bergamo, il filo di arianna, 2000€¦ · comunicazione, perché il linguaggio visivo permette di...

34
1 “Che cosa è il lavoro, per te?” DAL CATALOGO DELLA MOSTRA LAVORO/LAVORI. ATTIVITA’ IMPIEGO MESTIERE PROFESSIONE FATICA IMPEGNO Fotografie di Uliano Lucas Bergamo, Il filo di Arianna, 2000 Promossa dalla Biblioteca “Di Vittorio” e dall’Isrec Bg 1 Il rapporto tra fotografia e lavoratori è sempre stato molto stretto, anche se per diverso tempo – fino almeno alla diffusione della macchina fotografica non solo ai livelli sociali più alti – è stato mediato dalla committenza. La scarsa presenza sui giornali operai, almeno fino alla prima guerra mondiale, del documento fotografico come denuncia sociale deriva da varie cause, tecniche in primo luogo, ma anche di ordine "psicologico". Come ha già avuto modo di ricordare Paolo Spriano, "esiste una coscienza professionale per la quale le stesse categorie che più si danno un'organizzazione di resistenza sindacale, dai tipografi ai ferrovieri, dai metallurgici agli edili, hanno vivissimo l'orgoglio della propria qualificazione di mestiere […], a dare di sé un'immagine proba, se non piccolo-borghese almeno di estrema dignità di aspetto esteriore". I lavoratori, cioè, per interi decenni si servono della fotografia solo nel momento in cui sono “classe” e rivendicano la loro appartenenza di genere, per cui le immagini più frequenti si riferiscono ai congressi delle organizzazioni operaie o del partito socialista, alla celebrazione del 1° maggio o ad alcuni scioperi esemplari. Deve essere chiaro che queste fotografie non danno una immagine compiuto della vita dei lavoratori, dentro e fuori la fabbrica. Così, il lavoro – come luogo fisico e come soggetto unificante e qualificante un’intera categoria di persone – o è sottinteso, con l’esibizione davanti all’obiettivo dello strumento con cui si opera, oppure appare solo quando a commissionare la fotografia sono i padroni (che spesso poi 1 Il volume presenta le fotografie e i testi esposti in occasione della mostra Lavoro/lavori. Attività impiego professione mestiere fatica impegno. Fotografie di Uliano Lucas, inaugurata al Teatro sociale di Bergamo il 20 aprile 1999, con il patrocinio dell'Assessorato alla Cultura del Comune di Bergamo.

Upload: others

Post on 28-Sep-2020

3 views

Category:

Documents


0 download

TRANSCRIPT

Page 1: Bergamo, Il filo di Arianna, 2000€¦ · comunicazione, perché il linguaggio visivo permette di superare almeno apparentemente i – – forti vincoli della lingua scritta. Non

1

“Che cosa è il lavoro, per te?” DAL CATALOGO DELLA MOSTRA

LAVORO/LAVORI.

ATTIVITA’ IMPIEGO MESTIERE PROFESSIONE FATICA IMPEGNO

Fotografie di Uliano Lucas

Bergamo, Il filo di Arianna, 2000

Promossa dalla Biblioteca “Di Vittorio” e dall’Isrec Bg1

Il rapporto tra fotografia e lavoratori è sempre stato molto stretto, anche se per diverso tempo –

fino almeno alla diffusione della macchina fotografica non solo ai livelli sociali più alti – è stato

mediato dalla committenza. La scarsa presenza sui giornali operai, almeno fino alla prima guerra

mondiale, del documento fotografico come denuncia sociale deriva da varie cause, tecniche in

primo luogo, ma anche di ordine "psicologico". Come ha già avuto modo di ricordare Paolo

Spriano, "esiste una coscienza professionale per la quale le stesse categorie che più si danno

un'organizzazione di resistenza sindacale, dai tipografi ai ferrovieri, dai metallurgici agli edili,

hanno vivissimo l'orgoglio della propria qualificazione di mestiere […], a dare di sé un'immagine

proba, se non piccolo-borghese almeno di estrema dignità di aspetto esteriore". I lavoratori, cioè,

per interi decenni si servono della fotografia solo nel momento in cui sono “classe” e rivendicano

la loro appartenenza di genere, per cui le immagini più frequenti si riferiscono ai congressi delle

organizzazioni operaie o del partito socialista, alla celebrazione del 1° maggio o ad alcuni scioperi

esemplari. Deve essere chiaro che queste fotografie non danno una immagine compiuto della vita

dei lavoratori, dentro e fuori la fabbrica.

Così, il lavoro – come luogo fisico e come soggetto unificante e qualificante un’intera categoria di

persone – o è sottinteso, con l’esibizione davanti all’obiettivo dello strumento con cui si opera,

oppure appare solo quando a commissionare la fotografia sono i padroni (che spesso poi

1 Il volume presenta le fotografie e i testi esposti in occasione della mostra Lavoro/lavori. Attività impiego professione mestiere fatica impegno. Fotografie di Uliano Lucas, inaugurata al Teatro sociale di Bergamo il 20 aprile 1999, con il patrocinio dell'Assessorato alla Cultura del Comune di Bergamo.

Page 2: Bergamo, Il filo di Arianna, 2000€¦ · comunicazione, perché il linguaggio visivo permette di superare almeno apparentemente i – – forti vincoli della lingua scritta. Non

2

preferiranno riprendere l’interno delle fabbriche, i macchinari e, soprattutto, i prodotti finiti senza

la “poco estetica” presenza di chi occupa quotidianamente quegli spazi).

Eppure la grande potenzialità del nuovo mezzo appare subito chiara anche agli organizzatori

sindacali, che ne apprezzano la facilità di riproduzione a basso costo e quindi lai capacità di

comunicazione, perché il linguaggio visivo permette di superare – almeno apparentemente – i

forti vincoli della lingua scritta.

Non è qui il caso di ripercorrere le pagine illuminanti di Accornero, Sapelli, Quintavalle, Bigazzi e

Borzani (solo per citarne alcuni) sul valore della fotografia come importante fonte per studiare il

lavoro e il movimento operaio, ma non appare fuori luogo ricordare che la Cgil nazionale affidò

proprio ad uno dei maggiori studiosi della fotografia, Ando Gilardi, il settore iconografico del

nuovo settimanale “Lavoro”, che uscì, pur con alterne vicende, dal 1948 fino ai primi anni

Sessanta.

L’idea di questa mostra di Lucas - uno dei maggiori reporter italiani, che ha sempre avuto

un’attenzione particolarissima verso i lavoratori e il movimento sindacale - nasce da un percorso

di ricerca sulla memoria del lavoro che ha preso l’avvio con una mostra fotografica, allestita nel

1988 sempre dalla Biblioteca “Di Vittorio” e dall’Istituto bergamasco per la storia della

Resistenza e dell’età contemporanea, intitolata Uomini macchine lavoro. Il lavoro dei bergamaschi dalla

fine Ottocento agli anni Cinquanta, a cui ha fatto seguito, nel 1994 (sempre utilizzando le fotografie

raccolte principalmente negli archivi familiari), Il pane degli altri. Emigrati e immigrati nella provincia di

Bergamo dalla fine Ottocento ai giorni nostri, dedicata all’analisi del lavoro svolto fuori dalla propria

terra d’origine La presentazione di queste ricerche in numerosissime e diverse realtà, avvicinando

un numero elevato di studenti, la contemporanea raccolta delle storie di vita dei vecchi militanti

della Cgil, la pubblicazione di contributi alla storia del sindacalismo bergamasco e la preparazione

di dossier didattici: tutto questo, da un lato ci ha offerto un positivo riscontro rispetto alla

possibilità di recuperare e trasmettere almeno i segni del lavoro, come è stato fino a qualche

decennio fa; dall’altro ha evidenziato lo scarto che ormai esiste tra il lavoro di oggi (meglio

sarebbe dire “i lavori”) e la sua capacità di rappresentarsi.

Già dalla metà degli anni Sessanta era apparso chiaro che per continuare a rappresentare il

lavoro (espressione che ha due sensi, che legano già dal punto di vista della parola l’impegno del

sindacato confederale con l’attività di Uliano Lucas) non bastava un’immagine di qualità

tecnicamente accettabile: ci voleva un fotografo che da pur bravissimo operatore riuscisse a

cambiare il proprio ruolo sociale; un intellettuale, che, alla luce di un impegno civile preciso,

utilizzasse nelle sue opere uno sguardo politico. Lucas, con (pochi) altri appartiene a questo

gruppo.

Page 3: Bergamo, Il filo di Arianna, 2000€¦ · comunicazione, perché il linguaggio visivo permette di superare almeno apparentemente i – – forti vincoli della lingua scritta. Non

3

Ma i nostri giorni vivono un nuovo cambiamento e ci viene richiesto un ulteriore sforzo

di immaginazione: saltano i termini generali di definizione del lavoro e per questo concetto – di

cui, non a caso, il titolo di questa mostra riporta una lunga serie di sinonimi: attività, impiego,

mestiere, professione, fatica, impegno… - non esiste più un’immagine-simbolo che lo richiami

immediatamente.

Insomma, con un esempio banalissimo, se pensiamo al lavoro degli operai della Dalmine,

probabilmente solo pochissimi, al di fuori degli addetti, sanno che è svolto quasi completamente

a videoterminale.

Bisogna compiere un nuovo ragionamento rispetto al lavoro, al di là delle crisi millenaristiche di

chi ne prevede la sempre più vicina fine, studiando e sperimentando ruoli, tempi e orari,

qualifiche e formazione, estendendo i diritti e la solidarietà: un dibattito già in corso, ma che

diventa ogni giorno più importante e non più rimandabile, nella Cgil, nel sindacato e tra gli

imprenditori, certo, ma anche tra gli operatori scolastici e in tutta la società. Anche la fotografia,

da “strumento di lotta politica e di critica civile dall’interno”, diventa occasione di analisi,

documento per conoscere, per vedere, primo passo del capire.

L’incontro con Uliano Lucas è stato illuminante in questo percorso: abbiamo potuto vedere una

straordinaria serie di immagini in cui lui racconta l’Italia del lavoro - dagli stabilimenti

completamente automatizzati dell’estremo Nordest e dell’industria della ceramica del modenese,

dalla Dalmine alle cave di ardesia dell’alta Val Brembana, al mercatini rionali del meridione,

passando per gli autogrill, gli artigiani dell’Italia centrale e la fatica del lavoro agricolo, i laboratori

dell’Istituto Mario Negri, le nuove professioni nel campo dei servizi, la moda, ma anche i

venditori ambulanti africani e gli artisti di strada.

Sono fotografie esemplari. E qui l’aggettivo non ha un valore estetico o artistico, si

riferisce piuttosto alla forza espressiva che comunicano: nella molteplicità delle mansioni, nella

varietà geografica dei luoghi ripresi, soggetto assoluto delle immagini sono gli uomini e le donne

che lavorano. Sembra una puntualizzazione ovvia, quasi banale, ma dietro la quale sta la scelta

politica, militante si sarebbe detto una volta, quasi controcorrente nella sua coerenza che quando

si parla di lavoro, è sempre da chi lo compie, da chi “fa fatica” che bisogna partire. Pare quasi un

ritorno a quei "pellegrini del sole" (W. Settimelli), a quei fotografi ambulanti che inventarono, tra

fine Ottocento e inizio Novecento, il realismo sociale.

Proprio l’efficacia di questa testimonianza ci ha spinto a tentare, se pure con tempi

ristrettissimi, di raccogliere impressioni e considerazioni da chi sta riflettendo da tempo su questi

temi, ma anche da persone che sono impegnate, prima ancora che politicamente, nella battaglia

civile e sociale che richiede il vivere con completezza il nostro tempo. Quello che abbiamo

Page 4: Bergamo, Il filo di Arianna, 2000€¦ · comunicazione, perché il linguaggio visivo permette di superare almeno apparentemente i – – forti vincoli della lingua scritta. Non

4

ricevuto è pubblicato nelle pagine che seguono, insieme ad alcuni testi raccolti direttamente tra

alcuni lavoratori: ci sembra che il risultato sia un’interessante antologia di pareri, una galleria di

definizioni attente e mai banali.

A tutti un ringraziamento particolare. Un ringraziamento va anche alle tante persone che, non

potendo accettare la nostra proposta, hanno comunque risposto con gentilezza, riaffermando

stima per Uliano Lucas e apprezzamenti per l’iniziativa: permetteteci di ricordarli, in un ordine

assolutamente casuale: Nilde Jotti, Mario Rigoni Stern, Laura Balbo, Antonio Tabucchi,

Giovanna Ginex, Giulio Sapelli, Norberto Bobbio, Antonio Bassolino, Carlo Maria Martini,

Massimo Cacciari, Francesco Rosi, Carla Fracci e Pietro Ingrao.

Angelo Bendotti, direttore dell'Isrec Bg, e Eugenia Valtulina, responsabile della Biblioteca "Di Vittorio" Cgil

Bergamo

Testi di:

1. Sergio Cofferati, segretario generale della Cgil

2. Giovanni Agnelli, presidente onorario della Fiat

3. Giovanni Barbieri, segretario della Cgil di Bergamo

4. Gad Lerner, giornalista

5. Maria Grazia Meriggi, storica

6. Marcello Cini, scienziato

7. Pino Ferraris, sociologo

8. Vittorio Valli, economista

9. Aris Accornero, sociologo

10. Mekdese Mariam Tewedros, impiegata in un’azienda metalmeccanica

11. Riccardo Bellofiore, economista

12. Francesco Rutelli, sindaco di Roma

13. Alessandro Natta, ex segretario del Partito comunista italiano

14. Adriano Visintin, operaio metalmeccanico

15. Giulio Pirola, operaio metalmeccanico

16. Pietro Bandassari, operaio metalmeccanico

17. Giuseppe De Rita, presidente del Cnel

18. Guido D’Agostino, assessore alla cultura di Napoli

Page 5: Bergamo, Il filo di Arianna, 2000€¦ · comunicazione, perché il linguaggio visivo permette di superare almeno apparentemente i – – forti vincoli della lingua scritta. Non

5

19. Gennaro Palazzo, operaio metalmeccanico

20. Elisa Cavagna, addetta mensa

21. Carlo Donadoni, operaio metalmeccanico

22. Adam Smith (“che aveva già capito tutto due secoli fa”) ricordato dall’economista

Giorgio Lunghini

23. Ivan Della Mea, presidente dell’Istituto Ernesto De Martino

24. Francesco Indovina,

25. Antonio Pizzinato, senatore

26. Bruno Cartosio, storico

27. Guido Chiesa, regista

28. Roberto Carminati, operaio metalmeccanico

29. Elisa Martinelli, operaia metalmeccanica

30. Cristina Belotti, operaia tessile

31. Mario Agostinelli, segretario generale della Cgil Lombardia

32. Francesco Garibaldo, direttore dell’Istituto per il lavoro di Bologna

33. Gueye Amadou, operaio tessile

34. Claudio Sabattini, segretario generale della Fiom Cgil

35. Adolfo Pepe, storico

36. Bruno Invernici, operaio alimentarista

37. Mario Fojadelli, magazziniere.

38. Margherita Hack, astronoma

Spesso, durante le celebrazioni che accompagnano le ricorrenze della Cgil, vengono

organizzate mostre fotografiche con materiale tratto dagli archivi. Ebbene, è curioso notare come

le fotografie documentino una progressiva rimozione del tema del lavoro.

Fino alla prima guerra mondiale, quasi ovunque viene rappresentata soprattutto l’attività

lavorativa delle persone: il luogo di lavoro, i piazzali, i capannoni con le macchine in funzione, i

lavoratori “dai campi e dalle officine”. Anche nelle foto che ritraggono gli scioperi o,

semplicemente, i momenti di festa, con tutti gli operai che indossano gli abiti buoni e la catena

dell’orologio che spunta dal taschino, al centro dell’obiettivo è sempre il luogo di lavoro, quasi a

testimoniare un bisogno di riconoscimento collettivo e, nello stesso tempo, il senso di

appartenenza a una classe sociale e a una coscienza politica e sindacale. Poi, tra le due guerre,

Page 6: Bergamo, Il filo di Arianna, 2000€¦ · comunicazione, perché il linguaggio visivo permette di superare almeno apparentemente i – – forti vincoli della lingua scritta. Non

6

negli anni della repressione fascista, c’è una comprensibile censura, perché sono altri i luoghi che

connotano l’identità collettiva.

Dal 1945 in poi, la gran parte delle fotografie degli archivi sindacali ritrae cortei, con gente

in festa, fiori e lunghe file di bambini, che si tengono per mano. Le foto mostrano soltanto

iniziative sindacali: cortei, scioperi, comizi. Ricompaiono gli abiti del lavoro, soprattutto le tute,

ma non si vede mai, o quasi mai, il luogo di lavoro, la fabbrica.

Certo, il motivo principale di tale rimozione è costituito dal fatto che negli anni Sessanta e

Settanta il luogo di lavoro era diventato soprattutto la sede di uno scontro sociale molto aspro,

tanto che le fabbriche erano diventate praticamente inagibili per gli esterni. Ma non credo si tratto

solo di questo.

Negli ultimi anni, infine, spariscono anche le piazze e i luoghi aperti, e la maggior parte

delle fotografie documenta iniziative sindacali in teatri e sale cinematografiche: grandi palchi della

presidenza, striscioni, slogan, persone che parlano al microfono e facce di dirigenti sindacali che

ascoltano. Come se ormai non ci fosse più alcuna necessità di osservare e studiare il lavoro, come

se si sapesse già tutto ciò che bisogna sapere, definitivamente.

A mio parere dobbiamo non tanto riaffermare l’importanza fondamentale del lavoro

professionalmente ricco, ma deve anche essere sfatata l’opinione, diventata quasi luogo comune

tanto diffuso quanto falso che l’attività lavorativa umana sia ormai inutile o residuale rispetto a

quella svolta dalle macchine e dalle nuove tecnologie.

Stiamo assistendo invece a una profonda trasformazione del lavoro, dei suoi contenuti e

delle forme e dei modi in cui è organizzato, determinata dallo sviluppo delle tecnologie

informatiche, ma anche da un cambiamento avvenuto nella società e nel rapporto tra società,

mercato e individui. Un cambiamento sia della quantità e qualità sia dei contenuti del lavoro

necessario, della sua organizzazione, dell’immagine che hanno di sé i lavoratori e di quella che ne

hanno i molti – troppi – che non lavorano.

Un cambiamento così radicale di abitudini e idee da richiedere uno straordinario sforzo di lettura

anche da parte della sinistra, con la sensibilità che ha sempre dimostrato per il mondo del lavoro,

ma con la modestia di chi sa di doversi dotare di strumenti interpretativi completamente diversi.

L’occhio di Uliano Lucas registra con grande precisione e sensibilità il lavoro di oggi e,

dunque, mostra implicitamente lo scarto con il passato. Lucas lo ha fatto, da apprezzabile

testimone del suo tempo, anche per Genova in tempi recenti, mostrandoci una città nella quale i

grandi insediamenti e le figure storiche dei camalli e degli operai sono sostituite da forme e

soggetti del lavoro assolutamente impensabili solo pochi anni.

Page 7: Bergamo, Il filo di Arianna, 2000€¦ · comunicazione, perché il linguaggio visivo permette di superare almeno apparentemente i – – forti vincoli della lingua scritta. Non

7

Anche per questo una mostra come questa organizzata dalla Biblioteca “Di Vittorio” della CGIL

di Bergamo e dall’Istituto bergamasco per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, può

essere più efficace di molti dibattiti.

Sergio Cofferati, segretario generale della Cgil

Il lavoro è quella fondamentale dimensione dell’agire umano con la quale ogni

persona esprime la sua intelligenza, le sue conoscenze, la sua capacità di iniziativa e la

sua creatività nel soddisfare, da sola o con altri, i bisogni propri e altrui.

Non a caso nelle società in cui più forte è il riconoscimento del lavoro come valore

etico, sociale e civile e come occasione di promozione civile, lì è anche più radicata

l’idea di libertà degli individui, più tenace è la pianta della democrazia, più

determinato è il cammino verso la riduzione delle iniquità e verso il miglioramento

del benessere generale.

Giovanni Agnelli, presidente onorario della Fiat

Da sindacalista che opera da qualche lustro in un territorio “a vocazione industriale”, a contatto

diretto con il mondo del lavoro in continua variazione ed in rapporto con lavoratori che hanno,

in molti casi, vissuto sulla loro pelle i rapidi cambiamenti imposti dalle dure leggi del mercato,

guardo alla mostra di Uliano Lucas non solo come al tentativo di documentare per immagini il

lavoro degli uomini, ma soprattutto vedo in questo sforzo la voglia di descrivere e raccontare

pezzi di vita che riguardano moltissime persone della nostra epoca, impegnate in attività non

sempre gratificanti eppure così necessarie e importanti per loro stesse oltre che per l’intera

comunità.

Di fronte alle fotografie di Lucas, provo emozioni molto simili a quelle che mi assalivano quando,

piccolo piccolo, seduto in terra in mezzo a molti cugini, ascoltavo il mio baffuto nonno mugnaio

raccontare fantastiche storie o episodi di vita vissuta, che quasi sempre facevano riferimento al

suo lavoro.

In queste occasioni l’ho sentito parlare del suo mestiere, quasi privilegiato rispetto a quello molto

più duro e ingrato dei contadini e dei braccianti presso i quali si recava per prelevare il grano e

per riportare il macinato. Erano racconti che avevano il probabile scopo di rafforzare i vincoli

familiari, tenendo viva la memoria del nostro diretto passato, ma anche – ho riflettuto poi – di

farci conoscere le condizioni presenti e l’ambiente sociale nel quale saremmo cresciuti.

Le sue parole, in un dialetto ormai smesso, mi hanno insegnato di un mondo, quello contadino

della pianura lombarda degli anni Cinquanta – che stava rapidamente cambiando, incalzato dai

Page 8: Bergamo, Il filo di Arianna, 2000€¦ · comunicazione, perché il linguaggio visivo permette di superare almeno apparentemente i – – forti vincoli della lingua scritta. Non

8

prepotenti effetti dell’industrializzazione che l’avrebbe poi completamente annullato nel giro di

pochi anni, azzerando, con le forme più brutte di sfruttamento e miseria che lo segnavano

indelebilmente, importanti pezzi di una cultura vecchia di secoli.

Può apparire incongruente accostare i miei ricordi personali all’importante lavoro di Lucas. Ma

sono convinto che non ci siano vie privilegiate per raccontare quel che eravamo e per cercare di

capire chi siamo oggi; fondamentale (quasi un dovere per un’organizzazione come la Cgil) è

produrre o comunque favorire occasioni culturali di rilevantissima importanza, che offrano

elementi di conoscenza a tutti coloro che si interrogano sui processi in atto nel mondo del lavoro

e sulle trasformazioni sociali.

La voglia di fermare nella nostra mente e di comunicare con parole, scritti, disegni, incisioni o

immagini non solo le cose viste, ma anche i fatti vissuti, i sentimenti provati, credo che gli uomini

l’abbiano sempre sentita, in tutti i periodi. Mi pare di poter dire che questa voglia è tanto più

forte, quando si è in presenza di profondi cambiamenti e si ha la sensazione di trovarsi davanti ad

una sorta di immenso buco nero, la cui forza di gravità attrae e fa sparire molte delle cose

materiali e immateriali che hanno accompagnato e segnato il vissuto dei singoli e della comunità.

Poter intervenire per evitare che questo fenomeno “divori “ la memoria collettiva e la

nostra stessa identità è un’esigenza impellente di ordine culturale e al contempo un obbligo

sociale: mi sembra che questo sia l’intento che ha portato la Biblioteca “Di Vittorio della Cgil di

Bergamo e l’Istituto bergamasco per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea – che

hanno per scopo proprio quello di cercare di impedire la dispersione della memoria del nostro

passato –a sostenere questa iniziativa, perché le fotografie di Uliano Lucas ci aiutano a capire

meglio il presente, segnato da tante inedite novità che riguardano il mondo del lavoro e i tanti

lavori, nuovi o uguali da secoli, che lo compongono.

Giovanni Barbieri, segretario della Cgil di Bergamo

Sfogliando e selezionando le fotografie per questa mostra sulle mille sfaccettature del lavoro oggi

in Italia, è capitato a me e a Uliano Lucas di restare bloccati da un dubbio. Quale scegliere fra i

due operai alle prese con la carne che mangiamo tutti i giorni (già, ci sono anche i fabbricatori di

carne)? L’anziano operatore dei mercati generali di Milano che in un gioco di chiaroscuri appare

quasi oppresso dalla mole di quarti bovini allineati da movimentare? O il macellatore di bovini

colto nell’atto di scuoiare col suo coltellaccio la bestia appena uccisa, senza che nel suo gesto

possa leggersi violenza alcuna, bensì la pazienza di una complessa, misconosciuta professionalità?

Insomma, chiedevo a Uliano: Vuoi mostrare la fatica fisica, oppure l’amore per il proprio lavoro?

Su di un simile dilemma, una volta, a sinistra si sarebbe potuto impostare addirittura un dibattito

Page 9: Bergamo, Il filo di Arianna, 2000€¦ · comunicazione, perché il linguaggio visivo permette di superare almeno apparentemente i – – forti vincoli della lingua scritta. Non

9

teorico: all’interno del modo di produzione capitalistico, sono l’alienazione e la subalternità della

prestazione salariata che vanno enfatizzate? Non invece il sapere incorporato e compresso nella

stessa prestazione manuale, da liberarsi come naturale dispiegamento e sviluppo delle forze

produttive? Tale è la contraddizione implicita nelle fotografie di quelle povere mucche, e degli

uomini che le lavorano. Sicché alla fine abbiamo creduto giusto esibirle entrambe. Da uno che si

chiama Uliano ci si aspetta per forza l’omaggio alla Classe. Al nucleo d’acciaio che paralizzando o

animando l’universo metallico della fabbrica può determinare i cicli di funzionamento del

Sistema. Di più, aggregare attorno alla propria centralità produttiva e culturale l’insieme dei

soggetti subalterni, rispetto ai quali esercita un’indiscussa funzione di guida. Poiché solo

attraverso la sua dittatura e quindi la sua liberazione potrà darsi (in seguito, chissà quando) la

liberazione dell’umanità intera. Ma con queste fotografie diverse Uliano Lucas – che pure di

operai di fabbrica ne ha ritratti e continua a ritrarne molti – tradisce felicemente le aspettative di

suo padre, il capo partigiano Giorgio, che con quella specie di marchio indelebile rappresentato

da un nome inusuale voleva rendere omaggio a Vladimir Ilic Uljanov, detto “Lenin”.

Parlare al plurale, sostituire a “Classe” “operai”, a “Lavoro” “lavori” (cancellando le maiuscole

della retorica e dell’iconografia), non rappresenta una perdita per la sinistra, né la semplice

ammissione della sconfitta operaia che reca in Italia la data simbolo dell’autunno 1980, quando si

infranse la resistenza di Mirafiori. Al contrario, queste fotografie ci narrano una complessità che è

sì frantumazione ma che è pure arricchimento. Che comunque “è”, e come tale va riconosciuta.

Perché il moltiplicarsi delle diversità all’interno del mondo del lavoro dipendente, se da un alto

rende improponibile l’illusione di una nuova cultura unificante come quella del movimento

operaio di cui Uliano e tanti di noi ci sentiamo figli, dall’altro non annulla la possibilità che

nuovamente tornino a manifestarsi inedite forme di solidarietà collettiva, questa volta tra soggetti

diversi poco propensi a farsi omologare da una comune identità. Certo, è più difficile, come

sempre il nuovo, ma che senso avrebbe star fermi ad aspettare, illudendosi che riaffiori prima o

poi la vecchia talpa? Spaziamo, dunque, grazie alle immagini di attività troppo spesso rimosse,

date per scontate, sminuite, entro questa diversità che come un caleidoscopio ci appaiono prive di

un baricentro. E che però non sono puri frammenti, privi di filo conduttore.

Resta, com’è doveroso, il bambino cameriere a Palermo, simbolo di un lavoro minorile che al Sud

non accenna a scomparire. Restano le catene di montaggio della Fiat dove i robot non hanno

modificato più che tanto l’organizzazione tayloristica del lavoro, e le sue presse che ancora non

hanno risolto il problema del frastuono, anche se adesso magari è più facile incontrarvi una

donna operaia.

Page 10: Bergamo, Il filo di Arianna, 2000€¦ · comunicazione, perché il linguaggio visivo permette di superare almeno apparentemente i – – forti vincoli della lingua scritta. Non

10

Tutt’altro che desueta appare l’immagine del vecchio dipendente della Berco, simbolo di una

classe operaia anagraficamente invecchiata in officina e spaccata al proprio interno fra chi ce l’ha

fatta sudando doppio con il proprio lavoro e con la moglie anch’essa a servizio, e chi è invece

ancora costretto a mantenere la famiglia con il solo reddito di fabbrica (ma sarà proprietario di

appartamento, o dovrà pure pagare l’affitto?). Accanto ad esse, ecco le nuove immagini che

testimoniano di una moltiplicazione dei lavori più duri e subalterni così funzionali all’opulenza

della nostra società: il lavavetri di via Turati a Milano; le lavoranti del “sommerso” tessile senza le

quali non esisterebbero Benetton e il “made in Italy” della moda. Ma perché non riconoscere, fra

gli accidentali percorsi individuali, maschili e femminili, degli anni Ottanta, anche quelli in ascesa?

Gli sguardi intenti di chi si è costruito un personalissimo controllo sulla propria prestazione

lavorativa, il patrimonio delle nuove tecnologie quali strumento del disagio e della fatica fisica

(non sempre, sia chiaro, e non per tutti)?

Analoghe contraddizioni, le foto di Uliano Lucas rilevano nel sempre più vasto campo delle

attività di servizio.

Dove dominano a mio avviso immagini di speranza, evocazioni di qualcosa che ancora non c’è

ma che pure ha molto a che fare con la passione per il proprio lavoro: l’accompagnatrice

volontaria del servizio psichiatrico di Trieste dove la legge 180 viene magistralmente applicata (è,

questa, un’esperienza che Lucas segue da anni con passione militante); l’assistente sociale

modenese alle prese col mistero dell’handicap; l’infermiere del reparto rianimazione della

Cittadella. Se dovessi indicare in sintesi il contributo che a noi tutti viene da questa bella mostra

fotografica, direi che con essa Uliano Lucas ci invita a superare quell’immagine pauperistica del

lavoro dipendente, da cui troppo spesso la sinistra è apparsa afflitta. Troppo spesso, nel

sottolineare i pur gravi problemi salariali e normativi che riguardano le classi subalterne, abbiamo

costruito delle caricature fino a ritrovarci incapaci di conoscere gli uomini e le donne in carne ed

ossa, così come sono diventati (non dimentichiamo) anche grazie alle conquiste del movimento

operaio.

Gad Lerner riflette su una mostra di Uliano Lucas, da “L’Illustrazione italiana”,

n.80/1991, suggerito dallo stesso Lucas

Il lavoro rappresenta cose diverse e tutte importanti per me: una storica del movimento

operaio, una donna che si è formata alla fine degli anni Sessanta, che è nata in un piccolo centro

rurale di tradizione antifascista ma ha sentito fin da ragazzina l’aspirazione a confrontarsi con

scenari grandi, conflittuali, cosmopoliti, un'aspirazione che avrebbe assunto le forme della

costruzione di una “vita d’avanguardia” se la politica travolgente del 1968 non l'avesse radicata in

Page 11: Bergamo, Il filo di Arianna, 2000€¦ · comunicazione, perché il linguaggio visivo permette di superare almeno apparentemente i – – forti vincoli della lingua scritta. Non

11

un terreno collettivo e condiviso. Il lavoro è innanzitutto l’attività che continua a definire

l’identità più forte di ogni individuo: non perché altri non siano egualmente importanti ma perché

sul come si organizza, si valorizza il lavoro e se ne ripartisce il prodotto si può ancora, a mio

parere, definire il carattere progressivo o regressivo di una società. Il lavoro è insieme fonte di

identità e di conflitto: questo rende le lotte del lavoro vitali per qualsiasi democrazia, perché “il

muschio non cresce sui sassi che rotolano”, come diceva uno slogan dei lavoratori americani

migranti degli anni Dieci. Le attuali difficoltà delle lotte operaie a rendersi visibili sullo scenario

dei media sono dovute, secondo me, solo alle sconfitte che esse hanno subito innanzitutto sul

terreno dell'organizzazione del lavoro, del potere sui modi di lavorare nei luoghi fisici della

fabbrica e dell'ufficio e poi anche, inevitabilmente, sul terreno del salario. E non a un presunto,

recente declino del lavoro, che si è solo differenziato come ha sempre fatto nella ormai

bicentenaria storia del capitalismo.

Ma lavoro è anche il piacere di svolgere bene il proprio mestiere (la ricerca sulle fonti storiche)

con orgoglio artigianale. Ed è anche l’insieme dei gesti quotidiani della cucina, dell’apparecchiare,

del trasformare un bisogno elementare in un piacere e in un’isola - nella vita affrettata di ogni

giorno - di eleganza e ritmo nell’apparecchio della tavola, nei sapori, nei profumi...

Maria Grazia Meriggi, storica

Lo stadio più elevato del capitalismo preconizzato da Marx ["Il pieno sviluppo della

società capitalistica…viene raggiunto soltanto quando... tutte le scienze sono catturate al servizio

del capitale.[..] Allora l'invenzione diventa un'attività economica e l'applicazione della scienza alla

produzione immediata un criterio determinante e sollecitante per la produzione stessa"] è

cominciato nella seconda metà del Novecento con la comparsa di una sempre più estesa

produzione di merci non materiali. Non solo cresce l'investimento nella produzione per il

mercato di servizi, ma soprattutto cresce quello nella produzione di informazione . Capitali

sempre più ingenti vengono investiti sia per produrre nuova informazione destinata alla

produzione di altre merci (innovazione di prodotto e di processo, know-how, organizzazione del

lavoro, ma anche marketing, pubblicità, e soprattutto software di tutti i tipi) che per produrre

informazione direttamente "consumata": dai mezzi di comunicazione di massa (radio, TV,

giornali, spettacolo, nastri, dischi, fino ai servizi della rete telematica odierna). Due sono le

trasformazioni fondamentali che questo mutamento ha indotto sull’organizzazione del lavoro e

sulla natura stessa dell’attività lavorativa. La prima è stata quella di creare una miriade di nuovi

mestieri, professioni, specializzazioni frammentando in un caleidoscopio di funzioni e di compiti

la figura del lavoratore salariato, che perde così la coscienza di appartenere a una classe con

Page 12: Bergamo, Il filo di Arianna, 2000€¦ · comunicazione, perché il linguaggio visivo permette di superare almeno apparentemente i – – forti vincoli della lingua scritta. Non

12

interessi antagonistici rispetto a quelli del capitale, e trasforma il carattere della sua prestazione da

partecipazione in una attività collettiva strettamente collegata con quella degli altri lavoratori a

rapporto di lavoro individuale con l'imprenditore. La seconda, che l'accompagna, è stata quella di

permettere, grazie al carattere immateriale dell'informazione, che non richiede di essere

trasportata fisicamente ma può essere facilmente trasmessa anche a grandi distanze, il

decentramento della produzione in una molteplicità di luoghi diversi.

Marcello Cini, scienziato, riassunto da L’ape e l’architetto, Milano 1976.

La proposta di riflettere sul lavoro è affascinante ma difficile, complicata ed anche un

poco vaga ed indeterminata. Uliano Lucas è mio amico da una vita e quindi l’invito mi giunge con

una maggior forza di coinvolgimento.

Io sono convinto che il lavoro che si trasforma, si complica, si divarica dentro la crisi del

fordismo non ha rappresentanza e non ha rappresentazione. Un gruppo di prestigiosi sociologi

francesi ha ammesso che il lavoro "è un oggetto della ricerca che si nasconde e che si sgretola". Si

potrebbe dire che il lavoro oggi si proietta sulla scena sociale come "ombra": come

disoccupazione, cioè come inquietudine per il lavoro che "non c'è"; come lavoro post-fordista,

cioè come l'enigma di un lavoro che "non è più" quello del passato. Non c'è ricerca empirica sulla

dimensione di esperienza esistenziale concreta, vissuta del lavoro. D'altro canto la soggettività di

chi lavora, senza il conflitto, rimane latente o soccombente. Negli ultimi venti anni siamo passati

dalla centralità operaia all'assenza operaia. La società del lavoro è così sconvolta e travolta dalla

radicalità dei mutamenti tecnologici, sociali e culturali da essere irriconoscibile perché in via di

estinzione? Oppure sono le categorie degli analisti e il clima culturale che appannano lo sguardo e

distraggono l'attenzione rispetto al lavoro? Non credo a quei futurologi che ci dicono della fine

del lavoro o dell'imminente abolizione del lavoro. Una costruzione di immensa portata storica è

finita: la vicenda più che centenaria del socialismo politico come progetto di trasformazione

sociale radicata nella condizione del lavoro subordinato, appare, almeno nel presente, conclusa.

Con il crollo del comunismo ed il mutamento genetico delle socialdemocrazie i legami "storici"

tra lavoro salariato e politica si sono interrotti. Ed il lavoro è scomparso come "soggetto" dallo

spazio pubblico: è caduto nella condizione di oggetto opaco abbandonato alle tecniche

manageriali o alle tecniche dell'amministrazione organizzativa o statale. Il contratto dei

metalmeccanici, quando penetra le seste o settime pagine dei giornali, è illustrato con i busti dei

sindacalisti o con fotografie di operai scattate venti anni fa: Uliano Lucas è riuscito ad estrarre

dall'ombra i volti imprevisti e nuovi dei giovani che si arrangiano lavorando nelle mille e mille

Page 13: Bergamo, Il filo di Arianna, 2000€¦ · comunicazione, perché il linguaggio visivo permette di superare almeno apparentemente i – – forti vincoli della lingua scritta. Non

13

pieghe della complessità sociale? Me lo auguro vivamente, ma senza aver visto, come è possibile

parlare o scrivere altro?

Pino Ferraris, sociologo

Il lavoro è la leva che ha sollevato il mondo

Vittorio Valli, economista

Il giovane che cerca il primo impiego dovrebbe accettare qualsiasi lavoro, purché dignitoso, e

provarlo per un po’. Così imparerà almeno una cosa molto importante: che cosa è il lavorare, cioè

entrare in un mini-sistema sociale, agire come parte di un collettivo, conoscere delle consuetudini,

rispettare delle regole, sapere che c’è un ordine normativo e simbolico, che ci sono delle gerarchie

con dei capi e dei gregari, capire come si crea la solidarietà e come nascono i conflitti. Il lavorare

è comunicazione ed è interazione. Impararlo vuol dire apprendere una socievolezza e

sperimentare una socializzazione; e questo non è meno importante dell’imparare un determinato

lavoro, sia come mansione che come mestiere.

Aris Accornero, sociologo

Essere complici per raggiungere un fine, guardarsi negli occhi per cercare la giusta

sintonia, trovarsi sulla stessa lunghezza d’onda per ottenere determinati risultati e per prevenire

eventuali errori.

Credere nella persona che ti sta accanto senza soffermarti su particolari che potrebbero

intralciare il fine ultimo. Rendersi conto che ogni collaboratore prima di tutto è un essere umano,

degno di rispetto e ammirazione. Incentivare e confortare con parole e gesti chi si trova alle

prime armi.

Essere ottimisti.

Secondo me questo è il lavoro.

Mekdese Mariam Tewedros, impiegata in un’azienda metalmeccanica

E' difficile parlare di lavoro di questi tempi. Si è passati, per lo meno a sinistra, da una

visione che riconduceva tutto a una malintesa 'centralità' onnicomprensiva del lavoro - che poi

non era altro che il primato di una particolare, transeunte, figura sociologica di lavoratori, quando

non, peggio, il primato del partito che si arrogava la rappresentanza unica del mondo del lavoro -

a una visione, quella che oggi domina ovunque, che invece proclama addirittura la 'fine' del

lavoro, come valore e come realtà. Il lavoro come tutto, e il lavoro come niente, contraddizione

Page 14: Bergamo, Il filo di Arianna, 2000€¦ · comunicazione, perché il linguaggio visivo permette di superare almeno apparentemente i – – forti vincoli della lingua scritta. Non

14

che ben esprime la natura duplice, e in certo senso mostruosa, di questo nostro modo di essere

sociale, duplicità che a ben vedere convive oggi nella dilatazione contemporanea del tempo di

lavoro per chi ce l'ha, e della disoccupazione per chi ne è escluso. E' certo che la riduzione

dell'essere umano a solo lavoro è caricaturale, come se si potesse non tener conto della

dimensione della cura o della contemplazione; caricaturale come lo è l'idea opposta che del lavoro

si possa o si debba fare a meno, delegandolo alle macchine quando non a una nuova classe

'servile', per ritagliarsi un 'altrove' liberato dal lavoro. Il lavoro è stato, ma a guardare

attentamente, è ancora 'centrale,' in un senso solo, limitato, temporaneo, ma importantissimo: che

da questa dimensione si deve passare, trasformandola, se si vuole fare della società e della politica

qualcosa che non dipenda dalle 'cose', dai mercati, dalle macchine, dal denaro. Qualsiasi 'riforma'

che accetti che il lavoro sia una dimensione dipendente e residuale è una mossa gattopardesca,

che cambia tutto senza che al fondo cambi nulla. Bisognerebbe forse fare penitenza: ricominciare

a parlare di lavoratori, e non di lavoro. Loro sono sempre lì, anche quando sono muti o

ammutoliti, anche quando li si vuole cancellare con un tratto di pena o una fine elaborazione.

Soggetti di relazioni sociali, che non si esauriscono nella produzione ma vengono prima e vanno

oltre, non snodi umani di un meccanismo. Portatori di un sapere e di una pratica di cui il capitale

continua ad aver bisogno per valorizzarsi, e sorgente di quel profitto che il denaro non sarà mai

in grado di far feticisticamente sgorgare da se stesso. Fondamento materiale di quella liberazione

del lavoro senza la quale una autentica sinistra - movimento sociale e forza politica che non può

accettare come dati naturali lo sfruttamento e il mercato senza snaturare se stessa - manca dell'aria

per respirare, e non è in grado di fare un solo passo.

Riccardo Bellofiore, economista

Credo che pochi come Uliano Lucas abbiano saputo mettere con tanta efficacia la propria

arte e la propria tecnica - elevatissime entrambe - al servizio di un impegno di testimonianza del

presente. Dal complesso della sua opera, nell’arco degli ultimi decenni, emergono con

straordinaria vivacità e nettezza i volti e i momenti della storia dell’Italia del dopoguerra.

Una storia che è naturalmente anche e soprattutto la storia del lavoro degli italiani, di

come la fatica, l’impegno e le lotte degli uomini e delle donne del nostro Paese abbiano cambiato

l’Italia e siano a loro volta profondamente cambiati. E’ giusto seguire la traccia del lavoro - o

meglio dei lavori, come si usa a ragione dire adesso - per capire di più la nostra comune vicenda.

Da quel Paese ancora per tanta parte contadino e rurale del dopoguerra al boom industriale degli

anni Cinquanta e Sessanta, dall’esplosione della coscienza operaia all’irrompere di nuove figure e

Page 15: Bergamo, Il filo di Arianna, 2000€¦ · comunicazione, perché il linguaggio visivo permette di superare almeno apparentemente i – – forti vincoli della lingua scritta. Non

15

di nuove professioni, fino alla difficile matassa dell’oggi: il lavoro che manca, la crisi del “posto

fisso”, le nuove tecnologie, il dualismo tra lavoro autonomo e lavoro dipendente.

Troppo spesso le scelte e i dibattiti della politica procedono per astrazioni, in una logica

gravemente autoreferenziale. La realtà quotidiana dell’amministrare - ma anche serie operazioni

culturali come questa di Uliano Lucas e di chi ha organizzato la sua mostra - ci riportano alla

concretezza dei problemi, ai drammi e alle gioie dei cittadini di una “Repubblica fondata sul

lavoro”.

Francesco Rutelli, sindaco di Roma

Se lavoro è relazione, identità, lotta democratica, allora lavoro è anche Primo Maggio, o, meglio,

tanti Primo Maggio.

Un percorso discontinuo, di vittorie e sconfitte, di messaggi e silenzi, di pacatezza esibita e di

violenza subita, mai interrotto, irreversibilmente inciso nella coscienza civile.

L’onta, forse più inspiegabilmente tollerata di un governo democratico, rimane quella ancora non

sanata di un'Inghilterra che ha provato a togliere voce al lavoro zittendo il Primo Maggio.

E’ quest’onta l’anticipo di un futuro senza lavoro, o l’azzardata mossa di un liberismo

presuntuoso?

Perché lavoro non è solo, come alcuni vorrebbero, “lavorare”.

Lavoro è quella straordinaria interazione tra uomo e natura che la trasforma e che, mentre si

compie, fa società. L’uomo che crea e modifica, attraverso il lavoro, le condizioni della sua vita e

che, per questo, entra in relazione con altri uomini che progettano una vita comune.

Conflitti, poteri, cittadinanza sono passati e passano dal lavoro, al punto che le Costituzioni

antifasciste l’hanno elevato a cardine del patto sociale, a diritto primario, condizione della pace.

E, come era già avvenuto con la Rivoluzione Industriale e con l’organizzazione taylorista della

produzione, con grandi trasformazioni che chiamano in causa addirittura le coordinate spaziali e

temporali entro cui si compie il lavoro di ognuno, anche oggi la sfida diventa quella di mettere in

campo un soggetto collettivo che concorra ad orientare il cambiamento ed a fornire nuova linfa

al processo democratico.

Succede proprio ora, nelle pieghe di una precarizzazione e di un attacco ai diritti su scala

mondiale, che riportano indietro le lancette del conflitto e che richiedono allo stesso sindacato

coraggio intellettuale, iniziativa politica e un terreno di risposta adeguato.

Quale è, infatti, il percorso reale perché oggi – come auspicava Engels – l’uomo diventi “umano”

attraverso il lavoro?

Page 16: Bergamo, Il filo di Arianna, 2000€¦ · comunicazione, perché il linguaggio visivo permette di superare almeno apparentemente i – – forti vincoli della lingua scritta. Non

16

Un lavoro fatto di fatica e di creatività, due aspetti tra loro confliggenti, tenuti separati nella

società delle classi, e ricomposti solo nell’aspirazione e nelle battaglie dei lavoratori organizzati.

Lavoratori destinati per questa via a diventare persone “attraversati dal suono”, gli uni degli altri,

come, etimologicamente, prevede una convivenza tra eguali.

Di fronte ad una nuova generazione, resa invisibile dalla mancata esperienza e dalla negazione sia

della fatica che della creatività quando manca il lavoro, come raccoglieremo la sfida di una

umanizzazione della società, se non tornando caparbiamente e lucidamente a rivendicare diritto e

ragioni del lavoro?

Ci sarà ancora, per le ragazze ed i ragazzi di oggi, di tutte le razze e di ogni luogo del Mondo, una

successione di Primo Maggio con i vestiti a festa, che sostituiscono orgogliosamente, nelle piazze

dove si svolge la vita di tutti i giorni, gli indumenti del lavoro?

Spero di sì. E’ l’augurio che mi sento di fare per il millennio che si apre.

Mario Agostinelli, segretario della Cgil Lombardia

Ora che vivo qui, nel Ponente ligure, in un paesaggio bellissimo e dolce che di per sé

induce all’ozio della vacanza; ora che vivo con il carico degli anni, oltre gli ottanta, e quello degli

acciacchi, in grande solitudine debbo dire che, ciò nonostante, io continuo a lavorare in modo

continuo e metodico. Non più - è chiaro - con gli assilli e le ansie, la passionalità e la dedizione di

un impegno politico, che è stato senza limiti e che è durato per una intera esistenza.

Ma se io considero le mie forze, fisiche e intellettuali, quelle di ieri e quelle di oggi, non

direi che il mio sforzo, e la fatica siano meno intensi che in passato. E’ forse più giusto affermare

che sono invece meno utili socialmente! Insomma, il mio lavoro - di ricerca storica e letteraria, di

scrittura e futura memoria, di insegnamento e divulgazione culturale - vale per una cerchia molto

ristretta di persone e soprattutto vale per me, ma è, o almeno mi sembra, obbligante quanto

poteva essere ieri l’attività in Parlamento o nel Partito comunista.

Ho sempre pensato che per l’uomo il lavoro è qualcosa di essenziale, di necessario, non

solo per l’acquisizione dei mezzi indispensabili per vivere, per soddisfare i bisogni personali, e

quelli della collettività, ma anche per costruire, per affermare e difendere la propria identità. Certo

il valore in assoluto - ne sono più che mai convinto - è la persona umana.

Ma il lavoro è un valore fondamentale.

L’umanità deve essere liberata dallo sfruttamento, dalla alienazione, dal carico opprimente

della fatica . Ma nessun progresso della scienza e della tecnica libererà mai l’uomo e la donna

dall’impulso e dal gusto del lavoro, nemmeno se dovessero divenire ancor più rapide e radicali le

trasformazioni, pur enormi e inaudite, che si sono compiute nel corso di questo secolo.

Page 17: Bergamo, Il filo di Arianna, 2000€¦ · comunicazione, perché il linguaggio visivo permette di superare almeno apparentemente i – – forti vincoli della lingua scritta. Non

17

Ma ora, intanto, e non per caso la questione primaria nel mondo continua ad essere e

acutamente quella dell’occupazione, e non solo perché per milioni e milioni di esseri umani è più

che mai esigenza vitale, discrimine duro e secco tra vita e morte, ma perché anche nelle nostre

orgogliose metropoli del benessere, del consumismo, dello stato sociale senza un lavoro si può

finire nell’angustia e nella sofferenza della povertà, e non si diventa comunque una persona in

senso vero e pieno.

Si può cambiare il campo, le forme, l’organizzazione, i tempi ed anche inventare nuovi

lavoro, Si può fare ricorso a surrogati, a mascherature, come spesso accade con i cosiddetti

hobby, e perfino con qualche passatempo, ma il lavoro è una funzione del vivere. Il lavoro dico

con quel tanto di travaglio, di tensione, di agonismo che sempre deve esserci nel fare, nel

costruire, nel creare qualcosa, magari modestissima come accade a me, che godo certamente

molto del grande otium che mi è stato concesso, ma che sento sempre forte il bisogno di un

qualche lavoro.

Alessandro Natta, ex segretario del Partito comunista italiano

Nel 1971 ebbi modo, durante alcune ricerche Censis, di mettere a fuoco la consistenza che in

Italia a quell’epoca aveva il lavoro sommerso, arrivando a delle stime delle sue diverse

configurazioni: lavoro a part-time, lavoro stagionale, secondo lavoro di già occupati, lavoro in

appalto. Oggi so bene che c’è ancora, e tanto, lavoro sommerso, specialmente nel Mezzogiorno;

ma non mi sembra più un fenomeno necessario e caratterizzante, anche se se ne parla e scrive

molto. Oggi mi sembra necessario sottolineare che il lavoro si vada “molecolarizzando”, cioè

distribuendo su innumerevoli forme di lavoro indipendente, autonomo, professionale,

consulenziale, di piccolissima e quasi personalizzata imprenditorialità. Il che da una parte rende

generici i discorsi sul cosi detto post-fordismo, dall’altra rende vani gli sforzi per volontaristiche

condensazioni associative, sindacali, contrattuali. Non so dove e quando partirà il processo di

neocondensazione, ma credo di poter escludere che esso avrà come protagonisti gli operatori

sociali e politici tradizionali.

Giuseppe De Rita, presidente del Cnel

Ho un rapporto di amore odio con il lavoro, nel senso che mi piace e mi interessa ciò che

faccio (insegno, scrivo, ricerco), ma nel tempo stesso ho forti tentazioni a sottrarmi ad esso.

Alla radice deve esserci il rifiuto ad una identificazione totalizzante tra ciò che sono e ciò

che faccio, e questo mi sembra un bene, ma se sono (anche) altro da ciò che faccio, cos’è e cosa

vuole veramente questo altro da me che lavoro?

Page 18: Bergamo, Il filo di Arianna, 2000€¦ · comunicazione, perché il linguaggio visivo permette di superare almeno apparentemente i – – forti vincoli della lingua scritta. Non

18

Probabilmente liberarsi, scaricarsi di dosso il lavoro-dovere, inseguire il lavoro-piacere

(esiste?) o alla fine solo il piacere del non lavoro (dopo che si è lavorato una vita o metà di essa)?

Non lo saprò mai, di questo passo, e intanto lavoro e mi stanco, sempre di più!

Guido D’Agostino, assessore alla cultura di Napoli

Il tema del “lavoro” pare difficile da trattare, in parte per le modificazione che hanno

investito le “forme” del lavoro stesso, ma soprattutto perché pare sfuggire ad ogni

possibilità di essere governato sia a livello individuale che collettivo.

Si può affrontare la questione da molti punti di vista: del passaggio dal lavoro ai lavori; degli

effetti della tecnologia; della professionalità richiesta; della sua remunerazione; dal punto di

vista di chi il lavoro non riesce a conquistarlo o lo ha perso; ecc. Ciascuno di questi fornisce

un taglio che arricchisce il quadro ma nel contesto di questa pubblicazione mi è sembrato

utile, e spero che lo sia anche per chi legge, qualche breve considerazione sulla relazione oggi

esistente tra trasformazione delle condizioni tecniche-organizzative del lavoro e la sua

collocazione nel contesto dell’organizzazione sociale.

Inizierei con il sottolineare come oggi si prospetti un cultura della “tecnicizzazione” del

lavoro; dicendo questo non ci si riferisce alla crescita del contenuto tecnologico in ogni

forma di erogazione del lavoro, ma piuttosto al tentativo di desocializzare il rapporto di lavoro.

Il lavoro sempre più, nella vulgata di questo periodo, è considerato una variabile dipendente

dal meccanismo di mercato che determina quantità, modalità e remunerazione del lavoro.

La nostra società non si spoglia della tensione prometeica; anzi affronta territori che

sembravano impossibili (fino alla clonazione e all’ingegneria genetica), e afferma che l’uomo

non conosce che i confini che esso stesso si da. In tutti i campi l’umanità è protesa ad

affermare la sua capacità progettuale, ad esprimere una propria intenzione, tranne che per

quanto riguarda la vita economica-sociale: in quest’ambito l’uomo appare impotente.

E' la mano invisibile del mercato l’unica forza che regola quanto, chi, dove. Qualsiasi

progettualità è dismessa.

Eppure la “progettazione sociale” è il costrutto forte della organizzazione sociale. Forme

felici o aberranti non sono “casuali”, ma l’esito di un progetto, anche se opaco o offuscato

da una nube ideologica. Così gli effetti sociali determinati dalla mano invisibile del mercato

non sono l’esito dell’assenza di un progetto, ma la concreta realizzazione di una intenzione

sociale, cioè di un progetto, anche se invisibile e non immediatamente riconoscibile dato il

suo carico di simboli e di ideologia.

Page 19: Bergamo, Il filo di Arianna, 2000€¦ · comunicazione, perché il linguaggio visivo permette di superare almeno apparentemente i – – forti vincoli della lingua scritta. Non

19

Se alcuni tentativi di “progettazione sociale” espliciti sono stati caratterizzati da fallimenti

(non solo il “socialismo realizzato” ma anche, si dice, il welfare), anche la “sofferenza” del

sistema di mercato è l’esito del fallimento di un progetto sociale.

Ciò che va messo in evidenza, quindi, è che ogni forma di organizzazione sociale e ogni

esito (positivo o negativo) di tale organizzazione è l’espressione, comunque, di un progetto

sociale. E’ un errore, o piuttosto l’esito di una sconfitta culturale, l’affermazione che un

progetto sociale esibito sia foriero solo di fallimenti, mentre la sua assenza garantirebbe un

esito positivo, ancorché (sic!) non perfetto, del mercato (cioè del suo progetto implicito).

Queste poche e asseverative (mi scuso) notazioni hanno a che fare con il lavoro e con il

rapporto di lavoro.

Il lavoro è stato il terreno non solo di uno scontro tra interessi contrapposti, ma di due

progetti: uno strumentale da parte dell’impresa e del capitale, l’altro di liberazione, da parte

del movimento dei lavoratori. Ambedue questi progetti hanno assunto forme e contenuti

diversi, in ragione dei rapporti di forza, degli strumenti disponibili (tecnologie,

organizzazione ...), del livello di sviluppo, dell’esistenza o meno di una esercito di riserva,

ecc. Per capirci, organizzazione fordista o post-fordista sono le forme che in specifici

contesti incarnano il progetto strumentale. La spoliazione di ogni consapevolezza del

processo produttivo operato dalla massima parcellizzazione del lavoro alla catena di

montaggio (che ha prodotto, tuttavia, l’unificazione sociale e culturale dei lavoratori), non è

diversa, in termini di progetto strumentale, della ricomposizione operata in parte nel sistema

post-fordista. Si tratta di soluzioni adatte a specifiche fasi di sviluppo, anche tecnologico, che

permettono di declinare in modo diverso la sottomissione del lavoro e la sua trasformazione

a mero strumento.

Soluzioni diverse? Sicuro! Migliori o peggiori? Gli elementi di giudizio da mettere in campo

sono diversi: il singolo o l’insieme dei lavoratori; il salario o la quota di prodotto sociale

attribuito al lavoro; l’autogestione o la sicurezza e continuità del lavoro; il reddito o la salute;

ecc.

Se fa parte delle regole del gioco della nostra organizzazione sociale che il capitale e l’impresa

tendano ad imporre il proprio progetto, che viene presentato come “necessità tecnica”,

quello che sconcerta è l’accettazione anche ideologica di tale “necessità tecnica”, senza

nessuna controindicazione. La “ragione del capitale” non trova nessuna contrapposizione di

sostanza, la sua natura sociale e storica si trasforma in un dato di natura, qualsiasi progetto di

liberazione si infrange sullo scoglio della “ragione tecnica”. Si può trasformare il mondo

fisico, si può dare forma nuova a quello biologico, si può esplorare l’universo, si possono

Page 20: Bergamo, Il filo di Arianna, 2000€¦ · comunicazione, perché il linguaggio visivo permette di superare almeno apparentemente i – – forti vincoli della lingua scritta. Non

20

progettare e realizzare nuove e più potenti tecnologie, ma non si può cercare di progettare

una società di liberi e uguali, o almeno una società che abbassi disuguaglianze, oppressione,

povertà e miseria sociale. Il mondo sociale appare come inviolabile con proprie leggi di

sviluppo che sono le uniche che non è possibile modificare.

Eppure non si può non essere consapevoli che quelle leggi sono l’incarnazione di un

progetto di sottomissione e non di libertà, un progetto di riduzione del lavoro a merce.

Il lavoro concreto e necessario nelle sue quantità, qualità, remunerazione e modalità di

erogazione è determinato da una ragione tecnica che non si può discutere, risponde ad una

legge che se infranta determina conseguenze negative per tutti: non a caso si dice che “il

mercato si vendica”, come un Giove intangibile dai bisogni umani.

La necessità tecnica si articola nel tempo, per cui oggi flessibilità, contratti di formazione

lavoro, lavoro in affitto, lavoro a domicilio, part-time, lavoro “atipico”, telelavoro, e

quant'altro, sono appunto necessità tecniche, non espressione di forme di organizzazione

sociale che possono essere modificate.

La desocializzazione del lavoro ha finito per permeare ogni discorso sul lavoro.

Così il dato di costrizione individuale: accettare un lavoro sottopagato per poter mangiare,

diventa un dato della politica di sviluppo per il Mezzogiorno (“meglio un lavoro sottopagato

che nessun lavoro”, ha affermato un uomo di governo, dove il “buon senso” si sposa con un

cinismo governativo agghiacciante). Così la flessibilità, l’ideologica “gestione del proprio

tempo di lavoro”, viene esaltata come un elemento di liberazione (anche in ambienti di

sinistra) offuscando tutti i dati di insicurezza e di incertezza che genera e la sua sostanziale

dipendenza.

La catena di montaggio era orrenda (è ancora orrenda, infatti contrariamente a quello che si

pensa esiste ancora) nessuno, credo, ne può avere nostalgia, ma il suo superamento non ha

costituito un momento di liberazione, non ha liberato i lavoratori dalla loro catena di

necessità, di insicurezza, di soggezione. Contro quella forma sociale di erogazione del lavoro

i lavoratori hanno combattuto, un uguale conflitto va aperto sulle nuove forme sociale di

erogazione del lavoro. Le difficoltà di questo conflitto non sono soltanto nella

trasformazione della fabbrica (la massa aggregata di lavoratori), ma soprattutto nella cultura e

nella sua costruzione mistificata, che fa sembrare tecnico quello che è sociale.

Una cultura che si alimenta di “facezie” che ripetute all’infinito dai mezzi di comunicazione

di massa diventano delle verità non discutibili. Così non finiamo di lodare l’economia della

“piccola impresa” mentre quotidianamente abbiamo notizie di fusioni di grandi gruppi e

della formazioni di grandi potentati industriali e di servizi, in tutti i settori portanti e che

Page 21: Bergamo, Il filo di Arianna, 2000€¦ · comunicazione, perché il linguaggio visivo permette di superare almeno apparentemente i – – forti vincoli della lingua scritta. Non

21

avranno un enorme peso economico, sociale e culturale sulla nostra vita Così la giusta

considerazione dei distretti industriali offusca il fatto che dentro il distretto industriale molto

spesso si sviluppa un’impresa che della produzione dei diversi segmento del distretto è

capace di assorbire a suo fine tutte le potenzialità da una parte della produzione e dall’altra

del mercato, per cui il distretto finisce per essere il frazionamento produttivo di un “grande”

impresa. Il successo di un giovane imprenditore che sulla base del suo geniale intuito o della

sua capacità tecnica, ha saputo mettere su un’impresa da miliardi di dollari, diventa il

“modello” per tutti giovani che non trovano lavoro: “fatti imprenditore di te stesso” questo

è il consiglio, insomma un “arricchitevi tutti! Cosa aspettate!”.

I bassi salari creano sviluppo e occupazione, questo è il nuovo credo. Del resto gli Stati

Uniti insegnano: “Il costo del lavoro non è più una voce determinante nei bilanci delle

imprese”; questo importante risultato ha avuto qualche esito sociale: il reddito delle famiglie

più ricche negli ultimi 20 anni è aumentato del 30%; il reddito del quinto delle famiglie più

povere si è invece ridotto del 6% nello stesso periodo. L’autrice dello studio da cui sono

ricavati questi dati sommari commenta: “per i meno ambienti sembra non esserci speranza”.

E’ certo che la forma delle prestazioni richieste al lavoratore sono cambiate, non credo che

sia questo il problema; questo cambiamento sta dentro l’evoluzione della tecnologia,

dell’organizzazione e dello sviluppo. Questi cambiamenti si possono descrivere in tanti modi,

di seguito se ne propone uno, non si tratta dell’unica modalità con la quale osservare questi

fenomeni, ma di quella che pare più strettamente collegata alle precedenti osservazioni.

La prima riguarda le trasformazioni del lavoro in fabbrica, si tratta di modificazioni relative

alle stesse mansioni, alle condizioni ambientali, all’uso di tecnologie più avanzate, alla

riduzione della fatica fisica (talvolta accrescendo quella psichica), ad una partecipazione

meno parcellizzata al processo produttivo, ecc. Non è vero che la fabbrica fordista sia

scomparsa, ma è vero che oggi il lavoro in fabbrica è spesso (non sempre) meno peggio che

nel passato. La conseguenza è la richiesta di una maggiore duttilità e flessibilità professionale,

che sicuramente, in molti casi, rompe la monotonia di una mansione ripetitiva richiedendo

un maggior coinvolgimento. E’ vero che in molti casi le mansioni si arricchiscono ma in altri

si impoveriscono. Insomma si tratta di modificazione complesse e articolate, che si muovono

in diverse direzioni: non c’è un unico indirizzo di marcia se non quello di un aumento di

produttività continua che determina una continua diminuzione della quantità di lavoro

necessario. Una diminuzione definita fisiologica, ma su questo si tornerà più avanti.

Ma c’è un punto che pare di grande rilievo: nelle nuove forme di organizzazione della

produzione, come è noto, tende ad affermarsi sempre più il just in time, non una produzione

Page 22: Bergamo, Il filo di Arianna, 2000€¦ · comunicazione, perché il linguaggio visivo permette di superare almeno apparentemente i – – forti vincoli della lingua scritta. Non

22

per il “magazzino” ma direttamente, secondo la richiesta, per il mercato. La merce prodotta

non deve cioè giacere. Lo stesso criterio si applica alla “merce lavoro” anch’essa deve essere

just in time: la quantità di lavoro impiegata deve tendere ad essere strettamente legata

all’andamento di breve periodo del mercato. Da qui le forme di lavoro interinale, la richiesta di

flessibilità e ogni invenzione in grado di far corrispondere l’eventuale andamento a

fisarmonica del mercato con quello del lavoro impiegato. Va detto, e non è cosa da poco,

che un sistema di questo tipo ovviamente può realizzarsi soltanto in una situazione di offerta

di lavoro sovrabbondante o, con altre parole, con alti tassi di disoccupazione. Si potrebbe

sostenere che da una parte il sistema di produzione (niente di personale!) “crea” la

disoccupazione, questa permette una utilizzazione della forza lavoro secondo il criterio prima

indicato.

In molti settori, nella logica del just in time di ridurre i rischi, di pagare meno il lavoro, ecc., si

è molto sviluppato il “terzismo”, cioè l’assegnazione di segmenti di lavorazione ad aziende

esterne che spesso costituiscono delle dipendenze improprie dell’impresa “madre”. In

generale gli obblighi dei terzisti verso l’impresa madre sono notevolissimi e spesso anche

costosi (in termini di penali), mentre quelli dell’impresa madre verso i terzisti sono nulli. Il

terzismo si fonda sull’ideologia del “farsi imprenditore di se stesso” e prospera sulla

cosiddetta gestione autonoma del proprio lavoro, e di quello di molti membri della famiglia,

una nota situazione di quello che è stato definito autosfruttamento e di sfruttamento, nel

caso ci fossero, dei pochi dipendenti. Si tratta di una sorta di accumulazione primitiva che

può dare luogo talvolta, anche se non frequentemente, a significativi sviluppi dell’impresa.

Si muove nella stessa direzione, quella di ridurre il costo di lavoro (“il costo del lavoro non è

più una voce determinante nei bilanci dell’impresa”, vedi sopra), l’espulsione dall’impresa di

una serie di funzioni di servizio. Si tratta di una modalità attraverso la quale si asciugano i

costi aziendali. Una quota dello sviluppo del terziario, come è noto, non è altro che

l’autonomizzazione di funzioni che prima erano interne all’impresa industriale (ogni

considerazione post-industriale con questo dato dovrebbe fare i conti).

Anche il lavoro nel terziario si è molto modificato nella stessa direzione e con le stesse

modalità di quello di fabbrica, forse è più accentuato in questo settore la polarizzazione tra

attività che hanno visto crescere contenuti e professionalità e attività che hanno visto invece

abbassare drasticamente il loro contenuto professionale.

È possibile affermare che mentre l’occupazione in fabbrica e in ufficio tende a non crescere

(talvolta diminuisce), il lavoro effettivamente impiegato date le diverse forme di flessibilità

esistenti, note e ignote, aumenta. Quello che cresce e l’impiego di forza lavoro (non

Page 23: Bergamo, Il filo di Arianna, 2000€¦ · comunicazione, perché il linguaggio visivo permette di superare almeno apparentemente i – – forti vincoli della lingua scritta. Non

23

occupazione nella forma tradizionale) di tutte quelle attività in cui è il lavoro stesso il suo

prodotto (il “lavoro di cura” in modo esemplificativo). Non paia paradossale che nel

massimo livello dello sviluppo tecnologico cresca il lavoro che possiamo definire “servile”.

Le ragioni che stanno alla base della dilatazione di questo segmento del mercato di lavoro

sono molteplici: una sorta di autopromozione da parte di chi non riesce a entrare in un

settore del mercato del lavoro più strutturato; una domanda crescente di questi servizi

determinata dal prolungamento della vecchiaia, dalla non espansione (contrazione anche?)

dei servizi sociali in ragione della crescente domanda; da una certa polarizzazione della

distribuzione della ricchezza che permette ai più favoriti di richiedere servizi .

Che si tratti del settore più aleatorio, meno garantito e a più bassi salari è noto. I volumi che

hanno decantato le “professioni del 2000” sono spesso agghiaccianti: nel loro baluginio di

situazioni, di possibilità, di meraviglie descrivono prevalentemente situazioni di “lavoro

servile” o mitiche possibilità che non possono, per loro natura, che essere di pochi, di

molto pochi. Che dentro questa articolazione sia possibile, a pochi, trovare delle nicchie di

alta redditività, è possibile e certo, ma questo costituisce l’elemento che alimenta la speranza

(vana) di molti.

Fermo restando che esistono delle aree geografiche nelle quali tra offerta e domanda di

lavoro è possibile riscontrare un certo equilibrio, in generale si può dire che l’attuale

funzionamento del mercato del lavoro non garantisce né livelli di occupazione adeguati, né

sicurezza di occupazione, né partecipazione significativa al processo di valorizzazione.

Il cambiamento, da quando i lavoratori hanno assunto consapevolezza di sé, è stato sempre

una miscela di innovazioni tecnologiche, di rivendicazioni di migliori condizioni di lavoro,

compreso il salario, di risposte di riorganizzazione a tali richieste. Una sorta di “circolo

virtuoso”, che ha permesso non solo di migliorare le condizioni di lavoro, ma di accrescere la

“dignità” sociale del lavoratore. Questo non vuol dire che non siano individuabili periodi e

situazioni di arretramento che, tuttavia, erano vissuti come tali: sconfitte. La consapevolezza,

più o meno diffusa, di una tale sconfitta ha sempre costituito la necessaria base da cui

ripartire per riaffermare il “diritto” al lavoro e alla dignità del lavoratore. Dentro questo

processo non sono mancate né grandi trasformazioni tecnologiche, né grandi modifiche

organizzative. Ma anche se queste oggi fossero di portata maggiore e avvenissero ad una

accresciuta velocità, ciò non giustificherebbe quella che si è definita desocializzazione del

lavoro.

Il contesto tecnologico e le trasformazioni in atto sopporterebbero benissimo un progetto di

organizzazione sociale fondato su equità, sicurezza sociale, eliminazione della povertà e

Page 24: Bergamo, Il filo di Arianna, 2000€¦ · comunicazione, perché il linguaggio visivo permette di superare almeno apparentemente i – – forti vincoli della lingua scritta. Non

24

dell’ansia per l’incerto futuro, maggior benessere generalizzato, parziale liberazione dal

lavoro. Anzi, potrebbero essere assunti come un’opportunità per assestare l’organizzazione

sociale ad un più alto livello di libertà e giustizia. Una riduzione dell’orario di lavoro può

essere sostenuta non tanto come un rimedio alla disoccupazione, ma come un elemento di

liberazione possibile; la sicurezza del lavoro o del reddito non può essere considerata una

scoria del passato ma un portato dello sviluppo e della sua utilizzazione sociale.

Ma tutto questo non è dato naturalmente, non può che essere supportato da un progetto

sociale, dalla rinunzia dell’ineluttabilità delle leggi di mercato.

Si ritorna all’inizio.

Francesco Indovina, docente all'Istituto universitario di Venezia

Con lo sviluppo della divisione del lavoro, l’occupazione della stragrande maggioranza di coloro

che vivono di lavoro, cioè della gran massa del popolo, risulta limitata a poche semplicissime

operazioni, spesso una o due. Ma ciò che forma l’intelligenza della maggioranza degli uomini è

necessariamente la loro occupazione ordinaria. Un uomo che spenda tutta la sua vita compiendo

poche semplici operazioni non ha nessuna occasione di applicare la sua intelligenza o di esercitare

la sua inventiva a scoprire nuovi espedienti per superare difficoltà che non incontra mai... In ogni

società progredita e incivilita, questa è la condizione in cui i poveri che lavorano, cioè la gran

massa della popolazione, devono necessariamente cadere a meno che il governo non si prenda

cura di impedirlo.

Adam Smith (“che aveva già capito tutto due secoli fa”) ricordato dall’economista

Giorgio Lunghini

Tutto ciò che attiene a un uso dinamico della memoria ci offre, quotidianamente,

coscienza materiale per capire meglio la nostra storia: passata e presente. Conosco abbastanza il

lavoro di Uliano Lucas per poter dire che la sua è una fotografia "in funzione di". Per noi

dell'Istituto Ernesto de Martino che da tempo fatichiamo una ricerca ad ampio raggio sul tema

lavoro/non lavoro, iniziative come quella che ha portato a questa mostra sono tanto preziose

quanto utili. C'è il lavoro "vecchio" che scompare e ci sono nuovi lavori, nuove professionalità,

nuove "arti" (nel senso della bottega artigiana rinascimentale) che configurano nuove e diverse

soggettività e collettività produttrici. C'è, dunque, molto da ricercare, per capire e per conoscere

e il lavoro di Uliano Lucas è certo un approccio importante, fondamentale direi, per cominciare.

Ivan Della Mea, presidente dell’Istituto Ernesto De Martino

Page 25: Bergamo, Il filo di Arianna, 2000€¦ · comunicazione, perché il linguaggio visivo permette di superare almeno apparentemente i – – forti vincoli della lingua scritta. Non

25

Sapevamo che cos'era il lavoro. Ne conserviamo l'idea: la fatica, il salario, la fabbrica, i compagni

e i capi, l'orologio, i cancelli, l'andare e il tornare...Non che la realtà attuale non corrisponda più a

quell'idea, che è ben fondata, depositata nella coscienza di generazioni da anni di pratiche ripetute

e tramandate; il fatto è, invece, che il lavoro sta cambiando, è cambiato in questi quindici anni più

di quanto era cambiato nei cinquanta precedenti. Ed è cambiato anche quel lavoro di fabbrica che

aveva prodotto l'idea forte, dominante appena ricordata.

Naturalmente, anche prima, non tutto il lavoro era lavoro dipendente e di fabbrica, tanto meno di

grande fabbrica; né, ora, la fabbrica è sparita dal nostro orizzonte. Il lavoro era ed è sporco e

pulito, vecchio e nuovo, faticoso e anche "bello" in molti modi diversi. E' più che mai una realtà

dalle mille facce, che non conosciamo abbastanza. Abbiamo bisogno che il nuovo venga non solo

analizzato dagli specialisti, ma che venga detto anche in modi semplici, che venga fatto vedere. E'

necessario che le nuove esperienze di lavoro diventino familiari, oltre che a chi è direttamente

coinvolto, anche agli occhi degli altri, perché certe loro qualità possano essere riportate a quello

che già sappiamo e certe altre arricchiscano il bagaglio di quello che conosciamo. Vedere,

conoscere sono l'inizio di un processo minimo di riappropriazione collettiva.

E', infatti, in ultima analisi, una questione di potere. Anche in questa come nelle precedenti

rivoluzioni industriali, attraverso la ridefinizione dei modi, tempi e contenuti del lavoro e del

controllo di sé da parte dei lavoratori passa una generale riorganizzazione sociale. Non tutti sono

oggi protagonisti allo stesso modo. Quale sarà il posto del lavoro dipenderà anche da quanto le

realtà, i problemi e la cultura stessa dell'innovazione diventeranno patrimonio condiviso della

maggioranza della popolazione, i lavoratori.

Bruno Cartosio, storico

Il lavoro costituisce un momento fondamentale per la realizzazione della propria personalità e,

contemporaneamente, la condizione per collettivamente operare per progressivamente

conquistare diritti sociali, quali i diritti di cittadinanza, essenziali per il riscatto e l’emancipazione

dei lavoratori salariati

Antonio Pizzinato, senatore

Il lavoro rende liberi.

(sui campi di concentramenti nazisti)

Lavorare stanca.

(Cesare Pavese)

Il lavoro si difende lavorando.

Page 26: Bergamo, Il filo di Arianna, 2000€¦ · comunicazione, perché il linguaggio visivo permette di superare almeno apparentemente i – – forti vincoli della lingua scritta. Non

26

(slogan della marcia di 40.000 impiegati, intermedi e operai contro lo sciopero alla FIAT nell’autunno 1980)

Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, è diventato una cosa, è

l’oggettivazione del lavoro. La realizzazione del lavoro è la sua oggettivazione. Questa

realizzazione del lavoro appare nello stadio dell’economia privata come un annullamento

dell’operaio, l’oggettivazione appare come perdita e asservimento dell’oggetto, l’appropriazione come

estraniazione, come alienazione.

(Karl Marx)

Il lavoro fa sentire l’uomo come Dio. E, come su Dio, si può dire tutto e il contrario di tutto. Ma,

mentre Dio è morto, il lavoro resta il grande mistero dell’uomo. E la principale causa della sua

oppressione e sfruttamento.

Per quanto mi riguarda, cresciuto nella religione del lavoro, rimango sospeso tra fede e dubbi.

Guido Chiesa, regista

Lavorare per conoscere, lavorare per liberare, lavorare per trasformare, lavorare per includere.

Quando ho scelto di fare lo psichiatra cercavo un lavoro che mi avvicinasse alla conoscenza dell'

Uomo, dell'Altro ( ma anche di me stesso )-

La curiosità di conoscere e di conoscersi, la volontà di affrontare le paure verso il me stesso ed il

me altro sconosciuto, diverso, folle.

Ho capito solo dopo anni che in quella scelta avevo accettato spontaneamente quello che Franco

Basaglia aveva chiamato "il rischio dell'incontro".

Per lui era stata la scelta di confrontarsi con il malato "reale" segregato in manicomio, mettendo

tra parentesi la "malattia" e svelando finalmente nel processo del "praticamente vero" l'autentico

oggetto del lavoro dello psichiatra: il soggetto sofferente ed il suo rapporto con il corpo sociale;

da quella scelta e da quell'incontro diede inizio a quell'eccezionale trasformativo lavoro anti-

istituzionale.

Ma non sapevo ancora quanto scegliere questa professione e questo modo di praticarla avesse a

che fare con la divisione del lavoro e la relativa relazione di violenza e di dominio fondata su di

essa: tutta la vita sociale è segnata da questa divisione attraverso la quale il potere continua a

schiavizzarci , ma è uno stato di cose che viene di norma subìto ed accettato acriticamente.

Per comprendere il nostro lavoro di "tecnici della salute" è indispensabile riuscire a cogliere

quanto la nostra posizione non sia solo tecnica ma anche politica: la stessa relazione terapeutica

rimane sempre una relazione di dominio se tra medico e paziente non c'è reciprocità ma

dipendenza, mentre il rapporto cambia se è basato sulla fiducia e sullo "scambio".

Page 27: Bergamo, Il filo di Arianna, 2000€¦ · comunicazione, perché il linguaggio visivo permette di superare almeno apparentemente i – – forti vincoli della lingua scritta. Non

27

Ho potuto capire con l'esperienza come sia importante ed etico confermare quotidianamente

quella scelta di campo verso il "paziente-persona" e rinunciare al mandato sociale di escludere,

segregare, medicalizzare.

Possiamo cercare di cambiare il nostro ruolo rifiutando quello che il potere ci da' e assumere

quello che invece ci viene dato dal rapporto con i nostri pazienti.

Possiamo accettare di essere deboli con i deboli per tentare una trasformazione verso una nuova

scienza dell'uomo, un nuovo umanesimo.

Dobbiamo però assumerci il rischio di incorrere nelle sanzioni previste dal sistema che non

accetta cambiamenti che minino la struttura sociale e la norma da essa stabilita.

E allora per lavorare, per liberare e trasformare bisogna (come ci insegna ancora Franco Basaglia),

prendere le distanze dal pessimismo della ragione e realizzare quotidianamente l'ottimismo della

pratica.

Ma lavoro vuoi dire anche possibilità di lotta all'esclusione sociale.

Poter lavorare diventa un eccezionale strumento naturalmente "terapeutico" che porta, attraverso

un cambiamento di vita, a migliorare la coscienza di sé e ad allargare il proprio mondo di relazioni

sociali.

Bisogna saper mobilizzare le risorse umane riconoscendo che curare significa anche (o

soprattutto?) valorizzare, abilitare, emancipare.

Bisogna lavorare per il passaggio da un mondo di assistenza sociale inefficace e distruttivo al

mondo dell'impresa sociale, promuovendo non laboratori protetti ma reale produzione di attività

di mercato.

Per questo c'è bisogno di formazione culturale dei soggetti e c'è bisogno di operatori pubblici che

sappiano diventare motori di cooperazione e collaboratori dell'imprenditorialità.

Carlo Minervini, psichiatra

Il lavoro è: speranza, occupazione, benessere, consumo, egoismo.

Il lavoro è: fatica, umiliazione, disoccupazione, nero, minorile, miseria, disagio.

Il lavoro è: dignità, cultura, tolleranza, partecipazione, confronto, solidarietà, lotta, legalità.

Il lavoro è la vita di ogni giorno.

Roberto Carminati, operaio metalmeccanico

Il lavoro mi dà una capacità economica che mi permette di vivere decorosamente.

Page 28: Bergamo, Il filo di Arianna, 2000€¦ · comunicazione, perché il linguaggio visivo permette di superare almeno apparentemente i – – forti vincoli della lingua scritta. Non

28

Constato però che l’energia e il tempo della mia attività lavorativa non sono direttamente

proporzionali alle soddisfazioni economiche, sociali e culturali che ne traggo.

Elisa Martinelli, operaia metalmeccanica

Nella società capitalista basata sull’appropriazione dei mezzi di produzione e sullo sviluppo

crescente dei macchinari, il lavoratore si trova triplamente alienato.

PRIVAZIONE. Il lavoro si rivela come fonte di ogni ricchezza. Eppure il lavoratore non gode

dei frutti del suo lavoro. Il prodotto che crea appartiene non a lui ma ad un altro. Nella vita

quotidiana, nel mercato, questo prodotto fatto da lui gli è estraneo. E lo domina.

DISUMANIZZAZIONE. Nella fase produttiva macchinari e automazione riducono la

partecipazione soggettiva del lavoratore. Non è più come l’artigiano che modella i suoi soggetti

come vuole. A questo livello la forma del futuro oggetto è stabilita anticipatamente dai computer.

Il lavoratore è come “un pezzo di carne in mezzo all’acciaio”.

DEPERSONALIZZAZIONE. Le condizioni di lavoro sono tali che il lavoratore non dispone di

abbastanza tempo per manifestare altrimenti la sua vita. Poco o niente divertimento, escluso dalla

sfera culturale, il sistema lo schiaccia e tende a ridurre i suoi bisogni al minimo fisiologico:

nutrirsi, dormire per poter riprendere il lavoro l’indomani. Questo conduce piano piano al

soffocamento delle sua capacità intellettuali e creativa. Quasi robotizzato, tutto quello che c’è di

umano in lui si addormenta…

Ma il lavoro è anche e soprattutto un modo di realizzarsi, perciò nonostante tutto è un male

necessario.

Gueye Amadou, operaio tessile

“Lavorare stanca” non è il titolo di una poesia di Pavese, ma il motto di tante persone che ogni

mattina, allo squillare della sveglia si alzano, bevono un caffè e senza muovere un solo muscolo

facciale salgono in macchina per recarsi al lavoro. Sto parlando di chi il proprio lavoro non lo

svolge come scelta ma come bisogno primario per continuare a vivere. Ma cos’è il lavoro, oltre il

bisogno primario?

Persone che vivono un terzo della propria vita in una ambiente che spesso è poco piacevole, a

stretto contatto con altri che non si arriva mai a conoscere. E’ così difficile costruire un ambiente

lavorativo in cui oltre che produrre, possiamo creare comunicazione, scambio e partecipazione?

Page 29: Bergamo, Il filo di Arianna, 2000€¦ · comunicazione, perché il linguaggio visivo permette di superare almeno apparentemente i – – forti vincoli della lingua scritta. Non

29

Non è un altro pianeta, ma se uscissimo da quel guscio di rassegnazione, egoismo,

individualismo, riusciremmo a capire che fonte di energia potrebbe essere il nostro posto di

lavoro. E’ anche vero che ci sono ambiti lavorativi in cui i ritmi di lavoro sono alienanti e proprio

per questo non dobbiamo restare così indifferenti ma manifestare il nostro disappunto a un certo

sistema.

Sono pienamente convinta che il progresso e il benessere portino le persone alla solitudine ma

star soli non è naturale, guasta il buon senso e forse è quello che qualcuno vuole, perché gli

individui soli lavorano di più, non condividono niente e comprano a più non posso per riempire

il proprio vuoto.

Non sono in depressione, a me la primavera fa sempre il solletico ma quando vedo ogni giorno

sul posto di lavoro così tanta indifferenza penso che la macchina che ho di fronte non sia poi così

diversa dalle persone. Proviamo a parlare con la gente di cosa ne pensa del lavoro, le risposte

sono quasi sempre: “Cosa vuoi che sia, oltre che far andare la macchina”, oppure “Io aspetto solo

la fine del turno” e ancora “Il mio capoufficio almeno non rompe le scatole”.

Se tutto questo significa sentirsi vivi, ho paura del futuro; se le lotte dei nostri padri ci hanno

portato a questo, spero solo che nella malinconia che nasce vedendo il risultato, si celi un pò di

speranza, affinché qualcuno possa cogliere la voglia di tornare a lottare per una vita in cui il

lavoro non serva solo come strumento di affermazione sociale ma soprattutto ad elevare le virtù

umane e civile delle persone.

Cristina Belotti, operaia tessile

Il lavoro è uno spazio di aggregazione e di comunicazione e di ricerca delle proprie aspirazioni.

Nel lavoro noi esprimiamo gran parte delle nostre potenzialità. Contemporaneamente in esso ci

accorgiamo di vivere anche le nostre contraddizioni.

Gennaro Palazzo, operaio metalmeccanico

Il lavoro per me oggi significa autonomia e socializzazione. Il lavoro permette di avere un

reddito, senza il quale nella attuale società si è inevitabilmente limitati e condizionati.

Sul posto di lavoro è possibile uno scambio interpersonale tra lavoratori, anche di diversa

provenienza etnica, attraverso il dialogo e il confronto delle diverse esperienze acquisite. Il fatto

che diverse culture operino per una collaborazione attiva, che superi anche le barriere del

Page 30: Bergamo, Il filo di Arianna, 2000€¦ · comunicazione, perché il linguaggio visivo permette di superare almeno apparentemente i – – forti vincoli della lingua scritta. Non

30

pregiudizio culturale, frutto dell’ignoranza, trasformano il posto di lavoro in una palestra di

convivenza civile e democratica.

Elisa Cavagna, addetta mensa.

Il lavoro è un dovere verso se stessi e nei confronti delle persone che ti sono più vicine

Carlo Donadoni, operaio metalmeccanico

Il lavoro: se non ce ne fosse bisogno, sarebbe meglio

Adriano Visinitin, operaio metalmeccanico

Il lavoro è un impegno verso la mia coscienza e verso l’azienda che mi paga

G. Battista Giuliani, operaio metalmeccanico

Per me il lavoro è così alienante che è un semplice trascorrere di orario, che comincia alle 14 e

finisce alle 22.

Giulio Pirola, operaio metalmeccanico

Il lavoro è uno strumento che mi permette di vivere autonomamente.

Vorrei che fosse un ambiente di reciproco rispetto, un posto dove si possa migliorare la propria e

altrui capacità e conoscenza culturale.

Pietro Baldassari, operaio metalmeccanico

Da bambino continuavano a dirmi che “quando sarai grande, andrai a lavorare e guadagnerai

tanti soldi”. Bene!…Adesso che sono grande e lavoro (una fortuna al giorno d’oggi), da quella

frase ho idealizzato che, se dovessi lavorare solo per guadagnare del denaro per vivere, smetterei

subito di farlo!!!

Per me il lavoro va oltre il guadagno.

Con il lavoro posso conoscere me stesso, valutando i limiti della mie capacità, ed ampliare

l’orizzonte delle conoscenze tecniche ed umane.

Page 31: Bergamo, Il filo di Arianna, 2000€¦ · comunicazione, perché il linguaggio visivo permette di superare almeno apparentemente i – – forti vincoli della lingua scritta. Non

31

E’ utile a confrontarmi su qualsiasi campo con i miei compagni di lavoro, conosco nuove culture

e modi di vita, a volte discuto animatamente su particolari questioni convinto, comunque, che

anche in questo modo posso aver imparato qualcosa.

Mi dà la possibilità di conoscere i disagi di persone delle quali, standomene nel mio “limbo” (casa

e amici) ignoravo l’esistenza.

La ricerca nel lavoro di queste cose è per me la molla che tiene viva la voglia di consumare ore

della mia vita lavorando.

Bruno Invernici, operaio alimentarista

Il lavoro è l’operare umano attraverso il quale l’uomo modifica l’esistente sulla base della propria

volontà e capacità.

In questo ci mette di suo, tempo, energia, intelligenza.

Il lavoro è indubbiamente un rapporto economico, un mezzo per soddisfare i propri bisogni, ma

è anche un valore e quindi uno stile di vita.

E’ un elemento qualificante per la persona e per la vita, una necessità. Cosa sarebbe l’uomo e

cosa sarebbe la vita senza il lavoro?

Qualcuno l’ha definito un’arte, l’arte del vivere.

Forse è la definizione più completa.

Mario Fojadelli, magazziniere

Ciò che colpisce oggi, così come colpiva gli osservatori all’inizio del secolo, è il fatto che

coesistano disoccupazione e penuria nell’offerta di beni e servizi; il senso comune non riesce a

coniugare le due cose e il più tiepido senso di giustizia viene scosso da tale constatazione. Gli

specialisti e gli studiosi forniscono innumerevoli spiegazioni di come tale realtà si produca e si

riproduca ma al fondo si riapre una questione che sembrava sepolta sotto le macerie del

comunismo e del crollo del muro di Berlino: il senso delle nostre società. E’ una domanda

inquietante perché le scienze che studiano l’uomo ci hanno insegnato, sulla base di una

imponente documentazione empirica, che gli esseri umani soffrono e si ammalano ogni qualvolta

si produce nella loro vita una perdita di senso. Un libro recente di ricerca sugli Stati Uniti ci

racconta gli effetti sulle persone della perdita di senso delle loro vite. Generalmente la perdita di

senso è un caso estremo studiato dagli psichiatri su singole persone ma sembra di poter dire che

siamo entrati in una fase nella quale le persone “normali” sperimentano”, collettivamente una

Page 32: Bergamo, Il filo di Arianna, 2000€¦ · comunicazione, perché il linguaggio visivo permette di superare almeno apparentemente i – – forti vincoli della lingua scritta. Non

32

condizione di deprivazione di senso delle loro vite singole ed associate e che per ciò stesso non

solo loro, singolarmente, ma la società intera soffre.

C’è chi ha tentato testardamente di evitare il problema negando al lavoro un ruolo centrale nella

vita degli esseri umani; secondo costoro l’importanza che viene attribuita al lavoro è un residuo

del passato, in realtà l’unica cosa che conta è avere un reddito per vivere la “vita vera” che è fuori

dal lavoro e che è naturalmente piena di valori e significati. Una qualsiasi analisi sociale sugli

ultimi venti anni, in qualunque paese del mondo, dimostra la natura di pregiudizio ideologico di

tale posizione. La “vita vera” è la dimensione interiore del nostro rapporto col mondo, rapporto

che avviene dando senso al mondo attraverso il nostro operare, il lavoro appunto. Ma il nostro

rapporto col mondo è duplice, nella cultura antica il mondo è insieme natura naturans e natura

naturata; noi, come singoli ma anche come società siamo parte integrale, attiva, della natura. Il

lavoro, nel duplice senso di una attività trasformativa e di una produzione di senso, è quindi il

nostro modo specifico di esistere nel mondo.

Francesco Garibaldo, direttore dell’Istituto per il lavoro di Bologna

Il lavoro è storia, identità, fisionomia, professionalità, intervento sui processi; è elemento

costitutivo della soggettività, personale e collettiva. Esso può subire attacchi e mutilazioni,

attraverso la crescente precarietà che produce incertezza sociale, proprio mentre l’impresa vuole

affermare il suo punto di vista come unico; il lavoro non è una merce come le altre, il suo valore

d’uso è insostituibile, oltre che essere fonte di diritti. E infatti le nuove soggettività che emergono

in tutti i livelli della società, a partire dai giovani, presentano come centrale il problema della loro

autodeterminazione, siano essi operai, impiegati o tecnici, donne e uomini. La composizione di

queste esigenze diverse, ma tese a obiettivi comuni, offre l’occasione di una nuova solidarietà che

può trovare forma solo in soggettività collettive che si autodeterminano.

Il lavoro e le sue condizioni sono forza possibile per una nuova comunità che trasformi il mondo,

affermano l’irriducibilità delle lavoratrici e dei lavoratori a un sistema – quello capitalistico – che

con modalità diverse nel corso della sua storia ha sempre riconfermato la sue origine oppressive,

la sua logica fondamentale di appropriazione privatistica.

E’ il problema sempre presente della libertà.

Claudio Sabattini, segretario generale della Fiom Cgil

Page 33: Bergamo, Il filo di Arianna, 2000€¦ · comunicazione, perché il linguaggio visivo permette di superare almeno apparentemente i – – forti vincoli della lingua scritta. Non

33

Osservare il lavoro e le sue trasformazioni durante questo secolo, attraverso le immagini, da

quelle fotografiche a quelle artistiche, suscita un duplice ordine di riflessioni.

La più immediata ed emotivamente forte rinvia all’inestricabile carico di sofferenze, di

fatica fisica, di coartazione del corpo e dell’anima che si diffonde dalle immagini di bambine,

donne, giovanetti, uomini colti e rappresentati nel buio delle minierei, nella sospensione dei lavori

edili, nei campi bruciati dal sole, nelle prima manifatture o nelle grandi fabbriche meccaniche e

tessili.

Questo filo non si spezza neppure quando la pluralità dei modelli del lavoro come fatica

viene progressivamente sostituita dal prevalente modello del lavoro come impegno di massa nella

fabbrica meccanizzata e alla fatica muscolare si sostituisce l’impegno produttivistico sulle

macchine.

Una seconda e più meditata riflessione rinvia ad uno degli aspetti centrali della storia del

Novecento: la costruzione del diritto sociale, la formazione della dignità individuale e morale, la

partecipazione all’organizzazione sindacale e politica come fenomeni connessi e largamente

derivati dall’esperienza personale e collettiva del lavoro.

In altri termini la costruzione della democrazia politica e della stessa dimensione nazionale

della comunità civile è passata attraverso le lotte e l’elaborazione delle rivendicazioni e dei diritti

del lavoro come affrancamento dalla soggezione, dalla precarietà, dall’assenza di ruolo nella

storia.

Certo una riflessione conclusiva sul futuro indica come la “virtualità” contenuta nel lavoro del

nostro secolo rischia di spezzarsi nella prospettiva dei nuovi lavori del ventunesimo secolo.

L’elemento che più richiama la mia attenzione riguarda, per un lato, un ritorno alle forme

pre-novecentesche di precarietà come caduta del diritto del lavoro; per un altro la scissione tra la

motivazione alla crescita e al controllo intellettuale non solo del lavoro ma del processo

lavorativo e l’insignificanza del lavoro ai fini della formazione morale e politica dell’individuo e

della collettività.

Adolfo Pepe, storico

Il lavoro negli anni Trenta, quando ero ancora bambina, era quasi sempre fatica. Ricordo le

lavandaie della campagna fiorentina chinate sul greto, d’inverno con le mani arrossate dai geloni,

a sbattere i panni sulla pietra, e gli scalpellini, d’estate, sotto il sole a picco, che martellavano la

pietra, protetti da un cappelluccio di carta di giornale.

Le macchine erano poche e roba da “ricchi”. Si camminava tanto, per andare a lavorare e

per andare a scuola. C’era il tram, ma quando possibile se ne faceva a meno, per risparmiare il

Page 34: Bergamo, Il filo di Arianna, 2000€¦ · comunicazione, perché il linguaggio visivo permette di superare almeno apparentemente i – – forti vincoli della lingua scritta. Non

34

“cinquantino”, la mezza lira, importante anche per i più privilegiati, che guadagnavano “Mille lire

al mese” come diceva una famosa canzone.

E anche il mio lavoro era fatica, malgrado sia un lavoro per pochi fortunati, un lavoro che

diverte e dà soddisfazione.

Negli anni Quaranta quando ho cominciato a osservare al telescopio, passavo le lunghe

notti d’inverno, dalle sei di sera alle sei di mattina, nella cupola, all’aperto, con l’occhio incollato al

telescopio per corregerne i movimenti e ottenere buone fotografie dei corpi celesti oggetto del

mio studio. E così abbiamo seguitato almeno fino alla fine degli anni Sessanta. Oggi tutto è più

facile e comodo. Il computer lavora per noi, comanda e segue il moto del telescopio. Al freddo in

cupola non ci sta più nessuno. Seduti comodamente al caldo possiamo osservare le immagini

fornite dal telescopio su uno schermo televisivo, che può essere situato in una stanza vicina alla

cupola, o anche a migliaia di chilometri di distanza, come quando il telescopio si trova su un

satellite in orbita attorno alla Terra.

Per questo mio, e per tanti altri tipi di lavoro, manuale o intellettuale, qualcuno rimpiange

i bei tempi antichi: “Quanto erano più poetici!”

Io credo invece che se guardiamo indietro a trenta, quaranta, cinquanta anni fa, abbiamo

fatto molta strada, in tutti i sensi. Viviamo più a lungo e in migliore salute, siamo diventati

cittadini e non più sudditi, e chi come me ha conosciuto il fascismo, fa bene a ricordare che “la

peggio democrazia è sempre preferibile alla migliore delle dittature”.

E per questa nostra recente esperienza dobbiamo offrire la nostra solidarietà a tutti coloro

che fuggono dalla fame e dalle dittature, sperando di trovare da noi una vita più dignitosa.

Margherita Hack, astronoma