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TEOLOGIA BIBLICA Lc 24, 44 Poi disse: «Sono queste le parole che vi dicevo quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». 45 Allora aprì loro la mente all'intelligenza delle Scritture e disse: 46 «Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno 47 e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. 48 Di questo voi siete testimoni. 49 E io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto». 50 Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. 51 Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo. 52 Ed essi, dopo averlo adorato, tornarono a Gerusalemme con grande gioia; 53 e stavano sempre nel tempio lodando Dio. Oggetto di questo corso sarà lo studio del rapporto tra AT e NT. TESTI “Il popolo ebraico e le sue sacre scritture nella Bibbia cristiana” – Pontificia Commissione Biblica. “L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa” Gargano, Lectio Divina nella vita dei credenti (San Paolo) Grilli, Una Bibbia due Testamenti (San Paolo) + Dispensa del docente. Il popolo ebraico… I parte – le scritture del popolo ebraico sono parte fondamentale della Bibbia cristiana II parte – temi fondamentali delle Scritture del popolo ebraico e loro accoglienza nella fede in cristo III parte – gli ebrei nel NT (per rispondere alle accuse di chi afferma essere il NT origine dell’antisemitismo) Il canone non è perfettamente coincidente (39 libri ebraici contro 46 cattolici). Inoltre, per gli ebrei le scritture sono quelle lì. Mentre per i cristiani sono propedeutiche al NT Bibbia Ebraica e Bibbia Cristiana BIBBIA EBRAICA (39 LIBRI) 1. La Torah (Pentateuco) 2. I Profeti a) anteriori (Giosuè, Giudici, 1-2 Samuele, 1-2 Re)

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TEOLOGIA BIBLICA

Lc 24, 44 Poi disse: «Sono queste le parole che vi dicevo quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». 45 Allora aprì loro la mente all'intelligenza delle Scritture e disse: 46 «Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno 47 e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. 48 Di questo voi siete testimoni. 49 E io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto».50 Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. 51 Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo. 52 Ed essi, dopo averlo adorato, tornarono a Gerusalemme con grande gioia; 53 e stavano sempre nel tempio lodando Dio.

Oggetto di questo corso sarà lo studio del rapporto tra AT e NT.

TESTI“Il popolo ebraico e le sue sacre scritture nella Bibbia cristiana” – Pontificia Commissione Biblica.“L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa” Gargano, Lectio Divina nella vita dei credenti (San Paolo)Grilli, Una Bibbia due Testamenti (San Paolo)+ Dispensa del docente.

Il popolo ebraico…I parte – le scritture del popolo ebraico sono parte fondamentale della Bibbia cristianaII parte – temi fondamentali delle Scritture del popolo ebraico e loro accoglienza nella fede in cristoIII parte – gli ebrei nel NT (per rispondere alle accuse di chi afferma essere il NT origine dell’antisemitismo)

Il canone non è perfettamente coincidente (39 libri ebraici contro 46 cattolici). Inoltre, per gli ebrei le scritture sono quelle lì. Mentre per i cristiani sono propedeutiche al NT

Bibbia Ebraica e Bibbia Cristiana

BIBBIA EBRAICA (39 LIBRI)1. La Torah (Pentateuco)2. I Profeti a) anteriori (Giosuè, Giudici, 1-2 Samuele, 1-2 Re)b) posteriori (Isaia, Geremia, Ezechiele e i 12 profeti minori).3. Gli altri scritti: Salmi, Proverbi, Giobbe, Cantico dei Cantici, Daniele, Rut,Qoèlet, Ester, Esdra, Neemia, 1-2 Cronache, le Lamentazioni.

BIBBIA CRISTIANA (73)ANTICO TESTAMENTO (46 libri)1. Il Pentateuco (corrisponde alla Torah ebraica: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio)2. I Libri storici (Giosuè, Giudici, Rut, 1-2 Samuele, 1-2 Re, 1-2 Cronache, Esdra, Neemia, Tobia, Giuditta, Ester, 1-2 Maccabei)3. Libri sapienziali (Giobbe, Salmi, Proverbi, Qoèlet, Cantico dei Cantici, Sapienza, Siracide).4. Libri profetici maggiori (Isaia, Geremia, le Lamentazioni, Baruc, Ezechiele, Daniele) minori (Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia).NUOVO TESTAMENTO (27 libri)1. Vangeli (Matteo, Marco, Luca, Giovanni)2. Atti degli Apostoli3. Lettere (Romani, 1-2 Corinti, Galati, Efesini, Filippesi, Colossesi 1-2 Tessalonicesi, 1-2 Timoteo, Tito, Filemone, Ebrei, Giacomo, 1-2 Pietro, 1-2-3 Giovanni, Giuda)4. Apocalisse

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(PCB 2001 nn 3-5)PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICAIL POPOLO EBRAICO E LE SUE SACRE SCRITTURE NELLA BIBBIA CRISTIANA(Versione ridotta, NdR)

PREFAZIONE Nella teologia dei Padri della Chiesa la questione dell'unità interiore dell'unica Bibbia della Chiesa composta di Antico e Nuovo Testamento era un tema centrale. Che questo non fosse certamente solo un problema teorico, lo si può percepire quasi con mano nell'itinerario spirituale di uno dei più grandi maestri della cristianità — Sant'Agostino d'Ippona. Agostino come diciannovenne nell'anno aveva avuto una prima profonda esperienza di conversione. Così egli passò da Cicerone alla Bibbia e sperimentò una terribile delusione: nelle difficili determinazioni giuridiche dell'Antico Testamento, nei suoi intricati e talvolta anche crudeli racconti egli non poteva riconoscere la sapienza, alla quale voleva aprirsi. Al cristianesimo della Chiesa cattolica Agostino poté convertirsi solo quando, per mezzo di Sant'Ambrogio, ebbe imparato a conoscere un'interpretazione dell'Antico Testamento, che rendeva trasparente nella direzione di Cristo la Bibbia di Israele e così rendeva visibile in essa la luce della sapienza ricercata. Ma è vera? È ancora oggi giustificabile e realizzabile? Ambrogio aveva imparato questa esegesi nella scuola di Origene, che l'ha praticata per primo in modo coerente. Ma Origene — così si dice — in proposito avrebbe solo trasportato nella Bibbia metodi di interpretazione allegorica usati nel mondo greco per gli scritti religiosi dell'antichità — soprattutto Omero. Ma prescindendo dal giudizio che si voglia dare sui particolari dell'esegesi di Origene e di Ambrogio, il suo fondamento ultimo non era né l'allegoresi greca né Filone né i metodi rabbinici. Il suo vero fondamento — al di là dei particolari dell'interpretazione — era il Nuovo Testamento stesso. Gesù di Nazareth ha avanzato la pretesa di essere il vero erede dell'Antico Testamento — della «Scrittura» — e di darle l'interpretazione definitiva: «E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (Lc 24,27). In questo senso i Padri della Chiesa con la loro interpretazione cristologica dell'Antico Testamento non hanno creato nulla di nuovo, ma solo sviluppato e sistematizzato, ciò che già trovavano nel Nuovo Testamento stesso. Questa sintesi fondamentale per la fede cristiana doveva però diventare problematica nel momento in cui la coscienza storica sviluppò criteri di interpretazione (Lutero, Bultmann, Harnack) a partire dai quali l'esegesi dei Padri doveva apparire come priva di fondamento storico e pertanto come oggettivamente insostenibile. In questo senso con la vittoria dell'esegesi storico-critica l'interpretazione cristiana dell'Antico Testamento iniziata dal Nuovo Testamento stesso appariva finita.A questo punto la Pontificia Commissione Biblica decise ad affrontare il tema del rapporto fra Antico e Nuovo Testamento ed ha potuto in conclusione dire che l'ermeneutica cristiana dell'Antico Testamento, che senza dubbio è profondamente diversa da quella del giudaismo, «corrisponde tuttavia ad una potenzialità di senso effettivamente presente nei testi» (n. 64). La Commissione Biblica tuttavia non poteva nel suo lavoro prescindere dal contesto del nostro presente, nel quale il dramma della Shoah ha collocato tutta la questione in un'altra luce. Non ha forse contribuito la presentazione dei giudei e del popolo ebraico, nello stesso Nuovo Testamento, a creare una ostilità nei confronti di questo popolo, che ha favorito l'ideologia di coloro che volevano sopprimerlo? Della questione della presentazione dei giudei nel Nuovo Testamento si occupa l'ultima parte del documento, nel quale vengono accuratamente esaminati i testi «antigiudaici». Qui vorrei solo sottolineare un'intuizione che per me appare particolarmente importante. Il documento mostra che i rimproveri rivolti nel Nuovo Testamento agli ebrei non sono più frequenti né più aspri delle accuse contro Israele nella legge e nei profeti, quindi all'interno dello stesso Antico Testamento (n. 87) . Essi appartengono al linguaggio profetico dell'Antico Testamento e quindi devono essere interpretati come le parole dei profeti. Joseph Cardinal Ratzinger

INTRODUZIONE 1. I tempi moderni hanno portato i cristiani a prendere meglio coscienza dei legami fraterni che li uniscono strettamente al popolo ebraico. Nel corso della seconda guerra mondiale (1939-1945), eventi tragici o, più esattamente, crimini abominevoli hanno sottoposto il popolo ebraico a una prova di estrema gravità che ha minacciato la sua stessa esistenza in gran parte dell'Europa. La domanda che si pone è la seguente: quali rapporti la Bibbia cristiana stabilisce tra i cristiani e il popolo ebraico? A questa domanda la risposta generale è chiara: tra i cristiani e il popolo ebraico la Bibbia cristiana stabilisce rapporti molteplici e molto stretti e ciò per due ragioni: innanzitutto perché la Bibbia cristiana si compone, in gran parte, delle «sacre Scritture» (Rm 1,2) del popolo ebraico , che i cristiani chiamano «l'Antico Testamento»; poi perché la Bibbia cristiana comprende, d'altra parte, un insieme di scritti che, esprimendo la fede in Cristo Gesù, mettono quest'ultima in stretta relazione con le sacre Scritture del popolo ebraico. Questo secondo insieme di scritti è chiamato, com'è noto, «Nuovo Testamento», espressione correlativa ad «Antico Testamento».

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L'esistenza di stretti rapporti è innegabile. Tuttavia, un esame più preciso dei testi rivela che non si tratta di relazioni semplici, ma che presentano, al contrario, una grande complessità che va dal perfetto accordo su alcuni punti a una forte tensione su altri. Uno studio attento è quindi necessario. La Commissione Biblica vi ha dedicato questi ultimi anni e i risultati, che non pretendono evidentemente di aver esaurito l'argomento, vengono qui presentati in tre capitoli. Il primo, fondamentale, constata che il Nuovo Testamento riconosce l'autorità dell'Antico Testamento come rivelazione divina e non può essere compreso senza la sua stretta relazione con esso e con la tradizione ebraica che lo trasmetteva. Il secondo capitolo esamina, quindi, in modo più analitico, come gli scritti del Nuovo Testamento accolgono il ricco contenuto dell'Antico Testamento, di cui riprendono i temi fondamentali, visti alla luce del Cristo Gesù. Il terzo capitolo, infine, registra gli atteggiamenti molto vari che gli scritti del Nuovo Testamento esprimono sugli ebrei, imitando del resto in questo l'Antico Testamento stesso.

I.-LE SACRE SCRITTURE DEL POPOLO EBRAICO PARTE FONDAMENTALE DELLA BIBBIA CRISTIANA 2. È soprattutto la sua origine storica che lega la comunità dei cristiani al popolo ebraico. Infatti, colui nel quale essa pone la sua fede, Gesù di Nazaret, è un figlio di questo popolo; così come lo sono i Dodici che egli ha scelto perché «stessero con lui e per mandarli a predicare» (Mc 3,14). All'inizio la predicazione apostolica si rivolgeva solo agli ebrei e ai proseliti, pagani associati alla comunità ebraica (cf At 2,11). Il cristianesimo è quindi nato in seno al giudaismo del I secolo. Poi se ne è progressivamente distaccato, ma la Chiesa non ha mai potuto dimenticare le sue radici ebraiche. Una manifestazione sempre attuale di questo legame di origine consiste nell'accettazione, da parte dei cristiani, della sacre Scritture del popolo ebraico come Parola di Dio rivolta anche a loro.

A. Il Nuovo Testamento riconosce l'autorità delle sacre Scritture del popolo ebraico 3. Gli scritti del Nuovo Testamento non si presentano mai come una assoluta novità, ma si mostrano, al contrario, solidamente radicati nella lunga esperienza religiosa del popolo d'Israele, esperienza registrata sotto diverse forme in alcuni libri sacri, che costituiscono le Scritture del popolo ebraico.

1. Riconoscimenti d'autorità impliciti Partendo dal meno esplicito, già però indicativo, notiamo anzitutto l'uso di una stessa lingua. Il greco del Nuovo Testamento dipende strettamente dal greco dei Settanta, sia che si tratti di costruzioni grammaticali influenzate dall'ebraico che del vocabolario, soprattutto del vocabolario religioso. Senza una conoscenza del greco dei Settanta è impossibile cogliere con esattezza il significato di molti termini importanti del Nuovo Testamento. Questa affinità di lingua si estende naturalmente a numerose espressioni che il Nuovo Testamento prende in prestito dalle Scritture del popolo ebraico e porta al fenomeno frequente delle reminiscenze e delle citazioni implicite, cioè di frasi intere riprese nel Nuovo Testamento senza indicazione della loro natura di citazioni. Il testo dell'Apocalisse è talmente impregnato di Antico Testamento che diventa difficile distinguere ciò che è allusione da ciò che non lo è. Ciò che è vero per l'Apocalisse lo è anche — a un grado inferiore, certamente — per i vangeli, gli Atti degli apostoli e le lettere. La differenza sta nel fatto che in questi altri scritti si trovano anche numerose citazioni esplicite, introdotte cioè come tali. Questi scritti segnalano così in modo chiaro le loro citazioni più importanti mostrando in questo modo di riconoscere l'autorità della Bibbia ebraica come rivelazione divina.

2. Ricorsi espliciti all'autorità delle Scritture del popolo ebraico 4. Questo riconoscimento d'autorità assume forme diverse, a seconda dei casi. Altre volte il soggetto viene espresso: è «la Scrittura», «la Legge», o «Mosè» o «Davide». Invece del verbo «dire», il termine più usato per introdurre le citazioni è molto spesso il verbo «scrivere» e il tempo, in greco, è il perfetto, tempo che esprime l'effetto permanente di un'azione passata: gegraptai, «è stato scritto» e quindi d'ora in poi «è scritto». «Sta scritto: Non di solo pane vivrà l'uomo» (Mt 4,4: Lc 4,4).

5. Molto spesso il Nuovo Testamento utilizza testi della Bibbia ebraica per argomentare: «Sta scritto infatti». Nelle sue argomentazioni dottrinali, l'apostolo Paolo si basa costantemente sulle Scritture del suo popolo. Paolo opera una netta distinzione tra le argomentazioni scritturistiche e i ragionamenti «secondo l'uomo», attribuendo alle prime un valore incontestabile. Nel IV vangelo Gesù dichiara a tale proposito che «la Scrittura non può essere abolita» (Gv 10,35). Nella seconda lettera a Timoteo, dopo una menzione delle «sacre Lettere» (2 Tm 3,15) si trova questa affermazione: «Tutta la Scrittura è ispirata da Dio (theopneustos) e utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia, perché l'uomo di Dio sia completo, ben preparato per ogni opera buona» (2 Tm 3,16-17).

B. Il Nuovo Testamento attesta la propria conformità alle Scritture del popolo ebraico 6. Una duplice convinzione si manifesta in altri testi: da una parte, ciò che è scritto nelle Scritture del popolo ebraico deve necessariamente compiersi, perché rivela il disegno di Dio, che non può non realizzarsi, e dall'altra, la vita, la morte e la risurrezione di Cristo corrispondono pienamente a quanto viene detto in queste Scritture.

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1. Necessità del compimento delle Scritture L'espressione più netta della prima convinzione si trova nelle parole rivolte da Gesù risorto ai suoi discepoli, nel vangelo secondo Luca: «Sono queste le parole che vi dicevo quando ero ancora con voi: bisogna (dei) che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi» (Lc 24,44). Poiché «bisogna» assolutamente che si compia quanto è scritto nell'Antico Testamento, gli avvenimenti accadono «affinché» ciò si compia. È quanto dichiara spesso Matteo. Marco ha un parallelo a quest'ultimo passo, in una vigorosa frase ellittica: «Ma [è]perché si adempiano le Scritture» (Mc 14,49). Luca non utilizza questo genere di espressione; mentre Giovanni vi ricorre quasi con la stessa frequenza di Matteo.

2. Conformità alle Scritture 7. Altri testi affermano che tutto, nel mistero di Cristo, è conforme alle Scritture del popolo ebraico . La fede cristiana non è quindi basata soltanto su degli eventi, ma sulla conformità di questi eventi alla rivelazione contenuta nelle Scritture del popolo ebraico. Nel vangelo secondo Matteo una frase di Gesù rivendica una perfetta continuità tra la Torāh e la fede dei cristiani: «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento» (Mt 5,17). Nel vangelo secondo Luca, la conclusione parla del compimento di «tutte le cose scritte», riguardo a Gesù (Lc 24,44). Il IV vangelo esprime una prospettiva analoga: «Se non credete ai suoi (di Mosè) scritti, come potrete credere alle mie parole?» (Gv 5,47).

3. Conformità e differenza 8. La lettera agli Ebrei, pur non affermando mai esplicitamente l'autorità delle Scritture del popolo ebraico, cita continuamente i loro testi per fondare il suo insegnamento e le sue esortazioni. Essa contiene numerose affermazioni di conformità alla loro rivelazione profetica, ma anche affermazioni di una conformità accompagnata da alcuni aspetti di non conformità. Questo si riscontra già nelle lettere paoline. Nella lettera ai Galati e in quella ai Romani, l'apostolo argomenta a partire dalla Legge per dimostrare che la fede in Cristo ha posto fine al regime della Legge. L'affermazione di fondo resta la stessa. Gli scritti del Nuovo Testamento riconoscono che le Scritture del popolo ebraico hanno un valore permanente di rivelazione divina. Si situano nei loro riguardi in un rapporto positivo, considerandole la base sulla quale essi stessi poggiano. Di conseguenza, la Chiesa ha sempre ritenuto che le Scritture del popolo ebraico fanno parte integrante della Bibbia cristiana.

C. Scrittura e tradizione orale nel giudaismo e nel cristianesimo 9. Tra Scrittura e Tradizione esiste una tensione che si riscontra in molte religioni; ad esempio in quelle dell'Oriente (induismo, buddismo, ecc.) e nell'Islam. È quanto si può osservare sia nel cristianesimo che nel giudaismo, con sviluppi in parte comuni e in parte differenti. Un tratto comune è che le due grandi religioni si trovano d'accordo nella determinazione di gran parte del loro canone delle Scritture.

1. Scrittura e Tradizione nell'Antico Testamento e nel giudaismo La Tradizione dà vita alla Scrittura. Alla fine del I secolo della nostra èra il lento processo della formazione di un canone della Bibbia ebraica era praticamente compiuto. In seguito la Tradizione dà origine a una «seconda Scrittura» (Mishna). I testi sacri della Bibbia lasciano aperte molte questioni riguardanti la giusta comprensione della fede d'Israele e della condotta da tenere. Questo ha provocato, nel giudaismo farisaico e rabbinico, un lungo processo di produzione di testi scritti, dalla Mishna («Secondo Testo»), redatto all'inizio del III secolo, fino alla Tosefta («Supplemento») e al Talmud nella sua duplice forma (di Babilonia e di Gerusalemme). La Mishna, la Tosefta e il Talmud hanno il loro posto nella sinagoga come luogo in cui si studia, ma non sono letti nella liturgia. In generale, il valore di una tradizione si misura in base alla sua conformità alla Torāh.

2. Scrittura e Tradizione nel cristianesimo primitivo 10. La Tradizione dà vita alla Scrittura. Nel cristianesimo primitivo si può osservare un'evoluzione simile a quella del giudaismo con, tuttavia, una differenza iniziale: i primi cristiani avevano, fin dall'inizio, delle Scritture perché, essendo ebrei, riconoscevano come Scritture la Bibbia d'Israele. Ma ad esse si aggiungeva per loro una tradizione orale, «l'insegnamento degli Apostoli» (At 2,42), che trasmetteva le parole di Gesù e il racconto di eventi che lo riguardavano. Veniva così preparata la strada alla redazione dei vangeli, che avvenne solo alcune decine d'anni dopo la morte e la risurrezione di Gesù. Fu così che si costituì progressivamente il canone del Nuovo Testamento in seno alla Tradizione apostolica. La Tradizione completa la Scrittura. Il cristianesimo condivide con il giudaismo la convinzione che la rivelazione di Dio non può essere espressa nella sua interezza in testi scritti.

3. Rapporti tra le due prospettive 11. Ma ciò che distingue il cristianesimo primitivo da tutte queste correnti è la convinzione che le promesse profetiche escatologiche non sono più considerate semplicemente oggetto di speranza per il futuro, perché il loro compimento è

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già iniziato in Gesù di Nazaret, il Cristo. È di lui che parlano in ultima istanza le Scritture del popolo ebraico, qualche che sia la loro estensione, ed è alla sua luce che esse devono essere lette per poter essere pienamente comprese.

Cominciamo così a leggere il documento della Pontificia Commissione Biblica.

San Paolo 2Cor 3, 14 …la lettera uccide, lo Spirito dà vita. 7 Se il ministero della morte, inciso in lettere su pietre, fu circonfuso di gloria, al punto che i figli d'Israele non potevano fissare il volto di Mosè a causa dello splendore pure effimero del suo volto, 8 quanto più sarà glorioso il ministero dello Spirito? 9 Se già il ministero della condanna fu glorioso, molto di più abbonda di gloria il ministero della giustizia. 10 Anzi sotto quest'aspetto, quello che era glorioso non lo è più a confronto della sovraeminente gloria della Nuova Alleanza. 11 Se dunque ciò che era effimero fu glorioso, molto più lo sarà ciò che è duraturo. 12 Forti di tale speranza, ci comportiamo con molta franchezza 13 e non facciamo come Mosè che poneva un velo sul suo volto, perché i figli di Israele non vedessero la fine di ciò che era solo effimero. 14 Ma le loro menti furono accecate; infatti fino ad oggi quel medesimo velo rimane, non rimosso, alla lettura dell'Antico Testamento, perché è in Cristo che esso viene eliminato. 15 Fino ad oggi, quando si legge Mosè, un velo è steso sul loro cuore; 16 ma quando ci sarà la conversione al Signore, quel velo sarà tolto. 17 Il Signore è lo Spirito e dove c'è lo Spirito del Signore c'è libertà.

R. PENNA, “Appunti sul come e perché il NT si rapporta all’AT”

San Paolo parla per primo di un AT. Diathéke = pactum / testamentumLetteralmente significa “disposizione”, attraverso (“dià”) due contraenti.Testamento indica le disposizioni volontarie

Diathéke traduce l’ebraico berìt che indica una disposizione unilaterale benefica.Se si parla della Diathéke tra Dio e il popolo/Davide, ovviamente non è un’alleanza o contratto tra pari, ma è una disposizione unilaterale benefica verso qualcuno.

Diverso è invece il caso dell’alleanza mosaica, allorché Dio pone delle condizioni (la Terra Promessa al popolo se osserverà le Leggi del Signore, leggi che indicano la strada per mantenere il rapporto tra Dio e il popolo).

“Alleanza” non indica solitamente un insieme di scritti, bensì un rapporto di vita tra Dio e il suo popolo/una persona scelta. Ha dunque una dimensione esistenziale.

In 2Cor 3, 14 San Paolo indica però con Diathéke/Testamento (Antico) qualcosa che viene letto e per il quale solo Gesù può togliere il velo che ne impedisce la piena lettura.È l’UNICA VOLTA in cui l’espressione AT compare in tutta la Scrittura.

Il rapporto tra AT e NT non è un problema ebraico ma cristiano. Ed è molto antico, perché già Marcione voleva fare a meno dell’AT...

Sarà Melitone di Sardi (fine II sec.) a usare dopo san Paolo l’espressione AT.Anche se la lettera agli Ebrei (9, 18) parla di prima alleanza, però in senso esistenziale, non come insieme di scritti.

L’espressione NT invece è tradizionale. Tanto che si trova già nell’AT, in Ger 31, 31: “Ecco verranno giorni - dice il Signore - nei quali con la casa di Israele e con la casa di Giuda io concluderò una alleanza nuova”. Ed è in senso esistenziale.

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Ancora: si trovano espressioni relative alla nuova alleanza nella tradizione antiochena (Lc 22, 1Cor 11); Ebr parla di “alleanza eterna”. Per cui nella messa troviamo “nuova ed eterna alleanza”.

Solo dopo il II sec. l’espressione indicherà l’insieme dei libri biblici.

COME IL NT RICORRE ALL’AT

Fil ha una sola citazione dell’AT, mentre Ap è intrisa di citazioni/riferimenti (814!) all’AT. Quindi ci sono rapporti coll’AT quantitativamente ben diversi nel NT.

Per la qualità, ci sono 4 modi:

1 -- Utilizzo del linguaggio dell’AT, di espressioni tipiche dell’AT senza dire che da lì provengono, poiché fanno parte del bagaglio culturale di chi scrive, come il giorno del giudizio per Matteo, il giorno del Signore per San Paolo, l’ultimo giorno per Giovanni: espressioni dei profeti che non occorre esplicitare

2 -- Riferimento generico alle Scrittura: 1Cor 15, 3-5 – “3 Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, 4 fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, 5 e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici”; Lc 24, 27 – “Cominciando da Mosé e dai profeti, spiegò tutto ciò che nelle scritture si riferiva a lui”. Non si precisano i brani cui ci si riferisce. In Lc 24 Gesù spiega l’AT alla luce di sé stesso. È l’esegeta per eccellenza.

3 -- Citazione di testi biblici senza una formula che dica il genere letterario biblico. Es Ebr 1, 5 “Infatti a quale degli angeli Dio ha mai detto: Tu sei mio figlio; oggi ti ho generato?”, ove la citazione è tratta dai Salmi (ma nulla lo lascia intendere, paiono quasi del redattore). La nostra edizione della Bibbia riporta in corsivo le citazioni AT, per aiutarci a riconoscerle.

4 -- Citazione biblica introdotta da formula specifica, come “sta scritto”, “la scrittura dice”…4a - testi a carattere teologico-argomentativo (San Paolo)4b - testi di carattere narrativo (Matteo). Matteo usa le cosiddette “citazioni di compimento” con apposita formula introduttiva. Mt 1, 22 Tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: 23 Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele, che significa Dio con noi. 24 Destatosi dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore e prese con sé la sua sposa, 25 la quale, senza che egli la conoscesse, partorì un figlio, che egli chiamò Gesù.Mt 4, 12 Avendo intanto saputo che Giovanni era stato arrestato, Gesù si ritirò nella Galilea 13 e, lasciata Nazaret, venne ad abitare a Cafarnao, presso il mare, nel territorio di Zàbulon e di Nèftali, 14 perché si adempisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia: 15 Il paese di Zàbulon e il paese di Nèftali, sulla via del mare, al di là del Giordano, Galilea delle genti; 16 il popolo immerso nelle tenebre ha visto una grande luce; su quelli che dimoravano in terra e ombra di morte una luce si è levata.

Quale testo dell’AT usa il NT?

1--TM, testo masoretico o ebraico. Mt 27, 46 “Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: «Elì, Elì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” – Sal 21Per la LXX c’è anche una aggiunta: “Dio mio, Dio mio, prestami attenzione” (versione greca)

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2--LXX, testo greco della Settanta.Ebr 10 interpreta il salmo 39/40 come se fosse il dialogo del figlio verso il padre e dice “Non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo mi hai preparato, per cui ho detto Eccomi, io vengo”. Il testo è quello della LXX perché invece il TM aggiunge “gli orecchi mi hai aperto”.

3--Né TM né LXXIn Mc lo Shemà Israel (Dt 5, 1ss) citato con 4 elementi, aggiungendo la mente: “amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza” (Mc 12, 30)

4--Testo ebraico dal Targum, cioè dalla tradizione interpretativa ebraica, non cristiana.2Tim 3, 8-9 “8 Sull'esempio di Yannes e di Yambres che si opposero a Mosè, anche costoro si oppongono alla verità: uomini dalla mente corrotta e riprovati in materia di fede. 9 Costoro però non progrediranno oltre, perché la loro stoltezza sarà manifestata a tutti, come avvenne per quelli”. Ma né il TM né la LXX ha i nomi dei maghi, ma solo il Targum.

Il NT è dunque piuttosto libero nel citare l’AT. Il criterio è la fedeltà non al testo ma al suo senso.Un detto ebraico afferma che la Torah ha 70 facce. Non posso farle dire ciò che non dice, tuttavia non esaurirò mai il suo significato.

Quale valutazione dà il NT dell’AT?

1--tutti gli scritti del NT qualificano l’AT come Scrittura, quindi positivamente, avente valore normativo. Non pensano di poterne fare a meno, né disobbedire. “Geghraptai” è un perfetto greco: qualcosa che è avvenuto ma ha un valore nel presente (“sta scritto” – ancora adesso!)2--il NT qualifica l’AT come promessa. Non si ha un inizio assoluto del fatto cristiano, ma si comincia nell’AT3—sulla dimensione storica dell’AT gli autori del NT si diversificano. Ad esempio san Paolo è molto preciso quando stabilisce la distanza tra circoncisione di Abramo e legge di Mosè (430 anni: Gal 3, 17 “Ora io dico: un testamento stabilito in precedenza da Dio stesso, non può dichiararlo nullo una legge che è venuta quattrocentotrenta anni dopo, annullando così la promessa”), mentre Mt 1, la genealogia di Gesù, salta alcuni dei re di Israele…4—non tutti gli autori del NT considerano l’AT come nomos, cioè depositario di un principio salvifico legato all’osservanza della legge. San Paolo è critico sull’osservanza, ma anche Gv ed Ebr si accontentano di leggere l’AT come preconizzazione di Cristo, senza leggervi una norma vincolante di vita. Mt valorizza invece la legge dell’AT e Gesù dà compimento alla Legge, che non passerà – “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno dalla legge, senza che tutto sia compiuto” (Mt 5, 17-18).

Quale criterio di interpretazione del NT nei cfr. dell’AT?

Il punto di partenza degli autori del NT non è l’AT ma sempre e solo la nuova fede cristiana. Partendo da una novità inaudita, l’hanno poi fondata nell’AT. Gli apostoli non hanno letto l’AT e poi dedotta la resurrezione, bensì Gesù ha rivelato loro la croce e la resurrezione, ma essi non lo hanno capito subito, ma hanno dovuto incontrarlo risorto per comprendere il mistero e poter rileggere l’AT.In prima battuta i seguaci di Gesù si sono misurati con la novità di Gesù che non corrisponde alle attese messianiche tradizionali e li obbliga a rileggere l’AT.

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In Lc 24 Gesù riferisce a sé le scritture. Già in Lc 4 Gesù si presenta come esegeta di se stesso:

Lc 4, 16 Si recò a Nazaret, dove era stato allevato; ed entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga e si alzò a leggere. 17 Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò il passo dove era scritto: 18 Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, 19 e predicare un anno di grazia del Signore. 20 Poi arrotolò il volume, lo consegnò all'inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui. 21 Allora cominciò a dire: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi». 22 Tutti gli rendevano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è il figlio di Giuseppe?»

Solo la lettura a ritroso avrebbe permesso di comprendere che l’AT già parlava del NT. Questo perché si parla non di scritti ma di eventi (la morte e resurrezione di Gesù) che da un lato sono compimento di un’attesa, dall’altro sono una novità inaudita (vedi i discepoli che attendono la restaurazione di Israele all’ascensione di Gesù, oppure lo “scandalo” di Pietro dinanzi alla croce…).

Il NT ricorre all’AT per (1) un motivo culturale e uno (2) teologico.Gesù è ebreo e così pure i suoi discepoli e gli autori del NT, cioè sono tutti inseriti nell’orizzonte culturale ebraico. Le fonti greco-pagane del NT sono riducibili a una mezza pagina, mentre le citazioni dell’AT secondo il Nestle-Aland sono 36 pagine di citazioni! Dio ha mandato suo figlio, nato da donna, nato sotto la legge (Gal 4) per benevolenza divina. E questo porta al motivo teologico: l’identità messianica di Gesù non è novità assoluta poiché si radica nell’AT. Gesù appartiene a Israele, il popolo scelto da Dio. C’è stata una praeparatio evangelica, attraverso Israele. Il NT non guarda “indietro” mirando l’AT (come ricordando un passato ormai perduto), bensì si rende conto di far parte della corrente in movimento (sei parte del fiume che scorre). Si porta già con sé una storia. Sono due poli di un’unica realtà: è certa la loro diversità, ma altresì la loro connaturalità.

Lc 24, 44 Poi disse: «Sono queste le parole che vi dicevo quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». 45 Allora aprì loro la mente all'intelligenza delle Scritture e disse: 46 «Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno 47 e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. 48 Di questo voi siete testimoni. 49 E io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto».50 Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. 51 Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo. 52 Ed essi, dopo averlo adorato, tornarono a Gerusalemme con grande gioia; 53 e stavano sempre nel tempio lodando Dio.

Cristo Risorto è qui l’esegeta che interpreta le Scritture alla luce di sé e il suo mistero alla luce delle Scritture. Ai due discepoli di Emmaus delusi dallo scandalo della croce e dal sepolcro vuoto (“noi speravamo…”). Al che Gesù replica “stupidi e lenti di cuore” – questione di fede – perché bisognava che Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella gloria.

S. Teresina di Lisieux: “se fossi stata un prete, avrei studiato l’ebraico e il greco per poter leggere la Parola di Dio tale quale Egli si degnò di esprimerla nel linguaggio umano”.

(PENNA – DISPENSE pp. 1-14)

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METODI ESEGETICI usati nel NT Quando gli apostoli si sono trovati a parlare di Gesù lo hanno fatto con le parole della Scrittura, cioè dell’AT, attingendo agli insegnamenti di Gesù (terreno e post-pasquale) sotto una particolare illuminazione dello Spirito Santo (DV 19). I loro interlocutori erano ebrei, quindi si trattava di mostrare attraverso le Scritture che Gesù era il Messia. Ad es. in At 2, “36 Sappia dunque con certezza tutta la casa di Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso!». 37 All'udir tutto questo si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?». 38 E Pietro disse: «Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati; dopo riceverete il dono dello Spirito Santo.”Se Gesù corrisponde alle Scritture, è credibile e accettabile. Se no, no. La novità di Gesù deve poter avere a che fare con le Scritture. Ovviamente usano i metodi esegetici del tempo.La conoscenza dell’esegesi rabbinica ci aiuta a comprendere meglio il NT. Si tratta di arrivare all’esegesi rabbinica che era tipica del tempo di Gesù. Ma non è facile, poiché i testi rabbinici che noi abbiamo (Mishnà, Talmud) sono più tardi (cfr. n. 9).

Midrash deriva dal verbo darash = cercareAl verbo (DRS) basta aggiungere una M per creare il sostantivo = MiDRaSHEsso consiste nella ricerca del senso della Scrittura, quindi è una sua interpretazione. È il reperimento di un senso ricercato. Sto cercando il senso di un testo e lo trovo. È un motivo che sfugge al semplice ascolto, andando oltre a ciò che risulta a una prima lettura (cfr. Pasquale Basta), nella consapevolezza che la Torah ha 70 facce, cioè infinite possibilità di comprensione. Per cui l’omileta deve ricercare il livello più profondo del testo, a vantaggio della comunità. Ogni sabato i sinagoga si legge un brano della TORAH (Legge/Pentateuco) + un brano di un PROFETA, a suo commento. Il perno è la Legge, come per i cattolici è il Vangelo. La grandezza del MIDRASH sta nell’interrogare la Bibbia.

Dal pv storico esso è attestato come attività di rilettura all’interno della stessa Scrittura, già nell’AT compaiono infatti pagine bibliche che interpretano e rileggono altre pagine. Ad es. il Deuteronomio è rilettura (midrash) del cammino di Israele in Esodo, Levitico, Numeri. E infatti deutero-nomio è proprio una seconda legge.Come pure 1Cronache e 2Cronache sono midrash di Genesi-2Re e sono i libri stessi che lo dicono:2Cron 13, 22 - “Le altre gesta di Abia, le sue azioni e le sue parole, sono descritte nella memoria del profeta Iddo”. 2Cron 24, 27 – “Quanto riguarda i suoi figli, la quantità dei tributi da lui riscossi, il restauro del tempio di Dio, ecco tali cose sono descritte nella memoria del libro dei re”.In entrambi i casi, il testo ebraico non ha “memoria” ma “midrash”.Così pure capita con i Salmi 77, 78, 105, 106 che sono chiaramente una rilettura delle vicende del popolo di Israele.Sal 88/89 rilegge 2sam 7

Il midrash si rivolgeva esclusivamente alla Scrittura per adattare quelle pagine antiche al presente, al quotidiano, al fine di istruire ed edificare il lettore o l’ascoltatore. È quello che ci chiediamo oggi: che senso ha rileggere oggi certe pagine bibliche?Per rispondere, occorre reinterpretare e attualizzare.Gezerah shawah = analogia biblica / corrispondenza testuale per analogia.

Già il documento del ’93 fa notare questo dinamismo di rilettura midrashica internamente alla stessa Bibbia.Il compito del midrash è anche conciliare il vecchio col nuovo.

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2Sam 24 – Davide fa il censimento del popolo, contro la volontà di Dio che pertanto lo punirà. Ma l’idea del censimento viene presentata dal testo biblico come un suggerimento del Signore stesso: “La collera del Signore si accese di nuovo contro Israele e incitò Davide contro il popolo in questo modo: «Su, fa' il censimento d'Israele e di Giuda»” (2Sam 24, 1)In 1Cr 21, 1 leggiamo: “Satana insorse contro Israele. Egli spinse Davide a censire gli Israeliti” – passato il tempo, si capisce che non può essere Dio che consiglia qualcosa che poi va a condannare, bensì si trattava di Satana.

Il midrash è molto diffuso nel tempo precedente Gesù come attività di ricerca del significato più profondo. Se rivolto ai piccoli, privilegia le parabole e meno i temi giuridici tipici del pubblico adulto.

Esistono elenchi (con 7, 13, 32) regole, chiamate middot. A Hillel si attribuisce un elenco di 7 regole, precedenti a lui. Così si ha il panorama delle regole interpretative della Scrittura ai tempi di Gesù. (cfr. dispense).

Mt 12, 1 In quel tempo Gesù passò tra le messi in giorno di sabato, e i suoi discepoli ebbero fame e cominciarono a cogliere spighe e le mangiavano. 2 Ciò vedendo, i farisei gli dissero: «Ecco, i tuoi discepoli stanno facendo quello che non è lecito fare in giorno di sabato». 3 Ed egli rispose: «Non avete letto quello che fece Davide quando ebbe fame insieme ai suoi compagni? 4 Come entrò nella casa di Dio e mangiarono i pani dell'offerta, che non era lecito mangiare né a lui né ai suoi compagni, ma solo ai sacerdoti? 5 O non avete letto nella Legge che nei giorni di sabato i sacerdoti nel tempio infrangono il sabato e tuttavia sono senza colpa? 6 Ora io vi dico che qui c'è qualcosa più grande del tempio. 7 Se aveste compreso che cosa significa: Misericordia io voglio e non sacrificio, non avreste condannato individui senza colpa. 8 Perché il Figlio dell'uomo è signore del sabato».

Gesù cita l’episodio di 1Sam 21, 2-71Sam 21, “2 Davide si recò a Nob dal sacerdote Achimelech. Achimelech, turbato, andò incontro a Davide e gli disse: «Perché sei solo e non c'è nessuno con te?». 3 Rispose Davide al sacerdote Achimelech: «Il re mi ha ordinato e mi ha detto: Nessuno sappia niente di questa cosa per la quale ti mando e di cui ti ho dato incarico. Ai miei uomini ho dato appuntamento al tal posto. 4 Ora però se hai a disposizione cinque pani, dammeli, o altra cosa che si possa trovare». 5 Il sacerdote rispose a Davide: «Non ho sottomano pani comuni, ho solo pani sacri: se i tuoi giovani si sono almeno astenuti dalle donne, potete mangiarne». 6 Rispose Davide al sacerdote: «Ma certo! Dalle donne ci siamo astenuti da tre giorni. Come sempre quando mi metto in viaggio, i giovani sono mondi, sebbene si tratti d'un viaggio profano; tanto più oggi essi sono mondi». 7 Il sacerdote gli diede il pane sacro, perché non c'era là altro pane che quello dell'offerta, ritirato dalla presenza del Signore, per essere sostituito con pane fresco nel giorno in cui si toglie”.

(cfr. Deut 24: la sostituzione dei pani avviene in giorno di sabato)

La somiglianza detta da Gesù sta nell’aver fame. E come Davide fece qualcosa che non era lecito, così i discepoli di Gesù possono spigolare di sabato perché hanno fame.Quindi si accosta una situazione di vita a una parola antica che, in forza di una analogia, illumina il presente con una intenzione di indicazione morale (ciò che è lecito o illecito).

Il midrash – dicono gli stessi rabbini – ha due possibili sviluppi:

HAGGADA’ = attualizzazione edificante per chi ascolta (narrativo)MIDRASH

HALAKA’ = sviluppo interpretativo con indicazione di comportamento (morale)

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È Gesù che istituisce il parallelo tra la situazione del suo tempo e l’episodio di Davide e nel ricava una indicazione su ciò che sia lecito fare.

Gesù dice che i sacerdoti violano il sabato (Mt 12, 5). Si riferisce a Nm 28 dove si parla del sacrificio giornaliero e di quello del sabato. Offrendo un sacrificio di sabato, i sacerdoti compiono azioni rituali che però non violano il sabato, o meglio: lo violano senza colpa.Davide e i suoi compagni nella casa di Dio fanno qualcosa si non lecito (mangiano i pani dell’offerta); i sacerdoti violano il sabato senza colpa; Gesù ricava che i suoi discepoli sono senza colpa. Per Davide la scusante è la fame (così per i discepoli di Gesù). Inoltre Gesù ricorda che anche i sacerdoti violano il sabato senza colpa, e così anche i suoi discepoli… In questo caso l’analogia “regge” solo con la precisazione di Gesù: Lui è il Signore del sabato, che autorizza i suoi, come la Legge e il Tempio autorizzano i sacerdoti.Le diverse situazioni vengono messe in parallelo (1) per ricavare una interpretazione (2) da cui deriva una indicazione di comportamento.

Osservanza del sabato.Es 31, 14 – “Osserverete dunque il sabato, perché lo dovete ritenere santo. Chi lo profanerà sarà messo a morte; chiunque in quel giorno farà qualche lavoro, sarà eliminato dal suo popolo”Mc 3, 1-6 – “1 Entrò di nuovo nella sinagoga. C'era un uomo che aveva una mano inaridita, 2 e lo osservavano per vedere se lo guariva in giorno di sabato per poi accusarlo. 3 Egli disse all'uomo che aveva la mano inaridita: «Mettiti nel mezzo!». 4 Poi domandò loro: «È lecito in giorno di sabato fare il bene o il male, salvare una vita o toglierla?». 5 Ma essi tacevano. E guardandoli tutt'intorno con indignazione, rattristato per la durezza dei loro cuori, disse a quell'uomo: «Stendi la mano!». La stese e la sua mano fu risanata. 6 E i farisei uscirono subito con gli erodiani e tennero consiglio contro di lui per farlo morire.”

Quanto si raggiunge per analogia è halakà, cioè norma obbligante.Basta cita il Talmud palestinese. Dove chiedono a Hillel: se la Pasqua cade di sabato, che si fa? Si possono compiere i rituali senza violare il sabato? Oppure si sposta la Pasqua?Hillel fa un paragone. Risponde secondo tre criteri.--Assimilazione di cose concrete: il sacrificio perpetuo è comunitario e prevale sul sabato, così pure la Pasqua prevale sul sabato--Dal + leggero al + pesante: se ometti il sacrificio perpetuo non sei scomunicato, ma se ometti la Pasqua sì, quindi tanto più il sacrificio pasquale prevale sul sabato--(Gezerah Shawah) Corrispondenza testuale: Nm 28, 2 – (1 Il Signore disse a Mosè:) 2 «Da' quest'ordine agli Israeliti e di' loro: Avrete cura di presentarmi al tempo stabilito l'offerta, l'alimento dei miei sacrifici da consumare con il fuoco, soave profumo per me; Nm 9, 2 - “Gli Israeliti celebreranno la pasqua nel tempo stabilito”. Se il sacrificio quotidiano va portato a suo tempo e non infrange il sabato, e se la pasqua va fatta a suo tempo, si deduce che anche la pasqua prevale sul sabato.Ci sono altri passi (Nm 9, 3; Os 2, 11) in cui si dice “a suo tempo”, ma mancano quei requisiti di analogia stringente che invece ci sono nei due esempi citati.

Altro esempio. Dt 21, 20 – “18 Se un uomo avrà un figlio testardo e ribelle che non obbedisce alla voce né di suo padre né di sua madre e, benché l'abbiano castigato, non dà loro retta, 19 suo padre e sua madre lo prenderanno e lo condurranno dagli anziani della città, alla porta del luogo dove abita) 20 e diranno agli anziani della città: Questo nostro figlio è testardo e ribelle; non vuole obbedire alla nostra voce, è uno sfrenato e un bevitore. 21 Allora tutti gli uomini della sua città lo lapideranno ed egli morirà; così estirperai da te il male e tutto Israele lo saprà e avrà timore”.Domanda della Mishnà: quando si può definire così un figlio, e comportare secondo Dt 21?

Si cita Pr 23, 20 – “Non essere fra quelli che s'inebriano di vino, né fra coloro che son ghiotti di carne” – Quindi il ghiottone e ubriacone è tale quando frequenta una compagnia di gente simile.

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La corrispondenza testuale è un caso in cui la Scrittura fa esegesi di se stessa. E siccome essa è Parola di Dio, non può esser in contraddizione con se stessa. Se appaiono contraddizioni, sono io che non capisco. Un testo oscuro della Scrittura può esser compreso meglio alla luce di un altro testo della Scrittura.

Nessuno – dicono a Hillel – applica la Gezerah Shawah di sua iniziativa, per innovare. O meglio: si adopera per compiere l’insegnamento ricevuto, non per abrogarla. Serviva dunque per tutelare la permanenza del nuovo all’interno dell’antico. Si agisce in modo che la novità rimanga nell’alveo dell’insegnamento antico. Mt 5, 17 – Gesù non è venuto ad abolire, ma a dare compimento. Cioè a tutelare la piena applicazione.Rm 3, 31 – “Togliamo dunque ogni valore alla legge mediante la fede? Nient'affatto, anzi confermiamo la legge.” Da cui deriva la GS in Rm 4:1 Che diremo dunque di Abramo, nostro antenato secondo la carne? 2 Se infatti Abramo è stato giustificato per le opere, certo ha di che gloriarsi, ma non davanti a Dio. 3 Ora, che cosa dice la Scrittura? Abramo ebbe fede in Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia. 4 A chi lavora, il salario non viene calcolato come un dono, ma come debito; 5 a chi invece non lavora, ma crede in colui che giustifica l'empio, la sua fede gli viene accreditata come giustizia. 6 Così anche Davide proclama beato l'uomo a cui Dio accredita la giustizia indipendentemente dalle opere: 7 Beati quelli le cui iniquità sono state perdonate e i peccati sono stati ricoperti; 8 beato l'uomo al quale il Signore non mette in conto il peccato!9 Orbene, questa beatitudine riguarda chi è circonciso o anche chi non è circonciso? Noi diciamo infatti che la fede fu accreditata ad Abramo come giustizia. 10 Come dunque gli fu accreditata? Quando era circonciso o quando non lo era? Non certo dopo la circoncisione, ma prima. 11 Infatti egli ricevette il segno della circoncisione quale sigillo della giustizia derivante dalla fede che aveva già ottenuta quando non era ancora circonciso; questo perché fosse padre di tutti i non circoncisi che credono e perché anche a loro venisse accreditata la giustizia 12 e fosse padre anche dei circoncisi, di quelli che non solo hanno la circoncisione, ma camminano anche sulle orme della fede del nostro padre Abramo prima della sua circoncisione.

Gen 15, 6 – “Abramo credette in Dio e gli fu accreditato a giustizia”Sal 31, 1-2 “Beato l'uomo a cui è rimessa la colpa, e perdonato il peccato. Beato l'uomo a cui Dio non imputa alcun male”

San Paolo accosta i due passi per mostrare che l’uomo peccatore è giustificato per la fede e non per le opere. Non bastava citare Abramo perché per il giudaismo la fede di Abramo era interpretata come un’opera: 1Mac 2, 52 – “Abramo non fu trovato forse fedele nella tentazione e non gli fu ciò accreditato a giustizia?” – quindi per 1Mac è la fedeltà che porta alla giustificazioneSal 106 (105), 30-31 “Ma Finees si alzò e si fece giudice, allora cessò la peste e gli fu computato a giustizia presso ogni generazione, sempre” – lo zelo per il Signore è causa di giustificazione.

In greco loghizomai (conto, computo) ricorre 70 volte nella LXX. In molti casi significa pensare/reputare, per cui restano 9 passi in cui Dio “conta” all’uomo il bene fatto come positivo.Il solo passo in cui non si computi alcuna opera buona è il Sal 32, 1 citato da Paolo, dove emerge la gratuità della giustificazione, spiegando così Gen 15, 6. Il peccatore del salmo è come Abramo: si aspetta tutto da Dio. Così come Abramo, ormai vecchio e senza eredità. Il perdono è concesso come pure atto di grazia: equivalenza tra il tener conto del credere e il non tener conto del peccato, tra la giustificazione per fede e la remissione dei peccati. Quindi il credere non è un’opera buona che venga retribuita da Dio.

San Paolo non nega il valore delle opere, ma afferma che Dio non giustifica per esse (non è come il salario di un operaio), bensì per la pura gratuità da parte Sua.

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La FEDE (= pistis) comprende la fides quae creditur (le cose credute) ma altresì la fides qua creditur (la fede con cui si crede). San Paolo parte da Gen 15, 6: Abramo si lamenta di non aver figli da Sara, ma Dio lo rassicura: avrai una discendenza numerosa. Abramo credette “e gli fu computato a giustizia”. Quindi è giustificazione (“giustizia”) per fede (“credette”). Ma questo versetto pare interpretato già nell’AT come un’opera di Abramo, con cui potesse vantare un credito verso di Lui.Esempi di questa interpretazione della fede come “opera” premiata da Dio sono Sal 105, 30-31.

Doppia numerazione dei salmi: 106 (105) – il primo numero, più alto, indica il TM, il secondo indica invece la LXX, la VG, l’Ufficio divino. In sede di studio si opera la numerazione alta (con un numero solo).

I Salmi 104… sono midrash della storia della salvezza. Tra questi, il salmo 106, 30-31 che cita Num 25 (1 Israele si stabilì a Sittim e il popolo cominciò a trescare con le figlie di Moab. 2 Esse invitarono il popolo ai sacrifici offerti ai loro dèi; il popolo mangiò e si prostrò davanti ai loro dèi. 3 Israele aderì al culto di Baal-Peor e l'ira del Signore si accese contro Israele.4 Il Signore disse a Mosè: «Prendi tutti i capi del popolo e fa' appendere al palo i colpevoli, davanti al Signore, al sole, perché l'ira ardente del Signore si allontani da Israele». 5 Mosè disse ai giudici d'Israele: «Ognuno di voi uccida dei suoi uomini coloro che hanno aderito al culto di Baal-Peor».6 Ed ecco uno degli Israeliti venne e condusse ai suoi fratelli una donna madianita, sotto gli occhi di Mosè e di tutta la comunità degli Israeliti, mentre essi stavano piangendo all'ingresso della tenda del convegno. 7 Vedendo ciò, Pincas figlio di Eleazaro, figlio del sacerdote Aronne, si alzò in mezzo alla comunità, prese in mano una lancia, 8 seguì quell'uomo di Israele nella tenda e li trafisse tutti e due, l'uomo di Israele e la donna, nel basso ventre. E il flagello cessò tra gli Israeliti. 9 Di quel flagello morirono ventiquattromila persone.10 Il Signore disse a Mosè: 11 «Pincas, figlio di Eleazaro, figlio del sacerdote Aronne, ha allontanato la mia ira dagli Israeliti, perché egli è stato animato dal mio zelo fra di loro, e io nella mia gelosia non ho sterminato gli Israeliti. 12 Perciò digli che io stabilisco con lui un'alleanza di pace”).

Parimenti la fedeltà nella tentazione di Abramo è considerata giustizia: 1Mac 2, 52 – “Abramo non fu trovato forse fedele nella tentazione e non gli fu ciò accreditato a giustizia?”

Quindi San Paolo non può usare solo Gen 15, 6 per mostrare la gratuità della giustizia, ma deve trovare un versetto in cui questa sia esplicitata. E lo trova in Sal 32, 1-2 “Beato l'uomo a cui è rimessa la colpa, e perdonato il peccato. Beato l'uomo a cui Dio non imputa alcun male” citato nello stesso passo di Rom 4. San Paolo esamina tutti i passi in cui compare loghizomai (accreditare, computare) e lo trova oltre 70 volte nella LXX (si usano le Concordanze per scoprire quante volte un termine è usato in un testo; utile la Concordanza pastorale della Bibbia edita da EDB; oppure si usa bibleworks sul web o su www.laparola.net), ma la maggior parte delle volte significa ritenere, pensare, reputare (legato alla parola, alla ragione e al pensiero: logos). Ma in 9 volte significa “computare”. In tutti i testi Dio “conta” all’uomo quello che ha fatto (le opere) come bene o male. Tranne in Sal 32, 1-2. In cui al peccato, secondo la teoria della retribuzione, dovrebbe corrispondere una ricompensa negativa, un tener conto del male fatto. Invece il salmista (Davide) dice che Dio non ne tiene conto. Quindi il peccatore del salmo 32 non si comporta con Dio come in un rapporto di compra-vendita: se hai solo il peccato come opera, hai ben poco da vantare. Ma la buona notizia è che Dio non tiene conto di questo peccato, concedendo il suo perdono gratuito.A questo punto si può fare il parallelo: come Abramo si è fidato di Dio, così pure il peccatore confida in Lui, non avendo alcuna opera buona da far valere di fronte a Lui.L’analogia tra Gen 15 e Sal 32 permette di affermare la gratuità della giustificazione.

San Paolo (e ogni GS) ricava da due versetti lontani tra loro (dal pv della sequenza biblica: Genesi e Salmi) un insegnamento che non è esplicito nei due passi ma lo diventa dal confronto

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(come nel caso del “figlio ribelle” di cui parla Dt ma che si comprende chi sia solo leggendo Prov, o come nel caso della Pasqua che cade di sabato, come abbiamo visto).Non è un piegare la Scrittura a dire quanto ho in testa io, ma per trovare quanto la Scrittura dice (pag. 18 dispense). Si tratta di una attenzione tipica della Scrittura e del mondo rabbinico in genere.

Rom 3, 31: “Togliamo dunque ogni valore alla legge mediante la fede? Nient'affatto, anzi confermiamo la legge.” Togliere valore / abrogare vs confermare / dare compimento formula tipica del rabbinismo dopo Cristo, ma anche del tempo di san Paolo e di Gesù. Lo stesso Gesù dice di esser venuto a dare compimento alla legge (Mt 5, 17). Rom 3, 31 anticipa il compito della Gezerah Shawah (GS) di Rom 4: confermare un passo della legge, aprendola a un più ampio respiro, senza però confutarla. Si tratta di un’ermeneutica che porta a corretta interpretazione, per trovare (midrash) la verità nascosta.

Il fine di GS è tutelare la permanenze del nuovo all’interno dell’antico, pur nelle provocazioni dell’oggi. Non è detto che il nuovo sia meglio del vecchio (come pensiamo noi oggi). Lo strumento interpretativo della GS, o le sette regole sopra citate, non sono puro esercizio accademico ma necessari per far sì che una parola antica abbia ancora forza di guida e orientamento/legge per il presente, per le nuove situazioni. Evitando così letture fondamentaliste e “alla lettera”.

Non solo la Scrittura viene usata per illuminare una situazione presente, ma con GS la Scrittura viene (1) interpretata con la Scrittura stessa (San Paolo usa citazioni bibliche). Questo è possibile in forza di una convinzione implicita, cioè che questi passi che io rapporto tra di loro sono “commensurabili” in quanto hanno la stessa fonte. Certo, diversi dal pv storico-critico, contenutistico, autoriale, cronologico (su un arco di oltre mille anni) … ma (2) la fonte che li ha ispirati è la stessa. Dunque tratto la Scrittura come una cosa sola e unitaria. Il confronto tra passi diversi è condotto attraverso nessi logici e formali che di per sé non sono legati alla fede ma alla nostra creaturalità di persone razionali.

Successivamente le regole della GS si restringeranno. Sarà lecito (a) mettere in // solo testi della Torah/Pentateuco, (b) in ebraico, (c) in forme identiche di vocaboli. Mentre Paolo opera sulla LXX (greco), non solo la Torah, su forme verbali diverse. Ma lo fa perché le restrizioni succitate sono successive. È discepolo di Gamaliele, esperto di tecniche esegetiche rabbiniche in uso nel suo tempo.

Quanto qui visto è il cuore del corso di Teologia Biblica. Cfr. DV 12 e CCC 129.

Come deve essere interpretata la sacra ScritturaDV 12. Poiché Dio nella sacra Scrittura ha parlato per mezzo di uomini alla maniera umana (22), l'interprete della sacra Scrittura, per capir bene ciò che egli ha voluto comunicarci, deve ricercare con attenzione che cosa gli agiografi abbiano veramente voluto dire e a Dio è piaciuto manifestare con le loro parole. Per ricavare l'intenzione degli agiografi, si deve tener conto fra l'altro anche dei generi letterari. La verità infatti viene diversamente proposta ed espressa in testi in vario modo storici, o profetici, o poetici, o anche in altri generi di espressione. È necessario adunque che l'interprete ricerchi il senso che l'agiografo in determinate circostanze, secondo la condizione del suo tempo e della sua cultura, per mezzo dei generi letterari allora in uso, intendeva esprimere ed ha di fatto espresso (23). Per comprendere infatti in maniera esatta ciò che l'autore sacro volle asserire nello scrivere, si deve far debita attenzione sia agli abituali e originali modi di sentire, di esprimersi e di raccontare vigenti ai tempi dell'agiografo, sia a quelli che nei vari luoghi erano allora in uso nei rapporti umani.Perciò, dovendo la sacra Scrittura esser letta e interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta, per ricavare con esattezza il senso dei sacri testi, si deve badare con non minore diligenza al contenuto e all'unità di tutta la Scrittura, tenuto debito conto della viva tradizione di tutta la Chiesa e dell'analogia della fede. È compito degli esegeti contribuire, seguendo queste norme, alla più profonda intelligenza ed esposizione del senso della sacra Scrittura, affinché mediante i loro studi, in qualche modo preparatori, maturi il giudizio della Chiesa. Quanto, infatti, è stato qui

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detto sul modo di interpretare la Scrittura, è sottoposto in ultima istanza al giudizio della Chiesa, la quale adempie il divino mandato e ministero di conservare e interpretare la parola di Dio.

CCC 129 - I cristiani, quindi, leggono l'Antico Testamento alla luce di Cristo morto e risorto. La lettura tipologica rivela l'inesauribile contenuto dell'Antico Testamento. Non deve indurre però a dimenticare che esso conserva il valore suo proprio di Rivelazione che lo stesso nostro Signore ha riaffermato [Cf Mc 12,29-31]. Pertanto, anche il Nuovo Testamento esige d'essere letto alla luce dell'Antico. La primitiva catechesi cristiana vi farà costantemente ricorso [Cf 1Cor 5,6-8; 1Cor 10,1-11]. Secondo un antico detto, il Nuovo Testamento è nascosto nell'Antico, mentre l'Antico è svelato nel Nuovo: "Novum in Vetere latet et in Novo Vetus patet" [Sant'Agostino].

La Scrittura quindi ha in sé le regole della propria interpretazione. Come ben si vede in Lc 24, 25-27.44-47 in cui Gesù interpreta la sua morte e resurrezione secondo le Scritture.

PCB 2001 (12-15) - D. Metodi esegetici giudaici usati nel Nuovo Testamento

1. Metodi esegetici giudaici 12. La manifestazione più chiara del modo in cui i contemporanei di Gesù interpretavano le Scritture ci viene fornita dai manoscritti del mar Morto, manoscritti copiati tra il II secolo a.C. e l'anno 60 d.C. Tuttavia ricordarsi che questi documenti esprimono soltanto un aspetto della tradizione giudaica.

La più antica attestazione rabbinica di un metodo esegetico, basato del resto su testi dell'Antico Testamento, è una serie di sette «regole» attribuite tradizionalmente a Hillel (morto nel 10 d.C.). Queste sette middoth rappresentano certamente una codificazione dei modi contemporanei di argomentare a partire dalla Scrittura, in particolare per dedurne delle regole di comportamento.

Un altro modo di utilizzare la Scrittura si può osservare negli scritti di storici ebrei del I secolo, in particolare Giuseppe Flavio, ma viene usato già nello stesso Antico Testamento. Consiste nel servirsi di termini biblici per descrivere determinati eventi e mettere in questo modo in luce il loro significato. Il ritorno dall'esilio da Babilonia viene così presentato in termini che evocano la liberazione dall'oppressione egiziana al tempo dell'Esodo (Is 43,16-21). La restaurazione finale di Sion viene rappresentata come un nuovo Eden. A Qumran viene ampiamente usata una tecnica analoga.

2. Esegesi a Qumran e nel Nuovo Testamento 13. Dal punto di vista della forma e del metodo, il Nuovo Testamento, in particolare i vangeli, presenta forte rassomiglianze con Qumran nel modo di utilizzare le Scritture. Le formule per introdurre le citazioni sono spesso le stesse, ad esempio: «così è scritto», «come sta scritto». Entrambe erano comunità escatologiche che avevano la convinzione che la piena comprensione delle profezie era stata rivelata al loro fondatore e da lui trasmessa, il «Maestro di Giustizia» a Qumran, Gesù per i cristiani. Una differenza importante deve essere tuttavia notata. Nei testi di Qumran, il punto di partenza è la Scrittura. Nel Nuovo Testamento, al contrario, il punto di partenza è la venuta di Cristo. Non si tratta perciò di applicare la Scrittura al momento presente, ma di spiegare e di commentare la venuta di Cristo alla luce della Scrittura.

3. Metodi rabbinici nel Nuovo Testamento 14. I metodi giudaici tradizionali di argomentazione biblica che ricorrono più spesso solo le due prime middoth («regole») di Hillel, il qal wa-homer e la gezerah shawah . Esse corrispondono, grosso modo, all'argomento a fortiori e all'argomento per analogia. Un tratto particolare è che l'argomento verte spesso sul significato di una sola parola e il significato viene stabilito grazie alla sua ricorrenza in un determinato contesto e viene poi applicato, talvolta in modo abbastanza artificiale, a un altro contesto. Caratteristica differenza: nel midrash rabbinico ci sono citazioni di opinioni divergenti provenienti da diverse autorità, mentre nel Nuovo Testamento è decisiva l'autorità di Gesù.

Paolo utilizza queste tecniche con una frequenza particolare, specialmente nelle sue discussioni con avversari ebrei molto colti, siano essi cristiani o meno.

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Una forma particolare di esegesi giudaica che si incontra nel Nuovo Testamento è quella dell'omelia pronunciata nella sinagoga. Secondo Gv 6,59, il discorso sul pane di vita fu pronunciato da Gesù nella sinagoga di Cafarnao. La sua forma ha molte corrispondenze con quella delle omelie sinagogali del I secolo: spiegazione di un testo del Pentateuco con l'appoggio di un testo dei profeti.

4. Allusioni significative all'Antico Testamento 15. Il Nuovo Testamento utilizza spesso allusioni ad eventi biblici come mezzi per mostrare il significato di avvenimenti della vita di Gesù. I racconti dell'infanzia di Gesù nel vangelo di Matteo possono rivelare il loro pieno significato solo se letti sullo sfondo dei racconti biblici e post-biblici su Mosè. Il vangelo dell'infanzia secondo Luca è più in rapporto con lo stile di allusioni bibliche che si trova nel I secolo nei Salmi di Salomone o negli Inni di Qumran; i cantici di Maria, di Zaccaria e di Simeone possono essere paragonati ad alcuni inni di Qumran. Un certo numero di eventi della vita di Gesù, come la teofania al momento del battesimo, la sua trasfigurazione, la moltiplicazione dei pani e il cammino sulle acque, sono similmente raccontati con allusioni intenzionali ad avvenimenti e racconti dell'Antico Testamento . La reazione degli ascoltatori alle parabole di Gesù (ad esempio a quella dei vignaioli omicidi, Mt 21,33-43 e paralleli) mostra che essi erano abituati all'uso di un'immagine biblica come tecnica per esprimere un messaggio o impartire una lezione.

Tra i vangeli, quello di Matteo dà maggiormente prova di familiarità con le tecniche giudaiche di utilizzazione della Scrittura. Esso cita spesso la Scrittura alla maniera dei pesharim di Qumran; ne fa ampiamente uso per argomentazioni giuridiche o simboliche in un modo che, più tardi, diventerà corrente negli scritti rabbinici. Questo vangelo utilizza, più degli altri, i procedimenti del midrash narrativo nei suoi racconti (vangelo dell'infanzia, episodio della morte di Giuda, intervento della moglie di Pilato). L'uso molto diffuso dello stile di argomentazione rabbinico, specialmente nelle lettere paoline e nell'epistola agli Ebrei, attesta senza ombra di dubbio che il Nuovo Testamento proviene dalla matrice del giudaismo ed è impregnato della mentalità dei commentatori ebrei della Bibbia.

L’ANALOGIA BIBLICA – dispense pp. 15-24

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ESTENSIONE DEL CANONE DELLE SCRITTURE

PCB 2001 nn 16-18E. L'estensione del canone delle Scritture 16. Si chiama «canone» (dal greco kanōn, «regola») la lista dei libri riconosciuti come ispirati da Dio e aventi un valore di regola per la fede e i costumi. L'argomento di cui ci occupiamo qui è quello della formazione del canone dell'Antico Testamento.

1. Situazione nel giudaismo Tra il canone ebraico delle Scritture e il canone cristiano dell'Antico Testamento esistono delle differenze. Queste venivano spiegate ammettendo generalmente che all'inizio dell'era cristiana esistessero nel giudaismo due canoni: un canone palestinese in ebraico, l'unico accettato in seguito dagli ebrei, e un canone alessandrino in greco, più esteso — chiamato i Settanta —, adottato dai cristiani. Recenti ricerche e alcune scoperte hanno messo in dubbio questa opinione. Oggi sembra più probabile che al tempo della nascita del cristianesimo, le raccolte chiuse dei libri della Legge e dei profeti esistessero in una forma testuale sostanzialmente identica a quella del nostro Antico Testamento attuale. La raccolta degli «Scritti», invece, non era così ben definita, in Palestina e nella diaspora ebraica, sia nel numero dei libri che nella forma del loro testo. Molti libri che facevano parte del terzo gruppo, mal definito, di testi religiosi, furono letti regolarmente da alcune comunità ebraiche nel corso dei primi secoli d.C. Tradotti in greco, essi circolavano tra i Giudei ellenisti, sia in Palestina che nella diaspora.

2. Situazione nella Chiesa primitiva 17. Essendo i primi cristiani per la maggior parte giudei della Palestina, «ebrei» o «ellenisti» (cf At 6,1), la loro visione della Scrittura doveva riflettere quella del loro ambiente, ma le nostre informazioni al riguardo sono scarse. In seguito, gli scritti del Nuovo Testamento fanno ritenere che nelle comunità cristiane circolasse una letteratura sacra più ampia del canone ebraico. Quando il cristianesimo si diffuse nel mondo ellenistico continuò a servirsi dei libri sacri che aveva ricevuto dal giudaismo ellenizzato. Sebbene i cristiani di espressione greca avessero ricevuto dagli ebrei le loro Scritture sotto la forma dei Settanta, non conosciamo questa forma con precisione, perché essa ci è pervenuta solo in manoscritti cristiani. Ciò che la Chiesa sembra aver ricevuto è un corpus di Scritture sacre, che erano, all'interno del giudaismo, sulla strada per diventare canoniche. Quando il giudaismo arrivò alla chiusura del proprio canone, la Chiesa cristiana era sufficientemente autonoma in rapporto al giudaismo da non esserne immediatamente influenzata. Fu solo in epoca posteriore che un canone ebraico ormai chiuso cominciò ad esercitare una sua influenza sul modo di vedere dei cristiani.

Pag. 27 ss dispenseIl canone ebraico comprende 39 libri vs 46 dell’AT cattolico (mancano i deuterocanonici: Tobia, Giuditta, 1-2 Maccabei, Sapienza, Siracide, Baruc).Già il prologo del Siracide, ma anche Gesù, citano le parti del canone ebraico.Come pure in Lc 24 che parla del compimento della Torah, dei Profeti, dei Salmi (primo libro degli “Scritti”)

Cfr sintesi TaNakh (pag. 31).Il TANAK è ordinato per peso. Prima la Torah di Mosé, che per un ebreo vale quanto i Vangeli per un cristiano. Poi ci sono i Profeti (che si leggono a commento della Torah nella liturgia sinagogale, come noi usiamo una prima lettura, solitamente dall’AT, ad accompagnare il Vangelo).Un gradino più in basso troviamo gli Scritti.

Il canone ebraico e il canone cristiano dell’Antico Testamento (Jean Louis SKA, S.I.) – pag. 32 ss. (cfr. dispense)

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3. Formazione del canone cristiano 18. L'Antico Testamento della Chiesa antica assunse forme differenti nelle diverse regioni, come mostrano le varie liste dell'epoca patristica. La maggior parte degli autori cristiani a partire dal II secolo, così come i manoscritti della Bibbia del IV e dei secoli successivi, utilizzano o contengono un gran numero di libri sacri del giudaismo, compresi libri che non sono stati accettatati nel canone ebraico. Solo dopo che gli ebrei ebbero definito il loro canone la Chiesa pensò a chiudere il proprio canone dell'Antico Testamento.

In Oriente, a partire dal tempo di Origene (ca. 185-253), si cercò di conformare l'uso cristiano al canone ebraico, utilizzando per questo diverse combinazioni e stratagemmi. Origene stesso era inoltre consapevole dell'esistenza di numerose differenze testuali, talvolta considerevoli, tra la Bibbia in ebraico e quella in greco. Questo problema si aggiungeva a quello della differenza delle liste di libri. Gli sforzi compiuti allo scopo di conformarsi al canone e al testo ebraico non impedirono agli autori cristiani d'Oriente di utilizzare nei loro scritti libri che non erano stati ammessi nel canone ebraico, né di seguire per gli altri il testo dei Settanta. L'idea che il canone ebraico dovesse essere preferito dai cristiani non sembra aver prodotto sulla Chiesa d'Oriente un'impressione profonda, né duratura.

In Occidente, si mantenne ugualmente un'utilizzazione più ampia dei libri sacri ed essa trovò in Agostino il suo difensore. Quando si trattò di selezionare i libri da includere nel canone, Agostino (354-430) basò il suo giudizio sulla prassi costante della Chiesa. All'inizio del V secolo, alcuni concili adottarono la sua posizione per compilare il canone dell'Antico Testamento. Per quanto riguarda le differenze testuali tra la Bibbia in greco e quella in ebraico, Girolamo basò la sua traduzione sul testo ebraico. Per i libri deuterocanonici egli si limitò generalmente a correggere la Vecchia [traduzione] Latina. A partire da allora la Chiesa in Occidente riconosce una duplice tradizione biblica: quella del testo ebraico per i libri del canone ebraico, quella della Bibbia greca per gli altri libri, il tutto in una traduzione latina.

Basandosi su una tradizione secolare, il concilio di Firenze, nel 1442, e poi quello di Trento, nel 1564, hanno fugato, per i cattolici, dubbi e incertezze. La loro lista si compone di 73 libri, ricevuti come sacri e canonici, perché ispirati dallo Spirito Santo, 46 per l'Antico Testamento, 27 per il Nuovo Testamento. In questo modo la Chiesa cattolica ha ricevuto il suo canone definitivo, per la cui determinazione il Concilio si era basato sull'uso costante nella Chiesa. Adottando questo canone, più ampio di quello ebraico, esso ha preservato una memoria autentica delle origini cristiane, poiché, come abbiamo visto, il canone ebraico, più limitato, è posteriore all'epoca della formazione del Nuovo Testamento.

Dispense pp. 25-38

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COMPRENSIONE CRISTIANA DEI RAPPORTI TRA AT & NT

PCB 2001 nn 19-22II. TEMI FONDAMENTALI DELLE SCRITTURE DEL POPOLO EBRAICO E LORO ACCOGLIENZA NELLA FEDE IN CRISTO 19. Alle Scritture del popolo ebraico, da essa ricevute come autentica Parola di Dio, la Chiesa cristiana ha unito altre Scritture, che esprimono la sua fede in Gesù, il Cristo. Di conseguenza, la Bibbia cristiana non comprende un «Testamento» unico, ma due «Testamenti», l'Antico e il Nuovo, che intrattengono tra loro rapporti complessi, dialettici. Per farsi un'idea corretta delle relazioni tra la Chiesa cristiana e il popolo ebraico, è indispensabile lo studio di questi rapporti, la cui comprensione è mutata col tempo.

A. Comprensione cristiana dei rapporti tra Antico e Nuovo Testamento

1. Affermazione di un rapporto reciproco Definendo le Scritture del popolo ebraico «Antico Testamento», la Chiesa non ha voluto affatto suggerire che esse siano superate e che se ne potesse ormai fare a meno. Al contrario, essa ha sempre affermato che Antico Testamento e Nuovo Testamento sono inseparabili. Il loro primo rapporto sta proprio in questa inseparabilità. Quando, all'inizio del II secolo, Marcione voleva rifiutare l'Antico Testamento, si scontrò con una totale opposizione da parte della Chiesa post-apostolica. Il rifiuto dell'Antico Testamento portava del resto Marcione a respingere anche gran parte del Nuovo — accettava solo il vangelo di Luca e una parte delle lettere di Paolo —, il che dimostrava chiaramente che la sua posizione era insostenibile. È alla luce dell'Antico Testamento che il Nuovo comprende la vita, la morte e la glorificazione di Gesù (cf 1Cor 15,3-4).

Ma il rapporto è reciproco: da una parte, il Nuovo Testamento richiede di essere letto alla luce dell'Antico, ma, dall'altra, invita a «rileggere» l'Antico alla luce di Cristo Gesù (cf Lc 24,45). Come è stata fatta questa «rilettura»? Essa si è estesa a tutte le Scritture (Lc 24,27), a «tutte le cose scritte nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi» (24,44), ma il Nuovo Testamento ci presenta solo un numero limitato di esempi, senza formulare una teoria metodologica.

2. Rilettura dell'Antico Testamento alla luce di Cristo I testi parlano di tipologia e di lettura alla luce dello Spirito (2 Cor 3,14-17), suggerendo l'idea di un duplice livello di lettura, quello del senso originario, percepibile in un primo tempo, e quello di una interpretazione ulteriore, rivelata alla luce di Cristo. Nel giudaismo era abituale fare certe riletture. Era lo stesso Antico Testamento a mettere su questa strada. C'era, ad esempio, la rilettura dell'episodio della manna; non si negava il dato originario, ma se ne approfondiva il senso vedendo nella manna il simbolo della Parola con cui Dio nutre continuamente il suo popolo (cf Dt 8,2-3). I libri delle Cronache sono una rilettura del libro della Genesi e dei libri di Samuele e dei Re. Lo specifico nella rilettura cristiana è che viene fatta — come abbiamo appena ricordato — alla luce del Cristo.

L'interpretazione nuova non abolisce il senso originario. L'apostolo Paolo afferma inequivocabilmente che «gli oracoli di Dio sono stati affidati» agli Israeliti (Rm 3,2) e dà per scontato che questi oracoli dovevano e potevano essere letti e compresi fin da prima della venuta di Gesù. Quando parla di un accecamento degli ebrei circa «la lettura dell'Antico Testamento» (2 Cor 3,14), egli non intende parlare di una totale incapacità di lettura, ma di un'incapacità di rilettura alla luce di Cristo.

3. Rilettura allegorica 20. Il metodo nel mondo ellenistico era diverso, ma l'esegesi cristiana se ne servì ugualmente. I greci interpretavano talvolta i loro testi classici trasformandoli in allegorie. Dovendo commentare poemi antichi, come le opere di Omero, dove gli dei sembravano agire come uomini capricciosi e vendicativi, gli autori attribuivano loro un significato più accettabile dal punto di vista religioso e morale sostenendo che il poeta si era espresso in modo allegorico e che aveva voluto in realtà descrivere i conflitti psicologici umani, le passioni dell'anima, sotto la finzione di lotte tra dei. In questo caso, il senso nuovo, più spirituale faceva scomparire il senso originario del testo.

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Gli ebrei della diaspora utilizzarono talvolta questo metodo, in particolare per giustificare agli occhi del mondo ellenistico certe prescrizioni della Legge che, prese alla lettera, potevano sembrare prive di senso. Filone d'Alessandria, nutrito di cultura ellenistica, si mosse in questa direzione. Egli sviluppava talvolta, in modo originale, il senso originale, ma, altre volte, adottava una lettura allegorica che lo svuotava completamente. In seguito la sua esegesi fu respinta dal giudaismo.

Nel Nuovo Testamento si trova una sola menzione delle «cose dette per allegoria» (allegoroumena: Gal 4,24), ma in realtà si tratta in questo caso di tipologia; cioè i personaggi menzionati nel testo antico sono presentati come evocatori di realtà future, senza che venga messa minimamente in dubbio la loro esistenza nella storia.

I padri della Chiesa e gli autori medievali ne faranno, al contrario, un uso sistematico , nei loro sforzi per offrire un'interpretazione attualizzante, ricca di applicazioni alla vita cristiana, di tutta la Bibbia, fin nei suoi minimi dettagli — sia, del resto, per il Nuovo Testamento che per l'Antico. Origene, ad esempio, vede nel pezzo di legno di cui si serve Mosè per rendere dolci le acque amare (Es 15,22-25) un'allusione al legno della croce; nella cordicella di filo scarlatto con la quale Raab fa riconoscere la sua casa (Gs 2,18) un'allusione al sangue del Salvatore. Venivano sfruttati tutti i dettagli che si prestavano a fornire un punto di contatto tra l'episodio veterotestamentario e le realtà cristiane. In ogni pagina dell'Antico Testamento si trovavano una moltitudine di allusioni dirette e specifiche a Cristo e alla vita cristiana, ma si correva il rischio di staccare ogni dettaglio dal suo contesto e di ridurre a nulla i rapporti tra il testo biblico e la realtà concreta della storia della salvezza. L'interpretazione diventava arbitraria.

4. Ritorno al senso letterale Tommaso d'Aquino percepì in modo chiaro il pregiudizio inconscio che sosteneva l'esegesi allegorica: il commentatore poteva scoprire in un testo solo quello che egli già conosceva in precedenza e, per conoscerlo, aveva dovuto trovarlo nel senso letterale di un altro testo. Da qui la conclusione tratta da Tommaso d'Aquino: non è possibile argomentare in modo valido a partire dal senso allegorico, ma solo a partire dal senso letterale.

Lo studio critico dell'Antico Testamento è andato sempre più in questa direzione, arrivando alla supremazia del metodo storico-critico. Si è così messo in moto un processo inverso. Il rischio oggi è quello di cadere nell'eccesso opposto, che consiste nel rinnegare globalmente, insieme agli eccessi del metodo allegorico, tutta l'esegesi patristica e l'idea stessa di una lettura cristiana e cristologica dei testi dell'Antico Testamento. Da qui lo sforzo avviato nella teologia contemporanea, per strade differenti che ancora non sono confluite in un consenso, di rifondare una interpretazione cristiana dell'Antico Testamento esente da arbitrarietà e rispettosa del senso originale.

5. Unità del disegno di Dio e nozione di compimento 21. Il presupposto teologico di base è che il disegno salvifico di Dio, che culmina in Cristo (cf Ef 1,3-14), è unitario, ma si è realizzato progressivamente attraverso il tempo. L'aspetto unitario e l'aspetto graduale sono entrambi importanti; così come lo sono la continuità su alcuni aspetti e la discontinuità su altri. Le prime realizzazioni, per quanto provvisorie e imperfette, fanno già intravedere qualcosa della pienezza definitiva. Operando una continua rilettura degli eventi e dei testi, l'Antico Testamento stesso si apre progressivamente a una prospettiva di compimento ultimo e definitivo. L'esodo, esperienza fondante della fede d'Israele (cf Dt 6,20-25; 26,5-9), diventa il modello di ulteriori esperienze di salvezza. La liberazione dall'esilio babilonese e la prospettiva di una salvezza escatologica vengono descritte come un nuovo esodo. L'interpretazione cristiana si situa in questa linea, ma con la differenza che essa vede il compimento già sostanzialmente realizzato nel mistero di Cristo.

La nozione di compimento è estremamente complessa, e può essere facilmente falsata se si insiste unilateralmente o sulla continuità o sulla discontinuità. La fede cristiana riconosce il compimento, in Cristo, delle Scritture e delle attese d'Israele, ma non comprende tale compimento come la semplice realizzazione di quanto era scritto. Una tale concezione sarebbe riduttiva. In realtà, nel mistero del Cristo

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crocifisso e risorto, il compimento avviene in modo imprevedibile. Comporta un superamento. Gesù conferisce alle nozioni di messia e di salvezza una pienezza che era impossibile immaginare prima; le riempie di una nuova realtà. Sarebbe infatti un errore considerare le profezie dell'Antico Testamento delle fotografie anticipate di eventi futuri. Tutti i testi, compresi quelli che, in seguito, sono stati letti come profezie messianiche, hanno avuto un valore e un significato immediati per i contemporanei, prima di acquistare un significato più pieno per gli ascoltatori futuri. Il messianismo di Gesù ha un significato nuovo e inedito.

Più si trova evidente il riferimento al Cristo nei testi veterotestamentari, più si ritiene ingiustificabile e ostinata l'incredulità degli ebrei. Ma la constatazione di una discontinuità tra l'uno e l'altro Testamento e di un superamento delle prospettive antiche non deve portare a una spiritualizzazione unilaterale. Ciò che è già compiuto in Cristo deve ancora compiersi in noi e nel mondo. Il compimento definitivo sarà quello della fine, con la risurrezione dei morti, i cieli nuovi e la terra nuova. L'attesa messianica ebraica non è vana. Essa può diventare per noi cristiani un forte stimolo a mantenere viva la dimensione escatologica della nostra fede. Anche noi, come loro, viviamo nell'attesa. La differenza sta nel fatto che per noi Colui che verrà avrà i tratti di quel Gesù che è già venuto ed è già presente e attivo tra noi.

6. Prospettive attuali L'Antico Testamento possiede in se stesso un immenso valore come Parola di Dio. Certo, per i cristiani, tutta l'economia veterotestamentaria è in movimento verso Cristo; se si legge perciò l'Antico Testamento alla luce di Cristo è possibile, retrospettivamente, cogliere qualcosa di questo movimento. Ma leggerli retrospettivamente, con occhi da cristiani, significa percepire al tempo stesso il movimento verso Cristo e la distanza in rapporto a Cristo, la prefigurazione e la dissomiglianza. Inversamente, il Nuovo Testamento può essere pienamente compreso solo alla luce dell'Antico Testamento. L'interpretazione cristiana dell'Antico Testamento è quindi un'interpretazione differenziata a seconda dei diversi tipi di testi. Si tratta di un'interpretazione teologica, ma al tempo stesso pienamente storica. Lungi dall'escludere l'esegesi storico-critica, la richiede.

Quando il lettore cristiano percepisce che il dinamismo interno all'Antico Testamento trova la sua realizzazione in Gesù, si tratta di una percezione retrospettiva, il cui punto di partenza non si situa nei testi come tali, ma negli eventi del Nuovo Testamento proclamati dalla predicazione apostolica. Non si deve perciò dire che l'ebreo non vede ciò che era annunciato nei testi, ma che il cristiano, alla luce di Cristo e della Chiesa, scopre nei testi un di più di significato che vi era nascosto.

7. Contributo della lettura ebraica della Bibbia 22. Lo sconvolgimento prodotto dallo sterminio degli ebrei (la shoa) nel corso della seconda guerra mondiale ha spinto tutte le Chiese a ripensare completamente il loro rapporto col giudaismo e, di conseguenza, a riconsiderare la loro interpretazione della Bibbia ebraica, l'Antico Testamento. I cristiani dovrebbero allora leggere questa Bibbia come gli ebrei, per rispettare realmente la sua origine ebraica? Ragioni ermeneutiche obbligano a dare a quest'ultima domanda una risposta negativa. Infatti, leggere la Bibbia alla maniera del giudaismo implica necessariamente l'accettazione di tutti i presupposti di quest'ultimo, cioè l'accettazione integrale di ciò che è costitutivo del giudaismo, in particolare l'autorità degli scritti e delle tradizioni rabbiniche, che escludono la fede in Gesù come Messia e Figlio di Dio. Sul piano concreto dell'esegesi, i cristiani possono, nondimeno, apprendere molto dall'esegesi ebraica praticata da più di duemila anni, e in effetti hanno appreso molto nel corso della storia.

GARGANO, pp. 5-26

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TIPOLOGIA

Nella tipologia una realtà viene letta come figura di un'altra realtà, così una realtà dell’AT può essere vista come figura di una realtà del NT. Parla di realtà perché la tipologia non necessariamente indebolisce il valore della parola antica, ma ritrovo nel presente la dinamica, il modo di agire di Dio già presente in passato. Abbiamo fatto l'esempio dell'esodo, esso viene annunciato in Es ma poi si presenta la liberazione dagli assiri con le categorie dell'esodo, questo in forza dell'analogia.

Notiamo che già l'AT hanno una dimensione tipologica se leggiamo Es la pasqua, ad es. Es 12,24-27;13 ritroviamo le indicazioni per il futuro della celebrazione. Già anticamente gli autori sacri sottolineavano di ricordare gli eventi dell'esodo attraverso la celebrazione della pasqua, che non è il semplice ricordo dell'esodo. L'evento nuovo non toglie valore all’evento antico, ma vedo una corrispondenza, allora mi accorgo che la parola antica aveva figurato questo, o prefigurato. 1Cor 10 San Paolo ricorda il cedimento di Israele alla idolatria nel deserto: non toglie valore all'evento antico, sta dicendo che questa realtà nuova che io vivo in Cristo è già presente nell'antico che ne viene illuminato. Nel fare questa operazione non ho necessità di togliere valore al vecchio, significherebbe perdere la dimensione storica della storia della salvezza.

Tuttavia ci sono anche dei casi in cui questo può rivelarsi possibile. 2 Sam 7 formula tre promesse Davide chiama il profeta Natan perché vuole fare una casa per il Signore che sarà per lui padre e Davide sarà figlio e il suo regno non avrà fine. Questa promessa ha una risposta storica, il Signore mantiene la sua promessa, Davide diventa re e ha un figlio.  Nei libri storici sui re c'è la consapevolezza di questa discendenza che il Signore non spegne.Senonché il regno finisce con il 586 e dopo non sarà la stessa cosa. Dopo il 586 la storia è come sospesa, non c’è più la monarchia davidica a reggere Israele. Arriviamo a Gesù e leggiamo Lc 1,26-38 quello che l'angelo dice a Maria ha alla base 2 Sam 7. Quindi la parola antica ha trovato una risposta, un compimento della promessa iniziale (a Davide), ma quella promessa, quella parola antica ha una portata più grande rispetto a quello contenuto nei libri dei re che trova compimento definitivo in Gesù. Ci sono alcune figure che hanno una realizzazione storica concreta, che però non esaurisce la verità di quell'evento, ma vanno oltre.Però esistono anche delle parole che sembrano non avere una realizzazione immediata, per esempio Is 7,14 (La vergine partorirà)I Padri diranno extra tempus sed non extra mysterium, il mistero di Cristo sarà la chiave ermeneutica di tutta la Scrittura, che perciò può avere una interpretazione letterale e una spirituale.L'altro assioma che risale a Gregorio Magno è: divina eloquia cum legente crescunt - c'è una crescita legata all'operazione della lettura e a chi legge, questo in merito alla tipologia che fa sì che il significato della scrittura si estenda. Il significato di un brano viene esteso come a macchia d'olio su 5 possibili dimensioni . 1) le parole della scrittura si riferiscono alla dimensione storica del Gesù terreno. Questo soprattutto Matteo, ad esempio la nascita verginale di Gesù da Maria secondo Is 7,14. 2) Vedere il mistero di Cristo nei tipi da lui portati a compimento. In alcune figure dell'AT vedo dei misteri che lui ha portato a compimento, l'agnello, la manna, il serpente di bronzo. Già nell’AT c'è un simbolo, un mistero: Gesù ne è il compimento (Gv 3).

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3) la tipologia opera la visione dei misteri di Cristo nei sacramenti celebrati dalla Chiesa che è il corpo mistico di Cristo. Quello che è realizzato in Cristo si realizza nella Chiesa attraverso i sacramenti affinché in essa si compia ciò che in essa manca della passione di Cristo. Piano piano avviene questa estensione della forza di Cristo nelle membra. 4) Attraverso la vita spirituale del cristiano. Riguarda la nostra vita perché quello che viene detto nella scrittura riguarda la vita del cristiano. Già i testi della scrittura portano in questa direzione, è un criterio che emerge dalla scrittura stessa. Il suo senso si estende al mio presente oggi, mi consente di cogliere il significato di quel brano antico per la mia vita, per la vita della Chiesa. In questo senso la Scrittura è una realtà dinamica, non statica e ancora una volta recuperiamo quello che si dice della Torah che ha 70 volti.  Ci porta in un circolo di vita e la dinamica è questa: divina eloquia cum legente crescunt. 5) Il compimento finale, escatologico. Il libro di riferimento è l'Apocalisse, tutto quello che cerco di comprendere lo faccio nella logica di riferimento alle realtà ultime.A questo punto ci rendiamo conto che la realtà del NT sarà chiusa solo alla fine dei tempi e la vita della chiesa è parte integrante del NT. L'AT ha una struttura aperta, ma anche il NT perché l'Apocalisse si conclude con "Vieni Signore Gesù". Gargano dice che la tipologia opera una estensione del senso in senso orizzontale, a livello storico.

(Pag. 48 delle dispense) - Saremo partecipi della pasqua... San Gregorio di Nazianzo. C'è una figura antica che diventa più chiara al presente che diventerà più chiaro quando il Verbo festeggerà con noi la nuova Pasqua nel Regno del Padre.(Pag. 51) Prof. Bovati: la figura è un evento che diventa oggetto di racconto dal valore simbolico. Dio ha il suo proprio modo di agire, un suo stile che si ripropone, ma non semplice ripetizione, il Signore fa cose nuove che riflettono sempre il suo stile. Ogni figura è così profezia.Il lettore non è uno qualsiasi, ma membro della Chiesa.

La tipologia è una dimensione dell'esegesi patristica. Altra dimensione esegetica patristica è l'allegoria. Se la tipologia è la ricerca del significato delle scritture in estensione orizzontale, l'allegoria è una ricerca del senso delle scritture scavando, cercando il senso in una direzione verticale, verso la profondità, cosa c'è sotto. Prima di definire alcune cose dell'allegoria torniamo su alcune cose.

Fa parte della convinzione di tutti i Padri che la scrittura ha due significati, uno letterale, superficiale, e un senso più profondo o spirituale. Per i Padri è necessario arrivare a questo senso più profondo. Nella tradizione ebraica il midrash ha lo stesso scopo. Per i Padri il senso nascosto delle scritture è il mistero pasquale di Gesù, la sua morte e risurrezione, la chiave di comprensione delle scritture, principio ricavato da Lc 24.L'esegesi patristica ha le sue radici nel NT e i criteri dei Padri sono desunti dalla scrittura stessa, soprattutto dal NT. I Padri faranno operazioni esegetiche simili a quelle dei rabbini ebraici e di pensatori ebraici di lingua greca come Filone alessandrino. Accenniamo anche al fatto che l'allegoria tipica della scuola alessandrina, nasce in ambito greco attorno al 600 a. C.  Già a quell'epoca ci si poneva il problema di come interpretare il testi omerici, perché da un lato avevano una forma bella poetica, dall'altro già a quell'epoca si poneva il problema della loro interpretazione, i loro contenuti facevano problema. Vizi guerre adulteri, caprici, erano attribuiti alle divinità. Cosa fare? I fondamentalisti dicevano che quei libri andavano bruciati. Si pone quindi un problema su questi testi, risolto attraverso l'interpretazione.

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 Furono sviluppate 4 teorie interpretative,

1) La theoria physiché: i racconti poetici mitici non sarebbero altro che la rappresentazione di fenomeni naturali, vorrebbero portarci a conoscere l'ordine dell'universo. I testi poetici in questione sono una tentativo di ricerca della comprensione del mondo.

2) La theoria antropiché: questi testi poetici disturbano, sconvolgono. Allora nascono teorie interpretative che cercano più in profondità da un punto di vista antropologico, l'essere umano nella sua manifestazione di maschio o di femmina, diversificato nelle sue membra, nei suoi sentimenti. A ciascuno di questi elementi i poeti avrebbero abbinato una divinità, avrebbero rappresentato sotto forma di divinità questi aspetti dell'uomo. Quindi non dobbiamo pensare che l'autore sia stato ingenuo, ma che abbia parlato in modo figurato, allora devo andare oltre la superficie e scoprire la teoria (da orao), dal greco: la visione in profondità.

3) La theoria historichè, teoria storica, che è stata ripresa nell'ottocento. I poemi si rifarebbero a eventi storici lontani nel tempo riguardanti qualche personaggio che avrebbe svolto gesta particolarmente eroiche in favore di questa o quella città. Allontanandosi nel tempo questo personaggio eroico per la collettività sarebbe stato ricoperto di un'aureola, e quindi divinizzato o mitizzato. Questa teoria presuppone che per trovare il senso del testo faccia una demitizzazione del personaggio o fatto storico iniziale. 

4) La theoria tropichè: ricerca di un significato morale nei testi. Questa teoria supponeva che i testi poetici volessero dare un insegnamento, trasmettere una sapienza. Come? Coniugando l'utile al dilettevole. La forma esterna della poesia racchiude un significato. Questa dimensione era molto presente nell'antichità: un testo doveva avere una utilità morale, per il cammino virtuoso. Anche qui si tratta di non fermarsi al livello superficiale del testo, ma quale sia il significato morale

Queste 4 teorie presupponevano che il poeta non fosse stato ingenuo e avesse voluto dire qualcosa di profondo che andava cercato oltre la lettera del testo che poteva essere sconvolgente a una prima lettura tanto più che era convinzione che il poeta non scrivesse solo in forza del suo ingegno ma in forza di una ispirazione. Anche presso i greci il poeta era ispirato e la comprensione dei testi poetici non può passare se non attraverso una medesima ispirazione, una connaturalità con il poeta stesso.

Queste teorie sono all'origine della allegoria. Alcuni capirono che non era necessario eliminare i testi scandalosi, anzi proprio perché lo erano rivelavano il loro significato profondo.

IL TRERMINE allegoria nasce nel primo sec. a.C. 

Allo agoreuo = portare in piazza altro; l'allegoria mi fa scoprire quel qualcosa d'altro rispetto a quello che ho messo sotto gli occhi. Questo altro è la parte nascosta di una realtà che all'apparenza sembra tutt'altra cosa, che per essere raggiunta occorrerà una azione di ricerca.

Sull'allegoria dall'antichità ci sono stati pareri discordanti che si ripropongono ancora oggi.Plutarco dice: si è voluto far violenza ai testi di Omero...Eraclito: viene chiamata allegoria la figura stilistica che dice una cosa ma ne significa un'altra dalla cosa detta, così se un testo è stato scritto in allegoria il suo significato sarà scoperto con l'allegoria.L'allegoria come la figura stilistica che implica un segnale nascosto di alterità di senso rispetto alle cose che va dicendo in piazza. Dà nascostamente il segnale dell'alterità.

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Gargano arriva a una sua definizione: è il tentativo di risolvere l'ambiguità di un testo passando dalla sua forma opinabile esterna e manifesta al contenuto di verità interno e segreto, per mezzo o di un dono di ispirazione o di un'acquisita capacità di discernimento . Questo sottolinea che i poeti erano ritenuti ispirati perciò il testo che è ispirato non dice né nasconde, ma significa, esprime un significato. Filone di Alessandrino dice che a lui non interessa se le cose su Abramo sono successe davvero, ma se quelle cose hanno senso per la sua vita. Astrae e va alle categorie dell'uomo di sempre.Parlando dell'esegesi allegorica dobbiamo dire che era un punto fermo la ricerca del senso più profondo del testo e quindi avveniva di fatto una gradualità nella comprensione del testo biblico.

ALLEGORIA E I SENSI DELLA SCRITTURA

L’allegoria è una visione in profondità, la ricerca del senso più intimo del testo. Era infatti convinzione dei padri della Chiesa ma anche dei classici della grecità (nonché di Filone Alessandrino) che oltre a un significato che si coglie di primo acchito, alla lettura del testo biblico, ci fosse un significato più profondo che andava cercato.L’ALLEGORIA cerca proprio questo “altro” significato che è più profondo di quanto emerga dalla lettera del testo. Era convinzione non solo di ebrei e cristiani ma anche dei classici greci che i testi poetici fossero ispirati – in senso divino, dallo Spirito Santo, per la Scrittura; dalle Muse per i poeti antichi -. Non era dunque solo il risultato della capacità retorica o letteraria del poeta/scrittore.Per comprendere il testo, occorreva dunque la medesima ispirazione: se non mi ispira la stessa musa, non posso cogliere il senso profondo. Non bastano delle tecniche interpretative ma occorre una connaturalità col poema stesso.

ORIGENE: (1) ritiene che le Scritture provengano dallo Spirito di Dio e, se è così, occorre cercarne il senso voluto dallo Spirito; (2) AT e NT provengono dal medesimo Spirito, quindi l’unità dei due Testamenti è la carta di identità dell’esegeta cristiano; (3) le Scritture hanno un significato latente (nascosto); (4) l comprensione autentica delle Scritture avviene nella Chiesa di Gesù Cristo garantita dalla successione apostolica.Questi sono i presupposti su cui appoggiamo quanto segue.

Per Origene e i padri in generale, il senso nascosto della Scrittura è Gesù (e il suo mistero pasquale). In Gv 5, 46 Gesù rimprovera i farisei e dice: “Se credeste a Mosé, credereste anche a me, poiché di me egli ha scritto”. Nella Legge si possono dunque trovare tante cose scritte con riferimento tipico ed enigmatico (figurale nascosto) al Cristo.Se questa è una chiave metodologica di Origine, è evidente che si regge sull’unità dei due testamenti. Il fondamento del NT è l’AT, ma l’AT viene letto alla luce del NT. La fede in Cristo pare necessaria per comprendere le Scritture. D’altra parte, quei Giudei che non credono in Gesù, non hanno la fede perché si sono fermati al senso letterale delle Scritture. Ma andare oltre a questo non è frutto di tecnica, bensì di apertura dello Spirito. Solo così si può infatti cogliere il senso più nascosto. In Rom 7, 14 Origene legge che “tutta la Legge è spirituale” e ne ricava che quanto la Legge vuol significare spiritualmente non è per tutti, ma solo per quanti si aprono all’azione dello Spirito. Per Origene l’esegeta non è solo uno studioso bensì uno che viene convertito dalla Parola e che giunge a comprensione sempre più profonda della Scrittura stessa. La conversione è parte del lavoro, accanto allo studio e all’analisi. È lo Spirito stesso che opera attraverso il testo, e rimane

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sempre una alterità del testo rispetto a chi lo legge, resta una ulteriorità di senso che l’esegeta, con tutti i suoi sforzi, non può determinare. Non si possiede la verità, bensì essa ci possiede. Se si è mossi da passioni disordinate, non si comprende bene il testo.

Pr 22, 20 (LXX) – “E tu nota queste cose in te stesso tre volte, per la volontà e la conoscenza sull’estensione del tuo cuore”.La prima indicazione di metodo è che occorre leggere 3 volte (cioè a 3 livelli) il testo.1Tess 5, 23 – “La santificazione dell’uomo deve abbraccio corpo, spirito, anima”.La persona umana è dunque fatta di 3 livelli di realtà: corpo, spirito, anima.Poiché la Scrittura è stata data per la salvezza dell’uomo, se l’uomo consta di 3 livelli, la Scrittura deve guarire/salvare sia il corpo, sia l’anima, sia lo spirito dell’uomo. Tre volte bisogna notare nell’anima: il semplice si sazia con la carne della Scrittura, il progredito con l’anima (Psyche) della Scrittura, ma il perfetto giunge nella legge spirituale che contiene l’ombra dei beni futuri. Si sente un’eco della dottrina gnostica: benché egli sia contro lo gnosticismo, ne accoglie certi schemi. Gli gnostici separavano i due testamenti, mentre Origene li unisce. Per Origene è la chiesa che garantisce l’interpretazione della Scrittura, per gli gnostici no (sapere esoterico, non pubblico).

Anche la Scrittura è quindi composta di corpo, anima e spirito.1Tess 5, 23 CORPO ANIMA SPIRITOSenso letterale morale spirituale/misticoUomini carnali* psichici spirituali

*Per gli gnostici i carnali sono irrimediabilmente perduti, mentre per Origene anche a questo livello della persona umana vi è possibilità di salvezza. Queste ripartizioni non vanno intese come compartimenti stagni, bensì come dimensioni diverse presenti in ogni individuo.Origene si pone anche da un pv pedagogico: non si tratta soltanto di trovare determinati sensi presenti nella Scrittura ma di far sì che il lettore credente sia accompagnato dalla Scrittura stessa laddove lo Spirito vuol portarlo.Anche San Paolo parla di una tripartizione tra uomini in: 1Cor 2, 6.14-15 (“6 Tra i perfetti parliamo, sì, di sapienza, ma di una sapienza che non è di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo che vengono ridotti al nulla 14 L'uomo naturale (psichico) però non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito. 15 L'uomo spirituale invece giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno”) e 1Cor 3, 1-3 (“1 Io, fratelli, sinora non ho potuto parlare a voi come a uomini spirituali, ma come ad esseri carnali, come a neonati in Cristo. 2 Vi ho dato da bere latte, non un nutrimento solido, perché non ne eravate capaci. E neanche ora lo siete; 3 perché siete ancora carnali: dal momento che c'è tra voi invidia e discordia, non siete forse carnali e non vi comportate in maniera tutta umana?”)

Status principianti proficienti perfettiEtà dell’uomo bambini adolescenti adultiLibri sapienziali Proverbi Qoelet Cantico dei Cantici

(sapienza pratica) (sapienza naturale)

Le età dell’uomo vanno intese in senso di maturazione interiore; i libri sapienziali sono abbinati in base alla età e alla maturazione: la sapienza pratica/iniziale, quella naturale (che insegna a cogliere quanto rimane rispetto a quanto è caduco) e infine il CtCantici (che i carnali interpreterebbero in senso puramente letterale)

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Storia passato presente futuro

Storia (Passato-Presente-Futuro) – tripartizione tratta dall’Omelia V sul Levitico (Origene). La lettera delle Scritture parla del passato, cioè dell’AT; la psyché delle Scritture del presente, cioè del NT; mentre il suo spirito parla del futuro, come di una meta ancora e sempre da raggiungere, cioè dell’escathon. Quanto detto fin qui riguarda l’approfondimento verticale della Scrittura, dalla lettera al senso più profondo, con un certo rischio individualistico, forse, ma aggiungendo la dimensione storica si coglie la dimensione storica della salvezza. Recupera cioè una estensione storica del significato che è propria della lettura tipologica della Scrittura.

1Tim 4, 13 – “Fino al mio arrivo applicati alla lettura, all’esortazione e all’insegnamento”.La lettura è l’approccio diretto, alla carne delle Scritture. L’esortazione attiene invece alla dimensione morale. L’insegnamento invece può esser associato all’approfondimento dogmatico e dottrinale.

Approccio lettura esortazione insegnamento

CCC - I sensi della Scrittura

115 Secondo un'antica tradizione, si possono distinguere due sensi della Scrittura: il senso letterale e quello spirituale, suddiviso quest'ultimo in senso allegorico, morale e anagogico. La piena concordanza dei quattro sensi assicura alla lettura viva della Scrittura nella Chiesa tutta la sua ricchezza.

116 Il senso letterale. È quello significato dalle parole della Scrittura e trovato attraverso l'esegesi che segue le regole della retta interpretazione. “Omnes sensus (sc. sacrae Scripturae) fundentur super litteralem - Tutti i sensi della Sacra Scrittura si basano su quello letterale” [San Tommaso d'Aquino, Summa theologiae, I, 1, 10, ad 1].

117 Il senso spirituale. Data l'unità del disegno di Dio, non soltanto il testo della Scrittura, ma anche le realtà e gli avvenimenti di cui parla possono essere dei segni.1. Il senso allegorico. Possiamo giungere ad una comprensione più profonda degli avvenimenti se riconosciamo il loro significato in Cristo; così, la traversata del Mar Rosso è un segno della vittoria di Cristo, e così del Battesimo [Cf ⇒ 1Cor 10,2].2. Il senso morale. Gli avvenimenti narrati nella Scrittura possono condurci ad agire rettamente. Sono stati scritti “per ammonimento nostro” (⇒ 1Cor 10,11) [Cf ⇒ Eb 3-4,11].3. Il senso anagogico. Possiamo vedere certe realtà e certi avvenimenti nel loro significato eterno, che ci conduce (in greco: “anagoge”) verso la nostra Patria. Così la Chiesa sulla terra è segno della Gerusalemme celeste [Cf ⇒ Ap 21,1-22,5].

118 Un distico medievale riassume il significato dei quattro sensi:Littera gesta docet, quid credas allegoria,Moralis quid agas, quo tendas anagogia.

La lettera insegna i fatti, l'allegoria che cosa credere,il senso morale che cosa fare, e l'anagogia dove tendere.

Dove “tendere” nel senso, forse, di dove “ti porta” il testo. È un distico che deriva dall’analisi dei sensi della Scrittura fatta da Origene.Letterale / Allegorico / Morale / Anagogico

Vediamo ora il METODO ESEGETICO di ORIGENE (p. 55).

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Lo espone a commento di Mt 13, 52 – “Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche»”Conclude il capitolo contenente 5 discorsi in parabole. Scrive Origene: dal momento che ogni scriba è tale, secondo il cosiddetto scambio della proposizione, chi non estrae… non è come uno scriba divenuto discepolo del regno dei cieli. Occorre quindi meditare giorno e notte le cose del Signore ma anche della Legge, nonché dei Profeti. Mettendo tutto insieme, conoscendo e riconoscendo, si confronteranno tra loro cose simili e congrue. (cfr San Paolo 1 Cor 2 – 3)

5 livelli di lettura secondo ORIGENE

1—Lettura attenta del testo: con tutti gli strumenti che l’esegeta ha a disposizione. Se so che il testo è scritto in greco o ebraico, dovrò assumere la relativa competenza linguistica (cfr. Gerolamo). Parimenti devo approfondire gli aspetti storici (il contesto del testo), retorici (del testo), lessicali (il significato dei singoli lessemi). Bisogna esser attenti al testo ma anche al lettore, bisognoso di conversione e purificazione, altrimenti il suo sguardo sarebbe offuscato e incapace di vedere…

2—La raccolta di testi (collatio / synaghein): lo scriba discepolo del regno dei cieli estrae dal suo tesoro… si tratta di raccoglierle. È l’ambito del contesto biblico o della intertestualità. La liturgia – ad es. – offre solitamente una prima lettura legata al Vangelo: se Geremia annuncia la visione dei ciechi, Gesù guarisce il cieco nato...

3—La meditazione: Origene parla di “melethan” cioè fare il miele; ancora: macerazione o ruminatio. Una volta letto bene il testo e raccolti i testi che possono riguardare e illuminare quello in questione (come la gezerah shawah), si medita. Si tratta di avere la pazienza del seminatore che sa che, dorma o vegli, il seme ha in sé la forza di germinare o crescere. È quasi una maturazione che richiede un tempo che non dipende da me. Nel tempo la riflessione e l’esperienza aiutano a maturare la riflessione.

4—Il confronto e il giudizio (synkrinein): come raccomanda san Paolo, si devono confrontare cose spirituali con cose spirituali (1Cor 2) e giudicarle.

5—L’interpretazione: ultimo passo del metodo. Può essere una interpretazione morale, allegorica o anagogica. Di fatto, spesso il livello morale è forse quello che – nei padri – prevale nelle conclusioni.

L’esegeta non può limitarsi a uno o due dei passi, ma deve percorrere il metodo fino in fondo. Non ci si può fermare al senso letterale – benché quello debba essere studiato – ma occorre andare fino al livello spirituale (morale, allegorico, anagogico).A volte si dice che è sbagliato chiedersi “che cosa devo fare io?” leggendo la Bibbia. Non è sbagliato. Ma occorre esser più pronti a lasciarsi interrogare dal testo piuttosto che interrogarlo. Sapendo che la Scrittura non mi dice solo “che cosa fare”, bensì ha anche altri sensi (cosa credere, dove tendere).

Il senso letterale – res gestae – si può tradurre così: che cosa Dio ha fatto (come è intervenuto nella storia). Poi c’è una dimensione personale: che cosa il Signore fa per me – allegorico (cosa credere / la fiducia che io ho in Dio che agisce per me).Che cosa il Signore vuole che io faccia - senso moraleSignore, dove mi stai portando? – senso anagogico.

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Sono sensi “della” Scrittura, o che emergono “dalla” Scrittura, nel senso del rapporto tra testo e lettore?Domande che emergono già in Luca 10, 25ss “25 Un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». 26 Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?»” – la nuova CEI (2008) traduce invece “COME VI LEGGI?”. La risposta (i diversi comandamenti) sono un esempio di “raccolta di testi”, per cui il dottore della legge non risponde dicendo che cosa legge, ma accostando diversi luoghi bibici (comandamenti) sta dicendo COME legge la Bibbia.

ALLA SCUOLA DI MARIA

Origene non ha inventato nulla…1--Ascoltare - La lettura attenta del testo (1) equivale a un ascolto del testo, come Maria ascolta la parola dell’angelo e dei pastori alla natività (Lc 2, 19)2--Custodire – (Lc 2, 51) Maria ritrova Gesù al Tempio e custodisce quelle cose nel suo cuore. Assimilabile alla meditazione (3) di Origene.3--Difendere - non bisogna farsi portar via la parola ascoltata (3), quasi come a difenderla con le armi4--Meditare – anche se in greco e latino si parla più di una raccolta e un confronto (quindi punti 2 e 4 di Origene); Lc 2,19: Maria serbava queste cose nel suo cuore, meditandole. Ma il greco dice “mettere assieme”: raccogliere e confrontare (la parola detta dai pastori con quella ascoltata dall’angelo e con la Parola incarnatasi in lei) – DV 8.5--Trasformazione – se la parola è accolta e custodita, trasforma chi la conserva in sé.6--Fare – il seme marcisce, si trasforma, per portare frutto (la Madonna “fa” la Parola, la genera). L’esegeta pronuncia una interpretazione

ASCOLTARE…Dt 28, 13 – se ascolterai i comandi del Signore tuo Dio che oggi ti prescrivo perché li osservi (“difendere”, “custodire”) e li metti in pratica (“fare”).Dt 32, 46 – ponete nella vostra mente (mettere nel cuore / fate attenzione col cuore)

Origene prende spunto dalle indicazioni del Deuteronomio, oltre che da quanto fa la Madonna stessa.

Lc 8, 21 – Mia madre e i miei fratelli sono quelli che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica (“fanno”)Lc 11, 28 – Beati piuttosto quelli che ascoltano la parola di Dio e la custodiscono.Ap 3, 3 – ricorda dunque come hai ricevuto e ascoltato la parola, e custodiscila e convertiti (trasformazione).

Cfr. UDIENZA di BXVI del 19.12.2012 (pag. 56 dispense).“La chiesa si risveglia nelle anime che accolgono la parola di Dio e come la Vergine Maria la concepiscono per opera dello Spirito Santo” (pag. 58). Diventano capaci di generare Cristo oggi nel mondo. Ma questo a patto di accogliere la parola, custodirla, lasciare che ci trasformi.

PCB 1993 – II B (pp 70-77 )

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B. Sensi della Scrittura ispirata  Il contributo moderno delle ermeneutiche filosofiche e gli sviluppi recenti dello studio scientifico delle letterature permettono all’esegesi biblica di approfondire la comprensione del suo compito, la cui complessità è diventata più evidente. L’esegesi antica, che non poteva evidentemente prendere in considerazione le esigenze scientifiche moderne, attribuiva a ogni testo della Scrittura diversi livelli di significato. La distinzione più corrente era quella tra senso letterale e senso spirituale. L’esegesi medievale distinse nel senso spirituale tre aspetti differenti, in rapporto, rispettivamente, con la verità rivelata, il comportamento da seguire e il compimento finale. Da lì il celebre distico di Agostino di Danimarca (XIII sec.): «Littera gesta docet, quid credas allegoria, moralis quid agas, quid speres anagogia».   

Come reazione contro questa molteplicità di significati, l’esegesi storico-critica ha adottato, più o meno apertamente, la tesi dell’unicità di significato, secondo la quale un testo non può avere simultaneamente diversi significati. Tutto lo sforzo dell’esegesi storico-critica è quello di definire il significato preciso di un dato testo biblico nelle circostanze in cui fu composto. Ma questa tesi si scontra ora con le conclusioni delle scienze del linguaggio e delle ermeneutiche filosofiche, che affermano la polisemia dei testi scritti.   Il problema non è semplice e non si pone allo stesso modo per tutti i generi di testi: racconti storici, parabole, oracoli, leggi, proverbi, preghiere, inni, ecc. È tuttavia possibile presentare alcun principi, sempre tenendo conto della diversità delle opinioni.   1. Senso letterale  Non è solo legittimo, ma indispensabile cercare di definire il significato preciso dei testi come sono stati composti dai loro autori significato che è chiamato “letterale”. Già san Tommaso d’Aquino ne affermava l’importanza fondamentale (S. Th., I, q. 1, a. 10, ad 1).   Il senso letterale non è da confondere col senso “letteralistico”, sul quale si basano i fondamentalisti. Non è sufficiente tradurre il testo parola per parola per ottenere il suo senso letterale. È necessario comprenderlo secondo le convenzioni letterarie del tempo. Quando un testo è metaforico, il suo senso letterale non è quello che risulta dal significato immediato delle parole (per esempio: «Abbiate la cintura ai fianchi», Lc 12, 35), ma quello che corrisponde all’uso metaforico dei termini («Abbiate un atteggiamento di disponibilità»). Quando si tratta di un racconto, il senso letterale non comporta necessariamente l’affermazione che i fatti raccontati siano effettivamente accaduti; infatti un racconto può non appartenere al genere storico, ma essere frutto di immaginazione.   Il senso letterale della Scrittura è quello espresso direttamente dagli autori umani ispirati. Essendo frutto dell’ispirazione, questo senso è voluto anche da Dio, autore principale. Lo si discerne grazie a un’analisi precisa del testo, situato nel suo contesto letterario e storico. Il compito principale dell’esegesi è proprio quello di condurre a questa analisi, utilizzando tutte le possibilità delle ricerche letterarie e storiche, al fine di definire il senso, letterale dei testi biblici con la maggiore esattezza possibile (Divino afflante Spiritu, EB 550). Per tale scopo, lo studio dei generi letterari antichi è particolarmente necessario (ibid. 560).   Il senso letterale di un testo è unico? In generale, sì; ma non si tratta di un principio assoluto, e questo per due ragioni. Da una parte, un autore umano può voler riferirsi nello stesso tempo a più livelli di realtà. Il caso è corrente in poesia. L’ispirazione biblica non disdegna questa possibilità della psicologia e del linguaggio umani; il quarto vangelo ne fornisce numerosi esempi. D’altra parte, anche quando un’espressione umana sembra avere un solo significato, l’ispirazione divina può guidare l’espressione in modo da produrre un’ambivalenza. Tale è il caso dell’espressione di Caifa in Gv 11, 50. Essa esprime al tempo stesso un calcolo politico immorale e una rivelazione divina. Questi due aspetti appartengono l’uno e l’altro al senso letterale, perché sono entrambi messi in evidenza dal contesto. Anche se estremo, questo caso è significativo e deve mettere in guardia contro una concezione troppo ristretta del senso letterale dei testi ispirati.   Conviene, in particolare, essere attenti all’aspetto dinamico di molti testi. Il senso dei salmi regali, per esempio, non dev’essere limitato strettamente alle circostanze storiche della loro produzione Parlando del re, il salmista evocava al tempo stesso un’istituzione reale e una visione ideale della monarchia, conforme al disegno di Dio, in modo che il suo testo andava al di là dell’istituzione monarchica come si era manifestata nella storia. L’esegesi storico-critica ha avuto troppo spesso la tendenza a limitare il senso de testi, collegandolo esclusivamente a precise circostanze storiche. Essa deve piuttosto cercare di precisare la direzione di pensiero espressa dal testo, direzione che, invece di invitare l’esegeta a limitare il senso, gli suggerisce al contrario di percepirne i prolungamenti più o meno prevedibili.   

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Una corrente dell’ermeneutica moderna ha sottolineato la differenza di situazione che colpisce la parola umana quando viene messa per iscritto. Un testo scritto ha la capacità di essere collocato in nuove circostanze, che lo illuminano in modi diversi, aggiungendo al suo significato nuove determinazioni. Questa capacità del testo scritto è effettiva specialmente nel caso dei testi biblici, riconosciuti come Parola di Dio. In effetti, ciò che ha spinto la comunità credente a conservarli è stata la convinzione che avrebbero continuato a essere portatori di luce e di vita per le generazioni future. Il senso letterale è, fin dall’inizio, aperto a sviluppi ulteriori, che si producono grazie a “riletture” in contesti nuovi.   Non ne consegue che è possibile attribuire a un testo biblico qualsiasi significato, interpretandolo in modo soggettivo. Al contrario, è necessario respingere come inautentica ogni interpretazione che fosse eterogenea rispetto al senso espresso dagli autori umani nel loro testo scritto. Ammettere dei significati eterogenei equivarrebbe a togliere al messaggio biblico le sue radici, che sono la Parola di Dio comunicata storicamente, e ad aprire la porta a un soggettivismo incontrollabile.   

2. Senso spirituale  Non è il caso, tuttavia, di prendere “eterogeneo” nel senso stretto, contrario a ogni possibilità di compimento superiore. L’evento pasquale, morte e risurrezione di Gesù, ha fissato un contesto storico radicalmente nuovo, che illumina in modo nuovo i testi antichi e fa subire loro un cambiamento di significato. In particolare, alcuni testi che, nelle circostanze antiche, dovevano essere considerati come delle iperbole (per es., l’oracolo in cui Dio, parlando di un figlio di Davide, prometteva di rendere stabile per sempre il suo trono: 2Sam 7, 12-13; 1Cr 17, 11-14), questi testi devono ora essere presi alla lettera, perché «il Cristo, essendo risorto dai morti, non muore più» (Rm 6, 9). Gli esegeti che hanno una nozione limitata, “storicistica”, del senso letterale riterranno che ci sia qui eterogeneità. Quelli che sono aperti all’aspetto dinamico dei testi riconosceranno una continuità profonda e nello stesso tempo il passaggio a un livello differente: il Cristo regna per sempre, ma non sul trono terreno di Davide (cf. anche Sal 2, 7-8; 110, 1.4).   In casi di questo genere si parla di “senso spirituale”. Come regola generale, possiamo definire il senso spirituale, compreso secondo la fede cristiana, il senso espresso dai testi biblici quando vengono letti sotto l’influsso dello Spirito Santo nel contesto del mistero pasquale di Cristo e della vita nuova che ne risulta. Questo contesto esiste effettivamente. Il Nuovo Testamento riconosce in esso il compimento delle Scritture. È perciò normale rileggere le Scritture alla luce di questo nuovo contesto, quello della vita nello Spirito.   Dalla definizione data si possono trarre parecchie precisazioni utili sul rapporto tra senso spirituale e senso letterale. Contrariamente a un’opinione corrente, non c’è necessariamente distinzione tra questi due sensi. Quando un testo biblico si riferisce direttamente al mistero pasquale di Cristo o alla vita nuova che ne risulta, il suo senso letterale è un senso spirituale. Ed è il caso abituale nel Nuovo Testamento. Ne consegue che l’esegesi cristiana parla il più delle volte di senso spirituale a proposito dell’Antico Testamento. Ma già nell’Antico Testamento i testi hanno in molti casi come senso letterale un senso religioso e spirituale. La fede cristiana vi riconosce un rapporto anticipato con la vita nuova apportata da Cristo.   Quando c’è una distinzione, il senso spirituale non può mai essere privato dei rapporti con il senso letterale che ne rimane la base indispensabile; diversamente, non si potrebbe parlare di “compimento” della Scrittura. In effetti, perché si possa parlare di compimento è essenziale un rapporto di continuità e di conformità. Ma è anche necessario che ci sia un passaggio a un livello superiore di realtà.   Il senso spirituale non è da confondere con le interpretazioni soggettive dettate dall’immaginazione o dalla speculazione intellettuale. Esso scaturisce dalla relazione del testo con certi dati reali che non gli sono estranei, l’evento pasquale e la sua inesauribile fecondità, che costituiscono il vertice dell’intervento divino nella storia di Israele, a vantaggio di tutta l’umanità.   La lettura spirituale, fatta comunitariamente o individualmente, scopre un senso spirituale autentico solo se si mantiene in queste prospettive. Vengono allora messi in relazione tre livelli di realtà: il testo biblico, il mistero pasquale e le circostanze presenti di vita nello Spirito.   L’esegesi antica, persuasa che il mistero del Cristo costituisca la chiave interpretativa di tutte le Scritture, si è sforzata di trovare un senso spirituale nei più piccoli dettagli dei testi biblici, per esempio, in ogni prescrizione delle leggi rituali, servendosi di metodi rabbinici o ispirandosi all’allegorismo ellenistico. L’esegesi moderna non può accordare un vero valore d’interpretazione a questo genere di tentativi, qualunque possa essere stata, nel passato, la loro utilità pastorale (cf. Divino afflante Spiritu, EB 553).   Uno degli aspetti possibili del senso spirituale è quello tipologico, di cui si dice abitualmente che non appartiene alla Scrittura stessa, ma alle realtà espresse dalla Scrittura: Adamo figura del Cristo (cf. Rm 5, 14), il diluvio figura del battesimo (1 Pt 3, 20-21), ecc. In effetti, il rapporto di tipologia è ordinariamente

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basato sul modo in cui la Scrittura descrive la realtà antica (cf. la voce di Abele: Gn 4, 10; Eb 11, 4; 12, 24) e non semplicemente su questa realtà. Di conseguenza, si tratta allora proprio di un senso della Scrittura.   

3. Senso pieno  Relativamente recente, l’appellativo “senso pieno” (sensus plenior) suscita delle discussioni. Si definisce il senso pieno come un senso più profondo del testo, voluto da Dio, ma non chiaramente espresso dall’autore umano. Se ne scopre l’esistenza in un test biblico quando viene studiato alla luce di altri testi biblici che lo utilizzano o nel suo rapporto con lo sviluppo interno della rivelazione. Si tratta allora o del significato che un autore biblico attribuisce a un testo biblico a lui anteriore, quando lo riprende in un contesto che gli conferisce un senso letterale nuovo, o del significato che una tradizione dottrinale autentica o una definizione conciliare dà a un testo della Bibbia. Per esempio, il contesto di Mt 1, 23 dà il senso pieno all’oracolo di Is 7, 14 sulla almah che concepirà un figlio, utilizzando la traduzione dei Settanta (parthenos): «La vergine concepirà». L’insegnamento patristico e conciliare sulla Trinità esprime il senso pieno dell’insegnamento del Nuovo Testamento su Dio il Padre, il Figlio e lo Spirito. La definizione del peccato originale da parte del Concilio di Trento fornisce il senso pieno, dell’insegnamento di Paolo in Rm 5, 12-21 circa le conseguenze del peccato di Adamo per l’umanità. Ma quando manca un controllo di questo genere, da parte di un testo biblico esplicito o di una tradizione dottrinale autentica, il ricorso a un preteso senso pieno potrebbe portare a interpretazioni soggettive prive di ogni validità.   In definitiva, si potrebbe considerare il “senso pieno” come un altro modo di designare il senso spirituale di un testo biblico, nel caso in cui il senso spirituale si distingua dal senso letterale. Suo fondamento è il fatto che lo Spirito Santo, autore principale della Bibbia, può guidare l’autore umano nella scelta delle sue espressioni in modo tale che queste esprimano una verità di cui egli non percepisce tutta la profondità. Questa viene rivelata in modo più completo nel corso del tempo, grazie, da una parte, a ulteriori realizzazioni divine che manifestano meglio la portata dei testi, e grazie anche, d’altra parte, all’inserimento dei testi nel canone delle Scritture. In questo modo viene creato un nuovo contesto, che fa apparire delle potenzialità di significato che il contesto primitivo lasciava nell’ombra.  

DISPENSE pp. 47-61

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IL METODO DELLA LECTIO DIVINA (Gargano pp. 37-60)

L’autore indica quello di Origene come metodi di LECTIO DIVINA. Classicamente la LD comprende alcune tappe:

1. LECTIO2. MEDITATIO3. ORATIO4. CONTEMPLATIO

I primi 4 punti di Origene (Ascoltare – Custodire – Difendere – Meditare) corrispondono ai primi due.ORATIO va inteso nel senso di “proferire una interpretazione”.

Infine, la CONTEMPLATIO come punto di arrivo.Per i padri orientali si tratta di una teoria, una visione in profondità del testo o delle realtà che esso comunica. In occidente si fanno i conti col pensiero di Gregorio Magno. La lettura contemplativa permette di interpretare adeguatamente la Scrittura canonica (1), di riconoscere l’autenticità di un dono non ancora ufficialmente riconosciuto (2), permette di orientare ogni giorno i significati dei testi riconosciuti verso la volontà di Dio (3). La forza della contemplatio è dunque molteplice. E si esprime in una obbedienza al testo.

La virtù contemplativa si riferisce alla Scrittura ma anche alla vita dei santi quale Scrittura realizzatasi in una vita (quindi testo scritto o vivente). Molti seguono l’esempio dei santi, ad esempio san Francesco d’Assisi.La contemplazione come punto di arrivo di una azione esegetica del testo non mi lascia passivo ma mi conduce a una azione, ad adempiere cioè la volontà di Dio.Almeno in Occidente, non si è mai pensato di poter prescindere dal TESTO biblico e dalla STORIA in cui siamo collocati per vivere una autentica esperienza di contemplazione. Il punto di arrivo è la volontà di Dio.

Lo STUDIO non è semplice erudizione, perché Santa Teresa di Gesù Bambino è Dottore della Chiesa senza aver compiuto chissà quali studi teologici… Ma si tratta di un dono. A cui conviene obbedire.

La vita dei santi è l’esegesi della Scrittura, tanto che la vita di quel santo è una Scrittura vivente, a cui mi basta guardare.

TOMMASO DA CELANO, VITA PRIMA DI SAN FRANCESCO D’ASSISI, CAPITOLO IX

FRANCESCO RIPARA LA CHIESA DI SANTA MARIA DELLA PORZIUNCOLA;POI, SENTENDO LEGGERE UN BRANO EVANGELICO, LASCIA OGNI COSA E INVENTA L’ABITO DEI SUOI FRATI

21. (…) Poi si trasferì nella località chiamata la Porziuncola, dove c’era un’antica chiesa in onore della Beata Vergine Madre di Dio, ormai abbandonata e negletta.

22. Ma un giorno in cui in questa chiesa si leggeva il brano del Vangelo relativo al mandato affidato agli Apostoli di predicare, il Santo, che ne aveva intuito solo il senso generale, dopo la Messa, pregò il sacerdote di spiegargli il passo. Il sacerdote glielo commentò punto per punto, e Francesco, udendo che i discepoli di Cristo non devono possedere né oro, né argento, né denaro, né portare bisaccia, né pane, né bastone per via, né avere calzari, né due tonache, ma soltanto predicare il Regno di Dio e la penitenza (Mt 10,7-10; Mc

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6, 8-9; Lc 9,1-6), subito, esultante di spirito Santo, esclamò: «Questo voglio, questo chiedo, questo bramo di fare con tutto il cuore!».S’affretta allora il padre santo, tutto pieno di gioia, a realizzare il salutare ammonimento; non sopporta indugio alcuno a mettere in pratica fedelmente quanto ha sentito: si scioglie dai piedi i calzari, abbandona il suo bastone, si accontenta di una sola tunica, sostituisce la sua cintura con una corda. Da quell’istante confeziona. per sé una veste che riproduce l’immagine della croce, per tener lontane tutte le seduzioni del demonio; la fa ruvidissima, per crocifiggere la carne e tutti i suoi vizi (Gal 5,24) e peccati, e talmente povera e grossolana da rendere impossibile al mondo invidiargliela!Con altrettanta cura e devozione si impegnava a compiere gli altri insegnamenti uditi.Egli infatti non era mai stato un ascoltatore sordo del Vangelo, ma, affidando ad una encomiabile memoria tutto quello che ascoltava, cercava con ogni diligenza di eseguirlo alla lettera.

Francesco ascolta il testo biblico nel contesto liturgico e poi dalla spiegazione. La vita di Francesco stesso è Bibbia vissuta. Si parla di “agiografia esegetica”.

Un testo ha degli effetti. Nel testo del 1993 si parla di vita letteraria per un testo che si trova di fronte un lettore disposto ad appropriarsene, come pure delle sue ricadute sui diversi ambiti disciplinari correlati (letterature, arte…).

GARGANO p. 72Importanza e relatività delle Scritture: il libro è secondario rispetto alla Parola. “Parola” nel senso del Verbo. È una parola viva, fattasi carne in Cristo crocifisso e risorto. La Scrittura non è di per sé indispensabile alla salvezza, ma è un aiuto utile all’uomo che ha dimenticato la prima parola che Dio ha consegnato nel suo cuore. Una volta decaduto, l’uomo si è visto offrire da Dio l’aiuto della Scrittura.Per natura sua la Scrittura tende a esser superata: quando l’uomo è sorretto da fede, speranza e carità non occorrono le Scritture se non per istruire gli altri (S. Agostino).

La prima disponibilità personale allo Spirito rispetto alle Scritture è… leggerle!La scienza dei padri è progredita col tempo, secondo Gregorio Magno. Il Salmista è più di Mosé perché medita, mentre gli apostoli sono ancor più avanti perché hanno visto nella carne (“etiam corporaliter”) ciò che i profeti videro solo nello spirito. Perché tanto più il mondo si avvicina alla fine, tanto più la verità si apre a noi. È un “di più” legato al corpo, come luogo storico-geografico in cui la verità si rivela in pienezza. Agli antipodi della visione platonica della verità. E della gnosi. L’allegoria cercata da Agostino e Gregorio non è un significato estraneo al testo – quasi a fargli dire qualcosa che il testo di per sé non direbbe – bensì è una teoria, una visione in profondità. Anche l’anagogia potrebbe essere intesa come un “essere guidati” non tanto (non solo) a un futuro o a una dimensione escatologica, bensì essere portati a una nuova lettura del testo. Si aprono qui le 70 facce della Torah, come pure l’orizzonte di una comprensione infinita.

Quando san Francesco sente il brano evangelico sulla povertà dei discepoli, non è rimasto lì, a una comprensione intellettuale del testo, bensì ha obbedito alla res del testo. Per quello che dice “a lui”. La nostra storia evolve, cambia, e con essa cambia quanto la Scrittura ci dice. Per cui il prendere sul serio la propria storia personale in rapporto alla Scrittura rende necessario aprirsi a una lettura anagogica come ricerca di ulteriori significati.Non ci si può limitare all’erudizione (anche se all’ISSR per motivi di curriculum ci si deve fermare spesso alla lectio).

Come nasce la Scrittura? Un profeta ha una particolare parola da proferire. Quando lui e il pubblico percepiscono che è una parola che viene da Dio, sentono l’esigenza di fissarla. Cioè di scriverla. Anche perché illumini la vita delle generazioni future. E possa essere riletta per dire cose nuove in tempi nuovi.

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Così la Scrittura si forma per sedimentazione e agglomeramento di unità diverse. Abbinando magari testi di epoche diverse che esprimevano però messaggi in continuità (per cui Isaia consta di parti composte in epoche diverse, ma omogenee come temi e parole da annunciare).

La Scrittura va letta in comunità perché è sorta in quel contesto. Prima si vive l’esperienza a livello comunitario, poi la si tramanda, quindi la si mette per iscritto, e dunque la si rilegge nella comunità. Se infatti lo Spirito Santo è donato a uno o all’altro per leggere la Scrittura, di questo occorre fare dono alla comunità (per cui si legge e si interpreta la Scrittura). Diversamente ci si riduce a essere gnostico (io ho lo Spirito, tu no).

GARGANO, p. 62Gregorio Magno afferma che alcune verità della Scrittura le ha capite stando di fronte ai suoi fratelli. Per cui il senso cresce e l’orgoglio diminuisce quando per voi imparo ciò che a voi insegno. Il primo contesto in cui i padri approfondivano la Scrittura era la predicazione liturgica. Per cui il predicatore chiedeva all’assemblea di invocare lo Spirito Santo per proferire parole di verità a quanti sono in ascolto. Torna l’assistenza allo Spirito Santo di cui dice DV 8 (cfr. dispense, p. 62).

GARGANO, p. 66Il senso della tradizione.1.. La Scrittura come testo scritto2.. l’individuo storico Gesù di Nazareth 3.. la Parola che si fa viva nella comunità concreta della ChiesaLa Scrittura “scritta” è una delle modalità di presenza della Parola di Dio, come quella che si è fatta carne in Cristo e che si è manifestata nella comunità dei credenti. Quindi: non “sola Scriptura”.Non si potevano intendere le realtà sopra indicate senza metterle in relazione tra loro. Quindi: Bibbia, Verbo, Chiesa. E forse accanto a queste tre realtà poniamo anche la Creazione (del Logos!).

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Necessità della interpretazione; interpretazione alla luce dello Spirito; necessità della ricerca del senso voluto dall’autore storico (GARGANO 61-104)

<<Chi ha letto “La metamorfosi di Kafka e riesce a guardarsi nello specchio senza indietreggiare è forse capace, tecnicamente parlando, di leggere i caratteri stampati, ma è analfabeta nell’unico senso che conti realmente>>. Queste parole scritte da George Steiner nel primo saggio del volume “Linguaggio e silenzio” tornano alla mente in questi giorni con una considerazione del ventenne Kafka in una lettera a Oscar Pollack: “Se il libro che stiamo leggendo non ci desta, come con un pugno che ci martella il cranio, perché allora lo leggiamo? … Il libro dev’essere come un piccone per il mare gelato dentro di noi. (Sabino Caronia, “Piccone che fende il mare gelato”, Osservatore Romano del 2/11/15, p. 5)

PCB 1993 II B

Il contributo moderno delle ermeneutiche filosofiche e gli sviluppi recenti dello studio scientifico delle letterature permettono all’esegesi biblica di approfondire la comprensione del suo compito, la cui complessità è diventata più evidente. L’esegesi antica, che non poteva evidentemente prendere in considerazione le esigenze scientifiche moderne, attribuiva a ogni testo della Scrittura diversi livelli di significato. La distinzione più corrente era quella tra senso letterale e senso spirituale. L’esegesi medievale distinse nel senso spirituale tre aspetti differenti, in rapporto, rispettivamente, con la verità rivelata, il comportamento da seguire e il compimento finale. Da lì il celebre distico di Agostino di Danimarca (XIII sec.): «Littera gesta docet, quid credas allegoria, moralis quid agas, quid speres anagogia».   Come reazione contro questa molteplicità di significati, l’esegesi storico-critica ha adottato, più o meno apertamente, la tesi dell’unicità di significato, secondo la quale un testo non può avere simultaneamente diversi significati. Tutto lo sforzo dell’esegesi storico-critica è quello di definire il significato preciso di un dato testo biblico nelle circostanze in cui fu composto. Ma questa tesi si scontra ora con le conclusioni delle scienze del linguaggio e delle ermeneutiche filosofiche, che affermano la polisemia dei testi scritti.   Il problema non è semplice e non si pone allo stesso modo per tutti i generi di testi: racconti storici, parabole, oracoli, leggi, proverbi, preghiere, inni, ecc. È tuttavia possibile presentare alcun principi, sempre tenendo conto della diversità delle opinioni.   

PCB 1993 III A.B.C1 (pp. 78-95)

III - DIMENSIONI CARATTERISTICHE DELL’INTERPRETAZIONE CATTOLICA    L’esegesi cattolica non cerca di distinguersi usando un metodo scientifico particolare. Essa riconosce che uno degli aspetti dei testi biblici è di essere opera di autori umani, che si sono serviti delle proprie capacità e degli strumenti che il loro tempo e il loro ambiente mettevano a loro disposizione. Di conseguenza, utilizza senza secondo fine, tutti i metodi e approcci scientifici che permettono di meglio comprendere il significato dei testi nel loro contesto linguistico, letterario, socio-culturale, religioso e storico, illuminandoli anche con lo studio delle loro fonti e tenendo conto della personalità di ogni autore (cf. Divino afflante Spiritu, EB 557). In tal modo essa contribuisce attivamente allo sviluppo dei metodi e al progresso della ricerca.   Ciò che la caratterizza è il suo situarsi consapevolmente nella tradizione vivente della Chiesa, la cui prima preoccupazione è la fedeltà alla rivelazione attestata dalla Bibbia. Le ermeneutiche moderne hanno messo in luce, come abbiamo ricordato, l’impossibilità di interpretare un testo senza partire da una “precomprensione” di un genere o dell’altro. L’esegesi cattolica si avvicina agli scritti biblici con una precomprensione che unisce strettamente la moderna cultura scientifica e la tradizione religiosa proveniente da Israele e dalla comunità cristiana primitiva. La sua interpretazione si trova così in continuità con il dinamismo ermeneutico che si manifesta all’interno stesso della Bibbia e che si prolunga poi nella vita della Chiesa. Corrisponde all’esigenza di affinità vitale tra l’interprete e il suo oggetto, affinità che costituisce una delle condizioni di possibilità del lavoro esegetico.  Ogni precomprensione comporta tuttavia i suoi pericoli. Nel caso dell’esegesi cattolica, esiste il rischio di attribuire ad alcuni testi biblici un significato che non esprimono, ma che è frutto di uno sviluppo ulteriore della tradizione. L’esegeta deve guardarsi da questo pericolo.   

A. Interpretazione nella Tradizione biblica  I testi della Bibbia sono l’espressione di tradizioni religiose che esistevano prima di essi. Il modo in cui si collegano a queste tradizioni è differente secondo i casi, dato che la creatività degli autori si manifesta in gradi

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diversi. Nel corso del tempo tradizioni molteplici sono confluite per formare una grande tradizione comune. La Bibbia è una manifestazione privilegiata di questo processo, che essa ha contribuito a realizzare e di cui continua a essere regolatrice.   «L’interpretazione nella Tradizione biblica» comporta una grande varietà di aspetti. Con questa espressione si può intendere il modo in cui la Bibbia interpreta le esperienze umane fondamentali o gli avvenimenti particolari della storia di Israele, o ancora il modo in cui i testi biblici utilizzano varie fonti, scritte od orali, alcune delle quali possono provenire anche da altre religioni o culture, interpretandole. Ma essendo il nostro soggetto l’interpretazione della Bibbia, non vogliamo trattare qui queste grandi problematiche, ma semplicemente proporre alcune osservazioni sull’interpretazione dei testi biblici all’interno della Bibbia stessa.   

1. Riletture  Ciò che contribuisce a dare alla Bibbia la sua unità interna, unica nel suo genere, è il fatto che gli scritti biblici posteriori si basano spesso sugli scritti anteriori. Fanno allusione ad essi, ne propongono delle “riletture” che sviluppano nuovi aspetti di significato, talvolta molto diversi dal senso primitivo, o ancora vi si riferiscono esplicitamente, o per approfondirne il significato o per affermarne il compimento.   Così l’eredità di una terra, promessa da Dio ad Abramo per la sua discendenza (Gn 15, 7.18), diventa l’entrata nel santuario di Dio (Es 15, 17), una partecipazione al riposo di Dio (Sal 132, 7-8) riservato ai veri credenti (Sal 95, 8-11; Eb 3, 7-4, 11) e, infine, l’ingresso nel santuario celeste (Eb 6, 12.18-20), «eredità eterna» (Eb 9, 15).   L’oracolo del profeta Natan, che promette a Davide una «casa», cioè una successione dinastica, «stabile per sempre» (2San 7, 12-16), viene ricordato a più riprese (2Sam 23, 5; 1Re 2, 4; 3, 6; 1Cr 17, 11-14), specialmente nei tempi difficili (Sal 89, 20-38), non senza variazioni significative, ed è prolungato da altri oracoli (Sal 2, 7-8; 110, 1.4; Am 9, 11; Is 7, 13-14; Ger 23, 5-6; ecc.), alcuni dei quali annunciano il ritorno del regno di Davide stesso (Os 3, 5; Ger 30, 9; Ez 34, 24; 37, 24-25; cf. Mc 11, 10). Il regno promesso diventa universale (Sal 2, 8; Dn 2, 25.44; 7, 14; cf. Mt 28, 18). Realizza in pienezza la vocazione dell’uomo (Gn 1, 28; Sal 8, 6-9; Sap 9, 2-3; 10, 2). L’oracolo di Geremia sui settant’anni di castigo meritati da Gerusalemme e Giuda (Ger 25, 11-12; 29, 10) è ricordato in 2Cr 25, 20-23, che ne verifica la realizzazione, ma riceve un’ulteriore elaborazione, dopo molto tempo, dall’autore di Daniele, nella convinzione che questa parola di Dio custodisca ancora un significato nascosto, che deve gettare la sua luce sulla situazione presente (Dn 9, 24-27).   L’affermazione fondamentale della giustizia retributiva di Dio, che ricompensa i buoni e punisce i malvagi (Sal 1, 1-6; 112, 1-10; Lc 26, 3-33; ecc.), si scontra con l’esperienza immediata che spesso non corrisponde ad essa. La Scrittura lascia allora che si esprima con vigore la protesta e la contestazione (Sal 44; Gb 10, 1-7; 13, 3-28; 23-24) e approfondisce progressivamente il mistero (Sal 37; Gb 38-42; Is 53; Sap 3-5).   

2. Rapporti tra Antico Testamento e Nuovo Testamento  I rapporti intertestuali acquistano una densità estrema negli scritti del Nuovo Testamento, pieni di allusioni all’Antico Testamento e di citazioni esplicite. Gli autori del Nuovo Testamento riconoscono all’Antico Testamento valore di rivelazione divina. Essi proclamano che questa rivelazione ha trovato il suo compimento nella vita, nell’insegnamento e soprattutto nella morte e risurrezione di Gesù, fonte di perdono e di vita eterna. «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e apparve…» (1Cor 15, 3-5): questo è il nucleo centrale della predicazione apostolica (1Cor 15, 11).   Come sempre, tra le Scritture e gli eventi che le compiono, i rapporti non sono di semplice corrispondenza materiale, ma di reciproca illuminazione e di progresso dialettico: ci si accorge al tempo stesso che le Scritture rivelano il senso degli eventi e che gli eventi rivelano il senso delle Scritture, obbligano cioè a rinunciare a certi aspetti dell’interpretazione ricevuta, per adottare un’interpretazione nuova.   Fin dal tempo del suo ministero pubblico, Gesù aveva preso una posizione personale originale, diversa dall’interpretazione ricevuta al suo tempo, che era quella «degli scribi e dei farisei» (Mt 5, 20). Numerose ne sono le testimonianze: le antitesi del discorso della montagna (Mt 5, 21-48), la libertà sovrana di Gesù nell’osservanza del sabato (Mc 2, 27-28 e par.), il suo modo di relativizzare i precetti di purezza rituale (Mc 7, 1-23 e par.), la sua esigenza radicale, al contrario, in altri campi (Mt 10, 2-12; 10, 17-27 e par.) e soprattutto il suo atteggiamento di accoglienza verso «i pubblicani e i peccatori» (Mc 2, 15-17 e par.). Non si trattava da parte sua di capriccio da contestatore, ma, al contrario, di fedeltà più profonda alla volontà di Dio espressa nelle Scritture (cf. Mt 5, 17; 9, 13; Mc 7, 8-13 e par.; 10, 5-9 e par.).   La morte e la risurrezione di Gesù spinsero all’estremo l’evoluzione cominciata, provocando, su certi punti, una completa rottura e nello stesso tempo un’apertura inattesa. La morte del Messia, «re dei Giudei» (Mc 15, 26 e par.), provocò una trasformazione dell’interpretazione terrena dei salmi regali e degli oracoli messianici. La sua risurrezione e la sua glorificazione celeste come Figlio di Dio diedero a questi stessi testi una pienezza di significato prima inconcepibile. Alcune espressioni che sembravano iperboliche dovevano d’ora in poi essere prese alla lettera. Apparivano come preparate da Dio per esprimere la gloria del Cristo Gesù, perché Gesù è veramente «Signore» (Sal 110, 1) nel senso più forte del termine (At 2, 36; Fil 2, 10-11; Eb 1, 10-12); è il Figlio

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di Dio (Sal 2, 7; Mc 14, 62; Rm 1, 3-4), Dio con Dio (Sal 45, 7; Eb 1, 8; Gv 1, 1; 20, 28); «il suo regno non avrà fine» (Lc 1, 32-33; cf. 1Cr 17, 11-14; Sal 45, 7; Eb 1, 8); egli è nello stesso tempo «sacerdote in eterno» (Sal 110, 2; Eb 5, 6-10; 7, 23-24).   Alla luce degli eventi della Pasqua gli autori del Nuovo Testamento rilessero l’Antico Testamento. Lo Spirito Santo inviato dal Cristo glorificato (cf. Gv 15, 26; 16, 7) ne fece scoprire loro il senso spirituale. Essi furono così portati ad affermare più che mai il valore profetico dell’Antico Testamento, ma anche a relativizzare fortemente il suo valore di istituzione salvifica. Questo secondo punto di vista, che appare già nei vangeli (cf. Mt 11, 11-13 e par.; 12, 41-42 e par.; Gv 4, 12-14; 5, 37; 6, 32), si manifesta con tutta la sua forza in alcune lettere paoline e nella lettera agli Ebrei. Paolo e l’autore della lettera agli Ebrei dimostrano che la Torah, in quanto rivelazione, annuncia essa stessa la sua fine come sistema legislativo (cf. Gal 2, 15-5, 1; Rm 3, 20-21; 6, 14; Eb 7, 11-19; 10, 8-9). Ne consegue che i pagani che aderiscono alla fede in Cristo non devono essere sottomessi a tutti i precetti della legislazione biblica, ormai ridotta, nel suo insieme, allo statuto di istituzione legale di un popolo particolare, ma devono nutrirsi all’Antico Testamento come Parola di Dio, che permette loro di scoprire meglio tutte le dimensioni del mistero pasquale di cui essi vivono (cf. Lc 24, 25-27.44-45; Rm 1, 1-2).   All’interno della Bibbia cristiana, i rapporti tra Nuovo Testamento e Antico Testamento non sono quindi privi di complessità. Quando si tratta dell’uso di testi particolari, gli autori del Nuovo Testamento fanno naturalmente ricorso alle conoscenze e ai procedimenti di interpretazione del loro tempo. Esigere da essi che si conformino ai metodi scientifici moderni sarebbe un anacronismo L’esegeta deve piuttosto acquisire la conoscenza dei procedimenti antichi per poter interpretare correttamente l’uso che ne viene fatto. Rimane vero, d’altra parte, che egli non deve accordare un valore assoluto a ciò che è conoscenza umana limitata.   Infine conviene aggiungere che all’interno del Nuovo Testamento, come già all’interno dell’Antico Testamento, si scopre la giustapposizione di prospettive differenti e talvolta in tensione le une con le altre, per esempio sulla situazione di Gesù (Gv 8, 29; 16, 32 e Mc 15, 34) o sul valore della legge mosaica (Mt 5, 17-19 e Rm 6, 14) o sulla necessità delle opere per essere giustificati (Gc 2, 24 e Rm 3, 28; Ef 2, 8-9). Una delle caratteristiche della Bibbia è proprio l’assenza di spirito di sistematizzazione e la presenza al contrario, di tensioni dinamiche. La Bibbia ha accolto parecchi modi di interpretare gli stessi avvenimenti o di considerare gli stessi problemi, invitando così a rifiutare il semplicismo e la ristrettezza di spirito.   

3. Alcune conclusioni  Da quanto abbiamo detto si può concludere che la Bibbia contiene numerose indicazioni e suggerimenti sull’arte di interpretarla. La Bibbia è infatti, fin dall’inizio, essa stessa interpretazione. I suoi testi sono stati riconosciuti dalle comunità dell’antica Alleanza e del tempo apostolico come valida espressione della loro fede. È secondo l’interpretazione delle comunità e in relazione con essa che questi testi sono stati riconosciuti come Sacra Scrittura (così, per es., il Cantico dei Cantici fu riconosciuto come Scrittura Sacra in quanto applicato alla relazione tra Dio e Israele). Nel corso della formazione della Bibbia, gli scritti che la compongono sono stati, in molti casi, rielaborati e reinterpretati, per rispondere a situazioni nuove, prima sconosciute.   Il modo di interpretare i testi che si manifesta nella Sacra Scrittura suggerisce le seguenti osservazioni:   Dato che la Sacra Scrittura è venuta alla luce sulla base di un consenso di comunità credenti che hanno riconosciuto nel suo testo l’espressione della fede rivelata, la sua stessa interpretazione dev’essere, per la fede viva delle comunità ecclesiali, fonte di consenso sui punti essenziali.   Dato che l’espressione della fede, come la si trovava nella Sacra Scrittura riconosciuta di tutti, dovette essere continuamente rinnovata per far fronte a situazioni nuove, il che spiega le “riletture” di molti testi biblici, l’interpretazione della Bibbia deve ugualmente avere un aspetto di creatività e affrontare le questioni nuove, per rispondervi partendo dalla Bibbia.   Dato che i testi della Scrittura hanno talvolta rapporti di tensione tra loro, l’interpretazione deve necessariamente essere pluralistica. Nessuna interpretazione particolare può esaurire il significato dell’insieme, che è una sinfonia a più voci. L’interpretazione di un testo particolare deve quindi evitare di essere esclusivista.   La Sacra Scrittura è in dialogo con le comunità credenti: è scaturita dalle loro tradizioni di fede. I suoi testi si sono sviluppati in rapporto con queste tradizioni e hanno contribuito, reciprocamente, al loro sviluppo. Ne consegue che l’interpretazione della Scrittura si fa in seno alla Chiesa nella sua pluralità e nella sua unità e nella sua tradizione di fede.   Le tradizioni di fede formavano l’ambiente vitale in cui si è inserita l’attività letteraria degli autori della Sacra Scrittura. Questo inserimento comprendeva anche la partecipazione alla vita liturgica e all’attività esterna delle comunità, al loro mondo spirituale, alla loro cultura e alle peripezie del loro destino storico. L’interpretazione della Sacra Scrittura esige perciò, in modo simile, la partecipazione degli esegeti a tutta la vita e a tutta la fede della comunità credente del loro tempo.   Il dialogo con la Sacra Scrittura nel suo insieme, e quindi con la comprensione della fede propria delle epoche anteriori, dev’essere necessariamente accompagnato da un dialogo con la generazione presente. Questo comporta l’allacciamento di un rapporto di continuità, ma anche la constatazione di differenze. Ne consegue che

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l’interpretazione della Scrittura comporta un lavoro di verifica e di selezione; essa rimane in continuità con le tradizioni esegetiche anteriori, di cui conserva e fa propri molti elementi, ma su altri punti se ne stacca, per poter progredire.   

B. Interpretazione nella Tradizione della Chiesa  La Chiesa, popolo di Dio, è cosciente di essere aiutata dallo Spirito Santo nella sua comprensione e interpretazione della Scrittura. I primi discepoli di Gesù sapevano di non essere in grado di comprendere immediatamente in tutti i suoi aspetti la pienezza che avevano ricevuto. Essi facevano l’esperienza, nella loro vita di comunità condotta con perseveranza, di un approfondimento e di una progressiva esplicitazione della rivelazione ricevuta. Riconoscevano in questo l’influenza e l’azione dello «Spirito di verità», che il Cristo aveva loro promesso per guidarli verso la pienezza della verità (Gv 16, 12-13). È così anche che la Chiesa continua il suo cammino, sostenuta dalla promessa del Cristo: «Il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (Gv 14, 26).   

1. Formazione del Canone  Guidata dallo Spirito Santo e alla luce della Tradizione vivente che ha ricevuto, la Chiesa ha identificato gli scritti che devono essere considerati come Sacra Scrittura nel senso che, «scritti sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio per autore e come tali sono stati consegnati alla Chiesa» (Dei Verbum, 11) e contengono «la verità che Dio per la nostra salvezza volle fosse consegnata nelle sacre lettere» (ibid.).   La fissazione di un “canone” delle Sacre Scritture fu la conclusione di un lungo processo. Le comunità dell’antica Alleanza (da gruppi particolari, come i circoli profetici o l’ambiente sacerdotale, fino all’insieme del popolo) riconobbero in un certo numero di testi la Parola di Dio che suscitava la loro fede e le guidava nella vita; essi ricevettero questi testi come un patrimonio da custodire e da trasmettere. Così questi testi cessavano di essere semplicemente l’espressione dell’ispirazione di autori particolari, diventando proprietà comune del popolo di Dio. Il Nuovo Testamento attesta la sua venerazione per questi testi sacri, che riceve come una preziosa eredità trasmessa dal popolo ebraico. Li considera come «Sacre Scritture» (Rm 1, 2), «ispirate» dallo Spirito di Dio (2 Tm 3, 16; cf. 2Pt 1, 20-21), che «non possono essere abolite» (Gv 10, 35).   A questi testi che formano l’“Antico Testamento” (cf. 2Cor 3, 14), la Chiesa ha unito strettamente gli scritti in cui ha riconosciuto, da una parte, la testimonianza autentica, proveniente dagli apostoli (cf. Lc 1, 2; 1 Gv 1, 1-3) e garantita dallo Spirito Santo (cf. 1Pt 1, 12), su «tutto quello che Gesù fece e insegnò dal principio» (At 1, 1) e, dall’altra, le istruzioni date dagli stessi apostoli e da altri discepoli per costituire la comunità dei credenti. Questa duplice serie di scritti ha ricevuto, in seguito, il nome di “Nuovo Testamento”. In questo processo hanno influito numerosi fattori: la certezza che Gesù, e gli apostoli con lui, avevano riconosciuto l’Antico Testamento come Scrittura ispirata e che il suo mistero pasquale ne costituiva il compimento; la convinzione che gli scritti del Nuovo Testamento provengono in modo autentico dalla predicazione apostolica (il che non implica che siano stati composti tutti dagli apostoli stessi); la constatazione del loro uso nella liturgia cristiana e della loro conformità con la regola della fede; l’esperienza, infine, del loro accordo con la vita ecclesiale delle comunità e della loro capacità di nutrire questa vita.   Fissando il canone delle Scritture, la Chiesa fissava anche e de finiva la sua stessa identità, cosicché le Scritture sono ormai uno specchio nel quale la Chiesa può costantemente riscoprire la su identità e verificare, secolo dopo secolo, il modo in cui essa risponde continuamente al vangelo e dispone se stessa a esserne lo strumento di trasmissione (cf. Dei Verbum, 7). Questo conferisce agli scritti canonici un valore salvifico e teologico completamente diverso da quello di altri testi antichi. Se questi ultimi possono gettare molta luce sulle origini della fede, non possono mai sostituirsi all’autorità degli scritti considerati canonici e quindi fondamentali per la comprensione della fede cristiana.   

2. Esegesi patristica  Fin dai primi tempi è stata forte la convinzione che lo stesso Spirito Santo, che ha spinto gli autori del Nuovo Testamento a mettere per iscritto il messaggio della salvezza (cf. Dei Verbum 7; 18),offre ugualmente alla Chiesa un’assistenza continua per l’interpretazione dei suoi scritti ispirati (cf. Ireneo, Adv. Haer. 3.24.1; cf. 3.1.1; 4.33.8; Origene, De Princ., 2.7.2; Tertulliano De Praescr., 22).   I padri della Chiesa, che hanno avuto un ruolo particolare ne processo di formazione del canone, hanno similmente un ruolo fondatore in rapporto alla tradizione vivente che accompagna senza interruzione e guida la lettura e l’interpretazione che la Chiesa fa delle Scritture (cf. Providentissimus, EB 110-111; Divino afflante Spiritu, 28-30, EB 554; Dei Verbum, 23; PCB, Instr. de Evang histor., 1). Nella corrente della grande tradizione, il contributo particolare dell’esegesi patristica consiste in questo: essa ha tratto dal l’insieme della Scrittura gli orientamenti di base che hanno dato forma alla tradizione dottrinale della Chiesa e ha fornito un ricco insegnamento teologico per l’istruzione e il nutrimento spirituali dei fedeli.   

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Presso i padri della Chiesa, la lettura della Scrittura e la sua interpretazione occupano un posto considerevole. Ne sono una testimonianza innanzi tutto le opere direttamente legate alla comprensione delle Scritture, cioè le omelie e i commentari, ma anche le opere di controversia e di teologia, in cui il riferimento alla Scrittura serve da argomento principale.   Il luogo abituale della lettura biblica è la chiesa, durante la liturgia. Questa è la ragione per cui l’interpretazione proposta è sempre di natura teologica, pastorale e teologale, a servizio delle comunità e dei singoli credenti.   I padri considerano la Bibbia innanzi tutto come il Libro di Dio, opera unica di un autore unico; ma non per questo riducono gli autori umani al ruolo di meri strumenti passivi; sanno attribuire all’uno o all’altro libro, preso individualmente, uno scopo particolare. Ma il loro tipo di approccio presta scarsa attenzione allo sviluppo storico della rivelazione. Numerosi padri della Chiesa presentano il Logos, Verbo di Dio, come l’autore dell’Antico Testamento e affermano così che tutta la Scrittura ha una portata cristologica.   Fatta eccezione di alcuni esegeti della scuola antiochena (in particolare Teodoro di Mopsuestia), i padri si sentono autorizzati prendere una frase al di fuori del suo contesto per riconoscervi una verità rivelata da Dio. Nelle controversie con i Giudei o in quelle dogmatiche con altri teologi, non esitano ad appoggiarsi su interpretazioni di questo genere.   Spinti soprattutto dalla preoccupazione di vivere della Bibbia il comunione con i loro fratelli, i padri si limitano spesso a usare il testo biblico corrente nel loro ambiente. Interessandosi metodicamente alla Bibbia ebraica, Origene era animato soprattutto dalla preoccupazione di trovare argomenti da opporre ai Giudei a partire da testi per essi accettabili. Esaltando la veritas hebraica, san Girolamo prende una posizione marginale.   I padri applicano in modo più o meno frequente il metodo allegorico, allo scopo di dissipare lo scandalo che potrebbero provare alcuni cristiani e gli avversari pagani del cristianesimo nel leggere certi passi della Bibbia. Ma molto raramente vengono annullate la letteralità e la storicità dei testi.   Il ricorso dei padri all’allegoria va generalmente al di là del fenomeno dell’adattamento al metodo allegorico usato dagli autori pagani. Il ricorso all’allegoria deriva anche dalla convinzione che la Bibbia, libro di Dio, è stata da Lui data al suo popolo, la Chiesa. In linea di massima niente dev’essere lasciato da parte come desueto o definitivamente caduco. Nelle loro spiegazioni della Bibbia i padri mescolano e intrecciano le interpretazioni tipologiche e allegoriche in un modo quasi inestricabile, sempre con una finalità pastorale e pedagogica. Tutto quanto è scritto, è stato scritto per la nostra istruzione (cf. 1Cor 10, 11).   Persuasi che si tratti del libro di Dio, quindi inesauribile, i padri credono di poter interpretare un determinato passo secondo un determinato schema allegorico, ma ritengono che ognuno è libero di proporre qualcosa di diverso, purché si rispetti l’analogia della fede.   L’interpretazione allegorica delle Scritture che caratterizza l’esegesi patristica rischia di disorientare l’uomo moderno, ma l’esperienza di Chiesa che questa esegesi esprime offre un contributo sempre utile (cf. Divino afflante Spiritu, 31-32; Dei Verbum, 23). I padri insegnano a leggere teologicamente la Bibbia in seno a una Tradizione vivente con un autentico spirito cristiano.   

3. Ruolo dei diversi membri della Chiesa nell’interpretazione  In quanto date alla Chiesa, le Scritture sono il tesoro comune di tutto il corpo dei credenti: «La Sacra Tradizione e la Sacra Scrittura costituiscono un unico deposito della Parola di Dio affidato alla Chiesa. Aderendo ad esso tutto il popolo santo, unito ai suoi pastori, resta assiduamente fedele all’insegnamento degli apostoli…» (Dei Verbum, 10; cf. anche 21). È vero che la familiarità con il testo delle Scritture è stato, tra i fedeli, più marcato in certe epoche della storia della Chiesa che in altre. Ma le Scritture hanno occupato un posto di primo piano in tutti i momenti importanti del rinnovamento nella vita della Chiesa, dal movimento monastico dei primi secoli fino all’epoca recente del concilio Vaticano II.   Questo stesso concilio insegna che tutti i battezzati, quando partecipano, nella fede in Cristo, alla celebrazione dell’eucaristia, riconoscono la presenza di Cristo anche nella sua parola, «giacché è lui che parla quando nella chiesa si legge la Sacra Scrittura» (Sacrosanctum Concilium, 7). A questo ascolto della parola essi vengono con a il senso della fede (sensus fidei) che caratterizza tutto il popolo di Dio. «Grazie a questo senso della fede, che è suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, il popolo di Dio, sotto la guida del sacro magistero, al quale fedelmente si conforma, accoglie non una parola umana ma, qual è in realtà, la parola di Dio (cf. 1Ts 2, 13); aderisce indefettibilmente alla fede una volta per tutte trasmessa ai santi (cf. Gd 3), con retto giudizio penetra in essa più a fondo e più pienamente l’applica nella vita» (Lumen Gentium, 12).   Così, dunque, tutti i membri della Chiesa hanno un ruolo nell’interpretazione delle Scritture. Nell’esercizio del loro ministero pastorale, i vescovi, in quanto successori degli apostoli, sono i primi testimoni e garanti della tradizione vivente nella quale le Scritture sono interpretate in ogni epoca. «Questi, illuminati dallo Spirito di verità, devono custodire fedelmente la Parola di Dio, spiegarla e diffonderla con la loro predicazione» (Dei Verbum 9; cf. Lumen Gentium, 25). In quanto collaboratori dei vescovi, i sacerdoti hanno come primo dovere la proclamazione della Parola (Presbyterorum ordinis, 4). Essi sono dotati di un carisma particolare per l’interpretazione della Scrittura quando, trasmettendo, non le loro idee personali, ma la parola di Dio, applicano la

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verità eterna del vangelo alle circostanze concrete della vita (ibid.). È compito dei sacerdoti e dei diaconi, soprattutto quando amministrano i sacramenti, mettere in luce l’unità che Parola e Sacramento formano nel ministero della Chiesa.   In quanto presidenti della comunità eucaristica ed educatore della fede, i ministri della Parola hanno come compito principale non semplicemente quello di fornire un insegnamento, ma di aiutare i fedeli a comprendere e discernere ciò che la Parola di Dio dice nei loro cuori quando ascoltano e meditano le Scritture. Così tutta la chiesa locale, secondo il modello di Israele, popolo di Dio (Es 19, 5-6), diventa una comunità che sa che Dio le parla (cf. G 6, 45) e fa di tutto per ascoltarlo con fede, amore e docilità verso la Parola (Dt 6, 4-6). Tali comunità, che ascoltano veramente, diventano nel loro ambiente, purché restino sempre unite a tutta la Chiesa nella fede e nell’amore, ardenti focolai di evangelizzazione e di dialogo, e anche agenti di trasformazione sociale (Evangelii Nuntiandi, 57-58; CDF, Istruzione sulla libertà cristiana e la liberazione, 69-70).   Lo Spirito è anche dato, certamente, ai cristiani individualmente cosicché i loro cuori possano diventare «ardenti» (cf. Lc 24, 32: quando pregano e fanno uno studio orante delle Scritture nel contesto della loro vita personale. Questa è la ragione per cui il concilio Vaticano II ha chiesto con insistenza che l’accesso alle Scritture sia facilitato in tutti i modi possibili (Dei Verbum, 22; 25). Questo genere di lettura, conviene notarlo, non è mai completamente privato, perché il credente legge e interpreta sempre la Scrittura nella fede della Chiesa e porta poi alla comunità il frutto della sua lettura, allo scopo di arricchire la fede comune.   Tutta la tradizione biblica e, in modo più considerevole, l’insegnamento di Gesù nei vangeli indicano come ascoltatori privilegiati della Parola di Dio quelli che il mondo considera gente di umile condizione. Gesù ha riconosciuto che certe cose tenute nascoste ai sapienti e agli intelligenti sono state rivelate ai semplici (Mt 11, 25; Lc 10, 21) e che il Regno di Dio appartiene a quelli che sono come bambini (Mc 10, 14 e par.).   Nella stessa linea, Gesù ha proclamato: «Beati voi, poveri, perché vostro è il Regno di Dio» (Lc 6, 21; cf. Mt 5, 3). Tra i segni dei tempi messianici si trova la proclamazione della buona novella ai poveri (Lc 4, 18; 7, 22; Mt 11, 5; cf. CDF, Istruzione sulla libertà cristiana e la liberazione, 47-48). Quelli che, nella loro impotenza nella loro privazione di risorse umane, si trovano spinti a porre la loro unica speranza in Dio e nella sua giustizia, hanno una capacità di ascoltare e di interpretare la Parola di Dio, che dev’essere presa in considerazione da tutta la Chiesa e richiede anche una risposta livello sociale.   Riconoscendo la diversità dei doni e delle funzioni che lo Spirito mette a servizio della comunità, in particolare il dono di insegnare (1Cor 12, 28-30; Rm 12, 6-7; Ef 4, 11-16), la Chiesa accorda la sua stima a coloro che manifestano una particolare capacità di contribuire alla costruzione del Corpo di Cristo per la loro competenza nell’interpretazione della Scrittura (Divino afflante Spiritu, 46-4, EB 564-565; Dei Verbum, 23; PCB, Istruzione sulla storicità dei vangeli; Introd.). Benché i loro studi possano non aver sempre ricevuto gli incoraggiamenti che ottengono ora, gli esegeti che mettono il loro sapere al servizio della Chiesa si trovano situati in una ricca tradizione che si estende dai primi secoli, con Origene e Girolamo fino ai tempi più recenti, con Padre Lagrange e altri, e si prolunga fino ai nostri giorni. In particolare, la ricerca del senso letterale della Scrittura, sul quale ora si insiste tanto, richiede gli sforzi congiunti di coloro che hanno competenza nel campo delle lingue antiche, della storia e della cultura, della critica testuale e dell’analisi delle forme letterarie, e che sanno usare i metodi della critica scientifica. Oltre a questa attenzione al testo nel suo contesto storico originale, la Chiesa conta su esegeti animati dallo stesso Spirito che ha ispirato la Scrittura, per assicurare che «il più gran numero possibile di ministri della Parola di Dio siano in grado di procurare effettivamente al popolo di Dio l’alimento delle Scritture» (Divino afflante Spiritu, 24; 53-55; EB 551, 567; Dei Verbum, 23; Paolo VI, Sedula Cura [1971]). Un motivo di soddisfazione è fornito nel nostro tempo dal numero crescente di donne esegete, che offrono spesso, nell’interpretazione della Scrittura, nuovi e penetranti punti di vista e mettono in luce aspetti che erano stati dimenticati.   Se le Scritture, come abbiamo ricordato sopra, sono un bene di tutta la Chiesa e fanno parte dell’«eredità della fede» che tutti, pastori e fedeli, «conservano, professano e mettono in pratica in uno sforzo comune», rimane tuttavia vero che «l’ufficio di interpretare autenticamente la Parola di Dio scritta o trasmessa è stato affidato al solo magistero vivo della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo» (Dei Verbum, 10). Pertanto, in ultima istanza, è il magistero ad avere il compito di garantire l’autenticità dell’interpretazione e di indicare, se il caso lo richiede, che l’una o l’altra interpretazione particolare è incompatibile con l’autenticità del vangelo. Adempie questo compito all’interno della koinonia del Corpo, esprimendo ufficialmente la fede della Chiesa per servire la Chiesa; consulta a questo scopo teologi, esegeti e altri esperti, di cui riconosce la legittima libertà e con i quali resta legato da una relazione reciproca nello scopo comune di «conservare il popolo di Dio nella verità che rende liberi» (CDF, Istruzione sulla vocazione ecclesiale del teologo, 21).   

C. Compito dell’esegeta  Il compito dell’esegeta cattolico ha molteplici aspetti. È un compito di Chiesa, perché consiste nello studiare e spiegare la Sacra Scrittura in modo da metterne tutta la ricchezza a disposizione dei pastori e dei fedeli. Ma è nello stesso tempo un compito scientifico, che mette l’esegeta cattolico in rapporto con i suoi colleghi non cattolici e

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con molti settori della ricerca scientifica. D’altra parte, questo compito comprende al tempo stesso il lavoro di ricerca e quello di insegnamento. Sia l’uno che l’altro portano normalmente alla produzione di pubblicazioni.   

1. Orientamenti principali  Impegnandosi nel loro compito, gli esegeti cattolici devono prendere in seria considerazione il carattere storico della rivelazione biblica. Infatti i due Testamenti esprimono in parole umane, che portano il segno del loro tempo, la rivelazione storica che Dio ha fatto, in diversi modi, di se stesso e del suo disegno di salvezza. Di conseguenza, gli esegeti devono far uso del metodo storico-critico senza però attribuire ad esso l’esclusività. Tutti i metodi pertinenti di interpretazione dei testi sono abilitati ad apportare il loro contributo all’esegesi della Bibbia.   Nel loro lavoro di interpretazione, gli esegeti cattolici non devono mai dimenticare che ciò che interpretano è la Parola di Dio. Il loro compito non finisce una volta che hanno distinto le fonti, definito le forme o spiegato i procedimenti letterari. Lo scopo del loro lavoro è raggiunto solo quando hanno chiarito il significato del testo biblico come Parola attuale di Dio. A tale scopo, devono prendere in considerazione le diverse prospettive ermeneutiche che aiutano a cogliere l’attualità del messaggio biblico e gli permettono di rispondere ai bisogni dei lettori moderni delle Scritture.   Compito degli esegeti è anche spiegare la portata cristologica canonica ed ecclesiale degli scritti biblici.   La portata cristologica dei testi biblici non è sempre evidente; deve essere messa in luce ogni qualvolta sia possibile. Anche se il Cristo ha stabilito la Nuova Alleanza nel suo sangue, i libri della Prima Alleanza non hanno perso il loro valore. Assunti nella proclamazione del vangelo, essi acquistano e manifestano il loro pieno significato nel «mistero del Cristo» (Ef 3, 4), di cui illuminano i molteplici aspetti, venendo nello stesso tempo illuminati da esso. Questi libri, infatti, preparavano il popolo di Dio alla sua venuta (cf. Dei Verbum, 14-16).   Ogni libro della Bibbia, sebbene sia stato scritto con uno scopo distinto e abbia un suo specifico significato, si manifesta portatore di un significato ulteriore quando diventa parte dell’insieme canonico. Il compito degli esegeti include perciò la spiegazione dell’affermazione agostiniana: «Novum Testamentum in Vetere latet, et in Novo Vetus patet» (cf. S. Agostino).   Gli esegeti devono anche spiegare la relazione che esiste tra la Bibbia e la Chiesa. La Bibbia ha visto la luce in comunità credenti. Esprime la fede d’Israele, e poi quella delle comunità cristiane primitive. Unita alla Tradizione vivente che l’ha preceduta, l’accompagna ed è da essa nutrita (cf. Dei Verbum, 21), la Bibbia è lo strumento privilegiato di cui Dio si serve per guidare, anche ora, la costruzione e la crescita della Chiesa in quanto popolo di Dio. Inseparabile dalla dimensione ecclesiale è l’apertura ecumenica. Giacché la Bibbia esprime un’offerta di salvezza presentata da Dio a tutti gli uomini, il compito degli esegeti comporta una dimensione universale che richiede un’attenzione alle altre religioni e alle aspettative del mondo attuale.   

Dispense: pp. 62-64, 70-84, 113-115

I QUATTRO MODELLI ERMENEUTICI CLASSICI

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Necessità del compimento delle ScrittureUnità del disegno di Dio e nozione di compimento

PCB 2001 nn 6-7

B. Il Nuovo Testamento attesta la propria conformità alle Scritture del popolo ebraico 6. Una duplice convinzione si manifesta in altri testi: da una parte, ciò che è scritto nelle Scritture del popolo ebraico deve necessariamente compiersi, perché rivela il disegno di Dio, che non può non realizzarsi, e dall'altra, la vita, la morte e la risurrezione di Cristo corrispondono pienamente a quanto viene detto in queste Scritture.

1. Necessità del compimento delle Scritture L'espressione più netta della prima convinzione si trova nelle parole rivolte da Gesù risorto ai suoi discepoli, nel vangelo secondo Luca: «Sono queste le parole che vi dicevo quando ero ancora con voi: bisogna (dei) che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi» (Lc 24,44). Poiché «bisogna» assolutamente che si compia quanto è scritto nell'Antico Testamento, gli avvenimenti accadono «affinché» ciò si compia. È quanto dichiara spesso Matteo. Marco ha un parallelo a quest'ultimo passo, in una vigorosa frase ellittica: «Ma [è]perché si adempiano le Scritture» (Mc 14,49). Luca non utilizza questo genere di espressione; mentre Giovanni vi ricorre quasi con la stessa frequenza di Matteo.

2. Conformità alle Scritture 7. Altri testi affermano che tutto, nel mistero di Cristo, è conforme alle Scritture del popolo ebraico . La fede cristiana non è quindi basata soltanto su degli eventi, ma sulla conformità di questi eventi alla rivelazione contenuta nelle Scritture del popolo ebraico. Nel vangelo secondo Matteo una frase di Gesù rivendica una perfetta continuità tra la Torāh e la fede dei cristiani: «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento» (Mt 5,17). Nel vangelo secondo Luca, la conclusione parla del compimento di «tutte le cose scritte», riguardo a Gesù (Lc 24,44). Il IV vangelo esprime una prospettiva analoga: «Se non credete ai suoi (di Mosè) scritti, come potrete credere alle mie parole?» (Gv 5,47).

PCB 2001 n 21

5. Unità del disegno di Dio e nozione di compimento 21. Il presupposto teologico di base è che il disegno salvifico di Dio, che culmina in Cristo (cf Ef 1,3-14), è unitario, ma si è realizzato progressivamente attraverso il tempo. L'aspetto unitario e l'aspetto graduale sono entrambi importanti; così come lo sono la continuità su alcuni aspetti e la discontinuità su altri. Le prime realizzazioni, per quanto provvisorie e imperfette, fanno già intravedere qualcosa della pienezza definitiva. Operando una continua rilettura degli eventi e dei testi, l'Antico Testamento stesso si apre progressivamente a una prospettiva di compimento ultimo e definitivo. L'esodo, esperienza fondante della fede d'Israele (cf Dt 6,20-25; 26,5-9), diventa il modello di ulteriori esperienze di salvezza. La liberazione dall'esilio babilonese e la prospettiva di una salvezza escatologica vengono descritte come un nuovo esodo. L'interpretazione cristiana si situa in questa linea, ma con la differenza che essa vede il compimento già sostanzialmente realizzato nel mistero di Cristo.

La nozione di compimento è estremamente complessa, e può essere facilmente falsata se si insiste unilateralmente o sulla continuità o sulla discontinuità. La fede cristiana riconosce il compimento, in Cristo, delle Scritture e delle attese d'Israele, ma non comprende tale compimento come la semplice realizzazione di quanto era scritto. Una tale concezione sarebbe riduttiva. In realtà, nel mistero del Cristo crocifisso e risorto, il compimento avviene in modo imprevedibile. Comporta un superamento. Gesù conferisce alle nozioni di messia e di salvezza una pienezza che era impossibile immaginare prima; le riempie di una nuova realtà. Sarebbe infatti un errore considerare le profezie dell'Antico Testamento delle fotografie anticipate di eventi futuri. Tutti i testi, compresi quelli che, in seguito, sono stati letti come profezie messianiche, hanno avuto un valore e un significato immediati per i contemporanei, prima di acquistare un significato più pieno per gli ascoltatori futuri. Il messianismo di Gesù ha un significato nuovo e inedito.

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Più si trova evidente il riferimento al Cristo nei testi veterotestamentari, più si ritiene ingiustificabile e ostinata l'incredulità degli ebrei. Ma la constatazione di una discontinuità tra l'uno e l'altro Testamento e di un superamento delle prospettive antiche non deve portare a una spiritualizzazione unilaterale. Ciò che è già compiuto in Cristo deve ancora compiersi in noi e nel mondo. Il compimento definitivo sarà quello della fine, con la risurrezione dei morti, i cieli nuovi e la terra nuova. L'attesa messianica ebraica non è vana. Essa può diventare per noi cristiani un forte stimolo a mantenere viva la dimensione escatologica della nostra fede. Anche noi, come loro, viviamo nell'attesa. La differenza sta nel fatto che per noi Colui che verrà avrà i tratti di quel Gesù che è già venuto ed è già presente e attivo tra noi.

6. Prospettive attuali L'Antico Testamento possiede in se stesso un immenso valore come Parola di Dio. Certo, per i cristiani, tutta l'economia veterotestamentaria è in movimento verso Cristo; se si legge perciò l'Antico Testamento alla luce di Cristo è possibile, retrospettivamente, cogliere qualcosa di questo movimento. Ma leggerli retrospettivamente, con occhi da cristiani, significa percepire al tempo stesso il movimento verso Cristo e la distanza in rapporto a Cristo, la prefigurazione e la dissomiglianza. Inversamente, il Nuovo Testamento può essere pienamente compreso solo alla luce dell'Antico Testamento. L'interpretazione cristiana dell'Antico Testamento è quindi un'interpretazione differenziata a seconda dei diversi tipi di testi. Si tratta di un'interpretazione teologica, ma al tempo stesso pienamente storica. Lungi dall'escludere l'esegesi storico-critica, la richiede.

Quando il lettore cristiano percepisce che il dinamismo interno all'Antico Testamento trova la sua realizzazione in Gesù, si tratta di una percezione retrospettiva, il cui punto di partenza non si situa nei testi come tali, ma negli eventi del Nuovo Testamento proclamati dalla predicazione apostolica. Non si deve perciò dire che l'ebreo non vede ciò che era annunciato nei testi, ma che il cristiano, alla luce di Cristo e della Chiesa, scopre nei testi un di più di significato che vi era nascosto.

DISPENSE pp. 116-131

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ALLEANZA (PCB 2001 nn 37-42) & LEGGE (PCB 2001 nn 43-45)

5. L'alleanza

a) Nell'Antico Testamento 37. Come abbiamo già visto, l'elezione d'Israele presenta un duplice aspetto: è un dono d'amore da cui ne consegue un'esigenza corrispondente. L'alleanza conclusa al Sinai mette maggiormente in luce questo duplice aspetto.

Come la teologia dell'elezione, anche quella dell'alleanza è da cima a fondo teologia del popolo del signore. Adottato dal Signore e diventato suo figlio (cf Es 3,10; 4,22-23), Israele riceve l'ordine di vivere in fedeltà esclusiva e in totale impegno verso di lui. Pertanto, per sua stessa definizione, la nozione di alleanza si oppone alla falsa convinzione secondo la quale l'elezione d'Israele sarebbe automaticamente una garanzia della sua esistenza e della sua felicità. L'elezione doveva essere compresa piuttosto come una vocazione che Israele aveva il dovere di realizzare nella sua vita come popolo. L'aver contratto un'alleanza esigeva una scelta e una decisione da parte d'Israele, così come da parte di Dio.

Oltre al suo uso nel racconto del Sinai (Es 24,3-8), il termine berît, tradotto generalmente con «alleanza», appare in diverse tradizioni bibliche, in particolare quelle riguardanti Noè, Abramo, Davide, Levi e il sacerdozio levitico; è frequente nel Deuteronomio e nella storia deuteronomistica. In ogni contesto, il termine ha sfumature di significato differenti. La traduzione abituale di berît, con «alleanza» è talvolta non appropriata. Il termine può avere il senso più ampio di «impegno», trovarsi in parallelismo con «giuramento» ed esprimere una promessa o una solenne assicurazione.

Impegno verso Noè (Gn 9,8-17). Dopo il diluvio, Dio annuncia a Noè e ai suoi figli che assumerà un impegno (berît,) con loro e con ogni essere vivente. Nessun obbligo viene imposto a Noè né ai suoi discendenti. Dio s'impegna di propria iniziativa e senza riserve. Questo impegno incondizionato di Dio con la sua creazione è alla base di ogni vita. Il suo carattere unilaterale, cioè senza esigenze imposte alla controparte, emerge chiaramente dal fatto che questo impegno include esplicitamente gli animali («tutti quelli che sono usciti dall'arca»: 9,10). Come segno dell'impegno assunto da Dio viene dato l'arcobaleno. Quando apparirà tra le nubi, Dio si ricorderà del suo «impegno eterno» verso «ogni carne che è sulla terra» (9,16).

Impegno verso Abramo (Gn 15,1-25; 17,1-26). Secondo Gn 15, il signore prende un impegno verso Abramo, espresso in questi termini: «Alla tua discendenza io do questo paese» (15,18). Il racconto non fa menzione di un obbligo reciproco. Il carattere unilaterale dell'impegno viene confermato dal rito solenne che precede la dichiarazione divina. Si tratta di un rito di auto-imprecazione: passando tra le due metà degli animali uccisi, la persona che assume l'impegno chiama su di sé una sorte simile, nel caso venisse meno ai suoi obblighi (cf Ger 34,18-20). Se, in Gn 15, si fosse trattato di un'alleanza con obblighi reciproci, le due parti avrebbero dovuto partecipare al rito. Invece non è così: solo il signore, rappresentato da una «torcia di fuoco» (15,17), passa tra gli animali divisi.

L'aspetto di promessa di Gn 15 si ritrova in Gn 17, ma con l'aggiunta di un comandamento. Dio impone ad Abramo un obbligo generale di perfezione morale (17,1) e una prescrizione positiva particolare, la circoncisione (17,10-14). Viene poi promessa (17,2) e definita una berît: promessa di una straordinaria fecondità (17,4-6) e del dono della terra (17,8). Queste promesse sono incondizionate e differiscono in questo dall'alleanza del Sinai (Es 19,5-6). Il termine berît appare 17 volte in questo capitolo con il suo significato fondamentale di assicurazione solenne, ma mira a qualcosa di più di una promessa: viene qui creato un legame eterno tra Dio e Abramo, compresa la sua discendenza: «sarò il vostro Dio» (17,8).

La circoncisione è il «segno» dell'impegno verso Abramo, come l'arcobaleno è il segno dell'alleanza con Noè, con la differenza che la circoncisione dipende da una decisione umana. È un segno che identifica coloro che beneficiano della promessa di Dio. Se uno non porta questo segno dovrà essere eliminato dal popolo, perché avrà profanato l'alleanza (17,14).

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38. L'alleanza del Sinai. Il testo di Es 19,4-8 mostra il significato fondamentale dell'alleanza di Dio con Israele. Il simbolismo poetico utilizzato — «portare su ali d'aquila» — mostra molto bene come l'alleanza si inserisca molto naturalmente all'interno del processo di profonda liberazione avviato al momento della traversata del mare. Tutta l'idea dell'alleanza risale a questa iniziativa divina. L'atto redentore compiuto dal signore al momento dell'uscita dall'Egitto costituisce per sempre il fondamento dell'esigenza di fedeltà e di docilità verso di lui.

L'unica risposta valida a questo atto redentore è una continua gratitudine , che si esprime con un'obbedienza sincera. «Ora, se mi obbedirete e osserverete la mia alleanza...» (19,5a): questi patti non devono essere considerati una della basi sulle quali posa l'alleanza, ma piuttosto come la condizione da adempiere per continuare a godere delle benedizioni promesse dal Signore al suo popolo. L'accettazione dell'alleanza offerta include, da una parte, degli obblighi e garantisce, dall'altra, uno status speciale: «Sarete la mia proprietà personale (segullah)»; in altre parole: «sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa» (19,5b.6).

Il testo di Es 24,3-8 porta a compimento l'alleanza annunciata in 19,3-8. La ripartizione del sangue in due parti uguali prepara la celebrazione del rito. Una metà del sangue è versata sull'altare, dedicato a Dio, mentre l'altra metà è versata sugli Israeliti radunati, che in questo modo sono consacrati come popolo santo del signore e destinati al suo servizio. L'inizio (19,8) e la fine (24, 3.7) del grande evento della fondazione dell'alleanza sono segnati dalla ripetizione di una stessa formula di impegno da parte del popolo: «Quanto il signore ha ordinato, noi lo metteremo in pratica».

Questo impegno non viene mantenuto. Gli Israeliti adorano il vitello d'oro (Es 32,1-6). Il racconto di questa infedeltà e di quanto ne consegue costituisce una riflessione sulla rottura dell'alleanza e il suo ristabilimento. Il popolo incorre nella collera di Dio, che parla di sterminarlo (32,10). Ma l'intercessione ripetuta di Mosè, l'intervento dei leviti contro gli idolatri (32,26-29) e la penitenza di popolo (33,4-6) ottengono da Dio che receda dal mettere in atto le sue minacce (32,14) e acconsenta di camminare di nuovo con il suo popolo (33,14-17). Dio prende l'iniziativa di ristabilire l'alleanza (34,1-10). Questi capitoli riflettono la convinzione che, fin dall'inizio, Israele è stato incline a essere infedele all'alleanza, mentre Dio, al contrario, ha sempre riallacciato le relazioni.

L'alleanza è certamente un modo umano di concepire le relazioni di Dio con il suo popolo. L'obiettivo dell'alleanza viene definito in modo molto semplice: «Io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo» (Lv 26,12; cf Es 6,7). L'alleanza non dev'essere compresa come un semplice contratto bilaterale, perché Dio non può essere sottomesso ad obblighi allo stesso modo delle persone umane. Nondimeno, l'alleanza permetteva agli Israeliti di far appello alla fedeltà di Dio. Israele non era stato il solo a impegnarsi. Il signore si era impegnato a dare la terra come pure la sua presenza benefica in mezzo al popolo.

L'alleanza nel Deuteronomio. Il Deuteronomio così come la redazione dei libri storici che ne dipendono (Gs – Re) distinguono il «giuramento ai padri» riguardante il dono del paese (Dt 7,12; 8,18) e l'alleanza con la generazione dell'Oreb (5,2-3). Questa alleanza è come un giuramento di fedeltà al Signore (2 Re 23,1-3). Destinata da Dio a essere permanente (Dt 7,9.12), essa esige la fedeltà del popolo. Il termine berît si riferisce spesso in modo specifico al decalogo, piuttosto che alla relazione tra il Signore e Israele di cui il decalogo fa parte. Il Signore «vi ha comunicato la sua berît, le dieci parole che vi ha ordinato di osservare».

La dichiarazione di Dt 5,3 merita un'attenzione particolare perché afferma la validità dell'alleanza per la generazione presente (cf anche 29,14). Questo versetto è come una chiave di interpretazione per tutto il libro. La distanza temporale tra le generazioni è abolita. L'alleanza del Sinai è resa attuale; essa è stata conclusa «con noi che siamo qui oggi».

L'impegno verso Davide. Questa berît, si situa sulla linea di quelle date a Noè e ad Abramo: promessa di Dio senza un obbligo corrispondente per il re. Davide e la sua casa godono ormai del favore di Dio, che s'impegna con giuramento per un'«alleanza eterna»: «Io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio». Essendo una promessa incondizionata, l'alleanza con la casa di Davide non può essere rotta (Sal 89,29-38). Se il successore di Davide commette delle mancanze, Dio lo punirà come un padre punisce il proprio figlio, ma non ritirerà da lui il suo favore (2 Sam 7,14-15). La prospettiva è molto diversa da quella

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dell'alleanza del Sinai, dove il favore divino è legato a una condizione: il rispetto dell'alleanza da parte d'Israele (Es 19,5-6).

39. Una nuova alleanza in Ger 31,31-34. Al tempo di Geremia, l'incapacità d'Israele a osservare l'alleanza del Sinai si manifesta in modo tragico, provocando la presa di Gerusalemme e la distruzione del Tempio. Ma la fedeltà di Dio verso il suo popolo si manifesta allora con la promessa di una «nuova alleanza», che, dice il Signore, «non sarà come l'alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dal paese d'Egitto, un'alleanza che essi hanno violato» (Ger 31,32). Renderà possibile un nuovo inizio per il popolo di Dio. L'oracolo non annuncia un cambio di legge, ma una nuova relazione con la legge di Dio, nel senso di una interiorizzazione. Invece di essere scritta «su tavole di pietra», la legge sarà scritta da Dio nei «cuori» (Ger 31,33), il che garantirà una docilità perfetta, accettata spontaneamente, invece della continua disubbidienza del passato. Il risultato sarà una vera appartenenza reciproca, una relazione personale di ciascuno con il Signore, e avrà come base un'iniziativa estremamente generosa del Signore: il perdono accordato al popolo per tutte le sue colpe.

L'espressione «nuova alleanza» non si incontra altrove nell'Antico Testamento, ma un oracolo del libro di Ezechiele prolunga visibilmente quello di Ger 31,31-34 annunciando alla casa d'Israele il dono di un «cuore nuovo» e di uno «spirito nuovo», che sarà lo Spirito di Dio e assicurerà la docilità alle leggi di Dio.

b) Nel Nuovo Testamento 40. Sul tema dell'alleanza di Dio con il suo popolo, gli scritti del Nuovo Testamento si situano in una prospettiva di compimento, cioè di fondamentale continuità e di decisivo progresso. La continuità riguarda anzitutto la relazione di alleanza, mentre le rotture riguardano le istituzioni dell'Antico Testamento, che, si riteneva, stabilivano e assicuravano questa relazione. Nel Nuovo Testamento l'alleanza viene stabilita su un fondamento nuovo, la persona e l'opera di Gesù Cristo; la relazione di alleanza ne risulta approfondita e ampliata, aperta a tutti grazie alla fede cristiana.

I vangeli sinottici e gli Atti degli apostoli parlano poco di alleanza. Nell'ultima Cena, Gesù interviene in modo decisivo, facendo del suo sangue un «sangue di alleanza» (Mt 26,28; Mc 14,24), fondamento della «nuova alleanza» (Lc 22,20; 1 Cor 11,25). L'espressione «sangue di alleanza» ricorda l'instaurazione dell'alleanza del Sinai da parte di Mosè (Es 24,8) e suggerisce quindi un rapporto di continuità con questa alleanza, ma le parole di Gesù manifestano al tempo stesso un aspetto di radicale novità, perché, mentre l'alleanza del Sinai aveva comportato un rito di aspersione con il sangue di animali immolati, l'alleanza di Cristo è fondata sul sangue di un essere umano che trasforma la sua morte di condannato in dono generoso, facendo così di un evento di rottura un evento di alleanza. La frase di Gesù sulla coppa proclama che la profezia del libro di Geremia (31) è compiuta nella sua passione. Negli Atti degli apostoli (3,25) Pietro fa allusione all'alleanza-promessa. Egli si rivolge ai Giudei (3,12), ma il testo che cita riguarda al tempo stesso «tutte le nazioni della terra» (Gn 22,18). Viene così espressa l'apertura universale dell'alleanza. L'Apocalisse presenta uno sviluppo caratteristico: in occasione della visione escatologica della «Gerusalemme nuova», viene pronunciata la formula dell'alleanza, amplificata: «ed essi saranno suoi popoli ed Egli, Dio con loro, sarà il loro Dio» (21,3).

41. Le lettere di Paolo trattano più di una volta della questione dell'alleanza. La «nuova alleanza» è fondata nel sangue di Cristo (1 Cor 11,25). Il ministero apostolico è a servizio della «nuova alleanza» (2 Cor 3,6), che non è «di lettera» ma «di Spirito», conformemente alle profezie, che promettono che Dio scriverà la sua legge «nei cuori» (Ger 31,33). Paolo attacca più di una volta l'alleanza-legge del Sinai, opponendo ad essa l'alleanza-promessa ricevuta da Abramo. L'alleanza-legge è posteriore e provvisoria (Gal 3,19-25). L'alleanza-promessa è originaria e definitiva (Gal 3,16-18). Essa aveva, fin dall'inizio, un'apertura universale e ha trovato in Cristo il suo compimento.

Paolo si oppone all'alleanza-legge del Sinai in quanto sistema legislativo di un popolo particolare, che non deve essere imposto ai credenti venuti dalle «nazioni». Per Paolo, la fondazione, da parte di Gesù, della «nuova alleanza nel (suo) sangue» (1 Cor 11,25) non implica una rottura dell'alleanza di Dio con il suo popolo, ma ne costituisce il compimento. Per molti Giudei il velo col quale Mosè copriva il suo volto

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rimane steso sull'Antico Testamento (2 Cor 3,13.15), impedendo loro di riconoscervi la rivelazione di Cristo. Ma questo fa parte del misterioso disegno di salvezza di Dio, il cui scopo finale è la salvezza di «tutto Israele» (Rm 11,26).

La lettere paoline manifestano quindi una duplice convinzione: quella dell'insufficienza dell'alleanza legale del Sinai, da una parte, e quella della piena validità dell'alleanza-promessa, dall'altra. Il rifiuto della fede in Cristo ha messo il popolo ebraico in una situazione drammatica di disobbedienza, ma egli resta «amato» e gli viene promessa la misericordia di Dio (cf Rm 11,26-32).

42. La Lettera agli Ebrei cita in extenso l'oracolo della «nuova alleanza» e ne proclama la realizzazione da parte di Cristo, «mediatore di una nuova alleanza». Sacerdozio e sacrifici erano incapaci di togliere l'ostacolo dei peccati e di stabilire un'autentica mediazione tra il popolo e Dio. Queste istituzioni sono state perciò abrogate per far posto al sacrificio e al sacerdozio di Cristo (Eb 7,18-19; 10,9), stabilimento di un'alleanza veramente nuova, fondata su una nuova base: l'offerta personale di Cristo (cf 9,14-15).

La conclusione che si trae da tutti questi testi è che i primi cristiani avevano coscienza di trovarsi in profonda continuità con il disegno di alleanza manifestato e realizzato dal Dio d'Israele nell'Antico Testamento. Israele continua a trovarsi in una relazione di alleanza con Dio, perché l'alleanza-promessa è definitiva e non può essere abolita. Ma i primi cristiani avevano coscienza di vivere una nuova tappa di questo disegno, annunciata dai profeti e ora inaugurata dal sangue di Gesù, «sangue di alleanza», perché versato per amore (cf Ap 1,5b-6).

6. La Legge

43. Il termine ebraico tôrāh, tradotto con «legge», significa più esattamente «istruzione», cioè al tempo stesso insegnamento e direttiva. La tôrāh è fonte suprema di sapienza. La Legge occupa un posto centrale nelle Scritture del popolo ebraico e nella sua pratica religiosa, dal tempo biblico fino ai nostri giorni. Per questo, fin dai tempi apostolici, la Chiesa ha dovuto situarsi in rapporto alla Legge, sull'esempio di Gesù stesso, che ha dato ad essa un proprio significato in virtù della sua autorità di Figlio di Dio.

a) La Legge nell'Antico Testamento La Legge e il culto d'Israele si sono sviluppati lungo tutto l'Antico Testamento. Il dono della Legge. La Legge è innanzitutto un dono di Dio al suo popolo. Il dono della Legge diventa oggetto di un racconto principale, di origine composita, e di racconti complementari, tra i quali 2 Re 22–23 occupa un posto a parte per la sua importanza per il Deuteronomio. Es 19–24 integra la Legge nell'«alleanza» (berît) che il Signore conclude con Israele sulla montagna di Dio, nel corso di una teofania davanti a tutto Israele (Es 19–20), e poi davanti al solo Mosè e davanti ai settanta rappresentanti d'Israele (Es 24,9-11). Queste teofanie e l'alleanza significano una grazia speciale per il popolo presente e futuro, e le leggi allora rivelate ne sono la garanzia perenne. Ma le tradizioni narrative associano al dono della Legge anche la rottura dell'alleanza che risulta dalla violazione del monoteismo, così come prescritto nel Decalogo.

«Lo spirito delle leggi» secondo la Tôrāh. Le leggi contengono regole morali (etica), giuridiche (diritto), rituali e culturali (ricca raccolta di usanze religiose e profane). Si tratta di disposizioni concrete, talvolta espresse in modo assoluto (ad es. il decalogo), talvolta sotto forma di casi particolari che concretizzano principi generali. Esse hanno allora valore di precedente e di analogia per situazioni simili, che danno luogo a sviluppi ulteriori di una giurisprudenza, chiamata halakha e sviluppata nella legge orale, chiamata mishna. Considerate storicamente, le leggi bibliche sono il risultato di una lunga storia di tradizioni religiose, morali e giuridiche. Contengono numerosi elementi comuni alla civiltà del Vicino Oriente antico. Viste sotto l'aspetto letterario e teologico, hanno la loro fonte nel Dio d'Israele, che le ha rivelate o direttamente (il decalogo secondo Dt 5,22) o per mezzo di Mosè, incaricato di promulgarle. Infatti il decalogo è una raccolta a parte rispetto alle altre leggi. Il suo inizio lo qualifica come l'insieme delle condizioni necessarie per assicurare la libertà delle famiglie israelite e la loro protezione contro ogni genere di oppressione, quella dell'idolatria come quella dell'immoralità e dell'ingiustizia. Lo sfruttamento che Israele aveva subito in Egitto non doveva mai riprodursi in Israele, con l'oppressione dei deboli da parte dei potenti.

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Invece, le disposizioni del Codice dell'alleanza di Es 34,14-26 incarnano un insieme di valori umani e religiosi, delineando così un ideale comunitario dal valore eterno. La Legge è israelitica e giudaica; è quindi particolare, adattata a un popolo storico particolare. Ma ha un valore esemplare per tutta l'umanità (Dt 4,6). La Tôrāh rivelata agli uomini è al tempo stesso il pensiero organizzatore del cosmo creato. Obbedendo a questa legge, gli ebrei credenti vi trovano le loro delizie e la loro benedizione, e partecipano all'universale sapienza creatrice di Dio. Questa sapienza rivelata al popolo ebraico è superiore alla sapienza delle altre nazioni (Dt 4,6.8), in particolare a quella dei Greci (Bar 4,1-4).

b) La legge nel Nuovo Testamento 44. Matteo, Paolo, la lettera agli Ebrei e quella di Giacomo dedicano una riflessione teologica esplicita al significato della Legge dopo la venuta di Gesù Cristo.

Il vangelo di Matteo riflette la situazione della comunità ecclesiale matteana dopo la caduta di Gerusalemme (70 d.C.). Gesù afferma la validità permanente della Legge (Mt 5,18-19), ma in una nuova interpretazione, data con piena autorità (Mt 5,21-28). Gesù «dà compimento» alla Legge (Mt 5,17), radicalizzandola. Gesù insiste sul duplice comandamento dell'amore di Dio (Dt 6,5) e del prossimo (Lv 19,18), da cui «dipendono tutta la Legge e i profeti» (Mt 22,34-40).

La teologia paolina della legge è ricca, ma non perfettamente unificata. La riflessione di Paolo sulla Legge è stata provocata… Dalla sua esperienza spirituale: nel suo incontro con Cristo (1 Cor 15,8), Paolo si rese conto che il suo zelo per la Legge l'aveva fuorviato al punto da portarlo a «perseguitare la Chiesa di Dio» (15,9; Fil 3,6) e che aderendo a Cristo egli rinnegava quindi questo zelo (Fil 3,7-9). Dal suo ministero apostolico: poiché questo ministero riguardava i non-ebrei (Gal 2,7; Rm 1,5), si presentava subito un interrogativo: la fede cristiana esige che si imponga ai non-ebrei la sottomissione alla legge particolare del popolo ebraico (circoncisione, regole alimentari, calendario)? L'apostolo non si limita a considerazioni pastorali, ma si dedica a un approfondimento dottrinale. Cristo infatti è il «termine della Legge» (Rm 10,4) , al tempo stesso lo scopo verso il quale tendeva e il punto di arrivo dove ha fine il suo regime. Cristo risorto dai morti comunica ai credenti la sua vita nuova (Rm 6,9-11) e assicura loro la salvezza (Rm 10,9-10). Quale sarà d'ora in poi la funzione della Legge? A questa domanda Paolo cerca una risposta. Opponendo «la lettera» e «lo Spirito», l'Apostolo ha operato una dicotomia, come aveva fatto con Adamo e Cristo: da una parte, egli mette quello che Adamo è capace di fare, dall'altra ciò che Cristo (cioè la grazia) realizza. Se, secondo 1 Cor 15,56, «il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la Legge», ne consegue che la Legge, per la sua condizione di lettera, uccide, anche se indirettamente.

45. La lettera ai Galati afferma che «quelli che si richiamano alle opere della Legge, stanno sotto una maledizione», perché la Legge maledice «chiunque non persevera nel compimento di tutto quello che è scritto nel (suo) libro». L’Apostolo è contro la pretesa umana di giustificarsi da sé grazie alle «opere della Legge». Ma non è contro le opere della fede — che, del resto, coincidono spesso con il contenuto della Legge —, opere rese possibili grazie all'unione vitale con Cristo. Uno degli scopi della redenzione era proprio di ottenere questo compimento della Legge!

Nella Lettera agli Ebrei la Legge appare come un'istituzione che è stata valida nel suo tempo e al suo livello. Ma la vera mediazione tra il popolo peccatore e Dio non è alla sua portata (7,19; 10,1). Solo la mediazione di Cristo è efficace (9,11-14). Cristo è un sommo sacerdote di un genere diverso (7,11.15). Per Giacomo, come per la prima comunità cristiana, i comandamenti morali continuano a servire da guida (2,11), ma interpretati dal Signore. Quest'ultimo esempio mostra al tempo stesso la varietà delle posizioni espresse nel Nuovo Testamento in rapporto alla Legge e il loro fondamentale accordo. Il Nuovo Testamento si basa perciò sull'Antico. Lo legge alla luce di Cristo, che ha confermato il precetto dell'amore e gli ha dato una nuova dimensione: «Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 13,34; 15,12), cioè fino al sacrificio della vita. La Legge è così più che compiuta.

HERCSIK (Dispense pp. 132-145)

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EBREI E GIUDAISMO in Mt, Lc-At, Gv

PCB 2001 66-78

III.- GLI EBREI NEL NUOVO TESTAMENTO 66. Dopo aver esaminato i rapporti che gli scritti del Nuovo Testamento intrattengono con le Scritture del popolo ebraico, dobbiamo ora considerare i diversi giudizi espressi sugli ebrei nel Nuovo Testamento e, a tal fine, cominciare con l'osservare la diversità che si manifestava allora in seno allo stesso giudaismo.

A. Punti di vista diversi nel giudaismo postesilico

1. Gli ultimi secoli prima di Cristo

«Giudaismo» è un termine appropriato per indicare il periodo della storia israelitica che inizia nel 538 a.C. con la decisione persiana di permettere la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme. La religione del giudaismo fu, in molti modi, l'erede della religione preesilica nel regno di Giuda. Il Tempio fu ricostruito; i sacrifici erano offerti; gli inni e i salmi cantati; le feste di pellegrinaggio nuovamente celebrate. Il giudaismo assunse una colorazione religiosa particolare per la proclamazione della Legge da parte di Esdra (Ne 8,1-12) nell'epoca persiana. A poco a poco le sinagoghe divennero un fattore importante nell'esistenza ebraica. Il loro diverso atteggiamento nei riguardi del Tempio divise spesso gli ebrei fino al 70 d.C., come si può vedere nella dissidenza samaritana e nei manoscritti di Qumran. Divisioni basate sulle diverse interpretazioni della Legge esistettero dopo il 70 come prima.

La comunità samaritana costituiva un gruppo dissidente, rinnegato dagli altri (Sir 50,25-26). Essa si basava su una forma particolare del Pentateuco e aveva rifiutato il santuario e il sacerdozio di Gerusalemme. Il santuario dei samaritani era costruito sul monte Garizim (Gv 4,9.20). Avevano un loro sacerdozio. La descrizione, fatta da Giuseppe Flavio, di tre «partiti» o scuole di pensiero, Farisei, Sadducei ed Esseni (Ant. 13.5.9; § 171), è una semplificazione e va interpretata con cautela. Si può essere sicuri che molti ebrei non appartenevano ad alcuno di questi tre gruppi. D'altra parte, le divergenze tra questi andavano al di là del punto di vista strettamente religioso.

L'origine dei Sadducei si situa probabilmente nel sacerdozio sadocita del Tempio. Come gruppo distinto sembrano apparire al tempo dei Maccabei, a causa dell'atteggiamento reticente di un'altra parte del sacerdozio nei confronti del potere asmoneo. Le difficoltà della loro esatta identificazione si manifestano quando si studia il periodo che si estende dalle lotte maccabaiche contro i Seleucidi a partire dal 167 fino all'intervento romano nel 63 a.C. I Sadducei si identificarono sempre di più con l'aristocrazia ellenizzata, che deteneva il potere; si suppone che avessero poco in comune con il popolo.

Massima importanza ha la Torah per i Sadducei, mentre i Farisei si rifanno di più alla tradizione orale. Verso i Farisei sono rivolti molti dei moniti di Gesù.

L'origine degli Esseni si situa, secondo alcuni autori, intorno al 200 a.C., nell'atmosfera delle attese apocalittiche ebraiche, ma la maggior parte la vedono in un'opposizione al cambiamento di situazione concernente il Tempio a partire dall'anno 152, data in cui fu nominato sommo sacerdote Gionata, fratello di Giuda Maccabeo. Si tratterebbe degli Assidei o «pii» che si erano uniti alla rivolta maccabaica (1 Mac 2,42) e che si erano poi sentiti traditi da Gionata e Simone, fratelli di Giuda Maccabeo, che avevano accettato di essere nominati sommi sacerdoti dai re seleucidi. Le nostre informazioni sugli Esseni si sono notevolmente arricchite con la scoperta, a partire dal 1947, di rotoli e frammenti di circa 800 manoscritti a Qumran, presso il mar Morto. Gran parte degli studiosi ritiene, infatti, che questi documenti provengano da un gruppo di Esseni stabilitisi in questo luogo. Lo storico Giuseppe offre, ne La guerra giudaica, 307 una lunga descrizione carica di ammirazione per la pietà e la vita comunitaria degli Esseni, che, per certi aspetti, assomigliano a un gruppo monastico. Disdegnando il Tempio retto da sacerdoti che essi giudicavano indegni, i Qumraniti formavano la comunità della nuova alleanza. Cercavano la perfezione grazie a un'osservanza estremamente rigida della Legge, interpretata per essi dal Maestro di giustizia. Attendevano un avvento messianico imminente, intervento di Dio per eliminare ogni iniquità e punire i nemici.

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I Farisei non erano un movimento sacerdotale. Apparentemente, l'assunzione della dignità di sommo sacerdote da parte dei Maccabei non li preoccupava. Tuttavia, il loro stesso nome, che implica separazione, risulta probabilmente dal fatto che anch'essi, in definitiva, erano diventati molto critici verso gli Asmonei, discendenti dei Maccabei, e se ne erano dissociati, essendo il loro modo di governare diventato sempre più secolarizzato. Alla Legge scritta, i Farisei aggiungevano una seconda Legge di Mosè, orale. Le loro interpretazioni erano meno severe di quelle degli Esseni e più innovatrici di quelle dei Sadducei, che, con spirito conservatore, si attenevano alla Legge scritta. È così che a differenza dei Sadducei, i Farisei professavano una credenza nella risurrezione dei morti e negli angeli (At 23,8) , credenze sorte nel corso del periodo postesilico.

Quando San Paolo è condotto dinanzi al tribuno romano, sapendo che i suoi interlocutori erano in parte Farisei e in parte Sadducei, Paolo afferma di essere lì a motivo della resurrezione dei morti, cosa che divide le fazioni che si scontrano tra loro e così Paolo se la cava.

Le relazioni tra i diversi gruppi erano di tanto in tanto estremamente tese, arrivando fino all'ostilità. È utile ricordarsi di questa ostilità per poter collocare nel suo contesto l'inimicizia che si riscontra nel Nuovo Testamento dal punto di vista religioso. Alcuni sommi sacerdoti si resero responsabili di molte violenze. Uno di essi, di cui si ignora il nome, cercò di mettere a morte, probabilmente verso la fine del II secolo a.C., il Maestro di giustizia di Qumran, durante la celebrazione di Kippur. Gli scritti di Qumran coprono di ingiurie la gerarchia sadducea di Gerusalemme, sacerdoti cattivi accusati di violare i comandamenti, e denigrano ugualmente i Farisei. Esaltando il Maestro di giustizia, essi qualificano un altro personaggio (un esseno?) come arrogante e menzognero, che perseguitava con la spada «tutti quelli che camminano verso la perfezione» (Documento di Damasco, ms. A, I, 20). Questi incidenti ebbero luogo prima del tempo di Erode il Grande e dei governatori romani in Giudea, quindi prima del tempo di Gesù.

Fino al 1947 ci si limitava ai Vangeli. Gesù tratta duramente i farisei, quindi – si pensava – tutto il giudaismo. Ma dopo i ritrovamenti di Qumran ci si è accorti che il giudaismo era diversificato. Dai Vangeli emergono sia rapporti critici fra Gesù e i farisei, sia rapporti positivi.Gesù critica fortemente i Farisei (“sepolcri imbiancati” di Mt 23), ma ci sono rapporti buoni: pranza con Simone il fariseo (Lc 7, 36) che però rimprovera, elogiando la fede della peccatrice che unge con olio i piedi di Gesù. Anche Lc 13, 31: “Si avvicinarono alcuni farisei a dirgli: parti, vattene via di qui, perché Erode ti vuole uccidere…” – quindi i Farisei vogliono salvare Gesù. Ancora: uno scriba (di solito dei Farisei) chiede a Gesù quale sia il primo comandamento (mentre in Mt vuol mettere alla prova Gesù). La questione è quindi complessa.

2. Il primo terzo del I secolo d.C. in Palestina

67. Questo periodo è quello della vita di Gesù, iniziata tuttavia un po' prima, essendo Gesù nato prima della morte di Erode il Grande avvenuta nell'anno 4 prima della nostra era. Alla morte di questi, l'imperatore Augusto divise il regno tra tre figli di Erode: Archelao (Mt 2,22), Erode Antipa (14,1; ecc.) e Filippo (16,13; Lc 3,1). Poiché il modo di governare di Archelao suscitava l'ostilità dei suoi sudditi, Augusto fece passare ben presto il suo territorio, la Giudea, sotto l'amministrazione romana. Quale poteva essere la posizione di Gesù in rapporto ai tre «partiti» religiosi che abbiamo menzionato? Bisogna considerare tre questioni principali.

Al tempo della vita pubblica di Gesù qual era il gruppo religioso più importante? Giuseppe Flavio dice che i Farisei erano il partito principale, estremamente influente nelle città. 308 È forse questa la ragione per cui Gesù viene presentato in opposizione ad essi più che ad ogni altro gruppo, un indiretto omaggio alla loro importanza. A ciò si aggiunge che questa componente del giudaismo è sopravvissuta meglio delle altre ed il cristianesimo nascente ha dovuto confrontarsi soprattutto con essa.

Quali erano le posizioni dei Farisei? I vangeli presentano spesso i Farisei come dei legalisti ipocriti e senza cuore. Si è cercato di confutare questa presentazione sulla base di alcune posizioni rabbiniche attestate nella Mishna, che non sono né ipocrite né strettamente legaliste. L'argomento non è decisivo, perché una

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tendenza legalista si manifesta anche nella Mishna e, d'altra parte, si ignora in che misura le posizioni della Mishna, codificate verso l'anno 200, corrispondano a quelle dei Farisei del tempo di Gesù. Detto ciò, bisogna ammettere che, molto probabilmente, la presentazione dei Farisei nei vangeli è influenzata in parte dalle polemiche più tardive tra cristiani ed ebrei. Al tempo di Gesù, c'erano certamente dei Farisei che insegnavano un'etica degna di approvazione. Ma la testimonianza diretta di Paolo, un fariseo «accanito sostenitore delle tradizioni dei padri», mostra a quali eccessi poteva condurre lo zelo dei farisei: « perseguitavo fieramente la Chiesa di Dio ». 309

Gesù apparteneva a uno dei tre gruppi? Non c'è alcuna ragione di fare di lui un sadduceo. Non era sacerdote. La credenza negli angeli e nella risurrezione dei corpi così come le attese escatologiche che gli sono attribuite nei vangeli lo avvicinano molto di più alla teologia essena e farisaica. Ma il Nuovo Testamento non menziona mai gli Esseni e non ha alcun ricordo di un collegamento di Gesù con una comunità così specifica. Quanto ai Farisei, nominati spesso nei vangeli, la loro relazione con Gesù è regolarmente di opposizione, a causa del suo atteggiamento non conforme alle loro osservanze. 310

È quindi più probabile che Gesù non sia appartenuto ad alcuno dei partiti che esistevano allora in seno al giudaismo. Era semplicemente solidale con la maggior parte del popolo. Ricerche recenti hanno cercato di situarlo in diversi contesti del suo tempo: rabbi carismatici di Galilea, predicatori cinici itineranti o perfino zeloti rivoluzionari. Ma egli non si lascia racchiudere in nessuna di queste categorie.

Riguardo al rapporto di Gesù con i Gentili e il loro modo di pensare, ci si è ugualmente abbandonati a molte speculazioni, ma le informazioni a disposizione sono pochissime. In quest'epoca in Palestina, anche nelle regioni in cui la maggior parte della popolazione era ebraica, era forte l'influenza dell'ellenismo, ma non si faceva sentire dappertutto allo stesso modo. L'influenza esercitata su Gesù dalla cultura delle città ellenistiche come Tiberiade sulla riva del lago di Galilea e Sepforis (a 6 o 7 chilometri da Nazaret) resta molto problematica, perché i vangeli non danno alcuna indicazione di contatti di Gesù con queste città. Né abbiamo indizi che Gesù o i suoi più stretti discepoli parlassero greco in modo significativo. Nei vangeli sinottici, Gesù ha pochi contatti con i Gentili, ordina ai discepoli di non andare a predicare tra loro (Mt 10,5), vieta di imitare il loro modo di vivere (6, 7.32). Alcune sue espressioni riflettono il sentimento ebraico di superiorità nei riguardi dei Gentili, 311 ma egli sa prendere le sue distanze di fronte a questi sentimenti e affermare, al contrario, la superiorità di molti Gentili (Mt 8,10-12).

In Mt 15 alla donna siro-fenicia Gesù riconosce che ha una grande fede (per accontentarsi delle briciole della tavola). E ancora in Mt 8 viene guarito il servo del centurione. Saranno pochi episodi, ma ci sono. Quindi Gesù viene per le pecore perdute della casa di Israele. Missione coerente con Mt 1, 21 – “Lo chiamerai Gesù (= “Dio salva”). Egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati”.Ci si può chiedere – qualcuno lo ha fatto – se l’antisemitismo abbia avuto origine nel Nuovo testamento. Al punto da cercare di censurarlo. Ma sappiamo che l’antigiudaismo deriva da una lettura errata o tendenziosa del NT.

Qual era il rapporto dei primi discepoli di Gesù con il contesto religioso ebraico? I Dodici e gli altri condividevano probabilmente la mentalità galilaica di Gesù, sebbene i dintorni del lago di Galilea dove abitavano siano stati più cosmopoliti di Nazaret. Il IV vangelo riferisce che Gesù attira alcuni discepoli di Giovanni Battista (Gv 1,35-41), che ha dei discepoli della Giudea (19,38) e che conquista un intero villaggio di Samaritani (4,39-42). È quindi possibile che il gruppo dei discepoli riflettesse il pluralismo allora esistente in Palestina.

3. Il secondo terzo del I secolo

68. Il primo periodo di diretta amministrazione romana della Giudea terminò nel 3940. Erode Agrippa I, amico dell'imperatore Caligola (37-41) e del nuovo imperatore, Claudio (41-54), diventò re su tutta la Palestina (41-44). Egli guadagnò il favore dei capi religiosi ebrei e si sforzò di apparire pio. In At 12 Luca gli attribuisce una persecuzione e la messa a morte di Giacomo, fratello di Giovanni e figlio di Zebedeo. Dopo

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la morte di Agrippa, di cui At 12,20-23 presenta un racconto drammatizzato, iniziò un altro periodo di governo romano.

Fu nel corso di questo secondo terzo del I secolo che i discepoli di Cristo risorto divennero molto numerosi e si organizzarono in « chiese » (« assemblee »). È verosimile che le strutture di alcuni gruppi ebraici abbiano esercitato un'influenza sulle strutture della Chiesa primitiva. Ci si può domandare se i « presbiteri » o gli « anziani » cristiani siano stati istituiti sul modello degli « anziani » delle sinagoghe e, d'altra parte, se gli « episcopi » (« sorveglianti ») cristiani siano stati stabiliti sul modello dei « sorveglianti » descritti a Qumran. La designazione del movimento cristiano come « la via » (hodos) riflette forse la spiritualità degli uomini di Qumran, partiti nel deserto per preparare la strada del Signore? Dal punto di vista teologico, si è creduto di trovare delle tracce dell'influenza di Qumran nel dualismo del IV vangelo, espresso in termini di luce e tenebre, verità e menzogna, nella lotta tra Gesù, luce del mondo, e il potere delle tenebre (Lc 22,53) e nella lotta tra lo Spirito della verità e il Principe di questo mondo (Gv 16,11). Ma la presenza di temi comuni non implica necessariamente una relazione di dipendenza.

I procuratori romani degli anni 44-66 furono uomini senza levatura, corrotti e disonesti. Il loro cattivo governo suscitò la comparsa dei « sicari » (terroristi armati di pugnale) e degli « zeloti » (impietosi fanatici della Legge) e provocò, alla fine, una grande rivolta ebraica contro i Romani. Per domare questa rivolta furono impiegati rilevanti forze armate romane e i migliori generali. Per i cristiani, un evento notevole fu la messa a morte di Giacomo, « fratello del Signore », nell'anno 62, in seguito a una decisione del Sinedrio convocato dal sommo sacerdote Ananus (Anna) II. Questo sommo sacerdote fu destituito dal procuratore Albino per aver agito illegalmente. Solo due anni più tardi, dopo il grande incendio che devastò Roma nel 64, l'imperatore Nerone (54-68) perseguitò i cristiani nella capitale. Secondo una tradizione molto antica, gli apostoli Pietro e Paolo furono martirizzati in tale occasione. Ne consegue che, parlando in modo approssimativo, l'ultimo terzo del I secolo può essere chiamato periodo post-apostolico.

4. L'ultimo terzo del I secolo

69. La rivolta ebraica nel 66-70 e la distruzione del Tempio di Gerusalemme provocarono un cambiamento nella dinamica dei raggruppamenti religiosi. I rivoluzionari (sicari, zeloti e altri) furono sterminati. L'insediamento di Qumran fu distrutto nel 68. La cessazione dei sacrifici nel Tempio indebolì la base del potere dei dirigenti sadducei, appartenenti alle famiglie sacerdotali. Non sappiamo in che misura il giudaismo rabbinico sia erede dei Farisei. Ciò che è certo è che, dopo il 70, alcuni maestri rabbini, « i saggi d'Israele », furono a poco a poco riconosciuti come guide del popolo. Quelli che erano radunati ad Jamnia (Yavneh), sulla costa palestinese, furono considerati dalle autorità romane i portaparola degli ebrei. Dal 90 al 110 circa, Gamaliele II, figlio e nipote di celebri interpreti della Legge, presiedeva l'assemblea di Jamnia. È possibile che gli scritti cristiani risalenti a questo periodo, quando parlano di giudaismo, siano stati influenzati, in modo crescente, dai rapporti con questo giudaismo rabbinico in via di formazione. In certi settori, il conflitto tra i dirigenti delle sinagoghe e i discepoli di Gesù era acuto. Lo si vede dalla menzione dell'espulsione dalla sinagoga inflitta a « chiunque avrebbe confessato che Gesù è il Cristo » (Gv 9, 22) e, come contropartita, dalla forte polemica antifarisaica di Mt 23 nonché dal riferimento, fatto dall'esterno, alle « loro sinagoghe », designate come luoghi in cui i discepoli di Gesù saranno flagellati (Mt 10, 17). Spesso viene menzionata la Birkat ha-minim, « benedizione » sinagogale (in realtà una maledizione) contro gli eretici. La sua datazione all'anno 85 è incerta e l'idea che si trattasse di un decreto ebraico universale contro i cristiani è quasi certamente un errore. Ma non si può seriamente mettere in dubbio che a partire da date diverse a secondo dei luoghi, le sinagoghe locali non abbiano più tollerato la presenza dei cristiani facendo loro subire vessazioni che potevano arrivare fino alla messa a morte (Gv 16, 2).312

Gradualmente, a partire dall'inizio del II secolo, una formula di « benedizione » che denunciava eretici o devianti di ogni tipo fu compresa come riferita anche ai cristiani e, molto più tardi, come riferita specialmente ad essi. Verso la fine del II secolo, le linee di demarcazione e di divisione tra ebrei che non credevano in Gesù e i cristiani erano dappertutto chiaramente tracciate. Ma testi come 1 Ts 2,14 e Rm 9–11 dimostrano che la divisione era già percepita chiaramente molto prima di questo tempo.

B. Gli ebrei nei vangeli e negli Atti degli apostoli

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70. Sugli ebrei, i vangeli e gli Atti hanno una prospettiva fondamentale molto positiva, perché riconoscono il popolo ebraico come il popolo scelto da Dio per realizzare il suo disegno di salvezza. Questa scelta divina trova la sua più alta conferma nella persona di Gesù, figlio di madre ebrea, nato per essere il salvatore del suo popolo e che conduce a buon fine la sua missione annunciando al suo popolo la buona novella e realizzando un'opera di guarigione e di liberazione, che culmina nella sua passione e risurrezione. L'adesione a Gesù di un gran numero di ebrei, durante la sua vita pubblica e dopo la sua risurrezione, conferma questa prospettiva, e ugualmente la scelta da parte di Gesù di dodici ebrei per partecipare alla sua missione e continuare la sua opera.Accolta positivamente all'inizio da molti ebrei, la Buona Novella si scontra con l'opposizione dei dirigenti, che sono alla fine seguiti dalla maggior parte del popolo. Ne risulta, tra le comunità ebraiche e le comunità cristiane, una situazione conflittuale, che ha evidentemente lasciato il suo segno nella redazione dei vangeli e degli Atti.

1. Vangelo secondo Matteo

I rapporti tra il primo vangelo e il mondo ebraico sono particolarmente stretti . Molti dettagli manifestano in esso una grande familiarità con le Scritture, le tradizioni e la mentalità dell'ambiente ebraico. Più di Marco e Luca, Matteo insiste sull'origine ebraica di Gesù; la sua genealogia presenta Gesù come «figlio di Davide, figlio di Abramo» (Mt 1,1) e non va oltre. Il significato del nome di Gesù viene sottolineato: il bimbo di Maria porterà questo nome, «perché salverà il suo popolo dai suoi peccati» (1,21). La missione di Gesù, durante la sua vita pubblica, si limita «alle pecore perdute della casa d'Israele» (15,24) ed egli fissa lo stesso limite alla prima missione dei Dodici (10,5-6). Più degli altri evangelisti, Matteo si preoccupa di notare spesso che gli eventi dell'esistenza di Gesù avvengono «perché si compia quanto era stato detto dai profeti» (2,23). Gesù stesso si preoccupa di precisare di non essere venuto per abolire la Legge, ma per darle compimento (5,17).

Mello sostiene che Mt sia un midrash del Vangelo secondo Marco. Cioè una pratica ebraica di lettura e riscrittura degli eventi relativi a Gesù.Mentre la genealogia di Luca risale fino ad Adamo, indicando così l’universalità della missione di Gesù, Matteo la fa partire da Abramo, capostipite del popolo ebraico. E al popolo ebraico Gesù invia i suoi discepoli. Ma al tempo stesso parla con la donna siro-fenicia e ne libera la figlia dal demonio. Anche: la guarigione del servo/figlio (pais) del centurione (8, 10ss) – dove Gesù dice che molti verranno da oriente e occidente… l’apertura a tutti i popoli sarà solo al cap. 28 dove Gesù invia a tutte le genti i suoi discepoli.

È tuttavia chiaro che le comunità cristiane hanno preso le loro distanze in rapporto alle comunità degli ebrei che non credono in Cristo Gesù. Dettaglio significativo: Matteo non dice che Gesù insegnava «nelle sinagoghe», ma dice: «nelle loro sinagoghe» (4,23; 9,35; 13,54), marcando così una separazione. Matteo mette in scena due dei tre partiti descritti dallo storico Giuseppe, i Farisei e i Sadducei, ma sempre in un contesto di opposizione a Gesù. Tale è anche il caso degli scribi, spesso associati ai Farisei. Altro fatto significativo: le tre componenti del Sinedrio, « anziani, sommi sacerdoti e scribi », fanno la loro prima apparizione comune nel vangelo in occasione del primo annuncio della passione (16,21). Sono quindi anch'essi situati in un contesto di opposizione a Gesù, e di opposizione radicale.

Gesù si trova a fronteggiare l'opposizione degli scribi e dei farisei in molteplici occasioni e vi risponde, per ultimo, con una vigorosa controffensiva (23,2-7.13-36), in cui ricorre sei volte l'invettiva «scribi e farisei ipocriti». Questa presentazione riflette in parte, certamente, la situazione della comunità di Matteo. Il contesto redazionale è quello di due gruppi che vivono in stretto contatto l'uno con l'altro: il gruppo degli ebrei cristiani, convinti di appartenere al giudaismo autentico, e quello degli ebrei che non credevano in Cristo Gesù ed erano considerati dai cristiani come infedeli alla loro vocazione ebraica per docilità a dei dirigenti ciechi e ipocriti.

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Bisogna anzitutto notare che la polemica di Matteo non ha di mira i Giudei in generale. Questi vengono nominati solo nell'espressione «re dei Giudei», applicata a Gesù (2,2; 27,11.29.37), e in una frase dell'ultimo capitolo (28,15), di importanza molto secondaria. La polemica è quindi piuttosto interna tra due gruppi appartenenti entrambi al giudaismo. D'altro canto, essa ha di mira solo i dirigenti. Mentre nell'oracolo di Isaia viene biasimata tutta la vigna (Is 5,1-5), nella parabola di Matteo vengono accusati solo i vignaioli (Mt 21,33-41). Le invettive e le accuse lanciate contro gli scribi e i farisei sono analoghe a quelle che si trovano nei profeti e corrispondono al genere letterario dell'epoca, utilizzato sia in ambiente ebraico (ad esempio a Qumran) che in ambiente ellenistico. Sono del resto, come nei profeti, un aspetto dell'appello alla conversione. Lette nella comunità cristiana, esse mettono in guardia gli stessi cristiani contro atteggiamenti incompatibili con il vangelo (23,8-12).

Inoltre, la virulenza antifarisaica di Mt 23 è da vedere nel contesto del discorso apocalittico di Mt 24–25. Il linguaggio apocalittico è usato in tempo di persecuzione per rafforzare la capacità di resistenza della minoranza perseguitata e rinsaldare la sua speranza in un intervento divino liberatore. Visto in questa prospettiva, il vigore della polemica sorprende meno.

Bisogna tuttavia riconoscere che Matteo non restringe sempre la sua polemica alla classe dirigente. La diatriba di Mt 23 contro gli scribi e i farisei è seguita da un'apostrofe indirizzata a Gerusalemme. È tutta la città a essere accusata di « uccidere i profeti » e di « lapidare quelli che le sono inviati » (23,37) ed è alla città che viene annunciato il castigo (23,38). Del suo magnifico Tempio « non resterà pietra su pietra » (24,2). Si ritrova qui una situazione parallela a quella del tempo di Geremia (Ger 7; 26). Il profeta aveva annunciato la distruzione del Tempio e la rovina della città (26,6.11). Gerusalemme sarebbe diventata « una maledizione per tutte le nazioni della terra » (26,6), esattamente il contrario della benedizione promessa ad Abramo e alla sua discendenza (Gn 12,3; 22,18).

71. Al tempo della redazione del vangelo, la maggior parte del popolo ebraico aveva seguito i suoi dirigenti nel rifiuto di credere in Cristo Gesù. Gli ebrei cristiani non erano che una minoranza. L'evangelista prevedeva quindi che le minacce di Gesù si sarebbero realizzate. Queste non avevano di mira gli ebrei in quanto ebrei, ma in quanto solidali con i loro dirigenti indocili a Dio. Matteo esprime questa solidarietà nel suo racconto della passione, quando riferisce che su istigazione dei sommi sacerdoti e degli anziani, « le folle » pretesero da Pilato che Gesù fosse crocifisso (Mt 27,20-23). In risposta alla negazione di responsabilità espressa dal governatore romano, « tutto il popolo » lì presente si addossò la responsabilità della condanna a morte di Gesù (27,24-25). Da parte del popolo, questa presa di posizione manifestava certamente la convinzione che Gesù meritasse la morte, ma agli occhi dell'evangelista, una tale convinzione era ingiustificabile. Gesù avrebbe potuto far proprie le parole di Geremia: « Sappiate bene che se mi uccidete, attirerete sangue innocente su di voi, su questa città e sui suoi abitanti » (Ger 26,15). Nella prospettiva dell'Antico Testamento è inevitabile che le colpe dei capi provochino conseguenze disastrose per tutta la collettività. Se la redazione del vangelo fu completata dopo l'anno 70, l'evangelista sapeva che, come la predizione di Geremia, quella di Gesù si era realizzata. Ma in questa realizzazione egli non poteva vedere un punto finale, perché tutta la Scrittura attesta che, dopo la sanzione divina, Dio apre sempre prospettive positive. 314 Ed è effettivamente su una prospettiva positiva che si conclude il discorso di Mt 23. Verrà un giorno in cui Gerusalemme dirà: « Benedetto colui che viene nel nome del Signore » (23,39). La passione stessa di Gesù apre la prospettiva più positiva che ci potesse essere, perché, Gesù trasforma il suo « sangue innocente », versato in modo criminale, in un « sangue di alleanza », « versato per il perdono dei peccati » (26,28).

Nel racconto della passione, non appare una spinta anti-giudaica nel testo: se si parla del dono che un ebreo (Gesù) fa di sé al popolo giudaico, in sé non è male, per quanto ci sia stato il rifiuto. Se si dice che tutti sono responsabili, vi è pure la totalità del dono. Se tutti urlano “crocifiggilo”, così pure tutti i suoi discepoli lo abbandonano. In Mat 27, 25ss dopo che Pilato si lava le mani tutto il popolo dice “il suo sangue su di noi e sui nostri figli”. Frase che spinse padri della Chiesa a commentare in senso anti-giudaico. Ma occorre contestualizzare.Il lavarsi le mani in Dt 21 si ritrova, dunque è un lavarsi le mani in senso ebraico. Legato alla responsabilità del sangue versato…

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Come pure “il suo sangue su di noi…” si ritrova nell’AT come indizio di responsabilità (Davide condanna a morte chi ha ucciso Saul, dicendogli “il tuo sangue su di te”, cioè la responsabilità è la tua). E anche nel NT: in At 5, 28 il sinedrio arresta gli apostoli e li accusa di voler far cadere su di loro il sangue di Gesù. E Pietro replica: certo, infatti voi lo avete ucciso ma il Dio dei nostri – di noi e di voi – padri lo ha risuscitato…Sul calice però Gesù ha già detto che il suo sangue è versato in remissione dei peccati. Per il popolo che rifiuta è grave responsabilità, ma per chi accoglie è salvezza. E quindi “il suo sangue su di noi” potrebbe anche valere come benedizione/invocazione, visto che salva?Occorre contestualizzare ma senza relativizzare o banalizzare, togliendo spessore a una citazione magari unica (solo in Mt). Ma è sempre rivelazione. Quindi devi fare la fatica di interpretarlo, senza poterlo rinnegare. La responsabilità pare dunque dei capi, più che di tutto il popolo. Ma dire “tutto il popolo” suggerisce che il sacrificio è per tutti, oltre a indicare una dimensione di corresponsabilità di ognuno. Non sono dunque testi che vogliono fare del popolo giudaico quello che ha ucciso/rifiutato Gesù, ma anzitutto recuperare la dimensione di salvezza offerta a tutto il popolo. Se poi leggiamo i capitoli dei vangeli cercando i responsabili della morte di Gesù, la risposta non è facile. Anche nel Vangelo di Marco pare infatti Gesù che dirige gli eventi. La morte di Gesù (ancor più in Giovanni) non è semplicemente subita. C’è poi la responsabilità di Pilato. È il prefetto romano, ed è lui che consegna Gesù affinché sia crocifisso.

Come il grido del popolo nel racconto della passione (27,25), la conclusione della parabola dei vignaioli sembra mostrare che, all'epoca della composizione del vangelo, la maggior parte del popolo era rimasta solidale con i suoi capi nel loro rifiuto della fede in Gesù. Infatti, dopo aver predetto a costoro: « Il Regno di Dio vi sarà tolto », Gesù non aggiunge che il Regno sarà dato « ad altre autorità », ma dice che sarà dato « a una nazione, che lo farà fruttificare » (21,43). L'espressione « una nazione » si oppone implicitamente a « popolo d'Israele »; essa suggerisce, certo, che un gran numero dei suoi membri non sarà di origine ebraica. Ma la presenza di ebrei non è per questo esclusa, perché l'insieme del vangelo fa capire che questa « nazione » sarà costituita sotto l'autorità dei Dodici, in particolare di Pietro (16,18), e i Dodici sono ebrei. Con essi ed altri ebrei « molti verranno dall'oriente e dall'occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori » (8,11-12). Questa apertura universalistica trova la sua conferma definitiva nel finale del vangelo, perché Gesù risorto ordina lì agli « undici discepoli » di andare ad ammaestrare « tutte le nazioni » (28,19). Ma questo finale conferma al tempo stesso la vocazione d'Israele, perché Gesù è un figlio d'Israele e in lui si compie la profezia di Daniele che riguarda il ruolo d'Israele nella storia. Le parole del risorto: « Mi è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra » precisano in che senso bisogna ora comprendere la visione universalistica di Daniele e degli altri profeti.

Tutte le espressioni che sono condanna verso i Giudei sono (1) simili alle invettive dei profeti nell’AT. Ad esempio in Ger 6 che accusa Giudei di dire “tempio del Signore!” e di peccare, e Geremia viene imprigionato perché “ha parlato contro il tempio”, mentre ha accusato i Giudei di vivere in modo schizofrenico (culto/vita). Inoltre (2) le invettive avvengono tra persone dello stesso popolo, perché Gesù è ebreo come loro e a loro si rivolge come profeta. Sono dispute tra fratelli.

L’equivoco interpretativo è successivo, probabilmente a partire dalla fine del I secolo, quando la distanza tra CHIESA e SINAGOGA si accentua. Potremmo dire che già da subito il nome di Gesù è una discriminante. Almeno per tutto il periodo 30-70 dC si disputa tra ebrei su Gesù: è il messia oppure no?Numericamente, la Chiesa di Gesù Cristo avrà la maggioranza di cristiani provenienti dal paganesimo invece che dall’ebraismo. Ma questi ultimi sono stati i primi ed è con loro che nasce il problema. In Gv 9, 22 i genitori del cieco nato vengono interrogati su chi abbia operato il miracolo e l’evangelista dice “risposero così perché avevano paura dei giudei. Infatti avevano stabilito che chiunque confessasse che Gesù è il Cristo fosse espulso dalla sinagoga”. Problema che ovviamente

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non riguarda i cristiani che vengono dal paganesimo e che comunque già NON frequentavano la sinagoga.Questo dà l’idea della durezza dei toni. Si parla anche della preghiera delle 18 benedizioni, in cui si ipotizza una chiusura definitiva nei confronti dei cristiani. Ma è una ipotesi. La frase incriminata dice: “Che i giudei che hanno seguito Gesù e i giudei eretici spariscano con un colpo d’occhio, siano cancellati dal libro dei viventi”. Il termine potrebbe non aver indicato i giudeo-cristiani, ma una setta qualsiasi. Resta il fatto che alla fine del I secolo la divisione tra ebrei e cristiani è completata e insanabile. Andiamo a vedere il Vangelo di Giovanni…

Conclusione. Il vangelo di Matteo, più degli altri sinottici, è un vangelo del compimento — Gesù non è venuto per abolire ma per portare a compimento — e insiste quindi sull'aspetto di continuità con l'Antico Testamento, fondamentale per la nozione di compimento. È questo aspetto che permette di stabilire dei legami fraterni tra cristiani ed ebrei. Ma, d'altra parte, il vangelo di Matteo riflette una situazione di tensione e persino di opposizione tra le due comunità. Gesù prevede che i suoi discepoli saranno flagellati nelle sinagoghe e perseguitati di città in città (23,34). Matteo si preoccupa perciò di difendere i cristiani. Essendo poi la situazione mutata radicalmente, la polemica di Matteo non deve più intervenire nei rapporti tra cristiani ed ebrei e l'aspetto di continuità può e deve prevalere. Lo stesso si deve dire della predizione della distruzione di Gerusalemme e del Tempio. Questa distruzione è un evento del passato, che deve ora suscitare solo una profonda compassione. I cristiani devono assolutamente evitare di estenderne la responsabilità alle generazioni successive del popolo ebraico e devono aver cura di ricordarsi che dopo una sanzione divina Dio non manca mai di aprire nuove prospettive positive.

2. Vangelo di Marco (leggere)

72. Il vangelo di Marco è un messaggio di salvezza senza alcuna precisazione circa i suoi destinatari. Il finale, aggiunto successivamente, lo destina in modo audace « a tutta la creazione », « in tutto il mondo » (16,15), il che corrisponde alla sua apertura universalistica. Sul popolo ebraico, Marco, egli stesso ebreo, non esprime un giudizio d'insieme. Il giudizio negativo del profeta Isaia (Is 29,13) viene applicato da Marco solo ai Farisei e agli scribi (Mc 7,5-7). Al di fuori del titolo « re dei Giudei », applicato cinque volte a Gesù nel racconto della passione, 316 il nome « Giudei » appare una sola volta nel vangelo, nel corso di una spiegazione sulle usanze ebraiche (7,3), inserita evidentemente per lettori non ebrei. Questa spiegazione si trova in un episodio in cui Gesù critica l'estremo attaccamento dei farisei alla « tradizione degli antichi », che fa loro trascurare « il comandamento di Dio » (7,8). Marco nomina « Israele » solo due volte, 317 e altrettanto « il popolo ». 318 Nomina, al contrario, molto spesso « la folla », composta naturalmente soprattutto da ebrei, e questa folla è molto favorevole a Gesù, 319 fatta eccezione dell'episodio della passione, dove i sommi sacerdoti la spingono a preferire a lui Barabba (15,11).

Lo sguardo critico di Marco verte sull'atteggiamento delle autorità religiose e politiche. Il giudizio riguarda essenzialmente la loro mancanza di apertura alla missione salvifica di Gesù: gli scribi accusano Gesù di bestemmia, quando esercita il suo potere di rimettere i peccati (2,7-10); non accettano che Gesù « mangi con i pubblicani e i peccatori » (2,15-16); lo dichiarano posseduto da un demonio (3,22). Gesù deve fronteggiare la loro opposizione e quella dei farisei. 320

Le autorità politiche sono chiamate in causa più di rado: Erode per la morte di Giovanni Battista (6,17-28) e per il suo « lievito » associato a quello dei Farisei (8,15); il Sinedrio ebraico, autorità politico-religiosa (14,55; 15,1), e Pilato (15,15) per il loro ruolo nella passione.

Nel racconto della passione, il secondo vangelo cerca di rispondere a due interrogativi: da chi è stato condannato Gesù e perché è stato messo a morte? Comincia col dare una risposta d'insieme, che colloca gli eventi nella luce divina: tutto è accaduto « perché si adempissero le Scritture » (14,49). Poi mostra il ruolo delle autorità ebraiche e quelle del governatore romano.

L'arresto di Gesù è stato effettuato per ordine dei tre componenti del Sinedrio, « sommi sacerdoti, scribi e anziani » (14,43), ed è il risultato di un lungo processo, iniziato in Mc 3,6, dove però i protagonisti sono

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diversi: lì sono i Farisei che si associano agli Erodiani per complottare contro Gesù. Fatto significativo: « gli anziani, i sommi sacerdoti e gli scribi » appaiono insieme per la prima volta nel primo annuncio della passione (8,1). In 11,18, « i sommi sacerdoti e gli scribi » cercano il modo per far morire Gesù. Le tre categorie si ritrovano in 11,27 per sottomettere Gesù a un interrogatorio. Gesù racconta loro la parabola dei vignaioli omicidi; la loro reazione è che « cercano di catturarlo » (12,12). In 14,1 la loro intenzione è di catturarlo per « metterlo a morte ». Il tradimento di Giuda offre loro l'occasione propizia (14,10-11). L'arresto e la conseguente condanna a morte sono quindi responsabilità dell'allora classe dirigente della nazione ebraica. All'atteggiamento delle autorità, Marco oppone regolarmente quello della « folla » o del « popolo », favorevole a Gesù. A tre riprese, 321 l'evangelista nota che le autorità sono state frenate nel loro progetto omicida dal timore della reazione del popolo. Ciononostante, alla fine del processo davanti a Pilato, i sommi sacerdoti riescono a mettere la folla presente in uno stato di eccitazione e a farla decidere a favore di Barabba (15,11) e quindi contro Gesù (15,13). La decisione finale di Pilato, impotente nel calmare la folla, è quella di « assecondarla », il che, per Gesù, significa la crocifissione (15,15). Questa folla occasionale non può evidentemente essere confusa con il popolo ebraico di quel tempo e ancora meno con il popolo ebraico di tutti i tempi. Bisogna piuttosto dire che essa rappresentava il mondo peccatore (14,41), di cui facciamo tutti parte.

Colpevole di aver « condannato » Gesù, secondo Marco è il Sinedrio (10,33; 14,64). Di Pilato egli non dice che abbia espresso un giudizio di condanna contro Gesù, ma che, senza avere contro di lui alcun motivo di accusa (15,14), lo consegna perché sia messo a morte (15,15), il che rende Pilato ancora più colpevole. Il motivo della condanna del Sinedrio è che Gesù, nella sua risposta, affermativa e circostanziata, al sommo sacerdote che gli domandava se era « il Cristo, il Figlio del Benedetto », ha pronunziato una « bestemmia » (14,61-64). Marco indica così il punto di rottura più drammatico tra le autorità ebraiche e la persona di Cristo, punto che continua a essere il disaccordo più grave tra il giudaismo e il cristianesimo. Per i cristiani, la risposta di Gesù non è una bestemmia, ma la pura verità, che è stata manifestata tale dalla sua risurrezione. Agli occhi dell'insieme degli ebrei, i cristiani hanno il torto di affermare la filiazione divina di Cristo in un senso che offende gravemente Dio. Per quanto doloroso, questo disaccordo fondamentale non deve degenerare in ostilità reciproca, né far dimenticare l'esistenza di un ricco patrimonio comune, ivi compresa la fede nel Dio unico.

Conclusione. Sostenere che, secondo il vangelo di Marco, la responsabilità della morte di Gesù sia da attribuire al popolo ebraico, è frutto di un'erronea interpretazione di questo vangelo. Questo tipo di interpretazione, che ha avuto conseguenze disastrose nel corso della storia, non corrisponde affatto alla prospettiva del vangelo che, come abbiamo visto, oppone molte volte l'atteggiamento del popolo o della folla a quello delle autorità ostili a Gesù. Si dimentica, d'altra parte, che i discepoli di Gesù facevano ugualmente parte del popolo ebraico. Si tratta quindi di un abusivo trasferimento di responsabilità, di cui la storia umana è purtroppo ricca di esempi. 322

Conviene piuttosto ricordarsi che la passione di Gesù fa parte di un misterioso disegno di Dio, disegno di salvezza, perché Gesù è venuto « per servire e dare la propria vita in riscatto per molti » (10,45) ed ha fatto del suo sangue versato un « sangue di alleanza » (14,24).

Lc 16, 29-31 “Ma Abramo rispose: Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro. E lui: No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno. Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi” - Sono versetti che ribadiscono l’unità di AT e NT.

Nell’opera lucana si parte dal tempio di Gerusalemme (Lc 1, Zaccaria) e si arriva a Gerusalemme (fine di Luca) e infine a Roma (fine degli Atti, Paolo prigioniero). Lc 24, 47 e At 1, 8 indicano la missione: un cammino che da Gerusalemme si estende fino ai confini della terra. “Nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme” / “Mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea, in Samaria, fino agli estremi confini della terra”: gli Atti sono una narrazione riassunta in questo versetto (1, 8).

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3. Vangelo secondo Luca e Atti degli apostoli

73. Indirizzati all'«illustre Teofilo» allo scopo di completare la sua istruzione cristiana (Lc 1,3-4; At 1,1), il vangelo di Luca e il libro degli Atti sono scritti di grande apertura universalistica e, al tempo stesso, molto favorevoli a Israele.

MARGUERAT presenta due pv che sono compresenti nell’opera di Luca.

Potrebbe sembrare la storia di un doppio insuccesso: né Gesù né gli apostoli hanno convinto Israele che Dio aveva segnato un punto decisivo nella storia della salvezza. È il testo del NT che più indica come responsabili gli Ebrei della morte di Cristo. At 2, 36 (primo discorso kerigmatico / “di annuncio” di Pietro che riassume il Vangelo – cf nota BJ At 2, 22): “Sappia dunque con certezza tutta la casa di Israele che Dio ha costituito Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso”At 3, 13 (dopo aver guarito lo storpio, Pietro tiene un discorso al popolo): “Il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù che voi avete deciso di uccidere mentre Pilato voleva salvarlo… avete ucciso l’autore della vita ma Dio lo ha resuscitato dalla morte”.Sono discorsi di annuncio fondati sulla prova biblica (si cita l’AT).E ai fratelli che chiedono cosa fare, Pietro dice di pentirsi e farsi battezzare: poi riceveranno lo Spirito Santo o “promessa” che è per loro.Paolo incontra parimenti diverse difficoltà, rischiando più volte la vita. Gli Atti si chiudono citando Is, un passo presente in tutti e 4 i Vangeli: Is 6, 9-10 - “Egli disse: «Va' e riferisci a questo popolo: Ascoltate pure, ma senza comprendere, osservate pure, ma senza conoscere. Rendi insensibile il cuore di questo popolo, fallo duro d'orecchio e acceca i suoi occhi e non veda con gli occhi né oda con gli orecchi né comprenda con il cuore né si converta in modo da esser guarito». Quindi si riprende Isaia per confermare il rifiuto dell’annuncio di Cristo.

Ma a un certo punto si è tentata una lettura diversa dell’opera lucana: sembra che la fede cristiana arrivi ai pagani proprio grazie alla chiusura del popolo ebraico. Ma non si descrive il trionfo dei gentili cristiani sulle ceneri del giudaismo, non è la sconfitta della missione ebraica che consente ai pagani di ereditare le promesse. Anzi: proprio la riuscita parziale dell’annuncio ai giudei fa sì che possa arrivare poi alle genti. La Chiesa non è un nuovo Israele che rimpiazza l’antico, ma lo continua, poiché sono state compiute le promesse, poiché buona parte del popolo è stata convertita. L’offerta della salvezza ai pagani è il compimento delle Scritture…

Lc 2, 32 – insiste sull’adempimento della legge nelle parole di Simeone: “luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele” – si unificano le due prospettive. Forse un diverso peso, senz’altro complementarietà delle due realtà. Già Is 54, 1 si parla della grande maternità di Gerusalemme “Esulta, o sterile che non hai partorito, prorompi in grida di giubilo e di gioia, tu che non hai provato i dolori, perché più numerosi sono i figli dell'abbandonata che i figli della maritata, dice il Signore”, subito dopo il IV carme del servo sofferente (Is 53).

A Nazareth la Basilica dell’Annunciazione (’60) è costruita sulla casa di Maria, su due piani. Si indica Maria come membro del popolo di Israele & Madre della Chiesa che comprende tutti i popoli.

Israele è dunque il popolo eletto, scelto dal Signore per avere un rapporto unico con Dio. Ma non è un rapporto chiuso, bensì aperto a una missione universale. Diverso peso nel rapporto con Dio (elezione / apertura). È tramite l’ebreo Gesù che la luce arriva alle genti. Dio vuole far giungere alle genti la sua luce tramite Israele: questo si sapeva fin dall’AT, benché non fosse chiaro il come o il quando. “Cammineranno i popoli alla tua luce” (Is 60, 3).

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Ma già Gn 12, 1-4: “Il Signore disse ad Abram: «Vàttene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra».Da Genesi 1-11 si capisce che Dio è Signore di tutto e di tutti; col peccato si ha una reazione a catena (Caino, Lamech, Noè e il diluvio, la torre di Babele) per voler fare a meno di Dio. Si parla di tutti i popoli egualmente lontani da Dio. Allora Dio sceglie Abramo che fa quanto richiestogli dal Signore, fidandosi di Lui. Dalla molteplicità dei popoli si arriva a un individuo a cui viene fatta una promessa in Gen 15, 5-6 - “Poi lo condusse fuori e gli disse: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle» e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza». Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia”.Gli altri popoli, benché non consapevoli, dovranno ringraziare la fede di Abramo (Gen 12, 1-3) e il popolo eletto, poiché tramite la benedizione riversata su di lui, questa benedizione arriva a tutti loro.Ef 2, 11-13: “Perciò ricordatevi che un tempo voi, pagani per nascita, chiamati incirconcisi da quelli che si dicono circoncisi perché tali sono nella carne per mano di uomo, ricordatevi che in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d'Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio in questo mondo. Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo”.Come arriva ai non ebrei la benedizione di Dio? E quando? Non era chiaro. Ma con Gesù si chiarisce: è con la fede in Lui che anche chi NON è ebreo può accedere alla benedizione di Abramo.Ma anche il popolo ebraico viene salvato da Gesù: Mt 1, 21 “Salverà il suo popolo dai suoi peccati”. Situazione di peccato irrisolvibile. Cosa fare? Ognuno cerca le sue vie di salvezza: solo dall’alto (letteratura apocalittica) o dal basso (attese messianiche, finanche rivoluzione armate). E il Battista predica il battesimo per il perdono dei peccati.Il problema è accogliere o meno Gesù.

At 21, 20 “Quante migliaia di giudei sono venuti alla fede (in Gesù) e sono tutti gelosamente attaccati alla Legge”. Ma già in At 2, 41: “Coloro che accolsero la sua parola furono battezzati e quel giorno si unirono a loro circa 3000 persone”. Quindi non è vero che tutti i giudei rifiutano. Paolo, quando entra in una città, cerca sempre la sinagoga e la comunità giudaica. L’esito non è un rifiuto generalizzato, ma diversificato: chi accoglie, chi rifiuta.

Avrebbe dovuto essere più facile per gli Ebrei, che attendevano il Messia. Oppure erano precomprensioni che chiudevano il cuore alla novità. Mentre i pagani erano talmente digiuni di attesa che non avevano pregiudizi. Però i pagani sono digiuni di messia e di Dio. E quindi avvicinandosi alla fede in Gesù devono ricevere un percorso di catecumenato.Per l’ebraismo l’annuncio di Gesù Messia è comunque una novità e sconvolgente perché crocifisso, come il servo sofferente di Is 53. La salvezza passa attraverso un messia rifiutato.

QUINDI doppia prospettiva: (1) doppio insuccesso e (2) tramite gli ebrei alcuni pagani ricevono la luce.

Dopo il rifiuto di certi Ebrei, Paolo si rivolge ai pagani. Ma non è che tutti si convertano. At 17 parla della predicazione di Paolo ad Atene nell’Aeròpago, la piazza più importante. E non fa un discorso biblico ma parla del “dio ignoto”, agganciandolo a dati biblici di base (creatore del mondo ed è venuto a ordinare a tutti gli uomini di ravvedersi, dopo aver resuscitato Gesù). Al che alcuni lo deridono, altri dicono “ti sentiremo un’altra volta”, mentre altri si convertono. Quindi NON è un insuccesso totale. Ed è un discorso interessante perché, rivolgendosi a persone che non hanno una base biblica, si fonda su nozioni di “teologia fondamentale”.

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I primi cristiani sono ebrei e frequentano il tempio di Gerusalemme, comprendendo se stessi come una parte di Israele. Lo stesso Paolo sottolinea la sua osservanza alla Legge. E mira alla conversione degli altri ebrei.

Il quadro lucano è quindi complesso. Una complessità che va accolta. E non semplificata. Da un lato Luca insiste sul rifiuto di parte ebraica, dall’altra i discorsi di Pietro insistono sul dire che gli ebrei hanno ucciso Gesù, uno dei loro. Ma Luca insiste anche sulla conversione dei giudei, anche di quelli della diaspora. **

Quando Gesù in Mt 23, 37-39 dice “Gerusalemme, Gerusalemme che uccidi i profeti… non mi vedrete più finché direte: benedetto colui che viene nel nome del Signore”. Può esser visto anche come prospettiva di speranza verso il popolo, visto che è mandato per “salvare il suo popolo dai suoi peccati” (Mt 1, 21). Nella storia si svolge il dramma concreto del rifiuto di Gesù. Ma il suo sangue (Mt 26, 28) è versato per la moltitudine per la remissione dei peccati.

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In Lc troviamo una rottura decisa tra gli ebrei che vogliono restare come tali e quelli che invece aderiscono a Gesù. Ma ci sono anche elementi di continuità: molti fedeli tra i giudei aderenti alla legge seguono la fede cristiana. I cristiani infatti frequentano il tempio e si comprendono come una parte di Israele. Lo stesso san Paolo indica la propria appartenenza giudaica. Non si tratta di scegliere tra una o l’altra di queste letture, ma riconoscere che entrambe emergono dall’opera lucana come lettura autentica. Nella stessa opera di Luca c’è questa tensione che non va ridotta ma riconosciuta.

L’opera lucana è dunque interpretabile come modello profetico di rottura: san Paolo si rivolge agli ebrei parlando nelle sinagoghe e solo dinanzi al loro rifiuto parla ai pagani. Ma bisogna dire di più. Prima si rivolge agli ebrei: qualcuno rifiuta, ma qualcuno aderisce. E quindi si apre ai pagani.

Nella predicazione di Paolo ad Antiochia di Pisidia (At 13, 14ss): entrati nella sinagoga in giorno di sabato, dopo la lettura della Legge e dei Profeti, i capi della sinagoga mandarono a dire loro di parlare al popolo; Paolo si alza e presenta un discorso sulla discendenza davidica, per arrivare all’annuncio di Gesù Risorto e del perdono dei peccati in Lui. La conclusione è che uscendo gli si chiede di esporre ancora queste cose il sabato successivo.(Questo à assai lineare con Lc 24, 47: “Nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati”).Sciolta l’assemblea, il sabato seguente quasi tutta la città si raduna. A vedere quella moltitudine, i giudei sono pieni di gelosia. Ma Paolo e Barnaba dicono che dinanzi a questo rifiuto andranno dai pagani: “Io ti ho posto come luce per le genti” (Is 49). I pagani si rallegrano. Ma i giudei suscitarono una persecuzione contro Paolo e Barnaba che andarono così a Iconio. Qui si rivolgono nella sinagoga ai presenti, molti si convertono, e la cosa suscita una certa gelosia.

1—Le cause della rottura tra i giudei e Paolo: non esplode la crisi quando paolo interpreta cristologicamente l’AT ma la settimana dopo quando i giudei vedono tutta la città radunata ad ascoltare Paolo: non solo ebrei, ma anche pagani dunque. Non si tratta di una gelosia nei confronti di Paolo e Barnaba perché saprebbero predicare meglio, ma bensì perché ci sono i pagani.

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2—Come Paolo interpreta questo rifiuto dei Giudei di Antiochia? Di fatto essi rifiutano Paolo. L’apostolo dice che la parola doveva essere indirizzata prima a loro, dunque intende che andava annunciata anche ad altri, cioè, dopo di loro, ai pagani. Ma è proprio questo che i suoi oppositori contestano. Rifiutare questa parola significa giudicarsi indegni della vita eterna, dunque Israele si piva di una grazia che credeva di possedere. Is 49, 6: attesta che è volontà di Dio che la salvezza giunga a tutti i popoli.

3—Come avviene la rottura? Paolo e Barnaba scuotono la polvere dai piedi, un gesto che si ripete anche in At 18, 6 alla sinagoga di Corinto, dove Paolo dice che i suoi fratelli ebrei rifiutano questo annuncio ma lui non ne ha colpa (come dire “il vostro sangue su di voi”). Ma andando a Iconio P&B tornano nella sinagoga ad annunciare Gesù. E anche a Corinto Paolo dice che andrà ai pagani, ma il primo convertito è il capo della sinagoga. Da questo ricaviamo alcune osservazioni.I pagani secondo Luca non sostituiscono Israele nel piano di Dio ma si aggiungono ad esso, estendendone le dimensioni al mondo intero. È questo il motivo per cui Paolo si rivolge prima ai giudei. Secondo quanto profetizzato da Is 49, Is 56, Is 60… che già indicavano l’ampliamento degli orizzonti. Ad essere in gioco è la realizzazione delle profezie, delle quali il popolo eletto sta per privarsi.

At 13 può raccordarsi con Lc 4, quando Gesù cita Is 61 (“lo spirito del Signore è su di me…”) e dopo un iniziale interesse c’è un rifiuto da parte della sinagoga: stesso luogo di Paolo, stesso iniziale interesse, stesso rifiuto in un secondo tempo; anche in Lc 4 c’è opposizione tra Israele e le nazioni: “oggi si è adempiuta questa parola”. E poi: c’erano molte vedove al tempo di Elia, ma lui fu mandato da una vedova di Zarepta di Sidone, quindi non ebrea. Ed Eliseo purifica il lebbroso Naamn il Siro (siriano), dunque non ebreo.Questo scatena l’opposizione vs Gesù. In Lc 4 dice che nessun profeta è accetto in patria. Così per Paolo: rifiutato dai suoi. Ma non sta al profeta né a Gesù né a San Paolo rifiutare il popolo. Il modello del profeta rifiutato è deuteronomistico: il profeta avverte e minaccia il popolo per salvarlo da un pericolo mortale.

La rottura per Paolo è voluta dalla sinagoga. Luca scrive negli anni 80, quando la divisione sinagoga/chiesa è marcata. Per cui cerca di sottolineare i segni di continuità. L’apertura ai pagani non sostituisce le promesse fatte a Israele. Il dono della salvezza nasce in Israele. Ma paradossalmente questa apertura alle genti viene messa in campo dal rifiuto giudaico. Gv 4, 22: la salvezza viene dai giudei. Ma il loro rifiuto favorisce l’apertura ai pagani. Apertura che c’era già stata (tutta la città era accorsa da Paolo, prima del rifiuto dei giudei). Quindi NON è vero che la salvezza arriva grazie al rifiuto dei giudei, ma ANCHE attraverso questo rifiuto. È un po’ come quando il figlio maggiore protesta per l’accoglienza nella casa paterna del figliol prodigo…In Rm 11 Paolo afferma il rapporto tra il rifiuto giudeo e l’accoglienza pagana: Israele non ha ottenuto quello che cercava… a causa della loro caduta la salvezza è giunta ai pagani… (Paolo si aspetta che anche gli ebrei partecipino alla salvezza alla fine).Nella narrazione degli Atti dove è lo snodo? In Lc il rapporto tra Gesù e il suo popolo ha un dinamismo: l’ostilità dei capi pare la stessa da cima a fondo, invece il rapporto con la folla/il popolo cambia: nella sinagoga di Lc 4 c’è rifiuto, ma lungo tutto Lc il popolo glorifica Dio, cerca Gesù, vuole ascoltarlo; quando si narra la passione, la folla è associata indistintamente ai capi, e grida “crocifiggilo”; dopo l’esecuzione, la folla si batte il petto in segno di pentimento. Ancora: i discorsi missionari di Pietro e Paolo associano il popolo alla volontà omicida dei capi: “avete ucciso…”. Negli atti degli apostoli il cambiamento è più chiaro: dalla stima per la comunità cristiana, il popolo passa all’ostilità. I capi sono ostili, ma inizialmente il popolo è favorevole. Nei capitoli finali invece anche la folla è ostile a Paolo, dal cap. 21 al cap. 28. Paolo è arrestato nel tempio (At

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21), luogo in cui i cristiani andavano come fosse casa propria. E contro di lui si leva lo stesso grido urlato contro Gesù in croce. Parallelismo di destini tra Gesù e Paolo: soli entrambi dinanzi al popolo che ne vuole la morte…

I nomi: « Israele », « i Giudei », « il popolo » L'attenzione riservata a «Israele» si manifesta subito positiva nel vangelo dell'infanzia, dove questo termine ricorre 7 volte. Nel resto del vangelo s'incontra solo altre 5 volte, in contesti più critici. Il nome « Giudei » appare cinque volte soltanto, di cui 3 nel titolo « re dei Giudei » attribuito a Gesù nel racconto della passione. Più significativo è l'uso del termine « popolo », che conta 36 ricorrenze nel vangelo (contro le due del vangelo di Marco) e vi appare regolarmente in una luce favorevole, anche alla fine del racconto della passione. 323

Negli Atti, la prospettiva di partenza resta positiva, perché gli apostoli annunciano la risurrezione di Cristo e il perdono dei peccati a « tutta la casa d'Israele » (2,36) e ottengono molte adesioni (2,41; 4,4). Il nome d'Israele ricorre 14 volte nella prima parte degli Atti (At 1,6–13,24) e una quindicesima volta alla fine (28,20). Con 48 ricorrenze, il termine « popolo » è molto più frequente; « il popolo », all'inizio molto favorevole alla comunità cristiana (2,47; 5,26), finisce col seguire poi l'esempio dei suoi dirigenti e col diventare ostile (12,4.11), fino a volere, in particolare, la morte di Paolo (21,30-31). Questi ci tiene ad affermare di non « aver fatto nulla contro il popolo » (28,17). La stessa evoluzione si riflette negli usi del temine « Giudei », estremamente frequente (79 ricorrenze). I Giudei del giorno di Pentecoste (2,5), ai quali Pietro si rivolge chiamandoli rispettosamente con questo nome (2,14), sono chiamati alla fede in Cristo risorto e vi aderiscono in gran numero. All'inizio, essi sono i destinatari esclusivi della Parola (11,19). Ma ben presto, soprattutto a partire dal martirio di Stefano, diventano persecutori. La messa a morte di Giacomo da parte di Erode Antipa è un'azione che dà loro soddisfazione (12,1-3) e la loro « attesa » è che la stessa sorte sia riservata a Pietro (12,11). Prima della sua conversione, Paolo era un persecutore accanito (8,3; cf Gal 1,13); poi, da persecutore, diventa perseguitato: già a Damasco, « i Giudei ordirono un complotto per ucciderlo » (9,23); e lo stesso accadrà a Gerusalemme (9,29). Paolo continua nondimeno ad annunciare il Cristo « nelle sinagoghe dei Giudei » (13,5; 14,1), portando alla fede « un gran numero di Giudei e Greci » (14,1), ma questo successo provoca le reazioni ostili dei « Giudei increduli » (14,2). Lo stesso fenomeno si ripete spesso, con molteplici varianti, fino all'arresto di Paolo a Gerusalemme provocato dai « Giudei della provincia d'Asia » (21,27). Ciò nonostante, Paolo proclama con fierezza: « Io sono Giudeo » (22,3). Subisce l'ostilità da parte dei Giudei, senza però essere loro ostile.

Il racconto evangelico 74. Il vangelo dell'infanzia crea un'atmosfera estremamente favorevole al popolo ebraico. Gli annunci di nascite straordinarie presentano « Israele » (1,68) o « Gerusalemme » (2,38) come beneficiari della salvezza, nel compimento di una economia radicata nella storia del popolo. Ne risulta: « grande gioia per tutto il popolo » (2,10), « redenzione » (1,68-69), « salvezza » (2,30-31), « gloria del tuo popolo Israele » (2,32). Questi lieti annunci sono ben accolti. Però si intravede, per il futuro, una reazione negativa al dono di Dio, perché Simeone predice a Maria che il suo figlio diventerà un « segno contestato » e prevede che « una caduta » precederà il « rialzamento » (o: la risurrezione) « di molti in Israele » (2,34). Egli apre in questo modo una prospettiva profonda, in cui il salvatore si trova alle prese con forze ostili. Un tocco di universalismo, che si ispira al Secondo Isaia (42,6; 49,6), unisce la « luce per la rivelazione alle nazioni » alla « gloria per il tuo popolo Israele » (2,32), il che è una chiara dimostrazione che universalismo non significa antigiudaismo.

Nel seguito del vangelo Luca inserisce altri tocchi di universalismo: prima a proposito della predicazione di Giovanni Battista (3,6; cf Is 40,5) e poi facendo risalire fino ad Adamo la genealogia di Gesù (3,38). Ma il primo episodio del ministero di Gesù, la sua predicazione a Nazaret (4,16-30), mostra subito che l'universalismo porrà dei problemi. Gesù invita i suoi concittadini a rinunciare a un atteggiamento possessivo in rapporto ai suoi doni di taumaturgo e ad accettare che anche degli stranieri beneficino di questi doni (4,23-27). La loro reazione di stizza è violenta: cacciata e tentato omicidio (4,28-29). Luca rende così chiaro in anticipo quella che sarà spesso la reazione dei Giudei al successo di Paolo presso i Gentili. I Giudei si oppongono in modo violento a una predicazione che livelli i loro privilegi di popolo eletto. 324 Invece di aprirsi all'universalismo del Secondo Isaia, essi seguono Baruc che consiglia loro di non cedere a degli

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stranieri i loro privilegi (Ba 4,3). Altri Giudei, però, resistono a questa tentazione e si mettono generosamente a servizio dell'evangelizzazione (At 18,24-26).

Luca riporta le tradizioni evangeliche che mostrano Gesù alla prese con l'opposizione degli scribi e dei Farisei (Lc 5,17–6,11). In 6,11 egli attenua tuttavia l'ostilità di questi avversari non attribuendo loro fin dall'inizio, come invece in Mc 3, 6, un'intenzione omicida. Il discorso polemico di Luca contro i Farisei (11,42-44), esteso poi ai « dottori della legge » (11,46-52), è nettamente più breve di quello di Mt 23,2-39. La parabola del buon samaritano è la risposta alla domanda di un dottore della legge, al quale viene insegnato l'universalismo della carità (Lc 10,29.36-37). Essa mette in cattiva luce un sacerdote ebreo e un levita, proponendo, al contrario, come modello un samaritano (cf anche 17,12-19). Le parabole della misericordia (15,4-32), indirizzate ai Farisei e agli scribi, sono ugualmente un incitamento all'apertura di cuore. La parabola del padre misericordioso (15,11-32), che invita il figlio maggiore ad aprire il suo cuore al prodigo, non suggerisce direttamente l'applicazione, che talvolta è stata fatta, alle relazioni tra ebrei e Gentili (il figlio maggiore rappresenterebbe gli ebrei osservanti, poco inclini ad accogliere i pagani, considerati peccatori). È possibile tuttavia ipotizzare che il contesto più ampio dell'opera di Luca lasci una possibilità a questa applicazione, a causa della sua insistenza sull'universalismo.

La parabola delle mine (19,11-27) contiene alcuni tratti particolari molto significativi. Mette in scena un pretendente al titolo di re che si scontra con l'ostilità dei suoi concittadini. Egli deve recarsi in un paese lontano per essere investito del potere regale; al ritorno, i suoi oppositori vengono messi a morte. Questa parabola, come quella dei vignaioli omicidi (20,9-19), costituisce, da parte di Gesù, un pressante avvertimento contro le conseguenze prevedibili di un rifiuto della sua persona. Altri passi del vangelo di Luca completano la prospettiva esprimendo tutto il dolore che Gesù prova al pensiero di queste tragiche conseguenze: piange sulla sorte di Gerusalemme (19,41-44) e si disinteressa del proprio dolore per preoccuparsi della sciagura delle donne e dei figli di questa città (23,28-31).

Il racconto della passione secondo Luca non è particolarmente severo con le autorità ebraiche. Quando Gesù compare davanti « al consiglio degli anziani del popolo, i sommi sacerdoti e gli scribi » (22,66-71), Luca risparmia a Gesù il confronto con il sommo sacerdote, l'accusa di bestemmia e la condanna, il che ha come conseguenza anche l'attenuazione della colpevolezza dei nemici di Gesù. Questi formulano, poi, davanti a Pilato delle accuse di ordine politico (23,2). Pilato per tre volte dichiara che Gesù è innocente (23,4.14.22); esprime tuttavia l'intenzione di « dargli una lezione » (23,16.22), di farlo cioè flagellare, e alla fine cede alla pressione crescente della moltitudine (23,23-25), che si compone dei « sommi sacerdoti, dei capi e del popolo » (23,13). Nel seguito del racconto l'atteggiamento dei « capi » resta ostile (23,35), mentre quello del popolo ridiventa favorevole a Gesù (23,27.35.48) — lo abbiamo già notato — come lo era stato durante la vita pubblica. Da parte sua, Gesù prega per i suoi carnefici, da lui generosamente scusati, « perché non sanno quello che fanno » (23,34).

Nel nome di Gesù risorto, « la conversione per il perdono dei peccati » deve « essere predicata a tutte le nazioni » (24,47). Questo universalismo non ha alcuna connotazione polemica, perché la frase precisa che tale predicazione deve « cominciare da Gerusalemme ». La prospettiva corrisponde alla visione di Simeone sulla salvezza messianica, preparata da Dio come « luce per la rivelazione alle genti e gloria del [suo] popolo Israele » (2,30-32).

L'eredità che il terzo vangelo trasmette al libro degli Atti è quindi sostanzialmente favorevole al popolo ebraico. Le forze del male hanno avuto la loro « ora ». « Sommi sacerdoti, capi della guardia del Tempio e anziani » sono stati loro strumenti (22,52-53). Ma non hanno prevalso. Il disegno di Dio si è realizzato conformemente alle Scritture (24,25-27.44-47) ed è un disegno misericordioso di salvezza per tutti.

Gli Atti degli apostoli

75. L'inizio degli Atti fa passare gli apostoli di Cristo da una prospettiva limitata, la ricostituzione del regno d'Israele (At 1,6), a una prospettiva universalistica di testimonianza da rendere « fino agli estremi confini della terra » (1,8). L'episodio della Pentecoste situa, abbastanza curiosamente, i Giudei in questa prospettiva universalistica, e in modo molto simpatico: « C'erano, residenti a Gerusalemme, Giudei osservanti di ogni nazione che è sotto il cielo » (2,5). Questi Giudei sono i primi destinatari della predicazione apostolica; essi

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simboleggiano, al tempo stesso, la destinazione universale del vangelo. Luca suggerisce così, ancora una volta, che giudaismo e universalismo, lungi dall'escludersi reciprocamente, sono fatti per andare insieme.

I discorsi kerygmatici o missionari annunciano il mistero di Gesù sottolineando il forte contrasto tra la crudeltà umana, che ha messo a morte Gesù, e l'intervento liberatore di Dio, che l'ha risuscitato. La colpa degli « Israeliti » è stata di aver « fatto morire l'autore della vita » (3,15). Questa colpa, che è principalmente dei « capi del popolo » (4,8-10) o del « Sinedrio » (5,27.30), viene richiamata solo per giustificare un appello alla conversione e alla fede. Pietro, del resto, attenua la colpevolezza, non solo degli « Israeliti », ma anche dei loro « capi », dicendo che si tratta di una colpa commessa « per ignoranza » (3,17). Una simile indulgenza è impressionante; essa corrisponde all'insegnamento e all'atteggiamento di Gesù (Lc 6,36-37; 23,34).

La predicazione cristiana, tuttavia, non tarda a suscitare l'opposizione delle autorità ebraiche. I Sadducei sono contrariati nel vedere gli apostoli « annunciare nella persona di Gesù la risurrezione dei morti » (At 4,2), alla quale non credono (Lc 20,27). Un fariseo tra i più influenti, Gamaliele, si schiera al contrario dalla parte degli apostoli, ritenendo possibile che la loro iniziativa « venga da Dio » (At 5,39). L'opposizione allora si attenua per un po' di tempo. Ma riprende da parte di sinagoghe degli ellenisti, quando Stefano, anch'egli ellenista, opera « grandi prodigi e segni tra il popolo » (6,8-15). Alla fine del suo discorso davanti ai membri del Sinedrio, Stefano riprende contro di essi le invettive dei profeti (7,51). La conseguenza immediata è la sua lapidazione. Imitando Gesù, Stefano prega il Signore di « non imputare loro questo peccato » (7,60; cf Lc 23,34). « In quel giorno scoppiò una violenta persecuzione contro la Chiesa di Gerusalemme » (At 8,1). « Saulo » vi prende parte con accanimento (8,3; 9,13).

Dopo la sua conversione e durante tutti i suoi viaggi missionari, sarà lui — come abbiamo visto — a subire la persecuzione da parte di quelli della sua stessa stirpe, provocata dal successo della sua predicazione universalistica. Questo è particolarmente evidente subito dopo il suo arresto a Gerusalemme. Quando prende la parola « in ebraico », « la moltitudine del popolo » (21,36) prima l'ascolta con calma (22,2), ma quando egli evoca il suo invio « alle nazioni », si eccita terribilmente contro di lui e chiede la sua morte (22,21-22).

Il finale degli Atti è sorprendente, ma ancora più significativo. Poco dopo il suo arrivo a Roma, Paolo « convocò i più in vista tra i Giudei » (28,17), iniziativa unica nel suo genere. Cerca di « convincerli riguardo a Gesù, partendo dalla Legge e dai Profeti » (28,23). Il suo scopo è di ottenere non delle adesioni individuali, ma una decisione collettiva che impegni tutta la comunità ebraica. Non avendola ottenuta, riprende a loro riguardo le severe parole di Isaia sull'indurimento di « questo popolo » (28,25-27; Is 6,9-10) e annuncia, come contrasto, l'accoglienza docile che le nazioni riserveranno alla salvezza offerta da Dio (28,28). In questo finale, che suscita interminabili discussioni, Luca vuole a prima vista prendere atto del fatto innegabile che non c'è stata, in fin dei conti, un'adesione collettiva del popolo ebraico al vangelo di Cristo. Al tempo stesso, Luca vuole rispondere alla grave obiezione che se ne poteva trarre contro la fede cristiana, mostrando che questa situazione era stata prevista dalle Scritture.

Conclusione Non c'è dubbio che nell'opera di Luca si esprime una profonda stima per la realtà ebraica, in quanto ha un ruolo di primo piano nel disegno divino di salvezza. Tuttavia nel corso del racconto si manifestano gravi tensioni. Luca attenua allora i toni polemici che si incontrano negli altri sinottici. Ma evidentemente non può — e non vuole — mascherare il fatto che Gesù si è scontrato con una radicale opposizione da parte della autorità del suo popolo e che in seguito la predicazione apostolica si è trovata in una situazione analoga. Se il fatto di riferire in modo sobrio le manifestazioni di questa innegabile opposizione ebraica costituisse un fattore di antigiudaismo, allora Luca potrebbe essere accusato di antigiudaismo. Ma è chiaro che questo modo di vedere le cose è da respingere. L'antigiudaismo consiste piuttosto nel maledire e nell'odiare i persecutori e tutti il popolo al quale essi appartengono. Ora, il messaggio del vangelo invita, al contrario, i cristiani a benedire quelli che li maledicono, a fare del bene a quelli che li odiano e a pregare per quelli che li maltrattano (Lc 6,27-28), secondo l'esempio di Gesù (23,34) e quello del primo martire cristiano (At 7,60). È questa è una delle lezioni fondamentali dell'opera di Luca. Bisogna purtroppo rammaricarsi che nel corso dei secoli successivi essa non sia stata seguita abbastanza fedelmente.

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Giovanni cita più volte l’espulsione dalla sinagoga. E spesso si dice che risalga ai problemi avuti con le sinagoghe del posto (vicino a Efeso, dove viene redatto il Vangelo). Invece già col martirio di santo Stefano c’è una presa di posizione vs i giudei che affermano che Gesù è il messia. Siamo circa nel 36 dC, c’è un vuoto di potere, una ribellione in Samaria, Pilato interviene con durezza e richiamato a Roma, per cui il Sinedrio ha campo libero per perseguitare i cristiani. E Stefano viene lapidato (parentesi del divieto di uccidere imposto dai Romani ai Giudei), mentre Gesù era stato crocifisso dai romani.Stefano doveva essere quello teologicamente più preparato (vedi il lungo discorso degli Atti) e quindi viene eliminato. Siamo a pochi anni dalla morte di Gesù (avvenuta il 7/04/30 o 3/04/33), nel 36 dC e già lo scontro è aperto. La persecuzione degli ebrei ellenisti ha lo scopo di costringere questi cristiani di lingua greca a lasciare la fede o la sinagoga. È un processo violento. San Paolo (2Cor 11) dice di esser stato flagellato (coi 39 colpi) per 5 volte. Quindi è uno scontro assai violento. At 12, 1 menziona il martirio di Giacomo il Maggiore (fratello di Giovanni) e si parla di altri membri della Chiesa. Siamo nel 42-43 dC.1Tess 2, 14 parla delle persecuzioni a opera dei giudei e dice che non si tratta di episodi isolati ma eventi reiterati. La guida della comunità di Gerusalemme intorno al 50 dC va a Giacomo, fratello del Signore, il quale è un giudeo-cristiano vero e proprio, esprimendo la tendenza giudaizzante interna alla chiesa. Questo potrebbe aver portato una relativa calma. Ma lui stesso subisce il martirio di sangue nel 62 dC a opera del sommo sacerdote Anna II.

4. Vangelo di Giovanni

76. A proposito degli ebrei, il IV vangelo contiene l'affermazione più positiva in assoluto, ed è Gesù stesso a pronunciarla nel suo dialogo con la samaritana: « La salvezza viene dai Giudei » (Gv 4,22). D'altra parte, alla parola del sommo sacerdote Caifa, che dichiarava: « meglio che muoia un solo uomo per il popolo », l'evangelista riconosce un valore di parola ispirata da Dio e sottolinea che « Gesù doveva morire per la nazione », precisando subito dopo che non era « per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi » (Gv 11,49-52). L'evangelista dimostra una profonda conoscenza del giudaismo, delle sue feste e delle sue Scritture. Il valore del patrimonio ebraico viene riconosciuto in modo inequivocabile: Abramo vide il giorno di Gesù e se ne rallegrò (8,56); la Legge è un dono, ricevuto per mezzo di Mosè (1,17); « la Scrittura non può essere abolita » (10,35); Gesù è colui « del quale hanno parlato Mosè nella Legge e i profeti » (1,45); è « Giudeo » (4,9) e « re d'Israele » (1,47) o « re dei Giudei » (19,19-22). Nessuna seria motivazione permette di dubitare che l'evangelista fosse ebreo e che il contesto fondamentale per la composizione del vangelo sia stata la relazione con il giudaismo.

Il termine «Giudei» ricorre 71 volte nel IV Vangelo, abitualmente al plurale, 3 volte al singolare (3,25; 4,9; 18,35). È applicato in particolare a Gesù (4,9). Il nome « Israelita » appare solo una volta ed è un titolo onorifico (1,47). Un certo numero di giudei si mostra ben disposto verso Gesù. È il caso di Nicodemo, un « capo dei Giudei » (3,1), che riconosce in Gesù un maestro venuto da Dio (3,2), lo difende davanti ai suoi colleghi Farisei (7,50-51) e si prende cura, dopo la sua morte in croce, della sua sepoltura (19,39). Alla fine, « molti dei capi » credettero in Gesù, ma non avevano il coraggio di dichiararsi suoi discepoli (12,42). L'evangelista riferisce abbastanza spesso che « molte » persone credettero in Gesù. 326 Il contesto mostra che si tratta di Giudei, eccetto in 4,39.41; l'evangelista talvolta lo precisa, ma raramente (8,31; 11,45; 12,11).

“Giudei” non è usato in senso geografico (sud della Terra Santa), quando piuttosto indica un popolo e una fede. “Giudei” appare 71 volte in Giovanni. Ma solo 5 in Mt, 7 in Mc, 5 in Lc. 17 volte, di cui 12 nel sintagma “re dei giudei”. Dal contesto possiamo capire di chi si tratti (farisei, sommi sacerdoti, il popolo…). Ma non è sempre così facile. La nostra percezione risente di quello che abbiamo presente. Non consideriamo

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i romani colpevoli dell’incendio di Roma, mentre forse vediamo i giudei di oggi ancora colpevoli della morte di Gesù.

Il più delle volte, comunque, «i Giudei» sono ostili a Gesù. La loro opposizione si scatena in occasione della guarigione di un paralitico, effettuata di sabato (5,16); cresce dopo una dichiarazione in cui Gesù si fa «uguale a Dio», con la conseguenza che cercano di farlo morire (5,18). Più tardi, come il sommo sacerdote di Mt 26,65 e Mc 14,64 nel corso del processo di Gesù, lo accusano di « bestemmia » e cercano di infliggergli la colpa corrispondente: la lapidazione (10,31-33). È stato giustamente osservato che gran parte del IV vangelo anticipa il processo di Gesù, al quale è data la possibilità di fare la propria difesa e di accusare i suoi accusatori. Questi sono spesso chiamati « i Giudei », senza altra precisazione, il che ha come risultato di legare a questo nome un giudizio negativo. Ma non si tratta affatto di un antigiudaismo di principio, poiché — come abbiamo già ricordato — il vangelo riconosce che « la salvezza viene dai Giudei » (4,22). Questo modo di parlare riflette soltanto una situazione di netta separazione tra le comunità cristiane e quelle ebraiche.

L'accusa più grave espressa da Gesù contro « i Giudei » è quella di avere per padre il diavolo (8,44); bisogna notare che quest'accusa non è mossa contro i Giudei in quanto Giudei, ma al contrario in quanto essi non sono veri Giudei, poiché nutrono intenzioni omicide (8,37), ispirate dal diavolo, che è « omicida fin da principio » (8,44). Ad essere preso di mira era quindi solo un numero molto ristretto di Giudei contemporanei di Gesù; si tratta paradossalmente, di « Giudei che avevano creduto in lui » (8,31). Accusandoli aspramente, il IV vangelo metteva in guardia gli altri Giudei contro la tentazione di simili pensieri omicidi.

77. Si è cercato di eliminare la tensione che i testi del IV vangelo possono provocare tra cristiani ed ebrei nel mondo attuale, proponendo di tradurre « gli abitanti della Giudea », piuttosto che « i Giudei » o « gli Ebrei ». Il contrasto non sarebbe tra « gli ebrei » e i discepoli di Gesù, ma tra gli abitanti di quella regione, presentati come ostili a Gesù, e quelli della Galilea, presentati come accoglienti verso il loro profeta. Nel vangelo è certamente presente il disprezzo degli abitanti della Giudea per i galilei (7,52), ma l'evangelista non fissa una linea di demarcazione tra la fede e il suo rifiuto secondo un confine geografico e chiama hoi Ioudaioi i Giudei della Galilea che rifiutano l'insegnamento di Gesù (6,41.52).

Un'altra interpretazione dell'espressione « i Giudei » consiste nell'identificare « i Giudei » con « il mondo », basandosi su affermazioni che esprimono tra loro un legame (8,33) o un parallelismo. 327 Ma il mondo peccatore ha chiaramente un'estensione più ampia dell'insieme degli ebrei ostili a Gesù.

Si prendono le distanze dal popolo, dalla fede dei giudei, o si offre una semplice indicazione culturale per aiutare chi leggesse il quarto Vangelo a Efeso e dintorni?A volte si coglie la sfumatura del termine in base alla narrazione.Nei primi 4 capitoli il termine appare 10 volte e in modo neutro: “i giudei”. Dal cap. 5 di Giovanni è invece chiaro che i giudei maturano una ostilità vs Gesù che ha guarito il paralitico in giorno di sabato. Per questo “i Giudei cominciarono a perseguitare Gesù… cercavano di ucciderlo… facendosi uguale a Dio” (Gv 5, 16…). Nel seguito della narrazione troviamo però anche dei giudei che credono in Gesù. Quindi troviamo Giudei che hanno atteggiamento neutro, altri ostili e altri ancora favorevoli. Il termine non ha quindi un solo colore ma varia a seconda dell’atteggiamento che si ha verso Gesù. Dice Marchadour sulla scorta di Culpepper che questa categoria “giudei” permette di esplorare il cuore e l’anima dell’incredulità. “Quale segno ci dai perché possiamo credere?” – “voi vedete e non credete”, dice Gesù (Gv 6, 36)Alla fine del Vangelo c’è l’incontro con Tommaso (20, 28) che esprime la sua fede “Mio Signore e mio Dio”. E Gesù: “Beati quelli che pur non avendo visto, crederanno” (20, 29). Quindi: la categoria dei giudei permette di approfondire il tema dell’incredulità. A Tommaso potrebbe aver rivolto una domanda: mi hai visto e hai creduto? Beati piuttosto… Si usa “vedere” ma forse è un’esperienza più profonda, un vedere in profondità. E quindi avrebbe senso chiedergli se crede perché ha visto. Anche se 7 giorni prima aveva lui stesso detto che avrebbe creduto solo vedendo.

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Ma questo episodio di incontro può celare un “di più”. Ma è uno spunto per dire che la categoria dei giudei è lo spunto per parlare dell’incredulità.

Sul rapporto tra le due fedi, PESCH mostra con notevole chiarezza che non c’è nel Vangelo secondo Giovanni nessuna abolizione del giudaismo, bensì si afferma Gesù come suo compimento, un compimento ineludibile. Gv sottolinea il rifiuto di Gesù operato dai Giudei. Ma chi rifiuta Gesù, non è un ebreo esemplare, ma sta agendo contro la stessa legge di Mosé. A essere contro Mosè non è Gesù, come dice in Gv 5, 46: Mosè ha parlato di lui. Quindi la volontà omicida li fa “figli del diavolo” (8, 44) e non figli di Abramo. Ma da questa frase NON posso ricavare che tutti i giudei siano figli del diavolo… sarebbe una strumentalizzazione del testo.

Anche perché va messa con Gv 4, 22 (DV 12): “la salvezza viene dai giudei” (confronto con la samaritana). Qualcuno (tra cui Bultmann) ha ritenuto una falsificazione questo versetto, al punto che sotto i nazisti giravano edizioni epurate di tale versetto. Ma occorre rendere conto, non eliminare quanto è problematico.

I sommi sacerdoti dicono a Pilato che se Gesù è re dei Giudei e Pilato lo libera, allora si pone contro Cesare. E dicono “Non abbiamo altro re all’infuori di Cesare”. Ma questo cozza contro il comandamento “Non avrai altro Dio all’infuori di me”. Una sorta di idolatria. Che contraddice il monoteismo ebraico. Quindi Gv anche qui ribadisce che NON sono buoni ebrei. Gesù dunque non viene ad abolire ma a dare compimento. Anzi: Gesù è la TORAH in persona. Quindi non si tratta di opporre la legge di Mosè a Gesù, ma una dinamica di compimento.

Il XSIMO si è compreso come culmine del cammino di Israele… Ma in seguito si strumentalizzarono alcune espressioni di ostilità. Mentre la Chiesa provvede ad arginare i problemi inserendo il catecumenato (3 anno). Benché rimangano comunque tendenze anti-ebraiche. Mentre, all’opposto, restano le radici giudaiche nella Chiesa nonostante le tendenze marcionite e gnostiche che favoriscono l’antisemitismo e che proprio quelle radici vorrebbero eliminare. Occorrono sia la conoscenza della storia, sia il fare un cammino insieme.

È stato osservato, d'altra parte, che in molti passi del vangelo che nominano « i Giudei » si tratta più precisamente delle autorità ebraiche (sommi sacerdoti, membri del Sinedrio) o talvolta dei Farisei. Un confronto tra 18,3 e 18,12 spinge in questo senso. Nel racconto della passione, Giovanni nomina più volte « i Giudei » là dove i vangeli sinottici parlano della autorità ebraiche. Ma questa osservazione vale solo per un numero limitato di testi e non è possibile introdurre nella traduzione del vangelo una simile precisazione senza mancare di fedeltà ai testi. Questi sono l'eco di una situazione di opposizione alle comunità cristiane, da parte non solo delle autorità ebraiche, ma della maggior parte dei Giudei, solidali con le loro autorità (cf At 28,22). Storicamente parlando si può pensare che solo una minoranza di Giudei contemporanei di Gesù fosse ostile a lui, che un piccolo gruppo porta la responsabilità di averlo consegnato all'autorità romana; un numero ancora più ristretto volle forse la sua morte, probabilmente per motivi di ordine religioso che a loro sembravano imprescindibili. 328 Ma questi pochi riuscirono a creare un consenso generale in favore di Barabba e contro Gesù, 329 il che permette all'evangelista di utilizzare un'espressione generalizzante, annunciatrice di un'evoluzione posteriore.

La separazione tra i discepoli di Gesù e « i Giudei » si manifesta talvolta nel vangelo con un'espulsione dalla sinagoga inflitta a dei Giudei che confessano la loro fede in Gesù. 330 È probabile che un simile trattamento fosse effettivamente applicato ai Giudei delle comunità giovannee, che gli altri Giudei consideravano ormai non più parte del popolo ebraico perché infedeli alla sua fede monoteistica (mentre, in realtà, non era così perché Gesù dice: « Io e il Padre siamo una cosa sola »: 10,30). Di conseguenza, diventa in qualche modo normale dire « i Giudei » per designare coloro che riservavano solo per sé questo nome, opponendosi alla fede cristiana.

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78. Conclusione. Il ministero di Gesù aveva suscitato una crescente opposizione da parte della autorità ebraiche, che, alla fine, decisero di consegnare Gesù all'autorità romana perché fosse messo a morte. Ma egli si rivelò vivo, per dare la vera vita a tutti quelli che credono in lui. Il IV vangelo ricorda questi eventi, rileggendoli alla luce dell'esperienza delle comunità giovannee, che si scontravano con l'opposizione delle comunità ebraiche.

Le azioni e le dichiarazioni di Gesù mostravano che egli aveva con Dio una relazione filiale molto stretta, unica nel suo genere. La catechesi apostolica approfondì progressivamente la comprensione di questa relazione. Nelle comunità giovannee si insisteva fortemente sui rapporti tra il Figlio e il Padre e si affermava la divinità di Gesù, che è « il Cristo, il Figlio di Dio » (20,31) in un senso trascendente. Questa dottrina provocò l'opposizione dei capi delle sinagoghe, seguiti dall'insieme delle comunità ebraiche. I cristiani furono espulsi dalle sinagoghe (16,2) e, al tempo stesso, si trovarono esposti a vessazioni da parte delle autorità romane, perché non godevano più dei privilegi accordati agli ebrei.

La polemica si accentuò da entrambe le parti. Dagli ebrei Gesù fu accusato di essere un peccatore (9,24), un bestemmiatore (10,33) e un posseduto dal diavolo. 331 Quelli che credevano in lui furono considerati ignoranti e maledetti (7,49). Dai cristiani, gli ebrei furono accusati di disobbedienza alla parola di Dio (5,38), di resistenza all'amore di Dio (5,42), di ricerca di vanagloria (5,44).

Non potendo più partecipare alla vita cultuale degli ebrei, i cristiani presero meglio coscienza della pienezza che ricevevano dal Verbo fatto carne (1,16). Gesù risorto è fonte di acqua viva (7,37-38), luce del mondo (8,12), pane di vita (6,35), nuovo Tempio (2,19-22). Avendo amato i suoi fino alla fine (13,1), diede loro il suo nuovo comandamento d'amore (13,34). Bisogna fare di tutto perché si diffonda la fede in lui e, mediante la fede, la vita (20,31). Nel vangelo l'aspetto polemico è secondario. Ciò che è di fondamentale importanza è la rivelazione del « dono di Dio » (4,10; 3,16) offerto a tutti in Gesù Cristo, specialmente a coloro che l'« hanno trafitto » (19,37).

5. Conclusione I vangeli mostrano che la realizzazione del disegno di Dio comportava necessariamente uno scontro con il male, che era necessario estirpare dal cuore umano. Questo fatto ha portato Gesù a scontrarsi con la classe dirigente del suo popolo, com'era già accaduto per gli antichi profeti. Già nell'Antico Testamento il popolo ebraico si presentava sotto due aspetti antitetici: da una parte, come un popolo chiamato a essere perfettamente unito a Dio; dall'altra, come un popolo peccatore. Questi due aspetti non potevano mancare di manifestarsi nel corso del ministero di Gesù. Al momento della passione, l'aspetto negativo era sembrato prevalere, anche nell'atteggiamento dei Dodici. Ma la risurrezione mostra che in realtà l'amore divino era risultato vittorioso e aveva ottenuto per tutti il perdono dei peccati e una vita nuova.

Successivamente a Gesù, notiamo che Paolo frequenta il tempio (At 21, 28) e viene accusato di introdurvi il greco Tròfimo che era con lui (cosa che invece non fa). Ma a poco a poco si separano gli ebrei che credono in Gesù e quelli che non vi credono. Nella chiesa entrano anche dei non ebrei. Che poi diventano maggioranza. Favorendo la distanza sempre > tra cristiani e popolo ebraico. San Paolo dice (1Tess 2, 14ss) che i cristiani di Tessalonica sono imitatori della chiesa di Dio che è in Giudea perché hanno sofferto per mano dei Giudei, che hanno messo a morte Gesù e perseguitato i cristiani… ma ormai l’ira è sul loro capo - Si tratta di capire una espressione così dura. Ancora una volta, invettive (1) simile a quelle profetiche e (2) di un ebreo che si rivolge ai suoi. Le parole di Paolo paiono una presa d’atto, ma in realtà (3) sono sempre un ammonimento, dunque con prospettiva di conversione. Quella conversione di cui Paolo parla ai Romani nel cap 11.

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CONLUSIONI

PCB 2001 nn 64-65; 84-87

64. I lettori cristiani sono convinti che la loro ermeneutica dell'Antico Testamento, molto diversa, certo, da quella del giudaismo, corrisponda tuttavia a una potenzialità di senso effettivamente presente nei testi. Come un « rivelatore » durante lo sviluppo di una pellicola fotografica, la persona di Gesù e gli eventi che la riguardano hanno fatto apparire nelle Scritture una pienezza di significato che prima non poteva essere percepita. Questa pienezza di significato stabilisce tra il Nuovo Testamento e l'Antico un triplice rapporto: di continuità, di discontinuità e di progressione.

1. Continuità Il Nuovo Testamento, oltre a riconoscere l'autorità delle Scritture ebraiche e a cercare costantemente di dimostrare che gli eventi « nuovi » sono conformi a quanto era stato annunciato (cf cap. I), accetta pienamente tutti i grandi temi della teologia d'Israele, nel loro triplice riferimento al presente, al passato e al futuro.

Appare innanzitutto una prospettiva universale e sempre presente: Dio è uno; è lui che, con la sua parola e il suo soffio, ha creato e sostiene l'universo, ivi compreso l'essere umano, grande, nobile, nonostante le sue miserie.

Gli altri temi si sono sviluppati in seno a una storia particolare: Dio ha parlato, si è scelto un popolo, l'ha molte volte liberato e salvato, ha stabilito con esso un rapporto di alleanza, offrendosi egli stesso (grazia) e offrendo ad esso un cammino di fedeltà (Legge). La persona e l'opera di Cristo così come l'esistenza della Chiesa si situano nel prolungamento di questa storia.

Questa apre al popolo eletto orizzonti futuri meravigliosi: una posterità (promessa ad Abramo), un habitat (una terra), la perennità al di là delle crisi e delle prove (grazie alla fedeltà di Dio), l'avvento di un ordine politico ideale (il Regno di Dio, il messianismo). Fin dall'inizio è previsto per la benedizione di Abramo un'irradiazione universale: la salvezza offerta da Dio deve raggiungere le estremità della terra. In effetti Cristo Gesù offre la salvezza al mondo intero.

2. Discontinuità Non si può tuttavia negare che il passaggio dall'uno all'altro Testamento comporta delle rotture. Queste non sopprimono la continuità, ma la presuppongono su ciò che è essenziale. Riguardano comunque interi settori della Legge: istituzioni, come il sacerdozio levitico e il tempio di Gerusalemme; forme di culto, come l'immolazione di animali; pratiche religiose e rituali, come la circoncisione, le regole sul puro e l'impuro, le prescrizioni alimentari; leggi imperfette, come quella sul divorzio; interpretazioni legali restrittive, riguardanti ad esempio il sabato. È chiaro che, da un certo punto di vista — quello del giudaismo — si tratta di elementi di grande importanza che vengono meno. Ma è altrettanto evidente che il radicale spostamento di accento realizzato nel Nuovo Testamento era avviato già nell'Antico Testamento e ne costituisce pertanto una lettura potenziale legittima.

3. Progressione 65. La discontinuità su alcuni punti è solo l'aspetto negativo di una realtà il cui aspetto positivo si chiama progressione. Il Nuovo Testamento attesta che Gesù, ben lontano dall'opporsi alle Scritture d'Israele, dall'esautorarle o dal revocarle, le porta a compimento, nella sua persona, nella sua missione, e in modo particolare nel suo mistero pasquale. A dire il vero, nessuno dei grandi temi della teologia dell'Antico Testamento sfugge alla nuova irradiazione della luce cristologica.

a) Dio. Il Nuovo Testamento mantiene fermamente la fede monoteistica d'Israele: Dio resta l'unico; tuttavia, il Figlio partecipa di questo mistero, che d'ora in poi viene espresso solo in un simbolismo ternario, già preparato, ma alla lontana, nell'Antico Testamento. 299 Dio crea con la sua parola, certo (Gn 1); ma questa Parola preesiste « presso Dio » ed « è Dio » (Gv 1,1-5); dopo essersi espressa, nel corso della storia, per

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bocca di tutta una serie di portaparola autentici (Mosè e i profeti), essa s'incarna alla fine in Gesù di Nazaret. 300 Dio crea al tempo stesso « col soffio della sua bocca » (Sal 33,6). Questo soffio è « lo Spirito Santo », inviato da Gesù risorto e innalzato alla destra del Padre (At 2,33).

b) L'uomo. L'essere umano è creato grande, « a immagine di Dio » (Gn 1,26). Ma « l'icona più perfetta del Dio invisibile » è Cristo (Col 1,15). E noi siamo chiamati a diventare noi stessi immagine di Cristo, 301 cioè « creazione nuova ». 302 Dio ci libera, sì, dalle nostre povertà e dalle nostre miserie, ma attraverso la mediazione unica di Gesù Cristo, morto per i nostri peccati e risorto per la nostra vita. 303

c) Il popolo. Nel Nuovo Testamento l'elezione d'Israele, popolo dell'alleanza, resta una realtà irrevocabile: questo conserva intatte le sue prerogative (Rm 9,4) e il suo status prioritario, nella storia, in rapporto all'offerta della salvezza (At 13,23) e della Parola di Dio (13,46). Ma ad Israele Dio ha offerto un'« alleanza nuova » (Ger 31,31); questa è stata fondata nel sangue di Gesù. 304 La Chiesa si compone di Israeliti che hanno accettato questa nuova alleanza e di altri credenti che si sono uniti a loro. Popolo della nuova alleanza, la Chiesa è cosciente di esistere solo grazie alla sua adesione a Cristo Gesù, messia d'Israele, e grazie ai suoi legami con gli apostoli, tutti israeliti. Ben lontana quindi dal sostituirsi a Israele, 305 la Chiesa resta solidale con esso. Ai cristiani venuti dalle nazioni, l'apostolo Paolo dichiara che sono stati innestati sull'olivo buono che è Israele (Rm 11,16.17). Ciò detto, la Chiesa è consapevole che Cristo le dona un'apertura universale, conformemente alla vocazione di Abramo, la cui discendenza si amplia ora grazie a una filiazione fondata sulla fede in Cristo (Rm 4,11-12). Il Regno di Dio non è più legato al solo Israele ma aperto a tutti, compresi i pagani, con un posto speciale per i poveri e gli esclusi. 306 La speranza legata alla dinastia regale di Davide, anche se decaduta da ormai sei secoli, diventa una chiave di lettura essenziale della storia: essa si concentra ora in Gesù Cristo, un discendente umile e lontano. Infine, per quanto riguarda la terra d'Israele (compreso il suo Tempio e la sua Città santa), il Nuovo Testamento spinge molto più avanti quel processo di simbolizzazione già avviato nell'Antico Testamento e nel giudaismo intertestamentario.

Così dunque, per i cristiani, con l'avvento di Cristo e della Chiesa, il Dio della rivelazione pronuncia la sua ultima parola. « Dopo aver, a più riprese e in diversi modi, parlato un tempo ai padri nei profeti, Dio, nel periodo finale in cui ci troviamo, ci ha parlato in un Figlio » (Eb 1,1-2).

IV. - CONCLUSIONI

A. Conclusione generale 84. La prima conclusione che si impone al termine di questa esposizione, necessariamente sommaria, è che il popolo ebraico e le sue sacre Scritture occupano nella Bibbia cristiana un posto di estrema importanza. Infatti, le sacre Scritture del popolo ebraico costituiscono una parte essenziale della Bibbia cristiana e sono presenti, in molti modi, nell'altra parte. Senza l'Antico Testamento, il Nuovo Testamento sarebbe un libro indecifrabile, una pianta privata delle sue radici e destinata a seccarsi.

Il Nuovo Testamento riconosce l'autorità divina delle sacre Scritture del popolo ebraico e si appoggia su questa autorità. Quando parla delle « Scritture » e fa riferimento a « quanto sta scritto », esso rimanda alle sacre Scritture del popolo ebraico. Afferma che queste Scritture dovevano necessariamente compiersi, poiché definiscono il disegno di Dio, che non può non realizzarsi, quali che siano gli ostacoli che incontra e le resistenze umane che vi si oppongono. Il Nuovo Testamento aggiunge che queste Scritture si sono effettivamente compiute nella vita di Gesù, nella sua passione e nella sua risurrezione, così come nella fondazione della Chiesa aperta a tutte le nazioni. Tutto questo lega strettamente i cristiani al popolo ebraico, perché il primo aspetto del compimento delle Scritture è quello della conformità e della continuità. Questo aspetto è fondamentale. Il compimento comporta anche, inevitabilmente, un aspetto di discontinuità su alcuni punti, perché, senza di questo, non ci sarebbe progresso. Questa discontinuità è fonte di disaccordi tra cristiani ed ebrei ed è inutile nasconderselo. Ma si è sbagliato, nel passato, a insistere unilateralmente su di essa, al punto da non tenere più conto della fondamentale continuità.

Questa continuità ha radici profonde e si manifesta a più livelli. Un rapporto simile lega Scrittura e Tradizione nel cristianesimo come nel giudaismo. Metodi esegetici giudaici sono utilizzati spesso nel Nuovo Testamento. Il canone cristiano dell'Antico Testamento deve la sua formazione alla situazione nelle Scritture

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del popolo ebraico nel I secolo. Per interpretare con precisione i testi del Nuovo Testamento, è spesso necessaria la conoscenza del giudaismo di quest'epoca.

85. Ma è soprattutto studiando i grandi temi dell'Antico Testamento e la loro continuità nel Nuovo che ci si rende conto dell'impressionante simbiosi che unisce le due parti della Bibbia cristiana e, al tempo stesso, della forza sorprendente dei legami spirituali che uniscono la Chiesa di Cristo al popolo ebraico. Nell'uno e nell'altro Testamento è lo stesso Dio che entra in relazione con gli uomini e li invita a vivere in comunione con lui; Dio unico e fonte di unità; Dio creatore, che continua a provvedere ai bisogni delle sue creature, soprattutto di quelle che sono intelligenti e libere, chiamate a riconoscere la verità e ad amare; Dio liberatore e soprattutto salvatore, perché gli essere umani, creati a sua immagine, sono caduti a causa delle loro colpe in una miserabile schiavitù.

Il disegno di Dio, essendo un progetto di relazioni interpersonali, si realizza nella storia. Non è possibile scoprirlo ricorrendo a deduzioni filosofiche sull'essere umano in generale. Esso si rivela attraverso iniziative divine imprevedibili e, in particolare, con una chiamata rivolta a una persona scelta tra tutte nella moltitudine umana, Abramo (Gn 12,1-3), e prendendo in mano la sorte di questa persona e della sua posterità, che diventa un popolo, il popolo d'Israele (Es 3,10). L'elezione d'Israele, tema centrale nell'Antico Testamento (Dt 7,6-8), resta fondamentale nel Nuovo Testamento. Ben lungi dal rimetterla in questione, la nascita di Gesù dà ad essa la più eclatante conferma. Gesù è « figlio di Davide, figlio di Abramo » (Mt 1,1). Viene a « salvare il suo popolo dai suoi peccati » (1,21). È il Messia promesso a Israele (Gv 1,41.45); è « la Parola » (Logos) venuta « tra i suoi » (Gv 1,11-14). La salvezza da lui apportata col suo mistero pasquale viene offerta in primo luogo agli Israeliti. 345 Come previsto dall'Antico Testamento, questa salvezza ha, d'altra parte, ripercussioni universali. 346 È offerta anche ai Gentili. Effettivamente essa è accolta da molti di loro, tanto che sono diventati la grande maggioranza dei discepoli di Cristo. Ma i cristiani provenienti dalle nazioni beneficiano della salvezza solo in quanto introdotti, con la loro fede nel Messia d'Israele, nella posterità di Abramo (Gal 3,7.29). Molti dei cristiani provenienti dalle « nazioni » non hanno abbastanza consapevolezza che erano, per natura, degli « olivastri » e che la loro fede in Cristo li ha innestati sull'olivo scelto da Dio (Rm 11,17-18).

L'elezione d'Israele si è concretizzata nell'alleanza del Sinai e le istituzioni ad essa collegate, soprattutto la Legge e il santuario. Il Nuovo Testamento si situa in un rapporto di continuità con questa alleanza e queste istituzioni. La nuova alleanza annunciata da Geremia e fondata nel sangue di Gesù ha portato a compimento il progetto di alleanza tra Dio e Israele, superando l'alleanza del Sinai con un nuovo dono del Signore che integra e amplifica il suo primo dono. Similmente, « la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù » (Rm 8,2), che è un dinamismo interiore, rimedia alla debolezza (8,3) della Legge del Sinai e rende i credenti capaci di vivere nell'amore generoso, che è « pienezza della Legge » (Rm 13,10). Quanto al santuario terreno, il Nuovo Testamento si esprime in termini preparati dall'Antico Testamento, relativizzando il valore di un edificio materiale come abitazione di Dio (At 7,48) e appellandosi a una concezione del rapporto con Dio in cui l'accento si sposta verso l'interiorità. Su questo punto, come su molti altri, si vede quindi che la continuità si basa sull'impulso profetico dell'Antico Testamento.

Nel passato, tra il popolo ebraico e la Chiesa di Cristo Gesù, la rottura è potuta sembrare talvolta completa, in certe epoche e in certi luoghi. Alla luce delle Scritture questo non sarebbe mai dovuto accadere, perché una rottura completa tra la Chiesa e la Sinagoga è in contraddizione con la sacra Scrittura.

B. Orientamenti pastorali 86. Il Concilio Vaticano II, raccomandando tra ebrei e cristiani, « la mutua conoscenza e stima », ha dichiarato che questa conoscenza e questa stima « si ottengono soprattutto dagli studi biblici e teologici e da un fraterno dialogo ». 347 È questo lo spirito che ha animato la redazione del presente documento, che spera di apportare un contributo positivo in questo senso e favorire anche nella Chiesa di Cristo l'amore verso gli ebrei, come auspicava il papa Paolo VI nel giorno della promulgazione del documento conciliare Nostra Aetate. 348

Con questo testo il Vaticano II ha gettato le fondamenta di una nuova comprensione delle nostre relazioni con gli ebrei dicendo che « secondo l'Apostolo (Paolo), gli ebrei, in grazia dei Padri, rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui chiamata sono senza pentimento (Rm 11,29) ». 349

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Giovanni Paolo II più volte ha preso l'iniziativa di sviluppare questa dichiarazione nel suo magistero. Nel corso della sua visita alla sinagoga di Magonza (1980), diceva: « L'incontro tra il popolo di Dio dell'Antica Alleanza, che non è stata mai abrogata da Dio (cf Rm 11,29), e quello della Nuova Alleanza, è al tempo stesso un dialogo interno alla nostra Chiesa, in qualche modo tra la prima e la seconda parte della sua Bibbia ». 350 Più tardi, rivolgendosi alle comunità ebraiche d'Italia durante la sua visita alla sinagoga di Roma (1986), dichiarava: « La Chiesa di Cristo scopre il suo “legame” con l'ebraismo “scrutando il suo proprio mistero” (cf Nostra Aetate, 4). La religione ebraica non ci è “estrinseca”, ma, in un certo qual modo, è “intrinseca” alla nostra religione. Abbiamo quindi verso di essa dei rapporti che non abbiamo con nessun'altra religione. Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire i nostri fratelli maggiori ». 351 Infine, durante un colloquio sulle radici dell'antigiudaismo in ambiente cristiano (1997), ha dichiarato: « Questo popolo è radunato e condotto da Dio, Creatore del cielo e della terra. La sua esistenza non è quindi un puro fatto di natura né di cultura... È un fatto soprannaturale. Questo popolo persevera verso e contro tutto perché è il popolo dell'Alleanza e perché, nonostante le infedeltà degli uomini, il Signore è fedele alla sua Alleanza ». 352 Questo magistero è stato come suggellato dalla visita di Giovanni Paolo II in Israele, nel corso della quale egli si è rivolto ai Rabbini Capi d'Israele in questi termini: « Noi (ebrei e cristiani) dobbiamo cooperare per edificare un futuro nel quale non vi sia più antigiudaismo fra i cristiani e anticristianesimo fra gli ebrei. Abbiamo molto in comune. Insieme possiamo fare molto per la pace, per la giustizia e per un mondo più fraterno e umano ». 353

Da parte dei cristiani, la condizione principale di un progresso in questo senso è di evitare qualsiasi lettura unilaterale dei testi biblici, sia dell'Antico che del Nuovo Testamento, e di sforzarsi, al contrario, di ben corrispondere al dinamismo d'insieme che li anima e che è precisamente un dinamismo di amore. Nell'Antico Testamento il progetto di Dio è un progetto di unione d'amore col suo popolo, amore paterno, amore coniugale, e, nonostante le infedeltà d'Israele, Dio non vi rinuncia mai, ma ne afferma la perpetuità (Is 54,8; Ger 31,3). Nel Nuovo Testamento l'amore di Dio supera i peggiori ostacoli; gli Israeliti, anche se non credono nel suo Figlio, inviato per essere il loro Messia salvatore, restano « amati » (Rm 11,29). Chi vuole essere unito a Dio è tenuto quindi ugualmente ad amarli.

87. La lettura parziale dei testi suscita spesso difficoltà per i rapporti con gli ebrei. L'Antico Testamento, l'abbiamo visto, non risparmia rimproveri agli Israeliti, e nemmeno condanne, mostrandosi molto esigente con loro. Invece di scagliare accuse, è più opportuno pensare che questi testi illustrano la parola del Signore Gesù: « A chi fu dato molto, molto sarà richiesto » (Lc 12,48) e che questa affermazione vale anche per noi cristiani. Alcuni racconti biblici presentano aspetti di slealtà o di crudeltà che sembrano ora moralmente inaccettabili, ma che è necessario comprendere nel loro contesto storico e letterario. È opportuno riconoscere l'aspetto di lento progresso storico della rivelazione: la pedagogia divina ha preso un gruppo umano là dove si trovava e l'ha condotto pazientemente verso un ideale di unione con Dio e di integrità morale, che la nostra società moderna è del resto ben lontana dall'aver raggiunto. Questa constatazione farà evitare due pericoli opposti: da una parte quello di attribuire una validità ancora attuale, per i cristiani, a prescrizioni antiche (ad es. rifiutando, per la preoccupazione di fedeltà alla Bibbia, ogni trasfusione di sangue), e, dall'altra, quello di rifiutare tutta la Bibbia col pretesto delle sue crudeltà. Quanto ai precetti rituali, come le norme sul puro e l'impuro, bisogna prendere coscienza della loro portata simbolica e antropologica e discernere la loro funzione al tempo stesso sociologica e religiosa.

Nel Nuovo Testamento i rimproveri rivolti agli ebrei non sono più frequenti né più virulenti delle accuse espresse contro di essi nella Legge e nei Profeti. Non devono quindi servire da base all'antigiudaismo. Un utilizzo a questo scopo è contrario all'orientamento d'insieme del Nuovo Testamento. Un vero antigiudaismo, cioè un atteggiamento di disprezzo, di ostilità e di persecuzione contro gli ebrei in quanto ebrei, non esiste in alcun testo del Nuovo Testamento ed è incompatibile con l'insegnamento che questo contiene. Ciò che esiste, sono dei rimproveri rivolti a certe categorie di ebrei per motivi religiosi e, d'altra parte, dei testi polemici miranti a difendere l'apostolato cristiano contro quegli ebrei che vi si opponevano.

Ma bisogna riconoscere che molti di questi passi si prestano a servire da pretesto all'antigiudaismo e che sono stati effettivamente utilizzati in questo senso. Per evitare deviazioni di questo tipo, bisogna osservare che i testi polemici del Nuovo Testamento, anche quelli che si esprimono in termini generalizzanti, restano sempre legati a un contesto storico concreto e non vogliono mai avere di mira gli ebrei di ogni tempo e di

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ogni luogo per il solo fatto che sono ebrei. La tendenza a parlare in termini generalizzanti, ad accentuare i lati negativi degli avversari, a passare sotto silenzio i loro lati positivi e a non prendere in considerazione le loro motivazioni e la loro eventuale buona fede, è una caratteristica del linguaggio polemico in tutta l'antichità, rilevabile anche all'interno del giudaismo e del cristianesimo primitivo nei riguardi dei dissidenti di ogni genere.

Essendo il Nuovo Testamento essenzialmente una proclamazione del compimento del disegno di Dio in Gesù Cristo, esso si trova in forte disaccordo con la grande maggioranza del popolo ebraico, che non crede a questo compimento. Il Nuovo Testamento esprime quindi al tempo stesso il suo legame con la rivelazione dell'Antico Testamento e il suo disaccordo con la Sinagoga. Questo disaccordo non può essere qualificato come « antigiudaismo », perché si tratta di un disaccordo al livello di credenza, fonte di controversie religiose tra due gruppi umani che, condividendo la stessa base di fede nell'Antico Testamento, si dividono poi sul modo di concepire lo sviluppo ulteriore di questa fede. Per quanto profondo possa essere, un tale dissenso non implica affatto ostilità reciproca. L'esempio di Paolo in Rm 9–11 dimostra che, al contrario, un atteggiamento di rispetto, di stima e di amore per il popolo ebraico è il solo atteggiamento veramente cristiano in questa situazione che fa misteriosamente parte del disegno, totalmente positivo, di Dio. Il dialogo resta possibile, poiché ebrei e cristiani posseggono un ricco patrimonio comune che li unisce, ed è fortemente auspicabile, per eliminare progressivamente, da una parte e dall'altra, pregiudizi e incomprensioni, per favorire una migliore conoscenza del patrimonio comune e per rafforzare i reciproci legami.