brividi - abaluth · linda barbisan, francesco corigliano, davide schito marco santi, bianca...

94

Upload: dinhthuan

Post on 15-Feb-2019

224 views

Category:

Documents


0 download

TRANSCRIPT

BrividiLinda Barbisan, Francesco Corigliano, Davide Schito

Marco Santi, Bianca Campagnolo, Rossana ZagoMarco Pilotto, Giuseppe De Micheli, Cettina Barbera

Lucia Stefania La Braca, Elio Errichiello, Sonia Tortora Mariano Gatti, Nunzia D’Aquale

Copertina diIlaria Tuti

Immagini di copertina diMarco Santi

Impaginazione diFabrizia Scorzoni

Prima edizione novembre 2012

Questo ebook è distribuito con Licenza Creative Commons BY-NC-NDÈ consentita la riproduzione, parziale o totale, dell’opera e la sua diffusione a uso personale dei lettori, purché sia riconosciuta l’attribuzione dell’opera al suo autore, l’opera non venga modificata e non venga riprodotta a scopo commerciale.http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0/

Abaluth

Sommario

Bamboline..................................................................................1L’isolamento...............................................................................5Istantanee di una vita felice .....................................................12Zompo, Zompo........................................................................20Magdalena................................................................................23La rapina..................................................................................29La ballerina..............................................................................35Giù ...........................................................................................43Il gelo nel cuore.......................................................................52Questa notte.............................................................................63L’ora più buia...........................................................................69Scherzi della mente..................................................................77Il riflesso..................................................................................80Risveglio mortale.....................................................................86

AbaluthBrividi

BambolineLinda Barbisan

Federica scende le scale a passo leggero, Alessandra è già sotto il condominio, tutta incappucciata, che l’aspetta. Sono entrambe in tenuta da jogging, scarpini e tuta da ginnastica, fascia di pile sulla fronte e adesivo catarifrangente all’avambraccio: pronte per correre i soliti quarantacinque minuti in una fredda mattinata di dicembre.

«Ciao Ale, scusa il ritardo!»«Ciao, tranquilla, sono appena scesa! Che freddo oggi!»«Sì, si gela, domani mi metto anche i guanti...»Iniziano l’allenamento camminando a passo spedito, si allontanano

dal loro condominio e si lasciano alle spalle una vecchia fabbrica chiusa; all’incrocio imboccano la via che le porta alla pista ciclabile, direzione Portogruaro: la percorrono tutte le mattine alle sei, tre chilometri all’andata e tre al ritorno, così ben illuminata e con un marciapiede alto e spazioso.

Pian piano iniziano ad accelerare fino a correre a passo leggero: non sono due atlete, ma sono felici di aver scoperto questo metodo di rimettersi in forma insieme, senza spese. È inverno e non si arriva a zero gradi, il fiato congela appena esce dalla bocca, ma correre le fa sentire bene; sono felici, ridono e parlano per tutta la strada.

Io le guardo.Abito lì vicino, in una casetta bianca accanto al loro condominio. Dalla

finestra della mia camera le vedo quando escono la mattina presto, al buio, tutte intirizzite dall’aria fresca. Poi quando tornano sono calde, vedo il vapore sprigionato dai loro corpi. Le continuo a guardare quando rientrano nel portone e penso che le vorrei davvero, le vorrei proprio tanto.

«Ale! Cosa ti succede?» Alessandra si è accasciata a terra in un attimo, senza un lamento. Federica si inginocchia accanto a lei: «Ale ti prego, parlami!»

1

AbaluthBrividi

C’è una luce fioca che attraversa il buio quando Federica apre gli occhi. Lo fa lentamente, le palpebre sono pesanti, lo sforzo le costa molta fatica. Prova a muoversi: prima le dita, la mano, poi una gamba, il piede, ma i muscoli sono rigidi e i polsi le bruciano. La testa sembra trafitta da mille pugnali, il dolore è intenso e martellante.

Pian piano riesce a mettersi seduta, si guarda attorno: c’è Alessandra accanto a lei, stesa a terra, forse svenuta. Federica si avvicina strisciando e la scuote; la sua amica si lamenta piano, ancora a occhi chiusi, ma sprofonda di nuovo nell’incoscienza. Prova a capire dove si trova, a ricordare dov’era prima di finire lì per terra, in quel luogo buio e sconosciuto. Le sembra di trovarsi in una stanza, forse un garage, misero e senza finestre, con una piccolissima fenditura in alto, nella parete di fronte a lei: da lì proviene la luce debole che l’ha svegliata. Sono entrambe ancora vestite da jogging, anche se sporche di terra e con qualche sbucciatura nella maglia e nei pantaloni.

Ecco, stavano correndo, adesso si ricorda! Poi Alessandra è caduta a terra… e da lì il vuoto.

«Dove siamo? Mio Dio, Ale ti prego svegliati, cos’è successo? Dove ci troviamo?» sussurra Federica; prova a scuoterla, ma Alessandra non si muove. Si sfrega i polsi e le caviglie per riattivare la circolazione, poi sente un rumore.

Dei passi.Un cigolio, una porta che si apre.Il cuore si ferma; è impietrita dal terrore, ormai è sicura di essere

stata rapita. La porta si apre piano, non l’aveva vista prima perché è dipinta di bianco, dello stesso colore del muro.

Entra qualcuno.Un’ombra, una persona.Gli occhi le si riempiono di lacrime, non sa cosa fare, cosa

aspettarsi, come reagire. Può tentare di scappare? Può colpire il suo rapitore? E con cosa? Non si regge nemmeno in piedi!

L’ombra si avvicina lentamente, lei lo guarda in faccia tremante: è un ragazzino! Avrà tredici anni, forse quattordici, lo sguardo vivace, il viso gentile, le sorride: forse la vuole liberare!

2

AbaluthBrividi

«Ti prego aiutaci, non so dove siamo, mi sono svegliata qui, stesa a terra.» Il suo tono è una supplica, lo guarda negli occhi e il ragazzo le si avvicina, lentamente; piega piano la testa, come per osservarla meglio, poi carica e le sferra un calcio nello stomaco.

Non dice una parola, il volto imperturbabile. Federica respira a fatica, è piegata in due dal dolore, il viso quasi a contatto con il suolo freddo. Il terrore si è definitivamente impossessato di lei, piange e non riesce a fermarsi, singhiozza convulsamente. Alza lo sguardo e lo vede sopra di lei, con una siringa in mano, pronto a iniettarle qualcosa. Sente una puntura nel collo, un bruciore terribile e la sua voce che gli dice piano, in un orecchio: «Non volevo farti male, ma tu mi fai arrabbiare. Stai zitta e buona, sei mia adesso.»

Federica urla: apre la bocca in una smorfia di dolore misto a orrore, ma nessun suono esce dalla sua bocca, e in un attimo perde i sensi. Chiude gli occhi, la sua mente è vuota, nessun pensiero se non la paura di non svegliarsi più; crede di sognare già quando sente una voce flebile che giunge da lontano: «Mattia! Quante volte devo chiamarti? Sei sempre chiuso in quella cantina! Vuoi salire? È pronto il pranzo!»

«Arrivo, mamma, un attimo, finisco una cosa veloce!»

Sorrido mentre esco dalla cantina, le guardo ancora un attimo, le mie due bamboline, e chiudo la porta. Salgo veloce le scale per non farmi chiamare due volte; mamma si arrabbia se il pranzo si fredda. Però che successo oggi! Non posso che essere compiaciuto, ne ho prese addirittura due! Papà sarà così felice, così fiero di me.

Alessandra si sveglia piano, gli occhi pesanti e un odore terribile di alcool e medicinali nell’aria. La nausea la sorprende e un conato di vomito la scuote all’improvviso. Si pulisce la bocca con la mano, cos’è successo? Le lacrime le scendono dal viso, forse per l’agitazione, forse per il senso di nausea o perché non riesce a capire dove si trova. Alza appena la testa e già questo le costa uno sforzo immane: si concentra, chiama a raccolta le sue poche forze, respira profondamente e si mette seduta.

3

AbaluthBrividi

Ha freddo, è in una stanza chiusa, buia. Apre bene gli occhi e vede un tavolo in mezzo alla stanza, nella penombra, con sopra qualcosa.

Una persona, forse.Sì, c’è qualcuno lì steso, immobile.La paura le fa chiudere di nuovo gli occhi, non sa se avvicinarsi o meno.Dove si trova, chi è quel corpo? È una persona viva? Poi si scuote,

guarda meglio e nota i capelli castani, lunghi e lucenti di Federica, che sporgono fuori dal lettino. Si alza in piedi a fatica, appoggiandosi al muro. Le manca il fiato, ma riesce ad avvicinarsi pian piano alla sua amica: «Fede arrivo» dice con un filo di voce.

Federica è sopra il tavolo, immobile. È truccata, ben pettinata e ben vestita: ha un abito lungo, scollato, color avorio, e il suo colorito è così rosa.

«Fede svegliati, ti prego!»Alessandra la scuote, ma l’amica non si sveglia, resta fredda e

immobile. Allora avvicina l’orecchio alla sua bocca: non si sente niente, non respira! L’hanno uccisa, è morta! Poi vede qualcosa subito sotto il seno, un segno, forse un taglio. Apre il vestito con le mani ancora tremanti e resta impietrita: la cicatrice è lunghissima, dal seno all’inguine, molto evidente e molto chiara. Quasi come se non ci fosse più sangue nelle sue vene.

Cosa le hanno fatto? La prende tra le braccia e la sente così leggera… come una bambola di pezza…

«Ti sei svegliata, Alessandra? Pronta per diventare la mia bambolina bionda?» La guardo con un sorriso dolce, com’è carina! Dietro di me c’è mio padre: in mano ha tutto il necessario per togliere per bene il sangue, aprire lo sterno, sezionare uno a uno e poi togliere gli organi interni. Solo così resterà bella per sempre! Oh, lei sarà un vero capolavoro! Ormai siamo diventati bravi, ci siamo esercitati tanto con gli animali, però papà preferisce le ragazze: queste due sono state una bella sorpresa per lui, è così felice ed eccitato!

Peccato, però: avevo iniettato troppo poco anestetico alla mia bionda Alessandra, e questo vuol dire che sentirà male, poverina.

4

AbaluthBrividi

L’isolamentoFrancesco Corigliano

«In isolamento, vi dico.»«Ma perché?»«Sentite, non è colpa mia, va bene? Hanno ordinato così. Andiamo.»La guardia lo afferrò dalla collottola, tirandolo su, e lo costrinse a

camminare; percorrendo il corridoio, le catene che si trascinava dietro facevano un gran fracasso.

«Forza,» fece il carceriere, «non rendete le cose peggiori di quel che già sono. Muovetevi. È tardi.»

«La fate facile, voi. Sono io quello col ferro ai piedi. E voi non volete dirmi il perché dell’isolamento…»

«Perché, perché» ribatté l’altro, fermandosi ad aprire una porta e spingendo avanti il prigioniero, «sapete meglio di me come funziona qui. Non c’è sempre un perché. Ora, scendete.»

La porta dava su una piccola stanza, illuminata a malapena da una minuscola grata; nel pavimento si apriva invece una scala a chiocciola che scendeva giù, nelle profondità delle segrete. Lui ci era già stato e non gli piacevano proprio: per quanto potesse essere sgradevole una cella, la sua era di certo preferibile alla zona sotterranea del vecchio carcere. Incassate nelle fondamenta dell’edificio, le segrete erano la zona più antica, secondo alcune stime risalente addirittura all’alto Medioevo; stanzette minute, a volte scavate direttamente nella roccia, umidissime e puzzolenti. Laggiù si respirava un’aria stantia, rafferma, quasi fosse sempre la stessa da quando il convento era stato trasformato in carcere, secoli addietro.

E ora lo prendevano dalla sua cella e lo cacciavano lì dentro. Perché?Era vero che la politica della prigione era strana, ultimamente;

gente presa e spostata in altri locali, gente liberata, gente sparita nel nulla. La cosa inquietava un po’ i prigionieri, e già avevano iniziato a girare storie su scambi di persone, omicidi, anche una vecchia

5

AbaluthBrividi

leggenda su certi riti oscuri praticati nel convento medievale…ma in tempo di guerra, si sapeva, c’era sempre una gran confusione e una gran voglia di chiacchierare.

Giunsero alla fine della scala, e presero il vecchio corridoio che conduceva alle celle; vide molte porte chiuse, segno che altri erano stati portati in isolamento.

Meccanicamente si fermò davanti alla prima porta aperta, sicuro che gli toccasse entrare; ma la guardia lo spinse oltre.

Lo condusse per altri corridoi, androni, sale; non avrebbe mai detto che i sotterranei del carcere potessero essere così estesi.

E iniziò ad inquietarsi. Se prima era quasi seccato dal doversi sorbire qualche giorno d’isolamento, ora la noia faceva posto alla paura e a tutte quelle storie sulla gente scomparsa nel carcere; certo, quando c’era un’esecuzione lo si sapeva subito… ma se le guardie avessero voluto far tutto di nascosto? Se l’avessero ucciso lì, e basta? Perché poi?

La guardia continuò a guidarlo per anfratti e cunicoli, finché non giunsero ad un’altra scalinata; diritta, scendeva in profondità e nel buio. Il carceriere prese una torcia dal muro, e sguainò il coltellaccio che portava legato alla cinta.

“Ecco,” pensò il prigioniero, “adesso mi ammazzano qui e mi lasciano a marcire nei sotterranei”, e stava già per urlare.

Ma l’altro lo anticipò. «Scendete, per favore.»«Dove mi portate?»«In isolamento. Scendete, per favore.»«Volete uccidermi?»«Oh, ma che dite? Ve l’ho detto, andate in isolamento.»«Ma le celle vuote, prima…»«Sentite, vi ho già chiesto cortesemente di non rendere le cose più

pesanti. Vi assicuro che non devo uccidervi.»«E il vostro coltello, allora?»«È per precauzione.»«Per cosa?»«Per favore, non costringetemi a usare la forza. Scendete.»

6

AbaluthBrividi

Titubante e dubbioso, iniziò a scendere le scale. I gradini erano umidi, ricoperti di muffa, ma si capiva che erano di una pietra diversa rispetto al resto delle segrete. Mattoni più grossi, più chiari.

Incespicò un paio di volte nelle proprie catene, trattenuto dalla guardia che gli impedì di cadere. La discesa continuò per un bel po’, alla sola luce della torcia; poi, giunti alla fine, la guardia lo spinse ancora oltre l’ultimo gradino, sul pavimento anch’esso in mattoni, davanti ad una porta di legno dall’aspetto vetusto.

«Lì,» disse la guardia tirando l’anta, «lì dentro. Entrate.»«Fa freddo qui sotto.»«Vi porterò una coperta, dopo. Ora entrate.»Si fece coraggio e varcò la soglia, immergendosi nel buio più

completo. Non c’era assolutamente nessuna fonte di luce nella stanza, e la torcia del secondino riusciva appena a illuminare l’ingresso. Stava già per voltarsi e chiedergli di portarlo altrove, quando la porta si richiuse alle sue spalle lasciandolo da solo nell’oscurità.

L’aria puzzava di vecchio e l’umidità pareva raggiungere direttamente le ossa; nel buio completo l’uomo si avvicinò alla porta, tastando il legno. Udì i passi della guardia allontanarsi, su per le scale, perdersi lontano.

In pochi istanti, ancora con l’orecchio teso ai suoni al di là della porta, si riconobbe completamente e assolutamente solo. Solo, in una cella vecchia centinaia di anni, sotto chissà quanta terra e quanta pietra, in un posto in cui avrebbe dovuto passare chissà quanto tempo.

Intuì di stare già tremando, più per la tensione che per il freddo. Ancora in piedi davanti alla porta, cercò di calmarsi e di razionalizzare la situazione.

“Bene,” si disse, “ti hanno messo in isolamento, in una cella vecchia e buia in cui dovrai restare un bel po’. Di solito si tratta di due o tre giorni, ma è meglio non farsi illusioni. Ora, resta tranquillo, e inizia a vedere quant’è grande questo posto.”

L’idea di rendersi conto della larghezza del luogo gli piacque molto, gli sembrò un buon punto di partenza per iniziare a passare il tempo.

7

AbaluthBrividi

Fu con una certa determinazione, quindi, che prese a tastare il muro subito alla sua destra, tenendosi la porta alle spalle. Avanzò camminando piano, tenendo una mano davanti a sé e una sulle vecchie e muffose pietre. Dopo cinque passi incontrò l’altra parete, l’angolo; fece lo stesso percorso in senso opposto, ripassando davanti alla porta, incontrando l’altro muro a distanza uguale.

“Sembra,” considerò, “che la stanza sia quadrata, o al massimo rettangolare.”

Dall’angolo scelse di seguire il muro, per capire quale fosse la lunghezza della camera. Avanzò quindi nella stessa maniera, aspettandosi di trovare il fondo della stanza dopo quattro o cinque passi.

L’aria stantia iniziava a pesargli nel petto, il respiro gli veniva a fatica; e si innervosì lievemente quando si accorse che la stanza era più grande di quel che potesse aspettarsi. Aveva già fatto almeno una decina di passi, infatti, senza incontrare né muri né ostacoli di alcun tipo. Perché metterlo in isolamento in una cella così grande? Da solo, poi…

Continuò a camminare: quindici, venti, venticinque passi e ancora il fondo non si vedeva. O meglio, non si toccava, dato che il buio lì dentro era assoluto. Gli venne in mente che forse la stanza aveva pianta irregolare, e immaginò che dal muro opposto a quello che ancora toccava con la mano partisse una parete obliqua, che andasse a chiudersi in diagonale davanti a lui, sicuramente a poca distanza, ormai, tre, al massimo quattro passi…

Invece ne fece altri dieci, di passi, e non trovò nulla.Si fermò. Chiaramente c’era qualcosa di sbagliato, in quella cella.

Forse non era proprio una cella d’isolamento, forse era un magazzino, o una cisterna riadattata… o una cisterna e basta. Ma perché metterlo lì? Da solo. Ripensò ancora una volta alle storie sui prigionieri spariti nel nulla, dimenticati negli anfratti della prigione. Baggianate.

Eppure? Perché era lì? Lì e non in una cella normale? Il respiro gli si fece ancora più pesante quando avvertì uno strano olezzo nell’aria; un tanfo sottile, acido, ben distinto dalla puzza di chiuso e di umido…

Lo disgustò abbastanza. E lo fece sentire ancora più affranto; ebbe l’impulso di buttarsi a terra e piangere, ma riuscì a trattenersi.

8

AbaluthBrividi

“Piangerò vicino alla porta”, si disse istintivamente, e trovò la cosa stranamente rassicurante.

Si mescolavano in lui, infatti, la tristezza per la propria condizione di solitudine e l’inquietante sensazione di trovarsi in mezzo al nulla. Il contatto col muro era incredibilmente rincuorante, più di quanto gli sembrasse lecito aspettarsi da un muro. Del resto, non aveva mai trovato dei muri rincuoranti, prima di allora… neppure nel carcere normale, lì sopra.

Girò su se stesso e prese a fare la strada al contrario, in direzione della porta. Non poteva aprirla, sicuramente, ma era pur sempre l’unica cosa che rappresentasse il mondo fuori dalla cella; la cella, l’oceano di buio che al momento lo opprimeva così orribilmente. Trovò ulteriore conforto pensando al momento in cui ne sarebbe uscito, finalmente, e si sarebbe lamentato con la guardia di quel trattamento incredibile. Ammesso che gli fosse consentito protestare, certo.

Pensava e camminava, a ritroso accanto al muro. Poi sentì il rumore.Un rumore alle sue spalle, indefinito, lontano, secco e veloce

insieme. Senza rimbombo, o eco.Concluse che fosse uno dei tanti rumori del vecchissimo edificio, o

magari qualcuno che si muoveva ai piani di sopra… sempre che ci fossero dei piani di sopra, dato che per quanto aveva camminato con la guardia, si poteva dire che la cella fosse lontanissima dal nucleo centrale della prigione.

Nel buio, ancora, sentì un suono. Un rumore veloce, un passo.“Chi c’è”, pensò.«Chi c’è?» urlò, senza voltarsi, e un brivido gli percorse le ossa

mentre aspettava la risposta.Ma non udì niente; e intuendosi ancora i brividi addosso, avvertì

una goccia di sudore percorrergli la schiena. Si aspettava forse una risposta, lì sotto? Se ci fosse stato qualcun altro lì dentro, lo avrebbe chiamato non appena lo avesse visto entrare nella stanza. E comunque, questo ipotetico qualcuno sarebbe sicuramente stato vicino alla porta. Indubbiamente. Immaginò una fine della cella, in cui l’altro prigioniero, seduto, fermo, sdraiato, immobile, lo aveva visto entrare e stanco per…

9

AbaluthBrividi

Ma ecco, un nuovo rumore, un nuovo passo. Sentì più forte l’odore disgustoso di prima. Forte, intenso, nauseante.

Si voltò, e «chi c’è» ancora disse.La risposta fu, questa volta, un altro passo. E un altro. E un altro.

Si accorse di avere iniziato a tremare e di stare anche ansimando. «Chi è là?», urlò.

Passo, e passo. Non sembrava neanche che i rumori si avvicinassero. Forse non erano passi, forse era davvero qualcos’altro, di esterno alla cella. L’idea portava un insospettabile sollievo; essere solo, lì dentro, gli sembrava la cosa migliore al mondo. Solo, assolutamente solo, senza nessuno che camminasse. Chi aveva bisogno di qualcuno, lì? Era solo. Era solo?

No. Sentiva distintamente, e non con l’udito, che qualcuno c’era. E che in realtà si avvicinava. Avvicinava.

Si ritrovò a camminare ancora, anzi a correre lungo il muro verso la porta. Non poteva controllarsi, e riconobbe di essere nel panico. Dimenticò anche di mettere una mano avanti a sé.

E di colpo sentì l’odore acido, fortissimo; poi si accorse di essere disteso a terra, con un forte dolore alla fronte una sensazione di calore sul volto.

Aveva battuto al muro, il muro dove stava la porta. Era vicino all’angolo, e nonostante un fortissimo giramento di testa riuscì a mettersi seduto e rannicchiarsi.

Gli sembrò di avere i sensi amplificati; perfettamente avvertiva il freddo delle pietre su cui poggiava le spalle, l’umidità dell’aria, l’odore, la puzza del suo sangue mista a quella dei cadaveri in putrefazione, e il suono di passi, passi che si avvicinavano. Passi, sicuramente passi, piedi nudi uno davanti all’altro nel buio.

Non potevano vederlo, certo; ma il rumore? Il suo stesso camminare e la botta contro il muro e la sua voce e tutto quel girare di testa… i passi, tanti, più di una persona, più d’un morto avanzare, correre ora verso di lui.

Ansimava, e tremava, e ansimava sentendo il sapore ferroso del sangue tra i denti. I morti!

10

AbaluthBrividi

I morti? Ma quali morti? Era da solo, lì. Nessun passo, nessun odore, solo la sciocchezza e la stupidità della paura… si ricordò della coperta che gli aveva promesso la guardia. Gli venne da sorridere, ma non lo fece.

Non poté proprio, in nessun modo, sorridere, e fissò soltanto il buio davanti a sé. Distintamente nell’oscurità quelli correvano, senza respirare, o ansimare anche loro, niente, senza emettere nessun suono se non quello degli odiosissimi passi.

Allora urlò, al limite dell’orrore; urlò, sperando che qualcuno lo sentisse, al di là della porta, al di là dei muri, la guardia, la coperta, lontano. Il suono della sua voce si perse nello scalpiccio di quei passi furiosi; e ancora, prima che i passi e l’odore gli fossero addosso, gridando e sempre chiedendo: «Chi c’è? Chi c’è?», sperò che almeno loro, almeno i morti gli rispondessero: «Tu! Ci sei tu!»

Ma non udì niente, proprio niente, mai più.

11

AbaluthBrividi

Istantanee di una vita felice Davide Schito

Ore 2.19.Clic.«Inizio registrazione. Interrogatorio numero uno»Sono le prime parole che Nico sente risvegliandosi. È legato mani

e piedi a una sedia d’acciaio, posta al centro di una sala completamente spoglia. Sui muri tracce d’umidità che sembrano essere lì da sempre.

Fatica a mettere a fuoco la scena, Nico. Gli sembra di dormire da un tempo lunghissimo, quasi non si ricordasse più come si fa a stare svegli.

E in effetti, a parte il proprio nome, non ricorda assolutamente nulla.«Cominciamo. Sai dirmi il tuo nome? Come ti chiami.»La voce che lo ha svegliato riprende a parlare ma Nico non riesce

a concentrarsi su di essa. Gli rimbomba nella testa come un insieme di suoni senza senso.

«Sai dirmi il tuo nome?» ripete. Con fare calmo, voce piatta. Professionale, distaccato, non un’incrinatura di impazienza. Una pura formalità da svolgere.

Nico vorrebbe rispondere, ma non ci riesce. Non ci riesce perché sulla bocca ha una striscia di spesso nastro isolante grigio. Tutto ciò che gli esce è un verso indistinto.

«Non importa, tanto lo so già. Nicola Broni detto Nico, anni trentasei, residente a Milano in via privata Assab numero due» comincia a recitare come se stesse leggendo dei dati da un documento. E forse è davvero così.

«Lo sai perché sei qui, Nico?»No, non lo sa il perché. Però, seppur lentamente, sta riacquistando

lucidità. Ora riesce a mettere a fuoco la stanza intorno a sé. La sedia sulla quale è seduto.

Le fibbie di cuoio che lo tengono inchiodato mani e piedi.

12

AbaluthBrividi

«Chi cazzo sei? Dove sono?» vorrebbe urlare alla voce, ma i suoni escono ovattati e distorti.

Ora Nico ha paura. La lucidità, prendendo il sopravvento sulla chimica sonnolenza indotta, ha portato con sé la terribile consapevolezza della prigionia.

Inizia a divincolarsi sulla sedia cercando di raccogliere le poche energie.

Urla. Urla di lasciarlo andare. Chi cazzo sei, figlio di puttana? Fatti vedere!

La puntura sul collo lo sorprende da dietro.Riesce appena a intravedere un camice bianco, poco prima di

svenire di nuovo.Ore 5.44.Clic.«Inizio registrazione. Interrogatorio numero due.»Il risveglio stavolta è meno brusco. Eppure si sente peggio. Ha tutti i

muscoli indolenziti, non sente più le estremità, la bocca è impastata.«Ti sei calmato? Possiamo parlare?»Nico grugnisce qualcosa di incomprensibile verso la voce. Non ha

la forza per fare altro. La dose extra di tranquillanti di qualche ora prima avrebbe steso anche un elefante.

La voce riprende a parlare.«Ricordi come sei arrivato qui? Ricordi qualcosa della tua vita

precedente?»Vita precedente. È forse morto? Se è morto, questo è sicuramente

l’inferno.Non ricorda niente Nico. Niente di niente. La sua mente è un

quaderno bianco senza nemmeno le righe.Per la prima volta nella voce che lo sta interrogando si apre una

crepa di disappunto. Appena accennata.«Lascia che ti rinfreschi la memoria allora.»Una luce fortissima illumina la stanza. Nico non riesce a tenere gli

occhi aperti. Dura appena una decina di secondi ma gli sembrano ore.Quando li riapre, sul muro davanti a sé vede una fotografia.

13

AbaluthBrividi

L’immagine è probabilmente generata da un proiettore posto alle sue spalle, di cui comunque non sente il caratteristico ronzio.

La fotografia ritrae una donna. Una bellissima donna sulla trentina, capelli lunghi neri. Occhiali dalla montatura delicata mettono in risalto gli occhi verdi. Un sorriso appena accennato le forma due fossette sulle guance.

«Conosci questa donna, Nico?»No, non la conosce. O almeno, non ricorda di conoscerla, né di averla

mai vista. Dato irrilevante comunque, visto la completa amnesia.«So cosa pensi. Che magari la conosci ma che l’amnesia ti

impedisce di ricordare chi sia. A proposito, la memoria dovrebbe tornarti a breve. Sei contento?»

La voce pronuncia questa frase come se Nico dovesse essere riconoscente per questo. La mancanza di un ringraziamento, però, non sembra scoraggiarla più di tanto.

«Ma torniamo a noi. Vediamo se questa ti dice qualcosa.»Altra luce accecante.Altra fotografia.Stessa ragazza.Solo che questa volta è morta.Gli occhi verdi sono spalancati, fissi in uno sguardo vitreo, perso

nel vuoto. Gli occhiali giacciono accanto all’orecchio destro, le lenti frantumate.

La gola è tagliata da parte a parte con un’incisione netta, chirurgica. Del sangue fuoriesce dal profondo taglio colorando completamente di rosso la parte inferiore del collo. Piccole goccioline sono rapprese all’altezza del mento.

Nico fa un balzo sulla sedia. La paura e l’orrore si alternano nella sua mente ancora parzialmente ottenebrata dai farmaci.

Sta per urlare qualcosa, ma la voce lo precede. Ha riacquistato l’inquietante tranquillità di poco prima.

«Nico, ti presento Margherita.»Come se fosse la cosa più naturale del mondo.«Margherita è la donna che hai ucciso.»

14

AbaluthBrividi

Ore 8.05.Sono passate circa due ore dall’ultima frase pronunciata dalla

voce. Una frase che ha squarciato in due l’aria stantia della stanza conficcandosi nel cuore e nella mente di Nico. Non riesce, non può credere a ciò che ha sentito. Non ha motivi per farlo: è prigioniero di un pazzo psicotico da Dio solo sa quante ore. Un pazzo che gli ha cancellato la memoria e ora vuole accusarlo di un omicidio.

La memoria. Almeno quella ha fatto qualche progresso nelle ultime ore trascorse da solo, nella stanza divenuta improvvisamente buia, illuminata solo dalla gigantesca foto della ragazza morta proiettata sulla parete.

Negli ultimi minuti, non senza fatica, Nico è riuscito almeno a riappropriarsi del proprio passato. L’ultima cosa che ricorda è di essersi addormentato nel proprio letto, come ogni sera, dopo una faticosa giornata di lavoro passata a consegnare pacchi e lettere. Come sia arrivato, dove si trovi ora e chi ce l’abbia portato restano un mistero. Così come il motivo.

L’unica cosa che sa è che c’entra quella ragazza. Margherita, gli sembra di ricordare che si chiami. Prova una fitta al cuore per quella vita giovane e bella spezzata in modo così brutale.

Quasi sicuramente l’ha uccisa lui, la voce, lo psicopatico che l’ha rapito e ora lo tiene prigioniero. E quasi sicuramente lui è destinato a fare la stessa fine.

Ore 11.35.Margherita al supermercato, in coda alla cassa con il carrello pieno.Dissolvenza.Margherita mentre apre il portone di casa.Dissolvenza.Margherita a terra in un lago di sangue.Dissolvenza.Margherita in costume da bagno su una spiaggia esotica.Dissolvenza.Margherita mentre guida la sua Cinquecento color panna in mezzo

al traffico.

15

AbaluthBrividi

Decine di foto di Margherita proiettate una dopo l’altra sul muro.Da viva, da morta. Scene di vita quotidiana alternate a macabri

particolari del suo corpo straziato.Nico sente la testa scoppiare. Le palpebre sono pesantissime. Ha

provato a chiuderle per dormire ma la stessa luce fortissima e accecante di qualche ora prima glielo ha impedito.

Le foto non hanno smesso un attimo di scorrere.Nico apre gli occhi e si ritrova seduto su una comoda poltrona di

pelle. Si trova all’interno di una casa arredata con cura. Ha qualcosa di familiare, ma per quanto si sforzi non riesce a ricordare cosa.

C’è un silenzio strano, irreale.La finestra è aperta e dà sulla strada. È pieno giorno. Si sporge ma

la strada sottostante è completamente vuota. Nessun pedone né automobile. Le serrande dei negozi sono tutte abbassate.

Su un vecchio mobile in legno scuro sono allineate alcune foto. Avvicinandosi, però, si rende conto che le cornici al loro interno non contengono niente. Solo un foglio bianco.

All’improvviso un rumore di vetri rotti proveniente dalla stanza a fianco attira la sua attenzione.

Seguendo un istinto più forte di lui, Nico apre la porta che divide il soggiorno da quella che, a giudicare dal letto a due piazze che si intravede, deve essere la camera.

Sul pavimento un uomo con un passamontagna sta tenendo ferma una donna dai lunghi capelli neri. La donna si dimena, tenta di liberarsi, persino di colpire il suo aguzzino.

Nico rimane immobile, paralizzato sulla porta. I due lottano sul pavimento e sembrano non far caso alla presenza estranea che a pochi metri li sta fissando.

Dopo poco la donna smette di muoversi. Sotto di lei si allarga una macchia di liquido scuro.

L’assassino si gira verso Nico. In mano ha un taglierino completamente ricoperto dal sangue della ragazza.

Restano così, impietriti entrambi per pochi lunghi secondi. Ora l’uomo col passamontagna sembra accorgersi di lui. Pare fissarlo

16

AbaluthBrividi

negli occhi, ma è solo un attimo. Rivolge un breve sguardo alla vittima, poi con la mano destra si sfila il passamontagna.

A Nico sembra di fissare in faccia il male assoluto. E la cosa più sconvolgente è che il male assoluto ha esattamente le sue sembianze.

Ore 17.59Clic.«Inizio registrazione. Interrogatorio numero tre.»Di nuovo la voce, dopo tanto tempo. Ha sempre lo stesso tono

impersonale, asessuato, meccanico.Nico prova a muovere le labbra. Il nastro che gli tappava la bocca

è scomparso, portandosi via lo strato superficiale di pelle intorno alle labbra, che ora, anche a causa della disidratazione, bruciano da morire.

Vorrebbe urlare con quanto fiato ha in corpo. Gridare al pazzo sequestratore di lasciarlo andare, che lui non ha fatto niente, non ha ucciso nessuno, nemmeno la conosce questa Margherita.

Ma la voce lo precede.«Ti è tornata la memoria? Ti ricordi di lei ora?»Il suo tono di voce è alterato. Ha perso la professionale

impassibilità delle ore precedenti.«Sei o non sei Nicola Broni detto Nico, anni trentasei, residente a

Milano in via privata Assab numero due? Sei o non sei l’assassino di Margherita? Devi confessare. Confessa.»

Confessa.Confessa.La voce rimbomba nella stanza e nella testa di Nico.Sul muro, ora, è proiettata la foto di una coppia felice.All’altezza dell’angolo inferiore destro, una scritta fatta con un

pennarello nero, appena sbavato.Una calligrafia di donna, senza dubbio.“Nico e Margherita. Luna di miele ’05”.Quasi non riesce a rendersi conto che la foto ritrae proprio lui. Gli

sembra di guardare la vita di un altro, che non riconosce. Qualcuno che gli fa una paura fottuta, anche di più della voce che lo tiene imprigionato.

17

AbaluthBrividi

Perché come in un folle domino ora tutte le sue certezze iniziano a sgretolarsi. Bene e male, fino a poco prima separati da una linea netta, ora si stanno pericolosamente sovrapponendo e sono sempre più difficili da distinguere.

Chi è davvero Nico Broni?Quanto ricorda davvero della sua vita il Nico legato mani e piedi?

Quanto è diverso dal Nico che sorride felice nella fotografia sul muro, accanto alla sua Margherita? E quanto è diverso dall’assassino col taglierino insanguinato del sogno di qualche ora prima? Perché era solo un sogno, vero?

La testa di Nico inizia a girare e a farsi pesante.Le palpebre sono come macigni.Abbassando gli occhi le ultime cose che riesce a vedere prima di

perdere contatto col mondo sono l’anello che stringe nella mano destra e tante piccole goccioline rosse che cadono ai suoi piedi.

Poi è solo buio.Niente più fotografie proiettate sul muro, né luci accecanti.Niente più voci.Niente più sangue e dolore.Dodici giorni dopo.La polizia irrompe nello scantinato con le pistole spianate.La stanza illuminata da una piccola lampadina che pende dal

soffitto rivela quello che tutti temevano. Su una sedia posta al centro della stanza c’è il cadavere di un uomo in avanzato stato di decomposizione.

Il sangue rappreso in una pozza sotto la sedia ha origine da due lunghi tagli sui polsi. Il taglierino è appoggiato sulle gambe divorate dai topi che ancora banchettano sul corpo.

«Che ne dice commissario? Caso chiuso?»Il commissario non risponde, si limita a scuotere la testa con una

smorfia di disgusto e rassegnazione. La puzza è insopportabile.Si volta e risale le scale che portano all’appartamento proprio

mentre la squadra del medico legale si appresta a prendere possesso della scena.

18

AbaluthBrividi

Fa appena in tempo a vedere i barellieri che caricano sul camioncino del coroner un altro corpo, chiuso in un sacco nero. Dalla camera da letto esce un giovane agente della Scientifica con un sacchetto di plastica in mano, di quelli che si usano per catalogare le prove. Al suo interno ci sono un paio di occhiali con le lenti frantumate. Una montatura nera delicata.

La ragazza li indossa in tutte le foto presenti nella casa.Il commissario prende in mano una delle fotografie incorniciate

che riempiono i muri della camera da letto.“Nico e Margherita. Luna di miele ’05”.Sembrano così spensierati.Ripensa al suo matrimonio. Un matrimonio come tanti. Felice agli

occhi degli altri. Ma lo è davvero? O è solo il raggiungimento di un equilibrio a dargli la sensazione che tutto vada bene?

Un equilibrio così fragile.Ripensa a una foto che tiene sul comodino accanto al letto. Molto

simile a quella.Un brivido gli attraversa la schiena.Senza pensarci estrae il cellulare dalla tasca della giacca e inizia a

comporre il numero di casa.

19

AbaluthBrividi

Zompo, ZompoMarco Santi

«Zompo Zompo su di te!»«Zompo Zompo sul tuo stomaco!»Non riesco a smettere perché mi fai impazzire.Mi stai dando forti emozioni, e cazzo che ritmo questa musica.È magia per me. Penso che sia tutto perfetto questa sera.Mi agito e follemente mi sfogo saltellando sul tuo corpo.Adoro il tuo corpo.Adoro il tuo profumo.«Zompo Zompo sul tuo corpo!»Ecco! Sento il formicolio dei primi fremiti. Dai che ci siamo

quasi! Manca ormai poco.«Zompo Zompo sul tuo corpo!»Lo ripeto continuamente, comprimendo l’addome e stringendo

forte i pugni.Ecco che arriva il primo spruzzo. Adoro questo momento, anzi sto

provando amore in questo istante.È sangue e capisco che il traguardo è ormai vicino.Cazzo un altro sforzo.E l’eccitazione sale sempre più.«Zompo Zompo su di te!»CRACK!Riconosco bene questo suono, è la gabbia toracica che cede e

sprofonda andando in frantumi negli organi interni, come una pioggia di frecce.

Zompo su di te e mi piace da impazzire. Mi piace ascoltare lo scrocchiare delle ossa quando si spezzano ad ogni colpo.

Cazzo mi vien voglia di urlare a ogni salto!Su, e sempre più su e quando ricado che forza ci metto, miglioro a

ogni colpo.

20

AbaluthBrividi

Su e sempre più su, salto su di te, che piacere che mi dai, che urla fanno le tue ossa.

«Cazzo se mi piace!»E salto, salto, salto più che posso sul tuo stomaco senza fermarmi.Mi sciolgo dall’emozione, grondo di sudore e agito le braccia

applaudendo con le mani; esulto a ogni crack. Estasi da ballo!CRACK! del ginocchio destro.E ballo ancora su di te…CRACK! del polso sinistro.…felice di averti conosciuto…CRACK! della spalla sinistra.…ti amo mia stupenda creatura.CRACK! del bacino.Salto salto su e giù e ora un bel salto sulla caviglia destra.CRACK!E ora passo al gomito.CRACK!Ora con forza sul femore.CRACK!Devo rallentare altrimenti a breve avrò già finito, ma che peccato,

il tuo corpo l’amo così tanto.Mi piace farlo così, uccidere intendo, stordisco la vittima e poi ci

salto sopra a tempo di musica, ma soprattutto mi piace tenere gli occhi chiusi e captare sotto di me il crescente e inesorabile cedere del corpo, aspettando a ogni colpo l’appagante e sonoro crack. Quest’armonioso suono mi fa... mi fa star bene. Quando non sento più crack smetto.

È il mio vizio e non vedo il motivo per il quale dovrei smettere.C’è chi beve e chi fuma, io salto, salto su di un corpo senza

fermarmi.Questa sera ho scelto “Vedo Nero” di Zucchero e una luce calda e

soffusa.Continuo a saltare e alzo le braccia e applaudo a ritmo di musica.Ora nella stanza c’è puzza di sangue, piscio e merda, ma continuo

21

AbaluthBrividi

a saltare. Ottima scelta della musica, ha un tempo perfetto, mi dà la carica, potrei continuare a zompettare per tutta la notte.

Di solito inizio saltando con un tempo blando, tanto per fare conoscenza con il nuovo corpo, poi lentamente faccio crescere il ritmo, piano piano fino a trovare l’equilibrio giusto, utile per ricreare l’impatto migliore, più deciso, quello che potrebbe produrre il “crack” migliore, quello mai sentito prima.

Le ossa di ogni uomo emettono suoni diversi.Vi confido un segreto: non c’è niente per me di più gratificante che

ascoltare un CRACK con un suono mai sentito prima.Ricordo ancora la mia prima volta, che ridere, al primo tentativo di

salto caddi sbattendo la testa in terra, ma è storia vecchia.Finisco la serata con la parte migliore; salto su questo bel

capoccione di trent’anni. Credo fosse sposato, la fede l’ho vista rotolare da qualche parte nella stanza.

CRACK!Per questa sera è tutto, ma è così facile trovarne un altro.Io piaccio molto agli uomini.Mi chiamo Sara e salto, salto e risalto finché non suona più.Bella Sara, balla tutta la sera.Zompo, Zompo su di te!

22

AbaluthBrividi

MagdalenaBianca Campagnolo

Lo zaino sulle spalle di Abigail era così pesante da toglierle il fiato, mentre saliva la ripida scala scrostata che portava alla sua stanza d’ostello. Nel suo giro per la Spagna non aveva calcolato che a Malaga fosse periodo di ferìa, la gigantesca festa della città che durava una settimana, e quindi sarebbe stato difficile trovare un posto decente a poco prezzo. Per fortuna era riuscita a farcela. Davanti a lei c’era il gestore, un individuo singolare. Era un uomo scuro di carnagione e tarchiato, che quando sorrideva mostrava un bel po’ di denti d’oro. L’avevano inquietata quegli strani scatti che faceva con il collo, e il fatto che rifuggisse il contatto visivo guardando continuamente verso il basso. Dopo averla accompagnata alla stanza la lasciò sola regalandole uno dei suoi sorrisi dorati. La ragazza olandese si sdraiò stremata sul letto cigolante. Nel complesso quella camera era un po’ fatiscente ma aveva visto di peggio. Si affacciò alla finestra e vide che dava su un vicolo composto da case totalmente abbandonate e in rovina. La crisi?

Giunta la notte Abigail si preparò per dormire. Quando aveva deciso di fare un viaggio completamente sola non aveva dato peso alla notte. Lei non aveva paura del buio. Tuttavia non era mai completamente tranquilla... era pur sempre una ragazza sola. Si mise il pigiama leggero e si lavò i denti. Davanti allo specchio iniziò a fare le smorfie più terribili che le riuscissero per esorcizzare quella sua ansia di fondo. Si stese sul letto cigolante e si accorse di essere così stanca che si sarebbe addormentata presto. Si era ormai assopita, si trovava in quel limbo simile all’ipnosi in cui i pensieri perdono di consistenza e filo logico e risultano quanto più simili ai sogni, quando all’improvviso sobbalzò spaventata. Aveva sentito un rumore. Un grattare. Veniva dall’alto, sempre più forte. Si tranquillizzò pensando

23

AbaluthBrividi

a quando una sua maestra le aveva raccontato che era stata tenuta sveglia tutta una notte dal grattare delle zampette dei topi. Rabbrividì al pensiero di un topo che potesse entrare nel suo letto, nei suoi vestiti… Basta, tranquilla. Eppure quel grattare era così disperato.

Grattare, grattare... devo grattare. Se continuo riuscirò a staccare dal pavimento un pezzo di legno sufficientemente appuntito da riuscire a liberarmi da queste corde. Per fortuna se ne è andato prima di incatenarmi come ha fatto con quelle povere… forza gratta gratta. Ce l’hai quasi fatta. E poi strappi queste cose dagli occhi, esci e chiami aiuto. Ma riuscirò a camminare? Cosa mi ha fatto? Non pensarci ora… gratta! Mentre grattava spasmodicamente per terra Abigail sentì il dolore lancinante dell’ennesima unghia che le si piegava e si staccava completamente dal dito. Lanciò un urlo. Sputò di nuovo tutto il sangue che aveva in bocca. Si accasciò a terra e cominciò a piangere.

Caterina era raggomitolata sul letto con la luce accesa. Passare la notte da sola la terrorizzava. Inoltre in un luogo sconosciuto. Con quell’ostellante spaventoso. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di non rimanere lì, ma purtroppo aveva dovuto partire prima delle altre amiche. Doveva studiare per il test di ammissione all’università e proprio per questo era tornata da sola a Malaga e aveva prenotato un ostello a buon prezzo, solo per poche ore di sonno. Una tortura. Pensare a quella reception la inquietava: sul muro svettava incorniciata la foto di una donna, dai tratti spagnoli, con i lineamenti marcati, capelli selvaggi e folte sopracciglia aggrottate. Appariva imbronciata ma al contempo estremamente fragile e malinconica. Non sapeva perché ma non riusciva a togliersi dalla testa quello sguardo. Era così tesa che non capiva se i rumori minacciosi che sentiva fossero reali o solo frutto della sua immaginazione. Di certo quel grattare c’era, anche se la sua mente la voleva convincere che fosse qualche normale rumore provocato da piccoli animali. Era oramai tarda notte e lei non si era nemmeno stesa. Decise che era ora di tentare di coricarsi. Di sicuro con la luce accesa non avrebbe

24

AbaluthBrividi

chiuso occhio, quindi trattenne il respiro e la spense. Si raggomitolò su se stessa sperando che il suo corpo esausto avrebbe ceduto al sonno. Notò che la luce nel corridoio fuori dalla sua stanza era accesa, creando uno spiraglio di luce sotto la porta. Quanto odiava gli spiragli... temeva di vedere da un momento all’altro qualche ombra avvicinarsi. Era riuscita ad addormentarsi quando a un certo punto un tonfo la svegliò. Rumori sordi, provenivano da sopra. E si avvicinavano. Si avvicinava qualcuno camminando in modo scomposto. Cate serrò gli occhi e contrasse i muscoli. Non era nulla. Ora si sarebbe riaddormentata e tutto sarebbe finito. I passi erano sempre più vicini.

È tutta immaginazione. Sentiva dei rumori davanti alla sua porta. Qualcuno stava tentando

di aprire. No ti prego no, vattene. Per cercare di calmarsi e di dimostrare a se stessa che era

sicuramente un rumore lontano che lei percepiva in maniera sbagliata prese un bel respiro, uno due tre e aprì gli occhi. Vide distintamente un’ombra che copriva lo spiraglio di luce. Sentì bussare. Pietrificata Cate rimase immobile nel suo letto tappandosi la bocca con le mani e respirando affannosamente. Il bussare continuò poi si fermò.

Ok, calma, magari è solo qualcuno che ha sbagliato camera. O magari qualcuno a cui serve qualcosa. Ma cosa, di notte in un ostello? Di sicuro io qua da sola non apro a nessuno. Se ne andrà prima o poi.

Riconobbe tentativi di aprire la porta. Sperò con tutta se stessa che la sottile porta di legno e la serratura arrugginita la proteggessero da qualsiasi cosa ci fosse là fuori. Sentì la porta cedere e la persona avvicinarsi lentamente, molto lentamente. Si chiuse su se stessa il più possibile sperando che chiunque fosse entrato nella sua camera non le avrebbe fatto troppo male. Si avvicinava. Sempre più vicino. Un respiro roco. Sentì una mano umidiccia e appiccicosa stringerle il polso. Cate lanciò un urlo lancinante e si scrollò di dosso la mano buttandosi all’indietro. Aperti gli occhi si trovò davanti una creatura

25

AbaluthBrividi

ricoperta di sangue secco e sporcizia, con gli occhi così gonfi che erano ridotti a fessure grondanti sangue fresco e la bocca che aprendosi mostrava una lingua mozzata. Cate si buttò nell’angolo più remoto della camera urlando e tirandosi i capelli. Tuttavia smise di urlare quando si accorse che la creatura non sembrava affatto minacciosa. La fissava implorante, aveva chiuso la bocca e smesso di produrre versi incomprensibili e si era inginocchiata a mani giunte mettendosi talvolta l’indice davanti alla bocca come per esortarla a fare silenzio. Sembrava… una richiesta di aiuto. Cate la guardò meglio: con la luce del corridoio riusciva a vedere chiaramente che nonostante indossasse una specie di sacco informe e fosse rasata, si trattava di una ragazza, circa della sua età. Questa, quando ebbe capito che Cate si era calmata abbozzò una specie di sorriso. Alternava mani giunte a un gesto che significava “seguimi”. Iniziò a zoppicare vistosamente fuori dalla stanza – era un’andatura che sembrava essere causata da un qualche osso rotto negli arti inferiori. Cate si sentiva come in trance, era così sconvolta che non riuscì a fare a meno di seguirla. Arrivarono al piano superiore, c’era una porta aperta. Nella stanza vi erano quattro, forse cinque ragazze. Erano rasate, imbavagliate con un bavaglio intriso di sangue. Erano incatenate al pavimento per il collo. I loro occhi erano cuciti. Quasi tutte grattavano con foga il pavimento, l’unico modo che era loro rimasto per attirare l’attenzione di qualcuno e chiedere aiuto. Alcune erano immobili, di una magrezza incredibile, stremate, abbandonate per terra. Il pavimento era segnato dai graffi e incrostato di sangue secco. Le sembrò di vedere alcune lingue mozzate in vari stadi di decomposizione. Cate si appoggiò al muro del corridoio e vomitò dopo parecchi conati. All’improvviso si rialzò e disse risolutamente: «Vi porto via.» Mise un braccio intorno alla vita della ragazza che era riuscita a liberarsi – poi le avrebbe chiesto come – e a chiedere il suo aiuto e la portò a stendersi sul letto della sua camera. Prese il telefono; intanto le diede un po’ d’acqua dalla bottiglietta che aveva con sé e dei fazzoletti per pulirsi. Mentre digitava il numero dei soccorsi un pensiero le balenò in mente: “Chi le ha ridotte così?” Il

26

AbaluthBrividi

numero cominciò a squillare. Fece un grande sorriso di incoraggiamento alla ragazza sul letto. Ma vide che all’improvviso la sua espressione era diventata terrorizzata. Quel volto straziato sconvolto dal terrore fu l’ultima cosa che Cate vide prima di morire. Un colpo secco alla nuca. Poi più nulla.

« Abbiamo ricevuto una chiamata al numero di emergenza. Non ha risposto nessuno, ma a causa dei rumori inequivocabili siamo venuti con degli uomini. Abbiamo trovato questo. Sei ragazze di nazionalità varie, giovani turiste, tenute prigioniere in condizioni disumane. Una di loro era Abigail Dekker, olandese. Visto che la ferita alla lingua appare fresca, così come le cuciture agli occhi, supponiamo che l’uomo l’avesse appena catturata e non avesse fatto in tempo a incatenarla, per questo era legata solo con delle corde. Era riuscita a liberarsi, scappare e ad avvisare la ragazza che si trovava nella camera sotto la sua prigione, Caterina Adami, italiana. La Adami ha avuto la prontezza di spirito di chiamarci, ma era troppo tardi. Pedro Ortega, l’ostellante, probabilmente accortosi del trambusto, era salito a controllare. Una volta lì ha ucciso entrambe le ragazze con una mannaia. Lo abbiamo trovato seduto sul letto, coperto di sangue, mentre ripeteva il nome “Magdalena”. Lei agente Gomez cosa ha scoperto su Ortega?»

L’agente Gomez si accese una sigaretta e si sistemò il colletto della camicia. Quel caldo di agosto era asfissiante e in più quel caso lo aveva scosso e nauseato più degli altri. Per fortuna mancava poco alle ferie. «Magdalena Ruiz era sua moglie. Avevano messo su questo posto insieme. Ma Magdalena era instabile. Già dall’età di vent’anni aveva mostrato segni di squilibrio, ma con il passare del tempo la sua schizofrenia si manifestò implacabile. Pedro la ritrovò proprio nella stanza dove teneva le ragazze. Si era tagliata la lingua e i polsi. Questo quello che ho scoperto finora. Le ragazze se la caveranno, agente Morales?» chiese nervosamente Gomez.

L’agente Morales sospirò. «Alcune sono qua da anni, sono molto provate, quasi in fin di vita. Ma… sì, se la caveranno. Difficilmente però riusciranno a tornare a parlare. Non credo faranno una buona recensione su Trip Advisor.»

27

AbaluthBrividi

Nella macchina della polizia Pedro Ortega sedeva quieto. Gli avevano pulito le mani ma tra le unghie rimaneva ancora del sangue raggrumato. Sapeva di aver tenuto prigioniere e ucciso delle ragazze. Non gli importava. Il suo viso era serio. A tratti, dal nulla, affiorava un risolino. «Magdalena... Magdalena.»

28

AbaluthBrividi

La rapinaRossana Zago

MauroAlle 8.40 - otto e quaranta minuti del mattino - il direttore della

banca mi sta chiamando. Non mi serve leggere il nome, so già il numero a memoria. Spengo l’iphone. Silenzio. Ormai si è fatto furbo e aspetta almeno una decina di minuti prima di richiamare al telefono fisso, sperando di cogliermi di sorpresa. Cosa voglia quell’uomo proprio non lo capisco. Se avessi i soldi per pagare i miei debiti lo farei, possibile che non riesca ad arrivarci da solo?

Le minacce del damerino in giacca e cravatta mi lasciano indifferente: sappiamo tutti e due che non può far altro che mettersi in fila con gli altri creditori.

Sigarette, lotterie, giornali, bolli auto: incassi elevati, guadagno quasi zero. Rivolgo la solita preghiera mentale a San Baldassarre - patrono dei giocatori di carte e, ho deciso, anche dei videogiocatori - perché conduca a me i suoi protetti e mi aiuti a guadagnare qualcosa.

Solito via vai di gente che ha fretta, due chiacchiere con i nonnetti che giocano al superenalotto, bambini che comprano caramelle; ripasso il mio piano: non è complicato, è una cosa classica, da disperati.

Alle dodici e trenta in punto chiudo la tabaccheria/ricevitoria/ cartoleria/edicola che avvelena la mia vita da più di dieci anni, avviso mia moglie che non vado a mangiare a casa e inforco la bicicletta elettrica. Niente auto, oggi. Per ciò che intendo fare preferisco usare un veicolo non targato, veloce e che riesca a sgusciare nel traffico.

È una bella giornata, di quelle giornate invernali in cui l’aria odora già di primavera e i contorni delle cose sono luminosi e nitidi. È una giornata adatta per portare mia moglie e i miei figli a fare una gita, non per rapinare una banca. Ma se non rapino la banca, non posso pagare le rate del suv e portare moglie e figli in gita.

29

AbaluthBrividi

Banca forse non è la parola più adatta per descrivere il bugigattolo incastrato all’angolo di due strade periferiche con dentro tre sole impiegate, cassiera compresa. Calco in testa il berretto con il frontino, entro nel metal detector e attendo con gli occhi fissi a terra, il sudore che cola sulla schiena e l’intestino in preda ai crampi. Quando la porta si apre vorrei tornare indietro, ma Flora vuole iscriversi a uno stage di danza di quindici giorni a quattrocento chilometri da casa. Decido di andare avanti. Entro. In sala non ci sono clienti; estraggo il taglierino, abbasso sul viso la calza che ho già preparato sotto al berretto e mi dirigo alla cassa.

«Dammi i soldi, sbrigati.» La ragazza sembra più stupita che spaventata, così aggiungo: «Sono sieropositivo e la lama è infetta.»

Lei non apre bocca, mette il contante nel sacchetto che le ho dato e sblocca la porta per farmi uscire senza problemi.

Salgo in bicicletta e mi allontano; nessuno mi ferma, non si sentono sirene ululare in lontananza, non riesco a credere che sia andato tutto bene.SandroNon hai la qualifica adatta, sei troppo giovane, sei troppo vecchio,

non hai esperienza, hai troppa esperienza e saresti sprecato per questo lavoro…

Ricomincerò il disperato pellegrinaggio nel pomeriggio. Per il momento mi godo il sole, seduto sulla panchina del giardino pubblico, confortato da un panino e da una bottiglia d’acqua. Non ho voglia di tornare a casa e fare ancora una volta i conti insieme a Sara, tanto il risultato è sempre lo stesso: devo trovare al più presto un lavoro. Come se non lo sapessi.

Mi accendo una sigaretta, anche quello un vizio inutile per Sara; aspiro la prima boccata e vedo l’uomo che esce dalla banca. E così tiene là i suoi soldi, il bastardo. E ne ha di soldi, quello.

Tutta colpa sua. Ho litigato con Sara, per colpa sua.Ho perso il lavoro, per colpa sua.Certa gente è senza cuore, come il figlio di puttana che mi ha

licenziato solo per qualche ritardo: una scusa, ecco cos’era, solo una

30

AbaluthBrividi

scusa; io gli sono sempre stato antipatico e alla prima occasione mi ha messo in mezzo a una strada. I padroni hanno sempre il coltello dalla parte del manico, maledetti.

Mi accendo un’altra sigaretta, guardo l’ingresso della banca. Maledetti, loro e i loro soldi. Quando abbiamo fatto il mutuo per comprare casa erano tutti gentili: Signor Ricci di qua, Signor Ricci di là; adesso non vogliono farmi un prestito solo perché sono disoccupato, maledetti.

E Sara? Maledetta anche lei! Lei e i suoi sospetti. Le ho promesso, no, le ho giurato che non avrei più giocato, ma niente, lei continua a controllarmi e a sospettare.

Mi accendo un’altra sigaretta. Fumare e pensare, ecco due attività complementari.

MauroHo gettato berretto, calza e taglierino in un cassonetto e sono

tornato al negozio.Apro il sacchetto dei soldi con la stessa trepidante attesa che da

bambino riservavo ai regali di Natale. Con le mani tremanti per l’adrenalina ancora in circolo conto il denaro. Poi lo conto di nuovo.

Tremilasettecentoquarantacinque euro.Una somma ridicola. Ho rischiato la galera per ottenere un tozzo di

pane che calmerà la fame dei miei creditori solo per pochi giorni.Passo il pomeriggio a escogitare scuse per giustificare a Flora, e a

sua madre, il divieto di partecipare a quello stage di danza.All’ora di chiusura sono giunto a una sola conclusione: rapinare

banche è più facile che essere sincero con la mia famiglia.

SandroUna rapina in banca non è neanche da prendere in considerazione.

Ormai lo sanno anche i bambini che di contante, in banca, ne gira poco. E poi ci sono i metal detector, la videosorveglianza, i sistemi di allarme. Supermercati da escludere: troppa gente.

Rimando il mio pellegrinaggio al giorno successivo e rimugino sulla questione per buona parte del pomeriggio, fumando una sigaretta dietro l’altra.

31

AbaluthBrividi

Prendo il portafoglio e controllo quanto denaro mi è rimasto: abbastanza per passare un paio d’ore.

Magari potrei vincere, per una volta.Ho vinto, per una volta, ho vinto. E poi ho perso, ho perso tutto

quello che avevo vinto e fino all’ultimo centesimo rimasto.L’assaggio di primavera portato dal sole se n’è andato con lui e

l’aria gelida e umida della sera mi accoglie all’uscita del locale. Potrei rapinare questo bar, ma voglio punire il bastardo.

Arrivo davanti alla tabaccheria solo qualche minuto prima della chiusura, aspetto che anche l’ultimo giocatore sia cacciato a forza ed entro.

Passamontagna, pistola giocattolo e le parole dei telefilm: «Questa è una rapina, dammi l’incasso.»

L’uomo sbianca, mi supplica: «Non puoi farmi questo, se ti do i soldi, sono rovinato.»

Oh, gli duole perdere i suoi soldi! Ma non gli è dispiaciuto quando li ho persi io! E quando ho provato a chiedergli un prestito è andato a chiamare Sara, maledetto.

Gli agito la pistola davanti al viso senza avvicinarmi troppo per paura che scopra il bluff.

Lui diventa più collaborativo e mette i soldi nel sacchetto che gli ho dato.

La rivincita. Per una volta sono riuscito a prendermi la rivincita su uno di quei maledetti che mi hanno rovinato la vita.

Esco di corsa, il sacchetto pesante stretto al petto.Ho appena sfilato il passamontagna quando sento il primo sparo.

Ha un’arma vera, il maledetto bastardo, e cerca di uccidermi. Devo solo arrivare fino all’angolo e poi è fatta. Accelero. La rabbia fluisce nelle vene assieme al sangue pompato dal cuore impazzito. Sento un altro colpo prima di riuscire a portarmi fuori dalla traiettoria degli spari.

Ancora pochi passi e raggiungo l’auto. Mi accascio sul sedile; la chiave di accensione si agita incontrollabile nella mia mano, sento la maglia umida aderire alla pelle, ho la bocca secca e voglia di vomitare. Deglutisco, respiro. E poi di nuovo. Deglutisco, respiro.

32

AbaluthBrividi

Ce l’ho fatta, è andato tutto bene, sto guidando verso casa e dimenticherò tutta questa storia.

Ho vinto, maledetti!

MauroCaccio dal negozio l’ultimo giocatore, gentilmente però, perché

non posso permettermi di perdere le mie fonti di guadagno, metto il cartello chiuso e abbasso la serranda.

Impacchetto l’incasso della giornata e anche i soldi della rapina, quasi ottomila euro in tutto, ed esco. La bicicletta mi attende con il sellino lucido per l’umidità della sera; rimpiango il caldo abitacolo del mio suv, chiudo la cerniera del giubbetto fino al collo e pedalo per scaldarmi.

Cerco di stabilire quali siano i pagamenti più urgenti, ma, per quanto continui a riordinare la mia lista mentale, non ho abbastanza soldi e San Matteo – patrono dei contabili – non ha intenzione di aiutarmi; ho degli ottimi motivi per essere distratto.

Il colpo arriva improvviso e inaspettato. Mi sento sbalzare di sella, vedo il mondo capovolgersi, sbatto con la schiena su qualcosa, rotolo, cado a terra di fianco.

Mi sorprendo di non essermi fatto nulla.Il dolore arriva dopo qualche istante. Il braccio destro pulsa, a ogni

respiro lame implacabili segano la mia gabbia toracica, dolorose fitte risalgono dalla gamba destra fino a esplodere nel cervello.

Sollevo a fatica la testa, vedo l’auto che mi ha investito uscire di strada e accartocciarsi nell’impatto contro un platano solitario. L’automobilista non chiamerà i soccorsi.

Appoggio di nuovo la testa a terra. Non faccio caso al bagnato, è quello strano odore a risvegliare i miei sensi: mi accorgo del sangue, il mio sangue, che scivola denso verso la grata del tombino.

SandroTolgo una mano dal volante, abbasso la cerniera del giubbotto,

infilo la mano in cerca delle sigarette e la ritraggo umida e appiccicosa. La guardo come se appartenesse a un altro, muovo le dita: goccioline di sangue scivolano sul volante.

33

AbaluthBrividi

Quel maledetto in bicicletta sbuca all’improvviso senza nemmeno guardare. Sento il colpo e freno d’istinto; vedo un corpo rotolare sul cofano dell’auto e cadere di lato. Sono stanco, non riesco a reggere il volante reso scivoloso dal sangue. Chiudo gli occhi.

RosaSi guarda intorno circospetta mentre Dino ispeziona la strada in

cerca di segnali noti solo a lui. Nessuno in giro. Spera che Dino si decida presto a fare i suoi bisogni: Rosa ha dimenticato il sacchettino e non ha voglia di tornare di sopra a prenderlo.

L’incidente si svolge davanti a lei. Stupido e terrificante.Rosa non ha con sé nemmeno il cellulare per chiamare i soccorsi.

Si avvicina. L’uomo steso a terra respira ancora; lo fruga in cerca di un telefono, inservibile, e trova invece del denaro, molto denaro.

Si guarda intorno. Nessuno. Prende il denaro e rimette al suo posto il cellulare.

Si avvicina alla macchina. Anche l’altro uomo respira ancora. Lo fruga: un cellulare funzionante e altro denaro.

Si guarda intorno. Nessuno. Prende il denaro e rimette il cellulare nella tasca in cui l’ha trovato.

Gente che va in giro con tutti quei soldi non è gente per bene, pensa.Dino ha fatto i suoi bisogni: adesso Rosa può tornarsene a casa.

34

AbaluthBrividi

La ballerinaMarco Pilotto

«Venite! Venite! Lo spettacolo sta per cominciare! Presto! Non perdetevi l’esibizione della ballerina!»

Sentivo la voce squillante di Giacomo dal mio camerino. Invitava il pubblico a entrare all’interno del padiglione del circo. Immaginavo una lunga coda di persone che attendevano per acquistare il biglietto. Era così, vi era gente che accorreva da tutto il Paese per venirmi a vedere.

Una densa oscurità gravava sulla mia stanza, io aspettavo in silenzio. Prima di me si esibivano Petrina e Charles, una coppia di clown, uniti nel lavoro e nella vita.

Sentivo il pubblico ridere e applaudire a ogni battuta. Nel buio del mio camerino, sussurravo a memoria i loro dialoghi e le mie labbra si arricciavano divertite a ogni scenetta. Ero serena; da lì a pochi minuti sarei stata chiamata sul palco anch’io. Guardai la tremula fiammella della candela ondeggiare, danzare e dimenarsi in quell’oscurità, quasi avesse intrapreso una battaglia contro il buio che la circondava. Nell’osservarla chiusi gli occhi e mi addormentai.

Una farfalla bianca svolazzava in una di quelle caldissime giornate d’estate. Le sue ali accarezzavano l’aria e l’azzurro cielo. Si posò ai margini di una pozza per dissetarsi. Mentre sorseggiava l’acqua, si accorse che un gigantesco rospo si trovava vicino a lei. Spaventata, la farfalla cercò di svignarsela ma l’animale spalancò la bocca, fece schizzare fuori la lingua appiccicosa e la inghiottì in un sol boccone. Nel passarsi la lingua sulle labbra, si accorse che il sole stava asciugando la pozzanghera e che a poco a poco l’acqua si sarebbe ritirata lasciando, dietro di sé, del terriccio secco. Con essa si seccava pure la pelle del rospo. «Ballerina! Ballerina!» L’anfibio non riuscì a mettersi al riparo dal sole che in pochi minuti lo essiccò, rendendolo

35

AbaluthBrividi

una carcassa. «Ballerina! Ballerina!» All’interno del costato del rospo era ancora rinchiusa la farfalla che costui aveva deglutito viva. «Ballerina! Ballerina!» Le ali sbattevano forte contro le ossa che erano diventate una prigione per l’insetto. Vidi il muso della farfalla, era il mio volto. «Ballerina! Ballerina! Svegliatevi!»

Spalancai gli occhi. Davanti a me Giacomo. Notai subito, nel suo volto da infante, una certa preoccupazione che svanì non appena mi alzai in piedi.

«Signorina tocca a lei!» Esclamò. Mi inginocchiai davanti al pargolo e gli sussurrai all’orecchio: «Grazie Giacomo, sei un bravo ometto.» Gli diedi un bacino sulla guanciotta. Il bambino arrossì e prima di correre via mi urlò contento: «Signorina, siamo a Venezia in Italia! Io sono nato in questo Paese! Spero tanto di ritrovare la mia mamma tra il pubblico!» “Poverino” pensai; mi raccontava spesso di sua madre, mi diceva che era una bravissima cantante. Un giorno se ne andò, senza lasciare alcuna notizia.

Mi diressi verso l’entrata della ribalta; lì ad aspettarmi, come sempre, il padrone del circo, un vecchio nato più o meno la metà del secolo scorso, alto e taciturno che si chiamava Gustav Von Hagen. Io lo chiamavo semplicemente Pà. Ho ricordi legati a lui da quand’ero piccola, mi prendeva, mi faceva sedere sulle ginocchia e mi faceva saltare e cavalcare...

Appena mi sentì arrivare si voltò verso di me e mi sorrise. Alzò la mano sinistra e mi accarezzò il viso. Sentii tutto il volto coperto dalla sua mano; il calore che emanava la sua pelle mi scaldò il cuore, cacciando via ogni paura e infondendomi un vigoroso coraggio. Ho sempre pensato che lui fosse un angelo, solo che al posto delle ali avesse queste mani enormi.

Ogni mio passo era accompagnato dallo scricchiolio delle spesse tavole in abete bianco, di cui il palco era costituito. Mi collocai al suo centro. Il mormorio della folla pagante si interruppe alla mia entrata. Le luci si spensero, non tutte: un solo faro era risparmiato, destinato a illuminare il mio bianco corpo.

Tin, tin, tin.

36

AbaluthBrividi

Tre rintocchi di pianoforte in nota di “Sol minore”. Cominciava così la musica e iniziai a muovermi quasi istintivamente, accompagnata e cullata dalla sinfonia in una danza d’amore. Le note pulite di quella melodia s’intrufolavano in ogni angolo del capannone. Uno spettacolo dolce, commovente e sensuale...

Tin, tin, tin.Com’era cominciato, lo spettacolo terminava.Le luci si accendevano.Il pubblico ammutolito.Io me ne stavo riversa a terra, sudata e ansimante. A fatica riuscii a

prendere fiato.Guardai verso l’entrata del palco; sapevo che, da lì a poco, Pà

sarebbe entrato. Così fece. Sentii le spesse tavole in abete bianco piegarsi sotto il suo peso, ma stranamente non scricchiolarono. Cominciò a battere le mani.

Come rintocchi di campane che concludono ora dopo ora un’altra ora, a segnare il termine di quel prolungato silenzio. Le sue mani, se prima avevano avuto il potere di infondermi coraggio, adesso avevano il potere di staccare gli sguardi della gente su di me e di riportare le loro menti sulla terra.

Il suo applauso presto si mescolò e si perse con quello del pubblico.

Attirò la mia attenzione nella folla un uomo vestito di un lungo soprabito nero, con il volto semicoperto dal cappello, che si alzò e si diresse verso l’uscita. Anche Gustav lo notò e il suo viso s’incupì.

Quella notte non riuscii a dormire, l’incubo della farfalla si era piantato nella mia mente come un chiodo fisso. Anche gli animali del circo erano irrequieti. Li sentivo agitati, come se qualcosa o qualcuno li disturbasse. Presi uno scialle e decisi di uscire a controllare. Vidi Gustav discutere animatamente con l’uomo del soprabito nero che, sia per la luce soffusa che per il vestiario, sembrava più uno spettro che un essere umano. L’uomo gli sventolava davanti al naso un foglio; allora credo che Gustav perse la pazienza perché alzò la mano destra piegata a pugno ingiungendogli di andarsene. L’uomo desisté.

37

AbaluthBrividi

Pà furioso chiuse le mani; degli enormi pugni ora volteggiavano davanti al naso di quell’individuo. Era deciso a colpire l’uomo in nero. Solo allora il fantomatico spettatore s’impaurì, scappando e trovando rifugio nell’ombra.

Decisi che era giunto il momento di tornarmene a letto ma non riuscii a riaddormentarmi. Cercai allora di intonare la melodia del mio spettacolo e ciò bastò per farmi cadere nel sonno profondo.

Il sole inondò di luce rosa il nebbioso villaggio circense. La mia tenda ora era abbracciata da una luce calda ma uno straziante urlo interruppe l’innaturale silenzio. Riconobbi la voce di Marchino. Don Juan de Marchino era il custode delle bestie. Il primo ad alzarsi ogni mattina per dar da mangiare agli animali.

Ci precipitammo tutti da lui. Al mio arrivo vidi il corpo di Pà a terra privo di vita, con le mani strappate via a morsi. Dalle ferite radiali scendevano dei rivoli nerastri di sangue coagulato, mentre una pozza purpurea avvolgeva tutta la sua figura.

Un tremore incontrollabile s’impadronì del mio corpo, un conato di vomito salì nelle vie aeree mentre una terribile sensazione di peso comprimeva il mio torace. Sentii le gambe abbandonarmi e, prima di perdere i sensi, riuscii a rivolgere il mio ultimo sguardo al corpo straziato.

All’ora di pranzo Charles, Petrina, Marchino e tutti gli altri erano seduti a tavola. Mi pietrificai nel vedere che tra loro era presente anche l’uomo del soprabito nero. Fu proprio lui che interruppe il silenzio che si era creato dal mio arrivo, sibilando: «Signorina, manca solo lei a firmare il contratto!» L’uomo indicò con un dito il pezzo di carta giallastra sopra il tavolo e incalzò: «Gli ultimi drammatici avvenimenti hanno fatto sì che Gustav Von Hagen non sia più il suo tutore.»

Un sorriso silenzioso, simile a un ghigno, sfregiò i volti dei miei colleghi.

«Quale contratto?»«Il contratto della sua vendita... ma perché abbia effetto, anche lei

dovrà apporre la sua firma.»

38

AbaluthBrividi

Non potevo credere alle sue parole e, ancor più, non potevo realizzare che ero stata venduta dai miei amici. L’uomo con un cenno aprì il soprabito e dall’ombra del vestiario uscirono dei fili neri che si proiettarono verso di me. Dei fili vivi che si facevano spazio e si prolungavano tra le ombre. Un gelido brivido solcò la mia colonna vertebrale e aprii leggermente le labbra cercando di intonare il motivetto che tanto m’infondeva coraggio. «No, no, no. Non ci provare!» esclamò l’uomo, alzandosi di scatto. Non ebbi neppure il tempo di pronunciare la prima nota, che già la sua ombra si arrampicava sul mio corpo serrandomi la bocca. Sentivo alcuni di quei fili accarezzarmi la pelle, sembravano annusarla e tastarla, come segugi che annusano e raspano la terra. Un gemito strozzato fuoriuscì dalle labbra ancora chiuse, quando provai il dolore pungente e acuto di uno di quei fili che penetrava nel dorso della mia mano. Non era finita, il dolore si prolungò, si fece ancora più intenso quando altri due fili violarono la mia soffice pelle, uno all’altezza del gomito, l’altro nella spalla. Stranamente non vidi sangue uscire dai fori ma sentii chiaramente quei fili passare attraverso i tendini e conficcarsi nell’osso. I fili si tesero e il dolore si fece ancora più insopportabile. Speravo che l’osso in cui si erano conficcati cedesse così da liberarmi da quell’agonia, una speranza vana. Vidi il braccio alzarsi privo del mio controllo. L’uomo aveva impugnato il foglio e una penna e me li porgeva dinanzi. Con l’altra mano tendeva i diabolici fili, comandando attraverso di essi il mio braccio. Fu facile per lui procurarsi la mia firma, scritta di mio pugno ma contro la mia volontà. Momenti che sembrarono durare una vita rinchiusi in un attimo, e in un attimo, appena finì di usarmi, ritrasse i neri fili che scomparvero dentro il suo soprabito. Anche la sua ombra indietreggiò lasciando la mia bocca che subito si spalancò emanando un urlo di liberazione. Caddi a terra sulle ginocchia priva di ogni forza.

L’uomo si sedette e mi disse: «Bene ballerina, la cosa più semplice è stata fatta. Strapparti la firma, però, non convalida il contratto. Questo avviene solo se a essa aggiungerai un po’ del tuo sangue, basterebbe una sola goccia; l’importante è che essa sia ceduta di tua

39

AbaluthBrividi

spontanea volontà... solo allora il contratto sarà valido.» Una magra consolazione pensai. Mai e poi mai avrei donato una sola goccia del mio sangue, se lo avessi fatto chissà cosa mi sarebbe successo. L’uomo, quasi mi avesse letto nel pensiero, aprì le braccia e disse: «Vedi ballerina, potrei uccidere i tuoi amici come ho fatto con Gustav, ma potrei anche riempirti di fama e ricchezza, diciamo... per l’infinito se a te va bene.» Sentendo il nome di Pà trovai la forza per alzare la testa e chiedergli: «Sei stato tu! Sei stato tu ad ammazzarlo?» L’uomo rispose: «Non da solo, diciamo che il mio padrone si è dovuto scomodare, lo stesso che ti ha comprata e che ti vorrebbe nel suo regno.» «Perchè? Perchè proprio io?» «Strano che Gustav non te ne abbia parlato...» proseguì l’uomo quasi stizzito; «il tuo tutore era un angelo; sicuramente anche tu avrai notato che nelle sue mani nascondeva qualche potere. Gustav sapeva che anche nel tuo corpo era racchiusa una forza. Adesso non ne hai pienamente il controllo, ma un giorno, quando bene e male, luce e oscurità si fronteggeranno nella resa dei conti, tu potresti diventare un problema per noi demoni... fino ad allora ogni anima, può essere contrattata.»

L’uomo s’interruppe, qualcosa di più importante lo fermò dal suo parlare. Rimase immobile, sembrava una statua di ghiaccio. Divaricò le narici e annusò l’aria. Le sue sottili labbra si arricciarono lievemente per formare un abbozzo di sorriso; continuò: «Bene ballerina, questa volta non credo che ci sia bisogno di lottare. Quello che desidero sta arrivando.» Rimasi più agghiacciata di lui. Sentii un rivolo caldo attraversarmi la coscia e lo vidi corrompere il bianco della mia gonna. Ebbi il mio primo mestruo. L’uomo si avvicinò al mio corpo. Non trovai alcuna forza per respingerlo. Appoggiò il contratto sulla pelle e lo usò per asciugarmi la gamba dal purpureo liquido. Appena quella carta gialla s’intinse di rosso sentii che la vita mi stava per abbandonare.

Prima di chiudere gli occhi per l’ultima volta, ebbi ancora un istante per vedere l’uomo riporre il contratto nella tasca interna del soprabito e trasformarsi in uno spettro e per rivedere quegli orrendi fili sbucargli dalle tetre mani.

40

AbaluthBrividi

… La pozza, la farfalla, i due occhi, il rospo, ancora la farfalla, la lingua del rospo, il sole, la carcassa e io... Non provai paura questa volta, l’incubo non ebbe alcun potere sulla mia mente. Mi svegliai comunque in un sussulto.

Il buio mi avvolgeva, sentivo il mio corpo indolenzito, provai a portarmi una mano sul volto ma non ci riuscii. Ogni mio muscolo, ogni volontà che lo legava al corpo, era ormai solo un ricordo.

“Rammento di essere morta... e quello spettro? Mio Dio, sono morta e sono all’inferno.”

Un battito di mani stranamente familiare mi destò dalle mie preoccupazioni. «Gustav?»

«Non propriamente» rispose una lugubre voce al mio pensiero.Gli occhi erano l’unica cosa che riuscivo a controllare e li diressi

verso la fonte di quell’inaspettata risposta.La paura, quella più arcana, s’impadronì di me alla vista di quella

figura: una sagoma umana predominava sulle altre di natura più animale, tenute assieme dalla fiamma color zaffiro, e come non bastasse indossava come dei guanti le mani di Pà.

Lo spettro si avvicinò e fu allora che riuscii a scorgere lo spazio che mi circondava. Ero rinchiusa in una gabbia, sospesa nel vuoto da un catenaccio e abbracciata dal nero più nero.

Affissa, non so come, all’inferriata, l’infame carta color giallo e rubino, che costituì la fine dei miei giorni felici e l’inizio della mia rovina. Accanto alla mia, vi erano altre gabbie con altri prigionieri.

Mi sforzai di aguzzare la vista, cercando di individuare chi ci fosse vicino a me. La fiamma bluastra regalò ai miei occhi una vampata di luce, che colpì la gabbia dopo la mia. Uno strano corpo nudo di donna era rinchiuso al suo interno. La testa calva, le iridi degli occhi sconfitte dal buio, ma la cosa più terribile erano le sue labbra, a forma di becco di uccello. Anche il corpo, qua e là, perdeva la sua fattezza umana, cosparso di piume nere che lo rendevano simile a un corvo. Impaurita come me, si rannicchiava in un angolo della gabbia.

“La mamma di Giacomo.” Sentii la voce pronunciare le parole ancor prima che il dubbio mi sfiorasse la mente. “Mio dio! Che cosa orribile!”

41

AbaluthBrividi

Diressi lo sguardo al mio corpo: i fili neri erano ancora conficcati e mi vincolanvano mani, braccia, bacino, ginocchia e gambe.

Lo spettro allungò il suo arto verso di me, sopra la mia testa. La mano di Gustav era ancora più grande. Sentii tutti i fili tendersi e, com’era successo in vita, provai il dolore più acuto. Il mio corpo era diventato una marionetta alla mercé di quell’essere. Mi scosse e mi osservò.

L’angoscia si era impadronita del mio animo.«Il mio nuovo passatempo… Questa volta quell’imbecille pare

abbia fatto le cose per bene» sussurrò scuotendo il mio corpo attraverso i fili. «Pronta per lo spettacolo?»

La fiamma derivante dal suo corpo si fece più intensa, in essa potevo scorgere il circo, il palco e non potevo credere che al suo centro, ci fossi io. Tutto attorno il solito pubblico euforico.

«Il mondo terreno e con esso il proseguire della vita. Non la tua.» Nuovamente la risposta ai miei dubbi non si fece attendere.

Iniziò a muovere, uno a uno, i fili che mi tenevano legata e il mio corpo, in quella proiezione terrena, cominciò anch’esso a muoversi.

Le lacrime solcarono il mio viso, cadendo dentro quella fiamma che sembrava inghiottirle e alimentarsi da esse, come benzina sul fuoco.

«Ah! Ah! Ah! Sorridi ballerina! Sorridi! Questo pubblico aspetta solo te!»

42

AbaluthBrividi

Giù Giuseppe De Micheli

Un buco in un prato, un semplice buco in un prato in declivio: è un inghiottitoio, l’ingresso di una cavità scavata dall’acqua nel ventre della terra. Giù, sotto il prato, il buco si allarga, si ramifica, si espande, diventa meandri, colonnati, pozzi, saloni. Su è solo un buco, quello in cui si sta infilando Lisa.

Rosso, invece, sta contemplando un altro buco, un buco nella mela che ha appena addentato. Rosso è disgustato: «Cosa c’è di peggio che trovare un verme nella mela?»

«Trovarne solo mezzo.» Lisa risponde mentre sta calandosi nel buco del prato, di lei sporgono soltanto il casco, il viso e il corpo dalla vita in su. Sembra un verme che cerca rifugio nel ventre della sua mela azzannata.

«Perché è peggio trovarne solo mezzo?»«Perché vuol dire che l’altra metà ce l’hai in bocca.»Lisa scompare nel buco. Ramon cala il sacco numero sette e si

accinge a scendere a sua volta.«Blaah!!!» Rosso sputa il boccone, poi scaraventa sul prato il resto

della mela. «Magari il mezzo verme l’ho già mandato giù. Blaah!»«Magari ne hai mandato giù uno intero, bamba. Dai, cala il numero

otto e scendi.» La mela sbocconcellata è rotolata sul prato e si è infilata nel buco, fra le gambe di Ramon, e adesso chissà dove sarà finita. «E non piangere sulla mela buttata, pensa a quanti bei troglobi sfamerà, laggiù nella grotta.»

Gli speleologi dicono futilità per nascondere l’angoscia che li attanaglia: stanno scendendo nell’Abisso delle Nottole per cercare di recuperare i corpi di due sventurati compagni.

Ramon scompare, Rosso gli cala l’ultimo sacco, il numero otto, e si infila a sua volta nel buco. Quanti troglobi sfamerà quella mela sbocconcellata, e quanti altri si ciberanno del resto di quel vermaccio che gli ha rovinato la colazione? Giù, nelle viscere della terra, di

43

AbaluthBrividi

solito arrivano solo detriti, e in piccole quantità. I detriti sono il primo anello della catena alimentare ipogea, come la luce è il primo anello di quella superficiale. Ottanta grammi di mela devono essere una gran bella massa di cibo per i troglobi, la fauna del sottosuolo, come se per noi, dal cielo, piombassero giù un migliaio di tonnellate di bistecche. «Buona mangiata bestioline; per voi, d’ora in avanti, io sarò il dio dell’abbondanza.»

Chissà che abbondanza sarebbe per gli animali delle grotte se gli lasciassero giù i corpi di Dani e di Giorgio, ma di quelli no, di quelli la fauna ipogea non si alimenterà perché gli speleologi li troveranno e li riporteranno fuori per seppellirli in un cimitero cristiano... per alimentare vermi, perché l’unica cosa certa è che ogni essere vivente è cibo per qualcun altro.

Giù.Dopo la bocca d’ingresso, colatoi, gallerie, meandri orizzontali,

forre e pozzi verticali, cunicoli, strettoie, sale, torrenti e laghi. Gli speleologi li percorrono passandosi il materiale l’un l’altro per superare i vari ostacoli.

I sacchi speleo non si portano a spalla come quelli da trekking, ma si reggono a mano, si spingono, si trascinano, si rotolano, secondo la morfologia del percorso. Nelle strettoie prima passa, o scende, la testa del gruppo, poi viene inoltrato il materiale, infine passa, o scende, la coda. Ma spesso la testa allunga il passo, i sacchi restano indietro, e la coda se li ritrova tutti sul groppone. Rosso, l’ultimo della schiera strilla a ripetizione: «Mandateli avanti, mica devo portarveli tutti io, ’sti maledetti sacchi!»

E il macabro scopo della loro discesa non lo aiuta a rimanere calmo. Fortunatamente i primi hanno il loro daffare: devono armare i pozzi, cioè assicurare le corde di discesa e di risalita e quelle di sicurezza. Così la coda può raggiungerli e rifiatare, e torna l’armonia nel gruppo. La speleologia è di gruppo, e nei gruppi l’armonia è tutto.

Sono arrivati al Pozzo Grande, ottanta metri di profondità, verticali.Ancorato ad una solida stalagmite c’è ancora l’armamento di Dani

e Giorgio. Indica il percorso che hanno seguito gli sfortunati speleologi.

44

AbaluthBrividi

Senza quello la prima spedizione di soccorso non avrebbe ritrovato la fessura che conduce al “ramo del fango” (così lo avevano battezzato). Nessuno lo conosceva prima che loro lo trovassero. Dani e Giorgio ci erano arrivati probabilmente per caso: uno dei due, giunto alla fine della corda di discesa, si sarà agganciato a una parete preparando l’armo per la seconda frazione, proprio all’imbocco di una fessura diagonale che scendeva verso una spaccatura. Vollero esplorarla. Fu un colpo di sfortuna. Un metro più in là, o di qua o sopra o sotto, e non l’avrebbero visto, sarebbero scesi in fondo al pozzo seguendo la via normale e sarebbero ancora vivi.

Ma avevano trovato la fessura, l’avevano percorsa, poi si erano inoltrati in una galleria inesplorata straordinariamente umida e piena di argilla che conservava ancora le loro tracce. E poi? La galleria si concludeva con un ripido scivolo che conduceva a un lago di fondo. La spedizione di soccorso non aveva trovato altre uscite, né altre traccie degli scomparsi, né i loro resti.

E ora Rosso e Lisa e Ramon e gli altri accompagnano gli speleo sub incaricati di scandagliare il lago, l’unico posto in cui avrebbero potuto finire i due speleologi. Man mano che procedono la galleria diventa sempre più umida e gocciolante, una pioggia incessante che trasforma in un rigagnolo prima, in una palude di fango poi, il pavimento.

Il largo condotto finale è molto inclinato, un vero e proprio scivolo, coperto da un infernale spesso strato di argilla viscida e sdrucciolevole che rende facile la discesa, ma impossibile la risalita senza mezzi artificiali. C’è una grossa stalagmite che fa da ancoraggio naturale, risparmiando la fatica di piantare gli spit, ma attorno alla stalagmite non c’è traccia di armamento. Sembra a tutti impossibile che Dani e Giorgio siano scesi senza armare lo scivolo. Rosso avvolge attorno alla stalagmite una corda statica bloccandola con un elegante gassa e comincia a scendere tenendosi alla corda per frenare la velocità di discesa. Sa, perché ha partecipato alla prima spedizione di soccorso, che prima del lago sotterraneo c’è solo un breve terrazzino, anch’esso pieno d’argilla, e che a lasciarsi andare scivolando si finirebbe dritti nell’acqua.

45

AbaluthBrividi

Ramon questa volta scende per ultimo e ci mette parecchio tempo per osservare la strana argilla. È abbondante come non ne ha mai vista prima. Il tetto gocciola incessantemente da una miriade di piccole stalattiti a torciglione, lo strato di fango brilla riflettendo la luce per il velo d’acqua che le scorre sopra. Appena sceso lascia la corda, che viene quasi inghiottita dall’argilla.

Sul terrazzino c’è poco spazio, la sala in cui si trova il lago è un semplice imbuto con le pareti inclinate, il tetto è pieno di stalattiti che gocciolano incessantemente, non c’è nessuna stalagmite perché le gocce cadenti vengono inghiottite dall’argilla. Tutt’attorno alla superficie del lago pochissimi spazi orizzontali. Rosso impreca in continuazione contro l’argilla. Sta cercando il calcare duro da perforare per ancorare le luci d’orientamento dei sub, luci al carburo, bianche, luminosissime, visibili anche da grandi profondità che daranno ai sub costante indicazione della direzione in cui si trova la superficie. Rosso stende anche le corde di sicurezza per assicurare i sacchi del materiale; l’argilla spessa rende difficile il lavoro. Il lago è una superficie cupa, increspata incessantemente dai cerchi concentrici delle gocce di pioggia che cadono dalle stalattiti pendenti dalla volta. Sembra molto profondo, la luce penetra pochissimo sotto la superficie, la rende brillante e trasparente per pochi centimetri, trasformando le sospensioni in uno sciame di microscopiche lucciole, ma attorno alle pozze di luce l’oscurità si prende la rivincita. Anche la volta si perde in una lontananza spettrale. Finalmente le luci al carburo sono piazzate, due sub finiscono di calzare le pinne e si immergono con infinita cautela per non sollevare fanghiglia e scompaiono. Altri due rimangono fuori pronti ad intervenire in caso di emergenza.

Rosso, Lisa e gli altri speleologi si sistemano sui vari terrazzini. A loro non rimane che aspettare. Ramon invece esamina accuratamente la onnipresente argilla con un piccolo microscopio da campo che ha portato appositamente. La prima spedizione di soccorso gli aveva riferito che quell’argilla era particolarmente abrasiva, che aveva logorato le corde d’armamento e le suole degli stivali tanto che tutto il materiale usato aveva dovuto essere buttato via.

46

AbaluthBrividi

Informa i compagni di quello che sta scoprendo: «È incredibile la quantità di batteri che popolano questa argilla. E sono belli grossi, anche.»

Deposita gocce d’argilla in capsule di nutrienti vari e le esamina al microscopio.

«Ehi, che appetito! Si riproducono a vista d’occhio appena messi a contatto con l’agar.»

Le lampade disegnano cerchi sempre più stretti perché i sub scendono a spirale lungo le pareti del grande imbuto stando ben attenti a non toccarle per non intorbidare l’acqua con la fanghiglia. Cercano anfratti in cui possano trovarsi i corpi dei due sfortunati speleologi.

«O mioddio! Si mangiano anche le capsule. Il vetro no, i vetrini sono ancora intatti, ma il plexiglas delle capsule deve essere una leccornia per loro.»

Comincia freneticamente a staccare campioncini di ogni materiale che ha a disposizione, tessuto dal suo fazzoletto, il nailon delle corde, un pezzo di elastico rimastogli in tasca e li immerge nell’argilla per poi esaminarli al microscopio.

Le luci dei sub si fanno sempre più flebili man mano che aumenta la profondità, fino a sparire quasi del tutto. Ora sono due miseri puntini di luce che eseguono cerchi strettissimi. Devono essere prossimi al fondo del lago.

La voce di Ramon sembra scandire la loro discesa: «Ma questi batteri mangiano tutto! L’elastico se ne è andato. Anche il cotone del mio fazzoletto: l’han tutto digerito.»

La sua voce si alza di tono: «Secernono enzimi che dissolvono gomma, tessuti e plastica.»

E ora urla di allarme: «Andiamocene immediatamente. Richiamate i sub. Risalita d’urgenza. Mangiano anche il nailon delle corde. Ecco perché non abbiamo trovato l’armo di Dani e Giorgio. Se lo sono mangiati i batteri. Via, via, subito da qui, prima che distruggano anche il nostro.»

A un tratto un grido: «Il lago cala.»«Mio Dio, è un sifone! Si sta svuotando!»

47

AbaluthBrividi

Il livello dell’acqua stava calando rapidamente e la superficie appariva in circolazione antioraria. Si stava formando un gorgo.

«Calate subito le corde, che i sub le afferrino appena emergono.»Le luci dei sub riappaiono e ingrandiscono, non descrivono più dei

cerchi, ma oscillano qua e là. Evidentemente cercano di risalire in verticale per riemergere e lottano contro la corrente discendente. Una luce scompare, l’altra appare brevemente in superficie. È un sub che tenta di aggrapparsi alle sponde, ma sono molto scivolose e ricade in acqua. Viene risucchiato in giù, ora la sua luce rotea su se stessa, è preda del gorgo. Comincia ad apparire il fondo del lago: per pochi istanti il sub cerca di puntellarsi con le gambe a squadra contro le sponde mentre l’acqua sparisce e sotto di lui appare un foro, palpitante come una valvola cardiaca. Le pareti franano e il sub è inghiottito dal buco che, immediatamente dopo, si richiude.

Poi, sopra, sotto e attorno al resto della squadra degli speleologi rimasti abbarbicati ai terrazzini in alto, tutto il fango d’argilla si mette in moto, grosse bolle si gonfiano sotto i loro piedi, li avvolgono e li trascinano verso il basso. Sotto la breve cengia la pendenza si accentua diventando insuperabile per chi è privo di appigli. Qualcuno si aggrappa al corrimano approntato da Rosso, ma il peso del fango fa loro mollare la presa. Gli uomini annaspano e si inarcano e graffiano il fango, ma scivolano inesorabilmente verso il basso e con loro tutto il materiale non agganciato agli spit. Grosse palle d’argilla si gonfiano, li avvolgono, li capovolgono, li sospingono in giù. Alla fine si vedono solo masse di escrescenze che rotolano in basso, dalle quali spuntano gambe e braccia e teste in agitazione frenetica tra urla di terrore e disperazione. La valvola di fondo si riapre per inghiottire uno alla volta i bubboni e il loro contenuto. Il tappo, alla fine, si chiude definitivamente e l’acqua che gocciola dalla volta, insieme a quella che scorre lungo le pareti, si raccoglie nuovamente innescando il processo che porterà al riempimento del lago.

Aggrappati agli spit rimangono solo Ramon, Lisa e Rosso. Quest’ultimo ha avuto la prontezza di agganciarsi ad uno di essi e di

48

AbaluthBrividi

afferrare Lisa prima che venisse portata via da uno dei mortali gonfiori di fango. Ramon si era mantenuto assicurato per non scivolare nel lago durante la raccolta dei campioni d’argilla. Testimoni impotenti della tragedia dei loro compagni hanno urlato d’orrore per tutto il tempo, breve e infinito, della loro agonia.

Infine cade il silenzio, rotto solo dal picchiettio continuo delle gocce d’acqua che cadono sull’argilla.

Rosso è il più vicino allo scivolo d’ingresso dalla sala. Assicura Lisa a uno spit e risale cautamente per raggiungere l’estremità dell’armamento di sicurezza ancorato alla grossa stalagmite. A grandi bracciate toglie l’argilla per mettere a nudo la roccia e poggiare gli stivali su terreno solido, e nello stesso tempo per rintracciare la corda statica che rappresenta la loro unica possibilità di risalita. Ma non la trova. Sotto di lui si formano nuovi globi che tentano di sollevarlo, rovesciarlo e trascinarlo in basso. Altrettante palle si gonfiano attorno a Lisa e a Ramon che si difendono a colpi di braccia disfacendole. Dal basso cominciano a formarsi altre bolle che iniziano a risalire il pendio. Formano un’onda che sale fino a loro, li trascina, li supera, poi rifluisce verso il basso e li strattona giù. Le imbragature, i cordini e gli spit tengono, ma una seconda onda si sta formando e comincia a risalire.

«È una enorme colonia di batteri intelligente,» urla Ramon «agiscono in coordinazione.»

«Cosa ci sarà sotto il fondo del lago?»«Lo stomaco della colonia, immagino.»La seconda ondata intanto li ha risospinti in alto fino al limite della

lunghezza dei cordini. Poi rifluisce. Il peso di questa seconda ondata è spaventoso. La fanghiglia di batteri si è addensata espellendo l’acqua e ora ha la consistenza della creta, si accumula addosso ai corpi aumentando il carico sugli ancoraggi che, prima o poi, saranno costretti a cedere.

«Trova questa benedetta statica» urla Ramon a Rosso, che scuote la testa. «Non c’è più. Vedo la stalagmite, ma non c’è traccia dell’armamento. Se lo sono mangiato. Siamo intrappolati qui dentro.»

49

AbaluthBrividi

«Si stanno mangiando anche gli stivali e le tute. Fra poco, anche se gli spit tengono, ci denuderanno. Speriamo solo che il freddo ci addormenti prima che comincino a mangiarci vivi.»

Lisa singhiozza: «Altro che la tua mela, Rosso. Noi sì che siamo la loro abbondanza.»

La terza ondata di argilla diventata creta si sta avvicinando.«La mela! Il verme! Facciamoci sputare fuori.» Rosso fruga

freneticamente nel sacco più vicino. «Eccoli!» grida trionfante. Estrae i barattoli del carburo e comincia a spargerne i pezzi sul fango tutt’attorno. A contatto con l’acqua il carburo sviluppa acetilene che si incendia. Vampate di luce bianchissima avvolgono i tre speleologi mentre gli scoppi e i sibili della reazione riempiono la grotta di echi. Sembra un urlo di dolore. Anche Lisa e Ramon spargono carburo a piene mani. L’ondata di creta li raggiunge. Ora è quasi solida, e una seconda ondata si sta già formando sotto di loro, un terzo ribollire, parossistico si annuncia appena più in basso.

«Tossisce, ci sputa» urla Ramon. Sganciamoci e risaliamo, l’argilla è ormai creta consistente.»

«Sei pazzo! Se ci sganciamo ci inghiotte.»«No! Ci sta sputando fuori.»Era vero. Le ondate di argilla consolidata li stavano sospingendo

in alto. Tagliano i cordini e salgono, due passi in alto e uno sprofondando in basso finché una nuova onda li raggiunge e li sospinge nuovamente. Cercano di puntellarsi l’un l’altro. I cavalloni di creta proseguono anche nello scivolo d’ingresso e li spingono sempre più su finché Rosso riesce ad aggrapparsi alla stalagmite e Lisa e Ramon alle sua gambe. Un ultimo sforzo ed escono dalla fanghiglia. Cominciano a correre, ansimano, ripercorrono la galleria guardandosi indietro, aspettandosi una ondata di fango che li inghiotta. Ma qui c’è solo la normale fanghiglia, percorsa da un rigagnolo d’acqua. Cercano di sciacquarsi gli stivali, di togliersi di dosso il fango batterico e di lenire i bruciori delle mani ustionate dal carburo. Uno stivale di Lisa sta perdendo la suola. Rosso gliela lega avvolgendole attorno un fazzoletto. Tutti gli stivali appaiono malconci

50

AbaluthBrividi

e prossimi a disfarsi, le tute sono corrose e smangiate qua e là.Arrivano al Pozzo Grande. La corda di risalita, con le sue staffe è

al suo posto, dietro non c’è nessuna ondata di fango che li insegue. Respirano di sollievo.

Lisa aggancia i bloccanti alla corda di risalita, poggia il piede nella staffa e finalmente sorride: «Non sono mai stata così felice di essere un verme.»

51

AbaluthBrividi

Il gelo nel cuoreCettina Barbera

Seduta sul pavimento, Coral abbracciò più forte le ginocchia, affondandovi il capo: invocava lacrime che ancora tardavano ad arrivare, mentre in un confuso guazzabuglio di immagini rivedeva l’incidente, l’ospedale, il funerale, la veglia e sempre sentiva il tocco deciso della sua mano sulla spalla. Un tocco che ormai l’accompagnava ovunque, come un fantasma senza voce che non poteva fare a meno di rivelare la propria presenza.

Quanto avrebbe voluto piangere!Ma non le era concesso: Sapphire avrebbe dovuto essere lì a

versare lacrime per lei e non il contrario, dopotutto.Si alzò, aggrappandosi al proprio letto disfatto e superò con passo

rapido quello intatto della sua gemella per andare alla finestra.I raggi di un’alba rosata avevano cominciato ad affacciarsi tra le

nuvole del cielo plumbeo; danzavano sul ghiaccio che ricopriva le strade di Dublino, restituendo bagliori dorati.

Non poteva più rimandare: doveva visitare la sua tomba.

Quando arrivò ai cancelli del cimitero, il sole era alto nel cielo e nevicava di nuovo; li varcò con passo esitante.

Vide la lapide di lei in lontananza e di nuovo la sua mente rimase prigioniera nella stretta soffocante dei ricordi: Sapphire le era accanto sul marciapiede; le sorrideva, cercava di strapparle via gli auricolari perché la ascoltasse.

Vedeva se stessa respingere la mano della sorella ridendo; si voltava nella direzione opposta per guardare la vetrina di un negozio, mentre cominciava ad attraversare e, in un momento, tutto precipitava: Sapphire la spingeva di lato, Coral cadeva all’indietro e, rialzato il capo, vedeva in una macchia confusa qualcosa di argenteo ed enorme cancellare sua sorella dalla strada.

52

AbaluthBrividi

Le cuffie le cadevano giù, non abbastanza in fretta perché le sue orecchie potessero dare un suono all’urlo muto di Sapphire, ma rapide a sufficienza perché potessero captare il fragore dell’urto, lo stridore delle lamiere, il fischio delle gomme del bus.

Si lasciò cadere in ginocchio sulla sua tomba.Le dita intirizzite dal freddo, spolverarono via il nevischio dal

nome di sua sorella; cercò di scacciare quelle immagini, affondando le mani nella neve fino a premerle contro il marmo congelato e si aggrappò a esso per venire fuori da quel ricordo.

Sobbalzò; un rumore, una specie di cigolio, aveva rotto il silenzio. Capì subito cosa lo aveva prodotto: la porta della vecchia cappella alle sue spalle si era chiusa, mossa dal vento.

Fece per voltarsi di nuovo verso la tomba di Sapphire, ma qualcosa le impedì di farlo: si sentiva osservata; si alzò in piedi a fatica; le sue membra erano intorpidite a causa del gelo.

Studiò la cripta con più attenzione: prodigiosamente, il piccolo edificio negletto e crepato era l’unica cosa a non essere coperta di bianco; le raffiche turbinanti di neve sfioravano la sua superficie senza attecchirvi.

Qualcos’altro attrasse il suo sguardo: sul cancello arrugginito della cappella era incisa una parola tra gli intarsi astratti. Non l’aveva mai sentita prima, ma le parve gaelica. Il significato le era tuttavia oscuro: l’antica lingua irlandese era ancora un mistero per lei.

Sospirò e senza pensare la lesse ad alta voce:«Dorcha…»Una folata di vento la colpì al volto come uno schiaffo e le fece

chiudere gli occhi; dietro di essi non vide altro che oscurità e, senza conoscere l’origine di quel pensiero, decise che Dorcha era il nome di ciò che stava guardando. Una sagoma nera si muoveva in quell’oscurità, si distingueva appena, sembrava diffondere buio e al contempo nutrirsi di esso.

Schiuse gli occhi confusa e notò che qualcos’altro ora risaltava sul drappo ghiacciato e candido: c’era una scultura di fianco alla cripta, di pietra scura, la sua superficie era iridescente e opaca insieme;

53

AbaluthBrividi

sembrava che la luce, più che riflettersi su di essa, svanisse al suo interno.Era una figura femminile vestita di un lungo abito, le cui molli

pieghe ricadevano fino a coprirle i piedi. Non vedeva al di là dell’orlo di quella veste e, assurdamente, le pareva che la statua galleggiasse sulla neve. Aveva un viso sottile e affilato, voltato di tre quarti verso la cripta. Gli occhi, sbozzati nella pietra, non possedevano alcuna rifinitura particolare, eppure Coral aveva l’impressione che la scultura la guardasse. Le braccia erano dispiegate e sul busto era stata scolpita in rilievo una specie di spilla a forma di ragno: pareva starsene acquattato, in allerta.

Senza quasi accorgersene iniziò a mormorare qualcosa con voce così fioca che persino lei non sentì ciò che stava dicendo: «Sióg… Dubh… Dubh sióg»; lo ripeté più volte come in una cantilena infantile, gli occhi sempre fissi sulla statua.

D’un tratto ogni cosa intorno a lei divenne un frenetico vortice di buio; crollò di nuovo in ginocchio sulla tomba di Sapphire e chiuse gli occhi.

Quando lì riaprì, vide che non era più sola.C’era una donna davanti alla cappella, se ne stava su un mucchio

di neve e tutt’intorno a lei non c’erano impronte; sembrava essere comparsa dal nulla.

Prese ad avanzare verso Coral, era bellissima e filiforme. Portava un vestito nero e aveva lunghi capelli corvini che parevano effondere luce propria.

C’era qualcosa di bizzarro nel suo sguardo, Coral comprese cosa fosse mentre si rimetteva in piedi, su gambe che sembravano di burro: le sue iridi, di un intenso color smeraldo, erano allungate e verticali come quelle di un felino; brillavano di un lucore fluorescente, stagliandosi su cornee tenebrose come la notte e lunghe ciglia nere le sfioravano le gote ceree.

Un rapido sorriso le guizzò sulla bocca esangue e piccoli denti appuntiti e argentei catturarono un raggio di luce. Iniziò a muoversi più rapidamente e Coral notò con somma sorpresa che i suoi piedi nudi non lasciavano tracce e la sua silhouette longilinea e oscura emanava un’ombra che pareva far fuggire via il sole, proiettandosi tutt’intorno.

54

AbaluthBrividi

Dubh sióg, pensò, e di nuovo fu tutto nero per un istante.Riaprì gli occhi; l’insolita donna era davanti a lei, le sorrideva e

tendeva le braccia lunghe e candide. Coral guardò verso la cripta e sgranò i grandi occhi color del cielo: la statua era sparita, o meglio aveva preso vita!

«Sei tu…» mormorò Coral, indicando la cappella «sei tu… D-dubh… Dubh sióg… chi… cosa sei?» Non poteva credere a ciò che le suggeriva la sua mente.

«Perché rifuggi la verità?» le chiese lei, come se conoscesse i suoi pensieri «La tua stessa anima la racchiude.»

Coral la guardò per un lungo istante senza parlare: «Sei una… una fata», disse poi.

Lei annuì e le rivolse un meraviglioso sorriso: «Il tuo cuore spezzato mi ha evocata in questo cupo luogo di lacrime, sono qui per esiliare la tua sofferenza al di là del tempo e dello spazio. So cosa ti affligge. Non c’è segreto mortale che il mio animo senza età non conosca».

Le tese la mano, perché la stringesse e Coral le porse la propria; un brivido le percorse la schiena: la pelle di Dubh sióg era più fredda del ghiaccio.

Avrebbe fatto qualunque cosa per porre fine al dolore abbacinante che la perseguitava a ogni respiro che il suo cuore sentiva di aver rubato alla sorella; perciò seguì la fata.

«C’è una ragione per la quale tanto grande è il tuo dolore: una connessione speciale lega i gemelli ed è più forte di ogni altra cosa. Nessuna distanza può vincerla, neppure Bás, la morte, può. Questo legame è ancora più intenso tra te e Sapphire, poiché ella, morendo, ha tradito il proprio destino per preservare il tuo.»

Il cancello della cripta si spalancò al cospetto della fata nera e Coral sentì riecheggiare quella parola, Dorcha; sembrava provenire da ogni direzione: voci tetre e disumane la pronunciavano, vestendo il silenzio di tenebre che parevano vive e le alitavano sul collo.

Le girava la testa e le tremavano le gambe, le mancava il fiato e la terra sotto i piedi; l’unica cosa solida, certa, erano le dita della fata intrecciate alle sue in una morsa gelida ma inspiegabilmente rassicurante.

55

AbaluthBrividi

Poi tutto sembrò placarsi; si trovavano ancora nel cimitero, semplicemente sul lato opposto, eppure le era sembrato di aver compiuto un lungo viaggio, fluttuando per un tempo indistinto in una bolla di buio.

Varcarono gli alti cancelli di ferro del camposanto: tutto sembrava identico e completamente differente allo stesso tempo.

«Sei fortunata nel tuo dolore, più dei molti altri mortali che percorrono questa vecchia terra, perché il vincolo che ti lega a colei che più non vive è anche un pasáiste: un varco che potrebbe ridartela. C’è un passaggio, una strada speciale, tra questo mondo e un altro.»

«Il tuo mondo?»« Io non ho un mondo mio.»«Dov’è Sapphire, allora?»«Si trova nell’Anamacha domhan, il mondo delle anime.»Quando si fermarono, si ritrovarono in una radura; Coral si guardò

intorno stupefatta: il bosco sembrava essere uscito da un libro di fiabe, era addormentato sotto il gelido respiro dell’inverno, tutto ricoperto di neve e ghiaccio, ma la piccola radura buia era immersa nella primavera. Non un solo fiocco di neve imbiancava il terreno o gli alberi immediatamente circostanti.

Coral si fece coraggio: «Puoi davvero farla tornare?»«Ti propongo un patto con il mio signore, l’Anamacha-itheoir, è

lui che può e vuole offrirti il suo aiuto.»Coral rivide la nera sagoma senza fine che pareva divorare e creare

contemporaneamente le tenebre e deglutì spaventata; di nuovo sentì i sibili carichi di sofferenza intonare solo per lei il loro agghiacciante avvertimento. Ma il dolore era più forte del terrore.

«Non devi temere la natura di ciò che non conosci. Egli non vuole nuocerti.»

«Che cosa vuole?», domandò Coral. Intorno a lei stava accadendo qualcosa: la radura sembrava

consumarsi, tutto ora aveva un aspetto rinsecchito e annerito. Pareva che oscure dita invisibili si fossero avvinghiate su quel tratto di realtà e lo stessero uccidendo. Voci piangenti la invocavano da ogni dove.

56

AbaluthBrividi

Lasciò andare la glaciale mano della fata; insensatamente le bruciava il palmo come se fosse percorso da fiamme.

Fiamme affamate.Nere, pensò, fiamme nere. «Egli ti propone uno scambio: un’anima per un’anima.»«L’anima di chi?»«Di chiunque il tuo cuore suggerisca.»«Perché?»«Ti domandi perché restituire un’anima solo per averne un’altra?

Ma ci sono cose che non capisci. Tua sorella ha turbato l’universo con il suo gesto e bisogna ristabilire l’ordine.»

«Se dico di sì… riporterete in vita Sapphire?»«Non ve ne sarà bisogno: l’Anamacha-itheoir controlla il tempo e

lo spazio. Che cosa rispondi, dunque?»«Accetto.»La fata sorrise, una luce oscura rischiarò i suoi occhi. «Con un

bacio darai ciò che hai promesso, sii coscienziosa nella tua scelta. Avrai fino alla prossima luna.»

Non fece in tempo a replicare: un manto oscuro la avvolse, ottenebrandole la vista e schiacciandola al suolo; lentamente prese coscienza del fatto che il suo cuore non stava battendo, mentre un formicolio gelido le invadeva il corpo, saettandole lungo la schiena in stille di ghiaccio.

Provò a urlare, ma dalla sua bocca non uscì alcun suono.Il buio liquido che la avvolgeva si scompose in una infinità di

particelle che le brulicavano sulla pelle tesa, come insetti.L’aria era pesante e a ogni respiro le pareva di ingollare catrame

bollente. La sua mente si stava sfaldando e un rombo assordante le aveva investito le orecchie.

Poi tutto scomparve.Si ritrovò in piedi, su un marciapiede, una luce grigia le sfiorava

gli occhi. Il suo corpo non serbava traccia di ciò che le era accaduto, ma la sua mente era ancora congelata nella morsa del terrore. Ci mise qualche istante a capire dove si trovava e da dove proveniva la

57

AbaluthBrividi

musica rock che sentiva: aveva gli auricolari nelle orecchie. Sua sorella era accanto a lei.La guardava stranita, le stava dicendo qualcosa.Si sfilò le cuffie con uno strattone: «… ti prende? Perché non

cammini più? Cooor?! Terra chiama Cor…»« Sapphire? Io non… non mi sento tanto bene. Torniamo indietro.»«Ok, andiamo…», replicò lei e le tese la mano.Coral cercò di ricomporsi: «Cosa mi stavi dicendo poco fa?»«Eh? Ah… ho fatto un sogno assurdo questa notte. Ho sognato una

strana donna vestita di nero, Dubh… Dubh qualcosa, ci crederesti?»Quando furono giunte a casa, si chiuse nella loro stanza e si

nascose sotto le coperte, senza neppure togliersi le scarpe.La notte sopraggiunse e avvolse tutto in un buio che ora Coral

temeva molto più di prima, un buio che ora voleva qualcosa.Si addormentò senza accorgersene e sognò di quella nera radura morta. La attraversava correndo: qualcosa d’immenso, completamente

invisibile in quel buio fitto, la inseguiva; poteva sentire il suo fiato putrido sulla schiena.

Cercando di sfuggirgli, si inoltrò ancora di più nella foresta scura; grossi alberi le intralciavano il cammino, mentre acute grida e lamenti raggelanti si innalzavano dal buio vibrante e mani fatte di oscurità le si avvinghiavano alle gambe e alle braccia. Inciampò; il terreno si stava aprendo sotto i suoi piedi, pronto a inghiottirla. Un liquame nero e colloidale scorreva fra le crepe e le lambiva le scarpe.

Si aggrappò al ramo aguzzo e rugoso di un albero per rimettersi in piedi; miracolosamente ci riuscì, ma la Cosa Oscura era vicina. Doveva continuare a fuggire.

Con orrore realizzò che i rami ispidi le si erano conficcati nelle braccia; urlò in preda a un dolore pungente, ma l’albero, nero quanto il buio circostante, non voleva mollarla: più si dibatteva, più esso la avviluppava nell’intrico dei suoi rami appuntiti e decrepiti.

Si guardò intorno; l’intera foresta grondava di quel liquido oscuro, un odore ferruginoso le invase le narici in una violenta zaffata. Comprese che si trattava di sangue.

58

AbaluthBrividi

Un sangue nero, malvagio e potente che aveva un conto in sospeso con lei.

I rami le formarono un bavaglio intorno alla bocca, impedendole di urlare, mentre l’albero le respirava sul collo e spalancava le fauci, protendendosi in avanti per divorarla. Centinaia di bocche aguzze si aprirono sulla sua corteccia molle e putrescente e una voce antica, priva di umanità, fatta di mille voci, iniziò a bisbigliare, graffiando le tenebre: «Anamacha… Anamacha-itheoir.»

Coral vide la nera sagoma sollevarsi dal buio e intrappolare nelle sue tenebrose spire forme vagamente umane che si contorcevano, lanciando lamenti terrificanti.

Si risvegliò madida di sudore e con uno sforzo immane si trattenne dal dare sfogo all’urlo che già le raspava la gola.

Le anime…… divora le anime!Scivolò fuori dalla stanza e uscì da casa in preda allo sconforto:

l’alba sarebbe giunta presto, decretando la morte di sua sorella, se non avesse rispettato l’accordo.

Le strade della città, illuminate dal chiarore di una pallida luna, erano quasi deserte, ma lei doveva trovare qualcuno: una persona che meritasse quel bacio; ma come fare una scelta simile?

Intanto, il tempo sembrava passare troppo in fretta. L’Anamacha-itheoir, il divoratore, percepiva i suoi dubbi e le stava forzando la mano; Dublino tremolava sotto i suoi occhi sbigottiti; la realtà stava collassando e a chiazze, qua e là, riapparivano il bosco ghiacciato e la radura morta.

Non riusciva più a vedere il disco lunare; nuvole livide, gonfie di pioggia, lo avevano coperto, addensando ancora di più il buio intorno a lei.

Un uomo la superò a passo svelto, poco dopo si bloccò, parve agitarsi e tremare come colpito da un fulmine invisibile, si voltò di scatto verso di lei e le si parò davanti.

Il suo volto era permeato di un’oscurità che Coral ormai trovava tristemente familiare, i suoi occhi erano due neri pozzi di disperazione,

59

AbaluthBrividi

segnati da profonde occhiaie grigiastre. Spalancò la bocca e da essa fuoriuscì la Voce: era fosca come la Cosa cui apparteneva e si riversava nella notte senza muovere le labbra dell’uomo in un macabro numero di ventriloquio.

«Rispetta il patto. Nutri Dorcha… il divoratore ti comanda!»Coral indietreggiò spaventata, mentre l’uomo stramazzava al suolo

privo di conoscenza, accasciandosi come un burattino cui fossero stati tagliati i fili.

Urla voraci risuonavano ovunque in un lugubre canto salmodiato solo per lei, mentre la realtà oscura della radura avvinghiava Dublino, affondando nel tessuto urbano le sue pulsanti grinfie di buio.

Doveva fare qualcosa.Senza indugiare oltre, si gettò nel traffico.Poi non ci fu più nulla per un tempo che forse durò un istante o

forse un secolo, Coral non lo sapeva.Intorno a lei non c’era che tenebra.Doveva essere questa la morte, si disse, ma le occorsero pochi

secondi per comprendere di essere in errore: era ancora viva e si trovava di nuovo in quella radura.

La fata nera era di fronte a lei. Il buio emanato dal suo corpo, incredibilmente, stava illuminando l’intorno.

«Non è così facile, Coral. Non puoi scambiare la sua anima con la tua!»

«Perché? Non ero forse io quella destinata a morire?»«Il divoratore detta le sue condizioni, non tutto deve avere un

senso per te.»Coral s’immaginò ancora una volta seduta sulla neve a fissare il

candore della lapide di sua sorella. «No!» esclamò piangendo. Alzò lo sguardo e incrociò i mirabili occhi verdi della fata; pareva provare pietà per lei, comprenderla quasi, ma come poteva capire lei che non conosceva la morte?

«Scegli un’anima, non esitare oltre: il tempo sta per scadere…» Coral annuì lentamente e, prima ancora che la fata potesse

accorgersi delle sue intenzioni, premette le proprie labbra sulle sue:

60

AbaluthBrividi

erano fredde e senza vita, ma quegli occhi magnifici dovevano pur custodire un’anima!

La fata nera si staccò da lei: «Hai scelto, dunque» mormorò; non c’era rabbia nella sua voce incantevole «ma non hai scelto bene»; così dicendo si trasformò di nuovo in pietra e poi la pietra si tramutò in nero ghiaccio.

Coral non perse tempo e spinse la grande statua trasparente all’indietro con tutte le proprie forze, mandandola in frantumi.

Un vento fragoroso si alzò d’un tratto, così forte da sollevare i piccoli cristalli oscuri in aria. L’atmosfera sembrò addensarsi e tutto, intorno a Coral, bisbigliava: «Dorcha…»

Nevicava di nuovo; sentì un rumore appena percettibile al di sotto del rombo del vento e guardò al suolo: non tutti i frammenti neri erano stati spazzati via, quelli rimasti sembravano attratti l’uno dall’altro, come pezzetti di ferro catturati da un campo magnetico. Si scontrarono, si fusero insieme e, sotto il suo sguardo stupito, presero la forma di un grande ragno traslucido.

Vide che si muoveva verso di lei sui suoi lunghi arti sottili e indietreggiò, ma il vento le aveva costituito una barriera intorno e ora non poteva più muoversi.

Il grosso ragno di ghiaccio nero spiccò un salto e le atterrò sul torace; sentì le sue zampette acuminate artigliarle la pelle attraverso gli abiti e urlò. Un senso di freddo inimmaginabile le trapassò il cuore, pervadendola di un dolore accecante.

Guardò in basso: l’aracnide era scomparso, lasciando dietro di sé una piccola macchia d’acqua, proprio sul suo petto.

Il vento cadde, liberandola dalla sua presa; il gelo aveva invaso completamente le sue membra.

Sentì qualcosa che lottava per venire fuori, qualcosa che si agitava nel profondo della sua anima; cercò di resistere, ma non poté trattenersi: un fiotto caldo le risalì su per la gola e si riversò fuori dalla sua bocca, tingendo il suolo innevato di nero.

Un brusio percorse la radura e una risata gutturale scosse le fronde ghiacciate degli alberi con un luttuoso tintinnio.

61

AbaluthBrividi

«Dorcha…» Alzò un braccio e vide che era stranamente allungato; le dita della

sua mano non erano mai state così candide e proiettavano ombra, sebbene lì non ci fosse alcuna fonte di luce.

Corse fuori dalla radura in preda al terrore, si addentrò nel bosco e notò che non lasciava tracce sulla neve.

Qualcosa le stava graffiando una spalla, si girò e vide che si trattava di una grossa stalattite che pendeva dal ramo carico di neve di un pino mastodontico; la afferrò con mani tremanti e si specchiò sulla sua superficie.

Ciò che essa le restituì fu il riflesso zaffirino delle sue iridi allungate, incastonate in due nere orbite vorticanti.

Coral scoprì i minuscoli denti affilati e opalescenti in un sorriso rassegnato: Dubh sióg sono io ora, cacciatrice di anime per colui che le divora.

62

AbaluthBrividi

Questa notteLucia Stefania La Braca

«Propongo un brindisi.»Lei si porta i capelli dietro le spalle con un gesto aggraziato della

mano. «Volentieri.» Si allunga sul tavolino per afferrare la bottiglia di bollicine francesi. «E a che cosa?»

Con quel movimento le spalline del suo vestitino nero scivolano un po’ di lato, scoprendo centimetri seducenti. Quando torno sul suo viso la trovo a sorridermi, maliziosa, col braccio ancora sollevato in attesa della mia risposta.

«A te sarebbe scontato, a noi troppo azzardato.» Mi sporgo a mia volta per avvicinare i due calici. «Facciamo quindi a questa notte, che ha incrociato le nostre strade.»

Lei cerca qualcosa nei miei occhi e poi, convinta, riempie i bicchieri.Approfitto di questi secondi per chiedere a me stesso quando mai

mi capiterà ancora, due ore dopo aver aiutato una donna con la batteria del suv andata, di ritrovarmi disteso nel salotto di casa sua a bere un Dom Perignon accompagnato da salmone crudo.

«A questa notte allora» e mi porge lo spumante.Faccio tintinnare i bicchieri, un po’ stordito dai riflessi del vino, da

quelli del suo sorriso e da questa villa tutta vetri e punti luce.«Può essere che questo mi stia già dando alla testa?» le chiedo

agitando il bicchiere, giusto per far finta che il gioco lo stia reggendo io.Lei ride portando la testa all’indietro e mostrandomi il suo collo

sinuoso.«È una delle tue avances?»Faccio spallucce.«Sicuramente meglio di quelle di prima, lungo la provinciale»

continua lei, sorridendomi e reclinando la testa di lato.“Sicuramente meno spudorata delle tue” vorrei dirle, ma mi limito

a pensarlo.

63

AbaluthBrividi

«Vieni» fa lei sollevandosi come farebbe una piuma sospinta dal vento, «prendiamoci un po’ d’aria» e si avvia verso una terrazza.

Fuori tira una leggera brezza, piacevolmente tiepida. Lei mi indica qualche pianta che sta poco più sotto, nel giardino, ma io neanche l’ascolto, rapito dalle forme che assumono le sue labbra.

«Non so ancora come ti chiami» le chiedo interrompendola.Lei si blocca, poi sorride. «Sofia.»Mi avvicino d’un passo e lei d’improvviso corruga la fronte e si

gira di scatto verso la vetrata.«Che c’è?» faccio io.«Non hai sentito?» bisbiglia lei.Si affaccia sul salone.«Veniva da di là.»«Io non ho sentito nulla» confesso, ma le passo davanti ed entro in casa.Le luci si spengono e piombiamo nel buio.Sofia urla alle mie spalle e sento l’adrenalina infuocarmi. Resto

immobile e tendo i sensi per captare rumori o movimenti.Nulla.Faccio per spostarmi e in quello sento qualcosa fendere l’aria:

qualcosa di duro mi colpisce al volto e vacillo all’indietro. Mi accuccio portandomi la mano sul naso in preda a un dolore acuto.

Cazzo che male.Un pezzo di legno! Mi hanno tirato addosso un soprammobile di legno.Sento dei movimenti vicino a me.Mi volto indietro per afferrare Sofia e scappare prima che questi

ladri ci ammazzino o sequestrino, ma lei non c’è. Esco in terrazza muovendomi carponi più veloce che posso ma non è nemmeno qui.

Dio come fa male il naso, dev’essere rotto. Ora che son stati scoperti spero che se ne vadano.

«Aiuto!»È Sofia e il grido sembra provenire dal piano superiore.Chi sono ’sti pazzi? Potrei saltare giù dalla terrazza, è alta solo

mezzo metro sopra il giardino. Ma perché farmi ammazzare per una che conosco appena?

64

AbaluthBrividi

Un altro urlo e un’altra richiesta di aiuto, seguita da un tonfo sordo.No, non posso scappare e comunque di sicuro hanno un palo che li

aspetta all’uscita.Mi rialzo, stando aderente al muro.Le luci del giardino mi rivelano una finestra in fondo alla lunga

terrazza e mi ci fiondo subito: è spalancata, ecco da dove sono entrati. Scavalco e sono in un bagno. Mi sposto il più silenziosamente possibile e mi affaccio alla porta: dà su un corridoio alla cui fine c’è una scala che porta al primo piano. Controllo a destra e sinistra: nessuno.

Il cellulare, dove l’ho lasciato? È sul tavolo in soggiorno, merda.Ma quanti saranno? Sento un liquido caldo sotto il mento: è il

sangue che mi cola dal naso.Ancora rumori dal piano superiore, ne approfitto e scivolo verso le

scale. Salgo. La casa è davvero enorme… Sapessi almeno orientarmi. Giungo in un altro corridoio sul quale affacciano quattro stanze. Sento un urlo soffocato, mi giro per individuare da dove arriva e istintivamente mi riparo il volto col braccio: sembra un portafoto in argento quello che mi ha colpito e che ora cade giù per le scale. Riesco a vedere una figura che rientra in una stanza.

Almeno non sono armati. Mi faccio coraggio e corro in quella direzione. Arrivato alla porta mi affaccio e subito mi ritraggo per evitare di essere colpito. Prendo fiato per entrare ma dietro di me tuona un colpo di pistola, fortissimo e terrificante in quel buio silenzio.

La gamba, mi hanno sparato alla coscia sinistra. Cado in ginocchio. È la fine, lo so.

Nonostante i miei gemiti sento dei passi dietro di me. Mi ha sparato alle spalle, il maledetto. Ma non mi lascerò ammazzare così: punto un piede a terra per alzarmi ma esplode un altro colpo.

Mi schianto a terra.Mi ha colpito alla spalla sinistra, se ancora ce l’ho. Non vedo più

nulla, solo puntini rossi che danzano davanti agli occhi e dalla mia bocca non escono che rantoli soffocati.

Qualcosa si appoggia piano sulla spalla colpita, credo un piede.

65

AbaluthBrividi

«Vaff… ah!»Non riesco a finire la parola che l’uomo mi sale sulla spalla.«Fa male?»Per un attimo quasi non sento più dolore: è una voce gentile a

chiedermelo, femminile, è… Sofia?Volto la testa di lato perché di più non riesco a muovermi. È

vicina, con un piede nudo sopra di me e in mano una rivoltella che mi punta contro. Non vedo chi c’è dietro di lei, se c’è. Si abbassa e disegna un cerchio sulla mia guancia con la canna della pistola. Brucia, ma non è nulla in confronto al resto. L’immagine di lei si sfuoca mentre mi sorride. Si avvicina ancora di più e mi sussurra all’orecchio: «Non morire subito, devo ancora divertirmi…» e mi lecca il lobo dell’orecchio.

«Ma…»«Sssh… Risparmia il fiato per urlare tesoro. Vado a prendere

qualche giocattolo e arrivo subito.»Guizza via, leggera come il suo vestitino nero, e la sento a

malapena scendere le scale.Non posso crederci. Se voglio vivere devo fare qualcosa. Provo ad

alzarmi ma la spalla ferita non regge, ricado e sbatto il naso. Il dolore mi provoca le vertigini. Sento il cuore che pompa nel tentativo di tenere alta la pressione del sangue, provocando solamente un’emorragia più veloce. Uso la mano e la gamba buona per trascinarmi in una stanza, forse riesco a chiudermi dentro.

«Ma che fai?»La sua voce mi sembra all’altezza del pavimento, credo sia ferma

sulle scale.«Che sciocchino, ora ci penso io.»Vedo sempre più buio. A destarmi è ancora la sua voce.«Eccomi qui!» civetta felice. «Così non andrai da nessuna parte.»

Non riesco a girarmi ma sento qualcosa puntarsi sul piede della gamba buona e un attimo dopo rumore di ferro che batte sul ferro.

Urlo senza neanche accorgermene.«Guarda cosa mi hai fatto fare» mi rimprovera, ma il tono è

66

AbaluthBrividi

eccitato. «Come farò a spiegare questo buco nel parquet?» Si distende vicino a me, per guardarmi negli occhi.

«Dovrò chiamare un falegname» mi spiega, tenendosi il viso sollevato con un palmo; «e magari se sarà gentile potrò ringraziare anche lui a modo mio» continua con voce calda.

«Non uccidermi» riesco solo a dire.Mi sorride e mi bacia sulla fronte. «Non subito. Pensa, ho acceso il

camino giù, così posso scaldare i ferri e cauterizzarti le ferite. Resisti mi raccomando.» E si alza.

«Non sarai mica uno di quelli che si taglia la lingua a morsi per farla finita?» mi chiede con tono distratto mentre sento che si sposta attorno a me. «Perché strappare i denti con la tenaglia è un lavoraccio e vorrei evitarlo.»

I suoni dei suoi passi alle mie spalle sembrano rintocchi mortali. Si siede sopra la mia schiena, a cavalcioni. Il suo corpo caldo riscalda il mio, ormai quasi freddo.

Credo si stia accendendo una sigaretta.Uno sbuffo.Le sue mani si appoggiano al mio collo e cominciano a massaggiarlo.«Sei così nervoso» e scende giù per la schiena, «ti perdi tutto il piacere.»Si abbassa su di me e sento i suoi seni sulle spalle. Soffia il fumo

verso di me.«Così va meglio?» Mi spegne la sigaretta dentro l’orecchio. Cerco

di colpirla con una testata ma vado a vuoto; continuo a dimenarmi per il dolore, la rabbia e la disperazione ma ottengo solo altra sofferenza.

Riappare davanti a me tenendo in mano un taglierino e un flacone di ammoniaca.

«Quale scegli?» mi chiede come se la decisione fosse tra una scarpa rossa e una nera.

«Allora?» mi sollecita impaziente.«Le… ferite…» riesco solamente a biascicare, esausto.«E va bene.» Molla tutto e scende giù, lasciandomi l’ombra del

suo profumo.

67

AbaluthBrividi

Uso tutte le mie forze per rimanere cosciente, eppure a svegliarmi è l’ustione alla spalla che mi fa sobbalzare.

«Fermo» mi cantilena come fossi un bambino. L’aria è già satura dell’odore di carne bruciata.

«Sofia» riesco a bisbigliare.«Dimmi.»«Mi spiace… ma credo di … non farcela.» Riprendo fiato. «Posso

chiederti…»Tintinnano i ferri sul pavimento, si precipita accanto a me e mi fissa.«Girami… e baciami.»Sembra un po’ delusa. Dopo un po’ la sento fasciarmi la gamba,

togliermi quello che mi aveva conficcato nel piede e bendarmi anche quest’ultimo.

Infila le mani sotto di me e con un sforzo mi fa ruotare prima sul fianco e poi sulla schiena.

Studia il mio volto, o meglio quella maschera di dolore che ne ha preso il posto.

«Pensavo di giocare un po’ di più, ho sbagliato a spararti due volte.»«Baciami… poi fammi quello… che vuoi.»S’illumina.«Potrei cucirti le labbra! Se poi rompi i punti urlando ti bacerò

ancora.»Deglutisco e chiudo gli occhi. Sento i suoi capelli soffici sul mio collo

e sul mio viso, e finalmente le sue labbra fresche poggiarsi sulle mie.Libero il braccio buono, che tenevo sotto la gamba, e con tutta la

forza che mi è rimasta sferro un colpo in direzione della mia faccia, sperando di colpirle il collo. Sento il taglierino che stringo nella mano entrare nella sua carne con rumore secco e liquido al tempo stesso.

Apro gli occhi e mi ritrovo nei suoi, spalancati e immobili. Credo che l’uno sarà l’ultima immagine dell’altra. Entrambi andati incontro alla morte alla ricerca di un sottoprodotto dell’amore.

68

AbaluthBrividi

L’ora più buiaElio Errichiello

È iniziato tutto l’altro giorno, quando una donna mi ha dato quel libro. Era una bella edizione, vecchia di almeno mezzo secolo, il dorso di pelle scura, le pagine un po’ ingiallite, e quell’odore ruvido che si sprigiona mentre passi le dita sulla carta. “Racconti”, di Edgar Allan Poe. Una lettura terribilmente affascinante, che deve aver acceso la mia fantasia.

“Ero spossato, mortalmente spossato per quella lunga agonia; e quando alla fine mi slegarono e mi permisero di sedere, sentii che i miei sensi mi abbandonavano. La sentenza, la paventata sentenza di morte, era stato l’ultimo distinto accento che m’era giunto alle orecchie. Dopo di che, il suono delle voci inquisitorie sembrò immergersi nel brusio confuso di un sogno. Quel suono portava al mio spirito l’idea di rotazione, forse perché l’associavo nella mia fantasia col frullìo di una ruota di mulino…”

Leggevo “Il Pozzo e il pendolo” quando mi accorsi che ormai mi stavo consumando gli occhi da ore su quelle lettere sbiadite, le parole mi si aggrovigliavano nel cervello e le pupille secche già mi bruciavano al calore della lampada. Posai il libro sulla scrivania e spensi la lampadina, infilandomi sotto le coperte. Nella stanza non c’era un filo di luce, le persiane erano serrate come al solito. Mi rotolai un paio di volte su me stesso, cercando la posizione giusta, ma stranamente non ero a mio agio. Di solito mi abbandono subito al sonno, ma forse il mio animo era troppo eccitato. Mille pensieri mi affollavano la mente: pensavo al primo racconto, perché l’orango aveva ucciso le signore della rue Morgue? Era un animale che amavo, e ora lo trovavo sinistramente inquietante. Poi pensai che ciò che trovavo inquietante era che Madame L’Espanaye e sua figlia non sapevano che quel giorno sarebbero state massacrate: erano in casa loro, si sentivano al sicuro. Non c’è niente di peggio di quando l’orrore si intrufola in casa tua.

69

AbaluthBrividi

Questi pensieri mi toglievano il sonno, rendendomi nervoso. Quando sentii le palpebre farsi pesanti, un rumore mi fece scattare, facendomi balzare il cuore in petto. Doveva essere caduto qualcosa a terra, qualche libro, ce ne sono centinaia in questa stanza. Provai a guardarmi intorno ma il buio era totale, allora allungai le mani verso l’alto e le fissai aspettando che gli occhi si abituassero all’oscurità. Me ne stavo così disteso quando notai quali strani riflessi facessero le mie mani lungo il soffitto: muovevo le dita e pareva di vedere un albero spoglio contorcersi, aggrovigliarsi, distruggersi. Fermai le mani, qualcosa era cambiato, ora pareva che le ombre disegnassero un ragno, le zampe avviluppate, confuse. Le mie dita erano ferme, ma le zampe si muovevano. Chiusi gli occhi e tirai un sospiro. Quando si è stanchi e il sonno non arriva la coscienza può fare brutti scherzi. Feci finta di nulla e mi riavvolsi nelle coperte.

Più agognavo il mondo dei sogni più il sonno mi evitava. Ormai ero cosciente di ogni rumore nella stanza, qualche insetto che ronzava vicino alla finestra, e quel maledetto orologio sembrava volermi torturare, il suono prima era lieve, ma ora mi martellava i timpani. Alzai la testa per guardarlo: inutile, non si vedeva niente. Ma in quello stesso momento sentii di nuovo un rumore, sembrava che qualcosa avesse urtato la finestra, magari un uccello. Stavo già pensando “Maledetto, mi hai fatto paura” quando con la coda dell’occhio mi parve di vedere un’ombra. Mi bloccai, immobile. Il cuore mi martellava contro la cassa toracica, ora sentivo solo quello, l’orologio l’avevo dimenticato. Probabilmente non avevo visto nulla, per di più ero sdraiato, ma a me era sembrata una dannatissima ombra.

Decisi che dovevo alzarmi, e così feci, andando subito ad accendere la luce. La stanza era vuota, e mi sentii un idiota per essermi alzato. Diedi comunque un’occhiata in giro, e vidi che i Racconti di Poe erano caduti dalla scrivania. Li rialzai e poi decisi di andare a prendere un bicchier d’acqua. Nel corridoio sentii il suono confortante del russare di mio padre proveniente dalla camera dei miei genitori. Non nascondo che ero spaventato, e quel rumore

70

AbaluthBrividi

fastidioso mi ricordava che non ero solo. Andai dritto in cucina e mi versai dell’acqua. Poi accadde una cosa orribile: portai lo sguardo verso la porta della cucina; c’era qualcuno, ne sono certo, ma fu solo un attimo, perché in un battito di palpebre l’ombra si spostò rapidissima oltre il cono di luce. Io restai immobile, stringevo il bicchiere così forte che le nocche dovevano essere sbiancate.

Stavolta ero sicuro di aver visto qualcosa, ma non sapevo cosa. Pensai a un ladro, ma non avevo visto un uomo, solo una figura… “Sei solo stanco” pensai dopo un po’, quando riuscii a posare il bicchiere e a rilassare i muscoli. Ma la paura non mi aveva abbandonato: non ebbi il coraggio di avventurarmi in soggiorno e mi diressi verso la mia stanza. Spensi la luce uscendo dalla cucina, e mi ritrovai di nuovo al buio, solo nel corridoio. Non mi liberavo dall’idea che qualcuno mi stesse seguendo, l’orrenda sensazione che qualcosa fosse lì dietro di me.

Cercavo solo di non pensarci, volevo solo addormentarmi e rivedere il sole. Mi tuffai di nuovo sotto le coperte. Avevo la strana impressione che qualcuno mi stesse fissando, seduto nascosto nel buio nell’angolo della stanza, dove non potevo scorgerlo neppure strizzando gli occhi. Mi sistemai su un lato e aspettai che le palpebre diventassero pesanti. La stanchezza mi vinse, finalmente sentii che il sonno mi stava accogliendo con dolcezza, aprii ancora un paio di volte gli occhi, come stordito, e mi addormentai avendo negli occhi l’immagine agghiacciante di un volto che mi fissava disteso sul cuscino accanto a me, ma ormai ero come ubriaco e mi abbandonai alle malie di Morfeo lasciando da parte le paure.

Dovetti svegliarmi non molto tempo dopo, sudato e assalito dagli incubi. Quel volto non era un sogno, l’avevo visto prima di addormentarmi e aveva tormentato il mio inconscio con visioni oniriche raccapriccianti. Mi alzai subito dal letto madido di sudore e provai ad accendere la luce, ma l’interruttore non dava segni di vita. Doveva essere mancata la corrente. La casa d’un tratto mi parve più buia e silenziosa. Andai in corridoio e allora mi resi conto che non sentivo mio padre russare. Ero inquieto, decisi di controllare la stanza

71

AbaluthBrividi

dei miei. Entrai in silenzio, aprendo la porta lentamente, feci qualche passo alla cieca. In quel momento dovette mancarmi il respiro: il letto era vuoto, i miei genitori non c’erano.

Crollai sulle ginocchia e toccai le lenzuola: erano intatte, come se nessuno ci avesse dormito. Ora respiravo a pieni polmoni, sembrava che nella stanza non ci fosse abbastanza aria solo per me. Nello stesso momento mi accorsi che stavo singhiozzando. Chiunque fosse entrato in casa mia li aveva presi. Non so perché ma nella mia testa sentivo ripetere una frase che avevo letto in Amleto. Questa è l’ora più malefica della notte, i cimiteri sbadigliano, e l’inferno alita il suo contagio al mondo. Ora potrei bere sangue ancora caldo, e fare cose che il giorno tremerebbe a vedere.

Ero preda di allucinazioni febbrili, una paura arcana, l’ancestrale sgomento di trovarsi soli nel buio. Capii che non era quello a spaventarmi, ma l’angosciosa sensazione di non essere solo, l’idea che un’immonda presenza mi incombesse alle spalle. Potevo sentirla adesso, il suo alito caldo sul collo sudato, sapevo che se mi fossi voltato i miei occhi non avrebbero visto nulla, ma non importava poiché il mio cuore l’aveva già sentita. Ero precipitato nel pozzo, dovevo tirarmene fuori.

Non so perché, andai in bagno. Volevo sciacquarmi la faccia, imbrattata di sudore e lacrime. Ora che ci penso non notai nemmeno che c’era già una luce accesa, una luce sfocata, sulfurea. Mi tuffai col viso sotto il rubinetto, strofinai bene la faccia quasi volessi lavarmi di dosso quella paura. Quando alzai lo sguardo urlai a fatica, con la bocca impiastrata. Fissavo nello specchio un viso che non era il mio, la faccia butterata più vecchia di almeno vent’anni, i capelli ingrigiti sembravano quelli di mio padre, gli occhi infossati e rossi come braci. Lo specchio parve rimandarmi quell’urlo, e tra gli occhi di quell’uomo che fissavo si aprì un’incrinatura, e presto una ragnatela di crepe avvolse quel volto.

C’era qualcosa sul collo dell’uomo che guardavo oltre lo specchio, qualcosa che premeva sotto la pelle, cercava di uscire. Mi toccai il collo e sentii qualcosa, un parassita che mi strisciava nell’epidermide.

72

AbaluthBrividi

Lo vidi schizzarmi sul braccio, provai a colpirlo come si uccide una zanzara, ma quello si ritrasse, e poi spuntò fuori come un fungo nero dalla testa di ferro. Sentii un bruciore infernale e urlai di nuovo, lo specchio si infranse ancora, ora era una grande tela cubista; il mio volto distorto mi fissava corrucciato, poi l’uomo dello specchio allungò le mani verso di me. Io non avevo mosso un muscolo, feci un passo indietro perplesso, e quello invece avanzò, gli occhi erano due fessure di fuoco. Gridai, ma l’urlo mi si strozzò in gola. Tra i mille riflessi nello specchio avevo visto una figura strisciarmi alle spalle e sparire nel corridoio, ora era più distinta, quasi umana, ma poco più che un’ombra, indifferente al mio terrore. Quando mi girai non c’erano che tenebre. Non avevo bisogno di voltarmi per sapere che lo sguardo dell’uomo nello specchio era ancora fisso su di me, potevo sentirlo bruciarmi sulla nuca.

Lo ignorai e mi avventurai nel corridoio. Ormai avevo perso ogni controllo, non c’era niente fuori del battito frenetico del mio cuore. Mi trovai di nuovo nella mia stanza, senza riflettere. C’era un suono assordante che riempiva l’aria scura, come se un gigante selvaggio picchiasse un grande tamburo. Veniva dalla parete: non potevo aspettare, dovevo guardare l’orologio, l’alba era come una meta agognata, un’amica leale che mi avrebbe trascinato via da quell’orrore. Staccai l’orologio dalla parete, fissai a lungo il quadrante per metterlo a fuoco. La lancetta si muoveva lentamente, ogni rintocco una martellata, ma non andava nel verso giusto. Il tempo, il mio unico alleato, la mia sola speranza, mi stava prendendo in giro. Le lancette giravano al contrario, volevano dirmi che il mio incubo non sarebbe mai finito. Lo gettai a terra disperato.

Quando si perde anche la speranza non resta niente. Feci un passo e inciampai in qualcosa: quel maledetto libro era caduto di nuovo. Mi ritrovai per terra, e non seppi fare di meglio che raggomitolarmi in un angolo e chiudere gli occhi. Non avevo più la forza di guardare e non vedere niente. Sapevo che c’era qualcosa nella stanza, qualcosa che si trascinava nel buio, mi stava addosso, mi soffocava. Sapevo che non potevo fare nulla, ogni fibra del mio essere era stata presa dalla paura.

73

AbaluthBrividi

Non credete ai poeti che parlano dell’amore, o a qualche filosofo che parla dell’odio. Non esiste alcun sentimento più intenso e acceso della paura. La paura creò gli dei, hanno detto. È una passione violenta e atroce, che ci lacera dentro, e con una rapidità sorprendente. Quando il terrore ci coglie, anche se per pochi attimi, ci consuma, offusca la nostra mente e ci attanaglia le viscere. I nostri pensieri cessano di esistere, dimentichiamo tutto, qualsiasi cosa avessimo provato; amore, odio, dolore scompaiono in un istante. Tutti i sentimenti possono essere soppressi dalla nostra volontà. Eppure la paura non può essere sottomessa dalla nostra mente nel momento in cui si scatena, ci paralizza facendoci scoppiare il cuore. Non crediate che esista chi ha coraggio senza timore, la vera paura è quella che non possiamo affrontare. La paura è in ciò che non vediamo, in ciò che non conosciamo o non possiamo comprendere. La paura si nasconde nel buio, dietro le barriere dell’ignoto.

Mi affannavo in queste riflessioni, abbandonandomi a dolci pensieri di morte, nel nulla assoluto della tomba, nel riposo senza sogni in cui nessun timore può toccarci. O almeno questo speravo. Un tocco freddo, gelido mi sfiorò la mano, la ritrassi di scatto. Poi qualcosa mi sussurrò all’orecchio, un sospiro penoso che mi fece rabbrividire. L’inferno è vuoto. Tutti i diavoli sono qui. Mi sorpresi a pensare ancora a Shakespeare.

Delle dita ghiacciate mi strinsero il braccio, mi lamentai, non riuscivo a urlare, ma strinsi gli occhi più forte. Non volevo vedere: qualunque cosa fosse non volevo sapere. Il libro che avevo in grembo sembrava ribollire, si spalancò e ne venne fuori un alito di morte. Gli spiriti mi danzavano intorno, si facevano beffe di me.

Poi improvvisamente vi fu un rumore sordo, più forte di tutti gli altri, più forte del tamburo nel mio petto, più forte delle lancette che battevano sull’incudine invisibile, più forte di quel silenzio assordante. Era vicino alla porta di casa. La presa sul mio braccio si ritrasse, i Racconti si richiusero di botto. Qualcosa stava entrando in casa, qualcosa di tremendo, ne ero certo.

Sentii uno schianto in cucina, frastuono di pentole e cocci, sbattere

74

AbaluthBrividi

di porte. Qualunque cosa fosse, stava venendo da me, mi stava cercando, fiutando come una preda. Sentivo i suoi passi nel corridoio, si trascinava come un boia, lenta, inesorabile. Avvertii il suo respiro pesante quando fu sulla soglia, sembrava affannato, pensai che non riuscisse più a trattenere il suo desiderio famelico. Non ne potevo più, dovevo vedere, dovevo sapere. Alzare le palpebre fu come sollevare un macigno. E me la vidi davanti, una figura alta, massiccia, più scura delle tenebre, una forma vagamente umana, un capo mostruoso nascosto nell’ombra. L’ancella della Morte è venuta a prendermi, pensai. Quella allungò le mani, e io non riuscii a trattenere un sussulto. È arrivato il momento, mi dissi, posso chiudere gli occhi.

Sentii uno schianto, un fragore tremendo. Volevo aggrapparmi alla vita, volevo ritrovare la forza, potevo sentire il sangue pomparmi con violenza nelle vene. Con una disperazione selvaggia trovai il coraggio di riaprire gli occhi per affrontare il mio destino. Una luce abbagliante come di mille fuochi mi accecò all’istante, mi coprii il viso con le mani, confuso.

«Signore...»Una voce di donna mi arrivava alle orecchie come un’eco lontana.

Gli occhi si abituarono alla luce e vidi una signora robusta che torreggiava su di me, con un enorme cappello pieno di fiori a coprirle la testa ingrigita.

«Signore sono io» mi disse in modo gentile. «Sta bene?»Mi guardai intorno. Ero in un angolo della mia stanza. Le persiane

erano spalancate, la luce del giorno inondava la finestra. Il letto era disfatto, l’orologio in mille pezzi in un angolo, e alcuni libri giacevano dimenticati al suolo.

«Che ore sono?» chiesi, e non riconobbi la mia voce.«È mezzogiorno passato, signore» mi rispose la donna. «È ora di

alzarsi.»«Dove sono i miei genitori?» Li avevo quasi dimenticati, ora ero

stato colto da un’angoscia profonda.«Signore», la donna sembrava corrucciata, «i suoi genitori sono

morti da anni, non lo ricorda?»

75

AbaluthBrividi

«Mio Dio…» Mi portai le mani al viso piangendo, ma in cuor mio mi sembrò di aver sentito quella frase centinaia di volte.

«Venga con me signore.» La donna mi aiutò ad alzarmi. «Ha bisogno di riposare. Ha di nuovo dimenticato di prendere le sue medicine, non è vero?»

«Non me lo ricordo» piagnucolai.«Non si preoccupi. Ora ci penso io.» Mi sorrise. «Ah, dimenticavo.

Le ho portato un nuovo libro.»

76

AbaluthBrividi

Scherzi della menteSonia Tortora

Rebecca era accucciata in un angolo della stanza e sembrava non volersi muovere. Si guardava intorno preoccupata e infastidita; loro erano vicini, lo sentiva, doveva ucciderli, uno per uno o avrebbero ucciso lei.

Si alzò di scatto e fece un giro per la casa. Si assicurò di aver chiuso a chiave la porta d’ingresso e di aver ben sigillato tutte le finestre, quindi prese un coltello affilato dal mobile in cucina e ritornò in camera da letto. Con del nastro adesivo tappò tutti i possibili spiragli d’entrata nella stanza e si rimise nel suo angolo, rannicchiata, ad aspettarli. Dondolava su se stessa per smorzare la tensione e si guardava nervosamente attorno.

La sveglia sul comodino scandiva i secondi e lei cominciava a temere che non sarebbero venuti. No, non poteva andare così, non quella notte, in cui aveva finalmente deciso che si sarebbe ribellata, ponendo fine alle angosce di una vita.

Le palpebre stavano lentamente chiudendosi, ma a un tratto Rebecca sentì dei rumori provenire dalla porta d’ingresso, come di tarme che bucano il legno, e dei passi veloci, numerosi, rivolti nella sua direzione. Strinse il coltello con due mani, pronta ad attaccare l’aggressore con tutta la sua forza, poi sentì altri passi, e altri ancora. Erano tutti lì fuori, affamati di lei.

Un rivolo di sudore cominciò a scenderle dalla fronte, il cuore batteva all’impazzata e le gambe molli faticavano a muoversi.

Un ronzio prima leggero e poi sempre più incessante le stava forando i timpani. Erano centinaia, migliaia; quegli esseri sudici stavano divorando anche la porta della camera da letto per entrare e fare lo stesso con lei.

A mano a mano che la porta veniva sgretolata, dalla fessura in basso riuscivano a penetrare i ragni più piccoli, ma lei sapeva che questo era solo l’inizio, perché il peggio sarebbe arrivato dopo.

77

AbaluthBrividi

Si sollevò dal suo angolo e provò a colpirli furiosamente col coltello, ne uccideva alcuni ma la maggior parte dei colpi fendeva l’aria e il pavimento; tuttavia sembrava che gli aracnidi aumentassero in maniera esponenziale; quando ne eliminava uno, dal suo corpo ne nascevano altri e si univano in una danza macabra con quelli già presenti nella stanza.

Mentre lei in preda al panico era occupata nella lotta, alcuni ragni si adoperavano a tessere alle sue spalle una tela, enorme, fitta e molto resistente. Dopo diversi minuti, si fermò stremata a riprendere fiato, ma la porta della camera cedette e vide una mostruosa creatura nera immobile davanti a lei.

L’aracnide la fissò con bramosia; emanava un forte fetore, forse dovuto alle precedenti vittime che ancora stava digerendo nel suo stomaco, ma pareva avere di nuovo appetito. Le andò incontro e Rebecca indietreggiò, cadendo nella tela vischiosa che avevano preparato gli altri ragni. Il coltello le sfuggì di mano e lei cominciò a dimenarsi come una libellula con le ali strappate rimasta intrappolata nella rete del suo aggressore.

Provò a urlare, ma appena aprì la bocca centinaia di quegli animali cominciarono a entrarle nell’esofago e nella trachea, dirigendosi poi verso lo stomaco, i polmoni e gli altri organi interni.

Era difficile respirare, stava lentamente soffocando e le uscì solo qualche lacrima dalle orbite che si svuotavano, poi l’enorme ragno le infilò gli artigli al centro della fronte cominciando a succhiare materia cerebrale. Aspirava avidamente, gustando ogni sorso mentre la sua bava imbrattava il pavimento, fino a quando della donna non rimase che un involucro di pelle raggrinzita e svuotata.

Solo allora la lasciò cadere a terra. Lentamente anche gli altri ragni uscirono dagli orifizi da cui erano entrati e, ormai sazi, abbandonarono il corpo e la casa.

Poco più tardi arrivò un’auto della polizia a sirene spiegate. L’aveva chiamata la vicina di casa di Rebecca, spaventata dagli strani rumori e dalle urla che aveva sentito provenire dall’interno del suo appartamento.

78

AbaluthBrividi

Bussarono, ma nessuno rispose; la porta d’ingresso era aperta e gli agenti entrarono con le armi in mano.

Tutto era avvolto nel buio e nel silenzio; quando arrivarono in camera videro la donna riversa a terra, con gli occhi sbarrati di terrore, la bava alla bocca e uno squarcio in fronte provocato da un’arma da taglio che, a una veloce analisi, poteva essere stato inferto con il coltello vicino al cadavere.

Si trattava probabilmente di suicidio. Le finestre sigillate col nastro adesivo facevano pensare a una qualche forma di mania ossessivo-compulsiva della vittima e le numerose scatole di barbiturici trovate nel mobiletto del bagno non fecero altro che convalidare questa tesi.

Quella notte, dopo aver eseguito l’autopsia, il medico legale preparò un referto che diceva: “La vittima si chiamava Rebecca Mendel, era una giovane donna di trentasei anni affetta da gravi disturbi mentali. Soffriva di una forte forma di aracnofobia e nonostante i lunghi periodi di cure psichiatriche e farmacologiche già seguite non era ancora riuscita a vincere le sue angosce. Probabilmente la notte del suicidio, in preda a forti ansie, ha assunto una dose elevata di benzodiazepine che le hanno fatto perdere il contatto con la realtà. In seguito a questo, la donna si è autoinferta ferite mortali con l’arma da taglio rinvenuta vicino al suo cadavere, ponendo fine a incubi e visioni.”

Il medico, una volta concluse le scartoffie burocratiche, osservò di nuovo il corpo e si accorse che un piccolo e sottilissimo filo era attaccato ai capelli della donna; penzolava nel vuoto e vi era appeso un ragno nero. Sembrava che lo stesse guardando, prendendosi gioco di lui. Lo fece cadere e lo schiacciò.

Poi richiuse il cadavere nella cella frigorifera e finalmente andò a casa a dormire.

79

AbaluthBrividi

Il riflessoMariano Gatti

Non so come sia potuto accadere.Eppure son sempre stato un tipo metodico, regolare, attento a ogni

minimo dettaglio. Pensate un po’ che se mi chiedeste cosa farò tra una settimana a quest’ora saprei rispondervi in maniera a dir poco brillante, elencando ogni minimo particolare della giornata. Questa mia dote, o meglio questa mia ossessione, questa malattia, mi ha sempre portato a cercare, trovandolo infine, un lavoro – tra l’altro anche ben retribuito – da bibliotecario.

Annoverare, rilegare e organizzare son da sempre stati la mia passione, tant’è che da piccolo mi affibbiarono l’adorabile soprannome di “piccolo burocrate”. Dio! Adoravo essere chiamato così.

Quando venivano a farci visita gli amici o i parenti catalogavo tutti e anche quando questi decidevano di passare con noi il Natale – ma anche le altre festività – ero sempre io ad assegnare a tutti compiti e mansioni. Sempre io a stabilire dove si sarebbero dovuti sedere per la cena, chi avrebbe affettato il tacchino, chi proposto il brindisi, chi fatto i complimenti alla cuoca per le ottime pietanze gustate... e allora come è potuto accadere?

Se è vero che sono così attento a tutto – e credetemi lo sono – non è possibile che si sia verificata una tale disgrazia qui, in casa mia, senza che io non l’abbia prevista in precedenza. Senza che io sapessi già tutto prima ancora che accadesse.

Può darsi che sia pazzo. Può darsi che voglia addossarmi colpe che non ho, ma più ci penso e più sono convinto nell’affermare che la causa della maledizione che ha colpito questa casa è mia, mia e mia soltanto.

Forse voi che leggete questo mio diario potete aiutarmi. Si! Voi di sicuro potrete rassicurare quest’anima in pena. Vi prego! O questo maledetto demone mi porterà per sempre via con sé.

Vi spiegherò come sono andati i fatti e lascerò a voi l’ardua sentenza.

80

AbaluthBrividi

Conobbi mia moglie in tenera età, quando le preoccupazioni di questo mondo ancora non mi spaventavano.

Me ne innamorai subito, al primo sguardo e ricordo che lì, alla stazione, non appena posai gli occhi sulla sua graziosa figura, su quel suo splendido vestito nero a pois bianchi, capii che non avrei mai amato altra donna che lei.

Seppur il nostro fosse un matrimonio combinato sono sincero nell’affermare che non avrei potuto trovare, in vita, una donna migliore di lei. Una donna che mi facesse sentire importante e amato così come mi sentivo ogni volta che ero in sua presenza. No, non avrei potuto trovare niente di così sublime neanche se l’avessi scelta io di persona, e ringrazio il Signore per la sua misericordia ogni volta che ci penso.

Amava la letteratura, l’arte e il teatro, ma la cosa che più di tutte la entusiasmava era di sicuro la pittura. Oh! Quanto vorrei che poteste vedere un suo quadro. Quelle sue pennellate sublimi. Su quella tela bianca, immacolata, riusciva ogni volta a imprimere la sua anima candida, ma al contempo forte e decisa. Aveva molte passioni, ma per fortuna di tutti i suoi amori quello più grande ero io.

Ci sposammo non appena raggiungemmo la maggiore età e quando finalmente andammo ad abitare nella nostra casa cominciò il periodo più bello e gratificante di tutta la mia vita.

Ogni volta che tornavo dalla biblioteca lei era sempre sull’uscio ad attendermi pronta a mostrarmi qualche nuovo dipinto o qualche sonetto appena composto e io, ogni volta, ero sempre sul punto di piangere dall’emozione. Ero davvero felice. Malgrado la mia malattia riuscii – in quegli anni – a vivere la mia vita con serenità e tutto solo grazie a lei.

Com’era possibile che la vita, così ingrata e meschina, m’avesse fatto dono di una così pregiata rarità?

Passarono gli anni e le cose tra di noi non fecero che migliorare.Ogni giorno era sempre più bello di quello precedente. Le

chiacchierate in giardino sempre più stimolanti e interessanti. La casa, inoltre, era sempre piena del calore dei nostri amici e le festività

81

AbaluthBrividi

rappresentavano sempre lieti eventi nei quali riunirci per assaporare il dolce gusto della vita.

Non v’era nulla al mondo che avrebbe potuto intaccare un rapporto così puro e sincero. Nulla! O almeno questo era il mio pensiero, ma devo a malincuore ammettere che mi sbagliavo e un giorno, infatti, cambiò tutto.

Una sera, dopo aver cenato, mia moglie mi diede una notizia che per chiunque su questa terra, eccetto me, sarebbe stata motivo di gioia e conforto infiniti: era incinta.

Non saprei descrivere con precisione cosa pensai nell’istante stesso in cui mi fece quella rivelazione. Di certo posso affermare che non fu piacevole, tutt’altro, fu a dir poco irritante ed ella dovette accorgersi di questa mia riluttanza poiché all’improvviso si rattristò, forse proprio a causa della mia espressione di disgusto.

Non prendetemi per un mostro, non è che non mi piacciano i bambini. È solo che credo nell’amore tra due persone e penso che quando se ne intromette una terza – seppur sangue del proprio sangue – le cose comincino a cambiare. Gli equilibri della coppia vengono spezzati e le speranze lasciano il posto alle preoccupazioni. Allora tutto cambia, niente resta come prima ed è proprio quello che avvenne.

Lei non l’ha mai voluto ammettere, ma dal giorno che scoprì di essere incinta le cose tra di noi cominciarono miseramente a precipitare.

Non dipingeva quasi più e perse interesse per l’arte e la letteratura. Smise di scrivere poemi d’amore e cominciò a evitare la compagnia di chiunque, anche dei nostri più cari amici.

Stava, pian piano, isolandosi dall’intero mondo e io non ne capivo il motivo.

Per quanto riguarda me, invece, venni all’improvviso privato di tutto l’amore ch’ella m’aveva donato sino a quel maledettissimo giorno. Ormai l’unica cosa di cui le importasse era quel bimbo, frutto della discordia, che le cresceva in grembo.

Possibile che da un giorno all’altro tutto l’amore che si prova per una persona possa svanire così velocemente? Possibile che tutta la

82

AbaluthBrividi

passione e tutti i sentimenti che si avvertono nell’anima possano azzerarsi da un giorno all’altro? No! Non è possibile. Sono fermo e sicuro nell’ammettere che se capitasse una cosa del genere, se una persona all’improvviso non dimostrasse più il suo amore, vorrebbe dire che, in realtà, non ha mai amato.

Dunque lei non era più la donna di cui mi ero innamorato e cominciarono allora ad assalirmi degli oscuri pensieri. Se non mi amava più, se non mi aveva mai amato, io non volevo più vederla. La sua sola presenza era per me motivo di angoscia e frustrazione. I suoi passi, il suo respiro, le sue parole, ormai mi erano divenuti insopportabili.

Soffrivo troppo e cominciarono, ahimè, le liti.Dapprima furono solo rare quanto insignificanti sfuriate di odio.

Poi, col passare del tempo, divennero sempre più frequenti, sempre più violente. Una volta, addirittura, fui quasi sul punto di colpirla al capo con un vaso ma per fortuna riuscii a fermarmi in tempo.

Per quanto potessi detestare il fatto che non mi amasse più e per quanto male mi facesse ogni giorno, io continuavo ad amarla. Io l’amo ancora. Per questo credo di non averla uccisa io... no! Sono sicuro di non essere stato io.

Si è trattato solo di un fortuito incidente. Nessuno ha colpe. Nessuno! E prima di giudicare lasciate che vi spieghi come sono andate le cose.

Dopo l’ennesima violenta lite io e mia moglie decidemmo, di comune accordo, di separarci. Lei avrebbe per sempre lasciato quella casa ed avrebbe portato la sua ingrata figura – nonché quella del maledetto demone, causa di tutto – via dalla mia vita.

Purtroppo però accadde il peggio.Mentre attendevo che scendesse le scale per darle un ultimo saluto

– tutti ne meritano uno – scivolò su qualcosa e precipitò per l’intera scalinata.

Morì sul colpo e con lei, ovviamente, morì anche quell’abominio.La cosa strana fu che osservare il suo corpo senza vita in una

pozza di sangue non mi turbò più di tanto. Anzi, non lo fece affatto.

83

AbaluthBrividi

Non quanto mi angustiò, invece, un macabro particolare che rinvenni sulle scale: tre monete.

Che rilevanza poteva avere il ritrovamento di quelle monete? Erano mie. Sì! Ne sono sicuro.

Dovete sapere che, a causa della mia malattia, ogni volta segno con un puntino di pittura rossa tutte le monete che porto nel borsello e quelle che trovai quel giorno, purtroppo, erano state tutte segnate.

Come si erano venute a trovare sulle scale? E se fosse scivolata su di esse? Questo avrebbe fatto di me un assassino.

Non è possibile che me le avesse rubate, mia moglie non conosceva il posto dove nascondevo il borsello. Eppure erano le mie.

Possibile che le avessi messe lì di proposito per ucciderla e non lo ricordo? No. É impossibile.

Sì, è vero, mi aveva fatto soffrire come un cane. È vero che mi aveva umiliato in più occasioni e straziato il cuore come nessuno fece mai prima di lei, ma io l’amavo ancora, ve lo giuro. Io l’amo ancora!

No! Non posso essere stato io. No! Non sarei mai potuto arrivare al punto di ucciderla. Non ne sarei mai stato capace. È impossibile!

La portarono via mentre io, sbigottito e incredulo, osservavo ancora con attenzione quei maledetti dischi d’oro.

Se n’era andata per sempre.Sono ormai trascorsi nove anni dalla sua morte e in questo lungo

periodo non ho fatto altro che lasciarmi morire su questo marcio materasso che presto, spero, diverrà la mia tomba.

In tutti questi anni ho sempre cercato di dare una risposta agli interrogativi che ancora mi tormentano non trovando, tuttavia, ancora alcuna risposta.

Quel demone attende che io lo ammetta, che io confessi il mio omicidio.

Ma non posso farlo. Non posso esser stato io!Eppure, come vi ho detto prima, sono un uomo morboso e preciso.

Un assassinio del genere può essere partorito solo da una mente fine e precisa come la mia. Inoltre, ho scoperto che quelle tre monete se

84

AbaluthBrividi

disposte una vicina all’altra come a formare una linea orizzontale combaciano con il diametro della pianta del piede della mia povera e defunta consorte.

Chi altri, se non io, avrebbe potuto pensare una cosa del genere?Chi avrebbe avuto l’accortezza di posizionare quei cerchi lucenti

nell’esatto punto in cui ella avrebbe poggiato il piede e firmato così la sua condanna a morte?

Solo io. Ma non è così!Questi sono i fatti. Ve li ho riproposti nella maniera esatta in cui si

sono svolti. Vi prego ora! Se vi siete fatti un’idea, se avete scoperto cos’è realmente accaduto, vi imploro di riferire la vostra sentenza a questo demone. Lasciate che sappia. Sono nove anni ch’egli mi osserva, inquisitore, ogni volta che mi avvicino ad uno specchio.

85

AbaluthBrividi

Risveglio mortaleNunzia D’Aquale

Un corvo si alzò in volo, gracchiando. Un folata di vento spalancò l’imposta esterna della piccola finestra. L’uomo si svegliò di scatto, in un bagno di sudore. Il respiro in affanno, il battito del cuore accelerato. Rivoli di gocce salate colavano dalla fronte e rigavano il volto pallido, dirigendosi poi verso il cuscino oramai completamente umido. Spalancò gli occhi e quel che vide nella stanza fu soltanto la parete accanto al letto, dove la luce tenue della luna proiettava le ombre inquietanti dei rami del grande castagno, fuori nel giardino. Sembravano tante braccia lascive e serpeggianti che tentavano di afferrarlo. Richiuse le palpebre nel tentativo di ricacciare via quell’immagine angosciante, ma non poteva cancellare quell’incubo orrendo, quell’uomo senza volto che implorava aiuto. Si alzò, lentamente, si fece il segno della croce e recitò l’Ave Maria. Trascorse ore insonni fino all’alba quando qualcuno bussò lievemente all’uscio.

«Buongiorno padre.» La perpetua entrò nella stanza, con un piccolo vassoio.

«Grazie Adelina» rispose il sacerdote, senza neanche guardarla; seduto sulla sponda del letto cercava di riprendere il controllo della sua mente, ancora irretita, stordita da quel sogno così strano.

«Padre, vi sentite bene?» gli domandò la donna, avendo notato la sua espressione stanca.

«Sì, non preoccuparti, solo un brutto incubo.»«Scusate se vi importuno, ma sembrate avere qualcosa che vi

turba, non è vero? Chiese dolcemente la donna.»«Non so Adelina, sono due notti che faccio lo stesso brutto sogno

ma ricordo solo che un uomo, senza volto, mi chiede aiuto urlando. Non so spiegarmi il significato.» La perpetua rimase in silenzio, poi annuì con il capo.

86

AbaluthBrividi

«Padre, lo sa che le persone appena morte, non riescono a lasciare questa terra se hanno qualcosa in sospeso?»

«Che intendi dire Adelina?» chiese stupito l’uomo.«Voglio dire che… vi ricordate che due giorni orsono avete

celebrato il funerale del falegname, Vittorio?»«Sì mi ricordo, ma questo che cosa c’entra?»«C’entra eccome, Padre…»Il sacerdote la fissò incredulo; le storie che riguardavano le anime

in pena erano solo credenze popolari, frutto di antichi retaggi profani; non voleva dare importanza a quelle parole, tuttavia inconsciamente ripensò al sogno e d’improvviso ebbe una visione chiara di quella persona che gli era apparsa. Era proprio il falegname, Vittorio. Ricordava ora la sua capigliatura folta e riccia, di un colore aranciato; aveva gli occhi vitrei, lo sguardo spaventato e un’orribile maschera di terrore sul volto, ma lo riconobbe, era proprio lui.

«Mio Dio! Signore mio! Esclamò, facendosi il segno della croce. La perpetua annuiva.»

Un infarto improvviso aveva colto Vittorio, il falegname del paese, durante il suo lavoro, mentre era intento a inchiodare le pareti di una bara di castagno. La moglie lo trovò bocconi sulla sponda della cassa, con ancora il martello in mano. I funerali furono celebrati il giorno dopo. A mezzogiorno la bara giaceva sul fondo del fosso, a diversi metri di profondità.

«Padre, si vede che ha lasciato qualcosa in sospeso in questa vita, oppure ha portato con sé qualcosa nella tomba che deve essere restituito alla famiglia!»

La donna osservava il sacerdote, che oramai era sprofondato in una sorta di trance. Uscì con discrezione, senza aggiungere nulla e si diresse verso la casa del defunto.

Il cuore riprese il suo battito normale. Il sangue ricominciò a fluire regolare nelle vene, il calore si diffuse nel corpo ancora immobile. Vittorio provò una sensazione di torpore, come se riaffiorasse alla coscienza dopo un lunghissimo sonno. Schiuse piano gli occhi. Il

87

AbaluthBrividi

buio era completo, avvolgente, penetrante. Provò a muovere un braccio, ma lo sentì pesante, come se vi fosse attaccata una zavorra. Alzò lentamente una gamba, ma il percorso compiuto dall’arto fu brevissimo. Il piede urtò contro qualcosa di duro. Aprì completamente gli occhi, ma il buio era talmente intenso che ebbe il sospetto di essere diventato cieco. Sentì le viscere contorcersi, il panico inondargli il cervello, straripare come un fiume in piena dentro la testa. Si sollevò con il busto, pochi centimetri, poi la sua fronte trovò qualcosa di duro e ruvido, sembrava legno. Improvvisamente la verità gli esplose dentro, divampò come una fiammata svegliandolo dal torpore. Iniziò a dimenarsi, con tutte le sue forze. Con le braccia tentò inutilmente di spingere verso l’alto. L’irrazionalità prese il sopravvento. Le dita in un frenetico movimento iniziarono a graffiare il legno, si spezzarono, il sangue iniziò a colargli sul volto. Il ginocchio destro si frantumò per l’urto violento. Con la testa, come un toro scatenato nell’arena, si scagliò contro il massiccio coperchio di legno. Un taglio profondo, simile a una ruga, si aprì sulla fronte. Il sangue uscì a fiotti, gli riempì gli occhi e la bocca spalancata in cerca di ossigeno. Ma l’aria era ormai quasi del tutto assente. Il respiro si fece sempre più affannoso. Poi perse i sensi e quell’antro buio sprofondò di nuovo nel silenzio.

La perpetua parlò con i familiari di Vittorio, convennero che si sarebbe dovuta riaprire la tomba per verificare se nella bara fosse rimasto qualcosa da restituire al mondo dei vivi.

«Non se ne parla nemmeno! Ma che vi salta in mente? Riaprire la bara!» Il sacerdote sembrava irremovibile.

«Vittorio è tornato in sogno perché ancora il suo spirito vaga su questa terra e ha bisogno di aiuto!» insisteva la perpetua. I familiari del defunto rimanevano in silenzio. Il sacerdote dopo tante insistenze li congedò, aveva bisogno di stare solo, di pregare e di chiedere consiglio al Signore.

Il falegname riprese conoscenza. Sentì nella bocca il sapore dolciastro del sangue. La vescica aveva ceduto, il liquido era colato

88

AbaluthBrividi

nella parte inferiore del corpo. Ormai non riusciva più a respirare. Sentiva l’odore della terra, immaginava i vermi e tutte le creature che attendevano avide il suo corpo. Ma la paura fece il suo corso, e il cuore che prima solo apparentemente si era fermato si contrasse un’ultima fatidica volta. Esalò un ultimo rantolo e gli occhi sbarrati rimasero ad osservare il buio eterno.

Il sacerdote aveva forti dubbi, non avrebbe voluto compiere quell’atto che lui considerava inutile, ma d’altro canto l’inquietudine che aveva dentro lo spingeva a fare l’opposto. Si raccolse in preghiera per tutta la notte. Al mattino prese la sua decisione, mandò a chiamare il custode del cimitero e gli comunicò che a mezzogiorno sarebbero andati alla tomba di Vittorio; gli disse di condurre con sé anche tre inservienti in quanto c’era necessità di aprire la bara, forse dentro era rimasto qualcosa di importante. Più tardi la perpetua si recò dalla famiglia del falegname e all’ora prefissata, insieme alla moglie e al figlio di Vittorio, si ritrovarono davanti alle cancellate del cimitero dove trovarono in attesa il sacerdote. L’aria si era fatta grigia e pesante. Nuvole nere, cariche di pioggia, sostavano sul limitare dell’orizzonte; presto si sarebbe scatenato un temporale, si avvertiva nell’aria che odorava già di pioggia.

I tre inservienti iniziarono a scavare. Le prime gocce inumidirono la terra e, man mano che la pioggia aumentava d’intensità, divenne difficile continuare a togliere il fango denso che si andava formando. Le pale cedevano sotto il peso della terra bagnata. Lampi e tuoni squarciavano l’aria, le donne tentavano di coprirsi la testa con lo scialle di lana, mentre il sacerdote e il figlio di Vittorio rimanevano immobili sotto la pioggia. La tensione cresceva, i tre uomini completamente zuppi d’acqua si fermarono, guardando con aria interrogativa il sacerdote, ma egli fece cenno di continuare, ormai bisognava arrivare fino alla fine. Si intravide il colore del legno. La moglie iniziò a singhiozzare, il sacerdote recitò una preghiera. Delle corde robuste furono fissate alle maniglie della pesante cassa che con fatica fu issata sul bordo della fossa, la quale si riempiva rapidamente della pioggia incessante. Il custode iniziò a schiodare il coperchio;

89

AbaluthBrividi

lampi improvvisi accendevano il paesaggio tetro; l’odore della terra e dei fiori marci saturava l’aria intorno. I tre uomini con uno sforzo enorme sollevarono il legno impregnato d’acqua e lo scaraventarono sul suolo, talmente era pesante. Tutti rimasero immobili; i loro volti si contrassero in smorfie di sorpresa e orrore, nessuno osò dire una parola. Vittorio giaceva scomposto in quell’angusto spazio, le gambe sovrapposte in maniera innaturale, le braccia contorte sopra il volto insanguinato, una lunga ferita che squarciava la fronte da parte a parte e la bocca spalancata, protesa in quell’urlo straziante di terrore. Un urlo che nessuno avrebbe mai udito. La moglie impressionata e impaurita non resse all’emozione troppo forte e scappò via, seguita dal figlio. La perpetua guardò il sacerdote, scuotendo il capo e lentamente si allontanò recitando una preghiera. L’uomo rimasto con i tre inservienti fissava quel corpo e la grazia di Dio gli illuminò la mente. Comprese quello che era successo e si rammaricò di non aver avuto la possibilità di salvare quell’anima in pena. Diede l’ordine di richiudere la cassa, mentre gli uomini ancora tramortiti dalla scena rimanevano immobili sotto la tempesta d’acqua che si era scatenata.

«Presto, altrimenti si riempie! Rimettete tutto a posto, ormai non c’è più nulla da fare.»

Prese la via del ritorno. Si domandò il motivo di quanto accaduto, ma il suo cuore non trovava risposta. Si affidò con fiducia al Signore, Lui solo sapeva, Lui solo predisponeva il destino degli uomini. La bara fu ricoperta con il pesantissimo coperchio e calata con molta difficoltà a diversi metri di profondità, sommersa completamente dall’acqua. Tornò giù, nelle viscere della terra, dove era destinata. Una bara robusta, indistruttibile e spessa tre centimetri; la conosceva bene Vittorio, l’aveva costruita con le sue stesse mani.

90