tennis con storiche partite allo “Sporting”. Con tan-ti riconoscimenti in Italia e all’estero: Presidente perdue volte, della Società Italiana di Chirurgia nei bienni

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1957-1958 e 1961-1962. Sotto la sua guida la Società Ita-liana di Chirurgia compie eccezionali progressi.

Innumerevoli i viaggi all’estero, molto movimentatoquello in Cina nei primi anni ’60, Dogliotti porta con séin valigia alcune microsfere contenenti fosforo radioat-tivo messe a punto da Fausto Badellino e LeonardoCaldarola, suoi allievi e utilizzate per la cura endoarte-riosa dei tumori. Nella sosta ad Hong Kong, Dogliottimette queste sfere nella vasca da bagno dell’Hotel“Mandarin”. Al ritorno non ci sono più. Viene dato l’al-larme e per tutta la notte e il giorno successivo, la poli-zia con altoparlanti diffonde per le strade messaggi on-de mettere in guardia il ladro del pericolo che correva.Nessuna traccia del ladro e delle sfere. Dogliotti com-mentava scherzando: “è cominciata così la potenza nu-cleare cinese”.

Dogliotti muore il 2 giugno 1966, dopo otto mesi dimalattia. Si parlò di glioblastoma multiforme ma anchedi metastasi da melanoma di un dito di un piede,asportato due anni prima.

Due anni più tardi anche Biancalana lascia la Catte-dra. I nuovi professori sono Francesco Morino ed Ange-lo Paletto. Morino era stato prima assistente di Malan,poi Professore a Parma. Aveva sposato una delle due fi-glie di Dogliotti, Lucetta. Anche suo figlio che porterà ilnome del nonno Mario, diventerà Professore di Chirur-gia a Torino, erede di una straordinaria storia.

La storia della Scuola Piemontese, alla quale MarioNano ha dedicato un libro nel 1996, oltre che di chirur-ghi universitari è segnata dall’eccezionale contributodei chirurghi ospedalieri che hanno svolto la loro operain eccellenti strutture sorte lungo tutto l’arco di un se-colo. E in questi Ospedali la Medicina compie progressiin linea con quelli registrati nelle Università. Alla vigi-lia della prima guerra mondiale cominciano i lavori aTorino dell’Ospedale “San Vito”, voluto dall’Ammini-strazione dell’Ospedale “San Giovanni”. Nella nuova

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struttura, aperta nel 1923, Primario di chirurgia fino al1941 è Andrea Marra che porta la sua Scuola a notevolefama.

Ma la realizzazione più importante in questi anni èquella delle “Molinette”, un Ospedale destinato a sosti-tuire il vecchio “San Giovanni” dove nel 1928 era statoistituito il primo Centro specializzato per la diagnosidei tumori.

Le “Molinette” viene inaugurato, con una sfarzosacerimonia, da Vittorio Emanuele III° nel 1935. In questogrande ospedale si formano generazioni di medici, al-cuni di grande valore.

Al “Mauriziano” operava Carle che, allo stesso tem-po, era Primario e Direttore della Clinica Chirurgica.Alla morte di Carle mentre l’incarico universitario va aMario Donati, il Primariato passa a Giovanni Massa eGuido Bertone. Il primo si occupa soprattutto di perfo-razioni esofagee, di coleperitoneo e della chirurgia delcancro della tiroide. Guido Bertone si dedica in modoparticolare ai tumori della colecisti, dell’ileo biliare e al-la chirurgia ginecologica.

Negli anni più recenti la gloriosa storia del “Mauri-ziano” è stata affidata ad un brillante chirurgo, eccel-lente Amministratore quale è stato Dario Cravero, Pre-sidente della Fondazione e Senatore della Repubblica.Le attività di chirurgia sono sotto la responsabilità didue chirurghi valenti, Mario Delle Piane e Lorenzo Ca-pussotti, divenendo il “Mauriziano” un Centro di riferi-mento nazionale per la chirurgia maggiore soprattuttoepato-bilio pancreatica.

La Scuola di Torino ha improntato la vita chirurgicadi tutto il Piemonte attivando la nuova sede Universita-ria di Novara e formando Primari eccellenti per tantiOspedali.

Dalla Scuola di Dogliotti andò a Bra Francesco Mo-ricca, uomo straordinario, studioso eccellente, profon-damente modesto ed appassionato creatore di una tec-

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nica di ricostruzione dopo gastrectomia nota ed appli-cata in tutto il mondo e che porta il suo nome. Moriccamorì all’improvviso ancora giovane nel 1991, dopo es-sere stato Membro del Consiglio Direttivo della SocietàItaliana di Chirurgia, potendo ancora dare molto allachirurgia Piemontese ed italiana.

Fu ricordato con un libro postumo Al di là della SalaOperatoria nel quale furono riportati i suoi tanti scrittinon chirurgici: Eugenio Santoro, allora Segretario Na-zionale dell’ACOI, lo ricordò con commozione nellapremessa, riportando la Commemorazione che tenne dilui in occasione di un Congresso dell’Associazione inVal d’Aosta.

Non avrei mai creduto di dover commemorare France-sco Moricca, qui tra queste montagne, in un giorno comeoggi che avrebbe dovuto essere un suo giorno di festa egioia.

Non avrei mai comunque creduto di doverlo comme-morare, giacchè tra noi la morte si è affacciata di rado inquesti dodici anni di vita societaria.

Ricordo la grande commozione di quella sera a Romaquando la voce di Felloni inseguiva nel ricordo la vita diCarlon che se ne era andata: il suo maestro amato, unmaestro per tutti. E ricordo Francesco commosso cometutti noi, seduto nelle prime file a toccarsi gli occhi, forsea trattenere le lacrime per l’amico scomparso.

Non avrei mai pensato che questa volta commuoversie piangere sarebbe stato per lui.

Se ne è andato in silenzio, con discrezione, come nelcostume della sua vita, non svegliandosi in un’alba fred-da di questo febbraio crudele, senza aver compiuto nean-che i 60 anni.

Ha lasciato immaturamente la moglie adorata con cuiaveva davvero diviso la vita e quel suo figlio di cui parla-va con tanto giusto orgoglio, senza mai rimpiangere cheavesse scelto una strada diversa dalla sua. Lui che chirur-go era sempre stato con convinzione e con dedizione eche pure vedeva crescere le difficoltà di una professionegià di per sé tanto faticosa.

Si era laureato a Torino nel 1957 in una delle più pre-

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stigiose Scuole Italiane di Chirurgia, quella del Prof,Achille Mario Dogliotti. E lì si era specializzato in Chirur-gia Generale ed in Urologia conseguendo poi la LiberaDocenza in Patologia Chirurgica ed in Clinica Chirurgica.

Anni di grande lavoro e di grande impegno. Così lo ri-corda Paolo Georgacopulo che gli fu allora amico e com-pagno:

“Una grande clinica chirurgica. Un grande maestro, ilProf. Dogliotti. Un sottopiano con alcune stanze, umide ebuie. Ma lì dentro, un calore umano ed un entusiasmogiovanile che le rischiaravano e le riscaldavano. Ci abita-vamo, noi giovani apprendisti, futuri chirurghi. E tra noic’era l’interno del piano uomini, Franco Moricca. Alto,magro, bruno, esuberante, con il cuore generoso del cala-brese, sempre pronto al divertimento ed allo scherzo maanche a dare una mano quando in reparto un malato ave-va problemi.

Ricordo una gita in Camargue con un ritorno la dome-nica notte, sulle strade che ora sono quelle del Rally diMontecarlo, altro che Lancia Delta integrale, avevamouna 600 che guidavamo a turno e ci fermavamo solo allefontane per mettere la testa sotto l’acqua, perché alle 7 do-vevamo essere al lavoro ed il sonno era tanto.

Ricordo chirurghi che erano già “grandi”, e che veni-vano ad affidare i loro operati, che non andavano bene, algiovane Moricca, sapendo che glieli avrebbe tirati fuori.

Ambizioni, ansie, speranze, lavoro, divertimenti, ra-gazze, fino poi a diventare seri, ad innamorarsi, a sposar-si; e Franco di ritorno dal viaggio di nozze con la moglieche aveva una gamba ingessata!

Poi ognuno per la sua strada, primario lui, primario io,incontri casuali, sempre tanto affettuosi..”.

All’inizio degli anni ’70 Francesco lascia Torino. Do-gliotti non c’è più, stroncato anzitempo dalla malattia delSecolo. Torna verso sud, lui calabrese d’origine, per fer-marsi a Colleferro, cittadina industriale della provinciaromana. A 39 anni comincia da Primario la sua vita ospe-daliera. Ed incontra la prima inattesa difficoltà, non nellasala operatoria ove è vincente e padrone ma nei rapporticol potere politico ed amministrativo. Così lo ricordo io,timido ed incredulo in quella Roma allora come ora, dis-sacrante e perversa, a combattere una battaglia che vin-cemmo, perché nei labirinti allora per noi sconosciuti del

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potere,, trovammo amici inattesi, disposti a credere nellaqualità del lavoro e nell’onestà degli intenti.

Ma dopo la morte del suo Maestro, quelle vicissitudiniromane furono un secondo motivo determinante chespinsero Francesco ad una scelta di vita diversa, fuori dal-le ambizioni e dalle frenesie, fuori dalla mischia.

Scelse Bra, la provincia piemontese solida e laboriosa,la serenità della campagna, delle piccole cose di ogni gior-no., del tempo libero, delle letture, dello studio, del tennisanche.

E lì lavorò a quella ricostruzione gastrica che dovevarenderlo famoso, aprendogli le porte della EnciclopediaMedica Francese.

Fu tra i primi a rispondere alla suggestione dell’ACOI.C’era già a Roma al II Congresso Nazionale e da allora

ci sarà sempre, in ogni occasione, per ogni evenienza. In-torno a lui nacque e crebbe l’ACOI Piemonte, con i Con-vegni di Asti, nel freddo e nella pioggia di quel novembredi anni fa.

Non voleva essere leader, non voleva prevaricare nes-suno, voleva solo collaborare, esserci, fare crescere il mon-do degli Ospedali, la Chirurgia ospedaliera, nella qualecredeva e che tanto rappresentava, se nel 1988 fu da noieletto Consigliere della Società Italiana di Chirurgia inuna elezione sofferta, ma vincente, che fu la vera primaprova dei successi ospedalieri che poi seguirono.

E da Consigliere della SIC fu apprezzato ulteriormenteanche da chi lo conosceva meno, per le sue grandi dotiumane, per la sua cortesia ed il suo stile, la sua cultura ela sua umanità.

Talvolta protestava o sposava cause diverse, incom-prensibili per chi credeva che lui fosse uguale agli altri enon ricordava che aveva fatto invece scelte di vita del tut-to particolari. Ma poi, se non la ragione, prevaleva la mo-zione degli affetti e Francesco rientrava nel gruppo, nelnostro grande gruppo, di cui era e resterà per sempre par-te integrante e membro d’onore.

In questi anni uomini come Moricca e come quelli chelo piangono qui ed altrove, hanno costruito un grande al-tare per gli Ospedali Italiani e per la Chirurgia, legandoad essi la loro vita e con Carlon e Moricca anche la loromorte, in un sussulto di emozioni, di sentimenti e di fati-ca, di lavoro e di sacrifici fusi dall’amicizia vera che è na-

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ta e da un rapporto profondo che neanche la morte can-cella.

Francesco, dunque, è qui con noi stasera, in questo cheè anche il suo Congresso, perché di nuovo l’Associazionegli aveva affidato un impegno attivo con la Presidenzadella Commissione Nazionale per la Videochirurgia. Econ impegno come sempre, aveva lavorato affiancandoParini, collaborando senza invadere, come già aveva fattol’anno scorso a Madonna di Campiglio ove, dopo tantaesitazione, aveva accettato di inaugurare il Congresso conuna lettura che molti stasera ricorderanno come un esem-pio illuminato di cultura e di saggezza.

Ricordiamolo dunque da vivo, come nella foto che celo ripresenta, ed accompagnamolo con grande applausonel posto illustre che gli spetta nel Gotha della ChirurgiaItaliana e nella storia vivente della nostra Associazione.

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Cap. VIII

SCUOLA LOMBARDA

“È nata l’Atene lombarda”. Quando Luigi Mangia-galli in toga di Rettore Magnifico pronuncia queste pa-role aprendo il discorso per l’inaugurazione ufficialedella Università di Milano, la platea si lancia in ungrande applauso. Finalmente Milano ha la sua Facoltàdi Medicina, la prima volta nella pur lunga storia. L’U-niversità Medica della Lombardia fino ad oggi - è l’8 di-cembre del 1924- è solo quella di Pavia, antica e presti-giosa. Milano non sembrava aver sentito il bisogno del-l’Università, almeno la Milano della Medicina. C’è l’O-spedale Maggiore - la Cà Granda dei milanesi, fondatanel 1456 da Francesco Sforza- che, pur tra difficoltà cre-scenti, riesce a fronteggiare le esigenze della città e delsuo immenso hinterland.

L’Ospedale Maggiore è un grande punto di riferi-mento per la popolazione. Ed è un riferimento di pre-stigio per la gente che vede nel “signor Primario” la fi-gura carismatica. E quando l’Università conquisterà unruolo importante nella vita della città, continuerà l’abi-tudine, ovviamente fra gli anziani, di rivolgersi con “si-gnor Primario” ai Cattedratici che, ovviamente, primarinon erano. Walter Montorsi ricorda che il suo Maestro,

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Guido Oselladore, venuto a Milano da Padova, non na-scondesse il suo disappunto nel sentirsi chiamare daimalati con “Signor Primario”.

In pratica l’Ospedale Maggiore diventa Università.Nell’atto rogato del 28 agosto 1924 è scritto che “il Con-siglio degli Istituti Ospitalieri si obbliga a mettere a di-sposizione dell’Università, senza alcun compenso e perfini didattici e scientifici della Facoltà medico- chirurgi-ca, i suoi reparti nosocomiali (circa 1.800 posti letto inpadiglioni) con i gabinetti e laboratori annessi”. I “si-gnor primario” diventano automaticamente Professoriuniversitari, non tutti ma quasi, nel giro di pochi anni.

L’Ospedale Maggiore subisce una trasformazione. Inprimo luogo con la concentrazione, lenta ma costante,delle Cliniche e degli Istituti Universitari. Poi con la na-scita di nuovi padiglioni, fra cui il “Monteggia” che di-venta sede dell’Istituto di Patologia chirurgica mentrela Clinica chirurgica e l’Istituto di Semeiotica chirurgicasono ospitati nei padiglioni “Zonda” e “Litta”.

Questa la realtà della Milano medica alla fine degli an-ni ‘20, costruita pezzo per pezzo, fra polemiche, non ulti-ma quella rappresentata dalle resistenze della vicina uni-versità di Pavia che vedeva ridotta l’area di influenza, epoi quella dei medici ospedalieri che vedevano ostacolatala loro carriera perché la regola voleva che la direzionedel reparto dovesse essere assunta dal professore univer-sitario. Quest’ultimo problema trova una soluzione con ilprogetto di un nuovo grande ospedale a Niguarda.

La “città salute” di Niguarda diventa una realtà il 10ottobre del 1939 quando viene accettata la prima mala-ta. E sorge l’idea di trapiantare il Policlinico nella Cittàdegli Studi dove già esistevano gli Istituti universitaridel triennio propedeutico.

Uomini di grande valore hanno dato chiara fama al-la Scuola di Milano, quella chirurgica in particolare. L’i-nizio del Secolo vede in Lombardia da una parte, all’O-spedale Maggiore di Milano, tra i più grandi nosocomi

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d’Europa, i Primari, dall’altra a Pavia, nell’antica Uni-versità, i Clinici Universitari. Una rivalità a distanzache si acuisce quando a Milano viene fondato l’Ateneocon i Primari del “Maggiore” diventati Professori.

La clinica chirurgica dell’Università è assunta daBaldo Rossi. Nel 1929 Giovanni Castiglioni, primario dichirurgia al “Fatebenefratelli”, diventa titolare dellaCattedra di Patologia chirurgica che terrà fino al 1949.

Nel 1933 alla Clinica chirurgica giunge Mario Donatiche proviene da Torino dove aveva occupato il postodel suo Maestro Antonio Carle, fondatore della Scuolachirurgica torinese. Era tornato a Torino nel 1928, dopol’esperienza di professore di patologia chirurgica nellanatia Modena nel 1912 e di clinica chirurgica a Padovanel 1922 succedendo a Edoardo Bassini. Donati arriva aMilano sull’onda di una grande fama dovuta non soloalla sua eccezionale capacità di chirurgo ma anche peruna filosofia professionale innovativa.

Nella prolusione del suo primo corso torinese Donatiaveva detto che “la chirurgia non è riducibile a tecnica, lachirurgia è prima di tutto clinica”. “ È una giusta tesi-scrive il grande storico della medicina, Giorgio Cosmaci-ni- che peraltro, negli anni Trenta, è ancora controversada quei medici, come Nicola Pende, che sostengono che laclinica sia di competenza dell’internista, di cui il chirurgodeve essere la mano sapiente e tecnica, e cioè la mente e ilbraccio. Secondo Pende la supremazia o la preminenzadel medico sul chirurgo è necessaria ad evitare la superfi-cialità dell’esame generale del malato che cade sotto ilcoltello chirurgico. Invece per Donati l’operazione chirur-gica, prima che un’operazione manuale, tecnica, è un’o-perazione intellettuale, clinica. La tecnica non è altro chel’applicazione della scienza biologica e patologica, comeCarle aveva insegnato”. Ma Donati, aggiunge Cosmaci-ni,va oltre Carle perché concepisce “la chirurgia dell’av-venire come il non distruggere, il ricostruire e il sostitui-re”. Lo sottolinerà bene Raffaele Paolucci nel parlare diDonati nel 1952. Un presentimento della chirurgia dei tra-pianti.

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Ed arriva a Milano da Padova anche Gianmaria Fa-siani, allievo di Carle come Uffreduzzi e Donati. Fasianidà un grande impulso alla chirurgia toracica al puntoche nel 1953 Frugoni nel fare un bilancio dell’attivitàdella medicina italiana del dopoguerra cita, parlandodella chirurgia toracica, al primo posto Fasiani, aggiun-gendo anche i nomi di Oselladore, Valdoni, Paolucci,Ruggieri, Di Paola, Dogliotti e Biancalana. Ma è soprat-tutto nell’apertura alla neurochirurgia che Fasiani dà ilmaggiore contributo.

Milano in questo momento è al vertice della chirur-gia italiana insieme a Torino e Roma. I capiscuola inten-sificano i contatti con le Scuole straniere e allargano leloro conoscenze. Un grande contributo viene dall’ane-stesia. E Fasiani si distingue nel dare impulso a questaspecialità contribuendo alla nascita della Scuola aneste-siologica milanese.

Giorgio Cosmacini è andato a scovare un articolo diGianmaria Fasiani su “TM” del giugno 1960. Ebbene ilchirurgo milanese scriveva:”I tempi sono mutati rispet-to a quando un amico chirurgo si rallegrava di aver sa-puto utilizzare il proprio autista nelle ore libere, comeanestesista. L’anestesia ha cento anni ma l’anestesiolo-gia è appena nata”.

Castiglioni lascia la Cattedra di patologia chirurgicae Gianmaria Fasiani si presenta al Consiglio di Facoltà,i membri sono solo 24, annunciando che “non ci sonoproblemi per la successione a Castiglioni, c’è un mio al-lievo a Padova, Guido Oselladore”. Gli altri pretendenticomprendono che per loro non ci sono speranze. GuidoOselladore giunge a Milano nel 1949, dando subito pro-va di un grande impegno non solo al tavolo operatorioo nell’aula davanti agli studenti. Costituisce una Scuolache darà lustro alla chirurgia italiana anche in campointernazionale e si fa promotore della istituzione delleScuole di specializzazione. Era solito dire che il Diretto-re di una Clinica Chirurgica non è in grado di gestire

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da solo le ormai multiformi facce della chirurgia. Pren-de perciò l’iniziativa di una serie di concorsi in Italiacome quelli di urologia, ortopedia, chirurgia plastica. Èil primo in Italia nel promuovere un corso per neuro-chirurgia. L’opera di Oselladore, in questo spirito di in-novazione, non si limita alla Scuola, agli uomini e allespecialità ma anche alle strutture, come la ristruttura-zione del mitico Padiglione “Monteggia”.

Nel 1956 Gianmaria Fasiani muore all’improvvisomentre partecipa ad un congresso. Una grande Scuolala sua. Un suo allievo, Angelo De Gasperis che pureaveva visto incrinati i rapporti con il Maestro, ben notoaccentratore, va ad occupare un ruolo di grande rilievonel campo della cardiochirurgia. De Gasperis, dopoaver effettuato i primi interventi a Milano in circolazio-ne extracorporea e dopo aver introdotto nel nostro Pae-se i pace-makers per la stimolazione elettrica del cuore,apre nel 1962 all’Ospedale Maggiore un Centro di car-diochirurgia: non è il primo in Italia, ce ne sono altri co-me quello di Roma ma è fra i più avanzati. Muore pocodopo di tumore, a 52 anni. Il Centro, affidato al suoAiuto Renato Donatelli, prende il suo nome.

In quella successione accademica viene chiamatodalla Facoltà Edmondo Malan, grande personaggio del-la Chirurgia Nazionale uno dei padri della ChirurgiaVascolare. Occuperà quella Cattedra con alto prestigiosino alla prematura morte avvenuta oltreoceano pro-prio per un intervento nell’aorta.

Una acuta descrizione di Malan è di Attilio Basile neldiscorso inaugurale all’88° congresso della Società Italia-na di Chirurgia a Roma nel 1978. Basile ricorda la figuradel chirurgo sottolineando il suo grande impegno prima aCatania, accanto a Dogliotti, poi al suo posto, per passarea Parma, Genova e infine a Milano. “Brillante come do-cente- racconta Basile- valorosissimo come chirurgo, ave-va creato a Milano una Scuola di chirurgia vascolare a li-vello delle migliori d’Europa. I suoi originali contributi

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nel campo della patologia e della chirurgia vascolare era-no internazionalmente riconosciuti. Ricordo, fra tutti, lasindrome di Malan, dilatazioni arterovenose della piantadel piede. Per tali meriti assurse a Presidente della SocietàEuropea di Chirurgia cardiovascolare ed Editore della suarivista ufficiale. Rappresentò con prestigio all’estero la So-cietà Italiana di Chirurgia, della quale fu per alcuni anniPresidente. Nella commemorazione fatta dai giornali quo-tidiani alla sua morte, anche quelli estremisti, che lo defi-nirono un potente, venne riconosciuto che il potere l’ave-va utilizzato per realizzare un’opera difficilissima in Ita-lia, quella di creare un Centro trapianti renali.

Nel 1964 Guido Oselladore lascia l’incarico. Folta edillustre la schiera dei suoi allievi, alcuni dei quali già inCattedra: Staudacher, Pezzuoli, Montorsi, Radici, Pietri,Peracchia, Damia, Ischia, Maffei Faccioli, Galmarini,Donati, Ghirindelli, Lavorato.

Come De Gasperis con Fasiani, anche Vittorio Stau-dacher ha qualche problema con il suo Maestro Osella-dore. E come De Gasperis va ad occupare un ruolo im-portante nella storia della medicina italiana e milanese.Infatti Staudacher dà vita alla Chirurgia d’urgenza di-ventando Primario all’Ospedale Maggiore. La chirurgiad’urgenza diventerà una delle branche più importantidella chirurgia, avrà un chiaro riconoscimento nel gran-de ruolo che l’emergenza avrà nella vita della Societàmoderna. Vittorio Staudacher diventerà anche Presi-dente della “Cà Granda” e sarà lui a ricevere il PapaGiovanni Paolo II° in visita all’Ospedale nel maggio del1983.

Alla morte di Malan sono due i concorrenti alla suc-cessione: Ugo Ruberti e Giuseppe Pezzuoli. Il primo èallievo di Malan, il secondo è direttore della Cattedra diclinica chirurgica a Padova. Occorrono undici votazioniin Facoltà per la designazione di Pezzuoli. La notiziaviene data dal Corriere della Sera che parla di “un chi-rurgo di Formula Uno a Milano” poiché Pezzuoli è na-

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tivo di Maranello, la sede delle mitiche Ferrari. Il richia-mo alla Formula Uno accompagna anche Walter Mon-torsi e Giuseppe Zannini perché, come Pezzuoli, ancheloro sono nati a Maranello: all’epoca i quotidiani eranosoliti dare notizia degli avvicendamenti nelle Cattedrepiù prestigiose delle Università. Pezzuoli era stato inCattedra prima a Cagliari e poi a Modena. Lascerà aPadova nella sua Cattedra Alberto Peracchia che lo so-stituirà poi anche a Milano. L’attività milanese di Pez-zuoli fu proficua e piena di riconoscimenti sino allaPresidenza della Società Italiana di Chirurgia. Eccellen-te chirurgo toracico, fece, tra i primi il trapianto di pol-mone in Italia.

Giuseppe Pezzuoli e Walter Montorsi, entrambi Cli-nici Chirurghi, nel 1988 danno vita ad un evento con-gressuale eccezionale, il vertice mondiale a Milano del-l’Intenational College of Surgeon, prestigiosa istituzio-ne che ha sempre visto la Scuola italiana protagonista.Un congresso che ha lasciato il segno con Pezzuoli Pre-sidente dell’International College of Surgeons e Mon-torsi Presidente del Comitato organizzatore. Montorsidi questo organismo internazionale è stato Vice-presi-dente mondiale e nella sezione Italiana per lunghi anniSegretario e Presidente. Dodicimila partecipanti, un’in-tera settimana di lavori, presenti i più noti chirurgi almondo e, per la prima volta, una delegazione russa e,novità assoluta, un chirurgo della Cina continentale.Racconta Montorsi: “Un grande successo della chirur-gia italiana ma anche della chirurgia milanese. I chirur-ghi milanesi che avevano partecipato con entusiasmopersonale e con responsabilità dirette all’organizzazio-ne del Congresso, vinsero la partita segnando un secon-do goal di fronte al mondo. Il primo goal l’aveva segna-to l’Università di Milano che attraverso il suo RettoreMagnifico, Paolo Mantegazza, aveva dato il proprio no-me alla manifestazione”.

Alla fine del Secolo l’Università Milanese si è ormai

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espansa oltre il Policlinico negli Ospedali della città:S.Paolo, S.Carlo, S.Raffaele ed a Monza. Le cattedre sisono moltiplicate anche per la chirurgia. I nomi di Al-berto Peracchia per la Chirurgia esofagea e quello diValerio Di Carlo per quella pancreatica assumono rile-vanza nazionale ed internazionale.

Il ricordo del congresso del 1988 a Milano consente diricordare anche il ruolo dei chirurghi italiani in seno al-l’International College of Surgeons, organismo prestigio-so e che ha visto al vertice chirurghi del nostro Paese:Achille Mario Dogliotti, Paride Stefanini e Giuseppe Pez-zuoli, oltre che un segretario generale, Aldo Parentela.Molto note le figure di questi tre Presidenti.

Primo presidente italiano all’International College ofSurgeons fu Achille Mario Dogliotti eletto nel 1961. Nel1970 al vertice di Parigi matura la candidatura di ParideStefanini che riceve l’incarico di organizzare a Roma nel1972 il congresso biennale. Un analogo congresso era giàstato organizzato da Pietro Valdoni nel 1960 all’Eur.

All’Hilton di Roma in quel 1972 i lavori hanno ungrande successo.I congressisti sono entusiasti dell’acco-glienza della città, dell’udienza in Vaticano con una mes-sa di Paolo VI° e dei grandi festeggiamenti. La storiascientifica del vertice viene raccolta negli Atti curati, perla prima volta in inglese, da Vincenzo Speranza. Stefaniniviene eletto Presidente. La elezione di Giuseppe Pezzuolinel 1987 si realizza anche perché il chirurgo italiano nonsolo è noto per le alte capacità professionali, ma ancheperché dirige con grande maestria la Rivista del College.

Parlando di questa attività internazionale- ricordaWalter Montorsi- non si può non citare un curioso episo-dio che vede protagonista Ettore Ruggieri. La chirurgiaitaliana stava lentamente riprendendosi dall’isolamentocausato dalla guerra. Uno dei più importanti contatti coni chirurghi stranieri avviene nel 1964 a Vienna, al congres-so mondiale dell’International College of Surgeons. Rela-tore su un tema di chirurgia toracica è Ettore Ruggieri.Con il suo maestro Raffaele Paolucci di Valmaggiore,Ruggieri aveva eseguito le prime toracotomie e le primeexeresi polmonari guadagnandosi la fama di pioniere inquesta chirurgia. I tempi per le relazioni, una novità per

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gli italiani, erano molto rigidi. Al massimo- raccontaMontorsi- si poteva parlare per dieci minuti.

Quando Ruggieri prende la parola nessuno immaginavanè prevedeva quello che sarebbe successo. Il Presidente pre-cisa in inglese: “dottor Ruggieri, lei ha dieci minuti per par-lare”. L’aulico e cortese ringraziamento al Presidente dellaseduta prende a Ruggieri qualche minuto, quello agli orga-nizzatori qualche altro minuto; il saluto ai colleghi italiani inprima fila, quali Oselladore, Dogliotti,Valdoni, Basile, è par-ticolarmente caldo e affettuoso. E soprattutto lungo. La suo-neria del segnatempo scatta proprio durante il ricordo cheRuggieri fa dell’impresa della corazzata affondata dal suoMaestro: stupore dell’oratore che dopo essersi scusato con ilchairman assicura che avrebbe subito iniziato l’esposizionedella parte scientifica della sua relazione. Ma con faccia im-passibile, il chairman solleva il segnatempo e mostra che iltempo assegnato era scaduto, ringrazia seccamente Ruggie-ri e chiama al podio l’oratore successivo.

Per noi italiani- continua Montorsi- in quel momentoera crollato un mondo, il nostro mondo, fatto in parte dipiaggerie, di scambi di ringraziamenti e di complimentiregolati da antichi rituali secondo i quali le relazioni di uncongresso dovevano durare a lungo per essere considera-te interessanti ed apprezzate. Un precedente istruttivo vi-de protagonista sempre Ruggieri. Quando a Milano alCongresso della Società Italiana di Chirurgia nel 1956,Oselladore aveva tenuto la relazione su “Fistole biliariesterne ed interne” ed aveva parlato più di due ore, Rug-geri, che di quella seduta era il Presidente, si compli-mentò con lui perché aveva raddoppiato il tempo asse-gnatogli, quasi che la lunghezza della trattazione fossel’indice principale del suo valore.

Anche negli Ospedali Milanesi, grandi e piccoli, sisono succeduti eccellenti chirurghi a partire da BaldoRossi che nel 1924 passò dall’Ospedale alla neonataUniversità ed in quell’anno fu Presidente della SocietàItaliana di Chirurgia. Nella seconda metà del Secolo ol-tre i cardiochirurghi De Gasperis e Donatelli ed alla ec-cezionale figura di Vittorio Staudacher hanno lasciatoun segno importante: Raul de Nunno al Fatebenefratelliche sarà fondatore e Primo Presidente dell’Associazio-

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ne Chirurghi Ospedalieri Italiani (ACOI) nel 1981, Rockall’Ospedale di Monza, Piero Bellinazzo al Niguarda,Lino Belli, sempre al Niguarda, creatore del Centro tra-pianti di fegato poi ereditato dal suo allievo DomenicoForti e più tardi, nell’ultima generazione, Enrico Croceal Fatebenefratelli promotore della Chirurgia Mininva-siva in Italia e Presidente della relativa Società, nell’ot-tobre 2000 viene eletto Presidente della SIC per il bien-nio 2002-2004, Carlo Corsi al S.Paolo e Roberto Sampie-tro al S.Carlo in Chirurgia d’urgenza.

Croce e Sampietro come anche Kuntner, Calzoni,Confalonieri, Marcolli, Guerreri, Sartirana sono stati al-lievi degli illustri Ospedalieri Milanesi, Stefano Garbe-rini e Carlo Zucchi, straordinari chirurghi generali de-gli anni ’60 e ’70 e prolifici capiscuola.

Ma Milano significa anche e soprattutto Istituto Na-zionale dei Tumori.

Tarda mattina del primo maggio del 1928. Ventitrédonne, malate di tumore, vengono trasferite dal Repar-to di oncoterapia ginecologica annesso agli Istituti Cli-nici di Perfezionamento, all’Istituto Tumori “VittorioEmanuele III°”. È l’inizio ufficiale dell’attività dell’Isti-tuto Tumori di Milano: prende avvio così uno dei piùimportanti progetti di assistenza e ricerca del nostroPaese nel campo dei tumori.

Dopo Milano, nel 1932 fu creato l’Ente Istituti Fisiote-rapici Ospitalieri”, a Roma comprendente il San Gallicanoe l’”Istituto Regina Elena per lo studio e la cura dei tumo-ri”. Il giorno dell’inaugurazione ufficiale, il 21 aprile del1933, era presente la stessa Regina. Direttore ne fu Raffae-le Bastianelli, Maestro di chirurgia e Primario al Policlini-co Umberto I°, che aveva voluto l’Istituto insieme al ma-lariologo Ettore Marchiafava, entrambi esponenti dellaLega per la Lotta contro i tumori. L’Istituto Regina Elenaera stato preceduto nel 1926 da un Istituto per la cura conil radium presso il vecchio ospedale “San Gallicano”.

Sempre nel 1933 a Napoli viene fondato, ad iniziativadel clinico Giovanni Pascale, un Centro diagnostico e cu-

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rativo che prenderà il nome del Fondatore. Sempre nel1933 nacque ancora un Centro oncologico, a Bari che saràriconosciuto Istituto a carattere scientifico solo nel 1985.

Bisogna attendere il 1978 per vedere l’inizio dell’atti-vità dell’Istituto per la cura e lo studio dei tumori di Ge-nova e il 1990 per il Centro Regionale di Riferimento On-cologico di Aviano.

Il ricovero delle prime 23 malate nel nuovo Istitutomilanese, quasi tutte in condizioni molto gravi - unamorì proprio lo stesso giorno- segna l’avvio dell’attivitàdi un’opera che aveva avuto il suo input durante unamanifestazione della Società Italiana di Chirurgia, nel1921, a Napoli dove si era parlato molto di tumori.

“Negli anni venti - scrive Patrizia Placucci nel rievoca-re la nascita dell’Istituto Tumori di Milano- la lotta controil cancro sta assumendo un palese carattere sociale: inco-minciano ad essere coinvolte anche figure non mediche.In base alla crescente consapevolezza che il progresso erada attendersi per opera non solo degli uomini di scienzama anche dei filantropi e dei politici, viene raccolta a piùlivelli la sfida lanciata da un nemico che iniziava ad appa-rire non più invulnerabile”.

Non più invulnerabile, ma pur sempre un grande ne-mico. All’inizio degli anni venti il numero dei morti pertumore in Italia è di oltre 25 mila. Per avere un’idea delladiffusione della malattia, basti dire che nel 1903 in Lom-bardia la media annuale dei decessi per cancro era di 70,9casi ogni centomila abitanti e nel 1917 di 87,2 con un au-mento quindi di oltre il 16 per cento. Sempre all’inizio de-gli anni venti, giungono notizie dagli Stati Uniti e dallaGermania che i decessi per cancro stanno superandoquelli per tubercolosi. In Italia la TBC provocava 30 milamorti e altrettanti la sifilide. Cresce il tumore e ancoratroppa gente non accede alle cure chirurgiche: solo il 17per cento dei malati sono avviati in sala operatoria.

A Napoli in quel Congresso di Chirurgia si discutesulle nuove terapie contro il cancro. E si affronta il pro-blema della messa a punto di iniziative per combattere

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una malattia, che - sono parole di una relazione del pa-tologo Rondoni- colpisce “alla cieca isolatamente, inqualunque strato della Società”. Una malattia ben di-versa da quelle che all’inizio secolo seminano la mortecome la malaria, la sifilide, le febbri tifoidee prevalentinelle classi meno abbienti.

A Napoli viene avanzata la proposta di unire tutte leforze, scientifiche e sociali, per dar vita ad una Lega cheaffrontasse,insieme alla questione della Ricerca, anche iproblemi della diagnostica e della terapia e che si occu-passe della sensibilizzazione ed educazione dell’opinio-ne pubblica.

La Lega conta fra i propri membri fondatori GaetanoFichera, Clinico chirurgo dell’Università di Pavia, diorigine siciliana con esperienza nelle Università di Ca-gliari e di Sassari, più biologo teorico - sua la teoria del-lo “squilibrio oncogenico” - che chirurgo pratico.

Fichera si lancia nell’impresa di dar vita a Milano adun Istituto per lo studio e la cura dei tumori. Compa-gno in questa avventura il senatore Edoardo Frisoni,membro della neonata Lega. Fichera e Frisoni vanno in-sieme in America Latina per una serie di conferenze delchirurgo di Pavia e ogni giorno parlano del progettodell’Istituto cominciando a coinvolgere nell’idea i con-nazionali emigrati. Inizia proprio a San Paolo del Brasi-le la raccolta di fondi sollecitando semplici cittadini maanche Banche e Istituzioni. E soprattutto giornali, comeil Corriere della Sera, che danno rilievo all’iniziativadiffondendo l’idea di dar vita ad una struttura all’avan-guardia nel mondo, contro una malattia che sempre piùsemina morte e dolore.

Il progetto riceve grande impulso dal sostegno diLuigi Mangiagalli, ginecologo, Cattedra a Sassari, Cata-nia e Pavia, deputato, fondatore della nuova Clinica gi-necologica milanese, prima parte dei futuri Regi IstitutiClinici di perfezionamento con reparto- novità per l’Ita-lia- di oncoterapia ginecologica. Mangiagalli si avvicina

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con entusiasmo a Mussolini che sta lanciando un’al-leanza fra le “alte gerarchie della scienza medica” e re-gime fascista, per accrescere, allo stesso regime, presti-gio e consenso. Diventato Sindaco di Milano, Mangia-galli si avvia in una serie di iniziative nel campo medi-co-scientifico coronate dalla fondazione dell’Universitàdi Milano nel 1924.

Fondato l’Ateneo, Mangiagalli vuole dar vita a quel-la che lui stesso definisce “l’impresa di associare Mila-no al movimento mondiale nella lotta contro il cancro”.Ci riesce il 19 gennaio del 1925 quando espone all’adu-nanza consiliare, nella sala Alessi di palazzo Marino, ilsuo disegno di realizzare un Istituto nazionale per lostudio e la cura del cancro da intitolare a Vittorio Ema-nuele III°.

L’idea base della fondazione dell’Istituto - ricorda Pa-trizia Placucci nel suo libro che racconta la storia dell’Isti-tuto - era nell’espressione di alcuni concetti che allora fu-rono considerati rivoluzionari e come tali talvolta ostaco-lati. Innanzitutto si affermava che il cancro doveva esserecurato dai cancerologi: un’idea semplice ma che a queltempo sembrava ardita poiché la figura del concerologoera inusitata e sembrava estranea alla nozione classica diuna medicina legata alle specializzazioni tradizionali. Performare i cancerologi si rendeva necessario riunire i mala-ti di cancro in istituzioni speciali dove chirurghi, radiote-rapisti, internisti e patologi potessero, dall’osservazione edallo studio di una larga casistica, farsi un’esperienza euna competenza che altrove sarebbero state impossibili. Ilsecondo concetto era quello dell’interdisciplinarità, ten-dente a sperimentare e valutare le possibili associazioniterapeutiche. Un terzo principio annunciato e poi realiz-zato nell’Istituto, pur con qualche difficoltà, era quello dimantenere a stretto contatto i ricercatori sperimentali e iclinici, onde poter meglio integrare fra di loro studio e cu-ra secondo quanto è scritto nella stessa intitolazione del-l’Istituto. Insieme a questa filosofia scientifica, due sceltestrategiche. La prima riguarda l’intenzione di stringereuna forte alleanza fra “studio” e “cura, la seconda è la“solidarietà fra pubblico e privato”.

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Il 28 aprile 1925 la posa della prima pietra alla presen-za di Vittorio Emanuele III°, del ministro della pubblicaistruzione Pietro Fedele e dei progettisti ingegnere Gian-nino Ferrini e architetti Monticelli, Vergani e Bellani.

L’Istituto Tumori di Milano viene inaugurato alle ore15 del 12 aprile 1928 presente Vittorio Emanuele III°.Cerimonia solenne, turbata però da un velo di tristezzae di paura perché, al mattino, una bomba aveva semi-nato il panico all’apertura ufficiale della Fiera di Mila-no: sedici morti e 40 feriti.

Una ventina di giorni dopo prese avvio l’attivitàscientifica e assistenziale con le prime 23 malate trasfe-rite dalla clinica ginecologica. Da questo momento unlungo cammino fatto di crescenti successi che hannoportato l’Istituto ad un livello mondiale sotto la sapien-te guida di amministratori di grande capacità manage-riale e di scienziati di eccezionale valore.

Alla morte di Fichera, direttore generale, nel 1935l’incarico viene affidato a Pietro Rondoni, toscano diSan Miniato, direttore dell’Istituto di patologia generaleall’Università di Milano, studioso degli aspetti biochi-mici dei tumori. Grande l’impegno di Rondoni nell’ac-crescere l’attività dell’Istituto e nel proteggerlo dallabufera della guerra. Terminato il conflitto dà notevoleimpulso ai rapporti internazionali: si ricorda che Ron-doni, recandosi a Stoccolma all’Istituto biochimico di-retto dal professore Euler, portò con sè sull’aereo, na-scosti in una tasca del vestito, due topolini da laborato-rio di una specie molto rara, assai utili per la ricerca on-cologica.

L’attività chirurgica aumenta di pari passo con losviluppo dell’Istituto.

L’Istituto cresce sotto la guida di Pietro Bucalossi cheda Primario della divisione di chirurgia viene chiamatoad assumere la carica di Direttore Generale alla mortedi Rondoni nel novembre del 1956. Anche Bucalossi eranato a San Miniato, come Rondoni. Di grande rigore

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morale, Bucalossi aveva pagato prima della guerra ilsuo antifascismo. “Questa sua passione politica -scri-verà Indro Montanelli nel 1992- impedì a Bucalossi diraggiungere nel campo della scienza le altezze cui l’in-telligenza e il sapere gli davano diritto”. L’obiettivo diBucalossi è di potenziare tutte le strutture dell’Istitutorendendole nel contempo più agili e più articolate. E frale iniziative dà un grande impulso alla chirurgia. Nel1957 il nuovo Direttore Generale apre le porte a nume-rosi assistenti volontari a titolo gratuito: Leandro Gen-nari, Gino Franco Lovo, Gianni Ravasi, Alberto Re, Bru-no Salvadori, Roberto Molinari, Enzo Vescia, FerruccioBianchi. Essi rappresenteranno la solida spina dorsale eprofessionale dell’Istituto nei successivi 40 anni.

Anni di grande lavoro che vedono sorgere il nuovoIstituto con Bucalossi al vertice nonostante gli impegnipolitici di Sindaco di Milano e di deputato. Nell’estatedel 1973 Bucalossi diventa Ministro e chiede il colloca-mento in aspettativa per incarico di Governo. Le fun-zioni di Direttore passano ad Umberto Veronesi, mila-nese, allievo di Bucalossi, specializzazione nel 1956,esperienze formative importanti al Centro di oncologiasperimentale del C.N.R., poi, nel 1954, al Chester BeattyResearche Institute di Londra con il professore Had-dow, grazie ad una borsa di studio della Lega per la lot-ta contro i Tumori e ancora a Lione presso Marcel Dar-gent. Una vita professionale nell’Istituto milanese, sinoa diventarne Primario chirurgo.

Un grande lavoro quello di Umberto Veronesi -di-venterà nel Duemila Ministro della Sanità con il gover-no Amato, primo chirurgo e primo socio della SocietàItaliana di Chirurgia al vertice della Sanità del nostroPaese- perché l’avvio della sua attività coincide non so-lo con una forte crisi economica in Italia con conse-guenze pesanti per la Ricerca ma anche per una semprepiù grande diffusione dei tumori.

Umberto Veronesi aveva acquistato notorietà nazionale

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ed internazionale per le straordinarie ricerche sulla chirur-gia del cancro della mammella e per la dimostrazione cheuna chirurgia limitata, la semplice asportazione del qua-drante mammario dove aveva sede il tumore, sortiva lostesso risultato della asportazione completa della mam-mella: aveva a tal fine dato vita a tre successivi Protocollidi Ricerca destinati ad entrare nella storia della chirurgia edel cancro, ribaltando il concetto di chirurgia regionale cheda Halsted in avanti aveva per quasi un secolo dominatola scena. Fu successivamente Presidente della Union Inter-nationale contre le Cancer, massimo organismo internazio-nale nello studio dei tumori, e promosse e realizzò il Mela-noma Research Program per combattere questo insidioso eferoce tumore, allora quasi sconosciuto.

La Scienza intanto fa altri grandi passi in avanti: si ècompreso che i tumori sono in larga misura determinatidall’ambiente e in queste cause ambientali vanno inseritianche gli stili di vita. E se i due terzi dei tumori sono diorigine ambientale, allora sono prevedibili, almeno in li-nea di principio.

E così Veronesi si lancia nelle campagne di prevenzio-ne coinvolgendo l’opinione pubblica. Dà grande impulsoalla chirurgia con nuove tecniche speciali all’inizio deglianni ‘90. Il trapianto di fegato prende il via nel 1991 nelladivisione diretta da Leandro Gennari, assieme alla chirur-gia dei sarcomi e alla chirurgia cranio facciale. Grandiprogressi anche nella cura del melanoma della cute nelladivisione diretta da Natale Cascinelli che diventerà Diret-tore Scientifico dell’Istituto e nella chirurgia toracica affi-data a Gianni Ravasi, che sarà per molti anni Vice Presi-dente Nazionale della Lega Tumori.

Nell’aprile del 1994 Umberto Veronesi lascia l’Istituto eva a dirigere il neonato Istituto Europeo di Oncologia, se-condo Istituto oncologico milanese in ordine di tempo.

Ma la Storia delle Scuole Lombarde di Chirurgiapassa da Pavia ben prima di Milano. In quella storicaUniversità, tra le più antiche in Italia, si erano alternatiper secoli grandi Maestri e, con lo svilupparsi dellaChirurgia moderna nella Seconda metà dell’800, era ri-masto un Centro di altissima qualità.

È il 1904. La carrozza proveniente da Milano arriva

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davanti al portone dell’Ospedale S. Matteo: un uscieresi affretta ad aprire lo sportello. Scende Harvey Cu-shing, celebre chirurgo americano e gli si fa incontroIginio Tansini, Direttore della Clinica Chirurgica del-l’’Università pavese. Cushing, fondatore della neuro-chirurgia, sta compiendo un giro nelle capitali europeeper aggiornarsi sui progressi della chirurgia. Pavia nonè capitale ma il neurochirurgo statunitense ha saputoche c’è una Scuola di grande valore, con un luminosopassato ed un importante presente, fondata da AntonioScarpa a cavallo tra il ‘700 e l’800 e perciò decide unasosta lungo il cammino per Roma dove lo attendono al-tri prestigiosi chirurghi.

Con Scarpa la chirurgia era uscita dall’empirismo edera diventata scienza costruita sui fondamenti dell’anato-mia e della patologia. E dopo Scarpa, c’era stato LuigiPorta con la sua tecnica personale per l’asportazione delgozzo, precedendo Teodoro Kocher, fondatore della Scuo-la di Chirurgia fisiologica, a cui invece venne attribuito ilmerito della priorità e più tardi il Premio Nobel.

Alla vigilia degli anni ’80, Enrico Bottini darà maggiorlustro alla Scuola di Pavia con l’ideazione di nuove tecni-che riconoscendo, prima di Lister, la proprietà disinfet-tante dell’acido fenico.

Quando Cushing entra nell’Università di Pavia –racconta Eugenio Forni Direttore della Clinica Chirur-gica, trovando l’aneddoto nel suo grande archivio riccodi documentazioni storiche- sa bene che in questo Ate-neo la Medicina ha uno dei suoi templi, addirittura puòvantare un Premio Nobel, Camillo Golgi, Professore diIstologia prima e poi di Patologia generale.

Convenevoli di rito, poi il chirurgo americano vieneaccompagnato da Iginio Tansini in sala operatoria. Cu-shing ha sentito molto parlare di una novità che Tansiniha introdotto nell’atto operatorio: la misurazione dellapressione arteriosa con un costante monitoraggio del

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paziente. E vuole rendersi personalmente conto. LaScuola Medica di Pavia ha una lunga tradizione, lo san-no bene oltre Atlantico, nello studio della pressione ar-teriosa: Scipione Riva Rocci nel 1890 ha messo a puntolo “sfigmomanometro al mercurio con rilevamento pal-patorio del polso”. Cushing vede Tansini che va a con-trollare l’andamento della pressione arteriosa e rimanecolpito. Lo attrae anche la tecnica operatoria del collegache può già vantare eccezionali innovazioni in campochirurgico, come nel caso della splenectomia, associataall’omentopessia, nel terzo stadio del Morbo di Banti.

Ed ai tumori si dedica Tansini sostenendo che l’unicacura efficace è quella della pronta e totale asportazionedel cancro o, meglio ancora, dell’organo intero che ne èsede. La ricerca rivolta ai tumori rappresenta l’idealeanello di congiunzione tra Tansini e il suo successore,Gaetano Fichera, siciliano di Catania ma romano di stu-di alla corte di Durante. Fichera guarda lontano, lavoraa Pavia – adesso il vecchio e glorioso Ospedale “S.Mat-teo” si è trasferito nel nuovo policlinico, ventinove annidopo l’idea originale di Golgi – e pensa ad un grandeIstituto tutto dedicato agli studi sui tumori e all’assi-stenza ai malati. Fichera lascerà la Cattedra di Paviaproprio per andare a realizzare il suo sogno a Milanoassumendo la Direzione alla nascita dell’Istituto “Vitto-rio Emanuele III°” che poi diventerà l’Istituto Naziona-le Tumori.

A Pavia la chirurgia esce dalla semplice tecnica conGiovanni Morone investendo anche le problematiche diordine etico. “Chirurgo può chiamarsi –era solito dire-solo colui che, Maestro di clinica e di tecnica, è ancheMaestro di etica e di morale. L’opera del chirurgo nonpuò prescindere da certi precetti morali e non può var-care certi limiti che la coscienza impone”.

In quegli anni sono sempre più stretti i rapporti fraPavia e Milano e sono diventati un lontano ricordo i“giorni della guerra per l’Università di Milano”, con

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Golgi in prima linea nel contrastare la nascita dell’Ate-neo voluto da Mangiagalli nel capoluogo della Lombar-dia. Con Giovanni Morone la Scuola chirurgica pavesescavalca il secondo conflitto mondiale. E il dopo guerraporta sul palcoscenico della Medicina grandi innova-zioni. Si allenta la morsa della tubercolosi ma si stringequella dei tumori e la tecnica chirurgica si affina.

Ma è anche il momento, in Italia, della nascita delleScuole di specializzazione. Non tutti sono d’accordo te-mendo che l’eccessiva specializzazione possa portarealla perdita della visione di insieme della chirurgia. Èdi questa idea Francesco Paolo Tinozzi, Professore diChirurgia a Pavia per 26 anni dal 1938 al 1964, napole-tano di nascita da famiglia di origine abruzzese. Dopoaver parlato delle sue doti di diagnosta e di chirurgoCarlo e Giovanni Morone nella loro esauriente, docu-mentata ed appassionata opera dedicata ai Maestri del-la chirurgia pavese scrivono: “Tinozzi era convinto del-la necessità che sopravviva il chirurgo generale per evi-tare, con l’eccessiva specializzazione, il formarsi di pe-ricolosi compartimenti in cui procedere all’oscuro di ciòche avviene in altri settori della malattia, convinto cheogni branca chirurgica non possa considerarsi a sé stan-te ma che le varie conoscenze si debbano integrare sìche solo dal loro formarsi derivi la figura del vero clini-co”.

Tinozzi, nacque a Napoli nel 1894, da padre medico.Fu allievo, assistente ed Aiuto di Pascale. Lavorò a lungoa Berlino. Nel 1937 vinse la Cattedra a Pavia ed emigròper sempre nel ricco e tranquillo Nord. Fu Medaglia d’O-ro per meriti della Scuola. Anche suo fratello aveva lascia-to Napoli per fare il Primario Dermatologo a Varese. Suofiglio Stefano, che nacque a Pavia, ne seguirà le orme rag-giungendo in quella Università l’Ordinariato di Chirur-gia. Francesco Paolo Tinozzi morì la notte di Capodannodel 1973.Anche Giuseppe Salvatore Donati – ricorda Gian

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Massimo Gazzaniga suo Aiuto a Pavia – è stato clinicochirurgo a Pavia in quegli anni. Un lavoratore incredi-bile: entrava in clinica alle 8 del mattino e ne usciva alle22. Per impedire che gli Aiuti ma anche gli Assistenti,potessero dedicare uno spazio della giornata in attivitànon di ordine scientifico, aveva fissato la visita ai pa-zienti alle 21, quando ormai era già iniziato l’ultimospettacolo nei cinema di Pavia. Una lunga carriera lasua. Aveva sposato la figlia di un Prefetto e così unamattina, leggendo su un quotidiano che era morto ilPrimario di chirurgia all’Ospedale di Verona, aveva su-bito chiesto al suocero di dargli una mano per occuparequel posto. E si sa quanto contassero i Prefetti, in quel-l’epoca, sotto il Fascismo. A Verona Donati ha rivelatole sue grandi doti di chirurgo ma anche di uomo. Infattiha salvato migliaia di vite operando i soldati feriti nelsecondo conflitto mondiale trasportati nella città vene-ta, ma ha salvato anche centinaia di vite fra gli ebrei, fa-cendoli ricoverare nella divisione di chirurgia dicendoche erano pazienti bisognosi di un intervento chirurgi-co ed in condizioni disperate. Per giorni e settimane itrecento letti della Divisione di Chirurgia erano occupa-ti da ebrei o da renitenti alla leva. Donati – è sempre ilracconto di Gazzaniga – dopo Verona andò in Cattedraalla Università di Siena, ma mentre era a Verona nonaveva lasciato l’incarico d’insegnamento all’Ateneo diPavia. Da Siena tornò a Pavia alla Cattedra di PatologiaChirurgica con Tinozzi alla Clinica Chirurgica.

Dopo il 1964 divenne Clinico Chirurgo. Fu chirurgoeccellente, Maestro per una straordinaria serie di allievidisseminati oltre che nell’Università di Pavia comeCampione e Verga, anche in tanti grandi Ospedali ita-liani: Gazzaniga a Genova, Peruzzo a Como, Lungarottia Pesaro, Zampogna a Palmi, Vassallo a Stradella. Lu-ciano Peruzzo lo ha ricordato con affetto per il BollettinoSIC - Chirurgia Duemila.

Tra i grandi Maestri della Chirurgia, veri protagonisti

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del passato, non possiamo non ricordare Giuseppe Salva-tore Donati, scomparso nel 1982 alla soglia degli ottantaanni, con la sua figura scattante ed eretta nella quale,qualcuno di noi, affettuosamente intravedeva una leggerasomiglianza con il generale De Gaulle.

Ricordare il proprio Maestro fa sentire una fortissimaresponsabilità per il dubbio di non essere capaci a descri-verlo come meriterebbe, e dà una tristezza infinita perchéci si accorge che è venuto a mancare un importante puntodi riferimento che credevamo stabile e perenne. Non miparrebbe però giusto sottrarmi a questo compito perchéio ho collaborato con lui per moltissimi anni, sin dai tem-pi dell’esperienza veronese.

Nato a La Rasa di Varese nel 1902, studente esemplare,vinse una borsa di studio nel famosissimo Almo CollegioBorromeo dell’Università di Pavia dove si laureò potendofrequentare negli anni d’oro i laboratori e le corsie sotto laguida dei nomi famosi come Golgi, Perroncito, Ferrata eRiva-Rocci. Dopo la laurea entrò nella Scuola Chirurgicapavese, allora retta da Tansini, chirurgo di indiscutibilevalore – fu il primo a quei tempi a praticare un’anastomo-si porto-cava nell’uomo – che aveva preso a ben volere ilgiovane Donati, iniziandolo, lui stesso, alla chirurgia edaffidandolo al suo successore Morone, che lo tenne con sécome Aiuto, affidandogli l’incarico dell’insegnamento diAnatomia Chirurgica. Nominato, giovanissimo, PrimarioChirurgo degli Istituti Ospedalieri di Verona, GiuseppeSalvatore Donati per vari anni si trovò a dirigere, per unacuriosa circostanza – il chirurgo dell’altro reparto era sta-to destituito per aver presentato documenti falsi- tutte edue le Divisioni chirurgiche. Si può ben capire quantopossa essere stata, a dir poco, colossale la sua esperienzachirurgica, favorita dalla vastità della casistica, dalla invi-diabile infaticabilità, dalla pregressa formazione universi-taria e, soprattutto, dalla precisa e diligente manualità.

In seguito, volendo rientrare nella carriera universita-ria, Donati partecipò al concorso di Catania e fu chiamato(cosa rara a quei tempi per un ospedaliero) a ricoprire laCattedra a Sassari e a Siena. In seguito, dopo aver rifiuta-to Firenze, fu chiamato a Pavia.

Il Maestro fu in Italia il primo a capire i vantaggi dellamoderna anestesia, fondando una delle prime scuole dispecializzazione; fu tra i primi anche ad occuparsi della

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Chirurgia toracica e vascolare – in quest’ambito eseguìtrapianti di arterie – a praticare trapianti di rene, a rinver-dire con nuove tecniche il campo della gastroenterologia edelle vie biliari.

Forte dell’esperienza ospedaliera veronese, Donati futecnico di rara abilità ed infuse nei propri allievi – moltidei quali in Cattedra o apprezzatissimi Primari in Ospe-dali prestigiosi – l’entusiasmo del lavoro e della Ricerca.Direi che ci ha insegnato anche uno stile, un metodo, unacondotta, specie nella soluzione dei problemi, che cercavadi raccordare con l’esperienza della Scuola. Quando si ve-de operare i giovani chirurghi di questa Scuola, chi conmano ferma, chi con mano più felice o leggera, chi conmano più pesante o indecisa, se ne intuisce sempre l’ere-dità culturale (Bassini, Bottini, Tansini, Morone, Donatiecc…), sempre se ne intuisce la caratteristica partecipazio-ne ad un medesimo rito nell’équipe, formata, secondouna rigida gerarchia, dall’operatore, dall’aiuto, dall’unci-nista (sempre il più vessato: ti no far la gibigianna….),dallo strumentista e dal pezzista (forbici e temperini, viadalle mani dei bambini!).

Lavorare con Giuseppe Salvatore Donati non era faci-le, perché aveva un’attività frenetica, con vincoli impen-sabili ai giorni nostri, perché non concedeva un attimo dirilassamento, perché voleva forgiarci prima come uominiche come chirurghi, perché riteneva che in chirurgia sianecessario essere educati a fare sacrifici (come non ricor-dare la visita in reparto sempre iniziata proprio quandoapparivano, davanti al “S.Matteo”, i corridori ciclisti dellaMilano-Sanremo?)

Egli ha sempre desiderato, anzi voluto, come era giu-sto, che la squadra tendesse sempre alla perfezione nel-l’assistenza, ma allora, probabilmente, non ci eravamocompletamente accorti di quanto egli fosse stato capace diarricchirci in senso umano e professionale.

Se la vita accanto a lui era dura, era altrettanto gratifi-cante, perché sentivamo di essere accanto ad un grandechirurgo che con l’esempio insegnava a considerare il ma-lato, affidato alle nostre cure, il problema più importantein assoluto.

Forse severo e rigoroso con i suoi allievi, ma al lettodel malato, con il suo paletot di lana bianca, GiuseppeSalvatore Donati dimostrava una così alta umanità, bontà,

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dolcezza e signorilità che rassicurava l’animo dei pazienticon il solo avvicinarsi.

Donati non si fa trovare impreparato davanti ai pro-gressi scientifici e neppure davanti a quelli sociali. Èconvinto che l’Università debba uscire dai confini stori-ci della città e si batte per una seconda Facoltà di Medi-cina a Varese. Nel 1972 Donati vede realizzato il deside-rio con l’istituzione di corsi pareggiati. Nel 1990 il Con-siglio di Facoltà approva il decreto rettorale e la secon-da Facoltà a Varese ottiene il crisma dell’autonomia: laDirezione della Clinica Chirurgica è affidata a RenzoDionigi che darà lustro alla Scuola con la chirurgia dibanco del fegato ed operando Francesco Cossiga, l’uni-co Presidente della Repubblica Italiana finito sul tavolooperatorio nel XX° Secolo. Pertini finì solo su una sedia,rifiutandosi di distendersi sul letto, per farsi suturareda Franco Scutari a Roma, la ferita alla testa che avevariportato con una testata notturna contro uno spigolo.

Le novità incalzano nel mondo della Medicina. Ilsuccessore di Donati, Carlo Morone - è scritto nella giàcitata opera di Carlo e Giovanni Morone- “fu prudentenell’accettare le novità ad ogni costo, avendo visto falli-re tante speranze e di essa approfittarne in troppi. Dice-va che ogni specie di progresso, se l’edificio nuovo nonpoggia su sicure basi fondate dai predecessori, porte-rebbe a ricominciare sempre di nuovo…….Benedettadunque la sete del nuovo, unita sì alla scontentezza manon disconoscimento del passato”. Messaggi scientificima anche di comportamento quelli trasmessi da CarloMorone ai suoi allievi tra i quali Eugenio Forni, suosuccessore alla direzione dell’Istituto di Chirurgia Ge-nerale della stessa Università pavese.

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Cap. IX

SCUOLA VENETA

Sullo sfondo, quando si parla della Scuola Veneta, edi quella padovana in particolare, c’è sempre l’ombradi Edoardo Bassini. Con il suo rivoluzionario metodoper curare l’ernia. Ed anche per quel colpo di teatro cheè stato il suo addio all’insegnamento e al bisturi, quelmattino gonfio di nebbia quando si vede consegnare daun usciere un telegramma appena giunto da Roma conl’annuncio che il tempo della Scienza per lui è finito, èun chirurgo pensionato. In verità aveva superato il li-mite da tempo ma non si decideva ad abbandonare l’at-tività. Bassini lascia di furia la Clinica,si stringe il man-tello, monta a cavallo e si lancia al galoppo lungo il via-le verso la sua casa di campagna distante cinquantachilometri. All’Università non lo vedranno più.

Ma la Scuola Veneta non è solo Bassini. Ci sonograndi Maestri, addirittura un doge, ovviamente in la-guna. Ma prima di parlare degli uomini si deve riflette-re sul ruolo che l’Università di Padova ha recitato e re-cita sul palcoscenico della Medicina. È l’unica a detene-re il monopolio della didattica per secoli in questo an-golo d’Italia, prima della nascita dell’Ateneo di Triestee di quello diVerona.

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Ha ragione Giuseppe Pezzuoli che per anni ha inse-gnato a Padova prima di tornare a Milano, quando diceche “è un esempio di un’Università con intorno unaCittà. Forse solo Pavia può dire altrettanto. Padova èl’Università. Quando arriva un nuovo professore o unova in pensione, c’è la notizia sui quotidiani locali. E ildecesso va in prima pagina con foto, commemorazionee raffica di necrologi”.

Padova non è solo Bassini e non è solo una città conintorno un ateneo. Padova è la cultura che ha superatole proprie mura. Cultura che diventa egemonia quandosi proietta sul territorio, verso i borghi vicini, ma ancheverso città lontane. La cultura medica di Padova invadeper secoli le Tre Venezie. Quella di Padova non è cultu-ra solo autoctona ma è anche cultura di sintesi perchéda Bologna salgono insegnamenti preziosi, come puregrandi novità mediche scendono da Vienna, tempio eculla per decenni del sapere mitteleuropeo.

Di Maestri protagonisti dopo Bassini, Padova ne hatanti. C’è chi arriva da lontano, costruisce sapientemen-te una Scuola e ritorna lontano per migliori fortune Co-me Mario Donati che occupa la Cattedra che era statadi Edoardo Bassini. Veniva dalla Scuola Torinese diCarle ed a Torino torna alla morte del suo Maestro; saràanche Presidente della Società Italiana di Chirurgia. Epoi Gianmaria Fasiani anche lui proveniente da Torino,ed anche lui sarà Presidente della Società, darà impulsoalla chirurgia toracica ed alla neurochirurgia, prima diandare a Milano. Anche Guido Oselladore riprenderà lavia della Lombardia, come successivamente Pezzuoli ePeracchia.

Ma ci sono figure che giungono a Padova e qui ri-mangono, chirurghi eccelsi come Pettinari arrivato daMilano che sceglie Padova per sempre e dà vita ad unagrande Scuola. Emigreranno invece i suoi allievi: Casti-glioni a Roma, con Crucitti, Landi, Loiacomo per darvita alla Università Cattolica.

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Sceglie Padova per sempre anche Galeno Ceccarelli,maremmano, figlio di un medico condotto ed anche luiper alcuni anni sulle orme del padre nella terra deglietruschi. Aiuto ospedaliero a Pontedera medico diguerra a curare feriti per quarantadue mesi nel primoconflitto mondiale, allievo di grandi chirurghi a Viennae poi esperienza in Cattedra a Bari e a Perugia. PartitoFasiani nel 1939 per Milano, Ceccarelli viene chiamatoa Padova. Una sorpresa per tutti perché il nome più ac-creditato era quello di Achille Mario Dogliotti. Quelchirurgo venuto dalla Maremma non si limita a dareimpulso alla chirurgia ma apre all’anestesia fondandouna scuola di anestesiologia e dà vita alla Società Trive-neta di Chirurgia. Ceccarelli regna quasi da sovranoper lunghi anni su tutta la chirurgia del Veneto, dall’U-niversità agli ospedali. Un dominio, con poteri assoluti.Carlo Adolfo Carlon, suo allievo, Maestro della chirur-gia a Padova, ricorda Galeno Ceccarelli durante i fe-steggiamenti per l’ottantesimo compleanno.

Nel campo della Chirurgia addominale il Prof. Cecca-relli sistematizza una tecnica di resezione gastrica nellacura dell’ulcera gastroduodenale, tecnica tutt’ora validaed alla quale nessuno dei suoi Allievi riesce ad apportaremiglioramenti, data la bontà eccezionale dei risultati. In-tuisce i vantaggi della vagotomia, già preconizzata dalloSchiassi e dal Pieri e la impiega largamente nella cura del-l’ulcera peptica. Approfondisce gli studi sulla terapia chi-rurgica del megaesofago e del megacolon, tanto che suquesti due argomenti è relatore a Congressi della SocietàItaliana di Chirurgia. Applica su larga scala le tecniche diMiles e quelle con conservazione dello sfintere nella curadel cancro del retto. Né trascura sempre nuovi accorgi-menti nella tecnica della terapia chirurgica delle vie biliarie del pancreas.

Ricordo che durante una visita di un gruppo di illustriChirurghi inglesi del Surgeons Travelers Club ed un’altradel Prof. Holman di New York svolge delle sedute opera-torie complesse e brillanti che destano l’ammirazione de-gli ospiti i quali, il giorno dopo, desiderano visitare gli

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operati e restano meravigliati delle loro eccellenti condi-zioni postoperatorie. Prende contatto con la chirurgia car-diaca nell’ultimo decennio della sua carriera. Nel ’49, in-fatti, mi invia in America a tale scopo ed, al mio ritorno,facendosi mostrare la tecnica degli interventi cardiovasco-lari allora in uso, in pochi anni riesce ad imporre all’atten-zione dell’Italia Chirurgica i suoi risultati operando più di900 malati.

Intanto ci sprona nello studio e nella ricerca in questocampo e proprio dalla sua Scuola escono alcuni fra i pri-missimi lavori sulla circolazione extracorporea, studiata erealizzata da Mondini. Contemporaneamente mi stimolaa portare a termine la preparazione per l’impiego dellatecnica dell’ipotermia di superficie, da lui attuata fra i pri-mi in Italia, assieme a Dogliotti ed a Valdoni.

Altro Maestro, allievo e successore di Ceccarelli, èPier Giuseppe Cevese. Vicentino di nascita, laurea a Pa-dova, nel ‘56 ottiene la Cattedra di patologia chirurgicaa Sassari da dove passa a Padova per assumere nel 1964la direzione della Clinica Chirurgica che regge fino algiorno del suo pensionamento nel novembre del 1985,lo stesso mese e lo stesso anno in cui il suo allievo, Vin-cenzo Gallucci, diventato direttore della Divisione diCardiochirurgia, compie, per la prima volta in Italia, untrapianto di cuore. Profondo ed accorato il suo dolore ilgiorno della morte di Gallucci a seguito di un incidentestradale.

“Cèvese è stato un grande chirurgo e un grande Mae-stro – dice Davide D’Amico, suo allievo e suo successorealla Cattedra di Padova, Presidente della SIC dall’ottobre2000 per un biennio – pur avendo sempre agito nel pienosolco della tradizione chirurgica è stato un precursoredelle nuove tecniche. Queste novità le ha accettate manon cavalcate e soprattutto non le ha ostacolate. In uncerto senso ha anticipato il futuro perché nel suo testa-mento rivolto agli allievi li invita a prestare molta atten-zione alle nascenti tecniche dei trapianti”. D’Amico deli-nea così la figura di uomo e di scienziato di Cèvese.

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Nato nel 1914 a Vicenza il Prof. Cèvese aveva avutouna vita studentesca normale, ma una carriera universita-ria inizialmente tribolata per le vicissitudini del tempo.L’amore per la chirurgia lo aveva avvinto da subito e, do-po un periodo di proficua preparazione in patologia ge-nerale ed in medicina legale, abbracciò definitivamente lachirurgia a cui dedicò tutta la sua vita.

Allievo del Prof. Galeno Ceccarelli, subì tutto il fascinoche questo chirurgo toscano sapeva emanare e si integròtotalmente in quella Scuola tanto da diventare l’allievoprediletto.

Né la guerra né le privazioni smorzarono il suo entu-siasmo chirurgico, rafforzatosi anzi con l’esperienza vis-suta sul campo mentre intorno al padiglione dove opera-va era tutto un grandinare di bombe. La chirurgia lo fecegrande e lui fece grande la chirurgia dedicandovi attività,impegno, cultura.

Naturalmente dotato di intuizione e manualità seppeben presto imporsi sugli altri Colleghi, anche più anzianidi lui, venendo così prescelto per essere tornato qualeProfessore Universitario e chiamato alla Cattedra di Sas-sari all’età di 40 anni.

La Sardegna lo avvinse: quei luoghi, quella gente, queicolleghi di Facoltà hanno reso i suoi tre anni di perma-nenza in quella sede particolarmente felici ad onta deinon pochi disagi economici e familiari che ha avuto. InSardegna consolidò il suo già ricco bagaglio chirurgicocoadiuvato da allievi validi e volenterosi.

Al suo ritorno a Padova, prima dell’inizio degli anni’60, si trovò quindi fortificato, sicuro di se e delle sue pos-sibilità chirurgiche. Da vero pioniere esplorò tutte le stra-de della moderna chirurgia: da quella pediatrica a quellacardiovascolare, dall’anestesia alla chirurgia d’urgenza,dall’oncologia al trapianto di rene. Il nuovo lo entusia-smava e lo affrontava con determinazione ed interessescientifico e pratico.

Il suo nome cominciava intanto a farsi sempre più no-to nel mondo chirurgico e la sua figura di Professore sem-pre più “baronale”; baronia però sempre conquistata con-cretamente sul campo e mai frutto del ruolo rivestito. Ilchirurgo Cèvese circondato da allievi, cominciava così adiventare il Maestro Cèvese ed il bagaglio chirurgico sem-pre più ampio contribuì a creare quella veste carismatica

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che dal 70 in poi l’accompagnò per tutta la vita. La sua“credibilità” chirurgica, frutto di sapere profondo e digrande cultura si diffuse in tutto il Triveneto di pari passocon la sistemazione dei suoi Allievi, ben 12 hanno rico-perto il ruolo di Primario Chirurgo nella regione.

Morti Valdoni, Stefanini, Dogliotti, Ruggeri e Malan, ilsuo nome si colloca ai vertici della chirurgia italiana. Ne-gli anni ‘70-‘80, consolidata la sua personale posizione na-zionale, cominciavano ad entrare nelle terne di vincitoridi Cattedra gli Allievi della sua Scuola Chirurgica: Vec-chioni, Morea, Gasparetto, Gallucci, Guglielmi, Giron, Li-se, Casarotto, Pedrazzoli e chi scrive queste note.

Alla Cardiochirurgia dedicava intanto il meglio dellesue energie e dei suoi sforzi finalizzati al raggiungimentodell’obbiettivo del trapianto di cuore.

Uomo, solo apparentemente semplice, andava “deci-frato” in quello che diceva ed in ciò che faceva. Mise a di-sposizione di chiunque ne avesse bisogno la sua grandearte chirurgica, mai per mero fine di lucro. Onesto eschietto con i malati, amava vederli, seguirli, essere infor-mato delle loro personali vicissitudini. Dotato di eloquioelegante e forbito, amava compiacersi delle conferenzeche teneva, delle lezioni e letture rivolte agli studenti edagli specializzandi ai quali forniva il suo sapere con sem-plicità e naturalezza non comuni.

La “sala operatoria” era il suo vero rifugio. Il luogodove legittimamente poteva appartarsi per sfuggire aquanti lo assillavano con richieste o con colloqui inutili.Apparentemente altero e freddo era fondamentalmenteun uomo tenero e timido che negli ultimi anni visse rin-correndo la serenità. I suoi moltissimi hobbies, che l’ac-compagnarono per tutto l’arco della vita accademica,quando questa cessò si esaurirono anch‘essi facendoglisentire spesso il gran peso della solitudine. Gli ultimi suoianni li ha dedicati all’arte poetica, a quell’arte che vivevain lui grazie alla sua radicata formazione umanistica.

Un giorno, al ritorno da un viaggio, mi fu comunicatoche il Professore aveva urgente bisogno di vedermi. An-dai a trovarlo a casa e mi rese partecipe del suo stato dimalattia, con una malcelata amarezza per essere stato col-pito proprio da uno di quei mali alla cui lotta aveva dedi-cato il meglio della sua ricerca clinica e sperimentale. Miinformò di tutto in modo pacato, mentre un senso di fred-

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do e di vuoto si impossessava di me, parlando non da uo-mo malato, ma da cattedratico che non vuole rinunciareal suo ruolo neanche in fin di vita.

Cercando di minimizzare egli concluse: cerca Vecchio-ni, Lise, Giron e venite qui da me perché voglio essereoperato subito. Arrogantemente attaccato come Bassini alsuo credo chirurgico, confidava solo nell’atto operatorio;non sapeva o non voleva riconoscere che la malattia eratanto avanzata da non consentire già più alcuna soluzionechirurgica. E tutto finì qui.

Il resto fa parte della storia di un uomo che prima dimorire ha dovuto soffrire molto. È morto secondo il suostile, come ha vissuto, rifuggendo dal legittimo clamoreche la sorte di ogni “grande” naturalmente suscita.

Grandi personalità ci sono anche nel mondo dellachirurgia ospedaliera di Padova, come Carlo AdolfoCarlon, contemporaneo di Cèvese. “Un chirurgo natu-rale, un chirurgo nel senso pieno della parola, strenuooppositore concettuale dell’egalitarismo ed inflessibilesostenitore dei valori individuali. La sua linea di pen-siero improntava il suo agire in ogni momento e condi-zionava efficacemente i suoi collaboratori nella convin-zione di dover raggiungere elevati standard come mo-delli di imitazione e considerando la propria professio-ne chirurgica come un mandato essenziale”: così lo ri-corda l’allievo che ne ha raccolto l’eredità alla Divisionedi Chirurgia dell’Ospedale di Padova, Enzo Zotti, vicepresidente della Società Italiana di Chirurgia nel 2000,Senatore della Repubblica negli anni ‘90.

Il Maestro ha affrontato con lucidità le speranze ed idrammi del nostro tempo, opponendosi alla schiavitù delmondo tecnico ed all’affermazione delle super stizioni edell’ignoranza. Sapeva riconoscere i limiti della propria li-bertà nel rispetto di quella altrui sostenendo sempre chenon tutto ciò che si può fare, lo si deve fare e nei rapportifra professione me dica e fede lo guidava la convinzioneche una scienza in conti nuo progresso e rinnovamentoavvicina per vie profane alla san tità.

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Il suo orientamento storicisti co di fondo non lo tennemai lon tano dall’essere moderno. Rifug giva a priori dallaroutine e, rifa cendosi nella sua concettualità educativa aigrandi chirurghi mit teleuropei, cercava con tenacia unmiglioramento degli stan dards educativi nella formazio-ne di clinici ed uomini. Univa, come in Billroth, l’amoreper la fisiolo gia e per la storia della medicina per portarecosì l’allievo ad un concetto unificato del mondo vi vente.Legato intimamente ai ri cordi del passato, sapeva essereallo stesso tempo un uomo pratico; rifiutava, con dovero-so ri spetto il classico approccio ana tomico del Vesalio pre-ferendogli con maggior concretezza un insegnamento to-pografico di anatomia chirurgica attraverso un’assiduitàoperatoria senza li miti.

Innamorato della chirurgia, ha saputo trasmettere a chigli stava vicino l’eccitazione ed il dramma nella cura delpaziente e la gioio sa ebbrezza della sua guarigione; appa-riva, così, evidente la sua ap partenenza a quel ristrettogrup po di persone nelle quali la dupli ce conoscenza dellanatura e dei sentimenti dell’uomo risulta rap presentata inun perfetto equili brio.

Nativo di una terra tanto avara quanto tenace, ha con-siderato l’impegno personale come fatto re essenziale diconquista; ama va, per ricordi di infanzia, e non certo perpratica abituale, il gioco delle carte e nella sua ricca pro -fessione chirurgica ha testimo niato che la vita non è maiun’agevole mano di buone carte, ma un buon gioco conuna brutta mano. La sua eccellenza è dipe sa, in gran par-te, da una singolare capacità di adeguamento ai biso gni;bisogni del paziente o dei suoi più giovani colleghi conco stanti richiami all’etica clinica che, con lui, ha trovatonella cor sia ospedaliera la sua sede ideale e più adatta. Lasua medicina è sempre stata un’impresa etica impregnata,in singolare commi stione, di dubbi e certezze. La medici-na è la scienza dell’incer tezza e l’arte della probabilità,ma con il Maestro si superavano le difficoltà di ogni gior-no attra verso una competenza acquisita con la formazio-ne universitaria e con la successiva formazione chi rurgicapermanente.

Primario a Venezia per quasi 40 anni anche un “Do-ge” ha dominato la chirurgia del Veneto. Perché Doge

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era Davide Giordano, “il chirurgo delle venticinquemi-la operazioni”, impegnato come medico sul fronte dellaPrima Guerra Mondiale, amministratore ospedaliero,Sindaco dì Venezia e Senatore del Regno. “Un gravissi-mo lutto della scienza e di Venezia”, così titola il 2 feb-braio del 1954 Il Gazzettino dando la notizia della mortedi Davide Giordano all’età di novanta anni.

Davide Giordano era nato a Courmayeur, in provinciadi Aosta, il 22 marzo del 1864, da Giacomo e da SusannaUgon. Laureatosi in medicina e chirurgia il 6 luglio 1887all’università di Torino discutendo una tesi sulla non spe-cificità della osteomielite, con il prof Ferroncino Giordanosi dedicava successivamente a profondi studi in vari isti-tuti di anatomia patologica e di bacteriologia.

In seguito esercitava la professione nell‘ospedale Val-dese di Torre Pelice e come medico di quella condotta fin-ché nel 1891, veniva chiamato a Bologna dal prof Novaro- che l’aveva conosciuto a Torino e ne aveva subito intuitole promesse - il quale lo volle con sé in sede universitariaincaricandolo prima della direzione del laboratorio an-nesso alla clinica chirurgica e poi dell’insegnamento dellamedicina operatoria.

Nel 1894 il Giordano appena trentenne concorreva alposto di primario chirurgo all’ospedale civile di Venezia eriusciva primo fra tredici valorosi competitori. E al suoposto egli restava, amato e ammirato, fino al 1934, finocioè al raggiungimento dei limiti di età imposti dalla leg-ge. Maestro impareggiabile, non solo dei suoi allievi, maanche dei numerosissimi medici italiani e stranieri che ac-correvano a Venezia, il Giordano, che era tra l’altro liberodocente di clinica chirurgica, impartiva delle lezioni allascuola dell’ospedale di Venezia (scuola istituita per la ge-nerosità del Minich), e l’aula era sempre affollata di medi-ci desiderosi di apprendere dalla viva voce dell’insignechirurgo le chiare spiegazioni scientifiche e di assistereagli interessantissimi esperimenti pratici perché egli fu unMaestro nel senso più assoluto e tuttavia meno scolasticodella parola.

Durante la grande guerra del 1915- 1918 il Giordano fuconsulente della terza Armata e dopo la rotta di Caporet-to assunse la direzione dell’Ospedale di Venezia, col fer-

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mo proposito di non abbandonare assolutamente la cittàper nessuna ragione, neanche in caso di invasione nemi-ca.

Anche nella vita pubblica il prof Davide Giordano eb-be la sua parte. Con Orsi e Giurati fondò l’Alleanza nazio-nale” nucleo dei partiti così detti d’ordine nella lotta con-tro i demosocial-comunisti. Nel 1920, presidente della“Alleanza nazionale“ guidò a Venezia la battaglia eletto-rale amministrativa contro i socialisti: eletto primo dellalista fu nominato sindaco. Fu poi Commissario del Comu-ne e per quattro anni resse con illuminato giudizio le sortidella città lagunare.

Membro del Reale Istituto veneto di scienze lettere edarti, del quale fu altresì presidente, il Giordano era puremembro di numerose società e accademie nazionali edestere, fra le quali le Accademie di Medicina e Chirurgiadi Parigi e del Belgio. Fu l’unico dei chirurghi, in Italia, adessere membro della famosa Accademia dei “Curiosi del-la natura”: la “Kaiserlich Deeutsche Akademie der Natur-vorscher”.

Tre volte presidente dell’Ateneo Veneto, fu presidenteanche del settimo Congresso della Società internazionaledi Storia della medicina, commissario dell’Istituto supe-riore di studi commerciali di Cà Foscari di Venezia, ecc.Fra le importanti opere e monografie che si debbono allasua penna di scienziato circa 400 pubblicazioni vannoparticolarmente ricordate: “Manuale di chirurgia operati-va” (Torino, 1894), “Chirurgia renale” (Torino, 1898),“Compendio di chirurgia operatoria italiana” (Torino,1911), “Conferenze di chirurgia in tempo di guerra” (Tori-no, 1917), “Lezioni di clinica chirurgica” (San Daniele delFriuli, 1930; Milano, 1931), “Scritti e discorsi pertinenti al-la storia della medicina e ad argomenti diversi” (Milano,1930). Il 12 settembre del 1924 il prof Davide Giordanoveniva nominato senatore del Regno.

Lasciato l’incarico all’ospedale civile di Venezia, ilprof. Giordano si ritirava a vita privata nella intimità del-la sua casa, trasformata in preziosa biblioteca- in ognistanza, in ogni angolo vi sono libri riguardanti il suo stu-dio prediletto- attendendo alacremente alla compilazionedi un poderoso lavoro: una “Storia della chirurgia” ch’e-gli solo poteva e doveva fare, e per la mole e per la com-petenza specifica e per la tenacia ch’egli possedeva.

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Sono ancora vivi nella memoria i grandi festeggiamen-ti che Venezia ha tributato all’“Uomo delle 25.000 opera-zioni chirurgiche” chè tante ne aveva fatte, e più, nellasua lunga e intensa carriera il 22 marzo del 1944, in occa-sione del suo ottantesimo compleanno e, cinque anni do-po, il 22 marzo 1949 all’ospedale Civile dove, in quell’oc-casione, veniva scoperto un suo busto nella Sala Capitola-re, opera che il prof Scarpabolla aveva modellato ed espo-sto alla XVI Biennale dove l’ex re Vittorio Emanuele l’ac-quistava donandola alla città che l’aveva destinata. pri-mieramente, alla Galleria di Cà Pesaro.

Padova regna sovrana per secoli e secoli sulla scenadella Medicina veneta fino a quando, siamo alla finedegli anni ‘60, l’Università avverte l’esigenza di do-versi espandere sul territorio regionale. “Padova me-dica -dice Davide D’Amico -ha un numero esorbitantedi studenti e vuol replicarsi in Veneto. C’è una provin-cia, quella di Verona, che non ha una Scuola Universi-taria di Medicina, anche perché i giovani del Veronesesentivano forte l’attrazione del secolare ateneo di Pa-dova. Sono anni di grande impegno per dar vita allaFacoltà di Medicina a Verona. Un lavoro intenso so-prattutto da parte di Cèvese, del patologo generaleRossi e di Patrassi, preside della Facoltà di Medicina.Alla fine degli anni 60 prendono il via i Corsi a Veronadove si apre la sede distaccata dell’ateneo di Padova.Alla fine degli anni 70 l’Università ha una sua autono-mia”.

Ha preso così corpo l’ateneo di Verona che, pur nellasua breve esistenza, sta occupando un posto di rilievoin campo nazionale ed internazionale. Basti citare ilCongresso che ha visto riuniti, ad iniziativa della So-cietà Italiana di Chirurgia sotto l’egida dell’Università,con la presidenza di Roberto Vecchioni, i chirurghi ita-liani e quelli dei Paesi dell’Est Europeo nel giugno del1999.

Infine Trieste estremo Nord-Est, dove il Risorgimen-

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to è finito 50 anni dopo che nel resto d’Italia e dove lachirurgia ha una straordinaria e complessa storia.

“Si può parlare di un genius loci chirurgico per Trieste –scrive Piero Pietri in una conferenza, poi data alle stampe,in occasione del II° Congresso Nazionale del CollegiumChirurgiae Digestivae nella città giuliana - perché qui so-no nati Johann von Dumreicher che diresse la I° ClinicaChirurgica dell’Università di Vienna dal 1849 al 1880 e fusuo discepolo un altro triestino, Albert Mosetig, divenutoprofessore straordinario di chirurgia nella stessa Univer-sità. Teofilo Koepl, discepolo e seguace di Kern, chirurgoper otto lustri a Trieste è il primo ad allacciare nel 1822 lacarotide primitiva. E Trieste può vantare una statistica perquei tempi, 1835-1842, eccezionale in tutta Europa per leoperazioni della pietra, ossia la calcolosi vescicale conuna mortalità appena del 2,5 per cento”.

Trieste è una tra le sedi in cui la tradizione della chi-rurgia di Billroth fa registrare una delle più rigogliosefioriture. In pratica, la città giuliana può esprimere ilsuo volto medico in quanto parte dell’Impero Asburgi-co la cui capitale, Vienna è divenuto il centro propulso-re mondiale dell’insegnamento e della ricerca scientifi-ca. Vienna ma anche Graz e Praga diventano le sedi de-gli studi dei figli della aristocrazia e della borghesia diTrieste che possiede un Ospedale grandioso e ben at-trezzato e che, anche se con fatica, regge l’urto del tem-po.

Alla fine dell’Ottocento la scena della chirurgia trie-stina è dominata da Arturo Menze che dà vita ad unaimportante Scuola nella quale spicca Teodoro Escher,che ha vicino due allievi di Billroth, Gustavo Usiglio eAdolfo Dolcetti, primo a Trieste a suturare il cuore diun giovane, leso da una ferita. E nella prima parte delNovecento sono numerosi e valenti i chirurghi triestinisotto l’influsso della scuola di Billroth, come AlmerigoD’Este, Renato Gandusio, Ettore Nordio, Emilio Comis-so e Ettore Oliani.

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Con la Ia guerra mondiale e dopo la guerra,il Chirur-go di Trieste è Nicolich, italiano nel cuore. Sarà lui ilPresidente del Congresso della Società Italiana di Chi-rurgia del 1919, il Congresso della pace. Nella Triesteitaliana scompaiono le vestigia della Scuola austriaca ela Medicina si appoggia a Padova, grande e storica Uni-versità italiana, regina del triveneto medico.

È dopo la IIa guerra mondiale che sorgono a Triestevelleità ed esigenze per una Facoltà di Medicina. C’è ungrande padrino a Roma per questa ambiziosa operazio-ne. È Pietro Valdoni, triestino di nascita, e grande clini-co chirurgo della “Sapienza”. Alla fine degli anni ’60 l’i-potesi diventa realtà ed una parte della grande ScuolaValdoni si trasferisce a Trieste: a gestire quella Chirur-gia e quella Facoltà andranno Monti, Leggeri, Nemeth,Forlivesi, Tardella, Liguori, l’anestesista Mogavero, ilcardiochirurgo Vaccari. Sarà una grande espansione perla Scuola Romana ed un felice connubio per quell’Uni-versità e quella città. Durerà tutto il Secolo che si chiu-derà con Aldo Leggeri, ancora Clinico Chirurgo e Presi-de della Facoltà.

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Cap. X

ALTRA ITALIA CHIRURGICA

“Il nuovo Primario, giovane entusiasta carico di no-zioni e di speranze raggiunse la nuova sede con l’iniziodel nuovo anno. Era il momento migliore per iniziare lapiù importante avventura professionale della sua vita.Si era guadagnato la nuova posizione con un duro con-corso, nel quale i suoi meriti erano stati debitamentesupportati dal suo Maestro, dalla stima di cui godevanell’ambito professionale ed in alcuni ambienti politici.

Trovò una corsia vuota ed una sala operatoria assaisimile ad una cucina di una casa di campagna abban-donata. Trovò anche molti sorrisi del poco personale in-fermieristico, di qualche collega di altre specialità, degliimpiegati e delle autorità amministrative dell’Ospedalee la tiepida solidarietà di quelli che dovevano diventarei suoi diretti collaboratori”.

Per tutto il XX° Secolo, specialmente prima dellariforma Ospedaliera del 1968, molte, anzi moltissimebiografie di Chirurghi potevano cominciare come so-pra, ovunque nel nostro Paese.

Cominciò anche così, nel 1929, la vicenda di Ema-

nuele Santoro, già aiuto universitario a Napoli di Pasca-le, poi Primario incaricato ad Ortona e Pescara, cata-

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pultato per concorso a Matera per creare quello che nonc’era mai stato.

Prima aveva vinto alle prove un Primariato a Firenzema lo aveva poi perso ai punti, perché le regole del Re-gime prevedevano punti importanti per ogni figlio e luiche di figli non ne aveva non essendo sposato, dovettelasciare il campo ad un padre di famiglia.

A Matera l’Ospedale era arroccato in cima ai Sassi.La povera gente risaliva i vicoli a fatica sino a quellagrossa casa grigia, cercando la salute possibile. I ricchiprendevano la lunga strada di Napoli, quella insommadella medicina più efficace ed efficiente, la stessa cheSantoro aveva fatto in senso inverso.

La Lucania era allora una terra poco conosciuta epoco abitata: un misto di valli verdi e di montagnebrulle, solcata da vicoli di campagna e da qualche stra-da bianca, costellata di rari abitati arroccati sulle colli-ne. Il tempo contadino vi scorreva con un ritmo assaidiverso da quello delle grandi città in via di industria-lizzazione. I vecchi ricordavano ancora, non senza no-stalgia, l’epoca dei Borboni e le successive scorrerie diCrocco e dei suoi briganti, armati dal revancismo diFranceschiello contro i Piemontesi. In quel primo mez-zo Secolo di Unità Italiana, lo Stato Nazionale avevafatto poco sentire la sua voce se non per chiamare allearmi ed alla guerra i giovani ed i meno giovani. Anchein Lucania molti non erano più tornati da quelle guerree molte donne, vestite in nero per sempre, continuava-no a piangere i propri morti e la propria gioventù mor-tificata.

Santoro, calabrese di nascita, portò in quell’Italia ab-bandonata il sapere acquisito nella Clinica Chirurgicadi Napoli, in tanti anni alla Corte di un grande Maestroe la sua esperienza maturata prima in guerra e poi inAbruzzo. Creò in pochi anni un Ospedale moderno perl’epoca. Scelse Matera per dare un senso completo allasua vita di uomo solo. Qui lo colse la seconda Grande

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Guerra. Qui nel dopoguerra, mentre già lavorava all’i-potesi di costruzione del nuovo Ospedale che poi ci fu,il suo cuore si fermò all’improvviso in un pomeriggiod’inverno.

Delle tante cose che scrisse mediche e sociali, quellesull’inizio del suo lavoro a Matera sono assai suggesti-ve.

Quando, alla fine del 1928, fui chiamato alla Direzionedell’O spedale Civile di Matera, in seguito a pubblico con-corso, rimasi in certo se accettare o no l’incarico, perché lecondizioni nelle quali si presentavano e l’Istituto e l’istitu-zione non erano tali da incoraggiare. Comincio col direche in quell’epoca a Matera non esisteva al cuna reale tra-dizione ospedaliera, tanto meno chirurgica; i malati fa -cevano capo, per i loro bisogni e quando ne avevano imezzi, ai vicini e importanti centri di Bari, Taranto e Po-tenza, già da tempo bene attrezzati con Istituti pubblici eprivati e con sanitari di riconosciuto valore, o a centri piùlontani.

L’Ospedale poi era costituito da appena due corsie, ca-paci ognuna di 10 o, al massimo, 12 letti, e da 6 piccole ca-mere. Vi era una mo desta camera operatoria e modestissi-mi locali d’uso comune. L’orga nizzazione dei servizi erarudimentale; il regolamento, adeguato a tali esigenze.

Dal punto di vista tecnico sanitario, negli anni prece-denti al 1929 poco o nulla si era fatto nel campo della Me-dicina generale, e l’attività chirurgica si era svolta con vi-site settimanali o quindicinali da parte di chirurgi che ve-nivano da altre sedi, di cui qualcuno di riconosciuto valo-re: omaggio postumo questo, ma vivamente sentito, allamemoria del compianto prof. Giulio Gianturco, giovanedi mente elevata e di cuor nobile, operatore valente, rapi-to giovanissimo alla sua non comune attività.

In sostanza l’assistenza ospedaliera non esisteva che inembrione, come del resto in molti centri dell’Italia meri-dionale. Si aggiunga, non ultima come importanza, la in-nata diffidenza di queste popola zioni, e la ripugnanza afarsi ricoverare in qualsiasi pubblico ospe dale, ritenuto,in senso generico, fino a pochi anni fa, come un luogo divana sofferenza o di vana attesa: e in ciò vi era molta par-te di verità.

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La mia primitiva titubanza ad assumere la Direzionedell’Ospe dale, in tali condizioni, è tanto più comprensibi-le se si considera che io dirigevo in quell’epoca l’Ospeda-le Civile di Ortona a Mare, ridente cittadina d’Abruzzo, el’Ospedale G. D’Annunzio in Pescara, ove avevo potutocompiere, in due anni e mezzo circa, un importante lavo-ro chirurgico. In quella Regione, veramente forte e genti-le, le istituzioni ospedaliere già da tempo hanno raggiun-to un alto grado di perfezionamento, e il livello culturaledella classe sanitaria è molto elevato; ciò, secondo, me,perché le popolazioni e le amministrazioni sono in genereanimate dal più vivo e schietto interessamento per i pro-pri istituti ospedalieri, e i Sanitari sono organizzati inassocia zioni culturali che hanno raggiunto grande svilup-po e notevolissima importanza. Qui invece tutto da rifare.

Rifare l’Ospedale: vale a dire ampliarlo, attrezzarlo,dotarlo di mezzi e di ambienti adeguati perché rispondes-se alle moderne esigenze dell’assistenza ospedaliera.Riordinare ed animare l’organizzazione, per dare tono evita e palpito a questa cosa inerte e monca.

Creare, o per lo meno dare inizio ad una tradizioneassisten ziale addirittura inesistente, in modo da elevarel’Istituto ad un li vello che non fosse lontano, in senso re-lativo, s’intende, da quello degli Istituti delle città vicine.Vincere le diffidenze del pubblico, vale a dire trasformarel’e ducazione del popolo, inspirando fiducia nella bontàdell’istituzione e nella onestà e serietà dei suoi mezzi edei suoi fini. Compito vasto, difficile e complesso. Fu for-se appunto la difficoltà e la complessità di tale compitoche mi allettò.

Ecco ora le cifre degli assistiti per gli anni che seguiro-no:

Nel 1929, primo anno di mia direzione, gli infermi ri-coverati fu rono 289; assistiti al pronto soccorso (interventiambulatori o d’urgenza)178; nel 1930, secondo anno, i ri-coverati furono 341; al pronto soc corso 231; nel 1931, ter-zo anno, ricoverati 376, pronto soccorso 219; nel 1932,quarto anno, ricoverati 422, pronto soccorso 244; nel 1933,quinto anno, ricoverati 515, pronto soccorso 308; nel 1934,sesto anno, ricoverati 629; pronto soccorso 318; nel 1935,settimo anno, ricoverati 596; pronto soccorso 326.

Le cifre dei tre ultimi anni sarebbero state sicuramenteassai più alte, per quanto riguarda i ricoveri, se nel 1933

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non ci fossimo visti costretti a rifiutare il ricovero a moltimalati per assoluta mancanza di spazio, e se nel 1934 enel 1935, per ragioni amministra tive, non avessimo rice-vuto l’ordine da parte della Congregazione di Carità dinon ammettere in Ospedale, salvo i casi d’urgenza, gliam malati indigenti della maggior parte dei Comuni dellaProvincia, che da anni non pagavano, e ancora non paga-no, il contributo con sorziale.

Raffaele Basso giunse a Catanzaro nel 1953. Proveni-va da Roma, dove era stato aiuto negli Ospedali conMaestri illustri, come Lucio Urbani e si apprestava a vi-vere una vicenda non dissimile da quella di Santoro aMatera e tanti altri altrove, prima e dopo di loro.

Catanzaro era in quegli anni centro commerciale eculturale di una Calabria sofferente, ancora priva di ef-ficaci vie di comunicazione con il resto del Paese, sen-za Università né grande industria. L’emigrazione pertutto il XX° Secolo aveva disperso i calabresi prima perle Americhe, da Brooklyn a Buenos Aires, poi in Au-stralia ed in Europa dal Belgio, alla Germania, allaSvizzera, infine nel ricco Nord d’Italia trasformandoTorino o meglio la Torino operaia in una città meridio-nale.

Catanzaro dunque rappresentava, in quel dopoguer-ra, il poco benessere contadino e la povertà industriale,insomma una Società che al moderno si affacciava confatica. Il nuovo Primario rappresentava appunto il mo-derno: la speranza che, venendo da Roma, portasse ilfuturo già cominciato. Basso, dopo la lunga esperienzaromana, era tornato con la guerra ed il dopoguerra nel-la natia Puglia ed aveva avuto un incarico primarialeall’Ospedale di Brindisi.

A Catanzaro l’Ospedale era arroccato in un vecchioconvento, poche corsie, pochissimi servizi, sale opera-torie da storia della chirurgia. Basso non si perse d’ani-mo e sentì nascergli un sincero amore per quella terraantica, forse perché quelle marine, quegli uliveti, i vico-

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li scoscesi di quella città, il sole che nasceva dal maresollecitavano il suo animo di artista.

Il lavoro superava le possibilità della struttura ospe-daliera e quella crescita, che l’impegno professionale diBasso vieppù stimolava, fece nascere l’esigenza di unnuovo moderno Ospedale. La necessità si acuì con il di-sastro della Fiumarella quando un treno delle FerrovieCalabro-Lucane precipitò in quel burrone provocandoquasi 80 morti e centinaia di feriti. L’Ospedale e l’operadei pochi medici non bastarono certo a far fronte allatragedia: qualcuno fu salvato per l’abnegazione dei me-dici e di Basso, altri morirono per impossibilità al soc-corso.

Nel 1964 si inaugurò l’Ospedale Pugliese e tanti gio-vani medici vi presero servizio. Tra essi, proprio conBasso, cominciò il suo lavoro Emilio Rocca, tornato da-gli studi a Pavia e destinato a succedergli nel 1978. Roc-ca sarà oltre che eccellente chirurgo anche grande pro-motore di attività scientifica e culturale, trasformandoin quel remoto angolo d’Italia, in centro di riunioni na-zionali di alto livello, organizzando per 20 anni a Copa-nello affollati Incontri Chirurgici.

Basso lasciò l’Ospedale dopo 25 anni di grande lavo-ro, aveva costruito una parte importante della Chirur-gia Calabrese moderna, l’Ostetricia, l’Urologia, avevadisseminato i suoi allievi in tutti gli Ospedali della re-gione da Soverato a Crotone. Si ritirò nella natia Puglia,per dedicarsi ai suoi interessi artistici ed alla pittura.Ebbe la fortuna di vivere fino ai 90 anni e di vedere suofiglio Nicola diventare Professore Ordinario di Chirur-gia a Roma.

Nella Calabria di quegli anni lavoravano altri chirur-ghi illustri. A Cosenza Giustino Brancadoro della Scuo-la di Napoli, che poi lascerà la Calabria per Roma ovefu per molti anni al “S.Camillo”. Brancadoro era succe-duto a Ludovico Docimo e fu sostituito da Antonio Pe-trassi. Docimo è stato capostipite di una illustre fami-

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glia di Chirurghi, che si trapianterà a Napoli con Roccoche sarà Clinico Chirurgo in quella Università e Presi-dente della Società Italiana di Chirurgia ed i suoi figliLudovico e Giovanni. A Reggio Calabria negli anni ’60fu Primario Antonino Spinelli Senatore della Repubbli-ca e Presidente della FNOM, padre di Pasquale che saràPrimario Endoscopista all’Istituto dei Tumori di Milanoe di Francesco Professore di Chirurgia Vascolare all’U-niversità di Messina.

Anche attraverso l’emigrazione dei medici o megliodei chirurghi l’Italia è diventata nel XX° Secolo più pic-cola e più unita. Ed il Sud povero è stato al centro diquesto fenomeno accogliendo professionalità valenti,altrove formate ed in cerca di affermazione e perdendotanti talenti emigrati verso le regioni più ricche di be-nessere e cultura, ove la loro crescita professionale sem-brava avere più garanzie.

Firenze, che fu capitale d’Italia prima di Roma, ebbeuna Scuola chirurgica prestigiosa ed una Università dialto profilo. Vi insegnò Giuseppe Corradi che vi finì lacarriera dopo essere stato Clinico Chirurgo a Roma do-po l’Unità. Vi insegnò nella prima metà del XX° SecoloEnrico Burci, Presidente della Società Italiana di Chi-rurgia dopo Francesco Durante e grande animatore del-la vita culturale di quegli anni. Vi insegnò anche PietroValdoni un solo anno nel 1947, lasciando poi la Catte-dra a Luigi Tonelli. Tonelli onorò la Scuola: fu grandeMaestro di chirurgia e di cultura, avviò alla chirurgiadue suoi eccellenti figli, Francesco che gli succedettenella Cattedra e Paolo, ospedaliero al Careggi. Firenzefu cinque volte sede dei Congressi Nazionali della So-cietà Italiana di Chirurgia nel XX° Secolo, presieduti dacinque Clinici illustri: Burci nel 1922, Camolli nel 1946,Severi nel 1967, Luigi Tonelli nel 1977 e Allegra nel1991. In Toscana ebbero luogo altri due Congressi Na-zionali, a Pisa nel 1905 ed a Montecatini nel 1950.

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A Firenze si sviluppò in parallelo una grande tradi-zione ospedaliera che vide, in successione negli stessireparti del “Careggi”, prima Emilio Greco, poi CarloMassimo ed infine Lamberto Boffi. E Boffi ha ricordatoGreco, con commozione, sul Bollettino SIC – ChirurgiaDuemila

L’uomo ha messo piede sulla luna ma…..SOS per ilPianeta Terra! Così titolava un suo editoriale TommasoGreco nel 1969 esprimendo i suoi timori per il dilagante,allora per la verità non così come oggi, rischio di inquina-mento dell‘ambiente e appellandosi ai giovani per garan-tire nel futuro una saggia gestione dei beni della natura.Ho citato questo suo scritto per testimoniare quanto mul-tiformi fossero gli interessi di un Uomo di Scienza anchese la sua preminente grande passione fu la Chirurgia cuidedicò il meglio delle sue doti nell‘intero arco della suavita professionale.

Laureatosi nel 1928, subito in Ospedale e subito inuna Divisione diretta da un illustre chirurgo, il prof. Stop-pato, finché sempre restando in ospedale, eccezionale perquei tempi, salì tutti i gradini della carriera fino al prima-riato dell’Arcispedale di S. Maria Nuova in una Firenzeche allora contava su due primari chirurghi ospedalie ri ealtrettanti universitari, laddove oggi se ne contano più ditrenta.

Ancora studente nel 1952 fui con lui e con lui rimasisempre avendolo come unico e amato Maestro, ancora oggiavendo impresso nella mente, nelle mani e nel cuore i suoiinsegnamenti: una volta ci disse “i progressi sono così rapi-di che voi dovrete operare in modo di verso da come mi ve-dete fare oggi, quello che invece non cambierà è il metodo eancora di più lo stile con cui fare il nostro lavoro”.

E metodo e stile, valori immutabili, sono la grande ere-dità che ci ha lasciato: un approccio diagno stico rigoroso,oculatezza e prudenza nell‘affrontare le difficoltà operato-rie e nel contempo non sot trarsi mai alla responsabilitàdei grandi rischi chirurgici ove si prospettino vantaggiper il malato, il tatto nell’informazione, la dignità di fron-te agli insuccessi, l’impegno quotidiano nell‘aggiorna-mento e, per quanto possibile con i mezzi di sponibili inOspedale, nella ricerca applicata alla clinica.

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Ma Tommaso Greco non fu so lo Maestro in corsia e insala ope ratoria, fu anche Uomo di Scienza -pubblicò oltreduecentocinquanta lavori - ed ebbe intuizioni geniali anti-cipando, talora di decenni, tec niche e trattamenti divenutipoi di comune acquisizione: nell‘ottobre del 1955 egli ten-ne una “storica” relazione - una delle tre previste dal pro-gramma - al LVII° Congresso della Società italiana di Chi-rurgia sul “Trattamento del cancro della mammella e del-le sue riproduzioni” nella quale indicò, tra l’altro pun-tualmente, il ruolo che poteva avere una chemioterapiacomplementare e la validità della chirur gia conservativain un‘epoca nella quale imperavano le grandi demo -lizioni.

Ai problemi del cancro dedicò gran parte della sua at-tenzione di studioso, affascinato dagli aspetti biologici e,inusuale per un chirur go, proteso verso una interpretazio -ne filogenetica e ontogenetica della proliferazione ‘fuoricontrollo” degna di un ricercatore di oggi.

Fu precursore e innovatore anche in sala operatoria: futra i primi ad operare il cancro del polmone, il cancro del-l’esofago, la stenosi mitralica: ho ancora vivo nella memo-ria il silenzio e l’emozione che dominavano la sala opera-toria al lorché il suo dito attraversò l’orec chietta del cuorebattente per lacerare la valvola.

Tommaso Greco non trascurò i problemi professionalie organizzativi. Propose il Dipartimento quando ancorapochi sapevano co s’era e già la sua Divisione ne era unmodello sperimentale: oltre 200 letti e una decina di aiutie assi stenti a molti dei quali aveva affi dato un settore spe-cifico, dalla uro logia alla ortopedia, dalla chirur gia toraci-ca a quella vascolare, la sciando autonomia e responsabi-lità a tutti, ma richiamando sempre all’uniformità di me-todi e al control lo dei risultati.

Fu anche un convinto asserto re della validità e dellapotenzia lità della Scuola certamente degna di essere valo-rizzata e stimolata soprattutto nella attività scientifi ca: an-che per questo nel 1959 fondò la rivista “Ospedali d’ItaliaChirurgia “, cui affidò molti dei suoi scritti e nella qualesono fino ad oggi comparsi centinaia di con tributi italianie stranieri. I suoi meriti dunque vanno ben al di là deisuoi successi professionali e dei benefici ottenuti dalle mi-gliaia di malati che ha curato: non solo ha lasciato tracceprofonde nei suoi Allievi che hanno cercato di riproporre

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in chiave moderna i suoi metodi e il suo stile, ma ha an -che onorato tutta la comunità chi rurgica nazionale.

Bologna la grassa, Bologna la Dotta.La storia culturale italiana a partire dal 1400 ha sem-

pre trovato nel capoluogo emiliano un grande punto diriferimento. Ciò vale anche per la chirurgia con i grandiMaestri che vi operarono dal XV° al XIX° Secolo: Barto-lomeo Maggi, Gaspare Tagliacozzi, Antonio Valsalva,Gaetano Tacconi sino a Pietro Loreta, uno dei sette pa-dri promotori della Società Italiana di Chirurgia.

Non meno importanti sono i Chirurghi di grande ca-pacità che vi lavorano nel XX° Secolo sino a GiuseppeGozzetti, grande propulsore dei trapianti di fegato inItalia morto prematuramente nel 1995. Durante il XX°Secolo il Congresso Nazionale si tenne quattro volte aBologna: presieduto da Ruggi nel 1917, Paolucci nel1935, Forni nel 1948, Possati nel 1981. E nel XXI° Secoloil primo Congresso della Società Italiana di Chirurgia,103° della Storia Sociale, avrà luogo proprio a Bolognapresieduto da Domenico Marrano, erede della grandetradizione chirurgica bolognese ed allievo di Pietro Ta-gariello.

Tra i Maestri del XX° Secolo ebbe un ruolo importan-te Placitelli che di tutti fu il più longevo.

Gaetano Placitelli ha attraversato il secolo,- ha scrittoAntonio Vio su Bollettino SIC –Chirurgia Duemila- viven-do da protagonista molte fra le più grandi, innovazioni econquiste della mo derna chirurgia. Nato a Fondi (Lati na)nel 1899 da antica e storica fa miglia, giunse alla soglia dei99 an ni in costante attività: era sulla no vantina quandoeseguì l’ultimo grosso intervento, poi si “adattò” a fare“solo” il Direttore Sanitario della prestigiosa casa di curabolo gnese da lui stesso fondata. Da buon “ragazzo del99” par tecipò, come il padre e il fratello maggiore, allaprima guerra mon diale. Completati gli studi a Roma, se-guì un grande chirurgo di scuola romana, il Chiasserini,

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all’Ospedale di Venezia. Qui incontrò quello che sarebbestato il suo Maestro, Ghe rardo Forni, poi insigne clinico epiù volte Rettore dell’Università di Bo logna. Seguì unalunga parentesi quale ufficiale medico della Marina, pri-ma nelle colonie, poi in Patria e, durante la guerra, sullenavi ospeda le: la “Po’”, silurata nella rada di Valo na, e la“Virgilio”. Una vecchia foto lo ritrae in plancia accanto aRaffaele Paolucci di Valmaggiore. Nel 1945 il ritorno a Bo-logna col Prof. Forni. Quindi, rapidamen te, la Cattedra diPatologia Chirurgi ca e la successione al Maestro in Clini-ca Chirurgica. In quegli anni, l’Istituto contava oltre 200letti e comprendeva reparti specialistici di urologia e chi-rurgia pediatrica.Quando vi entrai, nel 1958, ero l’ul timodei 34 assistenti, in gran parte volontari (solo 12 erano diruolo!) tutti però determinati ad affrontare lunghi studi esacrifici per appren dere l’arte chirurgica in una Scuola ditanto prestigio. Gli Aiuti erano Antonello Franchini e Leo-nardo Possati, che prese poi la guida della Scuola.

Il Maestro, dotato di una resi stenza fisica non comune,era in stancabile. Quando non impedito da impegni acca-demici, trascorreva l’intera mattinata in sala operatoria,alpomeriggio operava ancora in ca sa di cura, quindi rien-trava in Clinica per discutere programmi e casi stiche con icollaboratori e per la vi sita ai malati, comunqueirrinuncia bile, alternando opportunamente le varie sezio-ni. Alla fine, in genere non prima delle 21, scendeva im-perturbabile l’ampio scalone dell’i stituto, seguito, comeallora usava da tutta la numerosa schiera dei collaborato-ri, molti dei quali appariva no meno freschi di lui. L’ambi-to della sua attività chirurgica era vastissimo. In chirurgiaaddominale soprattutto lo stomaco (è del primo dopo-guerra la mono grafia sulla gastrectomia totale), vie biliari.il colon. Fu il primo ad interessarsi sistematicamente dellacolite ulcerosa, allora poco cono sciuta in Italia, tenendouna relazione al congresso S.I.C. 1958, a Genova. Perquanto concerne la chirurgia toracica, ne1959 riferì allaSocietà Medica di Bologna su 600 interventi di chirurgiapolmonare eseguiti nei 15 anni precedenti.

lnteressato ad ogni novità e progresso chirurgico, chevoleva comunque prima valutare molto attentamente esperimentare con prudenza, mise le basi per la chirurgiavascolare e cardiaca, eseguendo i primi pionieristici inter-venti. Nel 1969 creava inoltre in Clinica un Servizio di

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Bioingegneria, premessa per l’istituzione di una Scuolauniversitaria di Specializzazione in Tecnologie Biomedi-che.

Pur curioso di ogni campo della sua materia, fu peròanche tra i primi a cogliere la necessità di passaggio dallachirurgia “generale” nel senso più vasto del termine allaspecialistica ritenendo che il progresso in molti settori sa-rebbe stato possibile solo grazie a studi ed approfondi-menti particolari. Ecco allora l’identificazione e l’autono-mia di diverse branche che vengono tutte affidate ad al-lievi ed assumono la dignità di cattedra universitaria:Anestesia e Rianimazione (Cetrul lo), Urologia (Martelli).Chirurgia Sperimentale (Galletti), Chirurgia del cuore egrossi vasi (Pierangeli).

Nel contempo iniziò la ristruttura zione edilizia delvecchio Istituto, che proseguirà a blocchi per molti annipermettendo di giungere ad un assetto consono alle esi-genze tecniche ed assistenziali del tempo pur consenten-do di proseguire la normale attività.

Chirurgo estremamente meticoloso ed attento, esegui-va con mano delicatissima la dissezione dei tessuti evi-tando di traumatizzarli e curando particolarmente l’emo-stasi. A quegli allievi che intuiva giudicassero eccessivo iltempo dell’intervento, soleva dire: “ricordatevi che nes-suno vi chiederà mai quanto ci avete messo, ma com’èandata”. In effetti, è comune nella Scuo la ricordare i de-corsi particolarmen te favorevoli dei malati operati dalMaestro.

Ma tutta questa attività non impediva a Gaetano Placi-telli di coltivare un interesse extrachirugi co, la botanica,in cui era profondis simo, per lo studio e la frequenta zionedi manifestazioni e mostre. Spesso metteva in imbarazzo ipiù sperimentati collaboratori chieden do notizie su unfiore, di cui taluni ignoravano anche il nome, mentre a luierano note tutte le caratteristiche.

Profondamente legato alla sua terra laziale d’origine,aveva rico struito dai danni bellici la casa pa terna di Fondie l’aveva circondata di belle piante e di un vasto agru -meto. Vi si recava, quando poteva, durante il fine settima-na, giungendo a togliersi la giacca e la classica, im -mancabile cravatta nera, per indos sare jeans e guanti dipelle ed ese guire personalmente i lavori necessari, potatu-ra compresa. In quei momenti poteva rilassarsi e mettere

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da parte la “grinta” che gli era abituale in ambitoaccademi co e che dava a molti l’idea di per sona austera einaccessibile. Riser vato e signorile lo era sicuramente, perl’educazione ricevuta e probabilmente ancora di più per illungo servizio di ufficiale di marina e gli era più conge-niale comunicare con l’esempio quotidiano che con lun-ghi discorsi. Ma nel profondo conservava un’umanità cheemergeva soprattutto nel contatto con i malati che consi-derava il principale oggetto del suo interesse ed il motivofondamentale della sua attività, alla quale dedicare quoti-dianamente ogni energia.

Ricordo ancora che assieme ad un altro cattedratico siera reso disponibile per alcuni inter venti (nel suo caso lacommissurotomia mitralica) su persone provenienti dapaesi poveri (oggi diremmo extracomunitari). Così purericordo che quando il suo Maestro Prof. Forni, ormai vec-chio e malato, giaceva in una vicina casa di cura, uscendoa tarda sera dalla Clinica andava spesso a trovarlo e adaccudirlo personalmente.

Giustamente il Comune di Bo logna in riconoscimentoalla sua attività in ambito cittadino, gli assegnò il “Nettu-no d’oro”.

Per tutti gli elementi sopra esposti, tentare una sintesidella figura del Maestro è certamente arduo. Ma mi ven-gono in aiuto le sue stesse parole, tratte da uno scritto del1955, in cui definiva il “suo” modello di chirurgo: “ devepossedere vasta e consumata esperienza clinica e abilitàtecnica, preparazione scientifica e biologica, deve essereadusato a resistere alla fatica senza riposo, ad amare ilprossimo di infinito amore e a non cedere allo sconfortodinan zi alla diffidenza e all’incompren sione”. Un grandeinsegnamento, di cui tutti i suoi allievi hanno cercato difar tesoro.

Bologna chirurgica in questo Secolo è stata anche te-stimone e protagonista del grande gesto di Bartolo Ni-grisoli, Clinico Chirurgo della Università, successore diGiuseppe Ruggi, che rifiutò nel 1931 di firmare fedeltàal Fascismo ed abbandonò la Cattedra. Fu uno dei dieciAccademici, tra i più di 1200 dell’epoca di ogni Facoltà,che scelsero la libertà e persero il ruolo.

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Bartolo Nigrisoli era nato a Mezzano di Ravenna nel1858 da una famiglia di medici da cinque secoli. Si laureòa Bologna nel 1883 e subito fu assistente di Pietro Loretache, proprio in quegli anni, era stato uno dei sette promo-tori della fondazione della Società Italiana di Chirurgia.

Ma nel 1888, appena trentenne, lasciò l’Università pergli Ospedali. Andò Primario prima a Castiglion Fiorenti-no, poi a Ravenna nel 1890 ed infine nel 1905 all’OspedaleMaggiore di Bologna. Fece un grande lavoro chirurgico inquegli Ospedali ed acquisì grande fama di operatore ec-cellente.

Nel 1922-23 il ritorno in Università in Cattedra di Cli-nica Chirurgica a 63 anni, evento straordinario che GuidoDagnini così ricorda: “La guerra è terminata da qualcheanno. Il Professore è tornato in silenzio al suo lavoro. Unfatto grave accadde, mai accaduto negli annuali dell’Uni-versità Italiana. La vicenda è nota, notissima a noi Bolo-gnesi. Gli studenti vogliono Bartolo Nigrisoli alla Catte-dra di Clinica Chirurgica contro il deliberato del Consi-glio Superiore della Pubblica Istruzione. Si associano aglistudenti i membri della Facoltà, le autorità cittadine, icolleghi, il popolo tutto. Scioperi, comizi di protesta: infi-ne la vittoria è degli studenti e Bartolo Nigrisoli entra ac-clamato nella Clinica Chirurgica della nostra città”.

Si dedicò come sempre alla attività chirurgica ed all’in-segnamento, disdegnando il resto compresa l’attivitàscientifica e rifiutando nel 1924 la nomina a Senatore.

Nel 1931 già settantatreenne, ma ancora dotato digrande vitalità e carisma fece il gran rifiuto: non vollegiurare fedeltà al fascismo come una legge dell’epoca ri-chiedeva ai pubblici dipendenti e fu dimesso dalla Catte-dra. Aveva preferito seguire le ragioni del cuore, piuttostoche ogni interesse contingente, ritrovando le motivazioniideali delle sue amicizie ed affinità giovanili con AndreaCosta, primo deputato socialista del Parlamento Italiano,e Attilio Prampolini grande pittore futurista anche luischierato sullo stesso versante. In quella gioventù inquie-ta le ragioni della politica avevano spinto il giovane Ni-grisoli sino ai duelli, ben tre volte.

Si ritirerà in quel 1931 a lavorare nella Clinica che ave-va aperto a Bologna con il fratello oculista: vi lavorerà si-no alla morte che lo raggiungerà novantenne nel 1948”.A Genova è il notaio, assistito da testimoni in abiti

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austeri, munito di boccettina d’inchiostro, timbri e cera-lacca, la figura che compare in tutte le “ foto di gruppo”che segnano eventi destinati a dare sviluppo alla Sa-nità. C’è un notaio nel 1423 che registra l’atto con ilquale Bartolomeo Bosco, ricchissimo giureconsulto,fonda l’Ospedale di Pammatone, là dove nel Novecen-to, dopo la IIa guerra mondiale, sorgerà sulle sue mace-rie l’Ospedale “San Martino”. C’è un notaio nel 1499quando Ettore Vernazza e Santa Caterina Fieschi Ador-no fondano il “Reductus Incurabilium” per i primi,drammatici casi di sospetta infezione venerea. E c’è unnotaio il 22 dicembre 1877 davanti al quale, nel più belsalotto del suo palazzo, la marchesa Maria Brignole Sa-le Duchessa di Galliera dichiara di destinare parte dellesue ricchezze per la “assistenza e la cura dei poveri in-fermi in tre Ospedali diversi”.

Così nascono il “Sant’Andrea Apostolo” in Garigna-no (prenderà il nome “Galliera”), il “San Filippo”, de-stinato ai bambini, e il “San Raffaele in Coronata”, ri-servato agli anziani inabili. E c’è un notaio il 10 feb-braio 1931 quando viene firmato l’atto costitutivo del“Gaslini”, un Ospedale specializzato per l’assistenza ela cura dei bambini, voluta dal Commendatore Girola-mo Gaslini che, oltre a ricordare la figlia Giannina mor-ta per una peritonite, forse diagnosticata in ritardo,vuol risollevare l’antica tradizione genovese, lui lom-bardo di Monza, per cui il privato cittadino, dove man-cavano i mezzi agli Enti Pubblici, interveniva ad inte-grare l’opera di assistenza sociale.

Sono gli Ospedali, prima e più che l’Università, ilfulcro della sanità genovese. Sono i “signor Primario”,prima e più che i “Professori” i medici che, per la gente,curano e guariscono. L’Università, pur antica, acqui-sterà solo nel Novecento avanzato, con il “San Marti-no”, un ruolo di spicco.

Nelle strutture genovesi si succedono chirurghi digrande spessore come Mariano Capurro, Vittorio Casic-

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cia, Lazzaro Luci, Edoardo Borelli, Federico Urago, Sil-vio Rolando, Mario Oberti, Antonio Giudice, Carlo Fol-le, Attilio Catterina allievo ed erede di Bassini. E all’o-spedale di Genova Sampierdarena negli anni ’20 operaGustavo Lusena allievo di Griffini, valente chirurgo, ec-cellente oratore scientifico, voce stentorea, figura mae-stosa ma anche storico della Chirurgia: notevole è lasua opera sui primi trenta Congressi della Società Ita-liana di Chirurgia apparsa nel 1927. Rifiutò di prestaregiuramento al fascismo.

Negli anni recenti: Ettore Spagliardi, genovese di na-scita e formazione, ritornato al “S.Martino” dopo unafelice parentesi ad Aosta, Giuseppe Becchi, chirurgo ge-nerale e vascolare, Fausto Badellino, chirurgo oncologo,torinese di Scuola, creatore della Chirurgia nell’IstitutoTumori di Genova e Presidente della Società Italiana diChirurgia Oncologica e Salvatore Serrano valoroso chi-rurgo toracico. Ma soprattutto Gian Massimo Gazzani-ga prima al “San Martino” e poi al “Galliera”.

All’inizio del secolo è il “Galliera” a brillare nel fir-mamento della medicina e, in particolare, della chirur-gia a Genova. Su tutti spicca Giovan Battista Segale, an-che Assessore all’Igiene durante l’imperversare di un’e-pidemia di colera, che –come riferisce uno studio dellostorico F. Cirenei – compie, per primo, un intervento dicolecistectomia sottosierosa, isolamento e sutura conenucleazione del moncone del cistico e dei vasi sangui-gni, peritoneizzazione del letto cistico. Solo tre anni piùtardi Doyen e, undici anni dopo, Witzel pubblicheran-no questo metodo che da essi prende il nome. Segalecompie anche il primo intervento di prostatectomia so-vrapubica per via transvescicale in un caso di ipertrofiaprostatica due anni prima di Young e di Freyer che, in-vece, dettero il nome all’operazione.

Contemporaneo di Segale è Ercole Sacchi che era an-che Ordinario di Clinica Chirurgica e Maestro di Anni-bale Passaggi il quale con un altro Primario del “Gallie-

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ra”, Rolandi, compie eccezionali interventi sui soldatiferiti nella prima guerra mondiale. Altri nomi, LuigiMaccaggi, con i figli Giovanni Battista e Domenico, epoi Giuseppe Moresco.

L’Università riprende quota con l’arrivo a Genova diLuigi Stropeni, deluso per essergli stato preferito Achil-le Mario Dogliotti nella successione a Ottorino Uffre-duzzi, suo Maestro, a Torino.

Nel secondo dopo guerra, l’Università acquista unruolo significativo proprio con Luigi Stropeni, alla Cli-nica chirurgica, e Mario Agrifoglio alla Patologia chi-rurgica. Stropeni sarà, con Colombo, autore di un Trat-tato di Patologia Chirurgica sul quale studieranno ge-nerazioni di medici in tutta Italia. Quando Stropeni edAgrifoglio lasceranno le Cattedre genovesi, saranno so-stituiti da Malan e Battezzati. A Malan subentrerà To-satti.

Con questi grandi Maestri la chirurgia Genovesespecie quella Universitaria eleva a livello nazionale ilproprio profilo. Stropeni, Agrifoglio e Malan sarannotutti presidenti della Società Italiana di Chirurgia. Bat-tezzati non cambierà più sede, creerà a Genova unaScuola distribuendo i propri allievi tra Università edOspedali. Virgilio Bachi ne assumerà l’eredità diretta ela Cattedra.

In parallelo scorre la storia del “Galliera”. Un allievodi Stropeni, Lorenzo Verneti, ne assumerà negli anni ’60il Primariato e la leadership. L’Ospedale della “Duches-sa” seguiterà con lui ad essere l’Ospedale dei genovesi,malgrado la crescita e lo straordinario sviluppo del“San Martino”, anche sede dell’Università.

A Verneti succederanno Giovan Battista Gemma epoi Rodolfo De Martini, sinchè nel 1996 vi arriveràGian Massimo Gazzaniga, abbandonando il “San Mar-tino”.

Gazzaniga, Maestro della chirurgia, signore nei mo-di, uomo di grande cultura, Aiuto di Giuseppe Donati a

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Pavia, lascia l’Università per gli Ospedali, quando è al-la soglia della Cattedra, prima nella provincia padana epoi all’Ospedale “Santa Corona” di Pietra Ligure e nel1978 all’Ospedale “San Martino” a Genova.

Al “San Martino” questo chirurgo di origine lombar-da, esattamente di Codevilla, ad un passo da Pavia,precorre i tempi: si rende conto che le patologie epato-bilio-pancreatiche, in crescendo anche perché figlie diuna civiltà del benessere, meritano, in campo chirurgi-co, una particolare attenzione e dà vita alla Unità di altaspecializzazione in chirurgia epato-bilio-pancreatica.Ciò gli darà fama e prestigio in Italia ed all’estero e gliassicurerà prima la Presidenza dell’Associazione deiChirurghi Ospedalieri Italiani (ACOI) e poi quella dellaSocietà Italiana di Chirurgia.

Nel 1996, Gian Massimo Gazzaniga assume la dire-zione della Ia Chirurgia generale al “Galliera” e vi trasfe-risce, uomini e mezzi, la sua prestigiosa Unità specializ-zata. L’antico Ospedale sin dalle origini legate alla Du-chessa conserva lo stesso spirito nell’assistenza ai malatie l’impegno nella ricerca, ma acquista la cultura dell’a-pertura a studiosi ed a tecniche al passo con la civiltà delsapere. L’opera di Gazzaniga non si limita all’atto chirur-gico ed all’assistenza al paziente, ma si rivolge alla pro-fessione non nella pura difesa di una categoria che, pe-raltro, di difesa ne aveva e ne ha bisogno ma nella valo-rizzazione della figura di un chirurgo moderno, costan-temente aggiornato, al servizio del malato e di una So-cietà che si evolve. Questo ben comprendono i chirurghiitaliani che lo eleggono Presidente della Società Italianadi Chirurgia. Nel 1999 Gazzaniga, continua nel suo im-pegno sociale e societario assumendo la Presidenza dellaFederchir, Federazione delle Società Specialistiche Chi-rurgiche, senza mai trascurare la quotidianità del lavorodi chirurgo nelle severe sale di quell’opera voluta da unadonna illuminata come la Duchessa di Galliera.

Altro gioiello della Sanità genovese ma anche di

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quella italiana e internazionale, è l’Istituto “GianninaGaslini” che rappresenta un importante punto di riferi-mento per la ricerca, la prevenzione e la cura nell’assi-stenza dei bambini.

L’Istituto inaugurato da Mussolini il 15 maggio del1938, lo stesso giorno dell’apertura della “camionabile”Genova - Serravalle, prima autostrada italiana, fin dallafondazione è aperto alle grandi novità della Ricerca.

La chirurgia pediatrica, generale e cardiovascolarehanno da sempre un ruolo fondamentale nella vita del-l’Istituto: basti pensare al grande lavoro nella correzio-ne delle malformazioni nel periodo perinatale, agli in-terventi nelle forme tumorali e poi al trattamento dellemalformazioni cardiovascolari nell’età neonatale e nellattante. Un nome sopra tutti, quello di Franco Soave,Primario dal 1955, ideatore della tecnica per la terapiachirurgica del megacolon agangliare o malattia di Hir-schsprung. Nella Scuola di Chirurgia pediatrica di Soa-ve, scomparso nel 1984, sono cresciuti Alberto Bertolini,dall’inizio del 1973, Primario di cardiochirurgia, al “Ga-slini” e Bruno Possenti, Primario dal 1972 a Brescia, poitornato al “Galliera ed ancora al “Gaslini” al posto delMaestro. Soave era un uomo di grande cultura, dal trat-to gentile ed elegante, grande lavoratore, valente scien-ziato, modesto oltre il necessario per i grandi meritiprofessionali che aveva acquisito.

Infine la Sardegna, isola lontana ma centrale rispettoai movimenti della chirurgia accademica. Per tutto ilSecolo sulle Cattedre di Cagliari e Sassari c’è grandetransito, chi va e chi viene, dalle grandi Scuole del Con-tinente. Il legame prevalente è tra Roma e Cagliari, traSassari ed il Nord Italia.

Passeranno da Cagliari Valdoni e tanti della suaScuola, da Lanzara a Biocca, da Provenzale a Tagliacoz-zo sino a Marino Gaggetti che vi resterà. E prima e do-po Baggio, Forni, Redi, Pezzuoli ed ancora Sergio Stipa

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e Daniele Pinna che vi morirà prematuramente. A Sas-sari andranno Cevese, Occhipinti, Casolo, Ruberti daMilano e da Padova Castiglioni.

In tutto questo fluire accademico di grandi maestri, isardi veri sceglieranno l’Ospedale dove la dinamica edil tempo ritrovano la stabilità e l’efficacia che più si ad-dicono al loro carattere. Tra i più illustri vi fu AlfonsoLigas, morto immaturamente.

Alfonso Ligas nacque a Sinnai, in provincia di Caglia-ri, nel 1904 e si laureò nell’Università di Cagliari nel 1929con pieni voti. Si dedicò subito alla chirurgia; nel 1931 funominato Assistente volontario dell’Istituto di PatologiaChirurgica di Cagliari e subito dopo Assistente Incaricatodella Clinica ove, nel 1934, fu Assistente di ruolo e nel1941 Aiuto. Nel 1944 divenne Primario della Divisionechirurgica degli Ospedali Riuniti di Cagliari, successiva-mente allievo di Baggio, di Forni, di Valdoni e di Putzu.Libero Docente in Patologia Chirurgica e in Clinica Chi-rurgica.

Aveva tenuto con onore l’incarico dell’insegnamentodella urologia confermatagli per quattro anni dalla Fa-coltà Medica di Cagliari e quello della anatomia patologi-ca per un anno sempre nell’Università cagliaritana. Ligasnon aveva avuto una vita facile; rimasto orfano in teneraetà, con molti sacrifici aveva saputo affrontare molte diffi-coltà per giungere alla laurea.

Lasciata dopo 14 anni la carriera universitaria, si im-pose come chirurgo valente e organizzatore, portando adalto livello, con le caratteristiche della modernit, la Divi-sione Chirurgica degli Ospedali di Cagliari, che aveva de-dicato alla sua venerata Mamma. Divenne famoso ope-rando d’urgenza una ferita del cuore da arma bianca.

Idolatrato nel piccolo paese di Sinnai, dove era nato, fufondamentalmente un generoso e dimostrò nell’eserciziodella professione doti tecniche non comuni.

Morì a 57 anni, proprio quando aveva raggiunto unaposizione di primissimo piano, che poteva compensarlodi tutte le difficoltà che aveva superato e vinto. Era sociodella Società Italiana di Chirurgia dal 1939 e partecipavacon assiduità alla vita Scientifica dei Congressi.E nella Sardegna di fine Secolo con Dettori a Sassari,

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Paolo Manca, anche Assessore regionale e parlamentarenazionale, ad Alghero, Franco Sforza e Marco Polo allaChirurgia d’Urgenza di Cagliari, Nando De Riu semprea Cagliari, Ospedale Civile, un posto a parte merita Lu-ciano Di Martino, allievo di Provenzale, specialista diChirurgia della mammella, Primario all’Ospedale On-cologico di Cagliari, grande animatore della vita scien-tifica della Chirurgia sarda, specie in ambito oncologi-co, in serrata collaborazione con lo Sloan Kattering Me-morial Hospital di New York, dove si era formato ingioventù.

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Parte Terza

FaTTi, FaTTacci, uomini e luoghi

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Cap. XI

LA CHIRURGIA NELLE GRANDI CALAMITÀ

I chirurghi e le calamità naturali: un dialogo, pur-troppo, molto frequente, specie nel nostro Paese che ditragici episodi è con grande frequenza protagonista,non poche volte per cause dovute alla stessa opera del-l’uomo. Non sempre in Italia quando si verifica una ca-lamità naturale, la macchina dei soccorsi è tempestiva eorganizzata ma certo è che in tutte le situazioni si tro-vano subito, ponendosi in prima fila, i medici, in modoparticolare i chirurghi. Le cronache dei quotidiani sonoricche di episodi di grande umanità e di eccezionale ca-pacità professionale dei chirurghi sui teatri dei catacli-smi, accanto alla Croce Rossa – uno degli ispiratori del-la Croce Rossa è proprio un chirurgo italiano, Palascia-no – o ad altre organizzazioni umanitarie internaziona-li, per tutte basti citare “Medici senza frontiere” ed“Emergency”. Grande è stata sempre l’opera dei chirur-ghi nelle catastrofi verificatesi nel nostro Paese nel No-vecento, dai terremoti al crollo della diga del Vajont.

È il 28 dicembre del 1908. L’Agenzia di stampa “Ste-fani” lancia, via telegrafo, questo messaggio: “Notizierecate da testimoni oculari sono brevi e laconiche: Reg-gio e Messina sono distrutte dal terremoto”. Alle 5.21

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c’è stata la fine del mondo. Oltre 80 mila morti. Interefamiglie sotto le macerie. Altre migliaia di persone, ri-maste a guardare sbigottite, terrorizzate e incredule lacittà in fiamme spazzata via dal sisma, sui moli del por-to, convinte di salvarsi trovandosi all’aria aperta, sonostate risucchiate da un’onda alta sei metri, conseguenzadel terremoto. L’ospedale è raso al suolo. E con l’ospe-dale tutte le altre strutture mediche. La grande maggio-ranza dei medici rimane sotto le macerie. Fra questi,Gaspare D’Urso, titolare della Cattedra di chirurgia ge-nerale.

Al XXI° Congresso della Società Italiana di Chirurgia aRoma il 31 ottobre 1909 il Presidente, Prof. Durante, concommossa parola ricorda i soci prof. G.D’Urso e G.Betaghrimasti vittime del terremoto del 28 dicembre 1908. Ecco ilresoconto della commemorazione:

“Il Prof. G.D’Urso che voi conosceste buono, studioso,intelligente, cessò nel periodo della sua attività scientificaa 47 anni. Chirurgo dei Pellegrini, aiuto alla Cattedra dianatomia patologica e successivamente alla Clinica delD’Antona, professore di patologia chirurgica a Roma, e fi-nalmente professore di clinica chirurgica a Messina, nellasua rapida e brillante carriera, aveva dato prova d’inge-gno non comune, di iniziativa scientifica veramente mira-bile che si accoppiavano in lui con una squisita modestia.Voi l’apprezzaste. La sua vita sia di esempio. La sua mor-te segna una grave perdita per la nostra Società.

Il Dott. Giuseppe Betagh, colto, buono, affettuoso, atti-vo, di non comune ingegno e di non comune iniziativa.Fu qui a Roma come studente e si distinse; fu qui comeassistente ed aiuto. Per compiacere il compianto D’Urso,che ne aveva apprezzate le rare doti, io lo consigliai a se-guirlo a Messina. E vi trovò la sua tomba.

La Società ne lamenta la scomparsa. Sia pace a loro!”Il Presidente dà la parola al Prof. D’Antona, il quale dà

notizia all’Assemblea della commemorazione del disce-polo, dell’Aiuto e del collega che egli si preparava a com-piere, in occasione della inaugurazione della bibliotecadella Clinica chirurgica di Napoli. Questa fu fondata dalD’Antona, dotata dei propri libri e di una rendita propria.

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Nella biblioteca verrà eretto un mezzo busto in bronzodel povero prof. D’Urso, che sarà quindi anche in futuronecessariamente rispettato.

Il Presidente dà la parola al prof. Turretta, il quale rife-risce alla Società di Chirurgia che Trapani commemoreràil professor D’Urso e gli erigerà un monumento.”

I pochi chirurghi che riescono a salvarsi si prodiganoper assistere i feriti, molti dei quali hanno bisogno diamputazioni. In aiuto dei medici superstiti arrivano gliufficiali medici che si trovano a bordo di tre navi dellaMarina da guerra zarista e di tre cacciatorpediniere bri-tannici che, al momento del sisma, si trovavano rispetti-vamente al largo di Augusta e di Siracusa per una eser-citazione e subito avevano fatto rotta per Messina.

Il primo ministro Giolitti, mentre il Re e la Regina, intreno, si preparano a raggiungere il luogo dell’immanetragedia, dà disposizioni per i soccorsi costituendo uncomitato di cui fa parte Raffaele Bastianelli mentreFrancesco Durante, Maestro della chirurgia romana,originario della Sicilia, senatore, si fa promotore di unaraccolta di fondi fra i parlamentari. Nei giorni successi-vi, sono numerosi i gruppi di chirurghi che in trenoraggiungono il luogo del disastro e, fra i primi, i medicidella Scuola Militare di Medicina di Firenze.

Nel 1915 altro grande contributo di solidarietà uma-na dei medici si ha nel terremoto che distrugge Avezza-no con 29.978 morti. E poi in quello della Irpinia nel1930 con 1.425 vittime.

Il 14 gennaio del 1968 la terra trema di nuovo in Sici-lia. Il sisma semina morte e terrore nella Valle del Beli-ce. È di 337 vittime il tragico bilancio. Grande l’operadei medici tra eccezionali difficoltà dovute anche almaltempo. Si mobilitano tutte le chirurgie dell’Isola etutti gli Ospedali. Non c’è ancora nel nostro Paese unpiano concreto di protezione civile e quindi, nell’operadei soccorsi, molto è affidato al coraggio e al sacrificio

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dei volontari che collaborano fino al limite della sop-portazione con i militari e le forze dell’ordine giunti datutt’Italia.

Ancora una volta, il 6 maggio del 1976, il terremotoscatena la sua furia omicida sul nostro Paese. Adesso ilteatro del sisma è il Friuli dove perdono la vita 935 per-sone. Nell’opera di soccorso, sempre encomiabile, si di-stinguono i militari della Terza Armata schierata, permotivi di politica nazionale ed internazionale, al confi-ne con la Jugoslavia. Sono i sanitari militari fra i primi aprestare soccorso, insieme ai colleghi civili del Friuli. E,come sempre accade in queste tragiche situazioni, si de-ve operare in condizioni drammatiche, spesso all’aper-to, addirittura con l’incubo di rimanere sepolti dal crol-lo degli edifici.

Altro terribile terremoto che colpisce l’Italia nel No-vecento è quello della Campania e della Basilicata. Il si-sma si scatena alle 19,30 del 23 novembre 1980, una do-menica. E anche in questa situazione la tragedia cheprovoca 2.766 morti si colora di gesti di grande solida-rietà umana con i chirurghi protagonisti. Luciano Ra-gno, inviato de Il Messaggero sui luoghi del terremoto, ètestimone di alcuni di questi episodi compiuti da sem-plici medici costretti ad operare sotto il pericolo di nuo-ve scosse, senza l’adeguata assistenza. Non bisogna di-menticare che il terremoto ha distrutto quasi tutti gliospedali.

A Pescopagano – raccontano le cronache di Ragno sulquotidiano romano – un medico di Napoli, Corrado Ada-mo, aiutato da un giovane collega, dalla moglie e da treinfermieri, ha operato per 40 ore di seguito in una im-provvisata sala in un’ambulanza dagli sportelli aperti. Esenza anestesia, perché erano finiti i medicinali. Un uo-mo, fra i tanti, si è presentato con la figlia di 5 anni, ferita.Sotto la luce di una lanterna, il dottor Adamo ha operatola bimba che ogni tanto piangendo diceva: “Dottore, misalvi, sono piccola”. Quaranta ore così, come in trincea. E

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poi la storia, anche questa raccontata da Il Messaggero, diun ospedale inviato dal Comune di Roma. “È un ospedaleattrezzato come quelli che si vedono nei film americaniambientati in Corea o in Vietnam. Invece siamo a Lioni,uno dei paesi più disastrati. L’ospedale, diviso in repartodiagnostico e in quello d’intervento, è fra il centrocampoe l’area di porta del campo sportivo. Si lavora con tantocoraggio, ore e ore, giorni e giorni. Senza sosta. Ogni tan-to l’elicottero dall’altra area di rigore porta via i malatigravi”.

Anche un Maestro della chirurgia, Giuseppe Zanni-ni, che in questo periodo è Presidente della Società Ita-liana di Chirurgia, dedica la sua opera in favore dellevittime del terremoto. A Napoli coordina gli interventichirurgici, compiendo lui stesso molte operazioni. ALuciano Ragno, in un intervista, dice che bisogna insi-stere nei soccorsi alla ricerca di persone che potrebberoessere ancora vive. “Bisogna fare presto perché la mag-gior parte delle persone – dichiara Zannini – non riescea sopravvivere più di 4-5 giorni se ha avuto una com-pressione per schiacciamento: l’organismo infatti va in-contro ad intense e gravissime alterazioni dell’equili-brio biochimico e biofisico dei tessuti e del sangue. Do-po una mezza giornata, il rene, infatti, non è già più ingrado di lavorare. E spesso non sopravvivono neppurepersone che non hanno avuto lesioni. Le uccide il fred-do e la mancanza di acqua. È una morte lenta. Fino aquando non sorge la febbre tossica da disidratazioneche annulla ogni coscienza. E l’individuo cominciaquasi a sognare. Qualcuno arriva a dire – concludeGiuseppe Zannini – che è l’agonia davanti ad una mor-te dolce”. Si accelerano, anche dopo le parole del Presi-dente della Società Italiana di Chirurgia, le ricerchesotto le macerie. La situazione è tragica, basti pensareche un paese, S. Angelo dei Lombardi, è tutto distrutto:non si è salvato nemmeno un angolo dell’ospedale conla morte di medici e pazienti; è venuta giù anche la ca-

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serma dei carabinieri, è scampato alla morte solo unmilite.

E un medico finisce in prima pagina, il medico con-dotto di Romagnano al Monte, il dottor Conte, il qualesubito dopo la prima scossa, quella che ha raso al suoloi paesi, si è sistemato in una roulotte prestando assi-stenza in continuazione alla popolazione, con grandis-simo sacrificio. È un esempio, ma di esempi se possonocitare moltissimi, soprattutto quelli dei medici ospeda-lieri i quali si sono molto impegnati in favore della po-polazione. Tanti episodi di altruismo con medici prota-gonisti. E in certi casi di eroismo.

Oltre ai terremoti vi sono nell’Italia del XX° Secolo idrammi delle calamità che hanno per teatro le dighe.Prima quella sul torrente Gleno nella Valcamonica: nel1923 cede la diga facendo 500 vittime. E poi la tragediadel Vajont. Una frana, staccatasi dal monte Toc, precipi-ta sulla diga alta 261 metri. La diga resiste ma una gi-gantesca ondata di 100 metri supera la barriera e si ab-batte sulla valle provocando 2.210 morti.

Queste tragedie nella loro drammaticità e con il lorobagaglio di lutti e di dolori hanno consentito una espe-rienza anche medica, perché si è appreso come prestareassistenza chirurgica alle persone bloccate sotto le ma-cerie o estratte dalle macerie stesse. È nata la chirurgiaper le catastrofi. Paradossalmente, come avviene per laguerra, la Scienza progredisce anche con i drammi del-l’Umanità.

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Cap. XII

LE GUERRE: CHIRURGIA AL FRONTE

Il chirurgo e la tragedia della guerra. Umanità escienza in un mondo dove regnano sovrani odio e vio-lenza. I libri che fanno la storia delle guerre sono pienidi episodi che vedono protagonisti i medici ed in parti-colare, i chirurghi. Come pure i testi di medicina sonopieni di dissertazioni scientifiche che dimostrano come,sotto la pressione della guerra e con l’aiuto di fondi chein tempo di conflitti sono sempre messi a disposizionedai Governi, la scienza medica abbia potuto compiereprogressi eccezionali che, fortunatamente, si sono river-sati, a pace raggiunta, nella vita di tutti i giorni. Così laletteratura, dai romanzi alle cronache, è piena di episo-di che hanno visto i chirurghi protagonisti in guerra. Inun meraviglioso libro Centomila gavette di ghiaccio scrittoda Giulio Bedeschi, ufficiale medico nell’ARMIR (Ar-mata Militare Italiana in Russia), testimone diretto del-l’immane tragedia che colpì gli Italiani nella pianurarussa durante la II° guerra mondiale, è descritta un’im-provvisata operazione chirurgica.

Il fante ha una gamba sfracellata sopra il ginocchio,mostruoso impasto di muscoli dilaniati, filacci di panno

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grigioverde, frammento d’osso, lembi di tela, coaguli disangue, pietrisco e terra; tutti i grossi vasi sono recisi, ilsangue affiora dallo sfacelo come acqua da una polla sor-giva.

Con la cinghia dei pantaloni il medico gli frena l’emor-ragia, la gamba è attaccata al corpo con brani di pelle.

- Non muoverti così, figliolo, chè sfreghi l’osso per ter-ra, ti fascio subito.

- Ma bisogna liberare il corpo da questa gamba ormaiperduta – pensa - non ho un bisturi, una forbice, nulla.Adoprerò il mio coltello da caccia, perdonami.

Leva dalla cintola il coltellaccio.- Macellaio! – La parola che gli attraversa la mente si-

bila come una frusta.La cadenza di fuoco è un po’ rallentata, ora.Il medico lavora rapido, appassionato. Ha senso co-

mune il suo lavoro, servirà a qualcosa, o una granata par-ticolarmente precisa risolverà ogni ulteriore problema tra-volgendo e seppellendo tutti in quella bicocca? Disinfetta,sbriglia, ricompone, taglia, fascia. Iniezioni, garze; il col-tello da caccia dalla larga lama che finora serviva ottima-mente per tagliare a fette la pagnotta e ad aprire le scato-lette, ora sprofonda nella carne, perdonino Iddio e questecreature! Muscoli squarciati, ossa infrante. Bisogna tenerd’occhio i lacci, il cuore, il respiro. Il medico lavora febbri-le. Mai la vita di tanti uomini si è abbarbicata così dispe-ratamente alle sue mani, né queste sono state più spoglie.S’accorge di non aver mai pensato a sé, fino a quel mo-mento. Ha nel cuore una calma meravigliosa, una serenitàassoluta.

Il XX° secolo è stato costellato da infiniti conflitti lo-cali al punto che ancora nell’ultimo decennio si elenca-vano al mondo oltre 50 focolai di guerra in atto. Ma èstato soprattutto il Secolo dei due tragici conflitti mon-diali (1914-1918 e 1939-1945), delle guerre di conquistacoloniale dell’Africa e delle grandi rivoluzioni, in Rus-sia, in Est Europa, in Cina, in Centro e Sud America.

L’Italia è stata coinvolta drammaticamente nei duegrandi conflitti, ha promosso dolorose guerre di con-quista in Africa Orientale, ha partecipato, sotto l’egida

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dell’Onu o della Nato, ad iniziative militari per garanti-re la pace negli anni ’80 e ’90, in Medioriente, in Africa,in Asia e nei Balcani.

La chirurgia militare ha seguito gli eserciti, ai fronti enei territori occupati, ha dato il meglio di sé utilizzandoanche chirurghi civili richiamati alle armi, ha compiutograndi progressi ed ha sofferto perdite gravissime tra ipropri uomini.

Anche la Società Italiana di Chirurgia porta il luttoda allora per la perdita di chirurghi, giovani e menogiovani, accorsi alle armi, nell’adempimento del lorodovere.

Molti chirurghi membri della Società Italiana di Chi-rurgia dedicarono anni al loro dovere di soldati, abban-donando l’attività civile e le case e guadagnando sulcampo grandi meriti riconosciuti attraverso medaglie alvalore e croci di guerra.

Anche i Presidenti delle Società affrontarono con de-dizione ed onore queste drammatiche vicende.

Il più illustre fu Raffaele Paolucci di Valmaggiore,giovane tenente di marina, medaglia d’oro per averaffondato nel 1918 nel porto di Pola la corazzata Au-striaca “Viribus Unitis”. Paolucci, Presidente della So-cietà nel 1940, fu capo dei Servizi Chirurgici d’Armatanella guerra d’Etiopia. Roberto Alessandri, più voltepresidente della Società dal 1923 al 1939, fu insignitodella medaglia d’argento per l’eroismo dimostrato nelsoccorrere i malati al fronte come Direttore della II am-bulanza. Mario Donati, Presidente nel 1926, durante la IGuerra Mondiale eseguì un enorme numero di inter-venti chirurgici soprattutto amputazioni di arti. Addi-rittura una sua seduta operatoria in un ospedale dacampo durò, senza sosta, tre giorni durante e dopo labattaglia di Bainsizza. Ed Achille Mario Dogliotti, Pre-sidente nel 1957, fu Ufficiale Medico dell’ARMIR, l’Ar-mata Italiana in Russia.

Anche Ottorino Uffreduzzi, Maestro di Dogliotti, fu

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nell’Armata come Generale Medico. Tanti, tantissimi al-tri Soci parteciparono alle Guerre.

Oreste Margarucci, Primario a Roma all’Ospedaledella Consolazione sino al 1924 ed al Policlinico sino al1936, partecipò alla Prima Guerra Mondiale come te-nente colonnello di un ospedale mobilitato ed alla Se-conda Guerra Mondiale, come Direttore di un Ospedaledella Croce Rossa a Montemario in Roma.

Mariano Tortora, primario ad Ortona, partecipò allaI Guerra Mondiale sulle navi da guerra e diresse Ospe-dali della Marina.

Saverio Latteri, Clinico Chirurgo a Palermo, parte-cipò alle due grandi guerre meritando due croci diguerra.

Giuseppe Amburri, novarese, partecipò alle dueGuerre, nella prima per quattro anni presso reparti mo-bilitati, nella seconda diresse Ospedali sul fronte africa-no. Meritò una medaglia di bronzo, due croci al meritodi guerra ed un encomio solenne.

Giovanni Cavina, primario prima a Cesena poi a Fi-renze, diresse l’Ospedale per i feriti di Firenze nella IIguerra mondiale.

Fedele Fedeli, clinico chirurgo a Firenze, fu volonta-rio nella prima guerra guadagnando una medaglia dibronzo.

Biagio Picardi, primario ad Assisi, Tolentino, Albano,morto prematuramente, durante l’occupazione tedescadel ’43-’44 eseguì con mezzi di fortuna e spesso a ri-schio della propria vita, interventi che ebbero lusin-ghieri apprezzamenti di chirurghi inglesi come riporta-to da Peniakoff nel suo libro Private Army.

Attraverso le guerre, la storia della chirurgia ha fattoeccezionali progressi. Quelli della II Guerra Mondiale edei suoi campi di battaglia furono gli anni della svoltaper la antibioticoterapia, le emotrasfusioni, la baronar-cosi.

Ma nella Prima Guerra Mondiale i progressi furono

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ancora più sconvolgenti, basti pensare alla vocazionesostanzialmente astensionista nei confronti delle feriteaddominali con la quale iniziò quella guerra e l’acquisi-ta certezza dell’utilità dell’intervento chirurgico laparo-tomico col quale quella guerra si concluse.

Lo racconta Emanuele Santoro nel suo libro Ferite ad-dominali di Guerra pubblicato a Roma nel 1920, nel qua-le riferisce la lunga vicenda dell’Ambulanza chirurgican. 4 diretta dal Prof. Giannettasio, nella quale avevaprestato servizio da Capitano medico assistente dal1916 al 1918.

… Queste pagine sono pagine di vita vissuta, scrittenegli intervalli del lavoro chirurgico, accanto al letto delferito, accanto al letto operatorio.

Il conflitto europeo ha sconvolto questo ramo dellachirurgia di guerra. Si può dire anzi che ha creato unachirurgia nuovissima, cui l’esperienza delle guerre passa-te aveva opposto il suo veto formidabile. E la evoluzionesubita è il frutto di un più minuto e coscienzioso esamedegli errori passati, ed una più sicura ed obiettiva valuta-zione dei fatti; in seguito poi, i reperti chirurgici ed anato-mici hanno avuto il grande merito di mettere in evidenzanumerose cause di false interpretazioni, e quindi di erro-re, su cui si basavano in gran parte le statistiche degliastensionisti, ed hanno inoltre mostrato che la natura, laforma, le dimensioni, il numero delle ferite intestinali diguerra, quando queste esistono, sogliono essere tali da farsubito comprendere come la guarigione spontanea siaun’utopia, nel grandissimo numero dei casi. Vero è che irisultati ottenuti dalla pratica dell’intervento non sonomolto brillanti; ma, come si vedrà nel contesto di questepagine, si è ben lungi oggi dall’aforisma di Mac Cormac.Si può anzi affermare che, mentre tra gli operati per feriteintestinali qualcuno guarisce, i non operati muoiono tutti,tranne qualche eccezione …

… Le ambulanze chirurgiche sorsero quando si sentì ilbisogno di risolvere uno dei più grandi e discussi proble-mi della chirurgia di guerra e cioè il trattamento delle fe-rite cavitarie, e soprattutto delle ferite penetranti dell’ad-dome. L’inizio della guerra trovò gran parte dei chirurghi

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militari sotto l’impressione dell’assioma di Mac Cormac:“un ferito al ventre muore se operato, sopravvive se è la-sciato in riposo” e i dirigenti del servizio sanitario deglieserciti, in Italia, in Francia ed altrove, impartivano comeprecetto generale, per i feriti addominali, l’ordine ai me-dici di astenersi da qualsiasi intervento e di mettere l’in-fermo nelle migliori condizioni di calma e di immobilità.

All’Accademia Medica di Roma, il ten. generale medi-co Ferrero di Cavallerleone, nella seduta ordinaria del 17dicembre 1917, faceva osservare che tale precetto venivaimpartito in quanto si ritenevano non facilmente concilia-bili con le esigenze di guerra le tre condizioni essenziali,necessarie per un così grave atto operatorio, come la lapa-ratomia e cioè: a) personale chirurgico adatto a tal generedi operazioni; b) ambiente e mezzi chirurgici congrui; c)trasporto rapido del ferito dal luogo di combattimento alluogo di cura.

… Nella pratica civile, dopo gli studi e le conclusioniin Italia di Clementi, Postempski, Gangitano, Sorrentino,e in Francia di Terrier, Championnière, Chauvel, Quènu,Chaput, Broca, Nelaton, Schwartz, Adler, Lejars, la neces-sità dell’intervento precoce, anche per il solo sospetto del-la penetrazione, si era imposta ai chirurghi, nonostanteche vi fossero degli oppositori come il Berger e come ilRèclus, le cui famose esperienze sui cani tendevano a di-mostrare che le piccole perforazioni intestinali guarisconofacilmente per la formazione di un bottone mucoso, attoad impedire la uscita contemporanea del contenuto inte-stinale, e che la guarigione delle larghe perforazioni av-viene per l’accollamento dell’ansa ferita alle anse intesti-nali vicine.

Per la pratica di guerra, invece, il concetto prevalenteera l’astensione, sostenuta dal fatto che l’esperienza ditutte le guerre, dalla guerra di Secessione (1866) in poiavevano dato dei risultati disastrosi agli audaci chirurghiche avevano tentato di praticare delle laparotomie, men-tre gli astensionisti riportavano delle statistiche sorpren-denti di guariti tra i non operati …

… E ancora nel 1903, il generale medico Imbriaco, conspirito veramente profetico, scriveva: “ Io sono profonda-mente convinto, che se nelle guerre future non si adotteràil partito di costituire ospedali appositi per i feriti abbiso-gnevoli di operazioni al ventre o nelle grandi cavità, con

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un personale medico fornito di speciale perizia in siffatteoperazioni, si ripeteranno fatalmente gli insuccessi delleguerre precedenti”.

… Scoppiata la guerra, dopo un breve periodo d’incer-tezza, i chirurghi sentirono il bisogno di liberarsi dalla ot-temperanza passiva ad un principio che non poteva con-ciliarsi con la loro coscienza. E il Quenu, lo Chaput, ilGuibè, il Piquè, l’Abadie e numerosi altri in Francia; l’A-lessandri, il Nigrisoli, il Giannettasio, il Bastianelli, il Cac-cia, il Rossi, il Bozzi, il Saviozzi, l’Ortali in Italia; in Ger-mania il Kraske, il Perthes, l’Enderlen, il Kòrte, reagironorisolutamente e con critiche serrate e rigorose dimostraro-no la necessità e l’opportunità che i feriti addominali diguerra fossero sottoposti allo stesso trattamento che i feri-ti dell’addome del tempo di pace …

… Sul principio del 1916, il Ministero della guerra,compreso della necessità di tentare tutto in favore deglieroici feriti e del dovere umano di prestare loro ogni pos-sibile cura e tutti i sussidi terapeutici suggeriti dalla scien-za, affidò ad una Commissione speciale lo studio e l’alle-stimento delle Ambulanze chirurgiche dell’Armata, nellostesso tempo che la patriottica Milano, dietro impulso delprof. Baldo Rossi, allestiva formazioni sanitarie analoghe,gli Ospedali chirurgici mobili …

… Le Ambulanze furono dunque create per la chirur-gia dell’addome e in genere per la chirurgia delle grandicavità …

In succinto come sono costituite le Ambulanze chirur-giche. La parte principale consta di un’ampia baracca ten-da, delle dimensioni di metri 5 x 11, nella cui porzionecentrale si trova la camera operatoria, in una delle estre-mità della baracca, è disposto il gabinetto per i raggi“Rontgen” e nell’altra una camera per la sterilizzazionedel personale e del materiale. Collegate alla baracca sonodue grandi tende, di cui una serve di smistamento, prepa-razione e prima medicatura del ferito, l’altra serve per ilricovero degli operati e può contenere fin 24 letti in ferroa reti metalliche sovrapposti. Altre tende accessorie servo-no anch’esse per il ricovero dei feriti …

… Un ricco armamentario, che fu consentito ai singolidirettori di modificare a proprio piacimento, tutti i più re-centi mezzi di sterilizzazione, e una profusione di mate-riale chirurgico di primo ordine, completano l’Unità. Tut-

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to questo materiale è raccolto in 13 camions, dei quali 4appositamente costruiti funzionano da lettighe per il tra-sporto dei feriti dalla Sezione di Sanità all’Ambulanza, edegli operati dall’Ambulanza agli Ospedali delle retro-vie…

E per il servizio prestato dalla nostra Ambulanza Chi-rurgica d’Armata n.4 il personale della Unità fu così costi-tuito: Direttore: prof. Niccola Giannettasio, - Aiuto: capi-tano medico Oreste Ortali, - Assistenti: capitani mediciNicola Pitrelli, Ernesto Riccioli, Emanuele Santoro, - Ra-diologo: capitano medico Giulio Buccelli, - per i servizitecnici: ten.sig. Aldo Gini,- per la Farmacia: ten. FilippoDe Palma, per l’Amministrazione: ten. Giuseppe D’Aqui-no, - Cappellano militare: ten. Emilio Croce.

Così costituita con 50 uomini di truppa della sanità, e30 uomini di truppa automobilisti, l’Ambulanza partì peril fronte alla fine del mese di giugno 1916 …

… Dal settembre 1916 all’ottobre 1917 fecero parte delpersonale dell’Unità le infermiere volontarie signorine:Nerina Gigliucci, Gina Dall’Olio, Maria Teresa Viotti,Madda Zuccari …

L’Ambulanza partì da Bologna il 28 giugno 1916. In unprimo periodo, compreso dal 1° luglio all’8 agosto 1916,l’Unità espletò la sua opera, in una ridente posizione del-la valle del Biois, a Falcade, a 1200 metri d’altezza, im-piantata sul declivio di un colle verde di abeti e di larici.

Quivi furono compiuti i primi atti operativi ed ottenutii primi incoraggianti risultati …

… Quando giunse l’ordine di partire per il basso Ison-zo, ove i nostri soldati si battevano per la conquista delPodgora, del Sabotino, del S.Michele di Gorizia l’Unità siaccantonò nei locali di una ex caserma austriaca, a Gradi-sca, ridente cittadina sulla riva destra dell’Isonzo. Qui iferiti che venivano dai pressi di Gorizia, da S.Martino, daValcognak, dal S.Michele, da Rubia, arrivavano abbastan-za presto ed in condizioni più vantaggiose rispetto ai pre-cedenti …

… L’aliquota avanzata si stabilì a Devetaki, nel Vallonedel Carso, in una lunga grotta costituita da due bracciaparallele, lunghe 25 metri, riunite nella estremità profon-da da un braccio trasversale lungo circa 20 metri.

L’idea delle grotte fu preconizzata e vivamente propu-gnata dal prof. Giannettasio, il quale, dopo aver visitato

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quelle del Vallone Carsico, intravide la possibilità di po-tervi operare e curare, per il tempo strettamente necessa-rio, i feriti più gravi, col vantaggio di risparmiare loro lostrapazzo di un più lungo trasporto …

… Uno dei bracci laterali della grotta fu diviso permezzo di tramezzi in legno, in: a) camera di accettazione;b) camera per la prima medicatura; c) camera per il gabi-netto radiologico; d) camera di preparazione del materia-le e sterilizzazione delle mani. L’altro braccio fu trasfor-mato in corsia con 20 letti. Il braccio trasversale fu adatta-to come camera operatoria e camera per l’ufficiale diguardia. Tutti gli ambienti vennero illuminati a luce elet-trica mediante i motori dell’Unità e la camera operatoria ela corsia riscaldati da stufe elettriche.

Nella camera da operazioni che come ho detto, corri-spondeva al fondo della grotta, si poteva ricambiare l’ariamediante uno sfiatatoio alto circa 8 metri, alla cui basefunzionavano due ventilatori. Il pavimento della grotta fufatto in cemento. Le pareti e il tetto ricoperti di legno o ditavole di “eternit” convenientemente imbiancate. Il tettodella camera operatoria venne inoltre tappezzato con len-zuola, ad impedire ogni caduta di incrostazioni e di pul-viscolo dal soffitto, per il continuo scuotimento determi-nato dalle artiglierie circostanti …

… Dai primi giorni dell’agosto al 27 ottobre 1917, l’U-nità si stabilì con la sua sede centrale in Sagrado, piccolacittà della riva sinistra dell’Isonzo, occupando di nuovo ilposto avanzato nel Vallone Carsico, a Devetaki …

… Dopo le dolorose vicende che portarono le nostre li-nee sul Piave, l’11 novembre avemmo l’ordine di impian-tare l’Unità in un paesello a destra di detto fiume …

… Il 15 aprile l’Ambulanza si trasferì, in seguito ad or-dine ricevuto, in una piccola borgata a sud del Montello…

… Quando i feriti giungevano alla spicciolata, cioè neiperiodi di calma, l’esito dell’intervento è stato sempre e digran lunga migliore. Nei periodi d’azione invece, quandoi feriti affluivano numerosi, e si operava per lunghe oreininterrotte, gli esiti sono stati costantemente meno buoni.

… Ho ancora viva nella mente la recentissima visionedi tre grandi sale, zeppe di feriti gravi dell’addome, delcranio, del torace, del rachide, degli arti. Nelle sale afflui-scono i feriti: gli operati, i non operati. Di ora in ora nuovi

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feriti sopraggiungono, che le lettighe trasportano, infati-cabilmente, dalle vicine Sezioni di sanità. Giungono a die-cine, e ognuno di essi deve essere studiato, deve essereconfortato, deve essere sottoposto alle cure del caso. Sonotutti sudici, infangati, insanguinati, esausti. E tutti chia-mano, supplicano, vogliono acqua, acqua, acqua. La sete,ecco la nota predominante. I cranici urlano, si alzano co-me maniaci dal letto, pronunziando frasi vuote di senso:occorre immobilizzarli. Gli addominali scacciano le co-perte; vogliono essere rimedicati perché sentono stretta laloro fasciatura, aprono le borse del ghiaccio per soddisfa-re la loro sete intensa, vomitano. I toracici gemono, respi-rano male, ansano. Gli altri si lamentano, chiamano convoce soffocata. Qua e là qualcheduno ha già gli occhi vi-trei, stravolti, il viso contratto in un atroce spasimo dimorte, e là altri è già immobile coperto dal bianco funereolenzuolo.

Nelle sala operatoria intanto ferve il lavoro: uno dopol’altro i feriti, già convenientemente preparati e studiati,passano sul letto chirurgico e da qui poi sono trasportatinelle sale. E tale lavorio febbrile dura ininterrotto notte egiorno, mentre la morte falcia inesorabile e fatale le giova-ni e gloriose esistenze …

… Nelle grotte del Vallone Carsico, a Devetaki, noi po-temmo conciliare la vicinanza alle linee con le esigenze dicui sopra. Da ciò un certo vantaggio ottenuto negli opera-ti. I feriti effettivamente erano ricoverati in un luogo ovesi sentivano alquanto al sicuro, e, inoltre, il fracasso infer-nale delle artiglierie nostre e nemiche giungeva loro mol-to attenuato. Tuttavia, anche trovandoci in queste condi-zioni speciali, vi furono delle circostanze e, non rare, nellequali questa relativa tranquillità di spirito fu notevolmen-te compromessa.

Così in una notte del maggio 1917, in cui vi fu l’allar-me per i gas asfissianti, e nella grotta erano ricoverati cir-ca 20 tra operati dell’addome, del cranio e feriti del tora-ce, abbiamo visti questi infelici in uno stato penoso di or-gasmo e di sovraeccitazione. Invocavano disperatamentela maschera e nella nostra coscienza il conflitto fu tremen-do. La maschera fu applicata, ma purtroppo qualcuno neebbe affrettata la morte, e molti altri peggiorarono nellecondizioni generali…

I feriti dell’addome ricoverati e curati dall’Ambulanza

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dal 28 giugno 1916 al 28 giugno 1918 furono 564, dei quali311 morti, con una mortalità complessiva del 55%. Ne fu-rono operati 298 con una mortalità relativa del 48%.

Al comportamento del chirurgo in guerra AchilleMario Dogliotti nel 1950 dedica una parte di un suosaggio, “Dramma di coscienza e problemi di morale inchirurgia”

Una tristissima drammatica eccezione alla regola diprestare la propria opera con precedenza assoluta almalato più grave si impone a volte al chirurgo di guer-ra. Nei giorni di combattimento infatti ricordo quantevolte fui costretto a rinunziare ad operare i feriti gravis-simi solo perché le probabilità di salvarli erano minime,mentre il tempo ed il materiale occorrenti per questialeatori interventi di alta chirurgia, eseguiti nelle piùsfavorevoli condizioni, mi avrebbe permesso di operarecon successo nello stesso tempo e con lo stesso materia-le, il doppio o il triplo di altri feriti meno gravi e più si-curamente recuperabili. Pensate quale dramma moralein questo inappellabile giudizio di vita e di morte, inquesta rinunzia che è contraria non solo al più elemen-tare sentimento di pietà, ma anche alla nostra educazio-ne professionale ed ai nostri più alti ideali che ci sospin-gono verso il malato che versa in più grave ed imme-diato pericolo!

E quale dovrebbe essere la preparazione scientifica edumana del chirurgo di guerra per non errare o per errarein limiti ristretti, in così tragiche circostanze, quando si èsoli di fronte alla propria coscienza, costretti ad emetteregiudizi precipitosi e inappellabili sulla vita altrui. È que-sta una delle ragioni che mi fecero sostenere a suo tempol’opportunità che a sostegno dei giovani chirurghi, si re-cassero al fronte anche chirurghi maturi e soprattutto in-segnanti universitari in condizione di affrontare i disagidella guerra.

E, sempre parlando di comportamenti, Dogliotti ri-corda un episodio di cui era stato protagonista durantela Seconda Guerra Mondiale.

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Ero consulente dell’Armata Italiana in Russia ove ave-vo chiesto di essere inviato con l’illusione di potermi ren-dere maggiormente utile fra tanta sofferenza. Le sorti del-le armi volgevano ancora a nostro favore ed a Voroscilov-grad organizzammo, sotto la guida del compianto Colon-nello Bocchetti, un grande e oso dire quasi perfetto ospe-dale, ove si curavano con eguale sollecitudine non solo iferiti di ogni parte ma anche, per esplicita disposizionedei nostri Comandi, i casi d’urgenza che si verificavanofra i civili, rimasti quasi del tutto privi dell’abituale assi-stenza sanitaria.

Alle prime ore di un mattino di settembre, una don-na russa venne a cercarmi: la riconobbi per una ex in-segnante di lingua francese a Karcow, che avevo incon-trato qualche settimana prima in ospedale accanto adun bimbo ucraino gravemente ferito per lo scoppio diuna mina. Ne avevo anzi approfittato per qualche ser-vizio di interprete, scoprendo in lei non comuni doti diintelligenza ed un carattere estremamente riservato esprezzante nei riguardi dei nemici del suo Paese. Checosa poteva indurla a quell’ora a cercarmi? Certo unurgente bisogno la spingeva a superare il ritegno di cuiandava fiera. L’accolsi quindi con curiosità e premura.Dopo qualche frase di oscuro significato, da cui traspa-riva una angosciosa preoccupazione, finì col dirmi chesuo marito, nascosto nei dintorni, era gravemente am-malato. Egli stava per morire per asfissia per una pre-sunta stenosi laringea, secondo l’affermazione di unmedico russo che tuttavia non disponeva dell’occorren-te per portargli aiuto.

Quella donna aveva intuito che le nostre possibilitàchirurgiche erano assai grandi e si era convinta che i me-dici italiani erano guidati da un sentimento di umanapietà che superava i preconcetti di parte.

Accolsi senza esitazione l’invito, e dopo aver lasciatoun biglietto informativo per il Direttore dell’Ospedale, mirecai con lei verso i sobborghi di quella grande città indu-striale, con la sola difesa della mia vocazione e con pochiferri del mestiere.

… Abbandonata la via maestra, entrammo nella fittaboscaglia lungo un malcomodo sentiero, giungendo dopomezz’ora ad una capanna dalla quale uscì una donna che,dopo avermi scrutato con sorpresa, scambiò alcune frasi

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con la mia accompagnatrice il cui volto parve allietarsi diuna nuova speranza.

Le seguii nella capanna ove, all’incerta luce di unalampada a petrolio, vidi su un giaciglio di fortuna, un uo-mo semiseduto che respirava con grande difficoltà. Eranocon lui due giovani armati dei caratteristici fucili mitra-gliatori russi a tamburo. Interrogai brevemente il malato elo visitai rendendomi conto che doveva trattarsi di un tu-more stenosante della laringe. Era un uomo sui cin-quant’anni, di robusta costituzione, col volto segnato dal-la sofferenza, ma che lasciava trasparire intelligenza e co-raggio.

Dal momento in cui mi rivolsi allo studio del caso cli-nico, qualsiasi altra preoccupazione scomparve e tra me-dico e malato si stabilì quella umana confidenza che al-lontana ogni sospetto ed avvicina spiritualmente fino acreare, a volte, profonde amicizie e manifestazioni di rico-noscenza quali raramente si hanno per altre forme di pre-stazioni professionali.

Mi fu così facile convincere quell’uomo che la sua sof-ferenza era temporanea e che con una piccola operazionegli avrei ridato la possibilità di una rapida guarigione. Eraperò necessario trasportarlo subito nel nostro ospedale,ove garantivo la sua libertà trattandosi di un civile biso-gnoso di un’operazione urgente. Su un carretto a manotrascinato dalle due donne e nelle vesti di un anonimocontadino egli giunse, dopo un paio d’ore, nel nostro po-sto di pronto soccorso ove gli praticai una tracheotomiache in pochi giorni gli permise di allontanarsi dall’Ospe-dale, lasciandomi insalutato ospite, in dono una piccolaicona che conservo tra i miei più significativi ricordi. Nonebbi più notizia del mio operato ma io voglio pensare chenei mesi che seguirono, lungo le inospitali gelide piste de-solate dell’inverno russo, durante la catastrofica ritiratadel nostro corpo di spedizione, qualche soldato italianoabbia trovato aiuto e salvezza da chi mi serbava ricono-scenza ed aveva compreso quale abisso distinguesse laguerra condotta dall’esercito italiano da quella dell’allea-to tedesco. Infatti molti dei nostri soldati dispersi, affama-ti, piagati e morenti furono spesso accolti, sfamati econfortati da quelle buone miti popolazioni ucraine, men-tre nessuna o ben poca fu la pietà riservata al soldato te-desco in fuga.

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Orbene questo episodio fu allora da alcuni criticatoperché, a loro avviso, avrei dovuto denunciare quell’uo-mo che aveva bisogno del mio soccorso. Ma si trattava delparere di pochi, contro quello di tutti gli uomini di cuoree soprattutto della mia coscienza, avendo fatto ciò chequalunque medico conscio del proprio alto dovere moraleavrebbe fatto.

Ed infine, nella guerra più terribile, quella partigia-na, ancora medici in prima fila. Gino Pieri era Primarioad Udine, il suo Reparto, il suo Ospedale, diventarononel drammatico 1944 il sicuro approdo per i feriti del-l’esercito clandestino. Pieri soccorse e curò feriti e mala-ti delle Brigate Garibaldi e Osoppo e degli altri gruppioperanti nel Friuli e nel Nord Est. Parola d’ordine: Ro-ma- Rovigo, e la porta del suo studio si apriva e la suo-ra, solidale e complice, medicava e distribuiva farmacie preghiere. Sino a che “a forza di sfidare il cielo si facadere il fulmine”. Lo racconta lo stesso Pieri nel suo li-bro Storie di Partigiani.

Verso le ore 11 sono entrati nel mio studio in Ospedaletre uomini. Uno, il più alto e aitante mi ha detto: “Sono ilcommissario di una brigata partigiana e ho due bigliettida consegnarvi. Il ferito attende a basso. Una delle duecarte era un biglietto per Quidam con cui si raccomandaun compagno che ha bisogno del mio soccorso, l’altro unpermesso dattilografato per un partigiano di venire aUdine a visitarsi.

Io stavo per uscire (mi attendeva davanti alla porta delreparto una macchina per condurmi fuori ad un consulto)e avevo già il cappello in testa; mi sono scusato per non po-termi fermare e ho assicurato che il ferito sarebbe stato vi-sto subito e soccorso dal mio assistente dottor Guerra, peril quale ho consegnato ad essi un biglietto; e siamo discesi.

Appena usciti, uno dei tre individui, che durante lascena nel mio studio era rimasto in disparte e silenzioso,mi si è avvicinato ed ha detto:

“Io sono il maresciallo Kitzmuller, della polizia tede-sca, e devo invitarvi a venire con me”

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….L’interrogatorio così conclusosi è durato quattroore, dalle quindici alle venti, con un’ora d’intervallo fra lediciotto e le diciannove. Kitzmuller mi interrogava, io ri-spondevo, egli trascriveva a macchina le mie risposte. Al-la fine dell’interrogatorio egli mi ha letto il verbale e miha invitato a sottoscriverlo…

… Dopo di che mi ha congedato annunziandomi cheio sarei passato alle carceri, e sono disceso di nuovo nellasala di aspetto. Qui non si trovava nessun agente per ac-compagnarmi in prigione (erano passate le ore venti e tut-ti erano andati a casa) cosicchè ha dovuto farlo l’usciere.Ci siamo avviati a piedi ed egli non faceva che ripetermi:“Quanto mi rincresce, professore, di dovervi fare io que-sto servizio!…

… Allora ci siamo avvicinati al portone e abbiamo suo-nato. Ci hanno aperto. Al centro dell’atrio era posta unamitragliatrice. Siamo andati all’ufficio matricola, e il mioaccompagnatore si è buscata una ramanzina perché emo-zionato com’era, si era dimenticato di portare con sé il bi-glietto di incarceramento. Le tre o quattro guardie di ser-vizio saputo ch’ero io si sono profuse in complimenti e mihanno domandato se potessero essermi utili in qualchecosa…

… Dopo di chè mi hanno accompagnato alla cella a medestinata, la numero 22. In questa erano già due inquilini:il conte Frangipani e il signor Ciriani. Il conte Frangipani,podestà di S.Giorgio di Nogaro era stato arrestato dai te-deschi con l’accusa di ostruzionismo, il Ciriani della Zoo-tecnia, è accusato di aver sabotato l’autorità germanicaperché un raduno di bestiame a San Daniele era andato avuoto.

… Sulla branda si dorme vestiti, ricoprendosi alla me-glio come si può.

Io che sono arrivato con solo quello che avevo indosso,mi sarei gelato nella notte come un sorbetto se i miei com-pagni di reclusione non mi avessero prestato una copertae un cappotto.

… Si è subito sparsa tra i ricoverati la voce del mio ar-rivo, e ieri e oggi è venuta a visitarmi una quantità di gen-te che mi conosceva di nome (alcuni anche di persona).

… Sono venuti a farsi vedere da me anche vari parti-giani feriti, guariti o in via di guarigione, e ho potutotranquillizzarli..

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Pieri continuò a fare il medico durante la carcerazio-ne, finchè non fu liberato e tornò al suo Ospedale.

A guerra finita, quel popolo friulano riconoscente loelesse deputato alla Assemblea Costituente della Re-pubblica. Due anni più tardi, nel 1948 sarà anche elettoPresidente della Società Italiana di Chirurgia.

Chirurghi protagonisti nelle guerre italiane, ma an-che chirurghi italiani impegnati, con grande spirito disolidarietà, là dove la violenza esplode. Le NazioniUnite e altri organismi hanno più volte sottolineatol’impegno dei chirurghi a sostegno di popolazioni iner-mi vittime di guerre e rivoluzioni.

E poi l’opera dei chirurghi in favore di quanti, so-prattutto bambini, rimangono vittime per l’esplosionedelle mine.

Chirurghi di pace nella tragedia della guerra: un’e-sempio per la Storia.

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Cap. XIII

MUSSOLINI MALATO

Mussolini, un malato difficile. Il suo carattere lospinge a minimizzare le malattie e a non temerle. Resi-stente dunque ai medici e alle loro proposte. Soffre insilenzio, ad esempio, della sua ulcera, rifiutando le cu-re. Frequenti le crisi come quella che lo porta sull’orlodell’intervento chirurgico la sera del 15 febbraio del1925. Questo attacco di ulcera, secondo lo storico RenzoDe Felice, va messo in relazione con la grande tensione,accompagnata da una notevole irritazione, vissuta dalDuce in una seduta del Gran Consiglio dovendo accet-tare la nomina di Roberto Farinacci a segretario del Par-tito Nazionale Fascista. “Pochissimi giorni dopo la no-mina di Farinacci – scrive De Felice – Mussolini vienecolto da un gravissimo attacco di ulcera che lo allonta-na per alcune settimane dalla vita politica e che in qual-che momento fa addirittura pensare alla possibilità diuna sua scomparsa. Per vari giorni, nonostante che uffi-cialmente si parli di un attacco influenzale, si discutesulla necessità di un imminente intervento chirurgico”.

Ma Mussolini non viene operato, riesce ad evitarei bisturi durante un successivo, ancor più grave, at-tacco: l’ulcera sanguina, ma deve arrendersi alle cure.

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Vomita in abbondanza. Intorno al suo letto, a VillaTorlonia, accorre il meglio della Sanità romana fedeleal Regime.

La malattia è grave, la politica passa in secondo pia-no, viene chiamato anche Gino Pieri, grande specialistadell’ulcera ed inventore della vagotomia, ma noto anti-fascista, futuro partigiano e membro dell’AssembleaCostituente della Repubblica. Mussolini viene trasfusoma l’emorragia non si arresta. Ultimo viene chiamatoGiuseppe Bastianelli, monarchico, medico della CasaReale, anziano ex Primario degli Ospedali, ancora di-rettore del Centro di Malariologia della Università, Se-natore del Regno e fratello di Raffaele, Direttore e Chi-rurgo del “Regina Elena”. Bastianelli cambia la terapia,sospende le trasfusioni: l’emorragia cessa. Mussoliniguarisce e Bastianelli aggiunge anche questo ai suoimeriti professionali.

Le crisi per l’ulcera si susseguono: in un’intervista aIvano Fossani, il Duce afferma che “una delle sue di-sgrazie era stata l’ulcera allo stomaco che avrebbe atter-rato un bue e che sovente mi impediva, nonostante ilgrande sforzo di volontà, di disporre dell’energia ne-cessaria”. L’ulcera preoccupa anche medici come Arnal-do Pozzi e Cesare Frugoni che, per altro, negli anni1942-1943 non avevano escluso neppure la presenza diun’infezione amebica. In verità, l’autopsia cui il Ducesarà sottoposto, dopo piazzale Loreto, da un’équipe dimedici diretta da Carlo Mario Cattabeni, oltre averescluso la presenza di alterazioni patologiche di naturaluetica (la voce di un’infezione sifilitica era molto diffu-sa all’estero), ridimensiona notevolmente anche la gra-vità dell’ulcera. Con grande probabilità le cure cui i me-dici tedeschi sottoposero Mussolini durante la repub-blica di Salò, potrebbero aver fatto migliorare l’ulcera.

Lo storico Renzo De Felice cita un articolo del gior-nalista John Whitaker sul Daily Telegraph del 28 aprile1941 in cui è scritto che “secondo fonti degne di fede

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nella primavera del 1939 Mussolini ebbe un colpo cheper parecchi giorni gli cagionò una paralisi parziale delvolto. Il Duce venne visitato da uno specialista svizzeroperché l’occhio sinistro era rimasto offeso”. Sempre peruna malattia agli occhi Mussolini è costretto a sottopor-si ad una visita a Zurigo dal celebre oculista Vogt.

Certo è che le condizioni di salute di Mussolini, apartire dalla seconda metà del 1936, non sembranobuone come un tempo, al punto che il Duce, semprepiù spesso, si fa accompagnare nei suoi spostamenti dalmedico di fiducia, Angelo Puccinelli.

In un solo caso il Duce ha bisogno direttamente diun chirurgo, il 7 aprile del 1926. Da pochi giorni il Duceha disposto la sostituzione di Roberto Farinacci con Au-gusto Turati al vertice della segreteria del Partito Na-zionale Fascista, e sta per partire per la Libia per unavisita ufficiale. La mattina del 7 aprile 1926 decide diaccettare l’invito ad aprire un congresso medico inCampidoglio. È un vertice internazionale, quindi ilmondo della medicina ci tiene molto a che sia proprioMussolini ad inaugurare i lavori. Il Duce va in Campi-doglio, tiene un discorso, si congratula con gli organiz-zatori. Il rapporto fra il Duce e i medici è molto strettoperché Mussolini vuol dimostrare, nel suo intento di farcrescere il consenso da parte della opinione pubblica,che ha a cuore la salute degli italiani. E poi il Duce vuo-le stringere rapporti con il mondo della cultura anchese solo con il mondo che gli è fedele, pronto invece adaccantonare quanti avanzano riserve. Più tardi spingeràil piede sull’acceleratore delle epurazioni con l’introdu-zione delle leggi razziali che andranno a colpire moltimedici, fra cui chirurghi di grande valenza scientifica.

Mussolini esce dal Campidoglio. L’attentato vienecompiuto mentre alza la mano per salutare romana-mente un gruppo di studenti che lo stanno acclamando.Nel sollevare il braccio, tira indietro la testa e questo gliconsente di evitare una pallottola partita dalla pistola

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di Violet Gibson, matura signora irlandese. La donna,definita più tardi una squilibrata, voleva uccidere il Du-ce ed aveva in mente di compiere un identico attentatonei confronti del Papa. Violet Gibson viene subito im-mobilizzata e portata via. Nel novembre dello stessoanno verrà rinviata a giudizio, ma il processo non sifarà perché l’anno successivo – date le sue condizionimentali ma soprattutto per le pressioni del governo in-glese – verrà fatta uscire dal carcere e accompagnata al-la frontiera.

Il Duce viene colpito di striscio al naso. Una feritanon profonda ma comunque pur sempre una lesione:viene accompagnato urgentemente nel vicino PalazzoChigi dove il medico personale constata che non si trat-ta di niente di grave: l’opera del chirurgo è delicata mamodesta.

Per la verità Mussolini del chirurgo ne aveva giàavuto bisogno in gioventù. Negli anni della primaguerra a Doberolo di Ronchi l’allora bersagliere riportòuna ferita alla gamba. Fu curata e guarita da GiuseppeTusini che poi divenne Clinico Chirurgo a Genova, Pre-sidente della Società Italiana di Chirurgia e Senatore.

Del rischio di un intervento chirurgico, ulcera a par-te, la vita di Mussolini è dominata, vista l’ombra sempreincombente di un attentato ma, eccetto la ferita procura-ta dal colpo di pistola sparato da Violet Gibson, il Ducenon è mai stato ferito, malgrado sia stato preso di mirada più attentatori, addirittura tre volte nel 1926, dopol’attentato della Gibson, il secondo attentato, sempre aRoma, l’11 settembre. Mentre l’auto con il Duce a bordoimbocca il piazzale di Porta Pia da via Nomentana perdirigersi verso Palazzo Chigi, viene scagliata una bom-ba. Otto feriti ma Mussolini è illeso.Viene arrestato GinoLuccetti, marmista ventiseienne della Garfagnana, emi-grato per motivi politici in Francia. Verrà condannato atrenta anni di carcere, sarà liberato dagli Alleati a Ponzanel 1943, morirà poco dopo in un bombardamento.

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Il terzo attentato, quello bolognese, è del 31 ottobre.Anche in questa occasione Mussolini rimane indennema l’episodio provoca un grande scalpore e le interpe-trazioni più discordanti. Nel pieno delle celebrazioniper il quarto anniversario della “Marcia su Roma”, ilDuce si trova a Bologna anche in questo caso ad unamanifestazione che ha a che fare con la Medicina, sitratta infatti dell’inaugurazione del quindicesimo con-gresso della Società per il Progresso delle Scienze. Men-tre in auto, dopo la cerimonia, si reca alla stazione, dal-la folla posta ai lati della strada parte un colpo di pisto-la. Il proiettile sfiora Mussolini lacerando la fascia del-l’Ordine Mauriziano che il Duce porta al petto. La ver-sione ufficiale dei fatti dice che a sparare è stato un se-dicenne, Anteo Zamboni, subito linciato e ucciso da al-cuni fascisti presenti.

Se Mussolini non ha bisogno dei chirurghi, eccettoil piccolo intervento al naso e quello di quando erabersagliere, sono i medici ad avere bisogno di Musso-lini. Alcuni, convinti assertori del regime fascista, in-fatti, vedono il percorso professionale agevolato, altripossono veder concretizzate le loro idee proprio perl’aiuto del regime. Due esempi, Mangiagalli a Milanopuò dar vita all’Università, la prima del capoluogolombardo, e Pascale realizza a Napoli un Istituto cheprenderà il suo nome. Altro medico sostenitore del fa-scismo, Raffaele Bastianelli, prende il posto del tisiolo-go Morelli alla testa del Sindacato Nazionale Fascistadei medici, fonderà e dirigerà l’Istituto per i Tumori diRoma.

Ma ci sono chirurghi che dal regime fascista traggo-no penalizzazioni anche molto gravi. Questo accade so-prattutto all’epoca della promulgazione delle leggi raz-ziali, ma anche prima chi era in odore di non fascista oin ogni modo non fervido ed entusiasta sostenitore delfascismo non aveva certo molte possibilità di fare car-riera. È il caso di Gustavo Lusena in Liguria e, più tar-

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di, di Bartolo Nigrisoli, a Bologna, successore di Giu-seppe Ruggi alla Cattedra di clinica chirurgica. Il 15 di-cembre del 1931 Nigrisoli è dimesso dalla Cattedra per-ché non ha voluto giurare fedeltà al fascismo. Al suoposto Raffaele Paolucci che, con grande coraggio, nellaprolusione davanti a tutte le autorità di Bologna mandaun caloroso saluto a Nigrisoli, scatenando un lungo ap-plauso degli studenti presenti alla cerimonia.

La mano pesante del regime nei confronti dei chirur-ghi – ovviamente sono solo una delle categorie di pro-fessionisti che cadono sotto la mannaia delle leggi raz-ziali perché nessun settore della vita culturale ed eco-nomica è tralasciato dai gerarchi nella loro azione diepurazione - avviene soprattutto alla vigilia dell’ingres-so dell’Italia nella seconda guerra mondiale. Furono 2su 1225 i professori universitari, di tutte le Facoltà, cherifiutarono il giuramento: oltre a Bartolo Nigrisoli a Bo-logna, Ernesto Buonaiuti, Gaetano De Sanctis, GiorgioLevi della Vida, Vito Volterra a Roma, Francesco Ruffinie Fabio Luzzato, Mario Carrara, Francesco Ruffini eLionello Venturi a Torino, Pietro Martinelli a Milano eEdoardo Ruffini a Perugia

Fra i chirurghi è colpito dai provvedimenti previstidal decreto legge 5 settembre 1938 n.1390 Mario Donati,clinico chirurgo a Milano, Presidente della Società Ita-liana di Chirurgia nel 1926. Ma è ebreo e per questo èrimosso dalla Cattedra. Donati va in Svizzera dove con-tinua ad operare in un campo speciale creato dalle au-torità elvetiche per i rifugiati politici. Anni dopo farà ri-torno a Milano per riprendere l’incarico che aveva for-zatamente dovuto lasciare. La sorte di Donati è la stessache tocca, fra gli altri, ai fisiologi Amedeo Herlitzka,Ugo Lumbroso e Carlo Foà, al patologo generale CesareSacerdoti, al farmacologo Angelo Rabbino, al clinicopediatra Maurizio Pincherle, al medico legale AmedeoVolta. Renzo De Felice ricorda che nella seduta delGran Consiglio del Fascismo del 6 ottobre 1938 è presa

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in considerazione la posizione di Mario Donati, giudi-cato in un documento sottoposto allo stesso Gran Con-siglio “celebre medico, fascista e da tempo già converti-tosi e sposato con una cattolica”. Ma, ricorda ancoraRenzo De Felice, Mussolini, sostenuto da Achille Stara-ce, Guido Buffarini Guidi, Roberto Farinacci e Giusep-pe Bottai, si oppone recisamente ad ogni ammorbidi-mento.

Medici costretti a lasciare l’incarico e medici che dalfascismo traggono vantaggi. Il fascismo comprende be-ne che la via della salute serve molto per ottenere ilconsenso. E Bastianelli tiene a battesimo la serie di tra-smissioni di Radio Igea in onda tutte le domeniche alle14,30 e dedicate a chi in ospedale è ricoverato, con ilgrande consenso di Pio XII° e della Regina.

Cade il fascismo, finisce la guerra. È il momentodella reazione. Nell’occhio del ciclone ora sono colo-ro, medici compresi, che si erano compromessi con ilregime di Mussolini.Il primo provvedimento riguardaVincenzo Morelli cui è tolto l’incarico di direttoreamministrativo, ma non quello di direttore sanitario,all’Istituto Forlanini di Roma. Nel gennaio del 1945sono colpiti dalle sanzioni epurative personalità me-diche di grande valore come Roberto Alessandri, Raf-faele Bastianelli, Nicola Pende e Raffaele Paolucci cheera stato vice presidente della Camera dei Fasci edelle Corporazioni. Saranno tutti riammessi nel lororuolo medico circa un anno dopo. Raffaele Paoluccifarà vita politica anche con la Repubblica diventandoSenatore per il Partito Monarchico in un collegioabruzzese.

Di quei giorni amari Paolucci parlerà all’aperturadel Congresso da Presidente della Società commemo-rando l’ex Presidente Luigi Stropeni da poco scom-parso.

Lasciate, cari colleghi, che io dica alla Sua memoria pa-role che non Gli avrei mai dette da vivo, che ho sussurra-

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to tra me e me, quando mi sono ritrovato davanti al Suosepolcro, e che amo ripetere oggi, davanti a Voi: parole digratitudine, perché Egli mi fu vicino, con un cuore fedele,nelle mie ore amare, quando sembrava che tutto mi do-vesse crollare d’intorno. Ma dal mio Maestro Mario Do-nati, a Stropeni, a Dogliotti, tutta, tutta la grande scuolapiemontese si schierò apertamente al mio fianco, così co-me io ero stato al fianco di Mario Donati nelle sue oreamare. Devo dire in verità che questa fu la luce che ri-schiarò in tanto dolore le mie oscure giornate di ansiosis-sima attesa, fino a quel giorno nel quale il Ministro dellaPubblica Istruzione del tempo, Enrico Molè, mi telefonòcon mia grande sorpresa e mi tenne questo strano ed inat-teso discorso: “Sono il Ministro della Pubblica Istruzione,sono un suo avversario politico ma voglio dirle che la so-lidarietà ferma e sicura a lei dimostrata da tutti i suoi col-leghi chirurghi universitari mi è parsa così tanto nobile,tanto umanamente bella, che non ho potuto resistere aldesiderio di telefonarle, per dirle che, di fronte a tantoplebiscito di considerazione e di affetto, io mi sento ono-rato di sottoscrivere”. E mi fece tra i primi, oltre a quellodi Righetti, di Torraca e Ceccarelli, i nomi: Donati, Fasia-ni, Stropeni, Dogliotti, tutta, tutta la Scuola piemontese,chè mi consideravano, a mio onore, uno di loro, legatoper mai rinnegata discendenza, nella difesa di quella ban-diera che Antonio Carle innalzò e che Essi tennero alta.

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Cap. XIV

IL BOMBARDAMENTO DI S.LORENZO

Una pagina splendida è quella scritta dai chirurghi aRoma durante i bombardamenti compiuti sulla città il 19luglio ed il 13 agosto del 1943. Una pagina di atti d’eroi-smo, di grande sacrificio, di alta professionalità in un’at-mosfera, quasi irreale, di angoscia, terrore, rabbia, vogliadi sopravvivere. L’orrore della guerra, il coraggio e la vo-lontà dei medici. Una pagina che merita di essere raccon-tata attraverso le testimonianze del tempo, le voci degliscampati, le cronache dei giornali e soprattutto la ricostru-zione di un giornalista, Cesare De Simone, che ai bombar-damenti ha dedicato un libro Venti angeli sopra Roma.

Lunedì 19 luglio 1943, a Roma, in edicola c’è solo IlMessaggero, gli altri quotidiani il lunedì non escono: so-no Il Popolo d’Italia, Il Giornale d’Italia, Le Vie dell’Aria. Inprima pagina c’è il radiodiscorso di Sforza. E c’è ancheil bollettino di guerra n.1149 nel quale si annuncia l’ab-bandono, sotto gli attacchi delle forze nemiche, di Agri-gento. E c’è la notizia che Napoli è stata nuovamentebombardata. In cronaca un avviso che è quasi un presa-gio: riporta una serie di norme riservate ai medici iquali sono invitati, in caso di allarme aereo, a recarsi alComando di zona della Vigilanza Urbana per essere de-

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stinati nei quartieri dove dovesse essere urgente la loropresenza.

Su Il Messaggero c’è anche l’annuncio che i consumatoriresidenti a Roma possono effettuare un quarto preleva-mento di patate, un chilo. E anche una razione di carnebovina. C’è anche voglia di dimenticare l’angoscia del mo-mento. Al “Teatro Quirino” la Compagnia comica Tom-mei-Sabbatini-Bacci-Raviglia presenta “La città delle luc-ciole”, fantasia musicale in due tempi. Sulla locandina èscritto che “Il teatro è arieggiato dalla cupola apribile”.Utile avviso perché fa caldo, alle otto del mattino il termo-metro già segna 27 gradi che alle 11, ora del bombarda-mento, arriveranno a 40 gradi. Una giornata di rara limpi-dezza senza una bava di vento. Chi ha tempo e voglia diandare al cinema può scegliere fra “Le due orfanelle” conAlida Valli e Osvaldo Valenti allo “Smeraldo”, “La Gorgo-na” con Mariella Lotti al “Salone Umberto” e “Pazzo d’A-more” con “il comicissimo Rascel” al “Farnese”.

Un altro tornante della storia sta girando su Roma magli abitanti non lo sanno. “Lo sa - scrive De Simone -Ei-senhower ad Algeri. Lo sanno nella palazzina attorniatadalle palme del Comando NAAF ad Orano, gli ufficialiche si versano il caffè e bevono acqua ghiacciata mentreseguono sulle carte la rotta delle squadriglie che conver-gono verso Roma dall’Algeria, dalla Tunisia, dalla Libiae dall’Egitto. Lo sanno anche i settemila uomini in giub-botto di cuoio seduti sui seggiolini delle Fortezze volan-ti, dei Marauder, dei Mitchell, dei caccia P-38 Lightningin volo sul mare. La sterminata nuvola di ferro e di fuocosta puntando su Roma nel cielo azzurro, dalla parte delmare e del sole, con le bombe da 500 e 1.000 libbre, glispezzoni incendiari al fosforo e alla termite-magnesio, iproiettili traccianti, i cannoncini. In cuffia gli uomini sen-tono Glenn Miller e la tromba di Louis Armstrong o EllaFitzgerald. E bevono Coca Cola e tè aromatizzato”.

Il bombardamento ha inizio alle 11,03 e termina alle13,45 in due fasi: dalle 11,03 alle 12,10 sugli scali ferro-

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viari del Littorio e di San Lorenzo come obiettivi pri-mari, dalle 12,12 alle 13,35 sugli aeroporti del Littorio edi Ciampino. Si avvicendano, in sei ondate, 930 velivo-li. Roma è aggredita, mutilata, uccisa dalla più potenteflotta aerea che sia stata mai mossa nei cieli italiani. Inpoco più di due ore d’apocalisse, su Roma vengonosganciate 1.060 tonnellate di esplosivo, qualcosa come 4mila fra bombe e spezzoni incendiari. La più pesanteincursione come numero di vittime: dai 2800 ai 3.000morti, non meno di diecimila feriti.

Ed ecco la pagina eroica dei medici. Gli ospedali piùvicini all’area colpita sono il Policlinico “Umberto I°” eil “San Giovanni”, i due maggiori nosocomi di Roma, el’ospedale militare del Celio. In pochi minuti, mentregli aerei stanno ancora martoriando la città infierendosu interi quartieri, le corsie si intasano. Morti e feritivengono prima sistemati sui materassi, poi sulle coper-te infine sui giornali o sulla nuda terra.

Orazio Pesce, medico traumatologo, primario al CTOdella Garbatella, il giorno del bombardamento - aveva 23anni e frequentava il sesto anno di medicina - si trovavaal secondo padiglione di chirurgia al Policlinico “Umber-to I°”. “Pochi minuti dopo le undici - ricorda- arrivano iprimi feriti e i primi morti. Una scena terrificante. Bian-chi di polvere e di calcinacci, pieni di sangue. Un’interamattinata al Policlinico a medicare, disinfettare, ricucireferite. Feriti e morti con ambulanze ma anche con carret-ti, carrettini, motofurgoni, camioncini. Un continuo arri-vare. Nel pomeriggio mi chiamano al secondo padiglio-ne dove c’è una camera operatoria in funzione. Ore eore, fino alla mattina dopo, ad operare soprattutto am-putazioni di braccia e gambe, gambe e braccia “.

“L’ospedale Regina Elena - scrive De Simone - il piùvicino al piazzale di San Lorenzo, un ospedale specia-lizzato in oncologia, ma con un paio di reparti destinatiad emergenza, è messo fuori uso dalle bombe”. Crolla-no due padiglioni dell’Istituto. I degenti sono pronta-

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mente trasportati nei rifugi sotterranei, ma due équiperestano al lavoro perché gli interventi sono in una faseavanzata. Una delle équipe è diretta da Raffaele Bastia-nelli che dell’Istituto è stato il fondatore e adesso ne è ildirettore. Un altro episodio ha per teatro sempre il “Re-gina Elena”. Poche ore prima del bombardamento, ilchirurgo Luisini visita un capitano di fanteria che erastato ricoverato nell’Istituto per la frattura della spallasinistra sul fronte tunisino. Il medico comunica all’uffi-ciale che è guarito e può tornare al suo 40° reggimentodella “Divisione Trieste”. Praticamente Luisini salva lavita all’ufficiale, Enzo Stimolo di 27 anni. Infatti l’uffi-ciale in attesa di avere dall’Istituto il foglio di dimissio-ne, approfitta del tempo necessario per la stesura deldocumento, si reca alla stazione per acquistare il bi-glietto ferroviario per raggiungere il suo Corpo. Appe-na esce dal “Regina Elena” piovono le bombe.

Si saturano - scrive De Simone - rapidamente di feritiil Policlinico, il San Giovanni, l’ospedale militare del Ce-lio, il San Giacomo, il San Camillo, il Santo Spirito, il Fate-benefratelli, il Cesare Battisti (l’altro ospedale militare invia Ramazzini a Monteverde). Si saturano le cliniche pri-vate. I feriti in condizioni meno gravi vengono trasportatinegli ospedali di Frascati, Tivoli e Albano. Il primo feritoregistrato è quello che viene trasportato alle 11,10 al SanGiovanni. “Tavolieri Antonio - è scritto sul registro delpronto soccorso - anni 57, domiciliato ad Ardea, spappo-lamento arti inferiori ed escoriazioni alla faccia”.

Una testimone dell’abnegazione dei medici e delpersonale di assistenza è Letizia Zappelli, all’epoca in-fermiera volontaria della Croce Rossa al Celio. “Stavoall’Ospedale Militare - racconta- dove c’era un repartosempre pronto all’emergenza. Appena i feriti giungeva-no, li mandavamo, a seconda della gravità, in una dellecinque sale operatorie dirette dal colonnello medicoTarquini. Si dovevano passare in continuazione stracciimbevuti di acqua ossigenata per togliere il sangue ed

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impedire che coagulasse in terra”. In un documento in-viato alle autorità dal dottor P. Santoli, colonnello me-dico dell’ospedale del Celio, è scritto che “ numerosisono stati gli interventi demolitivi per spappolamentodegli arti inferiori, numerose le laparatomie per lesioniaddominali; più di uno gli interventi al cranio; com-plessivamente un centinaio gli interventi in cavità. Lecamere operatorie hanno funzionato ininterrottamentefino a notte inoltrata, qualche chirurgo ha prestato lasua opera per più di dieci ore consecutive”. Per il gran-de contributo dato dai medici, il nuovo ministro dellaguerra del governo Badoglio, Sorice, ordina alla Dire-zione della Sanità Militare di inviare una lettera di com-piacimento ai sanitari del Celio.

Roma è in ginocchio. Si contano i morti. Gli ospedalinon reggono all’urto dei feriti. Alle 17, 20 la Mercedesnera papale con il guidoncino bianco e giallo, esce dalportone su via Angelica. A bordo Pio XII° accompagna-to dal sostituto segretario di stato Mons. Montini. Il Pa-pa raggiunge il quartiere di San Lorenzo e a piedi, cir-condato dalla folla, va la Basilica. Il Papa si fa largo frala folla che grida “pace, pace...”. È la prima volta chePio XII° esce dal Vaticano dall’inizio della guerra. Ed èanche la prima personalità che giunge sul luogo delbombardamento. La folla continua a stringersi intornoal Pontefice che appare visibilmente commosso. Unamoltitudine, fra cittadini e militari.

Ben altra accoglienza la gente di Roma riserva al so-vrano Vittorio Emanuele III° quando si reca in visita al-le zone colpite. Grida ostili, addirittura “assassini...” Laregina Elena visita i feriti, ma avverte un clima poco fa-vorevole. Bene accolta invece dalla gente di San Loren-zo la principessa Maria José. Mussolini, che si trovava aFeltre in un incontro con Hitler mentre Roma vienebombardata, rientra a Roma in aereo nel tardo pome-riggio, ma rinvia al giorno successivo la visita ai luoghicolpiti dalle bombe alleate.

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Ventiquattro giorni dopo Roma viene colpita di nuo-vo. Alle ore 11 in punto, tre minuti prima che nel primobombardamento. È il venerdì 13 agosto 1943. Un’altragiornata limpida, azzurra, con il termometro che indica31 gradi. Arrivano sul cielo di Roma 409 aerei decollatidalla Tunisia, dall’Algeria e da Pantelleria. L’incursionedura un’ora e mezza. Questa volta le Fortezze volantivolano su una Roma che “se dall’alto- scrive De Simone- sembra la stessa, nei Palazzi che contano è cambiata.Mussolini è in carcere, il suo regime è stato spazzatovia, al Viminale, alla scrivania di capo del Governo, c’èil maresciallo Badoglio che già si sta attivando per rag-giungere un’intesa con gli Alleati. Le bombe seminanomorte e dolore. Quando suonano le sirene del “cessatoallarme”, Pio XII° dà disposizione di preparare la suaMercedes nera e alle 12, 45 è già per le vie di Roma finoa Piazza San Giovanni, Porta Maggiore, Via Taranto. Lafolla prega e grida “Pace, pace...”. Il giorno dopo, è il 14agosto, a meno di 24 ore dal bombardamento, il gover-no Badoglio dichiara “Roma, città aperta”.

Fra tanto dolore, fra tanti episodi di eroismo, fratante distruzioni, un episodio che fa sorridere, prota-gonista un chirurgo di cui un testimone del tempo, ilgià citato Orazio Pesce, medico traumatologo, studentedi medicina all’epoca del bombardamento del 19 lu-glio, non vuol rivelare il nome.” Da quel giorno delbombardamento - racconta - un chirurgo emerito, pro-fessore di grande valore, Primario al Policlinico, ognimattina alle 10,30, qualsiasi intervento stesse facendo,smetteva, posava i ferri, li dava all’Aiuto o ad un colle-ga, saliva in macchina e se ne scappava a piazza SanPietro perché, diceva, lì stava al sicuro. Andava in uncaffè di via della Conciliazione, prendeva un cappucci-no seduto fuori del bar. Tanto gli americani vengonosempre alle 11, diceva. I colleghi lo sfottevano e lui ri-spondeva serio: e no, io alle 11 sto in piazza San Pietro,così mi salvo.

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Cap. XV

L’ATTENTATO A TOGLIATTI

C’è vento e ci sono nuvole. “È un’estate all’insegnadel solleone, questa del 1948”, scrivono i giornali. E an-che mercoledì 14 luglio rispetta le regole. Si asciuga ilsudore Antonio Pallante, studente fuoricorso di giuri-sprudenza nato a Bagnoli Irpino, provincia di Avellino,quando, intorno alle 11,30, all’angolo fra via del Vicarioe via della Missione, proprio all’uscita da Montecitorio,si avvicina a Palmiro Togliatti. Il segretario del PartitoComunista Italiano sta tornando dal Parlamento allasede del partito, in via delle Botteghe Oscure, accompa-gnato dalla segretaria e compagna di vita, Nilde Jotti.Ha appena finito di ascoltare in aula l’onorevole An-dreotti, sottosegretario, che rispondeva ad alcune inter-rogazioni. Togliatti rallenta il passo per stringere il no-do della cravatta. Nilde Jotti lo sopravanza di qualchemetro. Poi il Segretario del PCI prende sottobraccio lacompagna. Nessuno dei due fa caso ad un giovane ma-gro, dalla pelle olivastra che avanza verso di loro. Pal-lante estrae la “Hopkins” e preme il grilletto. Una, duevolte. Una pausa. Ancora una, due volte. Togliatti, pie-ga le ginocchia, si porta una mano alla fronte, stramaz-za al suolo.

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Primo soccorso all’infermeria di Montecitorio. Ma lecondizioni sono disperate. Mario Ceravolo, deputatocalabrese, democristiano, medico, sente il polso di To-gliatti: “Presto … fate presto… per carità”. Qualcunogrida: “È morto …”. Un parlamentare comunista cercaal telefono il medico personale di Togliatti, Mario Spal-lone, lo trova in una clinica mentre sta visitando unapaziente. Spallone si lancia fuori della clinica e sale sul-la propria auto, ma per l’emozione non riesce a metter-la in moto. Chiede all’autista di un furgone che sta la-sciando la clinica di accompagnarlo urgentemente alPoliclinico “Umberto I°”.

Verso il Policlinico sta viaggiando anche l’ambulan-za a sirene spiegate con a bordo Palmiro Togliatti. Gior-gio Di Matteo che poi sarà clinico chirurgo proprio alPoliclinico e Presidente della Società Italiana di Chirur-gia, quel giorno, giovane studente, era all’ingresso delPoliclinico quando arrivò l’ambulanza. La vide andaredritta alla porta dell’Istituto diretto da Valdoni, di fron-te al Pronto Soccorso. Un nugolo di infermieri scaricò ilferito e subito via di corsa nell’interno; tanta concitazio-ne, qualche grido e la voce che corre tra gli astanti: To-gliatti è morente.

Già è stato avvertito Pietro Valdoni. Il chirurgo, assi-stito da Biocca, visita Togliatti e formula una prima dia-gnosi: “Ferita da arma da fuoco con ritenzione deiproiettili alla nuca, all’emitorace sinistro e all’ipocon-drio sinistro. Emotorace, pneumotorace aperto con feri-ta del polmone, grave anemia secondaria, stato di choctraumatico. Lingua umida patinosa, temperatura afeb-brile, polso 82 ritmico, ipoteso, pressione arteriosa 60massima, minima non apprezzabile; respiro 36 preva-lentemente toracico”. Valdoni si sofferma ancora qual-che attimo sul paziente. Poi dice: “Bisogna subito ope-rare … occorre del sangue”. Un cuoco, Arcangelo Perini- dirà poi ai giornalisti che alle elezioni svoltesi in unclima incandescente il 18 aprile, aveva votato DC - e un

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frate cappuccino vengono scelti per il prelievo e la do-nazione.

Ormai sono le 12,45. L’anestesista Mazzoni cominciaa preparare il paziente mentre Valdoni si accinge ad ini-ziare l’intervento. La pressione di Togliatti è a 94. Il cli-nico Frugoni, avvertito da Valdoni, visita il paziente econferma la diagnosi. Ha inizio l’operazione. Le feritesi rivelano meno gravi di quello che si era pensato inun primo momento. Valdoni finisce di operare alle14,35. Togliatti si sveglia dall’anestesia alle 17,30.Mezz’ora dopo la situazione sembra precipitare. Lapressione arteriosa di Togliatti è molto bassa: c’è perico-lo di vita. Alle 19 tutto torna normale dopo una terapiad’emergenza. Togliatti chiede di far pervenire un mes-saggio ai dirigenti del suo Partito che si trovano nel-l’anticamera della stanza di degenza. È accontentato.“Mi raccomando – Togliatti fa sapere ai dirigenti delPartito Comunista – non perdete la testa, non fate scioc-chezze”.

Ma in tutto il Paese c’è la paura che si possa perderela testa. Alcide De Gasperi, primo ministro, va al Poli-clinico per rendersi conto di persona di quanto è suc-cesso mentre il ministro degli Interni, Scelba, si mette incontatto con i prefetti. De Gasperi ha una preoccupa-zione in più. In una clinica di Roma è stata ricoverata lafiglia che in quello stesso giorno mette al mondo unbambino, al quale verrà imposto il nome di Giorgio.

Quella notte le telescriventi delle agenzie di stampadiffusero in tutto il mondo la notizia dell’attentato, le fotodella vittima illustre ed il nome di Pietro Valdoni, il chi-rurgo che l’aveva salvato.

Anche per un uomo di eccezionale profilo professiona-le quale era Valdoni, allora meno che cinquantenne, fuquella una straordinaria occasione di visibilità. Da quelgiorno la Chirurgia romana e quella italiana avranno unleader consacrato. Si è poi detto che la ferita non era gra-ve, che l’intervento fu modesto, che l’attentatore era tal-

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mente fuori di senno che aveva sbagliato oltre che la miraanche l’arma. Ma se le cose avessero preso una brutta pie-ga, se Togliatti fosse morto, se Valdoni avesse sbagliato, lastoria d’Italia e non solo, avrebbe preso un’altra strada.

Rimase un mistero il perché dalla sorte avversa di To-gliatti trasse beneficio proprio Pietro Valdoni. Lo deciseSpallone? Lo decise Togliatti? La Iotti? L’ambulanza cheaccorse? La Segretaria del Partito?

Di certo il Clinico Chirurgo della “Sapienza” al mo-mento non era Valdoni, ma Raffaele Paolucci di Valmag-giore, medaglia d’oro della Prima Guerra Mondiale. Per-ché dunque una scelta diversa?

Chi invocò la politica spiegava che Paolucci era statoVice- Presidente della Camera dei Fasci e delle Corpora-zioni e come uomo del regime, a guerra finita, era statosospeso dall’incarico ed inquisito dal governo Parri nelquale Togliatti era Ministro della Giustizia. Ed in quel1948 Paolucci era Senatore della Repubblica per il PartitoMonarchico.

Non valse dunque a favore di Paolucci né il ruolodi Clinico Chirurgo né la grande e riconosciuta espe-rienza in chirurgia polmonare. Togliatti ferito al polmo-ne, da uomo straordinario quale era, decise di far poli-tica anche con il suo sangue e scelse l’uomo diversoche era Valdoni, la cui stagione politica non era com-promessa.

Grande tensione in tutta Italia. Niente giornali giovedì15 per lo sciopero dei poligrafici. Negozi chiusi. La pauraè che si scatenino gravissimi incidenti. Potrebbe essereuna rivoluzione. Ore di grande preoccupazione. In quellestesse ore Gino Bartali sta disputando il Tour de France.L’opinione pubblica segue con trepidazione alla radio lenotizie sulle condizioni di Togliatti che, fortunatamente,sono abbastanza soddisfacenti anche se Valdoni non scio-glie la prognosi. Ma la gente presta orecchio anche ai ser-vizi del radiocronista Mario Ferretti dal Tour. Bartali pas-sa primo sull’Izoard e con grande distacco precede Bobete Robic sul traguardo di Briançon. È quasi maglia gialla.Si esulta alla notizia del successo del grande campione to-scano. Ma la tensione per l’attentato non cala. Si segnala-

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no incidenti. Aggressioni a forze di polizia. Fabbriche in-cendiate. In rivolta il paese di Abbadia San Salvatore. Epoi le drammatiche notizie che ci sono morti e feriti. Ten-sione alle stelle. E, paradossalmente, un senso di soddi-sfazione per il trionfo di Bartali.

È venerdì 16 luglio. Togliatti chiede a Terracini noti-zie di Bartali. Ma soprattutto si preoccupa degli inci-denti che stanno dilagando. “Non perdete la calma, miraccomando” continua a dire. Si diffondono voci di unaggravamento delle condizioni del paziente, febbre a39°, c’è il concreto pericolo che possa insorgere unabroncopolmonite. Nel pomeriggio la radio in diretta dàla notizia della conquista da parte di Bartali al Tour del-la maglia gialla sul traguardo di Aix-les-Bains. Si alter-nano nel Paese tensione per gli incidenti e soddisfazio-ne per le notizie dalla Francia.

Per calmare gli animi i dirigenti del Partito Comuni-sta Italiano decidono di diffondere su L’Unità una fotodi Palmiro Togliatti nella stanza del Policlinico. L’im-magine mostra il paziente con un volto abbastanza se-reno. Una foto che tranquillizza, meglio di ogni comu-nicato medico, sulle condizioni di salute del leader po-litico. Accanto a Togliatti disteso sul letto, c’è Pietro Val-doni in camice bianco. È una foto in esclusiva del quoti-diano del PCI. L’ha scattata il fotografo Romani. Un do-cumento eccezionale al punto che il giornale nella dida-scalia scrive che “La riproduzione è vietata. Copyrightper l’Italia e per tutti i Paesi del mondo”. Accanto allafoto un articolo dal titolo tranquillizzante: “Togliatti si èalzato dal letto per mezz’ora. È la prima volta”. E poi ilsommario: “Continua il miglioramento. In poltrona sot-to il controllo del professore Valdoni. Persiste lo statofebbrile”.

L’articolo de L’Unità è l’unico documento ufficiale aparte gli scarni bollettini medici che si limitano, natu-ralmente, alle condizioni di salute. Finalmente qualcheparticolare sulla degenza di Togliatti. “La stanza - dice

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l’articolo - dove è ricoverato Togliatti è una camerettarettangolare con le mura imbiancate di calce, con un al-to zoccolo di mattonelle, un lavabo, due sedie, un lettosmaltato posto sulla parete di fondo e una finestra cheguarda sul cortile del Policlinico. Dappertutto l’odoreconosciuto dei medicamenti, i rumori ignoti dei pianidi sopra e delle scale sono come soffocati, lontani.Quando qualcuno parla a voce alta, vien fatto di voltar-si e guardare chi è. I medici che hanno in cura Togliattisono gentili, sorridenti, impenetrabili. Non dicono unaparola in più di quelle che scrivono sui bollettini. Il pro-fessore Valdoni è un settentrionale, elegante, con il ca-mice bianco impeccabile. Poche persone silenziosestanno nell’anticamera. Di tanto in tanto guardano ver-so una porta bianca. Dietro quella porta c’è Togliatti, èdisteso sul letto, con la testa e la schiena sollevate daicuscini. È senza occhiali: con l’occhio vivo che guardaintorno, si posa con una punta di arguzia interrogativasul viso di quelli che si affacciano”.

La notizia che Togliatti si è alzato, diffusa da L’Unità,viene ripresa dal giornale radio e, il mattino successivo,dagli altri quotidiani che tornano in edicola dopo losciopero proclamato dai poligrafici a seguito dell’atten-tato. “Togliatti sta meglio”, è questo il titolo fotocopiadei giornali. Nel Paese si diffonde un senso di tranquil-lità che però attenua solo in parte la tensione. La notiziagiunge fino al Tour de France mentre Bartali sta peda-lando verso la vittoria. Nessun membro del Governo lodice apertamente, ma è speranza generale che Bartalipossa trionfare e suscitare nel Paese un entusiasmo taleda costituire un deterrente alla tensione che ancora do-mina in tutta Italia con incidenti, ridotti di numero maugualmente gravi. Bartali sta dominando e gli Italiani sientusiasmano. Adesso sui giornali e alla radio c’è lastessa attenzione per i bollettini che Pietro Valdoni con-tinua a diffondere e per le radiocronache di Mario Fer-retti dal Tour.

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Quasi nessuno pensa più ad Antonio Pallante rin-chiuso nel carcere romano di Regina Coeli. Sarà proces-sato il 2 luglio del 1949 e condannato dalla Corte d’As-sise di Roma a tredici anni e otto mesi di reclusione.Sfuggirà nel carcere di Nuoro ad un attentato di un al-tro detenuto che voleva vendicare Togliatti. Si vedrà ri-durre la pena a dieci anni e nel dicembre del 1953, gra-zie ad un’amnistia, riacquisterà la libertà.

Ormai alla radio e sui giornali, con i successi di Bar-tali, è più ampio lo spazio al “Gino nazionale” che aPalmiro Togliatti. Il 26 luglio, nel pomeriggio, è una do-menica, Mario Ferretti dà l’annuncio che Gino Bartaliha vinto il Tour sul traguardo di Parigi. Il lunedì matti-na il titolo a nove colonne in prima pagina è per il corri-dore italiano. Sulla stessa prima pagina, in piccolo, ladichiarazione di Pietro Valdoni che “il paziente PalmiroTogliatti ricoverato al Policlinico di Roma il 14 luglio esottoposto ad intervento chirurgico per colpi da armada fuoco, sarà dimesso giovedì 29 luglio”.

La rivoluzione è rinviata.

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Cap. XVI

AL CAPEZZALE DEI PAPI E DEL RE

Non è certamente semplice raccontare il ruolo deichirurghi, comunque dei medici in generale, al capez-zale dei Papi del secolo XX° ma anche del passato.Grande è stato – e lo è tuttora – il riserbo che circondala figura del Pontefice, e che si trasforma in una cortinadi ferro quando il Papa è malato. Dalle mura del Vatica-no escono solo voci, talvolta sussurri, anche perché c’èl’impegno dei medici chiamati a consulto al capezzaledel Pontefice, a non far trapelare notizie. Ma qualcosacomunque si finisce per sapere.

Come il “misterioso singhiozzo” che s’impossessa diPio XII°. Un singhiozzo che è evidente quando il Papaparla in pubblico. Si cominciano a fare tante congetture.C’è chi sostiene che Papa Pacelli abbia un semplice sin-ghiozzo né più né meno come accade a tanta gente, do-vuto forse alla grande responsabilità in un momentodrammatico della vita del Pianeta. Altri, invece, sonodell’idea che il singhiozzo sia un sintomo di malattia,più o meno grave.

Un giorno - dall’archivio di una ampia documenta-zione sulla chirurgia in Italia trae questo episodio Wal-ter Montorsi - la Curia decide, anche su consiglio del

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medico personale del Pontefice, il clinico Galeazzi Lisi,di invitare per un consulto un clinico medico, AntonioGasbarrini di Bologna e un clinico chirurgo RaffaelePaolucci di Roma. I due illustri medici si presentano inVaticano e vengono fatti accomodare nell’anticameradello studio privato di Pio XII°. Tutto è pronto per la vi-sita, quando Paolucci, rivolgendosi a Gasbarrini, gli di-ce: “Perché non visitiamo l’illustre infermo separata-mente? Un consulto in contemporanea potrebbe in-fluenzare l’uno nei confronti dell’altro. Faccio una pro-posta: visitiamo il Sommo Pontefice separatamente escriviamo la diagnosi su un foglio. Poi mettiamo a con-fronto le due diagnosi”. Gasbarrini accetta e Paoluccistrappa dal suo ricettario due fogli.

Comincia la visita. Prima Gasbarrini, poi Paolucci. Ilclinico medico scrive che la causa del singhiozzo puòessere attribuita ad una gastrite, Paolucci ad un erniaiatale. Dopo pochi giorni il Pontefice viene sottopostoin Vaticano ad un controllo radiologico che confermal’ernia iatale. Un’appropriata cura medica, senza biso-gno di intervento chirurgico, guarisce Pio XII° dal fasti-dioso singhiozzo.

Al capezzale di Pio XII° c’è un altro chirurgo, il no-me non è noto, quando il Pontefice si ferisce ad unamano con la punta della spada di una delle GuardieNobili sporgendosi dalla sedia gestatoria.

Pio XII° muore nella notte del 9 ottobre del 1958. Lofanno morire due volte. Il Papa si trova a Castelgan-dolfo per il riposo estivo ma è costretto a prolungare ilsoggiorno perché è malato. L’otto ottobre entra in co-ma. “Nel tardo pomeriggio - scrive Claudio Rendinanel libro I Papi, storia e segreti - qualcuno chiude incau-tamente un’imposta della finestra dove giace il Pontefi-ce. Il gesto viene interpretato come un segnale dell’av-venuto decesso. A Roma i quotidiani escono in edizionestraordinaria con l’annuncio della morte. Arriva subitodal Vaticano la smentita. E intanto il medico personale,

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Riccardo Galeazzi Lisi, scatta foto di Pio XII° che faran-no il giro del mondo. Lo scandalo si concluderà con unprocesso. Il Papa muore veramente, dopo nove ore diagonia, la notte del 9 ottobre stroncato da una crisi del-la circolazione cerebrale”.

Prima di Pio XII° gli altri Pontefici del Novecento, aquanto è riuscito a trapelare dalle strette maglie dellaCuria, non avevano dovuto ricorrere alle particolari cu-re di chirurghi: Leone III°, che regna per tre anni del se-colo ventesimo, Pio X° che sale al soglio pontificio nel1903 e muore nel 1914, Benedetto XV° (aveva un voltosempre pallido, emaciato e una scoliosi pronunciata)stroncato in soli quattro giorni da una polmonite il 22gennaio del 1922, e Pio XI°, morto nella notte del 10febbraio del 1939 per un attacco cardiaco. Secondo unmemoriale attribuito al Cardinale Tisseran, e di cui dànotizia Claudio Rendina nel suo libro, “Pio XI° sarebbestato avvelenato per ordine di Mussolini “. Notiziegiornalistiche, non di più.

Dopo Pio XII°, di cui abbiamo parlato, GiovanniXXIII° è protagonista di un intervento non compiuto. Èil 27 ottobre 1962 a Roma, giornata conclusiva del Con-gresso della Società Italiana di Chirurgia. A sera, Valdo-ni invita Dogliotti, Stefanini e Ruggieri ad appartarsiperché ha una notizia molto delicata da comunicare. Ilracconto è un diario di Ettore Ruggieri scritto per Nuo-va Antologia e pubblicato in un libro dalla Società Italia-na di Chirurgia. “Il Papa – dice Valdoni con una voceemozionata – ha un cancro allo stomaco, ho visitato ilpaziente, ho controllato le radiografie, non ho dubbisulla diagnosi. Non voglio assumermi la responsabilitàdi una qualsiasi decisione, quindi ho accettato di buongrado l’invito della Curia ad una visita collegiale. Sesiete d’accordo, telefono all’archiatra Rocchi”.

La mattina successiva con l’auto di Valdoni, Dogliot-ti, Stefanini e Ruggieri lasciano il “Grand Hotel”. Piove.Sui giornali la notizia della tragica morte in un inciden-

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te aereo di Enrico Mattei. In Piazza San Pietro l’incontrocon l’Archiatra.I medici sono attesi da Monsignor Ca-povilla, segretario del Papa, e vengono invitati ad acco-modarsi in un salotto dove Rocchi spiega che il Pontefi-ce, un anno prima, aveva sofferto di cistite e pollachiu-ria. Un controllo medico aveva evidenziato una prosta-ta molto voluminosa. Otto mesi dopo, piccoli disturbidispeptici e vaghe dolenzie epigastriche. I radiogrammisono eloquenti: mostrano un difetto di riempimento amanicotto nell’antro pilorico con tendenza alla stenosi.

Alle nove e quarantacinque l’incontro con GiovanniXXIII°. Il Papa chiede notizie sull’attività professionaledi ognuno dei chirurghi e si informa sul congresso del-la SIC appena concluso. Il Pontefice ricorda che appar-tiene ad una famiglia di longevi ma che il fratello e lasorella sono morti per un tumore allo stomaco. I chirur-ghi rivolgono alcune domande al Pontefice il quale dicedi essere pronto a morire. “Dogliotti – ricorda Ruggieri-chiede al Papa se è disposto a farsi visitare, la rispostaè positiva. Il Pontefice si spoglia e si sdraia sul letto.Prima Dogliotti poi gli altri chirurghi procedono all’e-same obiettivo. Sulla parte destra dell’epigastro si av-verte una tumefazione un po’ indistinta, spostabile congli atti del respiro e dolente. Il fegato non è ingrandito,né vi sono segni di ascite. Si vede una discreta erniaombelicale. Nulla si apprezza a carico del cuore”.

“Dogliotti - aggiunge Ruggieri - si dichiara contrarioall’operazione perché un tumore dello stomaco palpa-bile è raramente asportabile. Stefanini non è dello stes-so avviso e afferma che le buone condizioni generalidell’infermo potrebbero permettere anche un interven-to radicale. Io dico di non essere contrario all’operazio-ne, ma a condizione che siano prospettati i notevoli ri-schi ad essa inerenti e la possibilità di una recidiva. Ac-cenno anche alla possibilità di un’operazione palliativaresa necessaria da un’eventuale stenosi. Valdoni sostie-ne che l’unica decisione deve essere presa liberamente

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dal Papa il quale deve essere informato della verità. Ca-povilla è dello stesso parere. Il Segretario del Papa chie-de se è possibile aspettare senza danno sino al 4 no-vembre, anniversario dell’Incoronazione del Papa.L’appuntamento è per il 5 novembre in Vaticano”.

L’Osservatore Romano” quel pomeriggio scrive che ilPapa ha ricevuto in udienza privata l’Ufficio di Presi-denza della Società Italiana di Chirurgia. E così si bloc-cano sul nascere congetture ed ipotesi allarmistiche. Manella Curia è già diffuso uno stato di preoccupazione.Monsignore Fiorenzo Angelini, vescovo degli OspedaliRiuniti di Roma, all’oscuro della reale malattia del Pa-pa, chiede a Ruggieri se l’incontro in Vaticano sia statoun consulto. E il Chirurgo risponde: “Non un vero con-sulto, durante l’udienza il Papa ci ha parlato di alcunidisturbi e abbiamo consigliato qualche esame di labora-torio”.

Il 6 novembre, con un giorno di ritardo sulla datastabilita – è sempre il racconto di Ruggieri – i quattroChirurghi si incontrano con Monsignor Dell’Acqua, So-stituto alla Segreteria di Stato. Si decide di sottoporre,al più presto, il Pontefice ad un nuovo esame radiologi-co. Il Papa però si oppone al controllo. Il 10 novembreRocchi fa sapere che Dogliotti gli ha consegnato un pro-memoria con il suo no all’intervento. Il chirurgo torine-se ha informato solo Valdoni. Nella tarda mattinata riu-nione a tre alla “Clinica Sanatrix” fra Valdoni, Ruggierie Stefanini. Manca Dogliotti. Si redige un documentoche, nella conclusione, afferma che “i chirurghi sonodell’avviso che l’Augusto Malato, nonostante il rischiooperatorio già valutato, sia ancora nell’ambito di un’in-dicazione di carattere chirurgico, pur avvertendo che èsoltanto l’esplorazione laparotomica a rappresentarel’elemento di giudizio definitivo sulla reale operabilitàradicale. D’altra parte, sono concordi nel dichiarare chel’esito della malattia lasciata a se stessa è certamente fa-tale, mentre nell’eventualità di un successo della tera-

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pia chirurgica radicale restano aperte possibilità di gua-rigione nei limiti indicati dalle statistiche e dall’espe-rienza chirurgica comune”.

Due giorni dopo, mentre visita un malato nella clini-ca “Villa Stuart”, Rocchi è colpito da emorragia cerebra-le. La sera stessa Ruggieri si chiede: “È probabile cheStefanini non abbia fatto in tempo a consegnare all’Ar-chiatra il nostro documento. Ma quello di Dogliotti cheera già nelle mani di Rocchi, che fine ha fatto?”. Stefani-ni effettivamente non ha fatto in tempo a consegnare aRocchi la relazione dei tre chirurghi. A portarla in Vati-cano ci pensa Valdoni, il quale più tardi fa sapere a Ste-fanini e Ruggieri che è nelle sue mani la relazione diDogliotti perché gli era stata consegnata dal figlio diRocchi ma che la Segreteria di Stato l’aveva rifiutata.

Il Papa non sa ancora niente della sua malattia: la Se-greteria di Stato avrebbe deciso di compiere questo pas-so dopo l’8 dicembre, chiusura della prima sessione delConcilio Ecumenico. Medico di fiducia del Papa diven-ta Antonio Gasbarrini ma questi, essendo costretto a ri-siedere a Bologna per i suoi impegni professionali, indi-ca come suo sostituto Piero Mazzoni. Nella notte tra il26 e il 27 novembre il Papa vomita. Mazzoni avverteValdoni che visita il Papa per tre ore. Mentre i PadriConciliari vengono invitati ad una speciale preghieraper la salute del Pontefice, i giornali cominciano a par-lare della malattia e di un intervento chirurgico peripertrofia prostatica. Nessuno accenno al tumore. Ga-sbarrini, scrivono i giornali, esclude la possibilità cheGiovanni XXIII° possa essere sottoposto ad una opera-zione, anche perché sono intervenute emorragie. Il Pa-pa si riprende ma spesso ha emorragie. Passano sei me-si, il 2 giugno del 1963 Giovanni XXIII° è in coma e lasera dopo muore. Radio Vaticana parla di “un morboinesorabile, aggravato negli ultimi mesi, che ha stronca-to la sua forte fibra”.

Un altro episodio che vede chirurghi al capezzale di

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un Papa accade nel 1967. Paolo VI° sta trascorrendouna settimana di riposo nella villa di Castelgandolfo. Èsettembre. Da qualche giorno il Pontefice rinuncia allaconsueta passeggiata per godersi il tepore del tardo po-meriggio e la bella vista sul lago. Avverte qualche di-sturbo. L’archiatra pontificio Mario Fontana si rendeconto che Paolo VI° soffre di disturbi urinari con riten-zione di urine in vescica e propone la visita di uno spe-cialista. La scelta cade su Mario Arduini, Primario uro-logo all’Ospedale “S.Camillo” di Roma. È l’ora di cena,intorno alle 20,30, quando a casa Arduini arriva la te-lefonata da Castelgandolfo. Arduini prega il figlio diaccompagnarlo in auto.

Intorno alle 22 Arduini è dal Papa diagnosticandoun’ematuria dovuta a problemi alla prostata. Arduinisuggerisce una terapia immediata e illustra la necessitàdi un intervento chirurgico, la prostatectomia. All’illu-stre infermo intanto applica un catetere. Sono le 3 delmattino quando Arduini torna a casa. Il Papa rientra inVaticano e si riprende a parlare della necessità di un in-tervento chirurgico. La notizia non trapela. È a cono-scenza di pochi. Nel libro Paolo VI° segreto del filosofofrancese Jean Guitton è scritto che il 27 settembre diquell’anno, “Mons. Dell’Acqua mi parla della malattiadel Papa. Durante la sua malattia, Pio XII° aveva previ-sto di dare le dimissioni; io gli replicavo: per carità, nonsia mai. Un Padre è un padre. Un padre non si dimet-te”. Paolo VI° invita Jean Guitton a cena: minestra divermicelli, carne con legumi, formaggio, frutta. Il filo-sofo annota quel giorno che il “Santo Padre si serve sìabbondantemente la minestra, sobriamente il resto. Vi-no bianco. Sembra avere meno appetito. un po’ dima-grito ma più riposato. Il fondo degli occhi sembra piùgrigio”. Paolo VI° dice a Guitton: “Nella medicina at-tuale il problema è di guarire dai rimedi e dagli esamiclinici. Si muore di cuore e non di malattia”. E poi ricor-da al filosofo che il padre nel 1943 a 83 anni era stato

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operato di prostata.Tanti discorsi sulla Medicina. Ma nessuno parla del-

la malattia di cui soffre il Papa anche se le visite di Ar-duini in Vaticano sono frequenti. E nessuno parla più diintervento chirurgico. È l’anno più importante del Pon-tificato, con la “Populorum progressio” che, per il con-tenuto sociale, impegna la Chiesa come non mai.

Ma la malattia continua. Bisogna operare. D’accordoma chi deve effettuare l’intervento alla prostata? E poi,dove compiere l’operazione? Al primo interrogativo larisposta giunge immediata: anche su consiglio dell’ar-chiatra Fontana, la scelta cade su Mario Arduini e Pie-tro Valdoni. Il problema, non piccolo, riguarda invece lastruttura dove sottoporre il Pontefice alla operazione. Sipensa al Policlinico “Umberto I°” dove esercita Valdo-ni, poi al “San Camillo” dove è Primario Arduini. Ven-gono prese in esame alcune cliniche private. In segretosi compiono sopralluoghi. Come proteggere la privacydel Papa? Una domanda importante anche perché co-minciano a circolare voci su un’ipotesi di interventochirurgico sul Pontefice. Qualcuno parla di tumore. Al-tri, più correttamente, di prostatectomia. “Da New York– ricorda Arduini – il Cardinale propone una strutturaamericana”.

Alla fine si decide di allestire ex novo una sala ope-ratoria negli appartamenti del Papa in Vaticano. Giornidi grande impegno per ingegneri, esperti nella costru-zione di sale operatorie e medici. Continui consulti conArduini e Valdoni. Il 4 novembre Paolo VI° viene sotto-posto all’intervento per prostatectomia. Poco primadell’operazione, il segretario particolare, Mons. Macchi,entra nella stanza del Pontefice e gli dice: “Santità, ègiunto il momento…”. Paolo VI° lo interrompe con uncenno della mano e dice: ”Procedemus in nomine Do-mini”.

L’operazione condotta da Valdoni e da Arduini sisvolge senza problemi. Al termine, Mario Arduini è in-

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vitato dalla Curia a rimanere, almeno per una settima-na, in Vaticano “per ogni evenienza”. Sull’interventovengono diffuse dalla Segreteria di Stato poche notiziefra le quali quella che le attrezzature utilizzate per l’o-perazione sarebbero state inviate in dono ad una comu-nità cattolica in Africa. I comunicati ufficiali sono scarnie si diffondono voci, in Italia e all’estero, che il Papasoffrisse di un tumore e che l’operazione avesse lasciatouna fistola sul corpo del Pontefice. Mario Arduini, in-tervistato per questo libro, nel descrivere l’operazione,smentisce la presenza di un tumore.

Jean Guitton, nel già citato Paolo VI° segreto, ilgiorno 3 gennaio del 1968 nel capitolo intitolato “Lamalattia di Paolo VI°” scrive: “Il dottor Piazza (medi-co dello staff sanitario del Pontefice) mi descrive l’o-perazione che il Papa aveva subito. Si risvegliò pre-sto, gli espresse il suo primo ringraziamento, fece iprimi passi in camera e in biblioteca, dove era auto-rizzato a fare sei giri e mezzo, giusto il tempo di re-citare un rosario, diceva. Il Papa ha riunito, dopo laguarigione, tutti coloro che l’avevano curato. Donòloro un orologio con su impressa la data del giornodi Sant’Andrea. E Piazza mi dice che, a Roma, ci so-no ancora prelati che presumono che il Papa non siastato operato, che ci si sia limitati a richiudere la feri-ta, che il Papa non può essere operato e che è spac-ciato. Il Papa non vuol sentire parlare della propriasalute. È una peripezia per lui. Ho l’impressione cheabbia dimenticato le sue inquietudini”.

Undici anni dopo l’intervento Paolo VI° muore il 6agosto del 1978 per un edema polmonare.

Molto breve il Pontificato di Giovanni Paolo I°, PapaLuciani, che muore all’improvviso nella notte. A nullaservono le pronte cure dei medici chiamati urgente-mente dalla Segreteria. Un decesso non ancora chiaritonelle sue cause.

Giovanni Paolo II° è la più alta personalità che sia

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stata sottoposta ad intervento chirurgico in emergenzadurante l’ultimo secolo in Italia. Un intervento in emer-genza che ha dimostrato ancora una volta le grandi ca-pacità dei chirurghi del nostro Paese. E, nello stessotempo, la efficienza delle strutture. Protagonisti di que-sta operazione chirurgica Francesco Crucitti, Salgarello,Wiel Marin, chirurghi; Corrado Manni, Direttore dell’I-stituto di Anestesia e Rianimazione, Beccia, Fiaschetti,Sabato e Pelosi anestesisti; Ugo Manzoli, cardiologo.Assiste all’intervento anche il medico personale delPontefice, Renato Buzzonetti.

Il Papa viene raggiunto da colpi di pistola in PiazzaS.Pietro a Roma sparati da Alì Agca. È il pomeriggiodel 13 maggio 1981. L’illustre infermo viene trasportatoal Policlinico Gemelli dell’Università Cattolica e subitooperato.

Santoro racconta: In quegli anni Crucitti ed io aveva-mo i nostri studi privati uno accanto all’altro nella Cli-nica Pio XI° in Via Aurelia. Quel mercoledì avevamoun appuntamento alle 17.30 per completare il program-ma di un Corso di “Chirurgia Digestiva Funzionale”che volevamo programmare per l’inizio dell’autunno.Pochi giorni prima Crucitti era diventato Professore or-dinario chiamato dalla Università Cattolica all’insegna-mento di Semeiotica chirurgica ed io ero da tempo Pri-mario al “Cristo Re”. Avevamo già fatto altre cose in-sieme nei Congressi dell’ospedalità religiosa. Ed insie-me andavamo spesso al Sud a lavorare, lui a ReggioCalabria ed io a Messina.

Arrivai in Clinica con poco ritardo. La Segretaria deglistudi mi disse che Crucitti era arrivato in anticipo e stavavisitando. Utilizzai il telefono della segreteria per avvisar-lo del mio arrivo. Mi confermò che si stava per liberare.Mentre parlavamo mi accorsi che una suora lì accantopiangeva e sentiva la radio. “Hanno sparato al Papa - midisse con la voce rotta - lo stanno portando al Gemelli,speriamo che si salvi, è ferito all’addome”. Richiamai su-bito Crucitti al telefono. “È il tuo gran giorno - gli dissi –se torni subito in Ospedale entrerai nella storia operando

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il Papa!”. Lui rimase sorpreso. “Lasciami finire la visita evengo da te” rispose. Invece la Segretaria andò nel suostudio per farlo uscire subito. In corridoio Crucitti avevaancora il camice addosso e la Loretta lo seguiva con la suagiacca in mano. Di fatto fu spinto nella sua auto: non erasua abitudine, per l’uomo garbato che era, interrompereuna visita, come lo avevamo costretto a fare.

In macchina – mi raccontò dopo - accese la radio e capìche tutto era vero. Allora accelerò e nel traffico della Cir-convallazione Cornelia suonò il clacson intensamente fin-chè un motociclista della polizia che lo affiancò, si reseconto dell’urgenza e gli fece strada sulla via della PinetaSacchetti sino al Policlinico Gemelli. Con l’ascensore ar-rivò direttamente in Sala Operatoria in giacca e cravatta:lo accolsero come una visione. Lo avevano cercato invanonella mezz’ora precedente.

Quando raggiunse il tavolo operatorio il Papa eragià in narcosi e l’Aiuto di guardia aveva già preparatoil campo operatorio: l’ordine di servizio gli assegnavala responsabilità dell’intervento ma l’ordine gerarchicoprevalse e Crucitti chiese il bisturi ed incise il corpo sa-cro del Pontefice.

La mattina dopo alle sette squillò il mio telefono, pri-ma della sveglia. Riconobbi la voce di Francesco: ”È anda-to tutto bene – mi disse – ma non ho dormito tutta la not-te. Sono molto contento. Resterò in ospedale per tutti iprossimi giorni, anche di notte. Vorrò vederti quando tut-to sarà a posto”.

Ci rivedemmo 15 giorni più tardi. Pranzammo in unristorante a Via Baldo degli Ubaldi. “Oggi – mi raccontò –il Segretario di Stato ci ha convocati tutti, chirurghi edanestesisti, anche quelli come Fegiz che non avevano par-tecipato direttamente all’intervento. E ci ha comunicatoche il Papa ha deciso che sarò io a rioperarlo per chiuder-gli la colostomia”. Francesco Crucitti sapeva che stava perentrare nella storia, ma sorrideva dolcemente con l’umiltàe la serenità di sempre. Dai suoi occhi però trapelava unafelicità infinita. E di quel corso di Chirurgia Funzionale cidimenticammo entrambi.

L’intervento dura cinque ore e 30 minuti. La cronaca,minuto per minuto, dell’operazione è raccontata da Lu-

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ciano Ragno su “Il Messaggero” nell’edizione di ve-nerdì 15 maggio.

Cinque ore e mezza di intervento. Con il fiato sospeso.Dalle 18 quando la porta a vetri del nono piano del Poli-clinico Gemelli si chiude alle spalle dell’équipe chirurgi-ca, alle 23,30 quando l’équipe chirurgica si fa incontro allaraffica dei lampi dei fotografi per annunciare che l’opera-zione è appena finita. Cosa è accaduto in questi 330 minu-ti? Li abbiamo ricostruiti, un mosaico non semplice per ilriserbo – valido nel caso della personalità dell’infermo maanche in tutte le altre situazioni – tenuto dall’UniversitàCattolica.

Ore 17,25 – Una telefonata al Policlinico Gemelli:“Il Papa è stato ferito e sta arrivando. È in ambulan-za”. Il Pontefice è stato raggiunto da una raffica dipallottole, sette minuti prima. Si avverte il DirettoreSanitario professor Candia. Al “Gemelli” gli interventichirurgici d’urgenza vengono eseguiti secondo un pre-ciso calendario, dai vari reparti, a rotazione. L’équipeè composta da Francesco Crucitti, Salgarello Wiel Ma-rin, chirurghi. Il Direttore dell’Istituto, Giancarlo Casti-glioni, è a Milano per un congresso. Si cerca di rin-tracciarlo.

Ore 17,45 – L’ambulanza con Giovanni Paolo II°giunge al pronto soccorso. Il Pontefice perde sangue. Imedici di turno, visibilmente emozionati, si avvicinanoall’infermo e qui si verifica un contrattempo. Il Papaviene trasportato al decimo piano del Policlinico, al re-parto solventi: ma subito ci si rende conto che bisognaintervenire senza indugio e la sala operatoria è un pia-no sotto. Nuovo trasferimento. Lungo il corridoio e sul-l’ascensore che trasporta l’infermo evidenti chiazze disangue. Intanto si continua a costituire l’équipe. Ilgruppo degli anestesisti è guidato dal Direttore dellaCattedra, il professor Corrado Manni, uno degli espertipiù noti in questo campo: con lui i professori Beccia,Fiaschetti, Sabato e Pelosi. Si avverte anche il cardiolo-go, Ugo Manzoli. C’è anche Renato Buzzonetti, medicopersonale del Pontefice.

Ore 17,50 – Castiglioni viene rintracciato a Milano.Un’auto lo porta subito a Linate dove alle ore 18,40 c’è ilvolo “AZ 083” per Fiumicino.

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Ore 17,55 – Giovanni Paolo II° perde ancora sanguequando entra in sala operatoria. Si chiude la porta a vetri.Al pronto soccorso arrivano i primi giornalisti e fotografi.Tutto il mondo conosce la drammatica notizia.

Ore 18,01 – Comincia l’intervento compiuto da France-sco Crucitti. Subito un grande problema. Allarme fibrilla-zione cardiaca. Il cuore non va. Si reagisce per riportaretutto sotto controllo mentre i chirurghi cominciano l’e-splorazione del corpo per rendersi conto di cosa è accadu-to. Le ferite sono tre. Una molto evidente all’addome, duebanali ad una mano e ad un braccio. Ma i proiettili sonopenetrati. Si apre l’addome.

Ore 18,40 – Castiglioni parte in aereo da Milano. Il Co-mandante lo mette in contatto, tramite il Servizio Sanita-rio dell’Aeronautica, con il Policlinico “Gemelli”.

Ore 19,00 – L’operazione va avanti da un’ora. Non tra-pela nulla. I chirurghi con il Pontefice in anestesia totale,hanno accertato che non ci sono proiettili ritenuti, che l’u-nica pallottola che ha colpito l’addome è entrata dall’om-belico ed è uscita dalla parte posteriore, nella regione sa-crale. C’è il rischio che abbia leso qualche organo vitale. Ilfegato? Il pancreas? La milza? E i vasi sono stati toccati?Si continua a cercare i fori che il proiettile nella sua corsaha provocato. Ormai l’emorragia non preoccupa. Ma iproblemi non sono certo finiti.

Ore 20,10 – Le prime notizie ufficiali. Finalmente. Can-dia, Direttore Sanitario del “Gemelli”, parla con i giornali-sti: “L’intervento è in corso. Va tutto bene”.

Ore 20,20 – Si continua ad operare. Ormai le trasfusio-ni di sangue sono tre. Forse ne servono ancora. Ma biso-gna trovare altro sangue. Una corsa affannosa di un’autodei vigili del fuoco fino alla sede Avis e al centro dellaCRI per reperire il prezioso liquido abbastanza raro: A Rhnegativo. La città è bloccata in una morsa di auto. Il san-gue arriva.

Ore 21,00 – È sicuro che non ci sono proiettili nell’ad-dome. L’équipe sta suturando le parti dell’intestino foratoe da dove è uscita sostanza: al sigma e al tenue. C’è da to-gliere tratti di intestino e di ricucire. Un lavoro estrema-mente delicato. Massiccio ricorso agli antibiotici, ai lavag-gi peritoneali. Si lavora con il massimo impegno in salaoperatoria. Ma i medici non possono esimersi dal farecommenti quando si rendono conto che il proiettile è pas-

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sato a pochi millimetri da quattro organi vitali: aorta, mil-za, spina dorsale e uretere. “È stato fortunato”. “ Un mira-colo”.

Ore 21,50 – C’è da decidere - non è certo facile in que-sta circostanza - se praticare la colostomia esterna e que-sto perché non bisogna far “lavorare” l’intestino. Il rischiopotrebbe essere fatale. Crucitti decide per questa opera-zione. Si tratta di un “passaggio” chirurgico non difficilein condizioni normali.

Ore 23,00 – Praticamente l’intervento è finito. Bisognaperò fare un “grappolo” di lastre perché c’è il dubbio cheil proiettile possa aver sfiorato la colonna vertebrale nellaparte terminale. Entra in sala operatoria Attilio Romaninicon la sua équipe di radiologi. Sembra al momento esclu-so un danno neurologico.

Ore 23,30 – “Tutto è andato bene”, dice Castiglioni aigiornalisti. Ma la prognosi è riservata; il Papa non può es-sere dichiarato fuori pericolo. Il Pontefice è trasportato alpiano terra nel reparto di rianimazione, sotto le cure diManni. Da questo momento la situazione è controllata at-traverso un monitor che dà la risultante di tutte le funzio-ni vitali. Alle 24,00 circa, il Pontefice apre gli occhi sve-gliandosi dall’anestesia. Le prime parole, in polacco. Daquesto momento bisogna solo attendere.

Tre giorni dopo l’intervento Luciano Ragno intervi-sta per Il Messaggero Eugenio Santoro, primario di chi-rurgia dell’Ospedale “Cristo Re” di Roma.L’intervistapubblicata con grande evidenza dal quotidiano romanonell’edizione di sabato 16 maggio:

Tre giorni dopo l’attentato. Cosa è successo fino adora? E cosa può accadere nell’immediato e nel futuro? Ec-co cosa risponde alle domande il prof. Eugenio Santoro,primario di chirurgia al “Cristo Re” di Roma, un espertonel tipo di interventi cui è stato sottoposto il Papa.

Fino ad oggi – Il fatto che non si siano manifestati epi-sodi negativi consente di escludere le complicanze imme-diate che solitamente si registrano dopo un intervento:blocco renale, scompenso cardiaco, insufficienza respira-toria. Si tratta di situazioni drammatiche improvvise che

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quindi, nel caso del Pontefice, si possono considerare for-tunatamente evitate.

Fra due giorni – Dovrebbe riattivarsi la funzione inte-stinale. Infatti dopo un intervento così complesso, consi-stente nell’apertura dell’addome, fisiologicamente si regi-stra una paralisi intestinale. La ripresa dell’intestino entro4-5 giorni dall’operazione, rappresenta il momento disvolta del decorso post-operatorio. Quella intestinale è lafunzione vitale che più tardivamente riprende ad attivarsinormalmente. Sia chiaro: questa attività avviene per mez-zo dell’intestino deviato esternamente. È noto che il Papaè stato sottoposto ad intervento di colostomia.

Fra cinque giorni – Altro problema che deve risolversiè la tenuta delle numerose suture che i chirurghi della“Cattolica” hanno praticato durante l’operazione. Sonostati tagliati diversi tratti d’intestino, nei punti colpiti dalproiettile e quindi è stato necessario procedere agli “al-lacciamenti”. Le suture, cioè i punti, possono cedere inpresenza di un’infezione, per cause di ordine vascolareecc.

Dopo mercoledì – Mercoledì prossimo comincia la se-conda settimana dall’operazione. Molta prudenza ancorapoiché le complicanze sono sempre in agguato. Si deveconsiderare la seconda settimana come di consolidamentodel favorevole decorso post-operatorio. Una convalescen-za da seguire con molta attenzione.

Fra due settimane – Se tutto procede bene, l’équipechirurgica può cominciare a pensare all’intervento per larimozione dell’ano artificiale esterno e ricostruire la nor-male via dell’intestino. Sia chiaro: non l’intervento subito,ma solo la fase di preparazione. Intanto il Papa avrà co-minciato ad alimentarsi per via orale.

Fra un mese – Entro questo tempo sarà possibile com-piere l’intervento definitivo all’intestino. Solo dopo l’ope-razione – in anestesia e senza problemi grandi da supera-re – il Papa potrà riprendere, molto lentamente la sua atti-vità. Con prudenza, però.

Questa la previsione del professor Santoro sul decorsopost-operatorio. Una previsione dettata dall’esperienza.Non più di tanto perché è impossibile essere precisi. L’i-potesi considerata – è anche un augurio – è che tutto pro-ceda bene soprattutto che non si sviluppi quello che i me-dici ancora temono, cioè un’infezione nel peritoneo. Co-

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me è noto questo rischio è presente dato il particolare tipodi intervento: l’apertura dell’addome e il taglio di varieparti dell’intestino hanno comportato l’uscita di sostanzealtamente infettive.

Giovanni Paolo II° è costretto a tornare più di unavolta in sala operatoria nella sua lunga vita. Dimessodal Policlinico “Gemelli” il 3 giugno dopo l’interventoa seguito dell’attentato, il Papa è di nuovo in Ospedalealle 17 del 20 giugno. L’improvviso ricovero mette finead un’altalena di notizie, pessimistiche ed ottimistiche,diffusesi per tutta la settimana. La decisione di tornareal “Gemelli” viene presa in Vaticano al termine di unconsulto fra il medico curante del Pontefice, Buzzonettie l’équipe di specialisti che ne aveva seguito il decorso,dopo un accertamento radiografico compiuto da Gu-glielmo Gualdi. C’è febbre, inspiegabile.

C’è bisogno di una TAC. C’è un’infezione da indi-viduare e da curare e alla TAC è sottoposto il Pontefi-ce che viene visitato da un équipe composta da Cru-citti, Manzoli, Breda e Manni. È lo stesso gruppo sani-tario che attendeva il Papa per la settimana successivaper un intervento programmato alla dimissione dal“Gemelli”, tendente alla eliminazione della colostomiaed al ripristino del normale transito intestinale.

L’infezione - virale - guarisce, Crucitti procede al-la chiusura della colostomia ed il Papa riprende lasua straordinaria attività con la vitalità e l’entusia-smo di sempre.

Il Papa viene sottoposto ad un nuovo intervento chi-rurgico, undici anni dopo, il 15 luglio del 1992 sempreal “Gemelli” e sempre ad opera di Francesco Crucitti eCorrado Manni. L’operazione è stata necessaria - dice ilChirurgo a Luciano Ragno che lo intervista per Il Mes-saggero - per rimuovere una neoplasia benigna al grossointestino. Un’operazione lunga che si conclude felice-mente.

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Ecco il primo bollettino medico.Al termine degli accertamenti diagnostici programma-

ti, che hanno confermato e completato la diagnosi già po-sta in Vaticano, la mattina del 15 luglio Sua Santità Gio-vanni Paolo II° è stato sottoposto ad intervento chirurgicodi resezione colica per voluminoso adenoma tubulo villo-so del sigma con modeste e focali alterazioni citologicheriferibili a displasia di moderata entità.

L’atto operatorio è stato radicale e curativo, perché lalesione era di natura benigna. È stata inoltre eseguita co-lecistectomia per litiasi multipla della cistifellea.

Il Santo Padre ha ben tollerato l’intervento che è inizia-to alle ore 6,25 ed è terminato alle ore 10,15.

Il ripristino della coscienza è avvenuto rapidamente. Iparametri cardio-circolatori, respiratori, ematologici e me-tabolici si sono costantemente mantenuti nei limiti dellanorma. Il Papa è stato quindi ricondotto nella sua stanzadi degenza. Sono state iniziate le ulteriori consuete inda-gini sul pezzo operatorio.

L’intervento chirurgico è stato eseguito dal prof. Fran-cesco Crucitti, coadiuvato dai proff. Fabio Zucchetti eMarco Castagneto e dai dott. Giovanni Battista Dogliettoe Rocco Bellantone. L’anestesia è stata condotta dal prof.Corrado Manni coadiuvato dai proff. Rodolfo Proietti eFrancesco Della Corte e dalla dottoressa Raffaella Ranieri.L’assistenza cardiologica è stata effettuata dal prof. AttilioMaseri, Direttore dell’Istituto di cardiologia. Assistevanoall’intervento il dott. Renato Buzzonetti ed il prof. LuigiOrtona.

Un anno dopo, esattamente il 2 luglio, GiovanniPaolo II° torna al “Gemelli” per una TAC. “È un accer-tamento di controllo – dichiara Francesco Crucitti a Lu-ciano Ragno – infatti un esame con la TAC è previstoper tutti i pazienti operati al grosso intestino. L’accerta-mento ha messo in evidenza che tutto è normale e chenon ci sono problemi”. E in questa occasione si parlaper la prima volta di “un leggero tremore alla mano si-nistra del Pontefice”. Il “leggero tremore” è confermatoda Francesco Crucitti che non dà però una spiegazione:“Sono un chirurgo non un neurologo”. Avanzano l’ipo-

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tesi invece alcuni neurologi che cominciano a parlareapertamente di malattia di Parkinson, diagnosi in se-guito confermata.

Il Papa è di nuovo un paziente l’11 novembre 1992:cade inciampando sulla moquette che ricopre i gradinidella piattaforma sulla quale è collocata la grande pol-trona nella sala delle benedizioni. Batte in terra con laspalla destra. L’arido ma preciso linguaggio del bolletti-no medico parla di “lussazione traumatica anterioredella spalla destra con coesistente frattura parcellaredella glenoide”. Si decide per una riduzione non trau-matica al Policlinico “Gemelli”: viene praticata l’aneste-sia generale, per il necessario rilassamento delle strut-ture muscolari della spalla, da Corrado Manni, coadiu-vato da Rodolfo Proietti, Liliana Sollazzi e Walter Peril-li. Quando il Papa è nelle condizioni di non avvertire ildolore e i gruppi muscolari sono rilassati, GianfrancoFineschi, Direttore dell’Istituto di Ortopedia dell’Uni-versità Cattolica, assistito da Cesare Sanguinetti e LuigiDe Palma, presente Francesco Crucitti, procede all’in-tervento. In pochi minuti l’arto viene immobilizzatocon un moderno sistema di bendaggio.

Per la sesta volta, dall’inizio del Pontificato, Giovan-ni Paolo II° viene ricoverato in ospedale, è il 29 apriledel 1994. Prima dell’elevazione al Soglio Papale, erastato in ospedale una sola volta, era il 1944, a Cracoviaa seguito di un incidente stradale.

Gianfranco Fineschi, lo specialista ortopedico che ilprestigioso Le Monde definisce “il medico che ama lerose come la medicina, uno dei più esperti al mondonella coltivazione del delicato e splendido fiore”, diceai giornalisti: “Il Papa è caduto nella notte mentre sitrovava nel bagno del suo appartamento. È andatogiù di bacino. E a quell’età, ha 73 anni, solitamente ilguaio è grosso. Il Pontefice si è fratturato il collo delfemore, quello di destra. C’è bisogno di un’artropro-tesi”.

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Quattro ore dopo il ricovero al Policlinico “Gemelli”avvenuto mezza giornata dopo la caduta – c’è chi parladi un malore ma la Curia assicura che si è trattato di unbanale incidente – il Papa entra in sala operatoria. Loattendono Gianfranco Fineschi, Corrado Manni, Fran-cesco Crucitti, Luigi Ortona che è il Preside della Fa-coltà di Medicina alla “Cattolica” e il medico personaleRenato Buzzonetti. L’operazione dura due ore. Lo spe-cialista ortopedico impianta un’artroprotesi. Il 27 mag-gio il Papa lascia il “Gemelli”. Dopo poco tempo il Pon-tefice è già in viaggio per portare ai Popoli il suo mes-saggio di pace.

Ma ancora un intervento aspetta il Papa. GiovanniPaolo II° ridiventa paziente l’8 ottobre del 1996. Il Pon-tefice è sottoposto ad un intervento per appendicite re-trocecale. Quando l’équipe guidata da Francesco Cru-citti termina l’intervento, al Policlinico “Gemelli” ci so-no oltre cento giornalisti e tutti hanno un’unica doman-da da fare: “che tipo di tumore aveva il Papa”? Infatti èvoce corrente ripresa da numerosi quotidiani e agenziedi stampa che Giovanni Paolo II° soffrisse di un tumoree che la diagnosi di appendicite fosse una “diagnosi dicomodo”. Qualcuno si era spinto a dire che forse si trat-tava di una recidiva legata all’operazione alla quale ilPontefice era stato sottoposto nel luglio di quattro anniprima. Anche la presenza di un anatomo patologo, JuanPratt, dell’Ospedale San Paolo di Barcellona aveva av-valorato le voci che l’esame istologico fosse così delica-to da richiedere un intervento di un esperto di alto li-vello.

L’intervento in verità era stato preceduto da una se-rie di consulti ai quali avevano preso parte medici, cli-nici e chirurghi che, solitamente, non fanno parte dellaéquipe preposta alla salute del Papa. Davanti agli oltrecento giornalisti quando alle 11,30, nell’aula “GiancarloBrasca” ha inizio la conferenza stampa, Francesco Cru-citti dichiara che “l’intervento chirurgico di appendi-

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cectomia, previa rimozione delle aderenze locoregiona-li, ha confermato la diagnosi clinica di ricorrenti episo-di flogistici dell’appendice, già posta in precedenza.L’intervento è stato eseguito con la tecnica tradizionale,in laparotomia, dal momento che la situazione docu-mentata clinicamente non avrebbe permesso la tecnicalaparoscopica”.

I giornalisti insistono: “allora non era un tumore”? ECrucitti risponde: “escludo categoricamente l’ipotesiche si sia trattato di una recidiva di tumore. L’ho giàdetto nel 1992: si trattava allora di un adenoma tubulovilloso con piccole zone di displasia moderata. E già al-lora dissi che, in linea di massima, per qualsiasi altramalattia il Papa sarebbe invecchiato o scomparso, manon per questa”.

Un giornalista insiste: “non è che c’é qualche segre-to”? E Crucitti: “ è arrivato il momento di sfatare questefantasie e io sono qui proprio per dirvi la verità”. Ma igiornalisti non si accontentano e vogliono altri partico-lari di un intervento che ha visto intorno al Papa pa-ziente oltre a Francesco Crucitti i chirurghi GiovanniBattista Doglietto, Rocco Bellantone, Luigi Sofo, gli ane-stesisti Corrado Manni, Rodolfo Proietti, Raffaella Ra-nieri, il cardiologo Attilio Maseri, gli anatomo patologiArnaldo Capelli e lo spagnolo Juan Pratt, Luigi Ortonae il medico personale del Pontefice Renato Buzzonetti.

“Si è atteso troppo per fare l’intervento, non c’era ilpericolo di una peritonite?” chiede un giornalista. “Nonon c’era alcun rischio di peritonite - risponde Crucitti -se non si è intervenuto prima è dovuto al fatto che no-nostante ci fosse uno stato febbrile insistente non ave-vamo ancora sufficienti certezze sulla diagnosi. Quan-do le abbiamo avute siamo intervenuti prima con unaterapia a base di farmaci e poi, per evitare che l’infiam-mazione si ripetesse per la terza volta e poi ancora infuturo, con l’asportazione dell’appendice”.

Si apprende durante la conferenza stampa che fra i

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medici convocati per formulare la diagnosi c’era ancheGiorgio Ribotta, Direttore della VI° Clinica Chirurgicadell’Università di Roma. Ai giornalisti Ribotta dice chenel “referto medico non abbiamo scritto che si trattavadi appendicite cronica, ma di episodi ricorrenti di attac-chi acuti di appendicite, che è ben diverso. L’esito del-l’intervento dà ragione a quella diagnosi. Sono soddi-sfatto per la diagnosi confermata. È andato tutto bene,tutto regolare, come previsto, non ci siamo resi ridicolidi fronte al mondo per una falsa diagnosi. Per quantoriguarda il decorso post operatorio posso dire che se sifosse trattato di un ragazzo di vent’anni dopo tre giornisarebbe potuto tornare a casa, ma visto che il Papa haqualche anno in più e qualche altro problema, pensopossa uscire fra pochi giorni”.

La degenza del Papa dura otto giorni. Il 15 ottobrealle ore 18, con il bastone nella mano destra e un man-tello rosso sulla veste bianca, il Papa lascia il “Gemelli”.È insistente il tremore al braccio sinistro. Qualche gior-nalista parla apertamente di malattia di Parkinson, mail portavoce della Santa Sede smentisce.

Questi sono gli interventi chirurgici cui il Papa Gio-vanni Paolo II° è stato sottoposto in Italia. Oltre alla giàcitata operazione nel 1944 a Cracovia, il Pontefice haavuto all’estero un’altra operazione, precisamente il 12giugno del 1999 quando, in visita in Polonia è cadutonel bagno della Nunziatura di Varsavia ed ha battuto latesta: tre punti di sutura per una ferita lacero-contusasopra la tempia destra. C’era stata un’altra caduta chenon aveva avuto bisogno dell’intervento del chirurgo,era bastata solo una fasciatura alla mano destra per unamodesta lussazione: il Papa era caduto il 7 aprile 1994durante una gita sulle nevi del Gran Sasso.

Ma i chirurghi nel ‘900 sono stati anche, in Italia, alcapezzale di un unico sovrano, Vittorio Emanuele III°.Infatti il suo predecessore Umberto I° aveva regnato nelnuovo secolo poco meno di sette mesi. Il 21 luglio del

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1900 infatti il Sovrano, dopo aver partecipato a Monzaalla premiazione degli atleti che avevano preso parte adun concorso ginnico, venne raggiunto da tre colpi di pi-stola sparati da Gaetano Bresci, operaio toscano, “anar-chico individualista” come lui stesso si definiva. I chi-rurghi dell’Ospedale di Monza non poterono far nullaperché il primo Sovrano del secolo morì sul colpo. Peroltre quattro decenni regna Vittorio Emanuele III°. Do-po di lui salirà al trono ma solo per un mese, UmbertoII°.

Vittorio Emanuele III° a quanto si sa ha avuto biso-gno dei chirurghi solo una volta, il 25 gennaio del 1930.In questo giorno venne operato per ernia inguinale. Èlo stesso Sovrano a scrivere sul suo diario: “25 gen-naio…sono operato di un’ernia inguinale destra”; “5febbraio – mi alzo“; “7 febbraio…flebite destra, ancoraa letto”; “19 febbraio – mi alzo”. Dunque fu operato conle precauzioni e le complicanze di quegli anni: ad avereun decorso post-operatorio semplice non bastarono 10giorni di letto.

Questa citazione del diario con l’annotazione deiguai fisici è riportata da Antonio Spinosa nel suo libroVittorio Emanuele III°. L’astuzia di un re. Cercando negliarchivi dei quotidiani dell’epoca non c’è alcuna tracciadell’intervento chirurgico. In verità nel gennaio – feb-braio del 1930 su Il Messaggero si parla solo dell’operadi Mussolini. Casa Savoia è citata per alcune manifesta-zioni benefiche e per il matrimonio, sfarzoso, dell’8gennaio di Umberto, figlio di Vittorio Emanuele III°,con Maria Josè.

Chi ha operato il Sovrano? Non esistendo documentipubblici si deve procedere per deduzioni. Con tuttaprobabilità il chirurgo dovrebbe essere stato RaffaeleBastianelli, Senatore del Regno, medico della Casa Rea-le, Sovrano anche lui ma del mondo della Medicina inquesto momento storico: nel 1932 sarà Bastianelli, so-stenuto dalla regina Elena a dare vita all’Istituto Tumo-

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ri di Roma che prenderà il nome di “Istituto ReginaElena”.

Giorgio Di Matteo ricorda le notizie riservate che cir-colavano ancora anni dopo. Gliene parlava il figlio diPuccinelli attribuendo a Bastianelli l’intervento. Pucci-nelli, Primario al I° Padiglione del Policlinico, era statoallievo prediletto di Bastinelli e Di Matteo, nei suoi anniospedalieri, fu assistente con lui. Ancora oggi di queglianni giovanili ne ha un vivo ricordo: “Bastianelli – diceDi Matteo – abitava in un villino oggi distrutto, vicinoal Policlinico ed aveva una straordinaria bibliotecaaperta ai colleghi ed agli studenti: molti la frequentava-no. Bastianelli veniva tra i lettori e scambiava poche pa-role con gli ospiti. Raramente raccontava qualcosa. Peròla sua grande fama era alimentata da leggende edaneddoti. Portava al polso un orologio d’oro. Si dicevache in occasione di un concorso nel quale voleva im-porre il suo candidato se lo fosse tolto e l’avesse messosul tavolo capovolto per rendere ben visibile la dedica,c’era scritto: “Dono di Vittorio Emanuele III°”. Forseper ottenere dai Commissari ragione sul suo giudizioera sufficiente la sua autorevolezza professionale macertamente l’esibizione ufficiale dei rapporti con i Sa-voia semplificò il problema. Si diceva anche che quel-l’orologio, quel dono erano la riconoscenza del Re perl’intervento subito”.

Il Re non ebbe altri interventi chirurgici, ma la suasalute rimase sempre malferma e lo assistevano, tragli altri, l’altro Bastianelli, Giuseppe, clinico medico,anche lui Senatore, Giovanni Mingazzini neuropsi-chiatra del S.Maria della Pietà che negli anni dellaPrima Guerra Mondiale lo aveva guarito dalle crisidepressive.

Pontefici e Re, come poveri e potenti, la chirurgia delXX° Secolo si è prodigata per tutti con qualità ed abne-gazione, mantenendo per l’Italia un alto rango tra iPaesi più progrediti del mondo.

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Cap. XVII

TRAPIANTI IN ITALIA

La medicina dei trapianti parla anche italiano. E congrande merito. Un dialogo comunque non facile per-ché, a differenza di quanto è accaduto e accade in altriPaesi, l’Italia è arrivata con ritardo, e non senza polemi-che, ad una legislazione aperta alla sostituzione degliorgani. Non sono mancate disavventure giudiziarie aquei chirurghi che avevano tentato la strada del tra-pianto, chiamando a loro difesa, il diritto internaziona-le, i progressi della medicina e, soprattutto, lo stato dinecessità davanti ad un malato che sarebbe certamentemorto se non fosse intervenuta la sostituzione di un or-gano.

La stessa legge sulla donazione – e cioè il consenso oil diniego a disporre in vita degli organi dopo la morte– ha avuto un percorso parlamentare molto accidenta-to.

A tutto questo va aggiunta una cultura che, in alcunearee, non favorisce la donazione degli organi, basando-si sul concetto della sacralità e, quindi, della intangibi-lità del corpo, anche quando la vita è finita. Con il tem-po questa cultura è notevolmente mutata in favore del-la donazione.

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Ecco i trapianti realizzati in “prima” assoluta in Ita-lia, organo per organo, secondo un ordine cronologico.Non esiste in Italia un registro dei trapianti quindi il re-soconto degli interventi è ricavato dai quotidiani. Le no-tizie, nel limite del possibile, sono state controllate manon si possono escludere dimenticanze e inesattezze.

Si comincia con il rene. Il primo trapianto in Italia èquello di rene prelevato da una donna dopo un accerta-mento per “morte cardiaca”. È il 30 aprile 1966. Sonopassati 12 anni dall’intervento eseguito da un chirurgodi Boston, I.E. Murray, che aveva utilizzato come dona-tore il gemello del paziente. L’operazione in Italia sisvolge all’Università di Roma: l’équipe è guidata da Pa-ride Stefanini, direttore dell’Istituto di Patologia Chirur-gia, con gli Aiuti Carlo Umberto Casciani e RaffaelloCortesini. Il rene viene prelevato da una signora de L’A-quila e trapiantato su una ragazza di 17 anni che ottieneil ripristino della funzione renale per quasi un anno.

Primo xenotrapianto. Passa poco tempo e il Policlini-co di Roma diventa teatro di un altro di quelli che Il Mes-saggero definisce, con un titolo a quattro colonne, “I mi-racoli della medicina romana”. Un giovane di 23 anni,Antonio Farina di Orgosolo, vive con il rene prelevato dauno scimpanzé. L’annuncio viene dato con un comunica-to sette giorni dopo l’intervento. È la seconda volta almondo che viene compiuto uno xenotrapianto di questotipo, il primo nel 1961 a New Orleans. Il comunicato del-la Direzione dell’Istituto di Patologia Chirurgica, datal’eccezionalità dell’evento, acquista un significato stori-co, merita quindi di essere pubblicato integralmente.

Da sette giorni vive all’Istituto di Patologia Chirurgicadell’Università di Roma un giovane la cui funzione renaleè svolta esclusivamente da un rene prelevato da uno scim-panzé. Il paziente era giunto all’Istituto circa due mesi pri-ma in coma uremico. Finora era stato mantenuto in vitacon due applicazioni settimanali di rene artificiale, avendoi propri reni completamente distrutti da una malattia cro-

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nica. Essendosi in questi ultimi tempi aggravate le condi-zioni generali, soprattutto da un punto di vista cardiocir-colatorio ed epatico, si è deciso di intervenire per salvare ilgiovane con un trapianto di rene. Non essendo stato possi-bile reperire un cadavere cui togliere l’organo renale, néessendo attualmente possibile ricorrere in Italia ad un do-natore vivente, essendo il progetto di legge relativo ancorain discussione, si è deciso di trapiantare un rene da unoscimpanzé. Tale intervento era stato in precedenza ampia-mente studiato in via sperimentale sull’animale nell’Istitu-to di Patologia Chirurgica; i risultati sono stati ottimi.

L’intervento - prosegue il comunicato - è stato eseguitodal prof. Paride Stefanini, direttore dell’Istituto di Patolo-gia Chirurgica, coadiuvato da un’équipe di collaboratori,tra i quali: Cortesini, Casciani, Arullani, Speranza, Ribot-ta. La funzione del rene è ripresa immediatamente dopol’intervento. Attualmente il malato è in buone condizioni,si alimenta e si alza dal letto. Naturalmente è ancora pre-maturo fare previsioni circa il risultato finale, come del re-sto in tutti i tipi di trapianto, tuttavia il decorso clinicoimmediato rappresenta un grosso risultato scientifico.

In tutto il mondo l’eco è enorme: l’attenzione verso l’I-talia, la sua chirurgia ed i suoi progressi nella ricerca salenaturalmente. Tanti giornali riportano l’evento in primapagina. “France Soir – ricorda Santoro che allora studiavaa Parigi – pubblicò sotto un grande titolo d’apertura duegrandi fotografie a mezzobusto, quella di Stefanini equella dello scimpanzè, ed i francesi scherzavano sul pelodella scimmia e sui vistosi baffi del Chirurgo. Pochi gior-ni dopo Stefanini venne a Parigi per un Convegno di Chi-rurgia Vascolare ed i francesi lo ossequiarono con un ri-spetto che all’epoca era inconsueto verso un italiano”.

Il paziente resta in vita per 40 giorni: muore non perun rigetto dell’organo, come tutti temevano ma per leconseguenze di un’ulcera gastrica.

La stessa équipe chirurgica diretta da Paride Stefani-ni è protagonista di una lunga serie di trapianti di rene,ma anche di una disavventura giudiziaria dopo la uti-lizzazione di un rene prelevato da un paziente con

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“morte cerebrale” al “San Giovanni” di Roma. L’opera-zione di trapianto viene compiuta al Policlinico Umber-to I°: interviene la Procura della Repubblica e la vicen-da si trascina per diverso tempo con il completo scagio-namento dei chirurghi.

Intanto la chirurgia del trapianto del rene si estendein Italia: il secondo intervento viene eseguito da PieroConfortini nel 1968 prelevando l’organo da un pazientedeceduto. Il terzo trapianto vede protagonista il 22maggio del 1969 Edmondo Malan al padiglione Zontadell’Ospedale Maggiore di Milano. Nasce con Malanun grande Centro trapianti di livello internazionale.

Finalmente il 4 gennaio 1976 arriva la legge che au-torizza il prelievo di organi da cadavere con morte ce-rebrale eccetto cervello e ghiandole genitali.

Rene e pancreas in contemporanea. Il 9 settembre1981- ma la notizia trapela solo il 26 ottobre - debutta inItalia il trapianto contemporaneo in una stessa persona,di rene e pancreas. Stefanini è già morto da alcuni mesi.L’intervento è compiuto da un’équipe diretta da Raf-faello Cortesini su una donna di 32 anni. Gli organivengono prelevati da un’altra donna morta in un inci-dente stradale. La paziente sopravvive fino al 16 no-vembre per sopraggiunte complicanze.

Trapianto di fegato. Sempre a Roma viene compiutoun altro passo in avanti sulla via della sostituzione degliorgani. È il 20 maggio del 1982. Nella sala operatoriadella anatomia chirurgica dell’Università di Roma, Raf-faello Cortesini della II° clinica chirurgica, trapianta, perla prima volta in Italia, un fegato. In Italia sono due iCentri autorizzati a questo tipo di trapianti, quello diret-to da Cortesini e quello, coordinato da Dinangelo Gal-marini, all’Ospedale Maggiore di Milano. C’è una silen-ziosa guerra a distanza per il debutto italiano di un tra-pianto eseguito per la prima volta al mondo dall’ameri-cano Thomas E. Starzl a Denver, in Colorado, nel 1964.

Il fegato trapiantato a Roma ridà la speranza di vita a

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Carmela Milfa di 35 anni di Taranto. L’organo è di ungiovane di Birmingham morto in un incidente stradale.Il fegato era stato portato in Italia da un DC-9 della Aero-nautica Militare e preso in consegna da Dario Alfani, chi-rurgo di grande valore, Aiuto di Raffaello Cortesini (mo-rirà prematuramente dopo avere eseguito una lunga se-rie di trapianti) mentre un altro aereo, un MB 326 bipo-sto, anche questo della Aeronautica Militare trasportavain due riprese dalla base di Gioia del Colle 60 flaconi diplasma donati dal Centro Trasfusionale dell’ospedale diTaranto. L’intervento, protrattosi dalle tre del mattino al-le 14, ha successo. “Da Milano i primi commenti, ammi-razione ma anche una punta di invidia” scrive un gior-nalista dell’Ansa. Arriverà presto il trapianto eseguitodall’équipe di Galmarini cui seguiranno quelli compiutia Torino, Genova, Padova e Bologna. Grande soddisfa-zione ovviamente a Roma per l’intervento eseguito dal-l’équipe guidata da Cortesini e composta da PasqualeBerloco, Antonio Famulari, Dario Alfani, dagli immuno-logi Elvira Renna Molajoni e Gianni Marinucci e da ungruppo di anestesisti coordinati da Enrica Pastore.

Un chirurgo italiano, Ignazio Marino che alla finedegli anni ‘90 diventerà il direttore dell’Istituto Medi-terraneo per i Trapianti e Terapie ad alta specializzazio-ne di Palermo, è accanto a Thomas Starzl quando tra-pianta a Pittsburgh il fegato prelevato da un babbuino.Ignazio Marino era stato allievo di Aureliano Puglioni-si, maestro di chirurgia all’Università Cattolica di Ro-ma. Eccezionalmente è ammesso a seguire l’interventoun giornalista, Luciano Ragno.

Accoppiata cuore-polmone. Nell’aprile del 1983 unasignora di 23 anni viene trasportata da Cagliari perchécolpita da una polmonite bilaterale postpartum, al re-parto di rianimazione del Policlinico di Milano direttoda Giorgio Damia. La paziente è subito sottoposta adintense terapie con l’ausilio di una sofisticata macchina,denominata Ecmo, perfezionata da uno dei medici del

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Policlinico, Luciano Gattinoni. Per venti giorni la signo-ra vive attaccata alla macchina. Una altalena di dispera-zione e di speranza. Ma la macchina cuore-polmonenon può fare il miracolo. La situazione precipita. Sipensa ad un trapianto ma non ci sono organi a disposi-zione. E poi non c’è l’autorizzazione ministeriale a que-sto tipo di trapianto. Da Como giunge la notizia cheuna donna è deceduta per un ictus e che è possibileprelevare gli organi. Viene avvertita la Procura dellaRepubblica di Milano mentre parte un rapporto al Mi-nistero della Sanità. Non si può attendere oltre. Dopouna serie di accertamenti compiuti da Girolamo Sirchia,AntonioVegeto preleva cuore, polmone e reni: i primidue organi sono affidati ad un’équipe chirurgica guida-ta da Vittorio Staudacher, assistito da Strada, Mezzetti,Odero e Fox mentre l’anestesista è Sibilla.

L’operazione dura dieci ore, la prima in Italia, la se-conda in Europa, la nona nel mondo (la “prima” asso-luta ha visto protagonista il cardiochirurgo Shumway aPalo Alto, in California). La donna vive cinque ore: lamorte è dovuta ad una crisi fibrinolitica generalizzata,una complicanza dovuta alle condizioni preesistenti al-la sostituzione degli organi. In pratica si tratta del pri-mo trapianto di cuore in assoluto in Italia, notizia que-sta spesso ignorata quando si fa la storia dei trapianti.Ed è anche il primo trapianto di cuore-polmone.

Il primo trapianto di cuore e polmoni con sopravviven-za del paziente verrà compiuto il 13 gennaio 1991 da Ma-rio Viganò direttore della Divisione di Cardiochirurgia del“San Matteo” di Pavia. Da un uomo deceduto per emor-ragia cerebrale vengono prelevati il cuore e i polmoni chesono trapiantati nell’organismo di Raffaella Barbirato diVercelli, 40 anni, da anni sofferente di fibrosi polmonarecon cuore polmonare cronico. Un intervento molto lungo,dalle due del mattino a mezzogiorno, per una drammati-ca complicanza, un massiccio sanguinamento.

Cuore nuovo. Si comincia a parlare di trapianto sin-

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golo di cuore anche in Italia dopo che Christian Bar-nard ha aperto la strada. Sono ormai superate le remoredi carattere etico. Nel 1967 Paolo VI° ricevendo il car-diochirurgo sudafricano lo aveva invitato a proseguiresulla via del trapianto cardiaco. Sono diverse le équipechirurgiche italiane che si stanno preparando. Mancaperò l’autorizzazione del Ministero della Sanità chegiunge solo all’inizio del novembre 1985. Sono autoriz-zati ad effettuare il trapianto di cuore i gruppi di car-diochirurgia di cinque Centri: Udine, Milano, Pavia,Bergamo e Padova. Dopo un breve periodo giunge an-che l’autorizzazione per il Policlinico “Umberto I°” diRoma e per il “Bambino Gesù”, ugualmente di Roma,quest’ultimo per i trapianti pediatrici. Ci vorrà un’atte-sa più lunga per il “San Camillo” di Roma. Negli annisuccessivi le autorizzazioni verranno ampliate a diver-se altre strutture. Arriva il via libera dal Ministero manon c’è ancora la tanto attesa legge sui trapianti.

Pochi giorni dopo l’autorizzazione del Ministero, il14 novembre del 1985 Vincenzo Gallucci, direttore delladivisione di cardiochirurgia all’ospedale di Padova, tra-pianta, per la prima volta in Italia, un cuore con so-pravvivenza del paziente anche se bisogna ricordareche il primo trapianto di cuore è stato compiuto da Vit-torio Staudacher, il paziente morì dopo cinque ore. Tut-to ha inizio alle 23,45 del 13 novembre all’Ospedale Re-gionale “Cà Foncello” di Treviso, quando scadono le 12ore previste dalla legge per la dichiarazione di mortecerebrale di Francesco Busnello, di 18 anni, vittima diun incidente con la moto. Vincenzo Gallucci, quando il14 maggio è cominciato da pochi minuti, si accinge aprelevare il cuore dal petto del ragazzo. Dopo 16 minu-ti l’organo, immerso in una soluzione fisiologica, vieneportato dallo stesso Gallucci a bordo della propria autoche, preceduta da una staffetta della Polizia Stradale,prende la strada per Padova. L’équipe chirurgica diret-ta da Gallucci e composta da Umberto Bortolotti, Ales-

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sandro Mazzucco, Giuseppe Faggian, innesta il cuoredel giovane motociclista nel torace di Ilario Lazzari, di38 anni, falegname di Vigonovo (Venezia) sofferente diuna miocardiopatia dilatativa. Alle 8 del mattino ilGiornale Radio dà la notizia che “il cuore di un giovanemotociclista batte nel torace di un falegname venetoche, senza il trapianto, sarebbe certamente morto”.

Il debutto del trapianto di cuore compiuto da VincenzoGallucci, che morirà prematuramente in un incidentestradale, avviene senza che in Italia esista una legge sulladonazione degli organi. Il provvedimento, approvato dalSenato, è fermo alla Camera ed a nulla valgono le iniziati-ve del Ministro della Sanità Degan. “Una situazione as-surda - commenta Mario Condorelli, illustre clinico medi-co a Napoli, Senatore e relatore della legge al Senato -quella che sta vivendo l’Italia in questo momento con chi-rurghi che sostituiscono gli organi e con legislatori chenon varano una legge che potrebbe facilitare i trapianti.Speriamo che presto l’Italia possa allinearsi ad altri Pae-si”. Di tempo Condorelli ne dovrà attendere molto.

Ancora pochi giorni e il 18 novembre al “San Matteo”di Pavia, Mario Viganò, allievo di Carlo Morone, lunghistudi e formazione professionale a Parigi, compie il se-condo trapianto cardiaco in Italia con l’Aiuto GaetanoMinzoni, gli Assistenti Martinelli, Spreafico e Chiaudanoe l’Anestesista Andrea Paganin. Il cuore di Andrea Orlan-di di 14 anni, morto per una caduta dal motorino, batte neltorace di Gianmario Taricco di 20 anni di Cuneo.

La notte dei trapianti. Pochi giorni dopo l’operazio-ne di Viganò si registra in Italia quella che passerà allastoria come la “notte dei trapianti”. Dal tramonto di ve-nerdì 21 novembre all’alba di sabato 22 vengono tra-piantati tre cuori. A Bergamo l’équipe guidata da LucioParenzan preleva il cuore di Emanuela Brembilla di 19anni e lo innesta nel torace di Roberta Failoni di 48 an-ni. Altro trapianto cardiaco all’ospedale “Santa Mariadella Misericordia” di Udine nel Centro diretto da An-

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gelo Meriggi: il cuore di Gianluca Bellame di 18 anniridà la speranza di vita a Valentina Rigo. Il terzo cuore,donato da Fabio Gervasoni di 21 anni, viene trapiantatoin Luigi Salvaris di 47 anni da un’équipe guidata daAlessandro Pellegrini al “Niguarda” di Milano.

Una manciata di ore e anche al “Policlinico UmbertoI°” di Roma viene compiuto un trapianto di cuore, ilprimo nella Capitale. Il 25 novembre Benedetto Marino,direttore della Divisione di Cardiochirugia, con otto As-sistenti e dieci Ricercatori, in stretta collaborazione conil cardiologo Attilio Reale, trapianta il cuore di LuigiSangiorgio nel torace di Luciano Capozzi, 49 anni.

È il momento del trapianto cardiaco. Basti pensare chedal 13 novembre giorno dell’intervento compiuto a Pado-va da Vincenzo Gallucci, all’8 dicembre, meno di un mesequindi, vengono impiantati 12 cuori nuovi. Nemmenonegli USA è mai stato compiuto un exploit di così grandedimensione. Al congresso della Società Italiana di Cardio-logia che si svolge a Roma nel dicembre del 1985, si sotto-lineano le grandi doti dei chirurghi italiani, ma non man-ca chi parla di una “corsa al trapianto”.

Trapianto di cuore pediatrico. Il primo trapiantocardiaco fra due bambini in Italia avviene il 5 gennaiodel 1986 a Roma ad opera dell’équipe diretta da Bene-detto Marino del Policlinico “Umberto I°”. L’organoviene prelevato da una bambina di 8 anni, FrancescaGobbato, di Conselve (Padova) ricoverata al reparto dirianimazione dell’ospedale di Treviso, in seguito allarottura di un aneurisma. Ad eseguire l’operazione diprelievo è un’équipe del Policlinico di Roma diretta daMichele Toscano. L’organo viene portato a Roma conun aereo dell’Aeronautica Militare. In un primo mo-mento era stato allertato il cardiochirurgo Carlo Mar-celletti del “Bambino Gesù”, ma la paziente bisognosadell’organo è troppa piccola per ricevere il cuore di unabambina di 8 anni. Il cuore va bene invece per MoiraCaradonna di 7 anni, figlia di un operaio e di una casa-

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linga. L’intervento comincia alle 22,45. È giorno quandotermina.

Questo trapianto non è il primo eseguito su un bam-bino italiano: il 10 giugno 1985 infatti nell’ospedale diHarefield a nord di Londra era stato trapiantato nel to-race di Nicoletta Tortorici di 11 anni di Palermo il cuoredi un coetaneo inglese.

Il 3 novembre del 1989 a Roma trapianto di cuore suun bambino di quattro mesi, il donatore ha 18 giorni.Mai prima d’ora in Italia, un donatore così piccolo. Iprecedenti nel mondo hanno sempre riguardato il Cen-tro di Loma Linda in California. Il piccolo cuore vienetrapiantato da un’équipe coordinata da Carlo Marcel-letti all’Ospedale pediatrico “Bambino Gesù”.

Cuore e rene in unico intervento. La serie dei tra-pianti non si arresta e il 16 febbraio 1987, per la primavolta in Italia, vengono trapiantati, nella stessa personail cuore e un rene. A compiere l’operazione sono Vin-cenzo Gallucci dell’Università di Padova e TommasoTommaseo, Primario della I° Divisione Chirurgia del-l’Ospedale di Treviso. Rene e cuore, prelevati da unadonna di 29 anni morta a Milano per emorragia cere-brale, ridanno la vita a Francesco Scarpetta di 44 annidi Massafra, in provincia di Taranto.

Arriva il cuore artificiale. Ancora un balzo in avan-ti. È il 30 dicembre del 1987 quando Luigi Donato, di-rettore del programma italiano per il cuore artificiale“Icarus”, annuncia che da sette giorni un italiano vivecon un cuore artificiale. L’operazione è stata compiutala vigilia di Natale da Mario Viganò, all’Ospedale “SanMatteo” di Pavia, ma la notizia viene data alcuni gior-ni dopo. “È una soluzione ponte - dice Viganò ai gior-nalisti – perché le condizioni del paziente erano dispe-rate e non c’era il tempo di attendere un cuore uma-no”. Il cuore artificiale impiantato da Mario Viganò –con l’assistenza del cardiochirurgo svizzero CharlieHahn con il quale i cardiochirurghi italiani avevano

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compiuto una fase di addestramento nella tecnica ope-ratoria che utilizza un’apparecchiatura Usa con valvoleprogettate e realizzate in Italia dalla Sorin Biomedica –mantiene in vita Giuseppe Campanella, un commer-ciante di 47 anni, residente a Dresano (Milano), mogliee due figli di 13 e 11 anni, passato attraverso due infar-ti complicati da insufficienze vascolari, tachicardie eblocchi atrioventricolari. L’intervento comincia alle 17del 24 dicembre, l’équipe chirurgica è guidata da Ma-rio Viganò con Gaetano Minzioni e Luigi Martinelli.Presente anche l’ingegnere biomedico Gianpietro Brue-ger, tecnico degli impianti. Il paziente si sveglia pochiminuti dopo la mezzanotte. “Buon Natale – gli diceun’infermiera – è andato tutto bene”. Giuseppe Cam-panella sorride. Il suo ventricolo artificiale destro pre-leva il sangue dall’atrio destro e lo immette attraversouna protesi suturata nell’arteria polmonare. Analoga-mente funziona il ventricolo sinistro. Sono passati 18anni da quando il cardiochirurgo americano DentonCooley ha impiantato all’ospedale St. Luc di Houstonil primo cuore artificiale temporaneo su un uomo, Ka-skell Kare.

Luciano Ragno, inviato del Il Messaggero è il primogiornalista ad intervistare Campanella. Sono felice – di-ce il paziente – e mi sento proprio bene. Un desiderio?Avere un cuore vero. E poi vorrei poter seguire alla ra-dio la partita Milan-Napoli. I desideri di Campanella siavverano. Può seguire alla radio il match di cartello frai rossoneri del Milan e gli azzurri del Napoli, ma so-prattutto vede arrivare il cuore vero. È la tarda seratadel 31 dicembre. Tutto il mondo si prepara a salutare il1988. Campanella chiede ad un’infermiera di poter as-saggiare, come vuole la tradizione, un cucchiaio di len-ticchie. “Porta bene”, dice. Ma le lenticchie tardano. Ve-de uno strano movimento, fino a quando Mario Viganòsi avvicina al suo letto e dice: “Caro Campanella, è arri-vato il cuore vero. È il cuore di un francese di 24 anni

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che ha deciso di togliersi la vita con un colpo di pistolanella sua casa in Alta Savoia”.

Quando Campanella si sveglia, ormai si sono spentii fuochi di artificio che hanno salutato l’arrivo dell’an-no, dice: “Che bel Capodanno”. Mentre rilascia l’inter-vista arriva la notizia al “San Matteo” di Pavia che è di-sponibile un cuore di un bambino di 11 anni che po-trebbe ridare la vita ad un ragazzo di 18 sofferente diuna cardiomiopatia dilatativa. Al “San Matteo”, così co-me in tutti gli ospedali del mondo, Capodanno è ungiorno come tutti gli altri.

Cuore donato in vita. Il 12 gennaio a pochi giornidal primo trapianto cardiaco con l’innesto di un cuoreartificiale, all’ospedale “San Matteo” di Pavia viene ese-guito per la prima volta in Italia e la quarta nel mondoun nuovo intervento “storico”: il trapianto di un cuoredonato da una persona in vita. Il donatore è un pazien-te inglese di 26 anni che, affetto da un gravissimo enfi-sema polmonare, è stato sottoposto a Londra al trapian-to “cuore-polmoni” benché il suo cuore fosse sano, per-ché in questi casi è previsto il doppio trapianto. Nel suopetto viene trapiantato il cuore con i polmoni di un do-natore viennese, mentre il suo cuore è inviato a Paviaper essere donato a Giuseppe Pulejo, di 56 anni, diMassa Carrara. L’intervento dura circa due ore.

Trapianto del pancreas. Ad iniziare l’esperienza deltrapianto pancreatico è, nel 1985, l’ospedale “San Raf-faele” di Milano dopo un periodo di alcuni anni di col-laborazione con l’Hospital Herriot di Lione.

Trapianto di cellule del pancreas. Il 6 gennaio 1989Fabrizio Vicentini, un disoccupato di 35 anni sofferentedi diabete, viene sottoposto nell’ospedale “Brotzu” diCagliari, al primo trapianto in Italia di cellule del pan-creas preventivamente “trattate” con una tecnica finorasperimentata solo a Miami. A eseguire il trapianto sonoNanni Brotzu, dell’Università Cagliaritana e Dario Al-fani, Aiuto del Centro trapianti del Policlinico “La Sa-

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pienza” di Roma. Il trapianto è reso possibile dalla de-cisione dei genitori di una ragazza di 12 anni, RamonaMollo, morta per aneurisma cerebrale, di donare i suoiorgani. Il cuore viene inviato a Pavia mentre reni e pan-creas sono trapiantati a Cagliari. Il pancreas da Romaviene trasportato con un aereo-taxi a Perugia dove lecellule di “Lagherans” (quelle che secernono l’insulina)sono per 10 ore sottoposte dai ricercatori della Divisio-ne di patologia medica dell’Università ad un particola-re trattamento: queste cellule estratte svolgono le fun-zioni del pancreas producendo insulina. Le cellule“trattate” sono poi portate a Cagliari e impiantate a Fa-brizio Vicentini, al quale viene anche trapiantato unodei reni della ragazza.

Saranno diversi i trapianti di questo tipo. Uno finiscesulle prime pagine perché il donatore è un ragazzo di14 anni vittima innocente di una sparatoria fra bande dicamorristi vicino a Napoli. Il cuore viene trapiantatonella città campana da Maurizio Cutrufo come pure ireni innestati in un giovane e in una ragazza da Santan-gelo Neri. Raffaello Cortesini a Roma trapianta il fegatoin una signora sofferente di cirrosi epatica. Il pancreasprelevato dal corpo del ragazzo viene inviato da Corte-sini all’Istituto di Clinica Medica dell’Università di Pe-rugia diretto da Paolo Brunetti che, con Riccardo Cala-fiore, tratta con una sofisticata metodica le insulae pan-creatiche. Queste vengono inviate a Roma e trapiantateda Cortesini in un diabetico di 42 anni. Un altro ragaz-zo, Nicholas Green, ucciso da malviventi mentre è invacanza con i genitori in Calabria, donerà i suoi organi.Un episodio che contribuirà alla cultura della donazio-ne degli organi.

Trapianto multiplo. È Raffaello Cortesini il chirurgoche compie in Italia, all’Università di Roma, il 26 feb-braio 1989 il primo trapianto multiplo simultaneo di fe-gato, pancreas, duodeno, intestino tenue. Gli organivengono prelevati da un donatore di 19 anni al Centro

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di rianimazione dell’Università di Pisa e trapiantati inun paziente sardo di 36 anni “affetto da una forma dif-fusa di tumore del fegato che infiltrava le strutture ana-tomiche vicine per cui un intervento chirurgico tradi-zionale e il semplice trapianto del fegato non avrebberoconsentito la radicalità e quindi la risoluzione del pro-blema”, dichiara in una nota ai giornalisti la DirezioneSanitaria del Policlinico.

Pochi giorni dopo, esattamente il 1° marzo, RaffelloCortesini esegue un nuovo multitrapianto, anche que-sto di fegato, pancreas, duodeno, intestino. Questa vol-ta gli organi provengono da una ragazza di 18 annimorta in un ospedale di Sassari e sono trapiantati inuna donna di 45 anni sofferente di un tumore malignodel sigma con metastasi epatiche. I due trapiantati vi-vono 35 e 40 giorni dopo l’intervento. “Le cause dellamorte – dice Cortesini ai giornalisti - non sono da met-tere in relazione con i trapianti: per la donna un’infe-zione generalizzata da germi intestinali e per l’uomouna complicazione epatica, esattamente una coagulopa-tia disseminata intravascolare”.

Un altro eccezionale trapianto multiplo - questa vol-ta si tratta di cuore, fegato, pancreas e reni prelevati daun unico donatore - viene compiuto il 17 luglio 1991.All’Università di Padova Ermanno Ancona sostituiscein un paziente il pancreas e un rene, Alessandro Maz-zucco trapianta il cuore in un cardiopatico. Sempre aPadova il trapianto di fegato mentre l’altro rene vienetrapiantato in un altro ospedale.

Primo polmone singolo. Anche per questo tipo diintervento c’è una contesa a distanza fra Roma e Mila-no. Il 12 gennaio 1991 una équipe coordinata da Co-stante Ricci, direttore della Cattedra di Chirurgia Tora-cica della Università di Roma “La Sapienza”, trapiantaun polmone su Angela Di Gilio. L’organo era stato pre-levato da una signora di 29 anni Margrith Manicaromorta nell’isola di Malta in un incidente stradale. Erano

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stati presi anche il cuore - trapiantato da Valentino Mar-telli (cardiochirurgo tornato in Sardegna dopo un lungosoggiorno di lavoro in Gran Bretagna) a Cagliari suFrancesco Cossu, pensionato di 55 anni - e il fegato tra-piantato da Raffaello Cortesini su un genovese di 50 an-ni Giuseppe Settanni. Trapiantati anche i due reni. Iltrapianto compiuto da Costante Ricci va in prima pagi-na sui quotidiani trattandosi del primo intervento inItalia, anche se, come detto sopra, nell’aprile del 1983Vittorio Staudacher a Milano aveva trapiantato cuore epolmone in una signora che era però sopravvissuta so-lo cinque ore. L’équipe guidata da Costante Ricci ècomposta Angelo Rendina, Federico Venuta, GaetanoCirulli, Tiziano Di Giacomo e Federico Francioni. Adaprire la strada era stato Cooper il 7 novembre 1983 aToronto. Cooper si era poi trasferito a St. Louis: e pres-so lo studioso americano Federico Venuta ha appreso latecnica, così come Angelo Rendina ha imparato la me-todica del trapianto in un centro di Bordeaux.

Passano appena ventiquattro ore e al “San Matteo”di Pavia Mario Viganò trapianta il cuore e i due polmo-ni in una donna di 40 anni, Raffaella Barbirato.

La risposta di Milano a Roma e Pavia non si fa atten-dere. Il trapianto di polmone viene realizzato a Milanoil 17 marzo 1991 da un’équipe coordinata da GiuseppePezzuoli e Dinangelo Galmarini. “Un trapianto - ricor-da Pezzuoli - reso possibile grazie all’ostinata determi-nazione di un gruppo di ricercatori con una esperienzadi chirurgia toracica e, in particolare di chirurgia rico-struttiva tracheobronchiale”. Giuseppe Pezzuoli e PieroZannini ricordano in un libro, Il trapianto del polmone, illungo percorso compiuto per giungere all’eccezionaleintervento, delineano le indicazioni e tracciano le pro-spettive.

L’operazione è realizzata all’Ospedale Maggiore Po-liclinico in una donna affetta da enfisema polmonare. Iltrapianto vive momenti di tensione che nulla hanno a

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che fare con la scienza medica. Giuseppe Pezzuoli datempo sta lavorando all’intervento, ma quando giungeil momento si trova nell’impossibilità di poterlo effet-tuare perché è al limite di età per occupare ancora l’in-carico universitario. E allora si cerca una soluzione frale maglie della legislazione: la soluzione viene trovata ePezzuoli può coronare anni di lavoro. È grande l’emo-zione quando l’intervento giunge a conclusione: Giu-seppe Pezzuoli dà l’annuncio del felice esito del tra-pianto al presidente dell’Ospedale, Giancarlo Abelli,che si trova allo stadio “San Siro” per un incontro dicalcio. Sono molto importanti i risultati del GruppoTrapianto di polmone dell’Ospedale Maggiore Policli-nico, IRCCS di Milano che esegue in poco più di un an-no cinque interventi di organo singolo e uno bilateralesequenziale.

Autotrapianto del fegato Il 3 aprile 1991 primo au-totrapianto di fegato in Italia. La tecnica viene attuatada Renzo Dionigi all’Ospedale di Varese sede della Se-conda Facoltà Medica di Pavia. Il chirurgo estrae l’orga-no dal paziente Bruno Rossi di 52 anni, rimuove duegrossi angiomi cavernosi, mantenendo l’organo freddocon una particolare perfusione e poi lo reimpianta nelpaziente stesso. L’intervento rappresenta un’ulterioreconquista della chirurgia epatica e trapiantologica. So-no servite dieci ore per eseguire l’intervento.

Pochi giorni dopo, con altrettanto successo, l’espe-rienza si ripete a Pavia, Prima Facoltà, Policlinico S.Matteo, con l’équipe di Eugenio Forni.

Trapianto di alta ingegneria Chirurghi italiani sirendono protagonisti di quello che viene definito daimedia come il “trapianto di alta ingegneria”. Un ragaz-zo riceve un cuore e dona il suo “ riparato”. Tutto hainizio il 24 novembre 1991 quando arriva la notizia chea Trento sono disponibili il cuore e i polmoni di un ra-gazzo morto in un incidente. L’équipe di Carlo Marcel-letti procede al prelievo. Lo stesso chirurgo al “Bambi-

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no Gesù” di Roma progetta di trapiantare il cuore e ipolmoni nuovi in un paziente in condizioni disperate,Giuseppe Pinelli di 16 anni, napoletano, e di prelevareil cuore malato di questo ragazzo, “ripararlo” e affidar-lo a Benedetto Marino, il collega cardiochirurgo dell’U-niversità “La Sapienza”. Tutto va per il meglio: Marcel-letti trapianta cuore e polmoni sul ragazzo napoletano,“ripara” il cuore preso dallo stesso ragazzo e lo invia alPoliclinico. Qui Benedetto Marino ridà la vita ad un pa-ziente col cuore nuovo “riparato”.

Fegato donato in vita. Un eccezionale trapianto, ilprimo in Italia e reso possibile solo con una speciale au-torizzazione del Ministero della Sanità, viene eseguitoda un’équipe guidata da Davide D’Amico, direttoredella Prima Clinica Chirurgica dell’Università di Pado-va. Su un bambino croato di 11 anni, Bojan Satrak, affet-to da un tumore al fegato, viene trapiantata una porzio-ne di fegato prelevata dall’organo del padre Szdenko.L’operazione, cominciata alle 4.30 di mercoledì 22 otto-bre 1997, dura diverse ore. L’intervento é compiuto daDavide D’Amico insieme al chirurgo giapponese KoikiTanaka, massimo esperto mondiale di questo tipo di in-tervento. “L’intervento è riuscito alla perfezione - diceDavide D’Amico alle decine di giornalisti accorsi datutta Italia a Padova - abbiamo asportato il lobo sinistrodel fegato dal padre, pari al quaranta per cento dell’or-gano, e lo abbiamo trapiantato nel bambino. Il fegatodel padre si rigenererà in un mese. Senza questa opera-zione il piccolo Bojan sarebbe certamente morto”. D’A-mico, che diventa così pioniere in Italia di questo tipodi trapianto, racconta poi ai giornalisti che il bambinocroato cinque mesi prima si era sentito male a scuolaperdendo sangue dalla bocca. Chirurghi croati lo ave-vano operato diagnosticando un tumore al fegato maavevano dichiarato che le probabilità di sopravvivenzaerano minime se non nulle. Una dottoressa croata, NelaSrsen, aveva attivato una gara di solidarietà umana,

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trovando la porta aperta nella Clinica Chirurgica di Da-vide D’Amico. Ai giornalisti che chiedevano il perchédell’alta specializzazione del chirurgo giapponese Ta-naka, D’Amico risponde che in Giappone sono possibilitrapianti solo fra viventi. Un mese dopo l’intervento diPadova, il Giappone approverà una legge che autorizzail prelievo di organi da cadavere. L’intervento di D’A-mico che ha aperto una nuova strada nella tecnica tra-piantistica in Italia suscita un grande interesse non solonell’opinione pubblica - i telegiornali della sera manda-no in onda ampi servizi e i quotidiani pubblicano la no-tizia in prima pagina - ma anche nei colleghi chirurghiriuniti a Padova per il 99° Congresso Nazionale dellaSocietà, che proprio D’Amico presiede.

Il Congresso Mondiale del 2000. Il grande livellodei chirurghi italiani è dimostrato dalla assegnazioneall’Italia del Congresso Mondiale dei Trapianti che sitiene a Roma nel 2000 sotto la Presidenza di RaffaelloCortesini. Il vertice è un grande successo per la quan-tità e la qualità dei partecipanti. Anche il Papa intervie-ne al Congresso esprimendo la propria solidarietà al la-voro dei trapiantatori. In questa occasione GiovanniPaolo II° dichiara un fermo no alle pratiche di clonazio-ne.

La clonazione. Il tema della clonazione è strettamen-te correlato con quello dei trapianti. Nel 1995 unastraordinaria esperienza inglese sconvolge il mondo:l’ingegneria cellulare ha potuto duplicare una pecora.Dolly, questo è il nome dell’animale, non ha un padreed una madre. È la duplicazione di un’altra pecora. Po-trebbe essere l’addio ad Adamo ed Eva ed al loro pec-cato originale. La clonazione apre imprevedibili scenaribiologici e clinici sul futuro e straordinarie possibilitàterapeutiche. La Chiesa Cattolica insorge. Anche le altrereligioni sollevano riserve. Ma la Ricerca va avanti se-guendo la logica di Leonardo da Vinci: prima speri-mentare poi giudicare.

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Nell’estate del 2000 il Governo inglese avvia proce-dure per autorizzare le ricerche. Anche il Presidente de-gli Stati Uniti si pronunzia a favore. Il mondo dellaScienza guarda con fiducia al futuro, confortato daiPremi Nobel. Anche in Italia Renato Dulbecco e RitaLevi Montalcini, Premi Nobel per la Medicina, sono fa-vorevoli come il Ministro della Sanità Umberto Verone-si. La Società Italiana di Chirurgia esprime piena soli-darietà. “Il Governo, senza entrare nel dibattito fra laicie cattolici dia corpo ad un progetto di ricerca nazionalefinalizzato sulla clonazione, gestito dal Consiglio Na-zionale delle Ricerche o dal Ministero della Sanità, ga-rantito dai Premi Nobel italiani per le Scienze e direttodallo stesso Ministro della Sanità, Umberto Veronesiche è anche autorevolissimo ricercatore. Nel progetto, esolo nel progetto, debitamente finanziato dal Governoper almeno cinque anni, possono e debbono confluiretutti i ricercatori che svolgono attività in questo ambitoe tutti i relativi programmi individuali. Il piano delle ri-cerche ed i loro limiti - sono parole di Eugenio Santoro,presidente della Società Italiana di Chirurgia, ripresecon grande rilievo da tutti i media - debbono essere va-lutati dalla Commissione etica nazionale e sanciti dalGoverno e dal Parlamento. Solo così l’Italia potrà resta-re al passo con il progresso, evitare iniziative indivi-duali incontrollate e garantire ai ricercatori italiani ed alPaese un ruolo leader nel futuro già iniziato”.

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Parte Quarta

La Società itaLiana di chirurgia

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Cap. XVIII

LA STRUTTURA SOCIETARIA S.I.C

Il primo Statuto della Società Italiana di Chirurgiaapprovato nell’adunanza del 1882 presieduta da Co-stanzo Mazzoni, elaborato sulla guida di quello dellaSocietà Tedesca, dice che la Società fu costituita il 3aprile di quell’anno da 94 Soci fondatori. Tanti dunqueerano i Chirurghi Italiani che avevano aderito all’invitodi Palasciano. Per la verità in più carte ed in più Attil’elenco di quei Soci ammonta a 104. I dieci in più forseaderirono all’invito ma non completarono la procedura.

Gli scopi della Società furono di riunire il lavoro deiChirurghi, di facilitare lo scambio di idee e di promuo-vere il progresso dell’arte e della scienza chirurgica. Sidecise anche di tenere un’adunata annuale ordinaria edeventualmente altre straordinarie pubblicandone gli at-ti.

Lo Statuto prevedeva che la Società fosse diretta daun Comitato esecutivo eletto dall’Assemblea per tre an-ni con un Presidente, un Vicepresidente, due Consiglie-ri, due Segretari ed un Tesoriere. Le cariche erano rin-novabili e ciò consentì agli stessi uomini, soprattuttoromani, di dirigere a lungo la Società. Francesco Duran-te, secondo Presidente dopo Costanzo Mazzoni, restò

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in carica 33 anni dal 1886 al 1919.Roberto Alessandri fu Presidente più volte per com-

plessivi 12 anni e precedentemente era stato molte volteVicepresidente e Consigliere a partire dal 1904 al 1938.Raffaele Bastianelli fece parte del Comitato esecutivocome Vicepresidente o Consigliere quasi ininterrotta-mente dal 1904 al 1948. Lo stesso accadde con RaffaelePaolucci di Valmaggiore e Pietro Valdoni che presiedet-tero la Società ciascuno due volte e furono più voltemembri del Consiglio Direttivo. Gianfranco Fegiz eGiorgio Di Matteo negli anni più recenti ebbero la Pre-sidenza dopo essere stati a lungo Segretari. Particolarefu il percorso di Paride Stefanini, unico ad avere rico-perto in 40 anni tutte le cariche sociali: Tesoriere nel1937, con Valdoni Segretario ed Alessandri Presidente,Segretario nel 1939, Consigliere nel 1959, Vicepresiden-te nel 1962, Presidente nel 1968 ed infine PresidenteOnorario nel 1979.

Il Primo Statuto e le modeste variazioni che vi furo-no apportate nei successivi 40 anni sono sostanzialmen-te tese alla promozione e salvaguardia del patrimonioculturale della Chirurgia Italiana, alla modalità di svol-gimento dei Congressi, della ammissione delle relazio-ni e della stampa degli Atti. Da tale attenzione e cura èderivato uno straordinario materiale d’archivio, dalquale è oggi possibile ricostruire radici e passato dellaSocietà Italiana di Chirurgia tra il XIX° e il XX° Secolo edella Chirurgia Italiana moderna, quella cioè derivatadall’impiego dell’anestesia e della sterilità.

Con quella valorizzazione culturale crebbe anchel’apprezzamento sociale dei Chirurghi e, malgrado gliAtti riportino sin dall’inizio lamentele per mediocrirapporti tra Chirurgia e Società civile, il ruolo socialedel Chirurgo dall’inizio del Secolo fu di molta conside-razione. Ne è testimonianza il fatto che molti dei Presi-denti della Società furono Senatori del Regno: France-sco Durante, Giovanni Pascale, Baldo Rossi, Roberto

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Alessandri, Giuseppe Tusini ed ebbero l’alto onore an-che altri insigni Membri del Consiglio Direttivo comeAntonio D’Antona, David Giordano, Giuseppe Musca-tello e Raffaele Bastianelli.

Anche la storia Repubblicana è folta di ChirurghiParlamentari ma questi, tanti, lo furono come eletti delpopolo, in riconoscimento non dei soli meriti professio-nali, come nel Regno, ma delle loro capacità di coagula-re il consenso politico.

Il nuovo ruolo sociale della Chirurgia è ben evidentenella variazione di Statuto approvata nel 1921 ove gliscopi societari si arricchiscono: non più solo promuove-re il progresso dell’arte e della scienza chirurgica maanche tutelare il prestigio e gli interessi legittimi deicultori della Chirurgia. Siamo negli anni ruggenti delprimo dopo guerra, la democrazia è in pericolo, il fasci-smo è alle porte. Il grande travaglio si riflette dunqueanche nella vita e sulla vita della Società Italiana di Chi-rurgia.

Il terremoto arrivò tra il 1930 ed il 1939 durante laPresidenza di Roberto Alessandri. Dapprima venne al-largato il numero dei membri del Consiglio Direttivoportando a sette i Consiglieri, oltre i due Vicepresidenti,ed inserendo due membri quali rappresentanti del Sin-dacato Medico Fascista che nel 1934 furono il senatoreA. Guaccero di Bari e l’on. E. Fioretti di Roma. Successi-vamente la nomina del Presidente e del Vicepresidentefu riservata al Ministro dell’Educazione Nazionale equella dei Consiglieri al Presidente della Società. Cosìfu prima confermato Alessandri e, dopo il suo ritiro, funominato Raffaele Paolucci di Valmaggiore che rimasein carica per tutto il periodo bellico. L’art.12 di quelloStatuto riporta anche la formula del Giuramento Acca-demico che Presidente e Vicepresidenti dovevano tene-re nelle mani del Prefetto di Roma, rappresentante delGoverno: “Giuro di essere fedele al Re, ai suoi RealiSuccessori ed al Regime Fascista, di osservare lealmen-

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te lo Statuto e le altre leggi dello Stato e di esercitarel’Ufficio affidatomi con animo di concorrere al maggio-re sviluppo della cultura nazionale.” Ogni anno il Presi-dente doveva trasmettere una relazione sull’attività alMinistro dell’Educazione Nazionale, che doveva ancheapprovare il Regolamento Interno come avvenne nel1942.

Persa la Guerra e ritrovata, con la Repubblica, unanuova serenità politico-sociale, la Società ritrovò libertàe si adattò ai tempi con un nuovo Statuto nel 1946. Do-po 64 anni il nuovo articolo uno dimenticò i 94 gloriosiFondatori. La Società è di tutti i cultori della materia elo resterà per tutto il Secolo XX°. Lo scopo rimane inva-riato: favorire il progresso dell’Arte e della Scienza chi-rurgica, facilitare lo scambio delle idee tra i Chirurghi,coordinandone il lavoro, tutelare il prestigio e gli inte-ressi legittimi dei cultori della Chirurgia. Gli organi Di-rettivi ritornano elettivi: un Presidente, due Vicepresi-denti, sei Consiglieri, un Segretario ed un Tesoriere. Ladurata in carica due anni, portata a tre nel 1970, riporta-ta a due nell’82.

Nel 1948 la Società tenne a Bologna il suo 50° Con-gresso; erano trascorsi 66 anni dalla fondazione dellaSocietà. L’allora Presidente nazionale Luigi Torraca liriassunse in una memorabile allocuzione.

La mancata corrispondenza tra il numero dei congressie quello degli anni di vita del nostro Sodalizio, è una con-seguenza delle interruzioni, che circostanze di vario gene-re, e specialmente le due guerre mondiali, hanno impostoalla nostra attività. Ma cinquanta Congressi sono già unbel numero, e lo spazio di due terzi di secolo corrispondealla durata di due generazioni. Nessuno dei Soci attualipuò vantarsi di aver veduto le prime adunanze della So-cietà, ma i due illustri Colleghi nostri, che hanno la mag-giore anzianità di associazione, i Senatori Raffaele Bastia-nelli e Giuseppe Muscatello, come quelli che furono iscrit-ti nel 1891, in occasione dell’ottavo congresso, sono vete-

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rani di ben quarantadue convegni. Sono sicuro di inter-pretare i sentimenti di quest’Assemblea, esprimendo, adentrambi gli insigni chirurghi, l’augurio sincero e cordialedi averli, per lunghissimi anni ancora, nostri Soci onorari.

Non è ostentazione di vanità ma puro e semplice ac-certamento dei fatti, che la Società di Chirurgia ha, findall’inizio, raccolto quanto di meglio vi è stato, e vi è, nelmondo chirurgico del nostro paese, e scorrendo i volumiche raccolgono gli atti dei passati congressi, appare comele nostre assemblee abbiano goduto il privilegio di ascol-tare le primizie di molti tra i contributi più significativi,che i chirurghi italiani hanno portato, da un sessantennioa questa parte, al perfezionamento della scienza e dell’ar-te loro. Ricordiamo, tanto per stabilire qualche data, chequando la Società fu fondata, nel 1882, Roberto Koch nonaveva ancora comunicato la scoperta del bacillo del tuber-colo, e che l’anno nel quale si adunò il primo congresso, il1883, è quello nel quale il Langenbuch praticò la primacolecistectomia.

La Società di Chirurgia, che è la decana delle Societàmediche italiane, ha visto infatti distaccarsi dal propriotronco, e fiorire intorno a sé, molte altre associazioni di in-dole chirurgica, in conseguenza della tendenza alla spe-cializzazione, che è una caratteristica dello svolgimentoprogressivo di tutte le scienze, e che, per la Medicina e laChirurgia, sembra avviata a prendere uno sviluppo sem-pre maggiore.

Sono così sorte, a poco a poco, le Società di Ginecolo-gia, di Oculistica, di Ortopedia, di Urologia, di Anestesia,ed altre sono in via di organizzazione, come quella diNeurochirurgia e quella di Chirurgia Toracica, delle qualipotremo presto salutare la nascita.

Nel campo della Medicina e della Chirurgia, la specia-lizzazione è antichissima. Già venticinque secoli fa, Ero-doto, visitando l’Egitto, vi trovava che “ogni malattia ha ilsuo medico che non cura le altre”

Mi piace, invece, di mettere in rilievo, per concluderequesta parte del mio discorso, la decisione, presa di recen-te dalla Società Italiana di Chirurgia, di non accogliere trai propri soci se non coloro che siano in grado di documen-tare di essere già seriamente avviati ad un’effettiva carrie-ra chirurgica, perché mi pare che tale iniziativa potrebbeservire di esempio a chi avrà il delicato incarico di elabo-

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rare la rinnovata legge sulle specializzazioni.

Negli anni 70 venne individuata la figura del Presi-dente Onorario a vita: personalità di grande prestigio,da eleggere all’unanimità. Il primo fu Pietro Valdoniche scomparve nel 1976. Gli succedette Paride Stefani-ni, che morì pochi anni dopo, e nel 1982 fu eletto Giu-seppe Zannini di Napoli scomparso nel 1999: entrambimorirono per la stessa infermità con grande dolore erimpianto di tutta la Società.

Zannini si spense in un’assolata mattina d’autunno.Ai suoi funerali parteciparono tanta Napoli da lui ope-rata e guarita e tanti allievi, in una chiesa stracolma, da-vanti al golfo azzurro. Il presidente della Società, Euge-nio Santoro, lo commemorò in quella sede.

La Società Italiana di Chirurgia ha perso il proprioamato Presidente Onorario. La Chirurgia Italiana ha per-so un grande Maestro. Alla Chirurgia Giuseppe Zanniniha dedicato tutta la sua vita, la sua grande intelligenza, lasua straordinaria cultura e irripetibile capacità professio-nale.

La sua vita si è intrecciata con quella della nostra So-cietà Nazionale della quale fu Presidente dal 1979 al 1982,gli anni del varo della Riforma Sanitaria, nei quali, pur indifficili condizioni, riuscì a tenere alta la bandiera dellaChirurgia.

Fu erede, testimone e protagonista della Scuola Chi-rurgica napoletana, nella linea di continuità con Palascia-no, con Torraca, con Ruggieri e con tanti altri colleghi illu-stri.

Svolse un grande ruolo anche al di là della sala opera-toria, della cultura professionale e dell’insegnamento. FuPresidente del Consiglio Superiore di Sanità ed ebbe tantealtre cariche eccellenti. Ma alla Società Italiana di Chirur-gia legò indelebilmente la sua vita, divenendone Presi-dente Onorario, amato da tutti e rispettato. Ho avuto lafortuna di sedere accanto a lui a lungo nel nostro Consi-glio Direttivo, ricorderò sempre la sua presenza assidua epuntuale, la sua straordinaria signorilità e il grande cari-sma che emanava dai suoi interventi. È stato dunque uno

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dei grandi protagonisti di tanti anni di storia della Chi-rurgia contemporanea.

Si spegne una grande luce. La Società Italiana di Chi-rurgia tutta piange la grande perdita del proprio Presi-dente Onorario e si stringe accanto alla famiglia e alla suaScuola nel grande dolore comune. Giuseppe Zannini vi-vrà nella nostra memoria e nella storia della Chirurgia ita-liana. Per sempre.

In questa seconda metà del XX° Secolo nessun Presi-dente, eccezion fatta per Dogliotti e Valdoni, ebbe duemandati, nè tentò di essere rieletto.

La Società crebbe fino a superare i 5000 Soci e cele-brò i suoi Congressi un anno a Roma e l’altro altrove,trasferendosi per tutto il Paese, da Palermo a Trieste, daCatania a Bari, a Torino. Intensificò gli scambi culturalicon l’estero nominando quaranta Soci Onorari persona-lità di chiara fama nel mondo e nell’anno 2000 ebbe l’o-nore di vedere uno dei propri Soci, Umberto Veronesi,essere nominato Ministro della Sanità nel Governo del-la Repubblica Italiana. Precedentemente un altro deiSoci Onorari, Henrique Beveraggi, illustre Chirurgodell’Ospedale Italiano di Buenos Aires, era stato Mini-stro della Sanità nel Governo argentino.

Tutti i lavori congressuali sin dal 1883 sono stati rac-colti nei volumi degli Atti specificamente noti come Ar-chivio ed Atti della Società Italiana di Chirurgia. I volu-mi annuali, pubblicati a cura della Segreteria della So-cietà, sono diventati negli anni sempre più numerosi ecostituiscono il patrimonio culturale fondamentale ul-tra secolare della Chirurgia in Italia. Dal 1994, con lastampa delle Relazioni biennali, a ciascuna delle quali èdedicato un apposito volume, la Società si è dotata diuna collana monografica sul tipo dell’Association Fran-caise di Chirurgie.

Oltre agli Atti, con la loro periodicità annuale, la So-cietà nella propria espansione ha sentito il bisogno didotarsi di altri organi di stampa scientifici ed informati-

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ci attraverso i quali diffondere in Italia e nella Comu-nità Scientifica Internazionale i prodotti del lavoro deipropri Soci. Nel 1969 al Congresso di Torino un grandedibattito infuocò la platea sulla proposta di Stefanini distampare una Rivista in inglese per avere una maggiorepossibilità di essere letti nel resto del mondo. L’opposi-zione fu serrata con l’adesione anche di Valdoni. Santo-ro portò il sostegno dei giovani alla proposta innovati-va. Prevalse la tesi Stefanini e nacque Surgery in Italy,rivista bimestrale, organo ufficiale della Società. Dopopoco più di un decennio cambiò titolo e divenne ItalianJournal of Surgical Sciences. Ma non ebbe maggiore for-tuna: le difficoltà, tutte italiane, di accesso alla linguainglese, colorate e mascherate dallo spirito nazionalisti-co, segnarono dopo quasi venti anni la fine di quellaesperienza. Con la presidenza Pezzuoli fu pubblicatauna Rivista tutta italiana Chirurgia edita dalla MinervaMedica come organo ufficiale della Società. Ebbe, tra iSoci, un favorevole riscontro ma non riuscì mai ad en-trare nel circuito internazionale ossia tra le Riviste cen-site nell’Index Medicus. Così con la Presidenza Santoronel 1998 la Società entrò in possesso di Chirurgia Italianaper gentile donazione di Giovanni Serio, professore diChirurgia a Verona e titolare della Fondazione Pettinarialla quale la Rivista apparteneva da cinquanta anni, neiquali aveva, non senza difficoltà, mantenuto la propriaposizione nell’Index Medicus.

L’acquisizione di Chirurgia Italiana come organo uffi-ciale della Società ha riaperto ai chirurghi italiani la viadi un colloquio scientifico più diretto con la comunitàinternazionale ed ha posto fine all’esperienza di Chirur-gia che pure era stata prestigiosa.

Negli anni ’80 la Società dette vita anche alla pubbli-cazione di un Bollettino periodico che, per veste edito-riale e per contenuti, finì col diventare, più che un orga-no che informa, una seconda Rivista Scientifica nellaquale trovarono posto lavori congressuali, soprattutto i

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dibattiti delle Tavole Rotonde, rimasti fuori dagli Atti.Nel 1994 con la presidenza Gazzaniga il Bollettino di-ventò un vero e proprio organo di informazione trime-strale. Nel 1998 con la Presidenza Santoro fu modificatala testata con la denominazione Bollettino SIC-Chirurgia2000, fu scelta la forma grafica di un giornale che venneaffidato alla direzione responsabile di Luciano Ragno,giornalista professionista, capo ufficio stampa della So-cietà dal 1996.

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Cap. XIX

PRESIDENTI E CONSIGLI DIRETTIVI

Anche la rivisitazione dell’elenco dei 32 Presidentiche si sono succeduti dal 1882 al 2000 offre interessantispunti. Dopo Costanzo Mazzoni, primo Presidente sinoal 1885, i successivi 31 si sono alternati per periodi va-riabili per tutto il XX° Secolo. Nel 1901 era già Presiden-te da 15 anni Francesco Durante che lo resterà sino al1919 quando per limiti di età lasciò la Cattedra romanae si ritirò nella natia Sicilia.

Francesco Durante nacque a Letojanni (Messina), nelgiugno del 1844, da famiglia originaria del Palermitano,cui erano stati confiscati i beni perché animata da idealicorbonari, compì i primi studi medici a Messina, quindi sitrasferì a Napoli dove si laureò nel 1864.

Appena laureato, si trasferì a Firenze dove ottenne perconcorso la nomina di assistente all’Ospedale. Nel 1868,iniziò il suo giro formativo europeo sostando dapprima aVienna ed a Berlino. A Vienna fu allievo di Stricker e diBillroth, del quale divenne assistente. A Berlino frequentòil laboratorio di anatomia patologica, diretto da Virchow.Qui si integrò talmente da arruolarsi volontario nell’eser-cito Prussiano come Capitano Medico della Croce Rossanella guerra franco-prussiana del 1870. A Londra fu allie-

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vo di Giuseppe Lister, a Parigi frequentò Ranvier studian-do istologia ed embriologia.

Nel 1872 con il bagaglio culturale acquisito, rientrò aRoma e, l’anno dopo, fu nominato da Costanzo Mazzoni,Aiuto della clinica chirurgica. Nel 1873 gli venne affidatol’insegnamento di patologia chirurgica di cui divenne Or-dinario nel 1879; succedette nel 1885 a Mazzoni, nella di-rezione della Clinica Chirurgica romana che tenne fino al1919. La sua è stata tra le più fiorenti scuole chirurgicheitaliane: con sedici allievi in Cattedra e tantissimi Primariospedalieri.

Operatore insigne, antesignano della neurochirurgia,si distinse in tutti i campi della chirurgia addominale, or-topedica, laringea, vascolare innovando e creando nuovemetodiche che hanno contribuito in modo sostanziale allaevoluzione della prima grande fase tecnica della chirur-gia. Oltre a nuove tecniche chirurgiche ideò nuovi stru-menti, fra i quali la pinza che porta il suo nome. Tra i suoiscritti il “Trattato di Patologia e Terapia Chirurgica” del1895.

Con Guido Baccelli fu l’ideatore ed il propugnatore delPoliclinico di Roma, fu Socio fondatore della SIC, fonda-tore e primo presidente dell’Ordine dei Medici della Ca-pitale. Fondò l’Opera Nazionale Invalidi di Guerra, dellaquale fu anche primo Presidente. Fu proclamato dottorein legge ad “honorem” all’Università di Edimburgo,membro dell’Accademia di Francia e Senatore del Regnofin dal 1889.

Negli ultimi anni, ritiratosi dalla vita attiva, tornò nelpaese natio dove morì nel 1934 a novanta anni.

Nei successivi 13 anni la Presidenza della Società fuannuale e coincise con la Presidenza del Congresso chesi svolse con regolare puntualità.

Nel 1920 fu eletto Enrico Burci, Clinico Chirurgo diFirenze. Sarà l’unico toscano Presidente della Società intutto il Secolo.

Enrico Burci nacque a Firenze nel maggio 1862, nipotedi Carlo Burci, clinico chirurgo prima a Pisa e poi a Firen-ze dal 1845 al 1868. Si laureò nel 1885 a Pisa.

Negli Ospedali di Pisa fu Primario Chirurgo. Nel 1899

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divenne professore di Patologia chirurgica a Padova e nel1902 si trasferì a Firenze dove diresse la Clinica Chirurgi-ca, che già aveva diretto suo zio.

Durante la guerra balcanica nel 1912 diresse un’unitàmilitare. Nella guerra 15-18 fu consulente chirurgo degliOspedali Militari di Firenze. Dal ’26 al ’30 fu Rettore del-l’Università di Firenze. Morì a Firenze il 30 ottobre 1933.Si interessò di batteriologia, di anatomia chirurgica, dichirurgia intestinale e soprattutto di chirurgia vascolare.Presiedette il 27° Congresso della Società a Roma nel 1920ed il 29° a Firenze nel 1922.

Nel 1921-22 fu Presidente Giovanni Pascale di Napo-li, primo dei cinque Presidenti che la Scuola Napoleta-na ha dato alla Società.

Giovanni Pascale nacque in provincia di Beneventonel marzo del 1859. Si laureò a Napoli nel 1884. Assistentee Aiuto nella Clinica Chirurgica di Napoli con il Prof. A.D’Antona, Primario dell’Ospedale di S. Maria della Pacenel 1896.

Professore di Semeiotica Chirurgica nel 1903, assunsela Cattedra di Chirurgia Generale nel 1908. Nel 1919 funominato Senatore del Regno. Più volte Preside della Fa-coltà di Medicina, Membro del Consiglio Superiore dellaPubblica Istruzione e Presidente dell’Accademia Reale discienze mediche. Dal 1927 attivò un Centro della Lega Ita-liana per la lotta ai Tumori presso la Clinica Chirurgica dalui diretta creando nel 1933 la “Fondazione Senatore Pa-scale” ed avviando la costruzione dell’Istituto Tumori diNapoli. Morì settantasettenne il 26 ottobre 1936. Presie-dette il 28° Congresso della Società nel 1921, a Napoli.

Nel 1923 fu eletto, per la sua prima volta, RobertoAlessandri che era succeduto nella Cattedra Romana aFrancesco Durante. Alessandri sarà rieletto nel 1925,nel 1928 e nel 1930: da quell’anno per la modifica delloStatuto voluta dal Regime resterà in carica per nove an-ni, nominato dal Ministro per Educazione Nazionaledel Governo Mussolini sino all’abbandono della Catte-dra, nel 1939.

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Roberto Alessandri nacque a Civitavecchia nel 1867da famiglia di medici. Si laureò a Roma nel ‘92, fu allievodi Francesco Durante presso la Clinica Chirurgica.

Fu incaricato di Ortopedia dal 1900 al 1902 e di Patolo-gia Chirurgica dal 1902 al 1919. In pari tempo fu PrimarioChirurgo prima dell’Ospedale “S. Giacomo” e poi del Po-liclinico “Umberto I°”.Fu anche presidente della SocietàItaliana di Ortopedia. Succedette a Durante nel 1919 allaCattedra di Clinica Chirurgica della “Sapienza”. Durantela Ia Guerra Mondiale fu Direttore della 2a AmbulanzaChirurgica, meritando la medaglia d’argento al valore.Nel 39 fu nominato Senatore. Fu Membro del ConsiglioSuperiore della Pubblica Istruzione. Morì a Roma l’8 ago-sto 1948.

Nel primo dopoguerra ci furono anche le brevi presi-denze annuali di Baldo Rossi di Milano nel 1924, MarioDonati di Padova nel 1926, Ambrogio Ferrari di Parmanel 1927 e Giuseppe Tusini di Genova nel 1929. In que-gli anni la Società raccoglieva quasi 500 Soci, da tuttaItalia.

Baldo Rossi nacque in provincia di Milano nel gen-naio del 1868.

Fu giovanissimo Primario dell’Ospedale Maggiore diMilano. Nel 1924 alla creazione della Facoltà di Medicinadi Milano, presso l’Ospedale Maggiore, ottenne la Catte-dra di Clinica Chirurgica. Nel 1923 era stato nominato Se-natore del Regno.

Morì improvvisamente nel 1931 senza poter svolgerela Relazione sulla peritonite che gli era stata assegnataper il 29° Congresso Nazionale della Società.Aveva pre-sieduto il 31° Congresso nel 1924 a Milano.

Mario Donati nacque a Modena nel febbraio del 1879,da antica famiglia del luogo. Si laureò a Torino nel 1901con Antonio Carle di cui divenne assistente.

Nel 1912 andò come Professore di Patologia Chirurgi-ca prima a Cagliari e poi a Modena. Nel 1922 si trasferì aPadova succedendo a Edoardo Bassini. Nel 1928 tornò aTorino a reggere la Cattedra del suo Maestro Carle. Nel

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1933 assunse la direzione della Clinica Chirurgica di Mi-lano. Nel 1938 a causa delle leggi razziali ed essendo direligione ebraica fu allontanato dall’insegnamento segui-tando a lavorare nella città lombarda privatamente. Nel1943 fuggì in Svizzera prima a Lugano e poi a Ginevraper evitare la deportazione. A guerra finita fu reintegratonel ruolo di professore e rientrò a Milano dove morì im-provvisamente a 67 anni il 21 gennaio 1946.

Fu anche Presidente della Società Italiana di Ortopedianel 1926-1927, Presidente dell’Ordine dei Medici di Torinodal 1928 al 1932. Fondò la Società Piemontese di Chirur-gia nel 1931 e quella Lombarda nel 1934. Fondò e diressel’Archivio Italiano di Chirurgia. Fu autore di libri didatti-ci di patologia chirurgica e di medicina operatoria e diuna copiosa produzione scientifica.

Fu chirurgo di eccezionali capacità e di grande presti-gio.Presiedette il 33° Congresso nel 1926 a Padova.

Ambrogio Ferrari nacque a Borgo San Domino nel lu-glio del 1854, studiò a Parma, Pisa e Bologna e nel 1879 funominato assistente dell’Università di Parma. Completòla propria formazione in Anatomia patologica a Viennacon Exner e a Berna con Langhans.

In paritempo a Vienna entrò in contatto con Billroth,ad Halle con Volkmann e a Berna con Kocher. Nel 1884diventò professore di chirurgia a Camerino e nel 1887 sitrasferì all’Università di Parma, dove fu anche Primariodi una Divisione di Chirurgia Ospedaliera. Dal 1910 al1913 fu Preside di Facoltà e nel 1919 divenne Direttoredella Clinica Chirurgica, che diresse per 10 anni fino al1929 quando per limiti di età gli subentrò Paolucci. Si de-dicò alla chirurgia dello stomaco secondo la Scuola di Bil-lroth ma anche alla chirurgia delle ossa ed al trattamentodelle infezioni.

Presiedette a Parma il 34° Congresso della Società.

Giuseppe Tusini nacque a Sarzana l’8 marzo 1866. Silaureò in medicina a Genova nel 1890, divenendo Aiutodopo Assistente di Clinica Chirurgica.

Nel 1903 fu incaricato di Patologia Chirurgica e nel1906 professore ordinario a Pisa. Tra il 1915 ed il 1935 di-resse le Cliniche Chirurgiche di Modena, Pavia e Parmaper rientrare poi a Genova. Volontario nella Guerra ‘15-

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‘18 e consulente chirurgo della 3a Armata, meritò la me-daglia d’argento al valor militare e la croce di guerra,nonché la medaglia d’oro della Croce Rossa internaziona-le. Fu membro del Consiglio Superiore della PubblicaIstruzione e fu nominato Senatore nel giugno del 1939. Ingioventù aveva curato la ferita alla gamba dell’allora ber-sagliere Benito Mussolini. Nel 1929 presiedette a Genovail 36° Congresso della Società.

Nel 1939 fu nominato dal Governo Fascista RaffaelePaolucci di Valmaggiore, a succedere a Roberto Ales-sandri, nella Presidenza della Società, oltre che nellaCattedra romana. Resterà in carica per tutto il periodobellico, durante il quale si svolse però un unico Con-gresso nel 1942. Paolucci sarà rieletto democraticamen-te Presidente dai Soci per il biennio 1951-’52.

Raffaele Paolucci nacque nel giugno del 1892 a Romada famiglia abruzzese. Si laureò a Napoli nel 1916. Uffi-ciale Medico con i bersaglieri prima e in Marina poi du-rante la prima guerra mondiale. In collaborazione con ilmaggiore Rossetti, inventore della torpedine semovente,compì l’incredibile impresa di affondare nel porto di Pola,la “Viribus Unitis” nave ammiraglia della flotta astro-un-garica, superando di notte la munitissima difesa portuale.Ebbe la medaglia d’oro al valor militare.

Dopo la guerra fu assistente prima a Bologna, poi aNapoli e a Modena, allievo di Mario Donati. Appena tren-tenne fu deputato alla Camera nella 26a Legislatura delRegno. Professore ordinario dal 1929 prima a Parma poinel 1932 a Bologna, nel 1938 succedette ad Alessandri nel-la direzione della Clinica Chirurgica di Roma. Durante laguerra etiopica ottenne di trasferire in blocco la ClinicaChirurgica di Bologna in Africa, dove svolse opera di soc-corso ai feriti di guerra ed alle popolazioni sofferenti, coa-diuvato dalla moglie Margherita, crocerossina volontaria.

Fu vice presidente della Camera dei Fasci e delle Cor-porazioni ma dopo la guerra fu per motivi politici sospe-so temporaneamente dall’insegnamento. Nel 1947 rimasevedovo. L’anno dopo fu eletto Senatore del Partito Mo-narchico nel nuovo Parlamento della Repubblica. Morì

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improvvisamente il 4 settembre 1958. Fu tra i primi a pra-ticare la chirurgia toracica.

Presiedette il 42° Congresso nel 1935 a Bologna, il 47°nel 1942 a Roma, unico Congresso durante la II Guerra,ed altri sei sempre a Roma tra il 1949 ed il 1957.

Primo Presidente post-bellico, eletto in base al nuovostatuto per il biennio 1947-1948, fu Luigi Torraca, Clini-co Chirurgo di Napoli.

Luigi Torraca nacque nel 1885 da Francesco, insignecattedratico di letteratura italiana ed insuperato commen-tatore della Divina Commedia. Si laureò in Medicina aNapoli a pieni voti, occupandosi subito di ricerca biologi-ca all’Istituto di Patologia Generale dell’Università parte-nopea sotto la guida del prof. Gino Galeotti. In seguito fuchiamato all’Istituto di Clinica Chirurgica Generale comeAiuto del prof. Pascale.

Per brevi periodi fu alla direzione degli Istituti di Pato-logia Chirurgica di Modena, Sassari, Padova e Napoli.Nel 1934 successe al suo Maestro Giovanni Pascale allaguida della Clinica Chirurgica dell’Università di Napoli,incarico che mantenne fino al 1955 quando un insulto car-diocircolatorio ne segnò indelebilmente le capacità fisi-che. Torraca fu anche Preside della Facoltà di Medicina diNapoli per nove anni, nonché fondatore e direttore dellaprima Scuola di Anestesiologia in Italia.

Tra i lavori pubblicati, particolare menzione merita il“Trattato di Tecnica Operatoria”, in cinque volumi, affida-ta alle sue cure, dopo la morte, del fondatore dell’operaprof. Alessandri.

Di Luigi Torraca si ricorda soprattutto l’impegno nel-l’attività didattica, con le sue mirabili lezioni che celebra-va ogni due giorni in un anfiteatro eccezionalmente affol-lato. Si spense nell’ottobre del 1963, dopo otto anni di iso-lamento nella sua casa di Napoli.

Presiedette a Napoli il 46° Congresso della Società nel1939.

Nel 1949-50 fu eletto Presidente Gino Pieri, romanodi Scuola, Primario ad Udine, primo non accademico a

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raggiungere l’alto riconoscimento, forse segno dei mu-tati tempi. Aveva alti meriti culturali per avere,per pri-mo negli anni ’30, proposto ed attuato la vagotomia perulcera gastroduodenale, quando ancora Dragsted eralontano. Ed era stato anche, a guerra finita, membrodell’Assemblea Costituente della nuova Repubblica.

Gino Pieri nacque ad Anagni il 17 novembre 1871, silaureò a Roma nel 1905 e fu per parecchi anni assistenteed aiuto di Raffaele Bastianelli negli Ospedali Romani.Partecipò alla I Guerra Mondiale come Ufficiale Medicodi un ospedale da campo. Divenne Primario Chirurgo al-l’Ospedale di Belluno nel 1926 e nel 1934 si trasferì inquello di Udine. Durante la Guerra Civile si adoperò a fa-vore dei partigiani, fu imprigionato e rischiò la fucilazio-ne. Nel 1946 fu eletto Deputato Socialista alla Costituente.

Studiò e propose la vagotomia sottodiaframmatica die-ci anni prima di Dragsted e per questi suoi studi nel 1930ottenne il “Premio Minich” e nel 1936 il Premio Fondazio-ne Fossati. Abbandonò Udine nel 1949 e rientrò a Romadove ritrovò Bastianelli ancora attivo e dove morì im-provvisamente al 21 giugno 1952

Nel successivo decennio 1950-1960 dopo Paolucci,rieletto dopo essere già stato Presidente durante laguerra, si alternarono di biennio in biennio Luigi Stro-peni di Genova 1953-1954, Gian Maria Fasiani di Mila-no 1955-1956, Achille Mario Dogliotti di Torino 1957-1958, Mario Agrifoglio di Genova 1959-1960.

Luigi Stropeni nacque a Vigevano il 25 marzo 1885.Nel 1909 conseguì la laurea in Medicina all’Università diPavia. Lavorò con il Premio Nobel Camillo Golgi nel la-boratorio di Patologia Generale di quell’università. Fuquindi Assistente ed in seguito Aiuto nella Clinica Chi-rurgica di Torino, diretta da Antonio Carle, al fianco diDonati, Uffreduzzi, Fasiani.

Conseguì le docenze in Patologia Chirurgica ed in Cli-nica Chirurgica e fu Professore incaricato di MedicinaOperatoria e di Semeiotica Chirurgica a Torino. Nel 1935

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divenne Titolare della Cattedra di Patologia Chirurgica edalla morte di Uffreduzzi ebbe, provvisoriamente, anche laDirezione della Clinica Chirurgica prima dell’arrivo diDogliotti.

Nel 1947 fu chiamato alla Cattedra di Clinica Chirurgi-ca dell’Università di Genova, dove si prodigò nella rico-struzione della Clinica genovese distrutta dai bombarda-menti di guerra, rendendola efficiente e moderna. Ebbe laMedaglia d’Oro per i benemeriti della Scienza, della Cul-tura e dell’Arte dal Ministro della Pubblica Istruzione. In-sieme a Colombo scrisse un prestigioso trattato di Patolo-gia Chirurgica. Morì il 2 ottobre 1962.

Giovanni Maria Fasiani nacque in provincia di Cuneonel dicembre del 1887.

Si laureò a Torino nel 1911 dove fu assistente ed aiutodi Carle in Clinica Chirurgica. Nel 1924 divenne Professo-re di Patologia Chirurgica a Padova, succedendo nel 1928a Donati nella direzione della Clinica Chirurgica; nel 1938fu chiamato alla Cattedra di Clinica Chirurgica dell’Uni-versità di Milano, nuovamente per succedere a Donati.

Durante la II Guerra Italiana seguì l’Armir istituendoin Russia un Centro di neurochirurgia. Dopo la Guerra aMilano, pur seguitando a interessarsi della chirurgia tra-dizionale, coltivò con passione la neurochirurgia, il cui in-segnamento ufficiale fu istituito dopo la sua morte. Fondòl’ANCO (Associazione Nazionale Chirurghi Ospedalieri)e la diresse per alcuni anni. Fu insignito della Medagliad’Oro al merito della Pubblica Istruzione.

Morì il 12 maggio 1956 mentre era ospite d’onore alCongresso Nazionale svizzero a Ginevra. In quello stesso1956 avrebbe presieduto a Milano il 58° Congresso dellaSocietà.

Achille Mario Dogliotti nacque a Torino il 25 settem-bre 1897. Suo padre Luigi era medico, e sindaco di Alba,suo fratello minore Giulio Cesare sarà clinico medico aTorino. Partecipò da volontario alla Ia guerra mondiale,non ancora laureato. Si laureò nel 1920 con Ottorino Uf-freduzzi e nel 1923 ne divenne assistente effettivo. Com-pletò gli studi in Francia e negli Stati Uniti. Nel 1935 di-venne Professore ordinario a Modena e nel 1937 si trasferìa Catania. Partecipò alla II guerra mondiale come ufficiale

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medico al seguito della Armir ed organizzò un Centrochirurgico a Voroscilograd, guadagnandosi due croci diguerra.

Nel 1943 succedette ad Uffreduzzi nella direzione del-la Clinica Chirurgica di Torino, che ricostruì facendoneuno dei più importanti centri chirurgici d’Europa. Com-pletò e dette alla stampa nel 1948 il “Trattato di tecnicaoperativa” avviato da Uffreduzzi.

Iniziò la cardiochirurgia in Italia, fondando il CentroCardiochirurgico “A. Bleloch”. Fu il primo ad operare incircolazione extracorporea. Si distinse anche nella chirur-gia dell’ipofisi, delle vie biliari ed in quelle dell’esofago edell’ipertensione portale.

Dette alla stampa nel 1946 un trattato di anestesia esuccessivamente quello di semeiotica e diagnostica chi-rurgica. Creò con il Governo della Liberia la “Monrovia –Torino medical school”.

Fu Presidente dell’International College of Surgeons epresiedette nel 1961 il Comitato ordinatore delle Celebra-zioni del Centenario dell’Unità d’Italia.

Morì prematuramente a Torino il 2 giugno 1966. Pre-siedette il 63° Congresso della Società a Torino nel1961.

Mario Agrifoglio nacque a La Spezia nel 1890 conse-guì la laurea in Medicina e Chirurgia presso l’Universitàdi Genova nel 1914. Dopo aver prestato servizio militare,svolse la sua attività presso la Clinica Chirurgica di Geno-va, diretta dal G. Tusini e poi da P. Fiori in qualità di assi-stente e di aiuto dal 1932.

Nel 1939 divenne Direttore dell’Istituto di PatologiaChirurgica dell’Università di Sassari, nel 1949 Direttoredell’Istituto di Patologia Chirurgica dell’Università di Ge-nova e nel 1956 dell’Istituto di Clinica Chirurgica dellastessa Università. Morì a Genova nel 1971.

Le sue pubblicazioni spaziano in tutti i campi dellachirurgia. Degni di menzione soprattutto il trattato diTraumatologia edito da Vallardi nel 1960, gli studi sulla fi-siopatologia della resezione gastrica, le ricerche sulla pa-tologia e terapia chirurgica del cancro del polmone e deitumori primitivi della pleura.

Nel 1958 presiedette a Genova il 60° Congresso dellaSocietà.

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Il nuovo decennio 1960-1970 si apre con la secondapresidenza di Achille Mario Dogliotti 1961-1962 seguitoda Ettore Ruggeri di Napoli 1963-1964, Pietro Valdonidi Roma 1965-1966, Luigi Biancalana di Torino 1967-1968 e Paride Stefanini di Roma 1969-1970.

Ettore Ruggieri nacque in provincia di Macerata nel1901 e si laureò a Roma nel 1925. Iniziò la sua carriera ne-gli ospedali di Roma con Raffaele Bastianelli. Nel 1929 se-guì Paolucci a Parma e divenne assistente di quella Clini-ca Chirurgica. Con Paolucci si trasferì nel 1932 a Bolognae due anni più tardi ne diresse quella clinica per l’assenzadel suo Maestro e dei suoi colleghi partiti tutti per laguerra d’Africa.

Nel 1948 seguì Paolucci a Roma. Nel 1940 partecipò al-la II Guerra Mondiale come Maggiore Medico della RegiaMarina guadagnando un encomio solenne ed una croce alvalore. Finita la guerra diresse la Chirurgia Toracica del-l’Ospedale Sanatoriale Forlanini di Roma ma nel 1949 fudefinitivamente in Cattedra a Napoli prima in Patologia epoi nel 1956 in Clinica Chirurgica.

Si dedicò con grande successo alla Chirurgia Toracicama non trascurò gli altri campi della Chirurgia dall’iper-tensione portale alla rivascolarizzazione del cuore. Nel1958 fu eletto Presidente della Società Italiana di Chirur-gia Toracica.

Fu membro del Consiglio Superiore della PubblicaIstruzione nel 1966. Fece una grande Scuola con 12 allieviin cattedra e 27 primari.

Amò molto la SIC e ad essa attraverso il testamentodella moglie legò un sostanzioso lascito per premi annua-li ad opere di eccezionale rilevanza ed a giovani merite-voli. Lasciato l’insegnamento, trascorse i suoi ultimi annia Roma, dove morì nel 1978.

Presiedette il 62° Congresso Società a Napoli nel 1960.

Pietro Valdoni nacque a Trieste il 22 febbraio1900. Silaureò nel 1924; dopo un breve periodo di chirurgia orto-pedica, entrò a far parte della Scuola di Roberto Alessan-dri in Clinica Chirurgica.

Libero docente nel 1930, raggiunse la Cattedra a Ca-gliari nel 1938 e successivamente si trasferì prima nel 1940

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a Modena e poi a Firenze nel 1941. Nel 1946 tornò a Romacome patologo chirurgo. Fu Presidente della Societé Inter-nationale de Chirurgie. Scrisse un “Manuale di PatologiaChirurgica” ed un atlante di “Chirurgia addominale” chefu tradotto in inglese.

Fu Presidente del Consiglio Superiore di Sanità e Con-sigliere Comunale a Roma. Fu chirurgo di straordinariacapacità e maestro di una grande scuola nella quale si for-marono Professori per tante Università italiane e Primariper molti Ospedali.

Nel 1935 aveva eseguito con successo una famosissimaembolectomia dell’arteria polmonare nel 1940 il primo in-tervento in Europa di legatura del dotto di Botallo.

Diresse i propri studi alla Chirurgia dell’ipertensioneportale a quella del cancro del polmone, alla chirurgiadello stomaco, delle vie biliari e del retto.

Operò tra i tantissimi anche Togliatti e Paolo VI°.Morì il 23 novembre 1976. Presiedette sei Congressi della Società tra il 1959 ed il

1974, tutti a Roma.

Luigi Biancalana nacque a Perugia nel 1898. Studiò esi laureò a Torino nel 1925 dove trascorse tutta la vita.

Fu assistente ed aiuto di Uffreduzzi prima e di Strope-ni poi. Nel 1949 sostituì Stropeni alla Cattedra di Patolo-gia chirurgica e nel 1966 Dogliotti in Clinica chirurgica.

Fondò il Centro di chirurgia toraco-polmonare delleMolinette che seguitò a dirigere anche dopo che lasciò laCattedra. Fu tra i fondatori della Società Italiana di Chi-rurgia Toracica.

Presiedette il 71° Congresso della Società nel 1969 a To-rino.

Morì il 25 luglio 1973

Paride Stefanini nacque a Roma il 15 gennaio 1904,dove si laureò nel 1927. Fu allievo di Roberto Alessandrinella Clinica Chirurgica dell’Università, fu anche Aiutonegli Ospedali di Roma. Nel 1940 andò Primario all’O-spedale S. Salvatore dell’Aquila. Sei anni dopo tornò inUniversità a Perugia dove diventò ordinario nel 1948. Nel1957 si trasferì a Pisa e nel 1959 tornò a Roma in PatologiaChirurgica. Nel 1966 divenne Clinico per sdoppiamentodella Cattedra di Valdoni.

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Fondò due riviste: Chirurgia Generale e Surgery inItaly e due facoltà mediche: quella dell’Aquila e quella diMogadiscio.

Fu Presidente dell’International College of Surgeons,Membro del Comitato della Biologia e della Medicina delCNR, Membro del Consiglio Direttivo della Lega ItalianaTumori, Presidente della 3a Sezione del Consiglio Supe-riore di Sanità.

Fu soprattutto un grande operatore ed un innovatore;portò grandi contributi in chirurgia bilio-pancreatica e co-lica, in chirurgia toracica e vascolare. Fu il padre dellaChirurgia dei trapianti in Italia. Molti gli allievi in Catte-dra, molti i Primari ospedalieri. Morì il 27 gennaio 1981.Presiedette il 70° Congresso della Società a Roma nel1972.

Nel 1971 la modifica di Statuto introdusse la Presi-denza triennale. Nel primo triennio 1971-1973 si ebbe laseconda Presidenza di Pietro Valdoni. Fu nel XX° secoloil quinto illustre Maestro, dopo Durante, Alessandri,Paolucci e Dogliotti ad essere eletto più di una volta.Non successe più sino alla fine del Secolo.

Dopo Valdoni nel triennio 1974-1976 fu PresidenteEdmondo Malan di Milano poi nel 1977-1979 Attilio Ba-sile di Catania ed infine nel 1980-1982 Giuseppe Zanni-ni di Napoli.

Edmondo Malan nacque a Torino il 23 marzo 1910 do-ve si laureò nel 1933.

Fu assistente nella Cattedra diretta da Uffreduzzi.Nel1941 seguì Dogliotti a Catania succedendogli nella Catte-dra nel 1943. Dal 1949 al 1956 fu all’Università di Parma.Dal 1956 al 1965 a Genova. Nel 1965 fu chiamato alla Cli-nica Chirurgica di Milano.

Dette un grande impulso alla Chirurgia Vascolare,creando una grande Scuola. S’interessò anche di Chirur-gia Toracica ed addominale e nel 1969 arrivò ai trapiantidi rene. Lasciò otto allievi in Cattedra. Morì il 25 gennaio1978. Presiedette il 74° Congresso della Società a Milanonel 1973.

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Attilio Basile è nato il 15 gennaio 1910 a Itala, in pro-vincia di Messina.

Si è laureato a Messina il 16 luglio 1934 con il massimodei voti.

Dal 1934 al 1936 è assistente in Patologia generale. Dal1936 passa in Patologia Chirurgica con Saverio Latteri alseguito del quale si trasferisce a Palermo nel 1945. Nel1941 e nel 1943 consegue la libera docenza in Patologiagenerale e Patologia Chirurgica. Nel 1942 va a Vienna perun anno nella Clinica Chirurgica dell’Università direttada Wolfang Denk. Nel 1948 consegue una terza libera do-cenza in Clinica Chirurgica e nel 1951 torna a Messina co-me Professore incaricato di Patologia chirurgica. Diventaordinario nel 1956.

In quello stesso anno viene chiamato a dirigere la Cli-nica Chirurgica dell’Università di Catania dove rimarràfino al 1980 quando passerà fuori ruolo. È stato anchePreside di Facoltà dal 1975 al 1981 e Membro del CUN dal1979 al 1984. La sua attività chirurgica comprende tutti icampi della chirurgia generale e specialistica, toracica,plastica, urologica.

Ha fatto una grande scuola con 15 allievi in Cattedra e40 Primari Ospedalieri.

Ha presieduto il 81° Congresso Società a Catania nel1979.

Vive e lavora a Catania

Giuseppe Zannini nacque a Modena il 9 maggio 1916Si laureò a Modena il 14 giugno 1940.Fu durante la guerra Ufficiale di Marina, imbarcato

nella unità diretta da Ettore Ruggeri con il quale collaboròin quegli anni. Dopo la guerra fu con Valdoni a Modena eFirenze e poi a Roma ma nel 1951 seguì Ruggeri a Napoli.Nel 1963 raggiunse la Cattedra di Semeiotica Chirurgica enel ’70 divenne Clinico Chirurgo.

Nel 1972 fu eletto Preside della II Facoltà di Medicinadell’Università di Napoli e tale rimase fino al 1981. FuPresidente della Conferenza Permanente dei Presidi diMedicina e Presidente del Consiglio Superiore di Sanitàdal ’91 al ’94.

Per i suoi meriti professionali e sociali fu insignito dellaMedaglia d’Oro per la Sanità. Morì il 23 novembre 1999.Presiedette l’89° Congresso della Società a Napoli nel 1987.

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Dal 1982 la durata della Presidenza ritornò biennalee furono eletti per il 1983-1984 Paolo Biocca di Roma eper il 1985-1986 Pier Giuseppe Cevese di Padova.

Paolo Biocca nacque a Roma il 15 ottobre 1913, dove silaureò nel 1935 con il massimo dei voti. Dopo la laureaprestò servizio come assistente presso la Divisione ospe-daliera di gastroenterologia dell’Ospedale S. Spirito diRoma.

Le vicende della guerra durante la quale fu tenentemedico, lo portarono a Firenze dove vinse il concorso diassistente universitario presso la Cattedra di PatologiaChirurgica diretta da Pietro Valdoni. Su indicazione delMaestro si dedicò alla chirurgia polmonare e nel 1946 fre-quentò in Inghilterra il reparto di Chirurgia toracica diret-to da Allison.

Al suo rientro in Italia nel 1947 fu il principale collabo-ratore di Valdoni nell’intervento al polmone subito daPalmiro Togliatti a seguito del noto attentato.

Nel 1952 andò a Cagliari con l’incarico di Patologiachirurgica e successivamente divenne Ordinario di Clini-ca chirurgica della stessa Università. Nel 1959 fu chiama-to alla Patologia chirurgica di Catania ove rimase otto an-ni. Nel 1967 il ritorno a Roma, prima in Patologia chirur-gica, poi nel 1970 in Clinica chirurgica succedendo al suoMaestro. Dedicò le sue migliori energie ed i suoi studi allaChirurgia toraco-polmonare pur mantenendo vivi interes-si negli altri campi della chirurgia generale e digestiva.Presiedette 3 Congressi della Società a Roma nel ’74, ’78 e’80. Morì il 5 aprile 1994.

Pier Giuseppe Cevese nacque a Vicenza nel 1914. Silaureò a Padova nel 1939. Dopo la parentesi bellica fre-quentò la Chirurgia dell’Ospedale di Vicenza diretta daPototshnig. Dal 1943 fu alla Clinica Chirurgica di Pa-dova con Galeno Ceccarelli. Divenne Assistente nel1948 ed Aiuto nel ’54. Nel 1963 andò in Cattedra aSassari.

Rientrò a Padova sei anni più tardi per occupare laPatologia Chirurgica. Succedette a Ceccarelli in ClinicaChirurgica nel 1969. Promosse le Specialità Chirurgiche,la Pediatrica, la Toracica, la Vascolare, la Cardiaca nonché

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l’Anestesia e dette impulso alla Chirurgia dei Trapiantiche fu poi eseguita dai suoi allievi Gallucci e D’Amico.

Morì a Padova il 24 luglio 1995.

Gli ultimi 7 Presidenti del XX° Secolo, tutti ancoraviventi nell’anno 2000, sono stati Giuseppe Pezzuoli diMilano per il 1987-1988, Gianfranco Fegiz di Roma peril 1989-1990, Salvatore Navarra di Messina per il 1991-1992, Giorgio Di Matteo di Roma per il 1993-1994, GianMassimo Gazzaniga di Genova per il 1995-1996, RoccoDocimo di Napoli per il 1997-1998 ed Eugenio Santorodi Roma per il 1999-2000. Primo Presidente del XXI° Se-colo è stato eletto Davide D’Amico di Padova: sarà il33° Presidente della ormai trisecolare storia della So-cietà.

Giuseppe Pezzuoli è nato a Maranello il 21 aprile 1920e si è laureato in Medicina e Chirurgia presso l’Universitàdi Modena nel 1944.

Allievo di Guido Oselladore, ha iniziato la carrierauniversitaria a Milano. In quel periodo ha trascorso unanno presso il Centro di Chirurgia Toracica dell’Univer-sità di Lione diretto da Paul Santy in qualità di AssistenteStraniero.

Ha raggiunto la Cattedra di Chirurgia nel 1961; è statoDirettore della Clinica Chirurgica dell’Università di Ca-gliari, di quella di Modena, della Patologia Chirurgica diPadova e nel 1979 è tornato a Milano dove è stato Diretto-re della Clinica Chirurgica fino al 1992.

È stato Presidente di numerose Società Italiane diMedicina e Chirurgia e Membro del Consiglio Superio-re della Sanità. Nel 1983 è stato nominato Membrod’Honneur del l’Association Francaise de Chirurgie enel 1988 Membro d’Onore della Società Spagnola diChirurgia.

Dall’ottobre 1986 al 1988 è stato Presidente Mondialedell’International College of Surgeons. Dal 1979 è Editoredella Rivista Internazionale di Chirurgia “InternationalSurgery” e dal 1988 di “Chirurgia” all’epoca organo uffi-ciale della Società Italiana di Chirurgia. Ha rivolto allaChirurgia Toracica un particolare interesse sino alla orga-

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nizzazione ed esecuzione dei Trapianti di Polmone. Si èanche dedicato particolarmente alla Chirurgia dell’iper-tensione portale.

Vive e lavora a Milano

Gianfranco Fegiz è nato a Roma il 3 febbraio 1928. Si èlaureato a Roma il 15 luglio 1952. Dal 1953 è assistentedella Clinica Chirurgica diretta dal Prof. Valdoni.Diventaordinario di semeiotica nel 1967, nel ’70 di Patologia Chi-rurgica e nel ’78 di Clinica Chirurgica.

Membro di molte società Chirurgiche nazionali ed in-ternazionali. È stato Visiting Professor a Indianapolis (In-diana, USA) e membro del Comitato Esecutivo dell’Inter-national Federation of Surgical Colleges.

Ha dato un notevole contributo in molti campi moder-ni della chirurgia addominale, digestiva e toraco-polmo-nare. Ha lasciato l’insegnamento nel 1998.

Ha presieduto il 94° Congresso della Società a Romanel 1992.

Vive a Roma.

Salvatore Navarra è nato in provincia di Palermo nel1921. Laureatosi a Palermo nel 1944 ha iniziato la sua car-riera chirurgica alla Scuola di Saverio Latteri.

Nel 1950 seguì Attilio Basile a Messina come Aiuto diPatologia Chirurgica. Nel 1956 si trasferì con Basile a Ca-tania dove, conseguite libere docenze e giudizi di matu-rità, ricoprì nel 1963 la Cattedra di Semeiotica Chirurgica.Nel 1967 fu chiamato dalla Facoltà di Messina alla Catte-dra di Patologia Chirurgica e quindi nel 1974 di ClinicaChirurgica.

A Messina è stato per lungo tempo anche Preside dellaFacoltà, Direttore Sanitario del Policlinico Universitario,Presidente del Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia.

Presidente della Sezione Italiana dell’InternationalCollege Surgeons, si è dedicato con particolare interessealla Chirurgia Oncologica dirigendo il Sottoprogetto clini-co del Progetto Finalizzato CNR sui Tumori.

È stato Membro del Consiglio Universitario Nazionale.Ha creato una Scuola che annovera numerosi e valenti al-lievi sia universitari che ospedalieri.

Vive e lavora a Messina.Giorgio Di Matteo è nato a Monrovalle in provincia di

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Macerata il 27 febbraio1926. Laureato a Roma il 22 luglio1949.

All’inizio della sua carriera è stato assistente in ClinicaChirurgica con Paolucci e negli Ospedali Riuniti di Roma.Nel 1957 seguì Marcozzi a Perugia, da dove tornò a Romasempre seguendo Marcozzi nel 1962.

Dal 1960 è stato incaricato di Anatomia Chirurgica a Pe-rugia e dal ’69 prima incaricato e poi dal ’71 Ordinario diSemeiotica, Patologia e di Clinica Chirurgica a Roma. Dal1985 è Direttore della IIIa Clinica Chirurgica della Sapienza.

È stato Pro-Rettore dell’Università dall’’88 al ’97. Hapresieduto diverse Società Chirurgiche Italiane e dal 1996è Presidente della Società Europea di Chirurgia–Eurosur-gery. Membro Onorario dell’Association Francaise deChirurgie.

Si è particolarmente dedicato alla Chirurgia della Ti-roide, dello Stomaco e del Retto. Dei suoi allievi, moltihanno raggiunto Primariati e Cattedre specie nelle Uni-versità di Roma e Chieti.

Ha presieduto il 90° Congresso della Società a Romanel 1988.

Vive e lavora a Roma.

Gian Massimo Gazzaniga è nato in provincia di Paviail 6 luglio 1929.

Si è laureato a Pavia nel 1953. Allievo di G.S.Donati inClinica Chirurgica, vi rimase come Assistente, prima, eAiuto poi dalla laurea al ’67. In quel periodo ha consegui-to tre libere docenze.

Successivamente, per concorso, è stato Primario Chi-rurgo negli Ospedali di Castel S. Giovanni, Pietra Ligure,“S. Martino” di Genova ed infine Galliera di Genova.

Dall’87 al ’90 è stato Presidente dell’ACOI. Dal ’96 al ’97Presidente della Sezione Chirurgica dell’I.G.S.C. Ha presie-duto il Congresso del 1995 di Eurosurgery a Barcellona.

Ha dedicato il suo maggiore interesse alla Chirurgiaepato-bilio-pancreatica, creando a Genova un appositoCentro di alta specializzazione Ha presieduto la I Settima-na Chirurgica Italiana nel 1996.

Dal 1999 è Presidente della Federazione delle SocietàScientifiche Chirurgiche.

Vive e lavora a Genova.Rocco Docimo è nato a Rose in provincia di Cosenza il

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28 marzo 1928.Laureato a Bologna il 25 novembre 1952.Da quell’anno si trasferisce a Napoli nella Clinica Chi-

rurgica di Ettore Ruggeri: Assistente Ordinario nel 1959,Aiuto nel 1964.

Dal ’72 è Professore Ordinario prima di Chirurgia Ge-riatrica, poi di Chirurgia d’Urgenza, poi di Patologia Chi-rurgica e dal 1988 di Clinica Chirurgica.

Presidente di numerose Società Scientifiche. Fondatoredella Società Italiana di Fisiopatologia Chirurgica e dellaAssociazione Chirurghi Universitari Italiani. Nel 1998 haricevuto la medaglia d’oro “Calabresi nel mondo”. Ha de-dicato particolare interesse alla Chirurgia colica, alla Chi-rurgia d’Urgenza ed a quella Geriatrica.

Ha presieduto la IIa Settimana Chirurgica Italiana nel1998.

Vive e lavora a Napoli.

Eugenio Santoro è nato a Roma il 29 marzo1938. Lau-reato a Roma il 13 luglio 1962.

Assistente dal ’62 al ’69, prima in II Clinica Chirurgicacon Stefanini e poi al Centro di Chirurgia Toracica delForlanini di Roma. Aiuto presso l’Ospedale Regina Mar-gherita di Roma in Chirurgia Generale e poi in ChirurgiaInfantile dal 1970 al ’76.

Dal ’76 Primario di Chirurgia Generale all’Ospedale“Cristo Re” di Roma. Dal 1990 Primario di Chirurgia On-cologica all’Istituto “Regina Elena” di Roma.

Dal 1968 Libero Docente di Patologia Chirurgica ed in-caricato di insegnamento nelle Scuole di Specializzazionedell’Università “La Sapienza” e “Cattolica” di Roma.

Dal 1983 Segretario Nazionale dell’Associazione Chi-rurghi Ospedalieri Italiani e dal 1993 al 1996 PresidenteNazionale.

Nel ‘92-’94 Vice Presidente della Società Italiana diChirurgia.

Membro dei Comitati biologici del CNR dal 1988 al1993. Membro del Consiglio Superiore di Sanità dal 1997.

Direttore della Rivista “Chirurgia-Generale GeneralSurgery” dal 1981, di “Chirurgia” dal 1993 al 1998 e “Chi-rurgia Italiana” dal 1998.

Ha studiato in Svezia, Francia ed USA ed è Socio Ono-rario di molte Società straniere in Argentina, Brasile, Perù,

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Romania, India, Spagna. È Membro dell’Accademia Na-tionale Chirurgie di Parigi e dell’American College ofSurgeons.

Ha successivamente incentrato il suo interesse profes-sionale sulla Chirurgia polmonare, poi su quella Digesti-va ed infine su quella Oncologica. Promotore della Chi-rurgia Mininvasiva anche in campo oncologico.

Ha presieduto il 98° Congresso della Società a Romanel 1996 e la IIIa Settimana Chirurgica Italiana nel 2000.

Vive e lavora a Roma.

Nel XX° Secolo dunque la Società ha eletto 31 Presi-denti. Di essi alcuni furono eletti più volte e ricoprironola carica per molti anni. Così accadde con Durante giàPresidente da 14 anni all’inizio del Secolo e che sarà rie-letto innumerevoli volte sino al 1919 per un totale diben 33 anni. Così fu anche per Alessandri rimasto in ca-rica 12 anni e per Raffaele Paolucci di Valmaggiore ri-masto in carica 8 anni. Entrambi presiedettero moltiCongressi. Infine negli anni più recenti furono elettidue volte Achille Mario Dogliotti e Pietro Valdoni.

Ben 9 Presidenti su 31 furono“romani”: Durante,Alessandri, Paolucci,Valdoni, Stefanini, Biocca, Fegiz,Di Matteo e Santoro. E romano era stato anche il primoPresidente della Società, Costanzo Mazzoni nel XIX°Secolo.

Cinque Presidenti furono della Scuola Napoletana:Pascale, Torraca, Ruggeri, Zannini e Docimo. E cinquedi quella lombarda: Rossi, Fasiani, Agrifoglio, Malan ePezzuoli.

Le altre Scuole e le altre sedi espressero minore rap-presentanza: tre genovesi, Tusini, Stropeni e Gazzaniga,due da Padova Donati e Cevese, due da Torino Dogliot-ti e Biancalana, due siciliani Basile da Catania e Navar-ra da Messina, un toscano, Burci di Firenze, un emilia-no Ferrari di Parma ed infine un friulano d’adozione,Pieri di Udine.

Dei 31 Presidenti del 1900 ventotto furono Accade-

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mici, illustri clinici di grandi Università. Tre soli i Pri-mari Ospedalieri, Pieri di Udine, Gazzaniga di Genovae Santoro di Roma.

Tutti i Presidenti ebbero molto a cuore la vita dellaSocietà, il progresso della scienza e della cultura e latutela della professione. Ne sono testimonianza i lorodiscorsi inaugurali ai Congressi Nazionali ed i rendi-conti delle Assemblee Sociali, fedelmente riportati ne-gli Atti.

Molti ebbero posizioni professionali e sociali impor-tanti anche al di fuori della propria posizione di carrie-ra e di quella Societaria. Tali proiezioni esterne taloraderivarono anche dalla acquisita Presidenza della So-cietà, ma anche molto giovarono socialmente alla So-cietà ed alla Chirurgia in generale.

Nel primo cinquantennio cinque Presidenti furonoSenatori del Regno: Durante, Alessandri, Rossi, Pascale,Tusini. Paolucci lo fu con la Repubblica, mentre Pieri fudeputato all’Assemblea Costituente. Nel secondo dopo-guerra alcuni ebbero la Presidenza d’importanti SocietàInternazionali di Chirurgia: Dogliotti, Stefanini e Pez-zuoli quella dell’International College of Surgeons, Val-doni quella della Societe Internationale de Chirurgie,Di Matteo quella dell’Euro Surgery.

Molti sedettero in Consiglio Superiore di Sanità chia-mati dai Ministri e dai Governi dell’epoca: Durante,Alessandri, Paolucci, Dogliotti, Valdoni, Stefanini, Ma-lan, Zannini, Pezzuoli, Fegiz e Santoro. Inoltre Valdonie Zannini ne furono anche Presidenti; nel Secolo XIX°anche Costanzo Mazzoni ne era stato Presidente dal1881 al 1886.

Anche nella Lega Italiana per la Lotta ai Tumori iPresidenti della Società Italiana di Chirurgia ebbero unparticolare rilievo. Primo tra tutti Pascale poi altri sinoa Valdoni e Stefanini prima e Santoro poi che furonomembri del Consiglio Direttivo. Infine il Consiglio Uni-versitario Nazionale nelle cui fila furono eletti ed ebbe-

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ro ruoli di rilievo Valdoni, Basile, Zannini e Navarra.Nei 40 Consigli Direttivi che si sono succeduti du-

rante il Secolo sono stati eletti circa duecento chirurghiper i propri meriti professionali e culturali, ed in rap-presentanza delle Università ed Ospedali ove prestava-no la propria opera e di ogni regione Italiana. La preva-lenza complessiva è a favore dei Chirurghi Universitarie delle Regioni Lazio e Campania. Molti figurarono piùvolte negli Organi e dettero certamente alla Societàmolte delle loro energie e del loro entusiasmo pur sen-za raggiungere la Presidenza. Tra gli altri debbono esse-re ricordati per la loro lunga e proficua milizia RaffaeleBastianelli, Tito Ferretti e Gaetano Mazzoni di Roma,Riccardo della Vedova che fu uno dei Padri dell’Orto-pedia, Nicola Leotta fondatore e Rettore dell’Universitàdi Bari e poi a Palermo, Davide Giordano di VeneziaSenatore del Regno, Pietro Morogna di Sassari e nel se-condo dopoguerra Luigi Carmona di Messina, GalenoCeccarelli di Padova, Gherardo Forni di Bologna, Fede-le Fedeli di Firenze, Gioacchino Nicolosi di Palermo,Pietro Tagariello di Bologna. Infine i Segretari ed i Teso-rieri, tutti romani come da Statuto: Leonardo Dominici,Raffaele Brancati, Giuseppe Bendandi, Giuseppe Foia-nini, Giano Cappellini, Licinio Angelini, Luciano Cor-bellini, Enrico De Antoni e Marco Sacchi.

Alcuni dei Segretari divennero poi Presidenti: PietroValdoni, Paride Stefanini, Ettore Ruggieri, GianfrancoFegiz e Giorgio Di Matteo.

Il primo Comitato Esecutivo della Società Italiana diChirurgia nel XX° Secolo, nel 1900, era composto daFrancesco Durante Presidente, Francesco Occhini Vice-presidente, Gaetano Mazzoni e Gaspare D’Urso Consi-glieri, Segretario era Tullio Spaziani e Tesoriere TitoFerretti.

L’ultimo Consiglio Direttivo del XX° Secolo 1999-2000 è stato presieduto da Eugenio Santoro ne hannofatto parte oltre al Presidente uscente Rocco Docimo, il

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Presidente entrante Davide D’Amico, i Vice PresidentiGiorgio Tiberio di Milano, Enzo Zotti di Padova ed iConsiglieri Maurizio Basile di Messina, Giuseppe Cuc-chiara di Roma, Domenico Molino di Napoli, PaoloMelita di Messina, Umberto Parini di Aosta ed OresteTerranova di Padova. Segretario è stato Enrico De An-toni e Tesoriere Marco Sacchi.

Tab. I - Presidenti Società Italiana di Chirurgia (dalla Fon-dazione)

XIX° Sec. MAZZONI Costanzo (Roma, 1883-1885)

XX° Sec.DURANTE Francesco (Roma, 1886-1919)BURCI Enrico (Firenze, 1920)PASCALE Giovanni (Napoli, 1921-1922)ALESSANDRI Roberto (Roma, 1923)*ROSSI Baldo (Milano, 1924)ALESSANDRI Roberto (Roma, 1925)*DONATI Mario (Padova, 1926)FERRARI Ambrogio (Parma, 1927)ALESSANDRI Roberto (Roma, 1928)*TUSINI Giuseppe (Genova, 1929)ALESSANDRI Roberto (Roma, 1930-1939)PAOLUCCI Raffaele (Roma, 1940-1946)**TORRACA Luigi (Napoli, 1947-1948)PIERI Gino (Udine, 1949-1950)PAOLUCCI Raffaele (Roma, 1951-1952)**STROPENI Luigi (Genova, 1953-1954)FASIANI Gian Maria (Milano, 1955-1956)DOGLIOTTI Achille Mario (Torino, 1957-1958)***AGRIFOGLIO Mario (Genova, 1959-1960)DOGLIOTTI Achille Mario (Torino, 1961-1962)***RUGGIERI Ettore (Napoli, 1963-1964)VALDONI Pietro (Roma, 1965-1966)****BIANCALANA Luigi (Torino, 1967-1968)

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STEFANINI Paride (Roma, 1969-1970)VALDONI Pietro (Roma, 1971-1973)****MALAN Edmondo (Milano, 1974-1976)BASILE Attilio (Catania, 1977-1979)ZANNINI Giuseppe (Napoli, 1980-1982)BIOCCA Paolo (Roma, 1983-1984)CEVESE Pier Giuseppe (Padova, 1985-1986)PEZZUOLI Giuseppe (Milano, 1987-1988)FEGIZ Gianfranco (Roma, 1989-1990)NAVARRA Salvatore (Messina, 1991-1992)DI MATTEO Giorgio (Roma, 1993-1994)GAZZANIGA Massimo (Genova, 1995-1996)DOCIMO Rocco (Napoli, 1997-1998)SANTORO Eugenio (Roma, 1999-2000)

XXI° Sec.D’AMICO Davide (Padova, 2001-2002)

*/**/***/**** Ripetute Presidenze

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Cap. XX

I CONGRESSI NAZIONALI ED IL PROGRESSO DELLA SCIENZA

Nell’anno 2000, alla fine del XX° Secolo, la SocietàItaliana di Chirurgia celebra a Roma il proprio 102°Congresso. Negli ultimi 100 anni i Congressi, che pureavrebbero dovuto essere annuali, sono stati solo 85, perlo più per sospensioni negli anni delle guerre mondiali.Di questi 85 Congressi del XX° Secolo, il primo, ossia il16°, nel 1902 presieduto da Giuseppe Ruggi di Bolognae l’ultimo, ossia il 102°, presieduto da Sergio Stipa diRoma, quasi simbolicamente hanno avuto luogo nellaCapitale d’Italia, testimoniando l’unità culturale e na-zionale goduta dall’Italia nel XX° Secolo. In occasionedel 100° Congresso, pur esso celebrato a Roma nel 1998,il Presidente della Società, Rocco Docimo, sottolineò ilruolo della Società nello sviluppo della Chirurgia Italia-na durante il Secolo.

Cavalcare 100 anni di storia congressuale (che in prati-ca è la storia della chirurgia), puntando alla ricerca deglispunti più salienti che meritino un particolare ricordo,non è impresa facile né breve, anche perché vi è stata e sitramanda, in perpetuazione costante, una attività moltointensa e densa di una ricca esperienza.

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Tale laboriosità incessante ha avuto rare soluzioni dicontinuità per motivi di forza maggiore, e cioè brevi inter-ruzioni dovute ai conflitti bellici, che hanno, tra l’altro,sfalsato l’età della Società, a datare dal 1882, da quella deiCongressi, con una differenza di 16 anni.

Indubbiamente col trascorrere di un secolo, molte cosesono cambiate ma la Società Italiana di Chirurgia, nellasua impostazione, è rimasta assolutamente fedele, coeren-te ed obbediente a quei principi informatori enunciati colprimo vagito, dei quali è gelosa custode, e si sforza di te-nere il passo non soltanto con il progresso dell’Arte chi-rurgica ma anche con le radicali trasformazioni socialidella nostra epoca per profonda convinzione, fede incrol-labile e vero spirito di servizio.

Gli uomini passano ma le idee restano.Adesso, a parte tali considerazioni sull’analisi storica,

mi risultano alcuni aspetti da segnalare.Esisteva la multidisciplinarietà associativa, concetto

oggi riemerso attraverso un progetto federativo di tutte lerappresentanze chirurgiche, generali e specialistiche;

Dalla grande madre, che è la chirurgia generale, checomprendeva praticamente tutto lo scibile chirurgico, so-no proliferate, settorializzate ed autonomizzate, una seriedi diramazioni che, nel rispetto della loro identità, oggiandrebbero appunto nuovamente riunite nella coinciden-za di intenti generali ed a difesa della categoria, in nomedi quella “fratellanza” più volte invocata e sottolineata findal 1882,

La formula congressuale si è andata man mano tra-sformando, sicchè dalle comunicazioni isolate si è arrivatialle relazioni, alle tavole rotonde ed oggi ad un aggiorna-mento anche tecnologico, che prevede il Cine-clinic, il“Che c’è di nuovo”, etc.

Già dalla sua fondazione la Società aveva istituito unriconoscimento di operosità scientifica consistente nell’as-segnazione di una medaglia d’oro all’Autore di una pub-blicazione importante, che rivive oggi, grazie al cospicuolascito Ruggieri, attivato dal 1990, al premio Stefanini, etc.

Si sono avvicendati gli uomini e si sono succeduteepoche storiche diverse, che però hanno visto la SocietàItaliana di Chirurgia sempre in linea col progresso, quan-do addirittura non abbia precorso eventi scientifici impor-tanti.

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I nostri predecessori sono stati indubbiamente perso-ne, o meglio personaggi

illuminati, di grande prestigio, di vasta cultura, di ec-cellente preparazione, pronti a cogliere le più gratificantiinnovazioni; ne avevano tutta l’autorità ed il carisma.

La metamorfosi scientifica è partita dalle osservazionicliniche ritenute più interessanti, per percorrere poi tuttele tappe delle scoperte e del progresso: dall’antibioticote-rapia con l’avvento nel 1941 della “miracolosa” penicilli-na, grazie a Fleming, all’anestesia mediante l’impiego delcuraro, ad opera di Griffith nel 1942 – che ha consentito labaronarcosi e con essa una migliore e più sicura esecuti-vità intracorporea - alle grandi mutilazioni chirurgiche edinterventi più complessi; dai trapianti di organo alla chi-rurgia mini-invasiva.

Ma la chirurgia è stata progressivamente spiazzatadalle antiche frontiere, perdendo la crestomanzia di nu-merose malattie per effetto della pressione e della effica-cia di terapie alternative, sicchè ha ceduto la competenza“territoriale” in alcune situazioni patologiche (come peresempio recente vale l’ulcera duodenale, per non parlaredella radiologia interventistica), ed ha spostato il suoobiettivo ed ha approfondito le sue conoscenze su altrifronti considerati in precedenza irragiungibili.

Tutto ciò è consegnato e consacrato alle memorie degliAtti.

Ma c’è di più: la suggestione del perfezionamento edel virtuosismo delle tecniche operatorie ha stimolato lafantasia e la genialità dei nostri Chirurghi del passato, chehanno attraversato tutta la storia della chirurgia.

L’elenco sarebbe lungo e perciò mi riferirò soltanto adue pietre miliari: la cura dell’ernia inguinale concepitada Edoardo Bassini nel 1884 e pubblicata nel 1887; la va-gotomia per il trattamento dell’ulcera duodenale, preco-nizzata originariamente da Gino Pieri nel 1927, divulgatanel 1931 e successivamente reimportata dall’Americamolti anni dopo (1943) sotto la paternità di Dragstedt.

Ma, per non far torto a nessuno, tutto l’universo chi-rurgico è stato costellato di astri italiani di smagliantesplendore, i quali, anche attraverso lo spirito di emulazio-ne che ha pungolato l’orgoglio e l’iniziativa delle varieScuole, hanno certamente contribuito ad illuminare ilcammino della scienza chirurgica.

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La prima relazione congressuale della Società Italia-na di Chirurgia fu tenuta a Roma il 30 aprile 1883 inapertura del primo Congresso da Enrico Bottini di Pa-via, uno dei sette Soci Promotori, sul tema “Antisettici,ricerche sperimentali”.

Affermava che il timolo e l’acetato di allumina nonsono efficaci, che l’acido fenico è fondamentale, che c’èdifferenza tra il valore antisettico ed il valore asettico diun medicamento e che gli antisettici sono moltissimi egli asettici pochissimi. Alla lunga discussione partecipa-rono Novaro, Vigna, Margari, Ciattaglia, Maggioli, Du-rante, Tassi, Albertini, Mazzoni, Ceci, Corradi, Scalzi.

Nel pomeriggio Bottini mancò perché malato emancò anche Corradi che lo assisteva.

La seconda relazione fu di Antonio Ceci su “Osser-vazioni sul processo di guarigione di 1a intenzione inrelazione con la presenza dei microorganismi” e fu se-guita da un lungo dibattito tra Ceci e Francesco Duran-te, entrambi allievi di Mazzoni che presiedeva e che fe-ce fatica a contenere il tono della discussione sugliesperimenti di Koch e le tesi di Kocher, se cioè i mi-croorganismi siano di per sé aggressivi o lo diventinoin contatto con le soluzioni di continuità della cute.

Seguirono le relazioni di Giuseppe Badaloni di No-cera Umbra su “Il morso della vipera ed il permanga-nato di potassio”, di Andrea Ceccherelli di Parma su“Gli innesti ossei”, di Fedele Margari di Torino su “Unaparticolare pinza osteotoma”, di Giuseppe Ruggi di Bo-logna su “La sospensione per i piedi e l’applicazione diapparecchi inamovibili gessati per l’anca e la colonnavertebrale” e di nuovo Andrea Ceccherelli su “Un casodi varici trattato con l’isolamento”. Ne seguì una ferocediscussione. Durante contestò la metodica sostenuta daCeccherelli.

Mi pare impossibile, come ai tempi di progresso chi-rurgico in cui siamo, si possa tornare ad eseguire opera-

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zioni di quel genere! Per quanto brillante sia stato il risul-tato, mettere a nudo una varice per farla cancrenare, mipare che sia un sistema non molto utile! Il risultato, dice, èstato felice; me ne congratulo con lui!

Ma quale può essere la conseguenza di una cancre-na? Può esservi diffusione flogistica nel tronco venososoprastante o sottostante. Se la diffusione flogisticaprende il carattere settico si va incontro facilmente allatrombosi o alla cancrena dei tessuti delle parti venose;si impedisce la coagulazione del sangue, e l’emorragiasarà inevitabile.

Ma lei dirà: nel mio caso non successe, come non èsuccesso in moltissimi di Rigaud. Io i casi del Rigaud nonli conosco, quindi non posso certamente contrastarli; purelogicamente, anatomicamente credo di essere nel giustonon ammettendo un’operazione di tal genere, negandoassolutamente ogni efficacia ad una simile operazione;tanto più che noi possiamo ricorrere ad operazioni moltopiù semplici colla medicatura asettica che oggi possiamousare. Quali difficoltà ci sono a recidere una varice? Qualiconseguenze si possono temere? Se non si teme la flebiteper una ulcerazione cancrenosa della varice, si può maitemere una flebite cancrenosa applicando un laccio peresempio di catgut?

Poi Albertini, allievo di Porta, riferì i risultati della“Sclerosi con cloralio” ideata dal suo Maestro. Dallaserrata discussione traspare la grande importanza cheaveva, all’epoca, la malattia varicosa ed il grande timo-re che avevano i chirurghi a trattarla, sia per le infrena-bili emorragie operatorie, sia per le sequele infettiveche certamente peggioravano il quadro clinico già gra-ve che aveva portato all’intervento.

Il Congresso successivo si tenne a Perugia e fu pre-sieduto da Francesco Durante che quell’anno succedet-te a Mazzoni nella Cattedra e nella Presidenza della So-cietà. Mazzoni morì all’improvviso perché il suo cuoregià malato si fermò nell’esercizio del suo dovere di me-dico.

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Si racconta che un esperto chirurgo dei tempi passati,in un caso urgente di tracheotomia, in difficili circostanzedi ambiente, privo di strumenti adatti per eseguirla, inci-se la trachea con un temperino, che aveva in tasca, fecedei divaricatori con forcelle da testa di una donna ed im-provvisò una cannula tracheale con un pezzo di canna dipiccole dimensioni.

“Questo mi valse — ripeteva talvolta quel chirurgo —l’appellativo di “chirurgo della cannuccia” ma non misgomentai per questo: la mia coscienza era tranquilla;quell’infermo visse ed ebbe per me un’infinita gratitudi-ne”.

Orbene, il dileggiato chirurgo, divenne poi, ricco di sa-pere e di virtù, il clinico della I Università del Regno: Co-stanzo Mazzoni. Egli, raccontando alla scolaresca il criticoepisodio accadutogli, insisteva sul doveroso e scrupolosocompito sanitario di fare e di osare tutto il possibile persoccorrere e per salvare la vita umana in pericolo, anchein mancanza delle con dizioni, dei mezzi adatti per rag-giungere l’intento

Tacendo della sua proficua frequenza a cliniche italia-ne e a quella di Parigi - quivi molto apprezzato da illustricampioni della chirurgia e specialmente da Nelaton- rife-risco che egli, ritornato a Roma, esplicò dal 1855 la sua in-cessante ed ammirevole operosità, affer mandosi incoste-stabilmente quale il sommo chirurgo dell’Urbe.

Insediatosi il nuovo governo italiano e partito da Ro-ma l’illustre Prof. Giovanni Corradi, il Mazzoni ottenne,in concorso per titoli, il posto di Direttore della Clinicachirurgica presso l’Università.

Il suo insegnamento teorico e pratico di cui fa fede lasua importante pubblicazione, “Cinque mesi di chirur-gia”, destò l’ammirazione anche di coloro che l’avevanoavversato……

Purtroppo, però, le sue precarie condizioni di salute,minate da una grave affezione cardiaca, andarono semprepeggiorando. E il 5 febbraio 1885 avvenne la catastrofe.“Ancora sofferente il Mazzoni s’indusse ad uscire di casa,dietro insistenti richieste di un suo cliente. Salendo ripidee numerose scale dell’abitazione del malato, giunto sulpianerottolo, si accasciò, esalando l’ultimo respiro. Postotra l’altrui beneficio e la propria conservazione — conclu-se Guido Baccelli la sua accorata e sublime commemora-

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zione — coll’anima sua sempre pronta e prodiga di sé,preferì l’opera pietosa alla sua stessa esistenza e cadde,atleta indoma to, sul campo del dovere, lasciando a noi,altamente dolenti, un esempio, appena imitabile, ed inse-gnandoci non solo a vivere ma anche a morire”.

Durante presiedette anche il Congresso del 1886 aRoma. In seguito le assisi si tennero puntualmente ognianno ma in giro per l’Italia: nel 1887 a Genova, presi-dente Azzio Caselli; nel 1888 a Napoli, presidente Anto-nino D’Antona, clinico chirurgo di quella Università, si-ciliano di nascita e Senatore del Regno; nel 1889 a Bolo-gna, presidente Pietro Loreta, Socio Promotore della So-cietà e nel 1890 a Firenze, presidente un altro Socio Pro-motore, Giuseppe Corradi, clinico chirurgo in quellacittà, predecessore di Mazzoni, all’Unità d’Italia nellaCattedra di Roma.

Dal 1891 al 1904 i Congressi si celebrarono stabil-mente a Roma presieduti alternativamente da Bottini,Durante, D’Antona, Gallozzi e Ceci. Solo nel 1898 ci ful’eccezione di Torino.

Il 4 ottobre 1898 il Senatore Francesco Durante inau-gurò nell’ex capitale del Regno Sabaudo il 13° Congressodella Società, 16 anni dopo la sua fondazione. Erano pre-senti il Barone Ingegner Senatore Severino Cesana, Sin-daco della Città e Sua Eccellenza il Prof. Guido BaccelliMinistro della Pubblica Istruzione. Presiedeva il Con-gresso il Senatore Prof. Lorenzo Bruno, clinico chirurgodi quella Università. C’era un grande schieramento dipotere politico accademico e sociale. La Chirurgia Italia-na e la sua Società Nazionale si erano dunque affermate.Le speranze dei Soci Fondatori erano diventate realtà.

Il 27 ottobre del 1900, sotto la Presidenza di AntonioCeci, iniziò a Roma il 15° Congresso della Società. Ful’ultimo Congresso del XIX° Secolo ed in apertura Fran-cesco Durante, ancora Presidente della Società, ricordò iprogressi compiuti.

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La chirurgia italiana ha fatto grandi progressi, così damettersi alla pari con quella delle grandi nazioni civili, ementre prima era trascurata, ora è seguita con interesseall’estero dai chirurghi stranieri, i quali sentono anche ilbisogno di apprendere all’uopo la lingua italiana. Egli ri-ferisce che potè con grande orgoglio constatare, nell’ulti-mo viaggio in Inghilterra come molti dei migliori chirur-ghi di Londra rivolgevano a lui la parola in italiano, assi-curandolo che non potevano più fare a meno del nostroidioma, dal momento che la chirurgia italiana ha fattotanti e così brillanti progressi.

Il Congresso iniziò con una Comunicazione di Do-menico Biondi di Siena su “Annotazioni cliniche intor-no ad otto operazioni del midollo spinale”.

Nel 1901, primo anno del nuovo Secolo, non ci fuCongresso. Il primo Congresso del XX° Secolo, 16° nellastoria della Società, si tenne a Roma nell’ottobre del1902 e fu presieduto da Antonino D’Antona di Napoli.Il secondo Congresso ebbe luogo nel 1904, sempre aRoma, presieduto dal Clinico Chirurgo di Bologna Giu-seppe Ruggi.

Nel 1905 e nel 1906 i Congressi si tennero a Pisa eMilano presieduti rispettivamente da Antonio Ceci e daIginio Tansini. Ma dal 1907 al 1912 pur senza periodi-cità annuale i Congressi si tennero nuovamente a Romapresieduti da Ceci nel 1907, da Novaro nel 1908, daD’Antona nel 1909, da Ceccherelli nel 1910 ed ancorada Ceci nel 1912.

Dal 1908 col 21° Congresso fu cambiato lo schemascientifico del Congresso. Non più solo Comunicazionilibere come era stato nei precedenti venti Congressi mainiziarono le grandi Relazioni che quell’anno furono as-segnate a Domenico Biondi di Siena su “Cura della tbcdell’apparato spermatico” ed a Roberto Alessandri, al-lora Primario degli Ospedali di Roma, su “Cura chirur-gica della calcolosi delle vie biliari”.

L’anno successivo, col 22° Congresso, divennero cen-

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trali i temi oncologici con le relazioni di Gaetano Fiche-ra su “Etiologia del cancro” e di Francesco Durante su“Cura del cancro”.

Insomma, col nuovo Secolo e passata per così dire lamaggiore età, ossia i 21 Congressi, la Società Italiana diChirurgia superò l’improvvisazione, l’estemporaneità,la proposta, la genialità che avevano caratterizzato cul-turalmente i suoi esordi e raggiunse razionalmente ladottrina, attraverso lo studio approfondito dei proble-mi, il riesame della letteratura esistente, il confrontodelle casistiche. Da allora, da quel 21° Congresso, sisusseguirono le grandi Relazioni costituendo il patri-monio dottrinario e professionale della chirurgia italia-na. Alcune tematiche con gli anni sono diventate desue-te costituendo in seguito semplice curiosità storico-cul-turale. Altre sempre attuali sono state riproposte piùvolte lungo il XX° Secolo, per sempre maggiore ap-profondimento e modernizzazione.

Lo scoppio della Ia guerra mondiale sospese l’attivitàdella Società. Molti chirurghi partirono per il fronte, dadove tanti non tornarono, dando il meglio della loro ca-pacità professionale e la loro stessa vita per la Patria.

Furono decorati con tante gloriose medaglie e com-memorati dalla Società: tra gli altri, Lamberto Malatestadi Pisa, che fu ucciso da una scheggia di bomba d’aero-plano mentre si trovava nel suo ospedale da campo inCastelfranco Veneto.

Durante il conflitto si tenne un solo Congresso diguerra, tutto incentrato sulle ferite e sulla chirurgia ne-gli Ospedali da campo al fronte. Fu organizzato nel1917 a Bologna, città più vicina alla linea del conflitto,per consentire, a più chirurghi possibile, di partecipar-vi. Presiedette Giuseppe Ruggi, clinico chirurgo diquella Università.

Con il 1919 la Società riprese la propria attività ordi-naria. La pace, la guerra vinta portarono il ricongiungi-mento nazionale con i fratelli separati. Il 26° Congresso

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Nazionale si celebrò a Trieste nel segno dell’Unità delPaese, presieduto da Giorgio Nicolich, Primario del lo-cale Ospedale, padre dell’Urologia moderna.

Le tre Relazioni testimoniano, con i loro temi, laguerra vicina: quella di Verga “Le lesioni di guerra delSistema nervoso periferico”, quella di Putti-Pieri “Am-putazioni e protesi cinematiche”, quella di Mario Dona-ti di Padova “Indicazioni e risultati per lesioni trauma-tiche del Sistema nervoso periferico”. Fu l’ultimo Con-gresso di Durante ancora Presidente della Società.Quell’anno lasciò anche l’insegnamento e la direzionedella Clinica Chirurgica a Roma e si ritirò lontano dalfragore nella sua natia Letoianni.

Dagli atti di quel congresso traspaiono nostalgie esperanze per il futuro.

Durante, malato, era assente proprio in quello chesarebbe stato il suo ultimo congresso da Presidente, ilprimo dell’Italia pacificata e riunificata. Le funzioni diPresidente della Società furono svolte da Alessandri,che era all’epoca vicepresidente, e che così anticipava ilproprio futuro. Quell’anno la Società contava 329 Soci.

Quel 2 ottobre nella sala filarmonica di Trieste, ilPresidente del Comitato Ordinatore, Giorgio Nicolich,Primario a Trieste da prima della guerra, presiedette edinaugurò il Congresso.

Illustri Colleghi,aver scelto me come Presidente del Comitato Ordina-

tore fu tale onore, che certamente io non meritavo.Allievo dell’antica e gloriosa Università patavina, con-

servai sempre il culto più devoto per la Patria italiana,culto che in tutti i modi cercai di infondere ai miei giovanicolleghi ed agli amici.

Siate indulgenti verso questo povero vecchio collega,che non avrebbe mai pensato che la sorte dovesse serbar-gli il gaudio immenso di trovarsi in questo posto, fra col-leghi italiani, in Trieste redenta e facente parte della granfamiglia italiana.

Ed ora siamo liberi, siamo italiani nessuno ci obbliga a

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guastare la nostra favella e imbastardire il nostro caratte-re, costringendoci a studiare in una lingua straniera, fragente che sente e pensa in modo tanto differente dal no-stro.

Compiuta la quasi completa nostra unità, dopo le tan-te e magnifiche prove di valore dell’esercito e di tutto ilpopolo italiano, lice sperare che anche nell’arte nostra sa-premo sempre più imporci allo straniero, ed è con questofervido voto che dichiaro aperto il Congresso e vi invito acominciare il nostro lavoro con il grido di: Viva la GrandeItalia, viva il nostro Re!

Nel decennio che seguì i Congressi si svolsero rego-larmente, come anche la vita Societaria. I Presidenti deiCongressi furono gli stessi Presidenti della Società nelloro mandato annuale, con l’eccezione di Giovanni Pa-scale che rimase in carica nel 1921-1922.

Nel 1920 il Congresso si svolse a Roma presiedutoda Burci, nel 1921 a Napoli presieduto da Pascale, nel1922 a Firenze nuovamente presieduto da Burci, nel1923 a Roma presieduto da Roberto Alessandri che erasucceduto a Durante nella Cattedra, nel 1924 a Milanopresieduto da Baldo Rossi, clinico della neonata Uni-versità, nel 1925 a Roma ancora presieduto da Alessan-dri, nel 1926 a Padova presieduto da Donati, nel 1927 aParma presieduto da Ferrari, nel 1928 a Roma, per laterza presidenza di Alessandri, nel 1929 a Genova pre-sieduto da Tusini ed ancora a Roma nel 1930 presiedutoda Alessandri che in quell’anno, anche per le variazionidi Statuto imposte dal regime fascista, assunse stabil-mente la Presidenza della Società che tenne sino al 1939quando lasciò l’insegnamento.

In quel decennio la Società affrontò tutte le granditematiche della chirurgia moderna con grandi relazio-ni.

L’elencazione di alcune Relazioni importanti aiuta aseguire il progresso delle conoscenze. Nel 1920 la Rela-zione di Mattali-Caucci discusse la chirurgia del colon,nel 1921 vi fu la Relazione di Marogna sulla tubercolosi

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renale, nel 1923 la prima relazione sui trapianti tenutada Fasiani dal titolo“Trapianti in generale e trapiantidella pelle in particolare”. Nel 1912 Alex Carrel, pro-prio per i suoi studi sui trapianti e le suture vascolariaveva guadagnato il Premio Nobel, secondo chirurgodopo Kocher ad ottenere l’alto riconoscimento. Nel1924 vi fu la Relazione di Uffreduzzi sulla chirurgia delsimpatico perivasale, nel 1925 quella di Fiori sul gozzoesoftalmico, nel 1926 quella di Leotta sulla tubercolosipolmonare, nel 1929 quella di Simeoni sui tumori mali-gni dell’apparato digerente.

Nel 1930 comparve il libro di Gustavo Lusena, Pri-mario a Genova, Contributo Italiano al progresso della chi-rurgia, relativo ai lavori presentati nei primi 30 Con-gressi della Società Italiana di Chirurgia dal 1883 al1923, un excursus straordinario sulla evoluzione dellachirurgia, dottrina e tecnica, casistica e risultati a caval-lo di due secoli, il 1800 ed il 1900, lungo anni importan-ti, quelli della nascita e dello sviluppo della chirurgiamoderna in Italia. Un progresso illustrato nella prefa-zione al libro scritta dallo stesso Autore.

Quando, il 27 ottobre 1926, a Padova in occasione del33° Congresso della Società italiana di Chirurgia, presen-tai la proposta che fosse riunito in un apposito volume ilcon tributo clinico - scientifico sociale dei primi 30 Con-gressi ero convinto d’interpretare il desiderio di moltissi-mi Consoci. Il numero esiguo delle copie degli Atti pub-blicati nei primi anni e la dispersione, poco spiegabile, dimolte di tali copie avevano resa difficile la consultazionedi lavori, anche im portanti, che minacciavano ormai d’es-sere ignorati. La pro posta fu giustificata da siffatto perico-lo.

Le collezioni complete degli Atti della nostra Societàsono divenute rarissime: si pensi che neppure presso laSede Sociale esiste una collezione completa. Il desiderioche il nostro contributo chirurgico, ordinato per materie,venisse raccolto ed assicurato nel tempo era sorto nell’a-nimo di molti, me compreso, anche prima del 1923. La

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pubblicazione di Trendelemburg comparsa in quest’annoravvivò quel desiderio. Com’è noto, il rinomato Chirurgodi Lipsia raccolse in un prezioso libro la storia dei primi25 anni di vita della Società Tedesca di Chirurgia. Questolibro fu una guida utile per il nostro, per quanto gli inten-dimenti del suo Autore fossero più circoscritti ed alquan-to diversi. Trendelemburg volle tracciare a grandi linee, amo’ di contributo sintetico alla Storia della Chirurgia,quanto in Germania erasi compiuto durante il periodo,che va dal 1872 al 1897, memorabile per la nostra Scienzae per la nostra Arte. L’intento nostro era invece quello diraccogliere in modo sistematico ed analitico tutto il con-tributo sociale sia per consentire la conoscenza ed il ricor-do delle singole comuni cazioni presentate ai Congressi,sia per prospettare in un quadro d’insieme la cooperazio-ne della nostra Società al progresso della Chirurgia. I pri-mi 30 Congressi comprendono un periodo quarantennaleche corrisponde a quello della più rapida evoluzione del-la Chirurgia.

La ricerca più approfondita chimica e microscopica ele indagini endoscopiche e radiologiche guidarono alle fi-nezze della diagnosi: la disciplina asettica consentì i me-ravigliosi ardimenti delle operazioni viscerali. Siffatte in-novazioni nel campo della diagnosi ed in quello della te-rapia trovarono i nostri Consoci pronti a valersene, ondefosse la Chirurgia italiana a gareggiare sempre con di-gnità e a precorrere spesso sulla via del progresso.

Subito dopo il 1870 i nostri Chirurghi, ormai Italianianche politicamente, si fusero cogli altri cultori della Me -dicina per dar vita ad un’unica Associazione Medica Ita-liana. Questa si adunò per dieci volte a Congresso, primache sorgesse la nostra Società e l’ultimo di tali Congressi,il 10°, fu quello di Modena del settembre 1882. Era suddi -viso in 9 sezioni: 1a Medicina, 2a Chirurgia, 3a Igiene, 4aMedicina Legale e Psichiatria, 5a Ostetricia, Ginecologia ePediatria, 6a Sifilopatia e Dermopatia, 7a Oculistica edOtoiatria, 8a Anatomia e Fisiologia normale e patologica,9a Chimica e Farmacia.

Nello stesso anno e precisamente il 29 gennaio 1882,Palasciano, a nome anche degli altri promotori, diramò aipiù noti Chirurghi Italiani una circolare. che invitava iColleghi a far sorgere una Società italiana di Chirurgia. Loscopo elevato, cui mira la proposta Associazione ed il be-

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ne che potrà ridondarne al decoro ed al lustro della Chi-rurgia Nazionale, giova ritenere, non troveranno langui-do lo spirito dei contemporanei e la Società fin dal nasce-re porgerà larghe promesse di una vita feconda e rigo -gliosa. A tale nobile appello risposero plaudendo 103 Chi -rurghi ed il 3 aprile 1882 la nostra Società fu fondata. Nel-l’anno successivo 1883 i Consoci furono radunati per il 1°Congresso.

Cause varie impedirono la regolare successione delleannuali radunanze e la Guerra Europea fu la principale. Il30° Congresso si tenne nel 1923 e cioè 40 anni dopo il pri-mo.

Questo volume riassume quindi l’attività di un qua-rantennio e comprende molti contributi originali di gran-de va lore e che segnarono sulla via dell’evoluzione chi-rurgica solchi profondi e memorandi. Chi ne leggerà lepagine vi rileverà quanto siano numerose le conquiste nelcampo della Chirurgia dovute agli italiani. Il compendio-so ricordo di tali conquiste giustificherebbero un ottimocontributo alle ri vendicazioni nazionali. Noi abbiamo ildovere di segnalarle affinché nella Storia della Scienza edell’Arte Chirurgica venga nella sua integrità valutato ilcontributo italiano.

Nel primo periodo delle manifestazioni culturali dellanostra Società rifulsero Grandi Maestri, che prima del1870 s’erano già resi illustri quali eroici combattenti per lali bertà e per l’indipendenza della nostra Patria.

Durante il periodo, che precede il 1915, contribuironoall’operosità sociale molti Chirurghi, che vivevano in ter-re italiane, soggette tuttora allo straniero. Colla più tenacesolidarietà e coll’indistruttibile fede nei destini d’Italiapar teciparono assiduamente ai nostri Congressi. La loroperio dica convivenza per si lungo volgere di anni, col rin-novato entusiasmo, alimentò la sacra fiamma, che di-vampò il 24 maggio 1915. Il loro amor patrio mantenne intutti noi sempre vivissima la fiducia nella fatale liberazio-ne delle terre irredente. Il 26° Congresso tenuto dalla no-stra Società a Trieste nel 1919 apparve certo a quei valoro-si Consoci la più solenne realizzazione delle loro santeaspirazioni.

Nel periodo bellico, 1915 - 1918, i Chirurghi italiani fu -rono tutti mobilitati. In gran parte volontari, accorseroagli Ospedali del fronte, attestando colla loro operosità e

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col loro valore la profonda devozione alla causa Naziona-le. Molti, nel compimento del loro sublime dovere,sacrifica rono la vita, meritando, nella gloria, la ricono-scenza della Patria.

La lettura del volume a capitoli riepilogati permettemeno di rilevare alcune circostanze di fatto, che meglio siresero evidenti coll’esame dei contributi dei singoli Con-gressi. Ri tengo che possa giovare un accenno alle princi-pali. Con una certa regolarità, non costante però, lecomuni cazioni di patologia sperimentale o comunque diricerca scientifica risultarono gradatamente più numerosein con fronto con quelle di chirurgia clinica, il fatto può at-tribuirsi in parte ad un mutato indirizzo dello studio del-la Chirurgia ma per la maggior parte va attribuito allamodificata com pagine della nostra Società. Al 1° Congres-so i Soci erano 103 ed erano quei più noti Chirurghi italia-ni, ai quali s’era rivolto il Palasciano. Malgrado la fataleperdita di molti Consoci, e di non pochi la morte costituìun lutto per la Chirurgia, i Soci al 30° Congresso figurava-no in numero di 453. Molti dei nuovi iscritti, se diverran-no in un pros simo avvenire chirurghi valenti, per ora nonpossono mani festare la loro attiva, operosa ed encomiabi-le partecipazione ai Congressi, che con lavori di ricercascientifica.

Nei primi Congressi vennero presentati fondamentalicontributi di Chirurgia Ginecologica, della quale i nostripiù anziani Consoci furono pionieri e maestri. Così purevi si notarono importanti comunicazioni sulla chirurgiadella laringe. Successivamente i nostri Congressi non sioc cuparono quasi più di tali parti della chirurgia ormaispecializzate. E via via esularono i contributi di chirurgiaor topedica, della stomatologica e di recente anche dellaurolo gica. In qualche Congresso si erano segnalati alcunilavori sull’applicazione alla diagnosi dei raggi X esull’applica zione terapeutica degli stessi raggi e del ra-dium: poi tali interessanti contributi figurarono negli or-dini del giorno della sorta Società di Radiologia.

Quando, nel 1923, si radunò il 30° Congresso di Chi -rurgia, contemporaneamente si radunavano il 22° diOste tricia e di Ginecologia, il 20° di Laringologia, Otolo-gia e Rinologia, il 14° di Ortopedia, il 12° di Stomatologia,il 5° di Radiologia ed il 2° di Urologia. Non è superfluoricor dare ciò che è a tutti noto: le chirurgie specializzate

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non sono rimaste circoscritte in confini prestabiliti e fissima li hanno oltrepassati per gradi a detrimento della chi-rurgia generale, dalla quale sono andate rendendosi auto-nome. Non è illecito, anzi giova, chiedersi se la completaau tonomia assicurerà alle specialità chirurgiche ulteriori eprogressivi perfezionamenti.

Un terzo rilievo si riferisce alla riunione per discussionidi temi comuni della nostra Società con quella di Medicinainterna. Una tale innovazione si iniziò nel 1921 al nostro28° Congresso. L’unica giustificazione, che è plausibile, diqueste riunioni deve ricercarsi nella necessità di un con -corde indirizzo terapeutico, che miri a garantire meglio laguarigione dei malati. Vi sono forme morbose, che indeter minate circostanze cedono alle cure indicate dall’in-ternista ed in altre richiedono l’intervento del chirurgo. Persiffatte malattie l’accordo di questo con quello può suggeri-re norme preziose per la cura. Limitate in tal modo alla te-rapia di determinati morbi, le discussioni non potrebberosoverchiare quelle direttamente pertinenti alla Chirurgia eper le quali vengono convocati i nostri Congressi.

Ma uno spaccato altrettanto magistrale della chirur-gia italiana viene dal magnifico libro di Davide Giorda-no, Primario veneziano e Senatore, al quale il SindacatoNazionale Autori e Scrittori Scientifici commissionò perle Edizioni Bompiani una monografia sulla ChirurgiaItaliana nel XX° Secolo.

Il lavoro in due volumi comparve nel 1938 e fu ilfrutto della collaborazione di 48 chirurghi, inclusi cin-que professori universitari, che offrirono a Giordano leloro opere e la loro assistenza, pochi se confrontati ai716 Soci che allora contava la Società Italiana di Chirur-gia ed ai quali l’Autore si rivolse.

Una rassegna sintetica sui progressi della ChirurgiaItaliana nel XX° Secolo apre il volume.

Mia intenzione è di condensare in breve spazio il con-tributo italiano arrecato in questo primo terzo di secoloalla chirurgia, non per opporlo ma per offrirlo, inseribilenella chirurgia universa.

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La quale chirurgia, come la si esercita in tutto il mon-do, grazie ai viaggi individuali, ai congressi, alle pubbli-cazioni scientifiche, è diventata patrimonio comune, e, trai chirurghi delle varie nazioni, livellata apparentemente.Apparentemente, per chi guardi alla grossa, attraverso lastampa. Non sempre rigorosamente, per chi sappia legge-re nello spirito delle pubblicazioni, e guardare ad occhiaperti, nelle camere da operazione. Le razze hanno pure illoro proprio genio: e del genio latino è propria una corret-ta semplicità, che fa parer semplici, facili e belle le coseche altrove sembrano gravi e complicate.

… Ho detto già che nella evoluzione della Chirurgia,poca o niuna importanza ha il dato numerale che ci av-verte del passaggio da un secolo ad altro secolo. Agentipiù improvvisi e profondi, più sentiti, sono necessari permutare abitudini, fare erompere un “ordine nuovo”. Duemomenti vivificatori vennero a scuotere in questo secolola nostra vita chirurgica. Primo, la grande guerra, che ciobbligò, nel relativo isolamento prodotto dalla guerrastessa, a dettare, originali, libri che prima, come ho giàdovuto constatare, si traducevano dall’estero. Ma più chela difficoltà di raccogliere materiale da tradurre, potè il ri-svegliato sentimento dell’innato valore: al “sacro egoi-smo” seguì un santissimo senso della nostra capacità, del-la vitalità del genio di nostra razza: coscienza di forza me-glio rivelata ed acuita ancora dal Fascismo, sorto in batta-gliera e feconda giovinezza. Ed a tali momenti rispondeappunto una rinnovata produzione nella nostra letteratu-ra chirurgica, pari, se non superiore a quella che al princi-pio del secolo XIX salutava il creduto avvento dell’ago-gnato Regno Italico.

Nell’ultimo decennio tra le due guerre si stabilì difatto un’alternanza per la sede congressuale e per laPresidenza del Congresso: una volta a Roma, gli annipari, presieduto dal Presidente della Società, sempreAlessandri, l’altra volta, gli anni dispari, fuori Roma,Presidenza del Clinico locale: 1931 Bari, Righetti; 1933Pavia, Fichera; 1935 Bologna, Paolucci; 1937 Torino, Uf-freduzzi; 1939 Napoli, Torraca.

Ed anche in quel decennio tra il ’30 ed il ’40 si tenne-

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ro relazioni magistrali su grandi temi: 1931: Gasparrini-Tusini “Pancreatiti acute”; 1932: Rossi e coll. “Peritoni-ti acute”; 1933: Donati “Malattie delle paratiroidi”;1934: Omodei Zorini ed al. “Bronchiectasie”; 1935: For-ni “I tumori primitivi del polmone “; 1935: Valdoni “Letromboembolie”; 1937: Antoni “L’ernia femorale”; 1939:Ceccarelli “Traumi chirurgici dell’addome”.

Nel 1932 fu celebrato il cinquantenario della Fonda-zione della Società. Il Presidente Senatore Roberto Ales-sandri illustrò l’evento.

Ricorre quest’anno il cinquantenario della Società Ita-liana di Chirurgia, che è dunque la decana delle SocietàScientifiche nel campo medico, essendo stata fondata nel1882 da un gruppo di clinici e patologi insieme a valorosichirurghi ospedalieri realizzando così fin dall’inizio quel-la fusione di forze, che in un insieme armonico di ricerchee di esperienze rappresenta i risultati dell’indagine clinicasposata agli studi sperimentali e di laboratorio e d’altrolato ai progressi tecnici ottenuti coll’esercizio pratico inuna vasta serie di malati e di operazioni. Cinquanta annidi collaborazione feconda, i cui frutti sono consacrati neivolumi degli Atti dei 38 Congressi già scritti, colla sommadi relazioni e di comunicazioni sugli argomenti più sva-riati della chirurgia, e che rappresentano il contributo ita-liano al progresso della nostra disciplina, che è insiemescienza ed arte, contributo che specie in questi ultimi tem-pi è largamente riconosciuto dalle Nazioni.

Ma un’altra collaborazione più larga noi abbiamo rea-lizzato, questo voglio, sia, pure brevemente, mettere quiin evidenza, perché abbiamo in questo preceduto le so-cietà consorelle dell’estero, e perché questa tendenza ènello spirito, che anima oggi l’Italia nuova, nell’unionevolontaria e intelligente di attività diverse, intente al mag-gior benessere sociale e al più rapido e fecondo progressodelle nostre conoscenze, al miglioramento nell’applicazio-ne pratica degli individui e della razza. Fin dal 1921, dapiù di dieci anni dunque, fu deciso di tenere nella stessasede e nella stessa epoca i Congressi delle due Società Ita-liane di Chirurgia e di Medicina interna, e dall’ottobre1922, in cui fu tenuto il primo Congresso comune a Firen-

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ze si sono susseguite annualmente senza interruzione lenostre riunioni associate, di Medicina e Chirurgia, conuna seduta comune in cui si svolge un tema comune, e so-no stati così trattati gli argomenti più interessanti per ledue cliniche generali, che possiamo dire compendianotutto lo scibile medico, a cui medici e chirurgi hanno por-tato ciascuno la loro esperienza e i loro studi, riuscendocosì ad una più larga e fattiva comprensione dei problemiclinici e terapeutici di maggiore attualità.

Ottobre ’22, data solenne dunque anche per noi, checelebriamo pure il Decennale dei nostri Congressi, piccoloma non trascurabile apporto alle grandi opere che nel De-cennale dell’Era Fascista quest’anno celebriamo con itali-ca fede.

Io ringrazio vivamente a vostro nome S.E. l’On. Prof.Ercole, Ministro dell’Educazione Nazionale, che ha volutointervenire personalmente alla prima seduta del nostroCongresso, rappresentando e così degnamente il Duce edil Governo.

Nel 1936 la politica e gli orientamenti politici del Go-verno si inserirono nel contesto della Società e del Con-gresso in maniera palese. La chirurgia venne ufficial-mente coinvolta nella politica del Paese come trasparedal discorso inaugurale di Alessandri al Congresso del1936.

L’inaugurazione del Congresso delle Società riunite diChirurgia e di Medicina Interna ha luogo in questa nuovaCittà Universitaria, degna sede della prima Università delRegno. L’antica e gloriosa Sapienza, nella cui Aula Magnaeravamo soliti tenere la prima seduta delle nostre riunio-ni, era divenuta del tutto insufficiente all’aumentato nu-mero degli studenti e ai bisogni sempre crescenti degli in-segnamenti.

Chi, come noi, abbia assistito alle due solenni cerimo-nie, con cui si iniziò la vita e l’attività della Città Universi-taria, la inaugurazione, cui il Duce portò la sua parola in-cisiva e precisa proprio nel momento in cui a Ginevra sipreparavano le sanzioni, e quella in cui venne conferita aS.M. il Re la laurea ad honorem, dandogli occasione dipronunciare un discorso, ammirevole di decisione ferma

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e di dignità nell’affermare la volontà e i destini d’Italia,serberà sempre nella mente e nel cuore l’eco di quelle ce-rimonie, che segnarono l’inizio della nuova vita universi-taria romana, e insieme il vaticinio delle nuove fortuned’Italia.

Le nostre Società, che comprendono tutti gli insegnantiuniversitari di Medicina e di Chirurgia, e tutti i pratici piùesperti degli Ospedali e della libera professione, e si ono-rano anche di contare fra i loro soci molti fra i migliori ele-menti della compagine sanitaria delle Forze Armate e del-la Sanità Pubblica, devono e vogliono ricordare con orgo-glio il contributo che la classe medica italiana ha portatoalla preparazione sanitaria dell’impresa dell’Africa Orien-tale, e la parte diretta presa nella lotta contro le malattie ele infezioni, nell’assistenza ai feriti e ai malati, al trasportoe alla cura di essi in Africa e in Patria, e onorare con rive-rente omaggio i medici caduti e feriti durante la guerra.

Con orgoglio noi registriamo la parte che i medici mili-tari, dell’esercito, della marina, dell’aeronautica, della mi-lizia, e i medici civili, accorsi volontari in Africa, di cuiparecchi nostri Soci, hanno avuto nella condotta delleoperazioni, e nel soccorso ai combattenti, e lasciate che ioricordi per tutti Aldo Castellani, che ha messo tutta la suaopera, materiata di scienza e di esperienza, nella predi-sposizione degli ausili più efficaci contro le infezioni enelle provvidenze igieniche dell’esercito, della popolazio-ne operaia, dei trasporti, ed ora continua nella sistemazio-ne igienico-sanitaria definita dell’Impero, e Raffaele Pao-lucci, che a capo di un’Ambulanza chirurgica ha portato ilsoccorso della moderna chirurgia ai feriti, affiancandosicoi suoi assistenti ai chirurghi militari, e rinnovando an-che in questa impresa quella collaborazione attiva e mo-ralmente e materialmente feconda, che già chirurghi emedici civili, universitari e pratici compirono nella ultimaguerra della nostra redenzione.

Ma la nostra opera non è finita con la vittoria. Tutti imedici italiani, e specialmente le nostre due Società, cherappresentano si può dire tutto il meglio dei medici inter-ni e dei chirurghi, devono mettersi a disposizione del Go-verno, per tutto quello che sarà necessario per la sistema-zione definitiva delle nostre colonie e specialmente del-l’Impero Orientale, e anche per tutto quello che riguardala preparazione a eventualità future, che noi non deside-

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riamo né vogliamo, anzi speriamo non si avverino ma chenon debbono coglierci all’imprevisto.

Non senza significato mi sembra il fatto, che all’inaugu-razione del recente Congresso francese di Chirurgia, il Pre-sidente, che era un Generale medico, il Rouvillois, abbiapronunziato un discorso, che fu in massima parte dedicatoalla chirurgia di guerra, e alla organizzazione dei serviziigienici, medici, e soprattutto di trasporto e di soccorso aiferiti, e che al posto d’onore nella seduta inaugurale fosse ilGen. Gamelin, capo dello Stato Maggiore francese. Io nonintendo entrare qui in particolari su questa preparazione,che deve però essere uno dei nostri compiti più precisi eopportuni in collaborazione colle autorità sanitarie civili emilitari ma voglio soltanto accennare all’incertezza, che piùvolte nel discorso di Rouvillois appare sull’andamento diuna guerra futura, e sulle difficoltà di adattare le provvi-denze sanitarie alle possibili modalità diverse di una guer-ra di movimento, alle offese d’armi nuove o impiegate inmodo estremamente più intenso che non nel passato, comel’aviazione, di nuovi mezzi lesivi, come uso di gas ed altro,il che porta a difficoltà enormi nel predisporre le provvi-denze che noi possiamo opporre a questi moderni e terribi-li mezzi di distruzione e di offesa.

Ma in questo possiamo dire con certezza che noi ci tro-viamo in condizioni di grande vantaggio. Poiché l’espe-rienza della nostra recente guerra d’Africa non può esserestata vana. Certamente una guerra europea sarebbe diver-sa da una guerra coloniale; certamente le offese sarebberopiù gravi e le distruzioni più terribili; ma la nostra espe-rienza è fatta, e gli insegnamenti che le nostre autorità sa-nitarie, e nel campo igienico preventive, e nella cura dellemalattie infettive, e anche nell’organizzazione del tra-sporto e della cura ai feriti, hanno acquistato, renderannocertamente più efficace e più agile l’ordinamento dei ser-vizi per qualunque eventualità. Questo è dunque uno deinostri compiti più importanti, e sono sicuro che lo adem-piremo con tutta la nostra scienza e con tutta la nostra vo-lontà tese allo scopo.

Cessati gli applausi parlò S.E. l’On. Arrigo Solmi,Ministro di Grazia e Giustizia in rappresentanza delGoverno Fascista:

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Porto il saluto del Governo fascista a tutti gli interve-nuti a questo Congresso, che, se per la Società Italiana diChirurgia è il 43°, per la Società di Medicina interna, nonmeno benemerita della scienza italiana, è il 42°; ciò che in-duce, naturalmente, a meditare sulla somma di lavoro ve-ramente imponente, di cui a questi Congressi annualivengono assegnate le tappe.

Il vostro Congresso si raduna in un’ora epica della no-stra vita nazionale. L’Italia riunendo tutte le sue forze,sotto l’alta e impareggiabile guida del Duce, ha potutocompiere, con geniale rapidità, l’impresa coloniale piùgrande che conosca la storia, e fondare l’impero, necessa-rio alla nostra vita e al nostro sviluppo civile.

Tra le forze che hanno cooperato a quest’impresa, vi èanche la scienza medica: essa ha contribuito ad allontana-re i pericoli delle malattie, che sono solite accompagnarequeste imprese in paesi difficili e lontani; essa ha contri-buito a dare fiducia e sanità ai nostri meravigliosi soldati.

Tra gli altri problemi della scienza medica, vi è anchequello di dirigere ora verso il piano dell’Impero, una par-te delle sue attività, per rendere più facile la valorizzazio-ne dell’immenso e fecondo territorio da noi oggi domina-to, io so che anche questo problema non sarà da voi di-menticato.

Lo scoppio della IIa guerra mondiale bloccò l’attivitàdelle Società. Durante l’intero conflitto, tra il ’40 ed il’45, ci sarà un solo Congresso il 47°, nel 1942, a Roma,nel quale, al contrario di quello del 1917, poco si parlòdi patologia e chirurgia di guerra.

Fuori dalla immensa tragedia bellica ed oltre il regi-me fascista, nel 1946 la Società rielaborò lo Statuto an-cora sotto la Presidenza di Paolucci e si ripropose colproprio 48° Congresso a Firenze sotto la Presidenza diComalli.

Fu anche quello un Congresso congiunto con la So-cietà Italiana di Medicina Interna. In quella inaugura-zione a Palazzo Vecchio nel Salone dei Cinquecento,Paolucci era assente e la Società Italiana di Chirurgiaera rappresentata da Luigi Torraca, vice presidente. Il

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discorso inaugurale fu tenuto dal grande clinico medi-co Cesare Frugoni, Presidente della Società di MedicinaInterna, anche a nome dei chirurghi.

Due grandi eventi nel frattempo avevano aperto lenuove frontiere: la scoperta della penicillina di Fleminge l’impiego del curaro in anestesia per la baronarcosi diGriffith.

Cominciò così la Chirurgia contemporanea: dal 1946al 2000 cinquantacinque Congressi Nazionali autunnalihanno contrassegnato con regolarità lo scorrere deltempo e del progresso chirurgico rappresentando ancheuna grande occasione di presenza sociale e di incontrotra i Soci, andati progressivamente aumentando sino asuperare i 5000.

La chirurgia dei secondi 50 anni del XX° secolo è ca-ratterizzata dalla rapida evoluzione delle conoscenze edelle competenze, della epidemiologia, della tecnica edello strumentario diagnostico e terapeutico.

Si potrebbe riassumere sinteticamente: 25 anni in sa-lita con una chirurgia sempre più aggressiva, semprepiù estesa e più radicale, sempre meno rischiosa e forie-ra di risultati positivi nella quale le proposte di Billroth,Werthein, Miles, Halsted, Whipple, Graham diventanorealtà quotidiana, gastrectomie totali, esofagectomie,mastectomie radicali, duodeno-cefalo-pancreasectomie,pneumonectomie, sino e soprattutto alla chirurgia delcuore, alla circolazione extracorporea, ai trapianti di re-ne, di fegato, di cuore, di polmoni. Ed una grande di-sponibilità di sangue, di antibiotici, di centri di riani-mazione, di letti di degenza, di fiducia carismatica nel-l’uomo dominus, nel chirurgo come forza del destinoed oltre il destino.

Poi gli ultimi 25 anni in discesa, la chirurgia diventasempre più ragionata e meno demolitrice, molte infer-mità finiscono nell’area medica, l’invasività viene limi-tata, lo slogan “grande taglio, grande chirurgo” scom-pare dalla accezione corrente. Aumenta il rispetto del

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corpo umano, compare la chirurgia con le sonde, il chi-rurgo diventa l’esecutore di procedure concordate e li-mitate, sotto l’occhio critico della opinione pubblica. Lalinea di arretramento sembra non finire mai mentrecompare la diagnostica per immagini, la realtà virtuale,la robotica e si profila, come rimedio per tutti i mali, labiologia molecolare e l’ingegneria genetica.

Tutto questo compare e traspare dagli Atti dei 50splendidi Congressi della Società Italiana di Chirurgiapresieduti dai più illustri chirurghi di questa epoca glo-riosa, celebrati metà a Roma e metà nelle altre grandicittà italiane.

Dal 1996 la Società Italiana di Chirurgia ha ripreso aricercare la collaborazione unitaria con le altre Societàchirurgiche dando luogo, negli anni pari ed in occasio-ne dei Congressi Nazionali di Roma, alla SettimanaChirurgica Italiana. Lo spirito unitario era già presentenei Congressi degli anni ’30, che nel 1937 si svolsero si-multaneamente a quelli di altre Società, l’Ortopedica, laGinecologica e l’Urologica. Anche dopo la guerra la col-laborazione con la Medicina Interna ha sopravvissuto alungo con sedute comuni in occasione dei CongressiRomani.

Al di là del Congresso Nazionale annuale, la SocietàItaliana di Chirurgia ha celebrato pochi altri eventi. Nel1937 a Padova fu organizzata una sessione straordina-ria per commemorare la scomparsa di Edoardo Bassininel cinquantenario della pubblicazione della sua tecni-ca di ernioplastica. Negli anni ’50 furono tentate mani-festazioni primaverili che però non ebbero seguito.

Nel giugno del 1999, durante la Presidenza Societa-ria di Santoro, fu celebrato un evento straordinario in-ternazionale a Verona, presieduto da Roberto Vecchionicon la partecipazione scientifica, sociale e politica deiPaesi dell’Est europeo precedentemente gestiti dai regi-mi del Socialismo Reale ed alla ricerca di una nuovapartnership culturale in chirurgia e non solo.

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Nel 2000 la Società è scesa in Calabria dove mai ave-va potuto arrivare nei 118 anni della sua storia ed in oc-casione delle Giornate Chirurgiche di Copanello presie-dute da Emilio Rocca, ha proposto un evento comme-morativo su “Questo meraviglioso XX° Secolo” dedica-to alla evoluzione della Chirurgia ed ai Maestri del pas-sato.

Nella seconda metà del secolo anche la tecnica diesposizione congressuale è andata cambiando. Comeprima della Ia guerra mondiale si era via via passatidalle Comunicazioni alla Relazioni, così dopo la IIa

guerra mondiale a partire dagli anni ’60 dalle Relazionisi passò ai Simposi. Ciò in parte derivò dall’espandersidelle conoscenze e quindi dalla necessità di avere piùvoci e competenze diverse nella esposizione e disaminadi ogni argomento, ma fu anche dovuto alla crescitanumerica delle Società ed alla pressante richiesta deiSoci di partecipare alle attività sociali di maggior presti-gio.

Con gli anni ’70 dunque scomparvero le grandi Rela-zioni e le Comunicazioni assunsero un ruolo via via mi-nore. Questo andamento finì col cadere nell’eccesso eRuffo nel 1989, presiedendo a Genova il 91° Congresso,rimarcò che quell’anno il numero delle Relazioni neiSimposi e Tavole rotonde era andato vicino alle trecen-tocinquanta e comunque aveva superato il numero del-le Comunicazioni libere.

La frammentazione era dunque diventata eccessiva enel 1994 si ritornò alle grandi Relazioni, due per anno,definite biennali perché assegnate ad un unico Autorecon congruo anticipo. Le prime due Relazioni di questaritrovata vocazione, furono tenute in quell’anno da Eu-genio Santoro su “Tumori del duodeno e della papilladi Vater” e da Davide D’Amico sui “Tumori retroperi-toneali”: entrambi negli anni successivi sono stati eletti,nella stessa successione, Presidenti della Società, l’ulti-mo del XX° Secolo ed il primo del nuovo Millennio.

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Negli anni ’80 comparve anche la forma espressivadelle presentazioni cinematografiche di interventi chi-rurgici, che attraverso varie modifiche sopravviverà ol-tre la fine del secolo. Lo sviluppo tecnologico consen-tirà anche una più vasta partecipazione degli astanti at-traverso l’utilizzazione del Televoter nei cosiddetti Sim-posi interattivi e delle Conferenze a distanza attraversoil cosiddetto sistema delle Teleconferenze.

Nel 102° Congresso, l’ultimo del secolo, è stata intro-dotta la Consensus Conference. Il tema prescelto è statoil cancro della tiroide e per la prima volta le Accademielocali e/o le Società Regionali hanno inviato delegazio-ni ufficiali per la partecipazione al dibattito. Ciò avvie-ne nella ricerca di un più vasto contributo al dibattitoed alle scelte e per l’opportunità di un riconoscimentoed una integrazione tra l’attività culturale nelle regionie quella nazionale in una Italia che difende la propriaunità attraverso l’accettazione di un Federalismo Terri-toriale.

Tab. II - Elenco dei Congressi Nazionali della Società Ita-liana di Chirurgia

Anno Sede Presidente

XIX° Secolo1 1883 ROMA C. MAZZONI2 1885 PERUGIA F. DURANTE3 1886 ROMA F. DURANTE4 1887 GENOVA A. CASELLI5 1888 NAPOLI A. D’ANTONA6 1889 BOLOGNA P. LORETA7 1890 FIRENZE G. CORRADI8 1891 ROMA E. BOTTINI9 1893 ROMA F. DURANTE10 1895 ROMA F. DURANTE11 1896 ROMA A. D’ANTONA12 1897 ROMA E. BOTTINI

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Anno Sede Presidente

13 1898 TORINO L. BRUNO14 1899 ROMA C. GALLOZZI15 1900 ROMA A. CECI

XX° Secolo16 1902 ROMA A. D’ANTONA17 1904 ROMA G. RUGGI18 1905 PISA A. CECI19 1906 MILANO I. TANSINI20 1907 ROMA A. CECI21 1908 ROMA G.F. NOVARO22 1909 ROMA A. D’ANTONA23 1911 ROMA A. CECCHERELLI24 1912 ROMA A. CECI25 1917 BOLOGNA G. RUGGI26 1919 TRIESTE G. NICOLICH27 1920 ROMA E. BURCI28 1921 NAPOLI G. PASCALE29 1922 FIRENZE E. BURCI30 1923 ROMA R. ALESSANDRI31 1924 MILANO B. ROSSI32 1925 ROMA R. ALESSANDRI33 1926 PADOVA M. DONATI34 1927 PARMA A. FERRARI35 1928 ROMA R. ALESSANDRI36 1929 GENOVA G. TUSINI37 1930 ROMA R. ALESSANDRI38 1931 BARI C. RIGHETTI39 1932 ROMA R. ALESSANDRI40 1933 PAVIA G. FICHERA41 1934 ROMA R. ALESSANDRI42 1935 BOLOGNA R. PAOLUCCI43 1936 ROMA R. ALESSANDRI44 1937 TORINO O. UFFREDUZZI45 1938 ROMA R. ALESSANDRI46 1939 NAPOLI L. TORRACA47 1942 ROMA R. PAOLUCCI

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Anno Sede Presidente

48 1946 FIRENZE A. COMOLLI49 1947 ROMA R. BASTIANELLI50 1948 BOLOGNA G. G. FORNI51 1949 ROMA R. PAOLUCCI52 1950 MONTECATINI A. COMOLLI e FEDELI53 1951 ROMA R. PAOLUCCI54 1952 VENEZIA D. GIORDANO 55 1953 ROMA R. PAOLUCCI56 1954 ROMA R. PAOLUCCI57 1955 ROMA R. PAOLUCCI58 1956 MILANO G. M. FASIANI59 1957 ROMA R. PAOLUCCI60 1958 GENOVA M. AGRIFOGLIO61 1959 ROMA P. VALDONI62 1960 NAPOLI E. RUGGIERI63 1961 TORINO A. M. DOGLIOTTI64 1962 ROMA P. VALDONI65 1963 MILANO G. OSELLADORE66 1964 ROMA P. VALDONI67 1965 PALERMO G. NICOLOSI68 1966 ROMA P. VALDONI69 1967 FIRENZE A. SEVERI70 1968 ROMA P. VALDONI71 1969 TORINO L. BIANCALANA72 1970 ROMA P. VALDONI73 1971 NAPOLI E. RUGGIERI74 1972 ROMA P. STEFANINI75 1973 MILANO G. MALAN76 1974 ROMA P. BIOCCA77 1975 BARI G. MARINACCIO78 1976 ROMA G. MARCOZZI79 1977 FIRENZE L. TONELLI80 1978 ROMA P. BIOCCA81 1979 CATANIA A. BASILE82 1980 ROMA P. BIOCCA83 1981 BOLOGNA L. FOSSATI84 1982 ROMA G.C. CASTIGLIONI

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Anno Sede Presidente

85 1983 PALERMO P. LIVOTI86 1984 ROMA G. MARCOZZI87 1985 TORINO F. MORINO88 1986 ROMA A. PUGLIONISI89 1987 NAPOLI G. ZANNINI90 1988 ROMA G. DI MATTEO91 1989 GENOVA A. RUFFO92 1990 ROMA V. SPERANZA93 1991 FIRENZE G. ALLEGRA94 1992 ROMA G. F. FEGIZ95 1993 MILANO U. RUBERTI96 1994 ROMA F. CRUCITTI97 1995 TRIESTE A. LEGGERI98 1996 ROMA E. SANTORO99 1997 PADOVA D. D’AMICO100 1998 ROMA G. RIBOTTA101 1999 CATANIA S. LATTERI102 2000 ROMA S. STIPA

XXI° Secolo103 2001 BOLOGNA D. MARRANO

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Cap. XXI

LE ALTRE SOCIETÀ CHIRURGICHE

Dieci anni dopo la fondazione della Società Italianadi Chirurgia avvenuta nel 1882, il fermento culturaleche l’aveva determinata riprende vigore e porta alla de-finizione scientifica di altri ambiti specialistici già ma-turi per una autonoma vita.

Nascono così nel 1891 la Società Italiana di Otorino-laringoiatria, nel 1892 quella di Ortopedia e Traumato-logia e quella di Ostetricia e Ginecologia.

Società Italiana di Otorinolaringoiatria. Venne uffi-cialmente costituita al Congresso dell’Associazione Medi-ci Italiani di Siena nel 1891 col nome di Società Italiana diLaringologia otologia e rinologia.

La prima riunione ha luogo a Roma nell’ottobre 1892ed è qui che, dal 24 al 28 ottobre, si tiene il 1° Congressosotto la presidenza di Vittorio Grazzi.

Il percorso successivo della Società può essere suddivi-so in quattro tappe:

Dal 1892 al 1913 è il tempo dell’affermazione e del con-solidamento della unitarietà specialistica della patologiadell’orecchio, naso e gola. L’insegnamento si diffonde nel-le varie sedi universitarie, la pratica in quelle ospedaliere.

Dal 1920 al 1938 si intensificano i rapporti tra la So-cietà Italiana e le consorelle straniere. La Società apre la

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collaborazione alle discipline cosiddette “affini”; il rap-porto con la Foniatria risale ai primi anni trenta.

Dal 1946 al 1975, dopo otto anni di interruzione del-l’attività scientifico-congressuale nasce il Gruppo OtologiOspedalieri Italiani che diventerà nel 1962 AssociazioneOtologica Ospedaliera Italiana. Nel 1961 la Società siestende anche nella denominazione alle Patologie Cervi-co-facciali.

Dal 1975 al 2000 avvengono modificazioni sostanzialidell’assetto societario. Nel 1976 nasce l’Associazione degliOtorinolaringoiatri Universitari. Al congresso di Bolognadel 1976, la Società si trasforma di nuovo e viene costitui-ta la Società Italiana di Otorinolaringoiatria e ChirurgiaCervico-facciale: le due componenti ospedaliera e univer-sitaria ne costituiscono le colonne portanti. Nel 1981 vienefondata la nuova rivista “Acta Otorhinolaryngologica Ita-lica” organo ufficiale di stampa della Società.

Nel 1992 in occasione del Centenario Sociale viene edi-to da D. Felisetti il volume “I cento anni della Otorinola-ringologia Italiana”.

Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia. Nel1891 un gruppo di chirurghi appassionati di patologia etraumatologia osteoarticolare e deformità muscolo-sche-letriche congenite propone la costituzione della SocietàOrtopedica italiana e ne traccia uno statuto che, nel1892, viene unanimamente approvato con alla presiden-za A. Gamba di Torino. A lui succedono, tra il 1893 e il1913, nomi illustrissimi della chirurgia italiana: T. Panze-ri, R.Galeazzi, A. Codivilla, V. Oliva, R. Alessandri ed al-tri.

Pietra miliare, manifesto indiscusso della Società e del-l’Ortopedia del XX° Secolo è il discorso di A. Codivilla,tenuto al 3° Congresso nel 1906, che definisce l’identità egli scopi della Società, sancendone il distacco o megliol’autonomia dalla Chirurgia Generale. La Società prendecorpo negli anni successivi e nel 1935 assume il nome at-tuale di Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia.

I nomi prestigiosi di R. Dalla Vedova, F. Delitala, C.Marino-Zuco, P. Del Torto, U. Camera, maestri nelle Scuo-le di Roma, Bologna, Torino, e tanti altri illustrano e fannogrande la Società al punto che nel 1936 è incaricata di or-ganizzare tra Bologna e Roma il Congresso Internazionale

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sotto la presidenza di Vittorio Putti.Nell’ultimo cinquantennio la Società raggiunge nuovi

traguardi con il miglioramento delle tecniche chirurgico-ortopediche e l’ampliarsi sempre maggiore dei centri or-topedici universitari e ospedalieri, animati da oltre 6000soci. Nascono oltre 24 Società superspecialistiche e grup-pi di studio e una attiva ed articolata associazione sinda-cale.

Alla presidenza della Società che conta 5000 soci si al-ternano per turni biennali un universitario ed un ospeda-liero; organo di stampa della Società è il Giornale italianodi Ortopedia e Traumatologia, fondato nel 1974 da Gior-gio Monticelli.

Nel 2000 si celebra l’85° Congresso Nazionale a Torinoper l’organizzazione di P. Gallinaro ed A. Salvi. UltimoPresidente Nazionale del XX° Secolo è Gianni Randelli diMilano dall’ottobre 2000 gli succede Guida di Napoli.

Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia. Si costi-tuisce il 24 novembre 1892 ed è eretta in Ente Morale conD.R. 24 dicembre 1928.

Viene fondata da Ercole Pasquali Direttore della Clini-ca Ostetrico-Ginecologica di Roma, che ne sarà Presidenteper i primi 14 anni.

Successivamente si alternano alla presidenza Mangia-galli, Pestalozza, Alfieri, Gaifani e Cova.

Dopo la seconda Guerra Mondiale, tra gli altri presie-dono la Società Tesauro di Napoli che fu Rettore a Napoli,Maurizio di Roma, Delle Piane di Torino, Cetroni, Quinto,Crainz, Panella, Danesino, Montemagno e negli ultimi an-ni V. Giambanco di Palermo e Carlo Romanini di Roma.

La Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia promuo-ve annualmente un Congresso Nazionale e simposi, corsi,convegni nazionali ed internazionali di interesse generalee settoriale. Attualmente i Soci iscritti alla Società sonocirca 6.000.

Nei primi decenni del XX° Secolo queste Società sivanno consolidando e si espandono sempre di più conpieno riconoscimento delle relative specialità nel conte-sto professionale, nelle Università e negli Ospedali. Ilprocesso di ulteriore frammentazione sembra fermarsi.

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Un tentativo nel 1908 di avere una Società Urologicanon ha sufficiente successo: i chirurghi generali seguita-no a gestire interamente l’ambito chirurgico, mantenen-do competenze anche nei settori già definiti della orto-pedia e della ginecologia.

La prima guerra mondiale blocca l’attività scientificaper lunghi anni ma non il progresso delle scienze medi-che che soprattutto in chirurgia deve cimentarsi con glienormi problemi che il conflitto propone sui campi dibattaglia.

Da quella accelerazione di sviluppo delle tecniche edelle conoscenze nasce definitivamente l’urologia e sisviluppa la chirurgia plastica.

Il Congresso della Pace, quello del 1919, viene cele-brato dalla Società Italiana di Chirurgia a Trieste ed èpresieduto da Giorgio Nicolich, Primario in quella cittàacquisita all’Italia e padre riconosciuto dalla urologiamoderna che ha quindi un momento di particolare ri-lievo. Così nel 1921 viene ufficialmente fondata la So-cietà Italiana di Urologia.

Società Italiana di Urologia. Muove i primi passi nel1908 ma è fondata a Napoli il 20 settembre 1921. Da alloratiene annualmente il proprio Congresso eccettuati gli annidella guerra mondiale celebrando di recente il 70°. Gli attidei Congressi sono pubblicati con regolarità e nel 1986prende il via la Rivista “Acta Urologica Italica” organo uf-ficiale della Società, bimestrale e bilingue, italiano e ingle-se. La Società organizza corsi di perfezionamento e parte-cipa alla attività internazionale in sede Europea e Mon-diale.

Società Italiana di Chirurgia Plastica. Viene fondata aRoma il 10 giugno del 1934 presso la Clinica Chirurgica,diretta da Roberto Alessandri, con il nome di Società Ita-liana di Chirurgia Riparatrice Plastica ed Estetica. Celebrail suo primo Congresso a Bologna nel 1935. Cambia trevolte denominazione: nel 1966 Società Italiana di Chirur-gia Plastica Ricostruttiva, nel 1976 Chirurgia Plastica e nel

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1986 quello attuale. Negli ultimi decenni è presieduta daUniversitari come G. Sanvenero Rosselli di Milano, A. Az-zolini di Parma, G. Micali di Catania, C. Dominici di Pe-rugia e da ospedalieri come E. Crispelle e L. Standoli diRoma, M. Masellis di Palermo.

Nel 2000 il 59° Congresso Nazionale ed al medesimotempo Roma è sede del Congresso Mondiale.

Le altre Società Scientifiche dell’area chirurgica ven-gono fondate nella seconda metà del XX° Secolo, di si-curo sotto la spinta di nuovi progressi, di nuove cono-scenze e di ulteriori possibilità tecniche acquisite, inparte sollecitate dalle travolgenti necessità della II guer-ra mondiale.

Nel 1948 nasce la Società Italiana di Chirurgia Tora-cica, nel 1950 quella di Neurochirurgia, nel 1963 quelladi Chirurgia Pediatrica, nel 1967 quella di ChirurgiaCardiovascolare che nel 1998 si separerà nelle due So-cietà di Chirurgia Cardiaca e di Chirurgia Vascolare in-fine, nel 1989 quella di Chirurgia Maxillo-facciale.

Società Italiana di Chirurgia Toracica. Nell’ottobredel 1948 a Bologna, su iniziativa di Pasquale Abruzzini,R. Paolucci, A.M. Dogliotti, G. Ceccarelli, P. Valdoni, A.Omodei-Zorini, V. Monaldi, L. Biancalana e V. Zandonini,nasce la Società.

Viene adottata come Rivista ufficiale “La Chirurgia to-racica” che era già stata avviata da Abruzzini che dellaSocietà fu Segretario per ben 37 anni. La Società tiene re-golarmente Congressi biennali pubblicandone gli atti. Al-l’inizio affrontò anche temi di chirurgia cardiaca, sino allafondazione della apposita Società, con la quale semprecercherà momenti collaborativi ed unitari, studiando an-che possibilità federative. Dal 1988 le due Società Cardio-vascolare e Toracica tengono Congressi congiunti. Nel2000 presieduta da Belloni di Milano, la Società Italiana diChirurgia Toracica terrà il suo Congresso Nazionale a Ve-rona organizzato da Calabrò, unitamente alla Cardiochi-rurgia.

Società Italiana di Neurochirurgia. È fondata il 25maggio 1948 in Torino. La fondazione viene formalizzata

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il 21 ottobre 1950. I Soci fondatori: G.M. Fasiani, G. Morel-lo, M. Quarti, U. Milletti, P.E. Maspes, U. Sacchi, E. Mise-rocchi, A. Chiasserini, F. Visalli. Il primo Presidente Gio-vanni Maria Fasiani, i consiglieri Angelo Chiasserini ePaolo Emilio Maspes, il segretario-tesoriere E. Miserocchi.La prima quota sociale viene stabilita in £. 3.000 annue.

Il I° Congresso della nuova Società si svolge nel 1951 aMilano, con i temi: le cordotomie spinali e gli aneurismiendocranici.

Nel 1951 la Società conta già 96 Soci effettivi, con unbilancio attivo di £. 11.938.

Nel dicembre 1954 si svolge a Roma, presso l’IstitutoRegina Elena, il V° Congresso Nazionale, con 38 tra rela-zioni e comunicazioni. Il tema principale l’anestesia gene-rale in Neurochirurgia. In quell’anno muore tragicamenteuno dei padri della neurochirurgia italiana: Marino Quar-ti Trevano, di Padova.

Nel 1957 viene deliberata la istituzione dell’OrganoUfficiale della Rivista: Minerva Neurochirurgica, che dal1973 è redatto in lingua inglese.

Sempre a Roma si svolge nel 1963 il II° Congresso Eu-ropeo di Neurochirurgia, con Presidente Pietro Frugoni,neurochirurgo del Regina Elena e Segretario BeniaminoGuidetti.

A partire dal 1951 si svolgono Congressi Nazionali an-nuali e si succedono 22 Presidenti con alternanza traOspedalieri e Universitari.

Nel 2000 il Congresso Nazionale si tiene a Milano conla Società che conta circa 700 soci effettivi. Il Presidente èG. Dorizzi di Varese.

Società Italiana di Chirurgia Pediatrica. Viene costi-tuita a Livorno il 24 febbraio del 1963 in una sala degliOspedali Riuniti da 36 soci di tutta Italia: da Roma, daNapoli, da Genova, da Ancona, da Firenze, da Catania, daPavia, da Bologna ed ovviamente da Livorno, che versa-no una quota di £. 10.000 ciascuno nelle mani di G.C. Pa-renti nominato Tesoriere. Eletti anche Presidente PasqualeRomualdi di Roma e Vicepresidente Francesco Soave diGenova. L’atto notorio quel giorno stesso viene firmatoper delega solo da Righini, Contini e Parenti, giacchè glialtri ripartono prima perché era tardi. Da allora la Societàcelebra regolari congressi annuali affermando l’autono-

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mia della specialità.

Società Italiana di Chirurgia Cardiaca. Viene fondatail 30 giugno 1967 nell’Aula della Clinica Chirurgica di Ro-ma e Pietro Valdoni ne è primo Presidente.

Quattro anni più tardi nel II° Congresso, dicembre1971, la denominazione viene cambiata in Società Italianadi Chirurgia Cardiaca e Vascolare, con alternanza delledue componenti alla Presidenza.

Tuttavia nel 1998, al XIX° Congresso di Pavia, è con-sensualmente decisa la separazione e la Società di Chirur-gia Cardiaca ritorna tale con la presidenza di Pietrangelidi Bologna.

Nel 2000 il XX° Congresso viene tenuto a novembre aVerona unitamente alla Chirurgia Toracica.

Società di Chirurgia Maxillo-Facciale. Nasce nel giu-gno 1989 a Genova dall’unione delle due Società Nazio-nali preesistenti ospedaliera e universitaria, già attive da-gli anni ’70, nate dalla volontà dei chirurghi interessati al-la patologia facciale che al tempo erano d’estrazione oto-rinolaringoiatrica, odontoiatrica e plastica.

La necessità di trattare in modo unitario queste patolo-gie ha portato alla creazione della chirurgia maxillo fac-ciale dapprima in ambito ospedaliero e poi in quello uni-versitario sino alla nascita di una propria Scuola di spe-cialità.

Nel Consiglio Direttivo, a norma di Statuto, sono pre-senti in egual numero universitari ed ospedalieri che si al-ternano nelle varie cariche. Il primo Consiglio ha avutouna copresidenza con Costantino Giardino e Pio Arlotta esuccessivamente si sono alternati un presidente universi-tario e uno ospedaliero.

Segretari della Società sono stati Giorgio Iannetti dal1989 al 1995 e Pietro Bormioli dal 1995. La Società è com-posta da circa 450 soci. Pubblica una propria Rivista inti-tolata “Rivista Italiana di Chirurgia Maxillo Facciale” edi-ta dalla Calderini di Bologna.

Società Italiana di Chirurgia Vascolare ed Endova-scolare. È nata nel 1998 in seguito alla scissione dalla So-cietà Italiana di Chirurgia Cardiaca all’interno della qualeera rappresentata dal 1971. Primo Presidente F. Benedetti

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Valentini di Roma.

Infine, un rilievo a parte merita l’oculistica, i cui datistorici hanno un particolare interesse giacchè si rivolgo-no assai indietro nel tempo.

Società Oftalmologica Italiana. Una prima associa-zione tra gli Oftalmologi Italiani viene costituita nel 1879con la denominazione di Associazione Italiana di Oftal-mologia. Esistono documenti che un Congresso vennetenuto a Venezia dal 26 al 29 agosto del 1895.

Con il R.D. del 9 luglio 1924 l’associazione acquisisce ilriconoscimento come Ente Morale con la denominazioneSocietà Italiana di Oftalmologia. Ne furono Soci Fondatorigran parte dei Caposcuola protostorici della attuale Oftal-mologia accademica Italiana: Giuseppe Alberotti, Amilca-re Bietti, Salvatore Calderaro, Donato Cattaneo, GiuseppeCirincione, Antonio Contino, Alfredo Cucco, GiuseppeDe Vincentis, Camillo Gallenga, Giuseppe Gonnella, Gi-rolamo Lo Cascio, Luigi Maggiore, Giuseppe Ovio, Giaco-mo Streiff.

Il Congresso Nazionale tenutosi il 22-24 ottobre 1930 èdefinito nel volume degli Atti del Congresso come VI°Congresso dalla fondazione e XXII° Congresso della Sto-ria della Oculistica Italiana.

Il R.D. 30 marzo 1931 porta con ogni verosimiglian-za la prima delle modifiche dello Statuto societario conl’adozione della denominazione di Società Oftalmolo-gica Italia. Nel tempo sono diverse le modifiche dellostatuto per giungere a quella definita con D.M. del 15maggio 2000 che porta alla denominazione di SocietàOftalmologica Italiana- Associazione Medici OculistiItaliani.

Ne sono stati Presidenti i più bei nomi della Oftalmo-logia Italiana: Giuseppe Cirincione, Giuseppe Ovio, Lui-gi Maggiore, Filippo Caramazza, Alfredo Santanastaso,Giovanni Battista Bietti, Mario Maione, Giuseppe Scude-ri, Bruno Boles Carenini, Renato Frezzotti. Il Presidenteattualmente in carica nel 2000 è Mario Zingirian di Ge-nova.Nel 1999 le Società afferenti alle 13 Specialità Chirur-

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giche costituenti la relativa Area Chirurgica, previstadalla legge 484/1997, danno vita alla Federazione delleSocietà Chirurgiche per la tutela della professione ditutti gli specialisti in maniera unitaria. Il Consiglio Di-rettivo è costituito dai Presidenti in carica o da loro de-legati. Primo Presidente è stato eletto Massimo Gazza-niga di Genova, Chirurgo Generale, già Presidente del-la Società Italiana di Chirurgia. L’atto notorio viene fir-mato a Roma il 12 marzo 1999.

Ma le attività culturali Chirurgiche oltre che produr-re tante qualificate Società Specialistiche Nazionali,hanno dato vita ad Accademie locali di grande presti-gio.

Da sempre nelle grandi Scuole, la cultura medicaaveva trovato modo di esprimersi autonomamente.Valga ad esempio la secolare Accademia Lancisiana diRoma, ove hanno lasciato il segno della loro partecipa-zione tutti i medici illustri della medicina moderna econtemporanea.

Per tutto il secolo XX°, iniziative locali si sono susse-guite in tutte le grandi città e nelle regioni.

Molte di esse hanno avuto vita breve ma a partiredagli anni ’30 alcune di esse sono sopravvissute ed a fi-ne secolo quasi ogni regione ha una proficua Accade-mia Chirurgica.

Le più antiche delle Società Locali sopravvissute so-no la Società Piemontese di Chirurgia (1931) e quellaLombarda (1934) entrambe avviate da Mario Donatiche in successione fu Clinico Chirurgo prima a Torino epoi a Milano. Donati nella sua precedente sede di Pado-va era stato Presidente della S.I.C.. Nel 1934 nasce laSocietà Tosco-Umbra e nel 1939 su iniziativa di RaffaelePaolucci, che poi sarà Presidente della S.I.C nasce la So-cietà Romana di Chirurgia.

Le altre Accademie e Società locali vengono fondatedopo la Seconda Guerra Mondiale. Nel 1947 la SocietàNapoletana e la Triveneta, nel 1950 la Siciliana, nel 1960

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la Società Ligure e venti anni più tardi, nel 1980, la As-sociazione Calabrese, nel 1982 la Società Emiliano-Ro-magnola, nel 1983 la Associazione Chirurgica Abruzze-se, nel 1999 quella Pugliese. E seppure in maniera di-scontinua vivono una Società Sarda e l’Accademia delPiceno. Inoltre svolgono attività culturale dal 1985 leSezioni Regionali Ospedalierie dell’ACOI.

Società Piemontese di Chirurgia. Il 18 gennaio 1931nell’aula della Clinica Chirugica della Regia Università diTorino, in occasione di un Congresso di Chirurghi delNord-Italia, viene costituita la Società Piemontese di Chi-rurgia.

L’iniziativa è di Mario Donati e i Soci Promotori sonoGiuseppe Fantino, Eugenio Delfino, Luigi Bobbio, Deme-trio Bargellini, Guido Bertone, Giovanni Massa, OttorinoUffreduzzi, Ottavio Cipollino, Andrea Marro, Mario Fasa-no, Otello Finzi, Ugo Camera, Giuseppe Serafini e LuigiStropeni.

Primo Presidente viene nominato Mario Donati, Diret-tore della Clinica Chirurgica Torinese. La Società, come silegge nel primo Statuto, nasce come “Associazione civile-culturale con indirizzo eminentemente pratico” con scopo“lo studio e il progresso della chirurgia nelle sue variebranche”.

Numerosi i Soci corrispondenti stranieri, tra i quali H.Cushing, F. De Quervain, H. Haberer, R. Leriche, W.Mayo, L. Ombredanne, A. Wertheim, come si legge nelprimo volume del “Bollettino e Memorie della SocietàPiemontese di Chirurgia” pubblicato nel 1931.

Da molti anni vengono fatte annualmente riunionicongiunte con Società Chirurgiche affini come quelle diLione, la Società Triveneta, la Società Lombarda, la So-cietà Ligure anche in sedi diverse da quella torinese. Ri-mane tuttavia l’appuntamento mensile del mercoledì, chenon si è mai interrotto, nella Sede originaria, l’Aula dellaClinica Chirurgica dell’Università di Torino, nella quale siriuniscono regolarmente gli oltre 150 Soci provenienti datutto il Piemonte.

Nel 1991 cessa la pubblicazione del Bollettino della So-cietà e le Relazioni presentate nelle varie Sedute, vengonopubblicate dalla Minerva Chirurgica.

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Dal lontano 1931 molti Presidenti si sono succeduti,con ritmo biennale, tra questi O. Uffreduzzi, A.M.Dogliot-ti, L. Biancalana, C. Colombo, F. Morino, A.E. Paletto epiù recentemente E. Masenti, S. Abeatici, G. Guglielmini,l. Caldarola, A. Mussa, P. Calderini, N. Massaioli.

Società Lombarda di Chirurgia. Le prime notizie dellaSocietà Lombarda di Chirurgia risalgono al lontano 1934,quando Mario Donati convoca la prima riunione societa-ria tra le mura dell’Ospedale Maggiore Policlinico di Mi-lano. È lo stesso Donati che fonda la Rivista “Archivio Ita-liano di Chirurgia”, quale pubblicazione ufficiale degliAtti della Società Lombarda di Chirurgia, a cura dell’Edi-tore Cappelli di Bologna. Subito dopo la guerra è GianMaria Fasiani che rileva la presidenza della Società finoalla sua morte nel maggio del 1956. Egli fa rifiorire l’atti-vità scientifica organizzando sedute di comunicazioni li-bere ogni due settimane, dalla fine di ottobre ai primi digiugno, coinvolgendo in modo particolare i giovani medi-ci in formazione. Riesce inoltre a stampare in proprio ilBollettino della Società chiamato “Chirurgia”. Dopo di luiinizia il periodo dell’alternanza biennale alla presidenzadi un clinico chirurgo milanese ed uno pavese. Il primo èGuido Oselladore, seguito da Francesco Paolo Tinozzi,Direttore e Prorettore Vicario dell’Università di Pavia,quindi Armando Trivellini, Giuseppe Salvatore Donati,Edmondo Malan. In questo periodo sono introdotte, ac-canto alle consuete sedute ordinarie, delle Conferenzemonotematiche nelle quali vengono invitati prestigiosiesperti internazionali a tenere Letture Magistrali. ConMalan e, agli inizi degli anni ’70, con Luigi Gallone sonoinoltre organizzati Congressi Internazionali congiunta-mente alle Società belga e francese di chirurgia a Bruxel-les, Strasburgo e Parigi.

Con Gallone, autore del celebre trattato di patologiachirurgica, si realizza la rivista “Chirurgia-Archivio tri-mestrale” a cura della Casa Editrice Ambrosiana di Mila-no, per la pubblicazione degli Atti della Società. Sempresotto la sua Presidenza il 27 aprile 1979, congiuntamentead altri 18 chirurghi lombardi, nella sede della I° ClinicaChirurgica del Policlinico Universitario di via FrancescoSforza 35 a Milano, viene firmato lo Statuto societario del-l’Associazione culturale denominata “Società Lombarda

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di Chirurgia”.È merito di Piero Pietri, Presidente nel quadriennio

1994-98, di ricercare con tenacia l’unità nel territorio Lom-bardo, coinvolgendo i più giovani, desiderosi di forma-zione, e i più maturi, appassionati per le occasioni di in-contro e di confronto, tracciando una prospettiva di alter-nanza, universitaria e ospedaliera, alla Presidenza dellasocietà. Per l’ultimo biennio 1998-2000, è stato eletto, pri-mo ospedaliero, Carlo Corsi.

Società Tosco-Umbra di Chirurgia. Viene fondata nel-l’ottobre del 1934 in Firenze sotto la Presidenza di Dome-nico Taddei, Direttore della Clinica Chirurgica dell’Uni-versità. Sin dall’inizio nella Società confluiscono tutte lecomponenti sia Ospedaliere che Universitarie della Chi-rurgia delle due regioni Toscana ed Umbria.

Con fervore Taddei promuove una serie di incontri edadunanze che inizialmente si alterna con cadenza mensilenelle due regioni. Il periodo bellico provoca una lungastasi dell’attività scientifica e culturale della Società la cuiripresa avviene pienamente solo nell’Anno Accademico1946-47.

Sin dall’inizio, cioè nell’anno 1935, viene fondata la ri-vista ufficiale della Società, denominata “Bollettino e Me-morie della Società Tosco-Umbra di Chirurgia”, con rego-lare stampa mensile, ove trovano pubblicazione tutti icontributi delle adunanze scientifiche mensili ed i reso-conti di avvenimenti importanti della vita societaria. A di-rigere la rivista si alternano vari redattori fra cui emergela figura di Giovanni Cavina, che ne cura a lungo la stam-pa.

La pubblicazione della rivista è sospesa nel 1980; neviene fondata una nuova da Luigi Tonelli, con un comita-to di presidenza, uno di redazione ed uno scientifico in-ternazionale. La nuova rivista viene chiamata “FlorenceJournal of Surgery” e cessa la pubblicazione del 1988. Datale data l’organo ufficiale di stampa della Società Tosco-Umbra di Chirurgia è “Ospedali d’Italia Chirurgia”, pre-stigiosa rivista della Chirurgia Ospedaliera fiorentina editaliana fondata da Tommaso Greco nel 1947.

Momenti significativi nella vita societaria sono l’orga-nizzazione di congressi internazionali come quelli sullachirurgia polmonare in occasione del cinquantenario del-

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la prima pneumonectomia, sulla cardiochirurgia nel 1983,sulla chirurgia d’urgenza nel 1988.

Le sedute scientifiche hanno cadenza mensile. La ten-denza generale è stata sempre quella di incentivare i gio-vani Ricercatori che riferiscono alle adunanze l’esperienzapersonale e delle Scuole di appartenenza nell’ambito disedute politematiche.

Alla presidenza della Società Tosco-Umbra di Chirur-gia si sono succeduti negli ultimi cinquanta anni tutti inomi più prestigiosi della Chirurgia universitaria edOspedaliera delle regioni Toscana ed Umbria: Muntoni,Cavina, Mangione, Greco, Fedeli, Severi, Tonelli, Allegra,Massimo, Cortesini, Boffi e Moggi. Il Presidente in caricaper il biennio 2000-2001 è Domenico Borrelli di Firenze.

Società Romana di Chirurgia. Nasce per iniziativa diRaffale Paolucci con una lettera inviata in data 5 gennaio1939 a tutti i chirurghi residenti nell’Italia Centrale. Ri-spondono aderendo all’iniziativa 180 colleghi.

Il giorno 27 febbraio 1939 viene diramato da Paoluccil’invito ad una riunione per la costituzione della Societàche si tiene il giorno 11 marzo alle ore 16,30 nell’aula dellaClinica Chirurgica.

Partecipano alla convocazione 80 colleghi. Siedono allaPresidenza Paolucci, Dalla Vedova e Ferretti. I convenutisono considerati Soci Fondatori. Viene approvato lo statu-to della Società con sede presso la Clinica Chirurgica dellaRegia Università di Roma nel Policlinico Umberto I.

Il 17 marzo 1939, Raffaele Bastianelli declina l’incaricoper la Presidenza e il Ministero dell’Educazione Naziona-le nomina Riccardo Dalla Vedova.

La prima seduta si tiene sabato 6 maggio 1939 alle ore18.00 nell’aula della Reale Clinica Chirurgica.

Lo Statuto della Società viene successivamente modifi-cato negli anni ’70 essenzialmente per abrogare le normevigenti nell’anno della fondazione e relative agli obblighidi controllo della Società da parte del competente Mini-stero. Lo Statuto prevede un Presidente in carica per unbiennio.

Tra i Presidenti della Società: P. Valdoni, P. Stefanini, P.Biocca, G. Marcozzi, G. Fegiz, S. Tagliacozzo, G. Di Mat-teo, S. Stipa, V. Speranza, V. Martinelli, G. Ribotta, R. Corte-sini, F.P. Campana, V. Stipa, M. Carboni, seguendo l’anzia-

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nità di ruolo dei clinici chirurghi della Sapienza.La Società tiene normalmente una seduta scientifica

ogni mese nel periodo settembre-luglio.

Società Napoletana di Chirurgia. Viene fondata a Na-poli subito dopo la fine della II guerra mondiale per ini-ziativa di Luigi Torraca, seguendo una tradizione cultura-le non formalizzata che aveva avuto inizio tra le dueguerre. Del gruppo di Chirurghi che collabora con Torra-ca, Nicola Caprioli nella veste di Socio Fondatore e Fran-cesco Buonomo La Rossa che della Società è il primo Se-gretario.

Tra i Presidenti Ettore Ruggieri, Antonio Lanzara, Giu-seppe Zannini, Beniamino Tesauro, Rocco Docimo, Fran-cesco Mazzeo, Raffaele Jovino, Giuseppe Califano, GuidoMosella, Giovanni Persico e tra gli Specialisti gli ortopedi-ci Pasquale Del Torto e Nicola Misasi ed il chirurgo toraci-co Giovanni Ferrante. Ultimo in ordine di tempo AndreaRenda, Presidente nel 2000.

La fortuna incontrata dalla Società, durante la sua or-mai lunga vita, è testimoniata dal numero dei Soci che,dalle poche decine degli anni della Fondazione, ha rag-giunto varie centinaia a fine Secolo.

La vita associativa è scandita da periodiche riunioni,nel secondo martedì di ogni mese, secondo un program-ma definito dal Consiglio Direttivo. Tali riunioni possonosvolgersi sotto la forma di incontri monotematici, simpo-si, tavole rotonde, conferenze. Largo spazio viene lasciatoper la presentazione di comunicazioni a tema libero daparte di giovani Chirurghi.

Il Consiglio Direttivo, eletto ogni due anni dalla As-semblea dei Soci, prevede al fianco del Presidente quindi-ci Consiglieri, dei quali quattro con incarico di Vicepresi-dente, scelti nel mondo Universitario ed in quello Ospe-daliero, sia per la branca della Chirurgia Generale che perle Chirurgie Specialistiche oltre che per le discipline checome la Anestesiologia o la Radiologia da sempre affian-cano la attività chirurgica.

Lo Statuto ed il Regolamento che disciplinano la vitadella Società, la cui sfera di influenza si estende su tutta laCampania, prevedono, altresì, il conferimento della quali-fica di Socio Corrispondente ai Chirurghi di altre regionio di altre nazioni e quella di Socio Onorario ai più anziani

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e fedeli membri della associazione.Per stimolare la attività scientifica dei giovani chirur-

ghi e vivacizzare il dibattito all’interno della Scuola Chi-rurgica Campana, la Società sin dalla sua fondazione haprevisto la assegnazione di premi. Hanno visto così la lu-ce il Legato Caprioli, il Premio Milone e, più recentemen-te, il Premio istituito alla memoria di Alfonso Trojanello.

Società Triveneta di Chirurgia. Viene fondata nel1947 da Galeno Ceccarelli, clinico chirurgo di Padova, chene affida la Segreteria al suo allievo Pier Giuseppe Ceve-se. Il Senatore David Giordano di Venezia viene nominatoPresidente Onorario.

La Società raccoglie intorno a se rapidamente tutti ichirurghi del Nord Est d’Italia ed avvia una intensa atti-vità culturale. Ceccarelli ne rimane Presidente per 14 annisino al 1961. Dopo di lui si succedono alla Presidenza, tragli altri, Pettinari, Tantini, Ventura, Pezzuoli, Dagradi,Tommaseo-Ponzetta, Monti, Carlon, Vecchioni, Visconti,Leggeri, Zilli, Lise, Eccher, D’Amico.

Ha svolto anche attività di relazioni internazionali enazionali, ultima in ordine di tempo il gemellaggio con laSocietà Siciliana di Chirurgia nel 1997.

Società Siciliana di Chirurgia. È costituita a Messinail 12 maggio del 1950 da Raffaele Brancati, Saverio Latterie Luigi Carmona. L’emblema disegnato al momento dellanascita e che a tutt’oggi la distingue è una Trinacria alatasormontata da due serpenti attorcigliati ad un bastone.

Fin dalla sua fondazione la Società rappresenta motivodi aggregazione e di scambi scientifico-culturali fra tutti ichirurghi siciliani e a guidarla sono in successione profes-sori di Chirurgia delle tre Università dell’isola e nell’ulti-mo ventennio: G. Barresi, P. Li Voti, G. Carbone, U. Bran-cato, P. Bazan, S. Latteri.

La Società è diretta da un Consiglio Direttivo che restain carica per un triennio. Il Presidente è eletto con vota-zione interna dei componenti del Consiglio. La Società siriunisce in seduta ordinaria almeno due volte l’anno epromuove manifestazioni congressuali o di aggiornamen-to scientifico.

I presidenti che si sono susseguiti a dirigere la Societàhanno cercato di improntare i loro triennati con nuove

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idee scaturite dalla loro personalità. Piero Bazan ideò gliincontri itineranti in Tunisia, Malta e Marocco, con l’obiet-tivo di consolidare i rapporti socio-culturali con i Paesiafricani che si affacciano sul Mediterraneo. Saverio Latteriha dato vita alla pubblicazione di un Bollettino a cadenzaquadrimestrale che viene inviato a tutti i Soci, nonché algemellaggio con la società Triveneta di Chirurgia.

Società Ligure di Chirurgia. In data 11 marzo 1960 al-le ore 16.30 si costituisce in Genova nei locali della ClinicaChirurgica dell’Università di Genova. Il primo Presidentedella Società è Mario Agrifoglio, Clinico Chirurgo dell’U-niversità.

Si succedono alla Presidenza: Malan, Battezzati, Nico-lich, Tosatti, Ruffo, Dachà, Spagliardi, Mattioli, Becchi. Ol-tre alla ordinaria attività di incontro e confronto tra i Soci,la tradizione della Società è anche improntata alla parteci-pazione di ospiti illustri. Tra gli altri intervengono su in-vito alle sedute sociali: Allison, Basile, Biancalana, Bracci,Carlon, D’Amico, DeBakey, Dos Santos, Fegiz, Fontaine,Garavoglia, Lanzara, Mallet-Guy, Martorell, Mason, Mas-saioli, Peracchia, Pezzuoli, Ruggieri, Santoro, Stefanini, S.Stipa, Valdoni, Vecchioni, Veronesi.

La Società ha stabilito rapporti molto costruttivi con leSocietà Regionali consorelle, organizzando riunioni inter-regionali in sede e fuori sede.

L’afferenza alla Società di Chirurghi Generali di estra-zione universitaria ed ospedaliera ed anche di chirurghispecialistici ha contribuito ad amalgamare interessi tal-volta divergenti tra le varie categorie.

Associazione Calabrese di Scienze Chirurgiche. Fon-data nel 1980, si caratterizza per la multidisciplinarietà,annoverando tra i suoi iscritti medici calabresi per nascitao residenza, appartenenti a diverse specialità della praticachirurgica.

Il Comitato Direttivo è composto dal Presidente e dadue membri per ciascuna provincia, eletti nell’ambito delCongresso regionale che non sono rieleggibili nel bienniosuccessivo. Per quanto attiene all’attività scientifica, alPresidente è demandata l’organizzazione del CongressoRegionale mentre ad ogni componente del Comitato Di-rettivo compete l’organizzazione, a livello locale, di un in-

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contro nel corso del biennio.L’Associazione è stata presieduta in successione da A.

Petrassi, S. Zampogna, E. Rocca, F. Rombolà, M. Grasso,P. Lanza, F. Vena, N. Alberti, F. Borrello, U. Galasso. Leriunioni scientifiche puntualmente organizzate ed il con-gresso in particolare, hanno rappresentato un momentodi crescita molto importante sia per i rapporti umani cheprofessionali ed hanno visto sempre partecipazioni nu-merose e qualificate, con ospiti illustri non solo in ambitonazionale.

Caratteristica sociale è la nomina di Soci Onorari so-prattutto tra i calabresi che si sono distinti operando in al-tre parti d’Italia come Camminiti, Docimo, Cordiano, San-toro, Ziparo.

Società Emiliano Romagnola di Chirurgia. È fondataa Bologna nel 1982 da Domenico Marrano, Ippolito Doni-ni ed Everardo Zanella, allo scopo di promuovere, in am-bito regionale, il progresso e l’aggiornamento della Chi-rurgia sia generale che specialistica.

Alla Presidenza della Società vari Chirurghi della re-gione: nei primi due mandati triennali Domenico Marra-no, poi Pierangelo Goffrini, Paolo Casolo, Ippolito Donini,Antonio Vio. L’attività societaria si basa su riunioni scien-tifiche mono e pluritematiche sui principali temi di attua-lità sia di chirurgia generale che specialistica, tenute in va-rie sedi della regione, con cadenza di solito trimestrale.

Dal 1983 sono state organizzate 39 riunioni e sono sta-te patrocinate dalla Società oltre 30 manifestazioni scienti-fiche come congressi regionali o interregionali, corsi diaggiornamento o congressi nazionali che hanno avutoluogo in Emilia Romagna. Sono state inoltre organizzateriunioni congiunte con altre Società Regionali: nel 1986con la Società Triveneta di Chirurgia, nel 1988 con la So-cietà Lombarda di Chirurgia, nel 1991 con la Società Pie-montese di Chirurgia e nel 1993 con la Società Ligure diChirurgia.

Dal 1984 La Società Emiliano Romagnola di Chirurgiapubblica una Rivista quadrimestrale “Chirurgia Oggi”,organo ufficiale della Società, fondata e diretta da Dome-nico Marrano.

Società Chirurgiche in Abruzzo. In Abruzzo, nel do-poguerra, erano state fondate una Società medico-ospeda-

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liera Abruzzese, voluta da P. Stefanini con sede a l’Aquila,Ospedale S. Salvatore, ove fece un primo congresso nelgiugno 1946, ed una Società di Chirurgia Abruzzese diret-ta da Cermenati di Teramo e da Scollo di Pescara, ma eb-bero entrambe vita breve. Fino agli anni ’70 la Società diChirurgia Umbria Marche e Abruzzi, originariamentefondata ed animata da Stefanini, ha convogliato le espe-rienze e la ricerca clinica di molti chirurghi Abruzzesi.

Il 12 novembre 1981 Augusto Pomidori, chirurgo del-l’ospedale di Popoli, costituisce l’Associazione ChirurghiOspedalieri d’Abruzzo che dal 1993 diviene AssociazioneChirurghi Ospedalieri ed Universitari d’Abruzzo con pre-sidenza alternata, ogni due anni, tra universitari ed ospe-dalieri.

L’Associazione svolge attività intensa e continua conuna media iniziale di circa tre riunioni regionali all’anno,poi ridotte a due ed infine a una dopo la costituzione del-l’ACOI regionale. È stata raggiunta la cifra di oltre 40 con-gressi, l’ultimo dei quali a L’Aquila nel novembre 1999,con Presidente G. Citone.

Accademia Pugliese di Chirurgia. Nel 1925 vienecreata a Bari l’Università Adriatica con Facoltà di Medici-na. In seguito sono costituite le Società Scientifiche regio-nali, prima la Società Apulo-Lucana di Chirurgia, fondatada R. Redi, e poi la Società Chirurgica Ospedaliera Pu-gliese per iniziativa di Alberto De Blasi, entrambe si esau-riscono in alcuni anni.

Nel dicembre 1999 è costituita per iniziativa di NicolaCatalano l’Accademia Pugliese di Chirurgia. Catalano neha la Presidenza e promuove le prime iniziative: un con-vegno sul cancro della tiroide ed un corso di aggiorna-mento sulle nuove funzioni gestionali del chirurgo, connotevole partecipazione dei chirurghi della regione.

La Riforma Ospedaliera voluta dal Ministro Mariot-ti, diventata legge nel 1968 e 1969, produsse una verarivoluzione nella organizzazione degli Ospedali, nonpiù casuale e frutto di libere scelte e limitate possibilità,ma vere e proprie strutture di assistenza debitamenteprogrammate ben attrezzate quanto a personale e stru-mentario.

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Gli Ospedali pubblici divennero un punto di riferi-mento importante e qualificato per tutti gli ammalati,soppiantarono le Case di cura private e si spinsero acompetere con i Policlinici Universitari. Le ChirurgieOspedaliere mantennero le proprie caratteristiche dipronto soccorso ed urgenza ma via via acquisirono unasempre maggiore casistica di chirurgia di elezione eprodussero Sezioni e Divisioni di specialità.

A questa crescita professionale degli Ospedali, si as-sociò l’elevazione del livello culturale dei medici Ospe-dalieri e delle loro possibilità e aspirazioni di partecipa-zione scientifica.

Risorsero così le Associazioni Ospedaliere che giànegli anni ’50 e ’60 avevano tentato di organizzarsi ecrescere: in chirurgia nacque l’ACOI.

Associazione Chirurghi Ospedalieri Italiani(A.C.O.I.). Viene fondata nel 1981 con lo scopo di riunire iChirurghi non Universitari, di promuovere tra loro il con-fronto delle esperienze professionali, di tutelarne l’imma-gine ed il lavoro Ospedaliero.

Al primo Congresso a Milano intervenne anche ungrande chirurgo francese, Mercadier di Parigi ma i pre-senti non furono più di trenta.

Negli anni successivi l’Associazione fu molto attiva,promosse iniziative ovunque in Italia creando Sezioni Re-gionali, avviò Scuole di Perfezionamento, Borse di Studioin Italia, viaggi di studio all’estero, programmi multicen-trici di ricerca, pubblicò una propria Rivista Scientifica edun proprio Bollettino di informazioni.

Fu presieduta, nei primi due trienni, da Raul de Nun-no di Milano che ne era stato il fondatore e poi da DanteManfredi di Roma, anche lui fondatore. In seguito si suc-cedettero alla Presidenza Massimo Gazzaniga di Genova,Lamberto Boffi di Firenze, Eugenio Santoro di Roma, An-tonio Petrassi di Cosenza e Luigi Forlivesi di Rimini. LaSegreteria fu tenuta nei primi dieci anni da Eugenio San-toro ed in seguito da Franco Scutari. Il numero dei Socicrebbe progressivamente sino a superare i quattromila. Diessi Gazzaniga e Santoro furono eletti alla Presidenza del-

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la Società Italiana di Chirurgia.La nascita dell’ACOI fu avversata dal mondo Univer-

sitario e dalla stessa Società Italiana di Chirurgia. Per ilSecondo Congresso fu scelta Roma e la Presidenza fu affi-data ad Eugenio Santoro. E fu coniato il motto che accom-pagnerà l’Associazione in tutta la sua attività per tutto ilSecolo: “Esiste una grande Scuola chirurgica italiana. Esi-ste anche una gloriosa tradizione ospedaliera: ambizionedell’ACOI è di esserne la voce”. Per l’organizzazione diquel Congresso fu costituito un Comitato con altri Prima-ri romani, P. Mascagni del “S. Filippo Neri”, DomenicoEttorre del “S. Camillo”, Rodolfo Porzio del “S. Eugenio”e Norberto Campioni del “Regina Elena”, allora aiuto diManfredi.

Si decise di chiedere il patrocinio alla SIC presiedutada P. Biocca, di cui erano note alcune asprezze del caratte-re. La lettera di richiesta fu portata a mano da Porzio, cheera stato con Biocca nei suoi anni universitari, e che fu ac-compagnato da Ettore Spagliardi di Genova, allora mem-bro del Direttivo della SIC. La risposta di Biocca fu nega-tiva: consigliò all’ACOI di fare Corsi di Aggiornamento enon Congressi; così si allargò il fossato tra Ospedali eUniversità.

L’anno dopo la situazione peggiorò ancora. RaccontaSpagliardi: “Nel febbraio 1984 a Milano durante il Con-gresso dell’International College si tenne una riunionedel Direttivo SIC. Il Presidente Biocca con voce adiratariferendosi a me, chiese a tutti i membri del Direttivo senon ritenessero vergognoso che un rappresentante dellaSIC partecipasse quale relatore ad un Congresso ACOI(Firenze, Presidente Boffi), Congresso del quale proprioquel giorno erano comparse le locandine. Ed aggiunseche l’ACOI non aveva diritto di esistere, perché nullarappresentava. Per inciso le uniche voci in mio favorefurono quelle di Luigi Zilli e di Giorgio Di Matteo. Io ri-sposi che, dovendo scegliere fra SIC e ACOI, sarei statocostretto a dimettermi da Consigliere SIC, specificandoperò ai Chirurghi Ospedalieri che avevano contribuitoalla mia elezione, il perché delle dimissioni. E tutto sicalmò”.

In seguito la ragione prevalse. Gli ospedalieri conflui-rono con entusiasmo nella loro Associazione conferendolegrande valenza. Aprirono progressivamente le porte alla

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partecipazione universitaria, seppure limitata, considera-rono sempre la Società Italiana di Chirurgia come il refe-rente naturale per la dottrina ed ad essa offrirono grandecollaborazione e grandi energie. Così per lunghi anni“scoppiò” la pace.

A partire dal 1992 si susseguono nuovi provvedi-menti legislativi di riforma firmati dai Ministri dell’e-poca, prima Francesco De Lorenzo, poi Maria Pia Gara-vaglia ed Elio Guzzanti, infine Rosy Bindi. C’è un ritor-no al privato come forma organizzativa con l’azienda-lizzazione e come sistema economico basato sulla com-petizione e sul mercato. Conseguentemente la Sanitàprivata si demarca come soggetto protagonista, erogan-te assistenza alla pari con Università e Ospedali. Ed ichirurghi che vi lavorano si riuniscono separatamente,fondando a Napoli nel 1999 la Società Italiana di Chi-rurgia dell’Ospedalità Privata con primo PresidenteMario Delle Piane di Torino.

Infine una particolare nota merita l’iniziativa deigiovani chirurghi di tutte le specialità che hanno datovita ad una propria e peculiare Associazione. L’iniziati-va davvero straordinaria, ha il merito dell’originalità,per essere la prima conosciuta in tutto il XX° Secolo edha già superato i dieci anni di vita.

Società Polispecialistica Italiana dei Giovani Chirur-ghi (S.P.I.G.C.). Su proposta di due giovani chirurghi na-poletani, Marco De Fazio e Ludovico Docimo, e di Roy deVita, chirurgo plastico romano, nasce l’11 febbraio 1987, laSocietà Polispecialistica Italiana dei Giovani Chirurghicon l’intento di riunire i chirurghi italiani con meno di 40anni di età.

La S.P.I.G.C. ha per scopo la promozione e l’organizza-zione di attività scientifiche e di ricerca, che vedono in pri-mo piano giovani chirurghi generali e specialisti, nell’etàdella formazione professionale, interessati allo sviluppo eal progresso delle scienze chirurgiche, mantenendo un ade-guato equilibrio tra le componenti universitarie, ospedalie-

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re, private e convenzionate, rappresentando una palestradi attività congressuale e scientifica.

Per tradizione la Società promuove un Congresso Na-zionale annuale in primavera molto partecipato, propo-nendo e sviluppando tematiche polispecialistiche nellediverse sessioni. Oltre alla cura del Congresso Nazionale,la Società organizza e promuove attraverso i suoi Socigiornate monotematiche regionali, con pubblicazione diuna collana di volumi di aggiornamento.

Sono stati presidenti: Marco De Fazio (Napoli), MarcoFilauro (Genova), Ludovico Docimo (Napoli), AlessandroBaisi (Milano), Antonio Ambrosi (Bari), Giampiero Cam-panelli (Milano), Antonio Crucitti (Roma). Sono stati Se-gretari Generali: Roy de Vita (Roma), Bruno Amato (Na-poli), Giuseppe Galloro (Napoli), Antonello Trecca (Ro-ma). Sono stati organizzati 13 congressi Nazionali: quellodel 2000 a Madonna di Campiglio

Ma il progresso delle conoscenze ha determinato lademarcazione di ambiti ulteriori. Questi non possonoessere intesi come frammentazione ma come sviluppiprofessionali e culturali inevitabili ed anzi auspicabili.Non tutti naturalmente resistono al tempo ma ogni ten-tativo è meritevole di attenzione.

Anche la tecnologia ha prodotto aggregazioni cultu-rali sotto forma di vere Società o semplici gruppi di stu-dio la cui funzione di esplorare possibilità e confinispeciali è talvolta risultata utile e preziosa.

Infine le Società Internazionali hanno proposto lacreazione di Capitoli Nazionali la cui sostanziale fina-lità è quella di favorire il diffondersi della cultura oltrel’ambito nazionale, nel confronto delle conoscenze enell’incontro tra specialisti, ovunque nel Mondo.

La elencazione di queste Società, Associazioni,Gruppi di studio, Capitoli Nazionali, non può che esse-re parziale ma certamente quelli che nel futuro avrannol’opportunità di crescere troveranno nel XXI° secolo larilevanza che meritano.

Possono essere elencate: la Società Italiana di Chirur-

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gia Oncologica fondata a Napoli nel 1976, la Società Ita-liana di Chirurgia Mininvasiva fondata a Roma nel1991, la Società Italiana di Chirurgia Geriatrica fondataa Napoli nel 1986, la Società Italiana di Chirurgia d’Ur-genza la cui attività è iniziata nel 1969 ma la cui fonda-zione avvenne nel 1977, la Società Italiana di Patologiadell’Apparato Digerente, la Società Italiana di Chirur-gia Ambulatoriale e Day Surgery fondata a Milano nel1995, la Società Italiana di Flebologia fondata nel 1986,il Gruppo Italiano di Chirurgia Radioimmunoguidatafondato a Pavia nel 1992, i Capitoli Italiani dell’Ameri-can College of Surgeon, dell’International Gastro Surgi-cal Club, dell’International College of Surgeons, delCollegium Internationale Chirurgiae Digestivae ed infi-ne il Club Italo-Argentino di Chirurgia, nato, sotto gliauspici della SIC e della Asociacion Argentina de Ciru-gia nel 1998, per merito di Mario Meinero di ReggioEmilia e Pedro Ferraina di Buenos Aires.

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