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MEMORIA RUBATA Jason Pinter Harlequin Mondadori S.p.A. Via Marco D'Aviano 2 - 20131 Milano Questo volume è stato impresso nel febbraio 2010 presso la Rotolito Lombarda - Milano Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con Harlequin Enterprises II B.V. / S.à.r.l Luxembourg. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. 5 6 7 8 9

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Jason Pinter

MEMORIA RUBATA

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Titolo originale dell'edizione in lingua inglese: The Stolen Mira Books

© 2008 Jason Pinter Traduzione di Barbara Piccioli

Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto

di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con

Harlequin Enterprises II B.V. / S.à.r.l Luxembourg. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

persone della vita reale è puramente casuale.

© 2010 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano Prima edizione I Nuovi Bestsellers Special

marzo 2010

Questo volume è stato impresso nel febbraio 2010 presso la Rotolito Lombarda - Milano

I NUOVI BESTSELLERS SPECIAL

ISSN 1124 - 3538 Periodico mensile n. 102S del 20/3/2010

Direttore responsabile: Alessandra Bazardi Registrazione Tribunale di Milano n. 369 del 25/6/1994 Spedizione in abbonamento postale a tariffa editoriale

Aut. n. 21470/2LL del 30/10/1981 DIRPOSTEL VERONA Distributore per l'Italia e per l'Estero: Press-Di Distribuzione

Stampa & Multimedia S.r.l. - 20090 Segrate (MI) Gli arretrati possono essere richiesti

contattando il Servizio Arretrati al numero: 199 162171

Harlequin Mondadori S.p.A. Via Marco D'Aviano 2 - 20131 Milano

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PROLOGO

«Finito.» Salvai il documento e mi appoggiai all'indietro sulla se-dia. Il mio corpo aveva finito per abituarsi alla sua scomodi-tà. In quegli ultimi mesi, ero quasi sempre rincasato con l'osso sacro dolente o la schiena rigida, chiedendomi se l'uf-ficio incaricato dell'arredo avrebbe chiuso un occhio e ac-quistato per me un modello più confortevole. Ma avevo fi-nito col dimenticarmene e quel giorno mi accorsi che da un pezzo non pensavo più al dolore e all'indolenzimento. Erano diventati parte di me. Gli ultimi tre giorni, e le ultime tre notti, erano volati via in un turbine di tasti digitati, contenitori per cibo cinese e tazze di caffè vuote. Mi pendeva sulla testa quel genere di scadenza che solo un anno prima mi avrebbe fatto sudare freddo, mentre ora quasi non accelerava neppure i battiti del mio cuore. La verità era che senza quelle scadenze a mante-nermi concentrato, sarei stato incapace di tenere a bada il dolore. Salvato il file, guardai fuori della finestra, affacciata sul Rockefeller Center. La vista era cambiata... il vivido sole del pomeriggio d'estate aveva lasciato il posto alla notte newyorkese, durante la quale le luci sempre accese stravol-gevano il senso del tempo. Fino a poco tempo prima, la notte aveva invariabilmente

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annunciato per me la fine della giornata lavorativa. Spedivo il pezzo a Evelyn Waterstone, caporedattrice delle pagine metropolitane della Gazette, raccoglievo le mie cose, lan-ciavo un saluto ai colleghi del turno di notte e me ne andavo a casa, dove trovavo Amanda. Il racconto della giornata, una doccia calda, magari un film o uno spettacolo registrato in precedenza. Per poi addormentarmi con una ciocca dei suoi capelli sul viso. Amanda. Ci siamo conosciuti due anni fa, e quel primo incontro non avvenne rispettando i canoni della commedia romanti-ca. Quando le nostre strade s'incrociarono, io ero in fuga, falsamente accusato di omicidio. Nessuno a cui rivolgermi, nessun luogo dove andare. E, quando stavo per toccare il fondo, Amanda, una perfetta sconosciuta, mi tese la mano. Mi salvò la vita. Anche lei era in fuga, ma dai suoi demoni. Con una famiglia dissestata alle spalle, aveva trascorso l'in-fanzia ricostruendo la propria vita in piccoli taccuini; per-suasa che chiunque avesse incontrato, avrebbe finito per abbandonarla. Fu questo ad avvicinarci. Eravamo entrambi anime spezzate, ma insieme costituivamo un intero. Lei era tutto quello che cercavo in una compagna. Era forte, brillan-te, bella. E rideva delle mie battute che invece mettevano in imbarazzo gli altri. La ripagai offrendole tutto l'amore che avevo da darle. Se le avessi donato solo quello, sarebbe sta-to più che abbastanza. Furono gli altri miei fardelli a rivelar-si troppo pesanti per il nostro rapporto. Sei mesi prima, un killer aveva cominciato a terrorizzare la città giustiziando pubblicamente coloro che giudicava meritevoli della sua ira. Ero riuscito a districare le fila del suo misterioso passato e a scoprire l'orrenda verità che si ce-lava nelle sue origini. Nel corso delle indagini, l'attenzione dell'assassino si appuntò non solo su di me, ma anche su co-loro che amavo.

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Aggredì brutalmente la mia ex, Mya Loverne, lasciando-la in fin di vita. Fece irruzione nell'ufficio di Amanda presso la New York Legal Aid Society, e quasi la uccise. Fu allora, dopo quegli atti di violenza, che capii cosa dovessi fare. Per proteggere quelli che amavo, dovevo abbandonarli. Dovevo proteggerli da me stesso. Non c'era niente che desiderassi di più che passare il resto della vita con Amanda, a giocare a bocce e cenare alle sei e mezzo, facendo insomma quello che fanno le coppie anzia-ne. In questa città tutti si lamentano di come sia difficile in-contrare qualcuno, perciò, quando trovi la persona giusta, te la tieni stretta. Sfortunatamente, io ero costretto ad agire nel modo contrario. Amanda aveva rischiato di morire a causa mia, del mio lavoro. E poiché il mestiere di giornalista lo avevo nel san-gue, rabbrividivo nel pensare che era solo questione di tem-po prima che accadesse il peggio. Così la lasciai. In mezzo alla strada. E da quel giorno ho avuto tempo in abbondanza per riflettere sulla mia decisione. Sono sei mesi che non ci parliamo. Il mio appartamento, un tempo riscaldato dalla sua presenza, è ora freddo e per nulla invitante. Il forno, che lei usava per carbonizzare i no-stri tentativi di preparare le lasagne, non vede una pirofila da settimane. Le stanze sono ridotte alla trascuratezza più totale, abbandonate da un uomo che si sente un estraneo nella sua stessa casa. Il lavoro era sempre stata la mia passione. Adesso era tut-ta la mia vita. Sotto la scrivania tenevo una sacca di tela contenente una camicia pulita, pantaloni comodi e un paio di mocassini. Un giorno sì e uno no, mi avventuravo nella mia abitazione o-stile, mi liberavo degli abiti sporchi e preparavo un cambio. Una settimana sì e una no, mandavo il tutto in lavanderia, dando nuovamente inizio al ciclo. Mi cambiavo nel bagno

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degli uomini, attirando le occhiate dei miei colleghi che sembravano dire Non ce l'avevi già addosso quella roba? Nel sentire un rumore dietro di me, mi voltai. Evelyn Waterstone marciava verso la mia scrivania. La caporedat-trice non mi aveva quasi salutato il giorno in cui avevo ini-ziato a lavorare alla Gazette, ma col tempo si era addolcita. Prossima alla sessantina, era una donna solida che esigeva attenzione e rispetto, il tipo che ti fa fare un salto indietro quando ti passa vicino. Come molti dei grandi talenti del giornale non era sposata, né aveva figli. Ed era uno dei mi-gliori capi del settore. In qualche modo, mi ero conquistato il suo riluttante rispetto; e pensavo che, finché avessi tenuto la testa bassa e fatto quello che sapevo far meglio, lo avrei mantenuto. «Ho letto il tuo pezzo, Parker» esordì fermandosi un i-stante prima di sbattere contro la mia scrivania. «Sono pron-ta a scommettere che devi esserti fatto trapiantare un cervel-lo nuovo quest'anno, oppure hai seguito un corso di gram-matica di base. È quasi un mese che, quando leggo i tuoi ar-ticoli, non devo sbattere la testa contro il muro per la fru-strazione. Continua così e potrei addirittura smettere di prendere le pillole per l'emicrania.» «Dicono che la lettura cura tutte le malattie» risposi. Lei mi guardò scettica. «Chi lo dice?» «Lo sai... loro.» «Di' a loro da parte mia dove possono mettersi le loro ci-tazioni. Comunque, tu continua in questo modo non proprio orribile. Avrò più tempo per i primitivi che non hanno an-cora compreso la differenza fra e e ed.» Lanciò un'occhiata a Frank Rourke, titolare della rubrica sportiva e per cui la grammatica restava un sapere astruso e oscuro. Poi Evelyn si chinò su di me. Mi annusò. Arricciò il naso. «Mio Dio, Parker, puzzi più di O'Donnell la mattina suc-cessiva al giorno di San Patrizio. I tuoi abiti saranno anche

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puliti, ma tu puzzi come il pannolone di mio nipote. Vai a casa e fatti una doccia. Fallo, o dirò a Wallace che i topi in-festano le vicinanze della tua scrivania.» «Non posso essere così terribile» borbottai annusandomi un'ascella. Abbassai immediatamente il braccio. «Vado.» Allontanatasi Evelyn, aprii la borsa degli indumenti, l'an-nusai e mi affrettai a richiuderla. Forse avrei fatto meglio a gettarla nel fuoco e a non pensarci più. Lasciai l'ufficio e tornai a casa in taxi. Nel giro di dieci minuti, avevo fatto la doccia e indossato abiti puliti. Un al-tro taxi mi ricondusse al Rockefeller Center, da dove prose-guii per l'ufficio animato da un senso di fierezza che sapevo del tutto infondato. Salutai gli addetti alla sicurezza, ma e-rano troppo occupati a seguire una partita per notarmi. La redazione era quasi deserta.. Dal cassetto estrassi un cuscino che mi ero regalato di recente e lo infilai in una fe-dera pulita prelevata dalla borsa. Da qualche parte in quei cassetti, sepolta sotto montagne di carte, c'era una foto di Amanda. L'avevo scattata l'estate precedente a un concerto a Jones Beach. Pioveva e ricordo che temevo che la mac-china fotografica si rovinasse. Amanda mi disse di non pre-occuparmi: se i momenti speciali non avessero meritato qualche rischio, cosa li avrebbe resi speciali? Senza rispondere, scattai la foto. Aveva ragione lei. Quel momento valeva ben più di qualche rischio. Nella foto, Amanda aveva i capelli castani incollati alle guance e al col-lo. Il top bagnato le aderiva al busto. Aveva gli occhi chiusi, concentrata sulla musica. Era la mia foto preferita e in pas-sato l'avevo tenuta sulla scrivania. Ora non potevo neppure guardarla, perché mi riportava alla notte in cui avevo rinun-ciato alla cosa più bella che avessi mai avuto. Poi feci quello che avevo fatto ogni notte negli ultimi quattro mesi. Collocai il cuscino sulla scrivania, ci posai la testa, e dormii.

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CAPITOLO

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«James, porta qui il didietro e finisci la verdura!» La voce di Shelly echeggiò in tutta la casa, e anche se a James Linwood, otto anni, furono necessari solo trenta se-condi per abbandonare il videogioco, al suo arrivo Tasha, la sorella minore, era già a tavola e masticava rumorosamente un gambo di sedano. Appena James sedette, la bambina, che a sei anni era già maestra nel gioco della rivalità frater-na, gli mostrò la lingua verdastra. James fu più che felice di ricambiare. «Ora basta, voi due. James, tesoro, non ti avevo dato il permesso di alzarti. Il permesso devi chiederlo.» Il ragazzi-no guardò la madre e, con un sospiro esagerato, infilzò una singola foglia di insalata. Fece una smorfia. «Non capisco perché mi guardi» riprese Shelly. «Ci sono persone a cui la verdura piace.» Tasha annuì e si cacciò in bocca l'intero gambo di seda-no. «Sono persone stupide» mugugnò James, mangiucchian-do l'insalata. «Non direi. Se tu sapessi quanti minerali e vitamine pos-siedono le verdure, capiresti che in realtà chi le mangia sono persone in gamba» obiettò Shelly. «Sapevi che LeBron Ja-mes consuma sempre una doppia porzione di carote prima di una partita?»

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«Non è vero» replicò James. «È vero» disse Shelly. «È vero» disse Tasha. James scoccò alla sorella un'occhiata gelida. Strappò qualche foglia e cominciò a masticarle con vigore. Shelly guardava mangiare i bambini, più interessati alla sua approvazione che all'alimentazione. Dalla veranda po-steriore arrivava il tintinnio leggero delle campanelle se-gnavento, così come le voci amplificate di un programma televisivo provenienti dalla casa accanto. L'udito della si-gnora Niedernman aveva cominciato a peggiorare l'anno prima, e ora la donna seguiva la tv a un volume così alto che probabilmente lo sentivano perfino nello spazio. Shelly si concesse un momento per guardarsi intorno. So-lo pochi anni prima, la veranda sul retro era infestata dalle termiti, sul punto di cedere da un momento all'altro. Per nul-la al mondo lei avrebbe permesso ai bambini di andare a giocarci. Randy non se l'era mai cavata troppo bene con i lavori manuali e non avevano il denaro necessario alla ri-strutturazione. Dopo la terribile prova che aveva visto la disintegrazione della famiglia, l'Associazione dei Buoni Samaritani della Contea di Hobbs si era fatta avanti per dare una mano ai Linwood. Ora, quasi non passava giorno senza che James e Tasha non corressero sulla veranda con le loro pistole ad acqua, o si lasciassero dondolare dalla balaustrata come una coppia di scimmiette. Quando i bambini erano a scuola, e Randy al lavoro, Shelly si scopriva spesso a guardare le vecchie foto della casa, scattate quando vi si erano trasferiti, anni prima. Quasi non la riconosceva. La vernice bianca era fresca, le rifiniture azzurre dipinte con cura, la cassetta della posta bene eretta sulla sua colon-nina. Nessuno scaraventava uova contro la loro casa a Hal-

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loween; e lei non era mai costretta a chiamare la polizia per denunciare i ragazzotti che, un tempo, avevano l'abitudine di recarvisi una volta alla settimana per abbattere la cassetta della posta con le mazze da baseball. Cose simili non capi-tavano più. C'erano più poliziotti; Shelly ne percepiva la presenza. Si fermavano spesso, giusto per vedere come se la cavavano lei e Randy. Sto bene, rispondeva invariabilmente Shelly. Stiamo bene. Gli agenti rifiutavano ogni volta l'offerta di una tazza di caffè, quasi temessero che la prossimità al dolore potesse contagiarli. James stava attaccando con riluttanza gli ultimi bocconi quando suonò il campanello della porta. «Dev'essere papà» disse Shelly. «Stamattina avrà dimen-ticato di nuovo le chiavi. James, andresti ad aprire?» Il bam-bino non si mosse. «Mi hai sentito?» «Sto pulendo il piatto come hai detto tu. Non posso aprire la porta e mangiare contemporaneamente.» Sorrise, e Shelly sospirò, benché fiera fra sé e sé dell'intelligenza del figlio. «D'accordo, puoi smettere di mangiare e andare ad aprire. Ma se mi accorgo che hai riacceso il videogame prima di aver finito i compiti, non vedrai più la televisione fino al giorno del diploma.» James scattò in piedi come sparato da un cannone, e cor-se via. Shelly sorrise alla figlia. Tasha. La sua splendida bambi-na, che sarebbe cresciuta forte e vivace come sua madre non era mai stata. Posò la mano sulla guancia della piccola, che sorrise, un largo sorriso pieno di denti. «Mamma?» Dall'ingresso echeggiò la voce di James. «C'è un ragazzo. Conosci qualcuno che si chiama Daniel?» Il tovagliolino di carta sfuggì dalla mano di Shelly e ve-leggiò al suolo. «Cosa... cos'hai detto, tesoro?»

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«Daniel... un ragazzo che dice di conoscerti. Aspetta, puoi ripetere cosa...? Uh, mamma? Dice... dice che tu sei la sua mamma.» Shelly era già in piedi. Attraversò correndo il soggiorno, minacciando di rovesciare il tavolino da caffè, e in un lam-po fu nell'ingresso. La porta di legno era aperta a rivelare quella a rete. Al di là di essa, c'era un ragazzetto dall'espressione confusa. Sem-brava si stesse chiedendo perché non era ancora stato invita-to a entrare. Shelly si coprì la bocca con la mano per soffo-care un grido. Perché al di là della porta a rete c'era un ragazzo che lei conosceva e, allo stesso tempo, non conosceva. Alto un me-tro e sessanta, aveva una ciocca di capelli scuri che gli rica-deva sugli occhi color nocciola. Gli occhi di suo padre. Era ossuto, pieno di angoli acuti, come se fosse cresciuto troppo in fretta e la carne non avesse avuto il tempo di ricoprire per intero le ossa. Tutto e nulla era come lei ricordava. «Tesoro, oh, mio Dio...» Spinse gentilmente da parte James e spalancò la porta a rete. Il ragazzo la guardava con un misto di sconcerto e va-go riconoscimento, come se un ricordo lontano stesse len-tamente riaffiorando. Non si mosse. Invece, cercò gli occhi di lei come se fosse in attesa di qualcosa. Prima che trascor-resse un altro secondo, Shelly Linwood lo stringeva a sé come se fosse per l'ultima volta, e dopo un istante sentì le braccia di lui sollevarsi con esitazione e cingerle la vita. Ri-pensò allora alla sensazione che provava nel tenerlo in brac-cio tanti anni prima; e benché fosse ora più pesante, era lo stesso bambino che nei suoi primi sei anni di vita si era ac-coccolato fra le sue braccia. Gli riversò sulla testa una piog-gia di baci, fino a che lui si ritrasse con un sorriso imbaraz-zato sul giovane volto. «Oh mio Dio, oh mio Dio, oh mio Dio» ansimò Shelly.

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«Tesoro, sei davvero tu?» Il ragazzo fece appena in tempo a stringersi nelle spalle, prima di venire avviluppato in un al-tro frenetico abbraccio. Shelly sentì un'auto avvicinarsi e accostare. Quando il motore si spense, lei alzò gli occhi sulla Volvo metallizzata 740 di Randy. La portiera si aprì e comparve suo marito. A quarantun anni, Randy, pesava solo cinque chili in più di quando si erano conosciuti, alle superiori. La mascella era ancora ben disegnata al di sopra della leggera pappagorgia, e le braccia conservavano parte della tonicità dei suoi giorni di giocatore di baseball. Shelly amava passargli le mani sul corpo quando lui le stava sopra. Era passato un anno da quando aveva provato per l'ultima volta quella sensazione, ma ora avvertiva il bisogno di sentirlo il più vicino possibi-le. La sua famiglia. Randy si passò una mano fra i capelli che andavano dira-dandosi, poi si chinò a recuperare la ventiquattrore. «Tesoro» disse, notando la confusione sulla veranda. «Ti prego, dimmi che è rimasta una birra in frigo, perché...» «È Daniel» proruppe Shelly. «È tornato.» Randy la guardò, senza capire. Poi l'intera scena si mise a fuoco e lui lasciò cadere la ventiquattrore. Rimase immobile un istante, scuotendo la testa, quindi corse su per gli scalini. Posò la mano sulla fronte del ragazzo, scrutandone gli occhi giovani, perplessi. Poi si unì all'abbraccio della moglie. «Siete tutti strani» borbottò James. «Non capisco. Chi è?» «Lui» rispose Randy, girandosi a mostrare il viso inonda-to di lacrime. «È vostro fratello. Si chiama Daniel. Ti ricordi di lui?» James aveva appena tre anni quando era successo. Shelly non la prese come un fatto personale quando vide Daniel scrutare il fratello, sul viso un'espressione perplessa e forse

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un barlume di riconoscimento nella memoria. «Mio fratello?» ripeté James. «Credevo che fosse stato, insomma, rapito o qualcosa del genere.» «E così era» rispose Shelly, accarezzando i capelli di Da-niel. «Ma grazie a te, Dio, in qualche modo ha ritrovato la strada di casa.» James guardò Daniel. Il suo corpo non mostrava lividi, né tagli o escoriazioni. I suoi vestiti erano talmente nuovi che avrebbero potuto avere ancora attaccato il cartellino del prezzo. Shelly sapeva che, all'epoca, James era molto picco-lo; ma non poteva fare a meno di chiedersi se ricordasse l'andirivieni che, per tanti giorni, aveva riempito la casa di confusione. Uomini e donne che portavano distintivi, e altri, più chiassosi, con macchine fotografiche e microfoni. Tem-po dopo, in occasione di una caccia alle uova pasquali, Shelly era entrata in camera da letto per trovare James e Ta-sha frugare in un baule pieno di ritagli di giornali che parla-vano della scomparsa di Daniel. James aveva chiesto di lui una volta soltanto e la madre gli aveva risposto con un'unica lacrima e le labbra tremanti. Lui non aveva più fatto do-mande. Per Shelly, quella era la volontà di Dio. Il destino aveva voluto che la loro famiglia tornasse a riunirsi. James Linwood, invece, non riusciva a capire come po-tesse suo fratello, scomparso quasi cinque anni prima senza lasciare traccia, ricomparire come per magia senza nemme-no un graffio.

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