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Titolo originale dell'edizione in lingua inglese: Prey

Mira Books © 2009 Rachel Vincent

Traduzione di Maddalena Togliani

Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma.

Questa edizione è pubblicata per accordo con Harlequin Enterprises II B.V. / S.à.r.l Luxembourg.

Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale.

© 2011 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

Prima edizione Bluenocturne luglio 2011

Questo volume è stato impresso nel giugno 2011

da Grafica Veneta S.p.A. - Trebaseleghe (Pd)

BLUENOCTURNE ISSN 2035 - 486X

Periodico quindicinale n. 44 del 29/07/2011 Direttore responsabile: Alessandra Bazardi

Registrazione Tribunale di Milano n. 118 del 16/03/2009 Spedizione in abbonamento postale a tariffa editoriale Aut. n. 21470/2LL del 30/10/1981 DIRPOSTEL VERONA

Distributore per l'Italia e per l'Estero: Press-Di Distribuzione Stampa & Multimedia S.r.l. - 20090 Segrate (MI)

Gli arretrati possono essere richiesti contattando il Servizio Arretrati al numero: 199 162171

Harlequin Mondadori S.p.A.

Via Marco D'Aviano 2 - 20131 Milano

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«Pensi di farcela entro fine secolo, Vic?» Non ce la facevo più ad aspettare. Victor Di Carlo alzò gli occhi al cielo e mi rivolse un sor-riso da martire, poi tornò a fissare la strada. «Il limite di ve-locità è settantacinque miglia all'ora, Faythe, e sto andando a ottanta. Ma se pensi che a piedi arriveresti prima, acco-modati pure.» No, non sarei andata più veloce neanche a quattro zam-pe. Un ghepardo raggiunge le sessantacinque miglia all'o-ra, e soltanto per brevi tratti. E io non sono certo un ghe-pardo. Ero quindi condannata a tamburellare con le dita sul bracciolo della Suburban di Vic mentre procedevamo con quella che consideravo una lentezza intollerabile. «Rilassati.» Vic mise la freccia e superò un TIR enorme. «Arriveremo in tempo e Marc sarà lì ad aspettarci.» Annuii, e mi misi ad aprire e chiudere la sicura finché lui non mi fulminò con un'occhiataccia. «Scusa.» «Insomma, Faythe, si direbbe che tu non lo veda da set-timane» protestò Ethan, e mi voltai in tempo per vedergli alzare gli occhi al cielo nonostante l'espressione perenne-mente allegra. Era il più giovane dei miei quattro fratelli – a-veva solo due anni più di me – e quello che finiva sempre per battermi durante gli allenamenti e che mi portava il

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ghiaccio dopo avermi coperto di lividi. «Quanto tempo è passato?» Guardai fuori dal finestrino, i campi vuoti e gli alberi spogli nella luce ormai fioca. «Saranno nove settimane do-mani.» Erano successe molte cose da quando Marc era sta-to esiliato: l'esempio più eclatante dormiva sul sedile dietro il mio. Il bambino di Manx. Des aveva due settimane e dormiva in un seggiolino per auto rivolto all'indietro accanto a sua madre. Manx riusciva ad apparire splendida anche con un filo di bava che le colava dalla bocca. Dalla nascita del bambino, approfittava di ogni occasione per riposare, e an-che noi. Era uno degli svantaggi che derivavano dall'avere un udito felino. Durante gli ultimi due mesi, Manx aveva partorito e Kaci – la giovanissima mutaforma che avevamo accolto nella nostra famiglia – si era adattata alla vita del ranch, anche se fino a quel momento si era rifiutata di trasformarsi. Novem-bre aveva soffiato via le foglie dagli alberi, dicembre aveva portato un vero ciclone texano e ai primi di gennaio c'era stata una bella nevicata. Ma non avevo più visto Marc. Vic sorrise, malizioso. «Immagino che ti manchino so-prattutto le conversazioni con lui, no?» «La-la-la» canticchiò Ethan cacciandosi gli auricolari nel-le orecchie per evitare di sentire la mia risposta. «In questo momento ascolterei qualunque cosa avesse da dirmi, se potesse farlo di persona.» Sospirai, presi il bic-chiere di carta dal suo supporto e finii il caffè. Era freddo. In quel momento squillò il cellulare di Vic. «Pronto?» «Ciao, Vic.» Era mio padre. Lo riconoscemmo tutti tran-ne Manx, che stava russando leggermente. «Tuo padre è

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dalla mia parte. Volevo che fossi il primo a saperlo.» Vic sospirò di sollievo, e il suo viso, che fino a quel mo-mento aveva tradito una certa tensione, si rilassò. Sorrise superando un altro TIR. «Non ne ho mai dubitato.» Il suo sguardo, però, diceva il contrario. Era stato preoccupato, come noi tutti. Sentimmo un cigolio in sottofondo: era Greg Sanders che si appoggiava allo schienale della poltrona. «Ricorda a Faythe di consegnare il mio messaggio alla tua famiglia, per favore» disse, e io levai gli occhi al cielo. «Lo so, papà.» Mio padre ridacchiò. «Siate prudenti e fatemi sapere quando siete arrivati.» «Certo.» Vic aveva ancora un sorriso idiota stampato in faccia quando riattaccò. Credo che non si fosse neanche reso conto di cosa gli aveva chiesto mio padre. Per fortuna avevo sentito io. «Allora siamo a quota tre, giusto?» Mi voltai per guarda-re Ethan, che aveva spento la musica e non fingeva più di dormire. Il sedile posteriore gemette quando si sistemò meglio. «Sì, Ed Taylor e zio Rick.» Le cui figlie dovevano la vita al nostro clan. Avevo liberato mia cugina Abby dopo che era-vamo state entrambe rapite da un randagio che voleva ven-derci come femmine da riproduzione, poi avevamo cattura-to e ucciso il colpevole prima che potesse riprovarci con Carissa Taylor. I loro padri erano comprensibilmente leali nei confronti del mio. «E ora Bert.» Umberto Di Carlo – il padre di Vic – era uno dei più vec-chi amici di mio padre. Avevamo contato sul suo appog-gio, ma non eravamo certi di ottenerlo. Dopotutto, la poli-tica era in grado di distruggere perfino le famiglie, figuria-moci le amicizie.

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Nove settimane prima ero stata prosciolta – per un sof-fio – dall'accusa di avere infettato e poi ucciso per legittima difesa il mio ex-fidanzato. L'ultimo giorno del processo – il giorno dopo che Marc era stato esiliato – Calvin Malone a-veva minato l'autorità di mio padre chiedendo che fosse ri-mosso dalla carica di presidente del consiglio territoriale. Anche se restava al comando del nostro clan, mio padre era stato sospeso dalle sue funzioni in attesa del voto degli altri dieci Alpha. La votazione era prevista per il primo feb-braio. Mancavano ancora due settimane. Dopo la sospensione, mio padre e Malone si erano bat-tuti per ottenere l'appoggio degli altri. Mio zio si era schierato subito dalla nostra parte, e la settimana successiva Edward Taylor aveva seguito il suo e-sempio. Ma gli altri tradizionali alleati del nostro clan ave-vano chiesto tempo per valutare i pro e i contro. La loro e-sitazione ci aveva ferito, anche se era logico aspettarsi quella risposta. La loro scelta, qualunque fosse stata, avreb-be avuto un effetto irreversibile sul consiglio e su tutta la comunità dei mutaforma felini. Dopotutto, la maggior parte di loro aveva figli che lavoravano come vigilantes per i clan di entrambi gli schieramenti: fratelli che vivevano in territori leali a Malone. Figlie o sorelle sposate a randagi che parteci-pavano al colpo di mano. Era una fortuna che nessuno dei miei tre fratelli – Michael, Owen e Ethan – dovesse lealtà ad altri. Per quanto riguarda mio fratello Ryan, meno ne parlo, meglio è. L'attesa era stata penosa per Vic, ma neanche lontana-mente comparabile alla sofferenza di Jace, figliastro di Cal-vin Malone, che faceva il vigilante per noi. Jace si sentiva personalmente responsabile del tradimento del patrigno, anche se non avrebbe potuto fare nulla per impedirlo. «E Malone?» chiesi preparandomi a fare un po' di calcoli.

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«Le ultime voci di corridoio dicono che ha tre voti anche lui» rispose Ethan. «Milo Mitchell, Wes Gardner e Paul Bla-ckwell.» Kevin, il figlio di Mitchell, era stato espulso dal nostro clan quattro mesi prima per avere più volte aiutato dei ran-dagi a passare clandestinamente il confine del territorio centromeridionale. Gardner non ci aveva mai perdonato di non aver vendicato la morte di suo figlio Jamey per mano di Manx. E per quanto ne sapevamo, Paul Blackwell era contro di noi perché avverso alla politica di pari opportuni-tà messa in atto da mio padre. Anche se non odiava né le femmine né i randagi, non trovava giusto che potessero oc-cupare posizioni di potere nella comunità. Solo due Alpha non avevano ancora deciso da che parte stare: Nick Davidson e Jerald Pierce, anche lui padre di un nostro vigilante. Poiché i due contendenti avrebbero fatto qualunque cosa per conquistarsi quegli ultimi due voti, lo scontro rischiava di inasprirsi. «Il padre di Parker si schiererà con noi» dichiarò Vic. Io però non ne ero altrettanto sicura. «Così arriveremo a quat-tro.» Ma ci serviva anche il voto di Davidson. Con quattro voti ciascuno i due gruppi sarebbero stati in parità, mentre ci serviva una vittoria netta. Altrimenti, anche se mio padre avesse mantenuto la sua posizione, la pace non sarebbe durata. «Quanto manca?» chiesi, con la mano stretta attorno al-la leva della portiera. «La prossima uscita è la nostra.» Vic mi indicò il cartello davanti a noi, che segnalava la presenza di un'area di servi-zio a circa un miglio di distanza. Era ora! Ne avevo abbastanza di quel viaggio intermina-bile e di tutto quel caffè. Mi voltai. Ethan si era raddrizzato e si stava infilando la

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giacca. Manx dormiva ancora, con i lunghi ricci neri che le ricadevano sulla camicia. Era il ritratto della pace e della se-renità, della felicità di una madre, nonostante il sonno arre-trato e il motivo, tutt'altro che piacevole, del viaggio. Des era nato l'ultimo giorno del 2008, il che avrebbe do-vuto garantire a Manx una deduzione fiscale supplementa-re per quell'anno, se fosse stata cittadina americana o un'immigrata regolare. Purtroppo non era né l'una né l'al-tra cosa, e questo significava che non poteva salire a bordo di un aereo. Ecco perché io, Vic e Ethan la stavamo accom-pagnando in macchina dal nostro ranch, nel Texas orienta-le, fino alla periferia di Atlanta, dove il padre di Vic – e l'al-leato più recente di mio padre – avrebbe presieduto l'u-dienza di Manx. Mi ero offerta volontaria per quell'incarico, che in altre condizioni sarebbe stato solo una scocciatura, perché per raggiungere Atlanta avremmo dovuto attraversare la zona franca. E Marc si trovava lì. Presto sarebbe stato tra le mie braccia. «Manx, svegliati!» Mi girai e sollevai il bracciolo centrale in modo da urtarla, ma stando attenta a non sfiorarla con le mani. Non le piaceva essere toccata, e considerate le vio-lenze che aveva subito, non c'era da stupirsene. Aprì gli occhi e in un batter d'occhio l'aria assonnata svanì dal suo viso, sostituita da un'espressione vigile. Subi-to si guardò intorno, smarrita, cercando il figlio, come se qualcuno avesse potuto rubarglielo mentre dormiva. Era una possibilità che la terrorizzava. Quando era incinta l'avevamo sentita urlare la notte, piangere nel sonno. Le prime volte mia madre aveva cerca-to di svegliarla, ma mio padre l'aveva dissuasa: rischiava di finire con il naso rotto. Fortunatamente gli incubi erano cessati alla nascita del bambino, che Manx teneva a dormi-

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re con sé. Diceva che così il neonato riposava meglio, men-tre ero sicura che fosse lei a trarne vantaggio. E noi insieme a lei, dato che così regnava il silenzio. Manx si rilassò quando il suo sguardo si posò su Des, ancora addormentato nel seggiolino. Si ravviò i capelli guardandosi intorno. «Siamo già nel Mississippi?» «Sì.» Vic azionò la freccia e imboccò l'uscita. Ignorai i ri-storanti, concentrandomi sul distributore della Conoco. Marc si era abituato senza problemi alla nuova vita. Ave-va trovato un lavoro e preso in affitto una casa isolata. Si stava inventando un'esistenza nel mondo degli umani, un mondo di cui io non facevo parte. Almeno di persona. Però parlavamo al telefono quasi ogni giorno, e l'avevo perfino assistito telefonicamente durante una trasformazione par-ziale il mese precedente. Anche se mi era stato ordinato di insegnare quel trucchetto solo ai membri del clan, ero or-gogliosa del fatto che il primo a riuscirci fosse stato proprio Marc Ramos, il mio randagio preferito. Passai in rassegna il parcheggio affollato. Avevamo pre-visto una sosta a Natchez, subito dopo il confine con il Mississippi, dove Marc ci aspettava per scortarci attraverso tutto il territorio libero e per trascorrere una notte con noi durante il viaggio. La sua auto non c'era. Delusa, mi torsi le mani in grembo finché non mi fecero male. Vic girò a destra nel parcheggio e si infilò in un posto li-bero nella zona più lontana. Feci per uscire dall'auto con l'idea di andare allo spaccio della stazione di servizio a cer-care Marc, ma Vic mi posò una mano sul braccio non ap-pena aprii lo sportello. «Puoi restare qui per un minuto? De-vo andare in bagno.» Diedi un'occhiata a Vic, poi a Ethan. Di solito mio fratel-lo sarebbe stato più che sufficiente per proteggere una don-na e un neonato, ma la zona franca era senza legge, e

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Manx era sempre nervosa, anche quando non doveva af-frontare un processo per omicidio, quindi facevamo in mo-do di essere sempre in due a scortarla. «Certo, ma sbrigati.» Vic sorrise per ringraziarmi e io chiusi la portiera mentre lui si avviava verso l'edificio. Des emise una specie di miagolio alle mie spalle, e quando mi voltai vidi Manx che se lo attaccava al seno. Un attimo dopo il miagolio si trasformò nel rumore ritmico del-la suzione. Ancora? Ma non faceva altro che mangiare, quel neonato? Anche se il viso non ne tradiva il sesso, dal-l'appetito si capiva subito che quel mostriciattolo doveva essere un maschio. Non potei evitare di sorridere mentre perlustravo il par-cheggio. Quel piccoletto era un autentico sopravvissuto. Come sua madre. «Cercavi me?» Sentii picchiare al finestrino posteriore e sussultai. Mi voltai così di scatto da prendere una testata contro l'aletta parasole. E vidi Marc, sorridente, con addos-so una giacca di pelle marrone e dei jeans. Ero così emozio-nata che non riuscivo ad aprire lo sportello. Ci pensò lui, e ci mise tanta forza che quasi lo strappò dai cardini. Non ebbi neppure il tempo di posare i piedi a terra, per-ché lui mi prese in braccio. Gli intrecciai le gambe attorno ai fianchi, baciandolo con avidità. La gente ci guardava – notai sbirciando oltre la spalla di Marc – ma poi sorrideva e si faceva gli affari suoi, a parte un paio di ragazzini che ri-dacchiarono delle nostre effusioni. «Ti sono cresciuti i capelli» mormorò Marc, e il suo re-spiro caldo sull'orecchio mi diede dei brividi che non ave-vano nulla a che vedere con la temperatura glaciale del par-cheggio. «Tu invece te li sei tagliati.» Gli accarezzai i riccioli corti e ispidi.

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Mi posò a terra senza lasciarmi andare. «Mi sono detto: vita nuova, nuovo look. Che ne pensi?» Feci un passo indietro per osservarlo meglio. «Niente male.» Marc sarebbe stato splendido anche con una par-rucca da pagliaccio arancione. Eppure, anche se li aveva ac-corciati solo di pochi centimetri, mi mancavano i suoi ric-cioli lunghi, non potevo farci niente. Ma soprattutto mi era mancato lui, naturalmente. Gli strinsi il braccio quando avvertii un odore noto. Di un randagio che conoscevo. Daniel Painter. Mi irrigidii e mi strinsi a Marc con il cuore che mi batte-va forte. Percorsi con lo sguardo il parcheggio in cerca del randagio che aveva denunciato Manx in cambio dell'op-portunità di entrare nel nostro clan, a patto che riuscisse a comportarsi bene nella zona franca per un anno. E senza dubbio attaccare briga con la delegazione di un clan signifi-cava partire con il piede sbagliato. In ogni caso, la sua presenza proprio in quel parcheggio non poteva essere casuale...

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