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Le terre/Memi119

La serie “Memi” è curatada Francesco Benigno e Gabriele Pedullà

Viviamo in un mondo di simboli naturalizzati, artefatti del pensiero dicui si è perduta l’origine storica, se non addirittura la stessa consape-volezza che un’origine c’è stata: personaggi della fantasia, riti stagio-nali, emblemi pubblicitari e miti della cultura popolare sui quali nonsembra nemmeno possibile interrogarci, tanto essi paiono appartenereda sempre alle nostre vite. “Memi” nasce appunto per offrire ai lettoriuna mappa aggiornata dell’immaginario di oggi e raccontare attraver-so le parole e le immagini le grandi icone del mondo contemporaneonel loro continuo farsi e disfarsi: in altre parole per portare alla lucel’alterità che si annida negli oggetti più familiari o invece la segretaconsonanza che ci lega a figure del passato che credevamo di aver can-cellato una volta per tutte dal nostro orizzonte.

I edizione: novembre 2005© 2005 Fazi Editore srlTutti i diritti riservatiProgetto grafico di copertina: Maurizio Ceccato

ISBN: 88-8122-639-1

www.fazieditore.it

Nicola Lagioia

BABBO NATALEDOVE SI RACCONTA COME LA COLA-COLA

HA PLASMATO IL NOSTRO IMMAGINARIO

BABBO NATALE

1. Santa Claus: l’impossibilità di diventare adulti

Come tanti analfabeti di ritorno per eccesso di informa-zione, continuiamo a credere a Babbo Natale anche dopoche i cancelli dell’infanzia ci si sono richiusi alle spalle. L’in -canto di un essere soprannaturale in grado di mettersi a di-sposizione di ogni bambino del pianeta per consegnaredoni si mostra a prima vista come uno spartiacque tra in-fanzia e mondo degli adulti. Questi ultimi, che dovrebbe-ro possedere la verità su Babbo Natale (la semplice circo-stanza che non esista al di là della tradizione, il fatto che siaun prodotto culturale, uno strumento educativo), si impe-gnano a occultarla con dichiarati intenti pedagogici. Soste-nendo l’esistenza di Babbo Natale innesterebbero sullosguar do incantato dei propri figli il meccanismo del do utdes, regali in cambio di obbedienza.

Finito il lungo tirocinio che dai primi vagiti giunge a unaconfidenza basilare con testi scritti, suoni, immagini, per ibambini arrivano anche le prime docce fredde. Lo spar-tiacque è destinato a cedere con precisione rituale quandodi regola, in seguito al consueto passaparola tra ragazzini infinto regime di clandestinità, un fratello o un cugino mag-giore si fanno portatori di una rivelazione («Babbo Natalenon esiste») che ha per il destinatario un effetto traumaticoe riempie il mittente di crudele soddisfazione. L’attraversa-mento di Babbo Natale ottiene in questo modo tutti i cri-

smi di una prova iniziatica. Da una parte, agli appena-ini-ziati (il fratello, il cugino maggiore…) è data l’occasione diesercitare il “potere della conoscenza”. Dall’altra, chi so-stiene la prova acquista la prima patente di adultità, al co-sto di un bruciante disincanto. Nel rivelare “come stannole cose” ai loro piccoli amici, gli iniziati non possono inol-tre esimersi dall’ulteriore ebbrezza di restituire la violenzasubita quando furono loro ad essere strappati brutalmentedal mondo del soprannaturale.

Ma a questo punto? A questo punto non è detto che sidiventi adulti. Entrati tra le file degli iniziati, dovremmoessere capaci di elaborare il lutto per la “morte di BabboNatale” scollando il celebre portadoni dal dominio delmagico al fine di ricollocarlo nel mondo dei semplici fe-nomeni culturali. Il problema è che la percezione socialedi Babbo Natale è tale che questa opera di secolarizzazio-ne fallisca quasi immancabilmente il suo bersaglio. Comea dire che, crollato uno spartiacque, se ne ricostituisce im-mediatamente un altro, rimandando a tempo indetermi-nato la nostra definitiva emancipazione rispetto a questoaffaire.

In genere siamo convinti che Babbo Natale così come loconosciamo, o meglio, così come il suo ectoplasma ci ha vi-sitato per tutta la vita (barba bianca, pancione, giubba ros-sa con i bordi di pelliccia bianca, aspetto gioviale e rassi-curante) esista da secoli. Ci lamentiamo al limite del fattoche la sua figura, che erroneamente potremmo considera-re intatta da epoche vagamente preindustriali, venga sfrut-tata dalla macchina del consumo più sfrenato. Ma comereagiremmo al pensiero che Babbo Natale, più che esserecavalcato dalla società dei consumi, sia uno dei suoi rap-presentanti più emblematici? E alla circostanza che la suaperenne quanto inafferrabile presenza nel complicato gio-

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co di specchi che regola il traffico del nostro immaginarioè dovuta in buona parte alla Coca-Cola?

Questo difetto di messa a fuoco cronologica può riman-dare con qualche azzardo a dinamiche orwelliane. Nell’u-topia negativa di 1984, l’arbitraria riscrittura della Storiarappresenta uno dei sistemi più efficaci con il quale il par-tito unico esercita il proprio potere. I cittadini di Oceaniasono persuasi che fatti storici, sistemi di linguaggio, interiblocchi culturali siano arrivati a loro modellati dal norma-le lavoro del tempo – la circostanza che si tratti di manu-fatti creati artificiosamente nel laboratorio di Big Brothernon li sfiora.

Orwell aveva in mente i totalitarismi del XX secolo equindi puntava l’indice contro un’oligarchia i cui membriesercitavano consapevolmente il proprio potere per mezzodi altrettanto consapevoli sistemi di controllo, manipola-zione e repressione sociale. Il mondo delle multinazionali– di cui Babbo Natale è una delle espres sioni più mature –

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è lontanissimo da obsolescenti pratiche concentrazionarie:l’idea del gulag o della vaporizzazione non gli appartiene.E tuttavia, in relazione alla capacità di colonizzare il nostroimmaginario, alcuni risultati conservano una qualche pa-rentela con quelli elaborati da George Orwell.

La “riscrittura” e il “lancio” planetario di Santa Clauscome testimonial della Coca-Cola è stato un crimine per-fetto quanto a falsificazione della realtà storica – siamo per-suasi che la sua benevolenza, la sua saggezza, il suo looktraggano forza e ragioni da un’origine che non ha niente ache fare con l’ideologia che domina la società dei consumiladdove invece è proprio quest’ultima ad averlo costruitocosì come noi lo conosciamo. Nell’eccesso dell’abbaglio ar-

riveremmo perfino a interpretare Santa Claus come un sal-vifico concentrato di altruismo e buoni sentimenti prove-

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niente da un’età dorata e adesso – per amore di tutti noi, omeglio, in ragione di quel po’ di amore per l’umanità chepresumiamo intatto in ognuno di noi – disposto a muover-si, ad agire, persino a “resistere” in un mondo dominatodall’individualismo e dalla ricerca dell’utile a tutti i costi. Ilsistema del dono, in fondo, non dovrebbe rappresentareconcettualmente la più potente antitesi dei meccanismi cheregolano il mondo in cui viviamo? Ogni elemento di SantaClaus è invece perfettamente funzionale alle narrazioni, diconseguenza alle regole, prodotte dal sistema dei consumi.

A differenza del più classico dei gialli, la perfezione diquesto “crimine” non sta però nella mancanza di prove.Chiunque, armato di pazienza e della più elementare dellebibliografie, potrebbe verificare come Babbo Natale siaun’invenzione della modernità; come le sue precedenti in-carnazioni (da san Nicola a Weihnachtsmann, a Sinterk-laes) abbiano ormai pochissimo in comune con il dominusdelle nostre festività natalizie; come infine questo GrandeVecchio del capitalismo avanzato, prima di trovare una cre-scita esponenziale nel circuito della comunicazione pubbli-citaria, abbia avuto la propria culla nella New York delXVIII e XIX secolo. Queste prove schiaccianti, tuttavia, nonrischiano di compromettere la percezione di Santa Clauscome prezioso residuato premoderno.

Il “partito interno” di 1984 aveva la preoccupazione disottrarre alla disponibilità dei “prolet” le prove capaci diinvalidare ogni atto di falsificazione storica. Il revisionismodi alcune narrazioni postmoderne non si pone nemmeno ilproblema. E questo non tanto perché la tempesta di infor-mazioni che ci invade quotidianamente renda più arduoraggiungere e isolare le fonti in grado di smontare intere co-struzioni del nostro immaginario. Il problema è che, purcontinuando a professare la nostra fiducia nella sistematiz-

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zazione razionale della cultura, il nostro amore per la verità,andiamo sviluppando un sistema percettivo disposto ad ab-bandonare ogni difesa di fronte a nuove forme narrativeunicamente in ragione della loro potenza, della loro perva-sività, del loro potere di fascinazione. Ecco quindi che il fal-so storico, la “narrazione di Babbo Natale” per esempio,così come viene condotta dal sistema delle multinazionali,dalla pubblicità, dalla morbida macchina dell’intratteni-mento audiovisivo, non si limita ad appannare la contro-

prova della sua nascita moderna ma la invalida. Nel mo-mento in cui scriviamo «Babbo Natale, come lo conoscia-mo noi, è un’invenzione della Coca-Cola» rischiamo di pro-vare sempre un certo imbarazzo, potrebbe quasi sembrarcidi tradire l’evidenza (falsa) della sua origine premodernaproprio perché il “falso storico” – un “pacco” sganciatodalla diretta intenzione di un falsario identificabile, un’im-pressione che scaturisce dal semplice incontro tra la supere-stetica della comunicazione contemporanea e i nostri corpi– è stato costruito con strumenti che hanno segnato nontanto la nostra crescita culturale più banalmente intesa (la

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maturazione o il tradimento delle nostre convinzioni, l’ac-cumulo dei libri letti…) ma la formazione e la crescita deinostri sistemi percettivi, molto più delle sortite in bibliote-ca o delle ricerche bibliografiche. Come è possibile, po-tremmo chiederci, che istintivamente rischiamo di dare piùfiducia a uno spot pubblicitario che a una fonte storica?Che ci ritroviamo con la spiazzante, singolarissima facoltàdi sapere e, contemporaneamente, non sapere? A quale tipodi regressione – o mutazione – siamo esposti?

Analizzare Babbo Natale e la vicenda del suo matrimo-nio con la Coca-Cola, più che porsi il poco entusiasmanteobiettivo di “dire finalmente la verità sul vecchio pancio-ne”, può allora essere un tentativo di sondare almeno inparte le dinamiche che regolano l’adesione al mondo in cuiviviamo. Ripercorrere in parallelo la storia della Coca-Cola(da impresa pionieristica nata negli Stati Uniti del XIX se-colo a multinazionale) e quella di Santa Claus (dalle sueorigini cristiane nelle vesti di san Nicola al suo incontro de-cisivo con la società dei consumi, passando per tutta unaserie di incarnazioni intermedie) schiude la possibilità dicogliere, nel complesso gioco di rapporti tra i sistemi pro-duttivi contemporanei e le loro rappresentazioni mitologi-che, gli elementi che sembrano allontanarci definitivamen-te da concezioni del mondo che fino a ieri sembravanoscontate o indiscutibili e quelli invece che, sia pur trasfigu-randolo, mantengono un legame molto forte con le radicidella nostra civiltà. Non si tratta soltanto di ricostruire sto-ricamente un mito ma anche di mostrare come Babbo Na-tale, ben lontano dall’essere un semplice strumento educa-tivo maneggiato con totale consapevolezza dagli adulti abeneficio dei più piccoli, serva soprattutto ai primi comeamuleto, maschera, contravveleno, quale sorridente e colo-ratissimo depistatore della paura di morire.

1. SANTA CLAUS: L’IMPOSSIBILITA DI DIVENTARE ADULTI 15

2. Coca-Cola, anno XLV (1931)

Millenovecentotrentuno. Mentre a New York la costru-zione dell’Empire State Building veniva completata col sot-tofondo degli scontri tra polizia e disoccupati, sui sottobic-chieri delle birrerie tedesche era possibile leggere: «Chi ac-quista da un ebreo è un traditore del popolo». Le bancheamericane, tra un fallimento e l’altro, iniziavano a esigere larestituzione dei prestiti esteri, gettando benzina sul fuocodella crisi (14 milioni di disoccupati negli Stati Uniti, 6 inGermania, 3 in Gran Bretagna) e preparando in questomodo il terreno alla più grande mattanza della cronologiauniversale. Nella cronologia parallela della Georgia, tutta-via, precisamente ad Atlanta, il sole del successo gettava lapiù meravigliosa delle luci sugli uomini della Coca-Cola.

A quarantacinque anni dalla nascita, quella che sarebbediventata la multinazionale più nota del pianeta era riusci-ta a superare gli innumerevoli problemi societari capaci diprovocare un’implosione (sanguinose lotte di successionedegne di una tragedia shakespeariana, durissime vertenzecon gli imbottigliatori…) ma anche ad arginare le minacceprovenienti dall’esterno: i continui tentativi di imitazione,per esempio, i disagi legati al razionamento dello zuccherodopo lo scoppio della prima guerra mondiale, le clamoro-se vicende giudiziarie ma soprattutto il terribile fortunalescatenatosi all’indomani del crollo di Wall Street. Allo stes-

so modo, la fine del proibizionismo che da lì a poco avreb-be riportato vino, birra e superalcolici nelle case e nei lo-cali degli Stati Uniti, e che secondo l’improvvido teoremadi alcuni commentatori economici avrebbe dovuto segna-re il tramonto dei soft drink, passò sulla Coca-Cola comeun innocuo venticello. La grande solidità che l’azienda po-teva ormai vantare sotto ogni profilo (dall’assetto finanzia-rio a quello produttivo, dalla rete distributiva alla motiva-zione dei suoi uomini), unita a una strategia comunicativadi portata rivoluzionaria, fece in modo che tra le due guer-re la Coca-Cola iniziasse a svolgere anche una funzione mi-topoietica – un processo di colonizzazione culturale cheraggiunse il suo primo vero momento magico proprio nel1931, quando, come vedremo, rovesciando gli inconvenien-ti che un procedimento giudiziario concluso già da ven t’an -ni esercitava ancora sull’azienda, la Coca-Cola ridisegnò aproprio uso la figura di Babbo Natale candidandolo consuccesso clamoroso come proprio testimonial.

La Grande Depressione aveva distrutto industrie la cuisolidità sembrava fuori discussione, gettato nella dispera-zione milioni di agricoltori, lasciato senza liquidità gli isti-tuti di credito ma – per amore di ucronia – aveva ritratto ilproprio artiglio da una bibita composta per il 99 per centodi acqua e zucchero, un prodotto il cui valore d’uso erapraticamente prossimo allo zero. Non era in fondo una co-sa che gli apparteneva: la Depressione listava a lutto la ca-sellina del 1929 dopo Cristo ma per la Coca-Cola il ’29 erasoltanto il quarantatreesimo anno della sua storia.

Sei anni dopo, nel 1935, le azioni della Coca-Cola ave-vano raggiunto il valore più alto tra tutte quelle delle azien-de statunitensi. Una navigazione tanto tranquilla tra le ac-que della crisi lasciò increduli molti osservatori economicima pure sorprese i dipendenti della company. Si potrebbe

2. COCA-COLA, ANNO XLV (1931) 17

dire che la somma delle intelligenze di tutti gli uomini del-la Coca-Cola non conteneva l’intelligenza con cui il pro-dotto stesso aveva imparato a muoversi sul mercato se èvero che persino Robert Woodruff, il suo presidente, erastato scavalcato dalla capacità della bibita di uscire dal ter-remoto della crisi più forte e in salute che mai.

Figlio di un noto banchiere di Atlanta, adolescente pro-blematico e poi direttore generale di un’azienda di auto-carri, Woodruff aveva preso il timone della Coca-Cola ap-pena trentatreenne, nel 1923. Durante i primi anni dellasua presidenza le cose erano andate decisamente bene: levendite erano passate da 17 a 23 milioni di galloni l’anno e,nel 1926, l’azienda si poteva dire completamente libera daidebiti. L’anno dopo tuttavia, presentendo il crollo dell’in-tero mercato borsistico, Woodruff decise di scommetterecontro la propria azienda vendendo segretamente le sue

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6.600 azioni. Gli andò male: il 29 ottobre 1929, il giornodel crollo di Wall Street, le azioni della Coca-Cola subiro-no una leggera flessione (da 137 a 128 dollari) ma alla finedell’anno erano già risalite a 134 dollari candidandosi atoccare, nel 1935, quota 200. Risultato: Robert Woodruffaveva perso più di 400.000 dollari.

Dire che la Coca-Cola era più “intelligente” del suo pre-sidente significa fare un torto all’abilità, alla pervicacia, alcarisma dell’uomo che tra mille battaglie (la maggior partedelle quali vinte) guidò la compagnia per oltre mezzo se-colo. Woodruff ci aveva visto più che bene per quanto ri-guardava l’andamento generale del mercato e la sua immi-nente, drammatica contrazione. Solo che i suoi ragiona-menti – e non poteva che essere così – seguivano un bina-rio differente rispetto a quello su cui la Coca-Cola stavaimmettendosi già da qualche tempo.

Woodruff aveva ancora in mente un’azienda la cui forzacomunicativa discendeva dalla materialità del prodotto,dalla razionalità dei processi di lavorazione, dalla distribu-zione, dai contratti stipulati con gli imbottigliatori e cosìvia – tutte cose che, come accennato, si erano ovviamentedimostrate fondamentali nel consentire la sopravvivenzadel marchio per oltre quarant’anni. La Coca-Cola però (lasua intelligenza collettiva, si potrebbe dire) aveva già supe-rato la boa della modernità industriale, producendo intor-no a sé una “narrazione” di tale forza, una mitologia cosìsalda e coerente da costituire un elemento inestirpabile nelpaesaggio interiore degli americani. Per arrestare la suaascesa, in definitiva, sarebbe stata necessaria l’esplosionedell’intero sistema, non una grave crisi economica.

Uno degli aspetti che, per un’azienda di prodotti desti-nati al largo consumo, testimonia un decisivo salto di qua-lità, un contrassegno di forza, una vera e propria garanzia

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per la sopravvivenza a medio termine e il progressivo allar-gamento dei propri confini, è la creazione del fantasma.L’azienda materiale a un certo punto riesce nell’impresa diprodurre una sua versione ectoplasmatica che il prodottovero e proprio (la lattina di una bibita, una borsa di cuoio,un paio di scarpe da ginnastica…), al di là dell’inestirpabi-le natura di feticcio, sarà capace di evocare alla stregua diun medium. In parallelo con il soddisfacimento del biso-gno a cui il prodotto è banalmente destinato – dissetare,nel caso della Coca-Cola –, oltre il “carattere mistico” dimarxiana memoria che la merce possiede in quanto porta-trice anche di un valore di scambio, si dispiega davanti alconsumatore un mondo: non la staticità dell’immagine cheil prodotto potrebbe costruire intorno a sé ma un intero si-stema in movimento, una narrazione appunto. Produrreuna bevanda dal gusto particolarmente gradevole va bene,ma riuscire a fare in modo che riesca a diventare il termi-nale di un “racconto”, scorrendo giù per un esofago invisi-bile messo in contatto con il sistema limbico dei consuma-tori, era uno dei traguardi più importanti che un’aziendacome la Coca-Cola poteva augurarsi di tagliare.

La narrazione in questione si può definire fantasma an-che in ragione del fatto che i suoi elementi drammaturgicisono sempre vaghi, indistinti, trasparenti; anzi, quanto piùrisultano impalpabili tanto più il racconto può farsi sugge-stivo e potente. Gli uomini di Woodruff erano riusciti a fa-re in modo che il loro prodotto – un prodotto talmentesemplice e sfuggente da poter evocare praticamente qua-lunque cosa – sprigionasse un’aura più o meno nel perio-do in cui Walter Benjamin la dichiarava estinta rispetto al-le opere d’arte. La riproducibilità tecnica, la serializzazio-ne che a partire dal XVII secolo si mette a disposizione de-gli oggetti ma anche di nuove forme narrative (il caso delcinema), e che secondo il filosofo tedesco metterebbe in

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scacco il tradizionale significato magico-rituale delle opered’arte, la loro irripetibilità, il loro hic et nunc sostituito daun valore meramente espositivo, dalla accessibilità totale,diventa proprio il veicolo attraverso il quale le merci – inragione del loro essere potenzialmente a disposizione dichiunque, in forma sempre identica – si candidano a spa-lancare dei veri e propri varchi dimensionali.

Una volta riuscita a creare il proprio doppio ultraterre-no, l’azienda materiale – i suoi dirigenti, i suoi manager, icopywriter, gli stabilimenti, le forniture, persino i rivendi-tori – sarà condannata a inseguire la narrazione fantasma,ad alimentare non tanto la semplice retorica di una tradi-zione ma l’alchimia insondabile del proprio mito. Cosa chegli uomini della Coca-Cola, con quella consapevolezza di-mezzata che si chiama “fiuto per gli affari” (e la Coca-Colain sé, con quella piena e gelida consapevolezza che è l’in-telligenza del prodotto), avevano imparato a fare mettendo,già negli anni Trenta, la propria azienda con un passo nelXXI secolo. Di qui lo smarrimento degli osservatori econo-mici e dello stesso Woodruff, troppo impegnati a decritta-re l’alfabeto del Secolo Breve per tentare con successo unsalto nel futuro. Il quarantacinquesimo anno della Coca-Cola, insomma, per certi versi superava gli argini del 1931.

Se Robert Woodruff era il Capo, un personaggio dal ca-risma e dal magnetismo irresistibili, capace di suscitare neipropri dipendenti una fedeltà che spesso sfociò nel fanati-smo più sfrenato, ma geneticamente ostile all’arte e alla let-teratura (i suoi detrattori sostenevano che non fosse mai riu -sci to a finire un libro in vita sua), l’uomo a cui toccò allinea-re la comunicazione del prodotto alla mitologia che comin-ciava a sprigionare fu Archie Lee, uno scrittore mancato.

Nel 1919, abbandonata definitivamente l’ambizione di“scrivere romanzi indimenticabili”, Lee iniziò a lavorare

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come pubblicitario per la Coca-Cola. Fino a pochi anniprima i messaggi pubblicitari della bibita erano stati carat-terizzati da una notevole verbosità – che Lee affossò defi-nitivamente – ma soprattutto evidenziavano le qualità in-trinseche del prodotto (il fatto che fosse un tonico e un ec-citante, la sua capacità di mantenere svegli, di beneficiare ilsistema nervoso, di favorire la concentrazione) più che lasua astratta forza di fascinazione. Una pubblicità del 1905mostrava per esempio un giovane borghese seduto in pol-trona dentro una stanza avvolta nella penombra; il testo re-citava: «Per gli studenti e per tutti i lavoratori intellettuali.Prendere un bicchiere di Coca-Cola alle otto per mantene-re il cervello libero e la mente attiva fino alle undici». O an-cora, Ty Cobb, un noto giocatore di baseball, diceva in unapubblicità del 1907: «Nei giorni in cui ci tocca giocare una

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doppia partita bevo sempre una Coca-Cola nell’intervallo,mi rinfresca a tal punto che posso iniziare la seconda parti-ta come se fino a quel momento mi fossi riposato».

Archie Lee comprese che, quanto più il testo fosse di-ventato elementare e vago, tanto più si sarebbe avvicinatoa una formula capace di proiettare i suoi destinatari versoun mondo “altro”. Così, mentre William Faulkner portavala forma letteraria americana verso apici di complessità espessore mai raggiunti prima, il naïf ermetico di ArchieLee faceva recitare ai propri spot: «Bevete Coca-Cola, de-liziosa e rinfrescante!», «La sete non conosce stagioni»,«Sì», «La pausa che rinfresca», mettendo la comunicazio-ne del prodotto su quella scala evolutiva e regressiva altempo stesso che avrebbe trovato nel 1982 un momento divera perfezione: «Coca-Cola è!».

La rivoluzione portata da Archie Lee, oltre gli slogan,riguarderà naturalmente anche l’uso delle immagini. Ven-nero definitivamente accantonati i manifesti pubblicitaritroppo aggressivi, gli scenari troppo raffinati, le donnecon il seno scoperto di scuola vagamente preraffaellita

che ancora nel 1907 stringevano languide una bottiglia diCoca-Cola. Al loro posto comparvero visi puliti e rilassa-ti, scene bucoliche, ragazze della porta accanto. Quelloche veniva suggerito, quello che la Coca-Cola in definiti-

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va prometteva, non era l’accesso a un mondo alieno, esclu-sivo, lontano, ma una copia quasi indistinguibile del mon-do reale (la giornata ordinaria di tutti noi) in cui però unmicroscopico quanto sofisticato lavoro di edulcorazionetracciava e poi occultava una profondissima frattura ri-

spetto alla vita vera: la scomparsa dell’ansia, delle preoc-cupazioni, dello stress, la possibilità di un ordinario, eter-no, radioso e immutabile presente. Non un mondo lonta-no, dicevamo, ma l’“esotismo del qui”: un mondo impos-sibile che non fosse percepito come tale.

Per ottenere questo risultato, gli uomini della Coca-Co-la cercarono di rendere sempre più “scientifica” la propriastrategia comunicativa, giungendo a elaborare una sorta dicarta costituzionale in trentacinque punti a cui tutti i pub-blicitari avrebbero dovuto sottomettersi al momento di la-vorare per l’azienda. Tra le altre cose veniva per esempioraccomandato di:

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– fare in modo che il marchio fosse sempre leggibile;– non dire mai in modo esplicito, o lasciar capire, che la

Coca-Cola dovesse essere bevuta da bambini molto pic-coli;

– inserire sempre l’espressione «Deliziosa e rinfrescante»in un marchio circolare;

– fare in modo che, nel momento in cui fosse mostrato unrefrigeratore aperto, il lato destro, che mostra l’apribot-tiglie, venisse tenuto aperto;

– non dividere mai il marchio «Coca-Cola» tra due righe;– inserire sempre la dicitura «marchio registrato» sulla

coda della prima «C», anche qualora fosse per questorisultato illeggibile;

– fare in modo che, nei dipinti a olio o nelle fotografie acolori in cui fosse comparsa una ragazza, venisse prefe-rita una bruna piuttosto che una bionda;

– preferire, nel caso di adolescenti o giovani donne, le bel-lezze semplici alle persone troppo sofisticate;

– non utilizzare mai la Coca-Cola in senso personale, co-me: «la Coca-Cola vi invita a pranzo»;

– non riferirsi mai alla Coca-Cola come a «essa».

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Le pubblicità di Archie Lee comparse negli anni Trentanon mostrano alcuna traccia della difficilissima situazioneeconomica in cui versava il paese. Mentre altri prodotti con-tinuavano a presentarsi ai consumatori mettendo in primopiano la loro capacità di alleviare i problemi della vita quo-tidiana – sottintendendo quindi una situazione tutt’altroche rosea – oppure puntando sul tema della competitività,la Coca-Cola cancellò dai propri messaggi qualunque sfu-matura aggressiva o consolatoria (via i riferimenti ai ritmisempre più frenetici della vita contemporanea; via le mo-delle di alto rango che con la loro inaccessibilità troneggia-vano normalmente dai manifesti: al loro posto arrivaronobellezze acqua e sapone, colori pastello, scenari di pace do-mestica oppure richiami alla quiete contadina del passatoproprio mentre, per contrasto, gli Stati Uniti andavano in-dustrializzandosi sempre più) – si cercò insomma di favori-re l’illusione di un “mondo sospeso” in cui una tiepida mainfinita gioia di vivere occupasse ogni spazio disponibile.

Ciò che comparve nelle pubblicità di Lee fu esattamen-te quello che la gente desiderava vedere: una fuga dal rea-le senza passare per la fantascienza, un ritorno alla “nor-malità” al costo di un solo nichelino. Fu allora che – nel1931 – una macchina mitopoietica decisamente più raffi-nata ed efficace rispetto al cupo, rugginoso sistema propa-gandistico dei totalitarismi europei, attrasse e inglobò nelproprio ventre magico l’embrione di Santa Claus.

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3. Morte e rinascita di un commesso viaggiatore

L’adozione di Babbo Natale da parte della Coca-Colaavviene quando il portadoni si è ormai quasi del tutto sba-razzato delle sue origini cristiane. Approdato sulla westcoast durante il XVII secolo come residuato di una tradi-zione religiosa maturata per oltre mille anni nel VecchioContinente, quello che un tempo era stato san Nicola, ve-scovo di Mira, nei primi decenni del Novecento americanosi presentava già come un potente simbolo del mondo deiconsumi. L’impresa della Coca-Cola di conseguenza nonconsistette – come pretenderebbero i più ciechi detrattoridella multinazionale – nel l’aver determinato un processo discristianizzazione già in atto da molto tempo, ma nell’aver-lo semmai cristallizzato, rendendolo in qualche modo de-finitivo. Il fatto che quest’incontro sia avvenuto in modoquasi accidentale non toglie che ci fossero tutte le premes-se per un matrimonio felice. Babbo Natale e la Coca-Colanel 1931 sem bravano davvero fatti l’uno per l’altra.

Spesso le grandi imprese hanno bisogno di un pretesto,un imprevisto, un incidente di percorso che costringa i lo-ro autori a tirar fuori dalle proprie azioni quello che nean-che lontanamente credevano possibile. La riscrittura diSanta Claus ad opera della Coca-Cola trovò questo prete-sto nel dottor Harvey Washington Wiley, un personaggio il

cui semplice nome, a partire dal 1907, evocherà per gli uo-mini della futura multinazionale scenari da incubo.

Il dottor Wiley lavorava come primo dirigente al Dipar-timento di Chimica degli Stati Uniti. Il suo nome iniziò adiventare noto quando, nel 1902, diede vita alla cosiddet-ta “squadra del veleno”, un gruppo di ragazzi utilizzati co-me cavie umane allo scopo di assumere additivi alimentarisospettati di essere nocivi per la salute. L’anno successivoWiley pose le basi per una crociata il cui obiettivo era l’ap-provazione di un progetto di legge sulla genuinità dei cibie dei prodotti farmaceutici. Tutte le proposte precedentierano state bocciate grazie alle pressioni lobbistiche delleindustrie alimentari e della Proprietary Association of Ame -rica. Wiley provò allora a giocarsi la carta dell’opinione pub-blica: aizzò i giornalisti che la pensavano come lui, scrisse ailegislatori, frequentò i membri di associazioni di provatoradicalismo come il Movimento delle Donne per la Tem-peranza Cristiana. Le polemiche sulle “frodi farmaceuti-che negli Stati Uniti” iniziarono a invadere le colonne digiornali che, fino a qualche anno prima, mai si sarebberosognati di attaccare le aziende farmaceutiche a causa dellegrosse somme di denaro che ricevevano da queste ultimeper l’acquisto di spazi pubblicitari.

La democrazia nel mondo dei mass media è un giocodalle molte facce: contiene in sé gli strumenti del ricattoche ne invaliderebbero i principi ma anche le “vie di fuga”capaci di rilanciarli in modo inaspettato. Nei primi annidel xx secolo, molto semplicemente, successe che produt-tori di macchine da cucire, utensili per il giardinaggio e al-tri beni di largo consumo scoprirono – in ritardo rispettoalle imprese farmaceutiche – i vantaggi della pubblicità: ilpotenziale di ricatto nei confronti di molti giornali si ab-bassò sensibilmente e la crociata del dottor Wiley guada-gnò nuovi, insperati spazi di manovra.

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Tra gli alimenti considerati nocivi, o comunque sospet-tati di frodare i consumatori, c’era la Coca-Cola. Pur noncontenendo tracce di cocaina ormai da molti anni, la possi-bilità che lo stupefacente permanesse in qualche modo nel-la formula della bibita era diventata una sorta di leggendametropolitana. In più la Coca-Cola conteneva caffeina, so-stanza che in effetti il progetto di legge del dottor Wileynon classificava tra quelle “velenose” – e tuttavia, il fatto

che la Coca-Cola fosse spacciata per un prodotto “comple-tamente genuino”, destinato tra gli altri anche ai bambini,la rendeva perlomeno colpevole di pubblicità ingannevoleagli occhi del movimento di opinione capeggiato da Wiley.

Il Pure Food and Drugs Act (‘Legge sulla genuinità deicibi e dei farmaci’) venne approvato nel giugno del 1906.Asa Chandler, allora presidente della Coca-Cola, detestavaferocemente il dottor Wiley: lo riteneva un maniaco, un fa-natico del salutismo, una sorta di anticristo. Sulle prime,ad ogni modo, rifiutò la tattica del muro contro muro e so-

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stenne pubblicamente l’approvazione del Pure Food andDrugs Act. Se la Coca-Cola si fosse mostrata favorevole al-l’entrata in vigore della legge, questo il suo ragionamento,avrebbe dimostrato all’opinione pubblica di non avereniente da nascondere. Così, alla fine dell’anno, una pub-blicità poteva recitare: «La Coca-Cola aiuta la digestione edè genuinamente buona per il palato, dà sapore al lavoro euna gioia più intensa nel tempo libero. Garantita dal PureFood and Drugs Act».

Non servì a niente. Nel 1907 il dottor Wiley tornò allacarica: il bersaglio dei suoi strali si restrinse sempre più al-le “bibite stimolanti” fino al giorno in cui la Coca-Colanon venne trascinata in tribunale.

La guerra tra Coca-Cola e governo degli Stati Uniti, sfo-ciata nel celebre processo del 1911, è interessante, tra le al-tre cose, per ciò che riguarda le parti in causa: Asa Chand-ler contro Harvey Wiley.

In ordine di tempo Chandler si può considerare il se-condo “padrone” della Coca-Cola, dopo il “pioniere” JohnStith Pemberton e prima del “cosmopolita” Robert Wood -ruff. Ottavo di undici fratelli, figlio di un cercatore d’oro,Chandler fu per l’azienda di Atlanta l’uomo della transi-zione: in mano sua la Coca-Cola passò dalla diffusione lo-cale a quella nazionale ma soprattutto cessò di essere per-cepita come una medicina, destinandosi a diventare pertutti una semplice bibita. E tuttavia, quanto più accantona-va l’immagine di “pozione miracolosa” che la preistoriadel suo successo planetario le aveva cucito addosso, tantopiù la Coca-Cola cominciò a caricarsi di una valenza meta-fisica. Chandler in particolare, un metodista piuttosto tor-mentato, saldando come tanti uomini del tempo l’eticaprotestante allo spirito del capitalismo arrivò a considerar-si l’apostolo di qualche cosa che trascendeva la dimensio-

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ne terrena. La Coca-Cola diventò per lui un perfetto cor-relativo oggettivo di Dio e così, mentre convinceva i propriuomini che tutti insieme stavano lavorando per «il piùgrande prodotto e la più grande società mai comparsi sul-la faccia della Terra», il messaggio che passava, e che ven-ne perfettamente condiviso da molti dei suoi collaborato-ri, fu quello di interpretare il cammino della Coca-Cola inchiave escatologica.

Harvey Wiley, il suo avversario, non era da meno. Ben-ché si professasse agnostico e, a differenza di Chandler, at-

tribuisse un valore minimo ai piaceri della vita, si trasfor-mava in un predicatore ogni volta che bisognava difende-re pubblicamente la crociata del “cibo genuino”: i suoiabiti neri, la dimensione apocalittica dei suoi sermoni, icontinui riferimenti alla “purezza” e l’abitudine di demo-nizzare gli avversari in nome del bene comune – e quindianche del corretto gioco della macchina democratica – glifecero guadagnare il soprannome di “padre Wiley”.

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Chandler e Wiley erano dunque due invasati? Divisi dal-la minuscola questione di un processo, furono entrambi pos-seduti dal grande alibi che il capitalismo nordamericanoscelse tra XIX e XX secolo per darsi quella spinta in avanti chealtrimenti non sarebbe stata così potente: la circostanza chela volontà di profitto fosse direttamente collegata al bene co-mune e, quindi, alla salvezza dell’anima. Ogni sistema socia-le, per quante regole di buon funzionamento possa darsi,non potrà mai sopravvivere senza che il tasso emotivo deipropri membri raggiunga un certo grado di intensità. È sin-golare come spesso questo “grado di intensità” venga otte-nuto per mezzo di un mascheramento (il bene comune comeprimo motore del capitalismo, secondo Chan dler e Wiley),tanto da far sorgere il sospetto che il mondo sia mosso nontanto dall’amore per la maschera (la salvezza dell’anima, adesempio) ma dalla frattura tra dichiarazioni d’intenti (sem-pre la salvezza dell’anima) e realtà sottostante (la volontà diprofitto). Fare una cosa convincendosi di starne facendoun’altra – e percependo tuttavia, in qualche zona oscura del-la propria persona, il gelido dolore di questo smottamento –è uno dei segreti del successo. Allo stesso modo, oggi, unadelle spinte emotive che ci fa correre verso la globalizzazio-ne è probabilmente la frattura esistente tra il fine che cre-diamo di perseguire (non più il bene comune questa voltama la volontà di profitto, quindi la realizzazione individua-le) e quello sottostante (l’incremento di potenza del sistematout court, eventualmente a scapito degli individui). Suquesto ci si soffermerà più tardi. Per adesso torniamo alloscontro tra Chandler e Wiley, torniamo al processo, tornia-mo all’incidente di percorso che porterà a Babbo Natale.

«Gli Stati Uniti d’America contro 40 barili di Coca-Co-la». Per quanto ridicolo, questo fu il nome con cui vennechiamato ufficialmente il procedimento giudiziario che per

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l’azienda di Atlanta rappresentò una delle prove più diffi-cili attraverso cui passare nei primi decenni del xx secolo.La denominazione si deve al sequestro di alcuni barili diCoca-Cola che nel 1907 Wiley riuscì a far disporre supe-rando un veto governativo – in particolare quello del mini-stero dell’Agricoltura – che negli anni precedenti avevasempre frustrato simili iniziative.

Il sequestro mandò Asa Chandler su tutte le furie e ar-rivò al culmine di una campagna denigratoria per la qualeWiley era riuscito a sobillare il meglio del fervore paranoi-de nazionale: il giornalista Samuel Hopkins Adams, peresempio («ritengo che la Coca-Cola provochi assuefazione.Ho sentito parlare di casi in cui il soggetto non può fare ameno di prendere i suoi 15-20 bicchieri giornalieri di sti-molante»), la famigerata Martha M. Allen, capo del Movi-mento delle Donne per la Temperanza Cristiana («So percerto di un giovanotto che è diventato una vera e proprianullità, a scuola e in ogni altro campo, a causa della sua abi-tudine alla Coca-Cola»), il metodista evangelico GeorgeStuart («si è saputo che l’eccessivo uso di Coca-Cola haportato in una scuola femminile a deprecabili festini not-turni con successivo abbandono all’amoralità. In più la Co-ca-Cola tiene svegli i ragazzi esponendoli inevitabilmentealle tentazioni della masturbazione»), a cui si accompagna-va una nutrita schiera di opinionisti infervorati, cronistidalla penna facile o semplici approfittatori pronti a giurareche la Coca-Cola conteneva cocaina (non ce n’era più trac-cia a partire dal 1903), oppure pericolose quantità di alcol,di caffeina, di oppio, di imprecisate e terribili sostanze ve-lenose. Si sparse persino la voce che nei barili dello scirop-po necessario alla preparazione della bibita fossero statitrovati insetti, paglia, topi morti, rifiuti organici.

Alla pari dei divi del rock, prima di trovare posto nel-l’Olimpo dell’immaginazione popolare la Coca-Cola do-

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vette passare per l’anticamera della demonizzazione piùsfrenata. A differenza di Elvis e di Jim Morrison, la Coca-Cola riuscì però a sfuggire alla regola del rise and fall per ilsemplice fatto di non essere soggetta al limite dei normaliprocessi biologici (invecchiamento, morte, intossicazioneda eroina – e nemmeno da cocaina, dal momento che il“soft drink”, come abbiamo già detto, a differenza della“pozione miracolosa” di qualche decennio prima, ne eraormai completamente privo).

Il processo contro la Coca-Cola fu celebrato a Chatta-nooga (questo il luogo del sequestro dei “quaranta barili”)e fu un buon prototipo di quegli show sotto le coltri diprocedimento giudiziario che appassioneranno gli Statesnegli anni a venire – da O.J. Simpson a Michael Jackson.Innanzitutto l’accusa: si contestava alla bibita di essereadulterata con sostanze pericolose (nello specifico la caf-feina, da qui l’onere di provare che la quantità di alcaloidecontenuta nella Coca-Cola fosse dannosa per l’essere uma-no) e di avere una denominazione ingannevole: nella suacomposizione non c’era più traccia di cocaina mentre lapercentuale di noce di cola sfiorava l’infinitesimale. Que-st’ultima imputazione fu un magnifico esercizio di comi-cità involontaria in carta bollata; se la Coca-Cola avessedavvero contenuto cocaina, avrebbe trasformato la suaazienda nel più grande spacciatore di droga del pianeta.

Per gli abitanti di Chattanooga il processo fu uno spassoancor prima di iniziare. Un gruppo di agenti governativiche sembravano partoriti da un B-movie cominciò ad aggi-rarsi nella cittadina mesi prima che le aule del tribunale sispalancassero. Il loro compito era spiare i giurati per since-rarsi della loro imparzialità e per verificare che non corres-sero rischi di corruzione. A questo punto anche la Coca-

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Cola, timorosa che gli agenti governativi potessero esercita-re pressioni sui giurati, mandò a Chattanooga dei men inblack a cui venne affidato il controspionaggio – e qui sfon-diamo le barriere del B-movie per entrare in un’apoteosikitsch che ha pochi corrispettivi nel mondo della fiction.

Non è finita. Harvey Wiley, il grande accusatore, ses-santaseienne e da sempre scapolo, sposò una bibliotecariadi nemmeno trentacinque anni e decise di portarla in lunadi miele al processo della Coca-Cola: a Chattanooga, dovecomunque per ragioni di indotto si respirava un’atmosferageneralmente favorevole alla Coca-Cola, i due furono rice-vuti con tutti gli onori. Asa Chandler invece se ne rimaserabbiosamente a casa, ad Atlanta. Si temeva che il suo tem-peramento irascibile e i suoi discorsi da millenarista potes-sero produrre disastri in aula di tribunale, per cui gli fuconsigliato di dirigere la difesa da lontano. Arrivarono in-vece testimoni, chimici, periti tecnici, residuati del Ku KluxKlan pronti a giurare che dipendenti negri della Coca-Co-la riempivano di sputi le botti di sciroppo durante le ore dilavoro, e poi avvocati, uomini di chiesa, giornalisti da ogniangolo d’America finché non si fu pronti a cominciare.

Il processo fu una sfilata ininterrotta di deposizioni in sta-to di sovreccitazione, la maggior parte delle quali parziali,pronte a dipingere la Coca-Cola come un perfetto distillatodel demonio o al contrario come presenza immacolata in unmondo di avvoltoi e di invidiosi. Harvey Wiley non salì maisul banco dei testimoni mentre Asa Chandler si limitò a in-viare da Atlanta lettere di insulti a gentile disposizione degliaccusatori. I giornali seguirono il dibattimento come se sifosse trattato di una lunghissima finale di superbowl; furonotalmente contagiati dal clima esagitato che si respirava aChattanooga che a un certo punto l’«Atlanta Georgian»poté titolare: “Otto Coca-Cola contengono abbastanza caf-

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feina da uccidere”. Si cercò di dimostrare che la bibita eradannosa almeno per gli animali. Ci fu chi propose di inietta-re Coca-Cola nelle rane. Chimici e farmacologi presentaro-no dettagliatissime quanto pedanti deposizioni tecniche chemandarono in confusione i membri della giuria popolare,definiti da uno degli agenti governativi come «persone di ce-to sociale molto basso», e quindi, «completamente incom-petenti e inadatti a decidere su un caso di questa portata». Sidiscusse, si controdiscusse, si litigò, si pubblicarono fiumi diinchiostro inservibile e alla fine il povero giudice EdwardTerry Sanford chiuse lo show: dopo aver espresso la sua opi-nione ordinò praticamente alla giuria di riunirsi e di tornarein aula con un verdetto favorevole alla Coca-Cola. Così fu.

Asa Chandler aveva vinto. La Coca-Cola non rischiòpiù di essere ritirata dal commercio né fu costretta a rive-dere la sua formula. L’unico cambiamento sensibile porta-to dal processo del 1911 riguarderà la strategia pubblicita-ria dell’azienda. Gli avvocati difensori della Coca-Cola nonavevano contestato in dibattimento gli effetti negativi del-la caffeina sui giovanissimi – avevano però cercato di aggi-rare l’ostacolo dichiarando che i più piccoli non eranoconsumatori abituali della bibita, il che contrastava netta-mente con le pubblicità del periodo che ritraevano bambi-ni intenti a bere Coca-Cola insieme ai genitori. Così, dopoil 1911, una legge non scritta ma destinata a decadere do-po ben settant’anni proibì l’utilizzo di materiale pubblici-tario in cui ci fossero bambini di età inferiore a dodici an-ni nell’atto di bere Coca-Cola.

Se insomma i danni erano stati limitati al massimo, laCoca-Cola rischiava ora di perdere una fetta fondamenta-le di consumatori, soprattutto se si considera il ruolo sem-pre più decisivo che la pubblicità sarà destinata a giocare

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perché la bibita conquisti prima l’intero paese ed esca poianche dai confini nazionali. Per trovare una risposta a que-sta impasse si dovranno aspettare vent’anni, un cambiodella guardia al vertice della Coca-Cola (Robert Woodruffal posto di Asa Chandler), l’arrivo di Archie Lee e la rivo-luzione nella comunicazione aziendale di cui abbiamo par-lato nel capitolo precedente.

Il periodo che va dagli anni Dieci ai Trenta si può in-somma considerare una sorta di incubatrice da cui l’em-brione di una bibita molto promettente uscirà trasformatoin un oggetto di consumo capace di scatenare una forzamitopoietica mai vista prima. Solo quando una simile mac-china da guerra fu capace di funzionare a pieno regime,poté partire la battaglia per la conquista degli “under 12”.

Siamo di nuovo nel 1931: da pochi anni la Coca-Cola è di-sponibile in tutti i grandi magazzini del paese. La bibita, chefino a qualche tempo prima veniva soprattutto servita neibar, poteva adesso essere acquistata in confezioni da sei bot-tiglie da conservarsi eventualmente nei frigoriferi domestici.Si trattò, a suo modo, di un cambiamento epocale. Questo si-

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gnificava infatti che, per i fatturati della company, cominciòad essere decisivo l’esercito di donne che ogni giorno si reca-va a fare la spesa. Di conseguenza, cresceva l’importanza deipersuasori neanche troppo occulti che orientavano le mas-saie in gran parte dei loro acquisti: i loro figli.

È interessante come, da una parte all’altra dell’oceanoe sulla base di esigenze diverse, in Europa e negli StatiUniti il mondo dell’infanzia si trasformi in un target, unobiettivo ben preciso quasi in contemporanea, proprio apartire dai primi decenni del XX secolo. Da semplice cate-goria biologica e sociologica l’infanzia inizia infatti a di-ventare una costruzione simbolica e retorica del tutto ar-tificiale, legata alle politiche di massa che tanto hanno ca-

ratterizzato il Novecento. Nell’Europa dei nascenti Statitotalitari, si tenta con successo un processo di vera e pro-pria “nazionalizzazione” dell’infanzia. Il bambino, proto-tipo del popolo – interpretato a sua volta come un mino-re da educare –, viene messo al centro di un processo diseduzione, di conquista, che dalla culla lo porterà a indos-sare una divisa, a imbracciare le armi, persino eventual-

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mente a morire, saldando perfettamente in questo modoil proprio destino a quello della Nazione – basti pensarealla Gioventù Italiana del Littorio, alla Hitlerjugend, allameno nota “gioventù comunista”, la Kosomsol, fondatanel 1918.

Negli Stati Uniti, la “concettualizzazione” dell’infanziatra le due guerre viene invece portata avanti soprattuttodal sistema delle grandi imprese, e non in vista della pre-parazione alla guerra ma secondo un altro diktat, che dila-gherà a partire dagli anni Cinquanta in tutti i paesi delmondo libero: l’educazione al consumo.

Per ciò che riguarda la Coca-Cola, bisognava fare inmodo che il gioioso e impalpabile messaggio della bibita

arrivasse ai bambini senza travolgere la legge che impedivadi utilizzarli a fini pubblicitari. Il primo attacco fu sferratocon le armi della sponsorizzazione dei programmi scolasti-ci, molto tempo prima che questo strumento promoziona-le venisse stigmatizzato da Naomi Klein nel suo No Logo.Se sui pericoli delle sofisticazioni alimentari la guardia del-l’opinione pubblica era già alta, quasi nessuno all’epoca

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aveva gli strumenti per percepire la portata di questi siste-mi alternativi di penetrazione sociale, e quindi per difen-dersene. In molte scuole pubbliche degli Stati Uniti, glistudenti si ritrovarono così a giocare a basket con i canestridella Coca-Cola, a usare carte assorbenti della Coca-Cola,a consultare termometri della Coca-Cola in caso di febbre,a scrivere i loro appunti su blocchetti offerti dalla Coca-Cola, a visitare gli stabilimenti dell’azienda ricevendo al-l’uscita penne, temperini, album da disegno, giocattoli e al-tri gadget contrassegnati dal celebre marchio.

Il compito di lanciare una campagna pubblicitaria ingrado di rivolgersi ai bambini senza mai metterli al centrodella scena fu invece affidato dall’agenzia di Archie Lee aHaddon Sundblom, un bizzarro disegnatore di originesvedese che amava l’alcol e si faceva perdonare i suoi ritar-di clamorosi grazie alla forza e all’inconfondibilità del se-gno grafico. L’espediente utilizzato fu quello di arruolareun messaggero, un tramite, un intermediario tra infanzia emondo degli adulti che fosse in grado di catalizzare, con lasua semplice presenza, l’immaginazione e i desideri deibambini. La scelta cadde appunto su Santa Claus.

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Il successo della campagna pubblicitaria andò oltre le piùrosee previsioni. Haddon Sundblom continuò a disegnareBabbi Natale per la Coca-Cola fino al 1964. Nessuno, tantomeno il suo autore, poteva immaginare quale impatto avreb-be avuto questa rivisitazione di Santa Claus sui consumato-ri, quindi sui cittadini di tutti gli Stati Uniti che subito gli ri-cavarono un posto tra i simboli dell’identità nazionale.

Sundblom ebbe come primo parametro il Santa Clausdisegnato da Thomas Nast per «Harper’s Weekly» nel 1862:un portadoni con pancione e barba bianca che cominciava

a distanziarsi dalle versioni troppo esotiche con cui era sta-to rappresentato fino a quel momento. Il colpo di genio diSundblom consistette nel portare alle estreme conseguen-ze l’operazione grafica di Nast, facendo convivere l’aura disoprannaturalità che circondava Babbo Natale con l’este-tica dell’uomo comune. Basta elfi, creature dei boschi, per-sonaggi provenienti da immaginari e culture lontane: ilnuovo Babbo Natale avrebbe dovuto essere partorito dalcuore magico dell’America del XX secolo. Sund blom utilizzòinfatti come modello l’uomo della porta accanto, vale a di-re il suo vicino di casa Lou Patience, un com messo viaggia-

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tore che l’American way of life aveva fornito di una corpo-ratura robusta, un volto allegro e rassicurante entro i limi-ti del sospetto, una fiducia nel presente e un’ecolalica vita-lità che debordava da tutti i pori della sua persona. A LouPatience Sundblom allungò la barba e arroventò le guan-ce, aumentò di qualche misura il girovita, sostituì gli abitiborghesi con la celebre casacca rossa e bianca, e così i car-telloni pubblicitari si riempirono di figure al limite dell’i-perrealismo: fragorosamente comuni eppure in qualchemodo provenienti da un altro pianeta.

Quello che Sundblom dovette capire, del tutto istinti-vamente, fu che per fare sognare la gente nel modo più se-reno e rassicurante possibile bisognava pescare in una fon-damentale intersezione tra realtà e mondo immaginario,vale a dire nell’ideale, perennemente in fieri, che una cul-tura ha di se stessa. Di conseguenza, il suo Babbo Natalenon proviene direttamente dalla realtà americana ma an-cora una volta dal suo doppio onirico, il continente paral-lelo in cui quest’ultima si rappresentava per affrontare consuccesso le grandi sfide del tempo. Si può dire, quasi conuna pretesa di letteralità, che il Babbo Natale testimonialdella Coca-Cola è un prodotto del sogno americano ancorprima che Sundblom ne abbozzi i primi tratti. A questopunto, il filo che legava Santa Claus alle sue origini potevaconsiderarsi quasi del tutto reciso.

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4. San Nicola: agiografia di un uomo d’azione

Quando Haddon Sundblom si prepara a ritoccare i con-notati a Santa Claus, non sa probabilmente di lavorare sulfrutto di un sincretismo culturale e religioso che si trascinada un paese all’altro, da un continente all’altro, da pocopiù di milleseicento anni. Quello che Sundblom ha per lemani è un mito reso estremamente malleabile dal logoriodel tempo, una presenza che si manifesta per la prima vol-ta nell’Anatolia occidentale quando l’Impero Romano hagià incubato tutti i presupposti per un crollo fragoroso,una figura destinata a dilatarsi per l’Europa nei secoli suc-cessivi, ad appannarsi dopo le celebri “95 tesi” affisse sul-la porta della cattedrale di Wittenberg da Martin Lutero, acambiare pelle e nome, a traversare l’Atlantico per appro-dare al Nuovo Continente in uno stato nuovamente germi-nale, pronto a venire raccolto da chi – come Thomas Naste poi, appunto, Haddon Sundblom – sarebbe stato in gra-do di infondergli nuova vita rimettendolo in contatto conlo spirito del tempo.

Come documentato anche sul sito Internet della Coca-Cola, sul versante opposto ai pennelli di Sundblom trovia-mo Nicola, uno dei santi più atipici del pantheon cristiano,una figura scaturita dai primi concili ecumenici e destina-ta appunto a sdoppiarsi, ad assumere diverse identità lun-

go la curvatura della Storia per arrivare, radicalmente mu-tata, nel cuore dell’Occidente postmoderno: il regno dellateologia audiovisiva.

Della vita del vescovo Nicola si sa molto, la letteraturache lo riguarda è in effetti molto vasta, ma l’attendibilitàdelle fonti che dovrebbero attestare le sue imprese è tantodiscutibile che qualche studioso ha sollevato dubbi circa lasua effettiva esistenza biologica – nella storia delle religio-ni non è del resto così raro che la leggenda scaturisca dalculto e non viceversa. Il problema nasce dal fatto che leprime Vite di Nicola cominciano a diffondersi intorno al IXsecolo, a distanza di ben cinquecento anni dall’epoca incui il santo sarebbe presumibilmente comparso nell’Euro-pa orientale. Prendendo ad ogni modo come riferimento leVite scritte in greco nei primi decenni del IX secolo da Mi-chele Archimandrita e da Metodio, probabile patriarca diCostantinopoli tra l’843 e l’847, si scopre che Nicola nac-que a Patara, in Licia, intorno al 270 dopo Cristo, che in etàrelativamente giovane si trasferì a Mira dove venne ordi-nato vescovo, che in questa veste partecipò al concilio diNi cea del 325 e che, tornato a Mira, morì intorno al 345.

L’imprecisione della sua data di morte è dovuta al fattoche la si calcola di solito in maniera indiretta, sottraendo ilnumero degli anni durante i quali il suo sepolcro rimase nel-la città di Mira – numero su cui pure c’è qualche incertezza –dal 1087, l’anno in cui le reliquie del santo vennero trafugatee poi traslate a Bari. Ma anche la nascita di Nicola ha messoa dura prova gli studiosi ed è molto probabile che il 6 dicem-bre, giorno originario della sua festa (a Bari i festeggiamentipartono invece il 7 maggio e si protraggono per i due giornisuccessivi, trovando appunto una nuova centralità nel 9 mag-gio del 1087, data in cui le ossa di Nicola giunsero nel capo-luogo pugliese), sia sostenuto più da questioni di opportunitàculturale che dall’effettiva venuta al mondo del santo.

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Il 6 dicembre segnava nell’antichità l’inizio simbolicodell’inverno. La navigazione veniva sospesa per venti-quattr’ore e i marinai chiedevano la benedizione delle di-vinità dei mari: era insomma il giorno di Poseidone nel ca-lendario pagano. Se si pensa che Mira era la sede di unporto molto importante e che nei primi secoli della suaespansione il cristianesimo inglobò riti e narrazioni dell’u-niverso pagano facendo in modo che il passaggio di con-segne avvenisse nel modo meno traumatico possibile, sicapisce come la data del 6 dicembre servisse più che altroa restaurare un patronato che fino a poco prima era toc-cato al Dio dei mari.

Pensare tuttavia che Nicola sia la versione cristiana diPoseidone o che la sua protezione fosse invocata esclusiva-mente dai marinai vorrebbe dire mettere in luce solo unafaccia di un prisma molto più complesso. Come si diceva,siamo di fronte a un santo molto particolare, le cui caratte-ristiche si possono iniziare a ricavare esaminando le sueimprese più importanti.

4. SAN NICOLA: AGIOGRAFIA DI UN UOMO D’AZIONE 45

Nicola viene di solito raffigurato in abiti vescovili, ba-stone pastorale lungo il braccio sinistro e in mano (semprela sinistra) le famose “palle d’oro”. Le “palle” rappresen-terebbero in realtà i tre sacchetti di monete che rimandanoa una delle prime gesta celebri del santo, l’episodio delleTre fanciulle in cui Nicola è al centro di una dinamica elar-gitiva piuttosto singolare.

L’episodio si svolge presumibilmente a Patara, di conse-guenza riguarda un Nicola di età relativamente giovane (al-cuni narratori lo attribuiscono addirittura alla sua “fanciul-lezza”) e comunque certamente non ancora vescovo. Purecon qualche piccola variante a seconda delle fonti interpel-late, l’episodio racconta di un uomo (di cui non viene maifatto il nome) che, travolto da un rovescio di fortuna, deci-se di far prostituire le sue tre figlie per fronteggiare le diffi-coltà economiche di tutta la famiglia. Gli era impossibiledel resto maritarle: la sua estrema povertà faceva sì che que-ste non potessero ricevere una dote sufficiente. Prima che ilpiano scellerato venisse messo in atto, Nicola, venuto a co-noscenza in qualche modo di ciò che stava per succedere(anche qui, le fonti non chiariscono del tutto come faccia ilfuturo santo a conoscere le intenzioni del padre di famiglia:semplice raccolta di una diceria di paese o ispirazione divi-na?), decise di intervenire: riempì un sacchetto di moneted’oro, si recò di notte alla casa dell’uomo, gettò il sacchettodalla finestra e subito si affrettò a far ritorno a casa preoc-cupato di essere visto, in linea col precetto evangelico in ba-se al quale le azioni generose devono restare anonime.

Al risveglio il pover’uomo, fuori di sé dalla gioia, bene-disse Dio e l’ignoto benefattore e “girò” alla figlia più gran-de il dono misterioso perché almeno lei potesse sposarsi. Inseguito, tuttavia, giunse a Nicola la notizia che l’uomo erasul punto di far prostituire la seconda figlia e così, semprenascosto dalla notte, gli fece dono di un altro sacchetto di

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monete. In alcune versioni dell’episodio si vuole che Nico-la questa volta avesse lanciato l’oro dall’imboccatura del ca-mino, temendo che il padre di famiglia potesse attenderlodavanti alla finestra. Quando tuttavia la dinamica si ripetéper la terza volta – e a vantaggio naturalmente della terza fi-glia –, il padre della ragazza, la cui curiosità circa il volto delsuo salvatore ormai quasi superava la gioia per lo scampatopericolo, al costo di molte notti di veglia riuscì a sorpren-dere Nicola nell’atto di depositargli in casa l’ennesimo sac-

chetto di monete. Vistosi scoperto, il futuro santo gli fecepromettere di non raccontare mai a nessuno ciò che era ac-caduto. Promessa che con ogni probabilità non venne man-tenuta, se questa storia è arrivata fino a noi.

L’episodio delle Tre fanciulle è un buon punto di par-tenza per comprendere la natura di san Nicola. Il fatto che

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inizi la sua “carriera” a Patara come portadoni la dice lun-ga sul suo futuro di portadoni universale – il “lancio” del-le monete d’oro dal camino può essere interpretato tra l’al-tro come l’immagine embrionale di Babbo Natale impe-gnato a calarsi giù dalla canna fumaria (anche se in questocaso non si cerca di preservare l’identità dell’elargitore mail suo incontro diretto con i suoi beneficiati, i bambini).

In secondo luogo è importante vedere Nicola come pro-tettore delle vergini (anche Dante ricorda questo aspettoparticolare dell’attività di san Nicola quando scrive, nel XX

canto del Purgatorio, ai versi 31-33: «Esso parlava ancordella larghezza / che fece Niccolò alle pulcelle, / per con-durre ad onor lor giovinezza»). Questo testimonierebbe ilsuo carattere di iniziatore, il fatto insomma che si adoperiper favorire il realizzarsi di un passaggio di status: da ver-gine a donna sposata e futura madre. Si aggiunga che talepassaggio avviene non in base a un miracolo “classico” –niente eventi soprannaturali, dunque – ma attraverso lasemplice elargizione di beni materiali. Se ne ricava un per-sonaggio molto distante dalla tradizione dei santi contem-plativi. La sua antitesi potrebbe essere incarnata dalla po-tenza visionaria di Teresa d’Avila, o da Giovanni della Cro-ce, il grande santo spagnolo – insieme a Teresa, il più im-portante riformatore dell’ordine carmelitano – che consa-crò gran parte della vita al silenzio e alla contemplazionepassando per terribili sofferenze ed esaltanti esperienzemistiche. Nicola al contrario – se si eccettua una leggendain base alla quale, da neonato, si sarebbe rifiutato di bere illatte materno durante i giorni consacrati al digiuno – fu so-prattutto un “santo d’azione”. I suoi interventi, sempreimprontati ai principi di compassione e generosità, hannocome esito finale il ripristino dell’ordine sociale laddovequesto rischia di venire sovvertito.

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Ancor più che nelle Tre fanciulle, la funzione di Nicolacome equilibratore sociale e riparatore di torti si ravvisanel cosiddetto episodio dello Stratilates.

Siamo ai tempi dell’imperatore Costantino, probabil-mente dopo il concilio di Nicea. Nicola è vescovo di Miraquando, sempre nella penisola anatolica, precisamente inFrigia, scoppia una rivolta per sedare la quale l’imperatoreinvia nella regione un piccolo esercito. I soldati abbandona-no Costantinopoli per dirigersi via nave verso la prefetturadella Licia. A causa di un’improvvisa bonaccia sono peròcostretti a sbarcare ad Andriake, porto della città di Mira.Tre di loro, col pretesto di occuparsi dell’approvvigiona-mento di viveri, si allontanano dal resto dell’equipaggio perandare a divertirsi. Scambiati per predoni, vengono arresta-ti ingiustamente per saccheggio e condannati a morte.

A questo punto interviene Nicola con una dinamica cheun po’ di blasfemia potrebbe farci ricordare quella dei su-pereroi Marvel o perlomeno gli action movies. Il vescovo simanifesta tempestivamente sul luogo dell’esecuzione, coni soldati inginocchiati, le mani legate dietro la schiena, ivolti coperti da panni di lino. Il boia è pronto a colpire. Ni-cola strappa allora la spada dalle mani del boia, la getta interra, scioglie gli uomini dalle catene e li conduce dal go-vernatore Eustazio, l’uomo che ne aveva ordinato l’esecu-zione. Non appena lo vede, il governatore gli corre incon-tro agitatissimo ma Nicola lo arresta con queste parole:«Sacrilego spargitore di sangue, come osi venirmi incon-tro! Non ti risparmierò né ti perdonerò, ma informeròl’imperatore Costantino delle gravissime colpe di cui ti seimacchiato e del modo con cui amministri la prefettura cheti è stata affidata». Il governatore Eustazio, in preda allacontrizione, crolla in ginocchio e prova a discolparsi: «Nonadirarti con me, non sono io il colpevole bensì Eudossio eSimonide, due uomini ricchi e potenti…». E il vescovo:

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«Non di Eudossio, non di Simonide è la colpa, ma dell’oroe dell’argento». Nicola aveva infatti saputo che il governa-tore riceveva due libbre d’argento ogni volta che un citta-dino riconosciuto reo di qualche colpa veniva giustiziato.

Nella seconda parte di questa storia – da alcuni studio-si considerata un’aggiunta – si narra come il comandantesupremo dell’esercito, invidioso per l’improvvisa popola-

rità dei tre soldati salvati da Nicola, avesse tentato di farligiustiziare montando false accuse a loro carico e denun-ciandoli direttamente a Costantino.

I tre vengono messi agli arresti ancora una volta, in que-sto caso con tutta probabilità a Costantinopoli. Uno di loro,Nepoziano, invoca Nicola poco prima di venire giustiziato.Il vescovo di Mira allora, con una puntualità che ormai co-mincia a diventare un segno di riconoscimento, appare lanotte prima dell’esecuzione a Costantino in persona. Gliparla in questo modo: «Imperatore, alzati e libera i tre uo-mini che ingiustamente hai fatto imprigionare. Se non mi

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obbedisci, scatenerò una rivolta terribile ai tuoi danni e te-stimonierò contro di te davanti a Cristo, signore del cielo».Nella stessa notte Nicola appare anche al prefetto Ablabio,

ordinandogli di liberare i tre soldati e promettendogli, in ca-so contrario, un’atroce punizione divina. In questo modoCostantino – che proprio una visione aveva convertito al cri-stianesimo, il celebre «in hoc signo vinces» apparsogli in so-gno prima della battaglia di Ponte Milvio –, confrontatal’apparizione di Nicola con l’analoga storia riferitagli dalprefetto, decide di far liberare i tre soldati: «Non sono io chevi concedo la vita, ma colui che avete invocato, san Nicola, eal quale siete tanto devoti. Rendete grazie a lui». L’episodiosi conclude con i tre soldati che, tornati a Mira, distribui-scono doni ai poveri: abiti, argento, addirittura oro.

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Per quanto se ne sa, Nicola è il primo santo del cristiane-simo a sperimentare i poteri dell’ubiquità, testimoniati pro-prio dall’episodio dello Stratilates. Secoli dopo, la facoltà diessere in più luoghi nello stesso momento si troverà elevataall’ennesima potenza nella moderna incarnazione di SantaClaus che, durante la notte di Natale, riesce a occuparsi ditutti i bimbi del pianeta al pari di un vero e proprio dio, op-pure, si potrebbe provare ad azzardare, al pari di una merceche realizzi in pieno uno dei propri sogni meno confessabi-li: essere a disposizione di chiunque, nello stesso momento.Se tuttavia certi poteri di Nicola si troveranno accresciutinel corso della sua secolare evoluzione, alcune punte del suotemperamento risulteranno invece “smussate” man manoche ci si avvicina alle epoche moderne. In particolare, è l’ap-parato sanzionatorio a risultarne ridimensionato.

San Nicola, come si è visto, pur di ripristinare l’ordineviolato non esita ad annunciare sciagure, punizioni divine,vere e proprie purghe ai danni di chi sia uscito dal solco del-la giustizia. Il doppio primonovecentesco di Santa Claus, alcontrario, per svolgere il proprio compito di equilibratoretra infanzia e mondo degli adulti, arriverà al massimo a mi-nacciare per l’interposizione dei genitori la mancata conse-gna dei doni a quei bambini che nel corso dell’anno non sisono comportati bene – sanzione anch’essa destinata a sbri-ciolarsi man mano che ci avviciniamo alla fine del XX secolo:un Santa Claus che rifiuti di consegnare doni a un bambinodi una metropoli occidentale, di qualunque colpa si possaessere macchiato, oggi infatti non è più quasi concepibile.

L’appannamento e poi la totale estinzione della funzio-ne punitiva non significa naturalmente che Santa Claus siadestinato a “perdere forza” rispetto a san Nicola. Al con-trario, il fatto di non aver bisogno di mostrare i muscoli te-stimonierà una saldatura quasi perfetta tra Babbo Natale eil sistema di potere culturale che, anche in ragione della

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sua apparente benevolenza, andrà a rappresentare. Più San-ta Claus si mostrerà disarmato, insomma, più questo vorràdire che l’ideologia che lo sostiene non troverà ostacoli oavversari lungo il proprio cammino.

Per tornare a san Nicola, molti studiosi sostengono chel’episodio dello Stratilates ebbe una grande diffusione nel-l’Alto Medioevo in quanto funzionale alle esigenze sorte inseno agli ambienti ecclesiastici di combattere, perlomenosul terreno mitico-letterario, gli eccessi del cesaropapismo.Sta di fatto che Nicola, pur non sovvertendo completa-mente il precetto di «dare a Cesare quel che è di Cesare»,esercita senza problemi una forte ingerenza negli affari diStato. Si pone insomma, dall’alto del suo rango vescovile,come un contraltare del potere costituito arrivando a mi-nacciare persino l’imperatore: la compassione e la genero-sità – il fatto che si “rattristasse” ogniqualvolta venisse aconoscenza di un episodio di crudeltà, o di mancata giusti-zia – diventano spesso il passepartout per fare in modo cheil vescovo-santo si riveli in tutta la sua statura autoritaria e,naturalmente, per fargli “mettere le cose a posto”.

Questo pragmatismo – lontanissimo come dicevamodalle forme ascetiche che pure il cristianesimo seppe svi-luppare, e comunque più marcato e con maggiori sfuma-ture di secolarità rispetto a quello presente in altri “santid’azione” – può considerarsi una delle ragioni perché pro-prio da Nicola, nell’America tra XIX e XX secolo, si svi-luppò l’embrione che avrebbe portato a Santa Claus. An-cora più interessante sarà però vedere come, nel corso diquesta metamorfosi, il personaggio che diverrà Babbo Na-tale subirà un’opera di progressiva spiritualizzazione manmano che, dalla prodigiosa fucina di miti del cristianesimo,si sposterà nel continente – altrettanto prodigioso, quantoa potenza allegorica – della cosiddetta cultura laica. Se san

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Nicola agisce infatti in modo circostanziato (apocrife o me-no, le sue imprese si stringono intorno a vicende ben pre-cise), Babbo Natale si muove nel mondo degli uomini se-condo una dinamica “sfumata” e nello stesso tempo uni-versale, circolare, tutta improntata alla ricorsività: intervie-ne ogni anno a beneficio di ogni bambino che popoli il pia-neta. Di conseguenza, più che un santo o un supereroe – enonostante la sovresposizione della sua immagine a operadei mass media, anzi, forse anche in ragione di quest’ipno-tico ricalco – si tratta di uno spirito, talmente ben vaporiz-zato nell’atmosfera delle terre occidentali da confondere ilproprio moto con quello che ogni mattina scandisce nelleaziende la timbratura dei cartellini, regola l’alzarsi e l’ab-bassarsi delle saracinesche nei negozi, trasforma il rosso inverde sugli alberi di Natale dei semafori, costruisce i palin-sesti delle radio e delle televisioni, ritarda o anticipa gliorari dei treni e degli aerei nel gioco a somma nulla dei tra-sporti. Insomma: puro e semplice Zeitgeist.

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5. L’anima e il corpo della bibita

Difficile sostenerlo per una bibita frizzante, ma anche laCoca-Cola, in centocinquant’anni di storia, subirà agli oc-chi dei fedelissimi e dei semplici consumatori un processodi spiritualizzazione, di alleggerimento, un incrementodella forza suggestiva sempre più legata alla sua anima disoft drink, alla sua aura, e sempre meno alla sostanza, tan-to da far pensare che quel poco che la differenzia dallasemplice acqua zuccherata (una percentuale infinitesimaledi caffeina, caramello, succo di lime, acido citrico e il mi-sterioso 7x, l’ingrediente segreto depositato in una casset-ta di sicurezza della Trust Company of Georgia) più che laformula del suo successo sia ormai un semplice pretesto,una piccola stampella destinata a reggere, miracolosamen-te, un niente di proporzioni colossali.

Andare alla ricerca della sostanza che ha generato il mitosignifica spingersi indietro, verso gli ultimi anni del XIX se-colo, per indagare le origini del fenomeno, addentrandosiin quell’epoca dorata di pionieri e ciarlatani, democrazia erazzismo, immigrazione selvaggia e lotta per la sopravvi-venza che furono gli Stati Uniti di fine Ottocento. Ma, an-che qua, riuscire a separare i semplici fatti dalla loro messain scena non è facile, perché la nascita della Coca-Cola siera già trasformata in agiografia a solo mezzo secolo daquando il suo inventore, John Pemberton, ne estrasse per la

prima volta la formula da un groviglio inestricabile di lavo-ri preparatori, velleità e sofferenza reale.

Nel 1936, quando la Coca-Cola è già una delle realtàeconomiche più promettenti del paese e Robert Woodruffil suo presidente, 2.000 uomini della compagnia si riuniro-no ad Atlanta per festeggiare i primi cinquant’anni di atti-vità. Fu una sorta di circo Barnum con le bollicine, un co-loratissimo festival della retorica sospeso tra un passato invia di rilettura e un futuro che già strizzava l’occhio allapoetica delle multinazionali. I dirigenti dell’azienda fecerodiscorsi su discorsi, come se si fosse trattato di una campa-gna elettorale. Venne rappresentata una commedia intitola-ta Pioneer Days (‘I giorni dei pionieri’) che riassumeva,edulcorandola su parametri che sembravano presi in pre-stito da Walt Whitman, la storia della bibita. In altri luoghidel raduno erano esposte macchine antiquate che avrebbe-

ro dovuto ricordare agli imbottigliatori da quanto lontanofossero partiti e quanta strada avessero dovuto macinareprima di poter raggiungere il benessere. E poi barbecue, fe-stoni, siparietti musicali, incontri di lotta e di pugilato per

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gli uomini della compagnia e per le loro mogli, filmati pro-mozionali – che avrebbero dovuto far inorgoglire, magaripure commuovere, i dipendenti più anziani nonché porta-re i neoassunti ad assimilare la mentalità vincente dell’a-zienda – e tutto ciò che poteva contribuire a interpretare laCoca-Cola come un “classico in vita”. Alla fine, quandotoccò a Robert Woodruff prendere la parola, il solito tonomessianico si sposò perfettamente con la logica aziendale.«Noi siamo ancora dei pionieri!», tuonò dal pulpito, «altri-menti l’agio e l’indipendenza finanziaria ci avrebbero giàrammollito tutti quanti. Non dobbiamo mai parlare troppodi successo… ma guardare avanti. Nella lunga vita dellaCoca-Cola, questi primi cinquant’anni di attività rappre-sentano poco più di una fiammella, ma noi possiamo rac-coglierla e utilizzarla, se solo lo vorremo, per accendere unfuoco che farà a tutti da guida, a noi e a chi ci seguirà».

È interessante notare come la Coca-Cola, a pochi metridal balzo destinato a trasformarla definitivamente (portan-dola, come già detto, a diventare una fucina di narrazionioltre che di prodotti reali sempre più asserviti al proprio

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doppio fantasmatico), enfatizzi e inizi già a rileggere in chia-ve mitica le lacrime, la fatica, il sudore e il sangue. Wood -ruff e soci rappresentavano ormai una solida realtà econo-mica, non erano chiaramente più dei pionieri, ma propriosul tasto di questa dimensione materiale – potentementeterrena, e in via di smarrimento – bisognava insistere per-ché la trasformazione si realizzasse in modo irreversibile.

La rilettura del passato in chiave mitica aveva natural-mente uno dei suoi picchi di incandescenza nel momentoaurorale della Coca-Cola: la sua nascita (il 1886) e il suo in-ventore, John Stith Pemberton.

Se si visita ad Atlanta il museo della Coca-Cola, costrui-to nel 1990 e costato circa 15 milioni di dollari, si vede co-me l’epica di cui la “grande festa” del ’36 fu la prima folk-loristica manifestazione sia stata via via perfezionata. Gliuomini che fecero la compagnia sono dipinti come gli eroidi un “grande romanzo americano” i quali, partendo dalleproprie umili origini, riuscirono a creare un sogno graziealla loro perseveranza e ai loro sacrifici, assistiti da unabuona sorte che in realtà, nelle intenzioni neanche troppovelate degli agiografi moderni, altro non è che il Destinosotto mentite spoglie.

In particolare il 1886 viene raccontato come l’anno diuna “nascita santa” e John Stith Pemberton come un ado-rabile dottore di campagna davanti al quale, un bel giorno,si manifestò la formula di una bevanda miracolosa. L’in-ventore della Coca-Cola è raffigurato come una sorta diAureliano Buendia visitato dallo Spirito Santo – per cuinon è tanto lui a scoprire la Coca-Cola ma la formula dellabibita, staccandosi dall’Iperuranio degli oggetti di consu-mo, a scegliere la casa di Pemberton (e le sue mani) comeluogo d’elezione per la sua prima manifestazione terrena. Lachiave del racconto è chiaramente evangelica. Pemberton

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– come san Giuseppe, come Geppetto – diventa il padreadottivo di un qualcosa che a un certo punto gli appartie-ne non in ragione degli sforzi fatti per ottenerla ma al mas-simo in virtù del proprio buon cuore, della semplice di-sposizione di spirito. L’impegno, l’abnegazione, i sacrificispetteranno invece agli evangelizzatori (nel nostro caso ifuturi uomini della “Coca-Cola Company”, il cui compitosarà quello di raccogliere l’eredità di Pemberton e didiffonderne il verbo in giro per il mondo).

Quello che non si dice nel museo di Atlanta – e che l’a-giografia della Coca-Cola giustamente trascura – è chePemberton fu un tormentato morfinomane incline a para-noie e scoppi di ottimismo, un instancabile lavoratore checonsacrò ogni suo sforzo alla Coca-Cola e che proprio ilsogno di una “bevanda miracolosa”, destinata a conquista-re sempre più spazio nella giungla del mercato statuniten-se, ridusse infine a una larva umana.

«Gli americani sono il popolo più nevrotico della Ter-ra…», così esordiva il testo di una delle prime pubblicitàvolute da Pemberton per la sua bibita. L’agitazione di ner-vi a cui la Coca-Cola prometteva di porre rimedio testimo-nia abbastanza bene il tempo in cui John Pemberton si tro -vò a vivere e la destinazione d’uso a cui la Coke inizialmen-te era votata.

Siamo nella cosiddetta Golden Age, il periodo in cui gliStati Uniti smisero di essere un paese fondamentalmenteagricolo per trasformarsi in una società urbanizzata. A unmondo verde e giallo fatto di piantagioni, fattorie, confiniin continua via di spostamento andava sostituendosi unascenografia di fabbriche, mulini a vento, recinzioni, unpaesaggio in continua fibrillazione attraversato dai seg-menti paralleli dei binari ferroviari. Leaves of Grass di WaltWhitman è stata pubblicata da pochi decenni (nel 1855)

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ma la fase pionieristica sta già cedendo il passo all’epocadella velocità, della capitalizzazione del tempo, della spe-cializzazione, della competitività. Lo strappo col passato fudi tale violenza che il cambiamento non poteva non porta-re, insieme con gli innegabili vantaggi, problemi di “rior-dino” e nuove patologie sociali. Un manipolo di conqui-statori marcianti «in paths untrodden, / in the growth bymargins of pond-waters, / escaped from the life that exhibitsitself…» (‘per sentieri non battuti / nella vegetazione ai li-miti delle acque stagnanti / in fuga dalla vita che esibisce sestessa’), per citare le parole di Whitman, era pronto a tra-sformarsi in un popolo di nevrotici stravolti nelle loro abi-tudini dal demone della modernità ma nello stesso tempoconvinti (a ragione) di poter spillare oro non più dalleoscure vene del sottosuolo bensì dall’aereo e multiformeuniverso del commercio, della finanza, delle scalate azio-narie, delle acquisizioni, dell’invenzione e della conse-guente messa in circolo del “prodotto perfetto”.

È singolare allora che il prodotto che più di altri andràa specchiarsi nel futuro del paese nasca come antidoto peri problemi che proprio quel futuro, al momento di inve-rarsi, iniziava a produrre nella società: la Coca-Cola, cosìcome la andava immaginando Pemberton, sarebbe dovutoessere appunto un tonico antistress.

Naturalmente Pemberton non era l’unico ad affidare ipropri sogni di ricchezza e notorietà a degli intrugli spac-ciati per medicinali. L’America si riempì rapidamente diaspiranti stregoni – farmacisti, medici più o meno improv-visati, veri e propri sperimentatori senza manuale di istru-zioni – che tentavano di piazzare sul mercato rimedi perogni tipo di malessere. Uno dei primi fu Joseph Priestly, chea partire dalla seconda metà del Settecento inziò a produr-re la celebre fixed air, semplice acqua addizionata con l’ani-

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dride carbonica che veniva presentata come tonico e medi-cinale. E cosa dire del Moxie Nerve Food, inventato e im-bottigliato a Lowell dal dottor Augustin Thompson, un be-verone a base di una fantomatica pianta sudamericana (tal-mente misteriosa da non avere un nome…) capace, secon-do l’irresistibile amore per la millanteria del suo inventore,di curare la paralisi, l’insonnia, il mal di testa, la demenza se-nile? E il Dr Pepper, una bibita a base di ciliegia «ottima perla digestione ma anche per restituire forza, vigore, vitalità»?

A partire dalla fine dell’Ottocento queste strane inven-zioni trovarono il loro luogo di diffusione ideale nelle co-siddette “rivendite di bibite”. Si trattava di locali pieni dimarmi pregiati, di cristalli e di colori moltiplicati daglispecchi. I clienti, oltre a sentirsi in un posto alla moda, po-tevano provare l’ebbrezza di sperimentare centinaia dipreparati dai nomi esotici, la maggior parte dei quali era-no semplici combinazioni “modificate” delle vecchie be-vande alla frutta. Tutti gli infusi venivano spacciati per to-nici e medicinali in virtù di ingredienti provenienti quasisempre da terre lontane e destinati a rimanere misteriosi,accendendo in questo modo fantasia e aspettative dei con-sumatori.

Secondo alcuni studiosi della comunicazione, furonoproprio gli inventori di queste “bibite” a rappresentare ilprototipo dei moderni pubblicitari: ogni intruglio venivaaccompagnato da un bugiardino che in realtà era un vero e

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proprio testo promozionale volto a esaltare senza freni ini-bitori le qualità del prodotto.

Sulla capacità delle “bibite” di guarire da tutta una seriedi mali è lecito nutrire più di un dubbio. Che però fosserodei tonici, degli eccitanti, che non si trattasse insomma disemplice acqua colorata risponde invece a verità come di-mostra il Vin Mariani, il più celebre di questi elisir, la be-vanda che si può considerare il vero antenato della Coca-Cola e a cui John Pemberton si ispirò nella sua intermina-bile ricerca dell’intruglio ideale: un dissetante con proprie -tà palingenetiche.

Angelo Mariani era un uomo di affari nato in Corsicache, a partire dal 1863, iniziò a vendere vino di Bordeauxcon l’aggiunta di un’infusione di coca. La sua bevanda sidiffuse in tutta Europa e dopo pochi anni sbarcò con lostesso successo anche negli Stati Uniti. Il dosaggio consi-gliato sull’etichetta era di un bicchiere prima o dopo ognipasto – mezzo bicchiere per i bambini. La cocaina (isolataper la prima volta nel 1885) non era stata ancora messafuorilegge. Così Mariani, che oltre ad essere un instancabi-le venditore aveva un eccezionale talento per la comunica-zione, fece continuamente la spola tra Vecchio e NuovoContinente cercando di accattivarsi la simpatia di tutte lepersonalità dell’epoca. Riuscì a trovare riconoscimenti da

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Emile Zola, da Thomas Edison, dalla regina Vittoria, daSarah Bern hardt, da Buffalo Bill fino a compiere la grandeimpresa che persino alla Coca-Cola non è ancora riuscita:la conquista del soglio di Pietro – Leone XIII, che a quantopare fu un entusiastico consumatore della bevanda, conse-gnò ad Angelo Mariani una medaglia d’oro con l’effigiepapale come «riconoscimento per i benefici ricevuti dal-l’uso del tonico Mariani».

Il successo del vino alla cocaina non poteva non portarea tentativi di imitazione. E tra gli epigoni di Mariani c’eraappunto il futuro papà della Coca-Cola. Nato nel 1831 aKnoxville, in Georgia, John Pemberton frequentò nem-meno maggiorenne il Southern Botanico-Medical College.Laureatosi in Farmacia e Medicina, iniziò la sua carrieracome venditore di tonici e ricostituenti prima che lo scop-pio della guerra civile lo tenesse per tre anni lontano dagliaffari. Tornato in attività, ansioso di mettersi alle spalle più

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rapidamente possibile i traumi dell’evento bellico, Pem-berton si trasferì ad Atlanta che nel frattempo stava diven-tando una delle città economicamente più frenetiche ditutto il Sud. Qui, passando altrettanto freneticamente dauna costituzione societaria all’altra, riprese a vendere me-dicinali e allo stesso tempo mise su un piccolo laboratoriofarmaceutico dove trascorreva ogni ora libera alla ricercadella sua pietra filosofale. Nel corso degli anni “inventò”tinture per capelli, pillole per il fegato, rimedi contro i reu-matismi – in occasione di un’intervista concessa nel 1886mostrò orgogliosamente al cronista una sua opera ancoraincompleta sui preparati farmaceutici che conteneva ben12.000 prove chimiche. Quando, nello stesso anno, arrivòla prima formula della Coca-Cola (una versione del VinMariani che i primi venti di proibizionismo consigliaronodi rendere analcolica e in cui alla cocaina veniva aggiuntoun estratto di noce di cola), Pemberton era già passato perdisastri finanziari, resurrezioni economiche e infiniti espe-rimenti pseudoalchemici. Il suo interesse per la cocaina,oltre ad essere ispirato dall’epopea di Angelo Mariani, tro-vava una ragione in più nel convincimento che la coca fos-se uno dei pochi rimedi veramente efficaci per la dipen-denza da morfina, sostanza che Pemberton aveva iniziatoad assumere con sempre maggiore frequenza, anche perlenire i dolori provocatigli dalle ferite di guerra.

La Coca-Cola si presentò agli abitanti di Atlanta comeun prodotto «delizioso! rinfrescante! esilarante! rinvigo-rente! Una nuova bevanda contenente le proprietà dellameravigliosa pianta di Coca e della famosa noce di Cola».In questa veste e con questo nome iniziò a insidiare le po-sizioni della concorrenza – una selva di prodotti dalla com-posizione incerta e dalla denominazione quanto meno fan-tasiosa come il Copeland’s Cholera Cure (‘Cura di Cope-

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land per combattere il Colera’), il Dr. Jordan’s Joyous Ju-lep (‘Sciroppo Gioioso del Dr. Jordan’), il Botanic BloodBalm (‘Balsamo Botanico per il Sangue’), il Dr. Pierce’sPleasant Purgative Pellets (‘Piacevoli Pillole Purgative delDr. Pierce’) e così via.

John Pemberton morì nel 1888 a soli cinquantasette an-ni. Non solo non riuscì a vedere i primi successi veramentesignificativi della sua “creatura” (né la sua fervida immagi-nazione poteva concepire che cosa la bibita sarebbe diven-tata a partire dalla seconda metà del Novecento), ma i di-ritti sulla Coca-Cola gli vennero soffiati a pochi anni dallafine, dopo una complicatissima vicenda di passaggi di pro-prietà in cui problemi finanziari, tradimento e veleni fami-liari s’intrecciarono perversamente come in una saga ro-manzesca.

Ciò che dalle previsioni di Pemberton dovette essereancora più lontana fu però la circostanza che la Coca-Colasarebbe diventata uno dei brand più celebri del pianeta inparallelo con un’opera di svuotamento materiale, di spiri-tualizzazione. Il suo successo, vale a dire, si sarebbe conso-lidato man mano che la bibita avrebbe perso il suo inizialevalore d’uso (non più un tonico, non una medicina, non unrimedio per i nervi ma un dissetante al pari dell’acqua pio-vana). La vera pietra filosofale, diversamente dalle aspetta-tive di Pemberton, avrebbe funzionato secondo un mecca-nismo puramente tautologico: non seducendo milioni diindividui grazie all’apporto di un reale beneficio (la curada tutti i mali del mondo, per esempio, o la capacità di tra-sformare il ferro in oro) ma grazie al suo astratto potere difascinazione. Sbarazzatasi quasi completamente di ciò chegli orfici chiamavano soma (corpo materiale, cadavere, pri-gione…) anche nel rapporto tra i componenti della bevan-

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da e la sua denominazione – via la cocaina e a un certopunto via anche l’estratto di noce di cola – la Coca-Colaavrebbe potuto dispiegare senza ostacoli tutta la forza del-la sua anima. Non era più un rimedio contro i malesseriportati dalla modernità ma al contrario, abbandonata ogniansia di reazione, cercava di plasmarsi come uno specchioin grado di assorbire e poi riflettere il principio attivo (vo-latile ai limiti dell’impalpabilità, eppure sempre più pre-sente nella vita di ognuno) del proprio tempo.

È singolare pure che, fino a quando questo processo disvuotamento non sarebbe stato portato a compimento, laCoca-Cola si sarebbe destinata a divorare i propri padri:Pemberton trascorse gli ultimi anni tra malattia e gravi dif-ficoltà economiche; la vita di Asa Chandler, tutta deditaagli affari, culminò in una depressione devastante chenemmeno la sua incrollabile fede cristiana riuscì ad argi-nare. Solo a partire dalla direzione di Robert Woodruff,con la Coca-Cola ormai consapevole della propria forzamitopoietica – una forza ottenuta anche al costo dell’olo-causto dei padri fondatori –, il destino della bibita più fa-mosa del mondo verrà saldato a quello dei suoi evangeliz-zatori in modo quasi indistinguibile.

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6. San Nicola alla conquista dell’Europa

Come accennato nei capitoli precedenti, il percorso checondurrà a Babbo Natale (uno spazio di quindici secoli selo datiamo dalla morte di san Nicola, di otto secoli circa sevogliamo partire dalla diffusione delle prime Vite) vienesegnato da un movimento non lineare: dilatazione del mi-to del santo, contrazione, successivo “sfondamento” delsuo doppio Santa Claus.

Il nucleo primigenio da cui Nicola prende le mosse perla conquista dell’Europa rimane il suo sepolcro a Mira.Questo divenne un popolarissimo centro di pellegrinaggioanche perché si diceva che dalla salma del santo trasudas-se la cosiddetta “manna”, un liquido miracoloso che attiròmigliaia di fedeli dalla costa di Antiochia e successivamen-te diventò motivo di richiamo per le popolazioni dell’inte-ro bacino mediterraneo – raccolta e sigillata con la ceralac-ca in ampolline di vetro, la manna veniva custodita in casaper allontanare le malattie oppure sistemata sulle navi perscongiurare le tempeste. Ancora oggi, prelevata annual-mente nella cripta della basilica di San Nicola a Bari, lamanna (definita come «un olio sacro, un liquido traspa-rente con proprietà taumaturgiche») viene distribuita tra ifedeli di tutto il mondo.

Man mano che il culto di Nicola andava diffondendo-si, si rafforzava inoltre la sua fama di “iniziatore” e di

“santo d’azione”. La presenza del vescovo di Mira al con-cilio di Nicea, per esempio, che i documenti ufficiali fan-no ritenere quanto meno incerta, sarebbe stata caratte-rizzata secondo alcuni agiografi da una difesa della fede

molto lontana da come la si potrebbe immaginare per unteologo o per un asceta: nel bel mezzo delle dottissime di -squisizioni sulla consustanzialità di Padre e Figlio, Nico-la a un certo pun to avrebbe perso le staffe. Acceso dasanta ira e zelo per la fede, avrebbe abbandonato la suapostazione per prendere a schiaffi Ario, il sacerdote ales-sandrino che negava la natura divina di Gesù e che pro-prio il concilio avrebbe condannato alla scomunica. Qua-si un comportamento da gendarme, impossibile da tolle-rare in un contesto simile: Costantino in persona, chepresiedeva il concilio, avrebbe spogliato di conseguenzaNicola delle insegne episcopali per poi farlo chiudere incarcere. Qui, mentre celebrava una messa in onore dellaMadonna – questa la conclusione della storia –, a Nicola

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sarebbero apparsi degli angeli (o, a seconda delle versio-ni, la stessa Vergine accompagnata da Cristo) per resti-tuirgli, insieme con la libertà, l’autorità: vale a dire il pal-lio e la mitra.

Anche le categorie sociali protette da Nicola andaronovia via allargandosi. Alle imprese di cui abbiamo parlatodevono aggiungersi salvataggi di marinai dal naufragio, li-berazione da terribili carestie e resurrezione di bambinibarbaramente massacrati e messi in salamoia da un macel-laio pagano (poi naturalmente portato alla conversione). Inquest’ultimo caso troviamo tra l’altro uno dei suoi pochimiracoli “classici”, incentrati vale a dire su un’evento so-prannaturale piuttosto che su una semplice opera di per-suasione, elargizione o minaccia conclusa con successo;nell’episodio della carestia, al contrario, Nicola si “limita”a persuadere un marinaio che commerciava in grano a ven-dere i suoi depositi alla popolazione che aveva esaurito lescorte di cibo.

In questo modo Nicola, oltre che alle ragazze da marito,estese la sua tutela ai bambini, ai marinai, ai forestieri, aimercanti, persino ai ladri – l’origine di questo patronato

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coincide con la diffusione di un episodio secondo il qualeNicola convinse una banda di ladri, dietro la minaccia didenunciarli, a restituire l’oggetto del proprio furto.

Come ha notato più di uno studioso, san Nicola ha sem-pre a che fare con categorie presociali (i bambini, le ragaz-ze non ancora sposate…) o comunque liminali (i marinai,che vivono in uno stato transitorio destinato a estinguersiciclicamente con il ritorno sulla terraferma; i soldati, chevengono riconsegnati alle proprie famiglie quando nonmuoiono in battaglia; i ladri, capaci di rimettersi sulla stra-da della legalità; i forestieri e i mercanti, il cui status è co-munque legato a un “ritorno a casa”). Il compito di Nico-la è sempre quello di un tutore dell’ordine: aiuta i bambinia entrare nel mondo degli adulti, le ragazze a diventaremogli e madri, fa in modo che le persone la cui professio-ne (o i cui errori) conducono a un temporaneo distaccodall’ordine del mondo vengano consegnati nuovamente al-l’alveo originario della società civile.

Questa funzione di legislatore (per alcuni versi eccessi-va), unita a quella iniziatica, sarà uno dei motivi che porte-ranno Nicola a eclissarsi dopo la Riforma, soprattutto neipaesi dell’Europa settentrionale. E tuttavia, proprio il mec-canismo di compensazione sociale di cui Nicola è al centroin episodi come quello delle Tre fanciulle dà origine al ruo-lo di elargitore di doni che segnerà la sua rinascita nelle ve-sti di Santa Claus. In particolare, la ripetizione del gesto(siamo sempre nell’episodio delle Tre fanciulle), il fatto cheNicola intervenga a favore del padre di famiglia ogniqual-volta ce ne sia bisogno, fa nascere una legittima aspettativasulla ciclicità del dono. Tanto che a Bari – la sua città adot-tiva – questa caratteristica fornì la base ideologica per lacreazione di una vera e propria istituzione. Stiamo parlan-do del “maritaggio”, una pratica sorta nel XVI secolo sotto

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Bona Sforza d’Aragona, duchessa di Bari, e tramontata so-lo nel 1984: si trattava praticamente di sorteggiare più vol-te durante l’anno un certo numero di doti, prese dalle cas-se della basilica di San Nicola e consegnate a «fanciulle ba-resi povere e orfane di padre».

Fino agli anni Sessanta del Novecento il maritaggio ve-niva percepito dalla popolazione barese come un giustostrumento di riequilibrio sociale (perlomeno dal punto divista simbolico) e le beneficiate se ne sentivano onorate,quasi che l’esito del sorteggio rappresentasse il segno dellabenevolenza del santo e quindi delle forze divine nei loroconfronti. Il boom economico e le conseguenti mutazioniantropologiche che investirono l’Italia alla fine degli anniCinquanta segnarono il tramonto di questa istituzione,sempre più interpretata come una sorta di elemosina: in-sufficiente ad assicurare un futuro dignitoso, e in qualchemodo anche umiliante. Questo declino, come vedremo neicapitoli successivi, va a inscriversi in una obsolescenza piùgeneralizzata dell’antico concetto di dono, che troverà ap-punto nel passaggio da san Nicola a Santa Claus uno deisuoi migliori simboli e, contemporaneamente, un piccologrimaldello per comprendere qualcosa sui cambiamentidel pensiero occidentale dal Novecento in poi.

Tornando a Nicola, è curioso come un santo di tale di-mensione pragmatica fosse destinato a subire la sua primavera trasformazione (da san Nicola di Mira a san Nicola diBari) proprio in ragione di esigenze pratiche. Nel 1087, ol-tre sette secoli dopo la sua morte, sessantadue marinai ba-resi sbarcarono nell’Asia Minore già soggetta ai turchi, en-trarono a Mira e s’impadronirono delle spoglie del santo.Tornati a Bari il 9 maggio con il prezioso bottino, venneroportati in trionfo da una cittadinanza che finalmente pote-va fregiarsi di un patrono.

6. SAN NICOLA ALLA CONQUISTA DELL’EUROPA 71

Tutta la regia dell’operazione venne affidata a Elia, aba-te del monastero benedettino di Bari, che agì in concertocon la nuova classe dirigente della città. Il pretesto religio-so per il trafugamento della salma di Nicola fu quello ditrasformare Bari in un luogo ideale per l’avvicinamento delpapato con la Chiesa d’Oriente. La città, passata da pocopiù di dieci anni ai normanni, aveva inoltre perduto il ruo-lo di capitale del governatorato bizantino dell’Italia meri-dionale e rischiava per questo un improvviso declino eco-nomico. L’arrivo del santo a Bari, secondo i calcoli di Eliae dei commercianti locali, avrebbe trasformato il nuovodominio normanno in un grandioso serbatoio di pellegriniprovenienti da ogni paese d’Europa, cosa che in effettisuccesse garantendo alla città una nuova e fondamentalefonte di ricchezza, oltre che di potere politico e religioso.

La missione fu preparata nei minimi dettagli prestandoattenzione anche alla fase comunicativa, grazie alla messa apunto e alla diffusione di quella che dal Novecento in poisi sarebbe potuta definire tranquillamente una “bufala me-

diatica”. Qualche tempo prima dell’“impresa” dei sessan-tadue marinai, venne infatti inserito ad arte in molte Vite diNicola un nuovo episodio: il vescovo di Mira, di ritorno da

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una sortita a Roma dove si era recato per incontrare il “ca-po della Chiesa”, avrebbe fatto sosta a Bari e qui avrebbepronunciato una frase a dir poco profetica: «Hic requie-scent ossa mea». Il ratto delle ossa del santo, discutibile sot-to il profilo morale, si trasforma nell’atto (indiscutibile)della volontà divina.

Tutto insomma nel passaggio di Nicola da Mira a Bariricalca a perfezione – di conseguenza esalta – le caratteri-stiche del santo. Il suo cambio di domicilio avviene graziea un’azione spericolata (e san Nicola, come abbiamo visto,è soprattutto un santo di azione), questa azione è a tutti glieffetti un furto (e san Nicola è protettore anche dei la-dri…), il furto viene compiuto da marinai (una delle cate-gorie sociali tutelate da Nicola…) e porta un enorme be-neficio commerciale alla sua città adottiva grazie al grannumero di pellegrini che vi si riverseranno di continuo(Nicola è patrono anche dei forestieri e dei mercanti).

Le sacre spoglie di Nicola furono fatte conservare daElia in una cripta, dove si trovano ancora oggi e sulla qua-le venne eretta la basilica intitolata al santo – così, a parti-re dall’XI secolo, Bari divenne un’importante sede di riferi-mento per tutta la cristianità e san Nicola poté rafforzare lasua fama e la sua importanza più di quanto non avesse fat-to a Mira. La sua “dilatazione” si svilupperà per altri quat-tro secoli. Poi, come accennato, tutto il suo amore per l’a-zione, il suo pragmatismo, il suo ruolo iniziatico e di tuto-re dell’ordine andranno a infrangersi contro lo scoglio del-la Riforma. Ma i frammenti scaturiti da questa collisionesaranno pronti a generare nuove vite.

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7. La svastica sul logo

Una delle considerazioni che si possono ricavare analiz-zando in parallelo l’epopea di Santa Claus e quella dellaCoca-Cola è che, per certi aspetti, limitatamente ad alcunisettori e campi d’azione, la fine della modernità si verificamolto prima che Lyotard e i successivi apostoli del post-moderno cerchino di dare a questo passaggio epocale unqualche tipo di codificazione. Abbiamo visto per esempiocome già negli anni Trenta la Coca-Cola Company avessesviluppato – di pari passo con l’aumento della produzione– una macchina narrativa che le faceva compiere un vero eproprio balzo in avanti rispetto alle “poetiche” industrialiche si diffusero tra Vecchio e Nuovo Continente dalla finedel Settecento in poi. La seconda guerra mondiale fornì algruppo di Atlanta la grande occasione per “sfondare” fuo-ri dai confini degli Stati Uniti ma fu anche la prova defini-tiva che, nonostante quest’opera di allargamento fosseportata avanti con le insegne del patriottismo e dell’orgo-glio nazionale, l’ideologia delle nuove aziende aveva com-pletamente superato, al di là delle comprensibili esigenzedi forma, la cara vecchia ragion di Stato.

Furono i giapponesi, con l’attacco di Pearl Harbor, alanciare inconsapevolmente la Coca-Cola in tutto il mon-do facendo sì che la bibita diventasse, più che degli Stati

Uniti, la portabandiera di se stessa nei cinque continenti.Con i soldati americani dislocati su tutti i fronti dei paesicoinvolti nel conflitto nasceva l’esigenza di consentire chele truppe venissero approvvigionate, oltre che dei beni ali-mentari di prima necessità, anche di bottiglie di Coca-Co-la. La continua disponibilità della bibita avrebbe contri-buito a tenere alto il morale dei soldati, che si sarebbero“sentiti a casa” anche in terra straniera e sarebbero riusci-ti a vedere, nel gesto familiare di bere Coca-Cola, una pro-messa di un veloce ritorno alla normalità.

Questa esigenza fu perfettamente compresa da RobertWoodruff, il quale subito dopo l’attacco di Pearl Harbordecise che la guerra era scoppiata anche per la propriaazienda, tanto da ordinare ai suoi uomini: «Voglio vedere

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ogni soldato con una bottiglia di Coca-Cola da cinque cen-tesimi tra le mani, dovunque egli sia e qualunque sia il co-sto che dovremo sopportare». Si aggiunga che la Coca-Co-la era diventata molto popolare anche tra gli stati maggioridell’esercito americano e che l’agenzia pubblicitaria di Ar-chie Lee diede il suo meglio per sostenere questa campa-gna con gli strumenti della comunicazione. Nel 1942, Leee soci fecero infatti divulgare un libretto promozionale in-titolato L’importanza della pausa di riposo all’apice dellosforzo bellico, in cui si cercava di dimostrare con pretese discientificità come militari e operai avrebbero reso meglio sei loro ritmi di lavoro fossero stati scanditi da pause perio-diche: «Il tempo governa il presente come mai era accadu-to prima. Quando un paese è in guerra, lo sforzo produtti-vo deve adeguarsi a ritmi più incalzanti. In periodi comequesti la Coca-Cola diventa indispensabile per chi lavora».

La Coca-Cola Company e il governo degli Stati Unitistrinsero un vero e proprio patto. Fu Eisenhower in perso-na – all’epoca comandante delle forze statunitensi in Eu-ropa, grande consumatore di Coca-Cola e, dopo la guerra,intimo amico di Robert Woodruff – a far partire il pro-gramma con un cablogramma urgente spedito dal NordAfrica il 29 giugno del 1943: «Sul primo convoglio richie-sto imbarco di 3 milioni di Coca-Cola imbottigliate (piene)e attrezzatura completa per imbottigliamento, lavaggio,tappatura; stessa quantità due volte al mese. [...] L’imbar-co mensile di bottiglie è a copertura di rottura e perdite sti-mate. Tonnellate valutate da spedire con imbarco iniziale,5 mila. [...] Si chiede che siano controllati da fonti moltoqualificate e che questo quartier generale autorizzi subitola richiesta installazione per venire incontro alla domandagiornaliera di 200.000 bottiglie e comunichi quando lestesse saranno spedite».

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Nel corso della guerra furono costruiti in ogni continen-te impianti di imbottigliamento, la maggior parte dei quali aspese del governo. Duecentoquarantotto impiegati dellaCoca-Cola seguirono i soldati al fronte con il compito di su-pervisionare la costruzione e il buon funzionamento deinuovi stabilimenti. I rappresentanti della compagnia indos-savano uniformi dell’esercito con sopra applicata la dicituraTO (Technical Observer, una qualifica inventata durante laprima guerra mondiale allo scopo di designare i civili richie-sti dall’esercito per esigenze belliche) e, oltre ad essere iprincipali artefici della fortuna della Coca-Cola in tutto ilmondo, diedero all’azienda nuovi elementi per rinvigorire ilproprio mito. Intorno al loro operato nacquero delle vere eproprie leggende. Si diceva, ad esempio, che il generale Pat-ton volesse sempre a portata di mano una scorta di Coca-Cola e che quindi tenesse gli Osservatori Tecnici in grandis-sima considerazione. Divennero celebri le imprese del TO

John Talley (l’osservatore tecnico che recuperò rocambole-scamente un dispositivo per riempire le bottiglie caduto nelporto di Le Havre) e di Fred Cooke (un suo collega: attra-versò per 1300 miglia la catena del l’Hi ma laya per portare unimpianto di imbottigliamento in Cina). O ancora, in occa-sione di un volo nel deserto dell’Arabia Saudita, pare che unC46 carico di bottiglie di Coca-Cola avesse problemi a pren-dere quota: quando uno dei passeggeri, il corrispondente diguerra Howard Fast, suggerì di sbarazzarsi delle bibite, glifu risposto seccamente che si sarebbero potuti gettare via:«fucili, jeep, munizioni, ma mai bottiglie di Coca-Cola». Co-me era già successo in tempo di pace per i suoi padri fonda-tori, la causa della Coca-Cola veniva confusa con cause con-siderate generalmente superiori, in questa occasione la vitto-ria del conflitto da parte degli Stati Uniti e la conseguente af-fermazione della democrazia in tutti i paesi dell’Asse.

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In realtà (e il caso della Cina all’inizio del XXI secolo èemblematico), non è detto che democrazia ed economiadi mercato debbano essere necessariamente l’una il con-tenitore dell’altra. L’unica e indispensabile priorità diun’azienda come la Coca-Cola è assicurare la continuità dise stessa, la conquista di nuovi mercati, l’aumento di pro-duttività, la colonizzazione culturale dei consumatori. Aquesto punto democrazia o totalitarismo sono soltanto ilcontesto in cui il principio attivo dell’espansione azienda-le si trova a operare e, se la disinvoltura con cui le multi-nazionali si sono volta per volta legate a regimi autoritaripuò apparire un affronto ai principi etici espressi dalle no-stre carte costituzionali, assolutamente non si può parlaredi attentato alla coerenza quando azioni di questo tipovengano messe in relazione con la regola aurea delle stes-se company, quella prosecuzione della specie a tutti i costiche – sia pur trasfigurata – siamo riusciti tanto bene a tra-smetterle. Viene in mente la celebre storiella della rana edello scorpione che Orson Welles fa raccontare a MrArkadin (cioè a se stesso) in Rapporto confidenziale. Loscorpione, che non sapeva nuotare, dice Arkadin, volevaattraversare un fiume e chiese alla rana di portarlo in spal-la. La rana aveva fama di essere una creatura piuttosto ra-zionale e offrì un iniziale diniego: «Credo proprio di no.Mentre ti porto in spalla potresti pungermi e la punturadello scorpione significa la morte». E lo scorpione: «Se tipungo tu muori, ma se tu muori io affogo insieme a te.Dov’è la logica nel tuo ragionamento?». La rana si lasciòconvincere a portarlo in spalla ma proprio nel mezzo del-la traversata si sentì percorsa da un dolore lancinante: loscorpione l’aveva punta davvero. «Ma questo non è logi-co!», protestò mentre le forze la abbandonavano. E loscorpione, con l’acqua già alla gola: «Non sarà logico, maè la mia natura».

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Non deve di conseguenza sorprendere più di tanto ilfatto che, mentre la Coca-Cola di Atlanta cercava di espan-dersi oltre i confini nazionali in nome del patriottismo edella democrazia, la sua filiale tedesca (Coca-Cola GmbH)difendeva il proprio fatturato accoppiandosi per l’occa-sione con etica ed estetica del Terzo Reich. Al di qua del-l’oceano la bibita simboleggiava la libertà americana – manello stesso tempo, per le strade di Berlino, di Francofor-te, di Colonia il suo logo posava tranquillamente accantoalla svastica. Se le cose fossero andate diversamente e laGermania di Hitler avesse vinto la guerra (come immagi-na Philip Dick nel suo romanzo ucronico La svastica sulsole) non sarebbe stato contrario allo spirito della bibitache in tutta Europa si bevesse Coca-Cola in nome del na-zionalismo e della purezza razziale.

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La storia della Coca-Cola nella Germania nazista ruotatutta intorno alla figura di Max Keith, un giovanottonepieno di energia e di ambizione che a trent’anni, nel 1933(negli stessi mesi in cui Hitler conquistava il potere), iniziòa lavorare per la Coca-Cola GmbH. Come molti suoi con-nazionali, Keith era alla disperata ricerca della sicurezza fi-nanziaria e di qualcosa in cui credere. Nella Coca-Colatrovò entrambe le cose: «Ero pieno di entusiasmo», ricor-derà trent’anni dopo, «la Coca-Cola prese possesso di tut-to quello che era in me e non mi ha più abbandonato. Daallora in poi, e per tutta l’eternità, sono rimasto legato aquesto prodotto nella buona e nella cattiva sorte». Alla Co-ca-Cola GmbH, Keith riuscì a diventare in poco tempo ilcapo indiscusso: rimise a posto la contabilità dell’aziendache versava in uno stato a dir poco caotico, si circondò difedelissimi («ti piaceva lavorare per lui sebbene fosse unoschiavista», ricorderà un suo collaboratore, «ero spaventa-to da lui, tutti eravamo spaventati e tuttavia molti di noiavrebbero dato la vita per quest’uomo. Poteva abbatterticome mai lo eri stato prima con la semplice forza dellosguardo. Ma era anche in grado di rimetterti in piedi con la

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stessa facilità»), sottopose se stesso e i propri uomini a rit-mi di lavoro massacranti riuscendo nel miracolo di con-quistare una rilevante fetta di mercato in un paese dove lebibite analcoliche non avevano nessuna tradizione. Quan-do scoppiò la guerra, nel 1939, gli uomini della Coca-Colaerano arrivati a vendere in Germania quattro milioni emezzo di casse ogni anno.

L’universalità della Coca-Cola faceva in modo che la bi-bita potesse trasformarsi dovunque andasse in un prodot-to locale. Proprio per questo, pur di sopravvivere nellaGermania del Terzo Reich, i venditori in franchising cheagivano su territorio tedesco cercarono di sciogliere laCoke dalle sue origini americane tentando di far passareun messaggio secondo il quale la Coca-Cola GmbH fossein tutto e per tutto un’azienda teutonica.

Robert Woodruff non sembrava molto preoccupato delprocesso di “arianizzazione” che la sua bibita stava suben-do in territorio tedesco né da Atlanta arrivarono protestein questo senso quando, dopo la Notte dei Cristalli cheinaugurò la fase più violenta delle persecuzioni antisemiterendendo chiaro in tutto il mondo quale fosse la posizionedella Germania rispetto al “problema ebraico”, il gruppodi lavoro di Max Keith continuò tranquillamente a flirtarecol regime – l’unico motivo di attrito tra Coca-Cola U.S.A.e Coca-Cola GmbH si produsse all’indomani dell’Ansch-luss e non fu tanto legato a problemi di violazione dellenorme internazionali sulla sovranità degli Stati quanto alseguente dilemma: a chi sarebbe dovuta spettare adesso lavendita della bibita in tutta l’Austria?

Due anni prima, del resto, le Olimpiadi di Berlino ave-vano sancito un vero e proprio trionfo per la Coca-Cola(una delle bevande più consumate da atleti e turisti) e Ro-bert Woodruff, ospite d’onore insieme a un grosso entou-rage della company, non fu tanto turbato dal fatto che una

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fetta per nulla trascurabile del proprio fatturato fosse pro-dotta in un paese che calpestava ormai ogni principio de-mocratico quanto dalla circostanza che l’atteggiamentomaniacale del Führer rispetto al cibo avesse costretto gliimbottigliatori a far applicare su ogni bottiglia di Coca-Cola l’avvertenza kaffeinhaltung («contiene caffeina»).

L’avventura della Coca-Cola nella Germania nazistaproseguì senza grossi problemi fino al 1939. Gli straordi-nari poteri camaleontici della bibita – legarsi a qualunquecausa pur di restare se stessa in tutto il mondo – avevanofatto sì che Max Keith fosse riuscito a motivare i suoi sot-toposti spostando sulla produzione della bibita quella di-sciplina, quella dedizione al lavoro, quella fedeltà assolutache nel resto del paese sarebbero dovuti essere tra i pilastriper la costruzione del Reich millenario (quando, negli ulti-mi tempi del conflitto, alcuni prigionieri di guerra furonomessi a lavorare negli impianti di imbottigliamento dellaCoca-Cola controllati dagli Stati Uniti, un osservatore tec-nico poté commentare: «I lavoratori francesi hanno unconcetto piuttosto limitato del significato di parole comepulizia e igiene, sono apatici, sembrano indifferenti verso illavoro che svolgono. I soldati tedeschi al contrario sonomolto diligenti ed è facile averci a che fare. È sufficientemostrargli che tipo di lavoro devono compiere e loro simettono subito all’opera, e lo fanno bene»). Del resto, co-sì come Hitler era riuscito a sfruttare la frustrazione gene-ralizzata del suo popolo e il famoso 20 per cento di disoc-cupazione, Max Keith si circondò inizialmente proprio difalliti, di sconfitti, gente che non aveva più niente da per-dere e a cui veniva offerta un’occasione di riscatto.

Con l’invasione della Polonia e la conseguente entratain guerra di Francia e Inghilterra, le cose per Keith e soci si

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complicarono enormemente. Nonostante gli sforzi com-piuti per dimostrare la propria fedeltà al regime, iniziò afarsi tangibile il pericolo che la Coca-Cola GmbH potesseessere nazionalizzata in quanto “azienda straniera”. A que-sto si aggiunse il fatto che Göring fece disporre a un certopunto («per esigenze di guerra») il divieto di importarel’ingrediente “segreto” della bibita, il 7x, dagli Stati Uniti.

Come reagire a questi rovesci di fortuna? La primamossa di Keith fu infiltrarsi ancora più profondamentenella burocrazia nazista per cercare di rendere più lenta emeno “traumatica” possibile la temporanea scomparsadella Coca-Cola dalla Germania e dai territori occupati(man mano che le truppe di Hitler invadevano l’Europa,Keith aveva infatti assunto il controllo delle aziende cheimbottigliavano la bibita in Italia, Norvegia, Francia, Bel-gio, Olanda, Lussemburgo…). Poi arrivò il colpo di ge-nio. Se i problemi della Coca-Cola GmbH erano legati so-prattutto alla dipendenza dalla casa-madre, dovette pen-sare Keith (a nessun concessionario in franchising venivainfatti passata la formula del 7x), si poteva cercare di pro-durre una bibita che fosse realmente tedesca, un prodottoche fosse concepito in Germania, che non avesse bisognodi equilibrismi tattici o faticose mistificazioni comunicati-ve per essere percepito da tutti, immediatamente, comebevanda ariana. In questo modo nacque la Fanta.

Siamo di nuovo nel laboratorio alchemico degli oggettidi consumo destinati a un radioso avvenire. Ma, a differen-za di quanto accadde intorno a John Pemberton, non sem-bra che la Coca-Cola Company abbia fatto grandi sforzi perfar entrare nella propria leggenda le circostanze che segna-rono questa seconda “nascita santa”. Troppo difficile.

Max Keith riuscì a fare di necessità virtù e, convocati isuoi chimici, chiese loro di inventarsi una bevanda al sapo-

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re di frutta raschiando il fondo del barile dei razionamentialimentari imposti dallo stato di guerra. Per ammissionedello stesso Keith, la Fanta era fatta di «avanzi di avanzi»:per conferirle un vago sapore di arancia vennero utilizzatisuccedanei del formaggio, scarti di lavorazione di altre in-dustrie alimentari, fibre di mela che rimanevano sui torchida sidro. La fortuna della nuova bibita (che veniva pubbli-cizzata come un prodotto della Coca-Cola GmbH per evi-

tare che il ricordo del marchio scomparisse del tutto dallamemoria dei tedeschi) fu dovuta ai magheggi di Keith, cheriuscì ad aggirare le leggi sul razionamento dello zuccheroottenendo dai gerarchi nazisti l’autorizzazione a utilizzareper il suo prodotto lo zucchero di barbabietola. Il nome,deciso nel corso di una riunione fiume a cui parteciparonodirigenti e impiegati della Coca-Cola GmbH, fu moltosemplicemente una contrazione della parola tedesca Fan-tasie. La nuova bibita fu dotata di una bottiglia caratteri-stica – come già anni prima avvenne per la sua sorella mag-giore – e le vendite nel corso del conflitto furono sufficien-ti a mantenere vivo il mercato.

Per quanto questa storia possa sembrare disdicevole, sa-rebbe errato pensare di individuare il cuore dello scandalo

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nella circostanza che la Fanta, nata in seno al nazismo, ab-bia conquistato dopo la guerra i mercati americani ed euro-pei come portabandiera del mondo libero. Il cuore delloscandalo – se di scandalo si può ancora parlare – risiede in-vece nell’intrinseca non appartenenza delle multinazionali aqualunque tipo di ideologia considerata fondante per unoStato moderno. Un’azienda come la Coca-Cola – costrettavolta per volta nelle maglie della democrazia costituzionale,del regime totalitario, del fondamentalismo religioso – aspi-rerebbe ontologicamente a un nuovo tipo di teocrazia cheavrebbe nel proprio doppio fantasmatico l’impalpabile cen-tro di irradiazione e in un sofisticatissimo apparato produt-tivo-narrativo il proprio “braccio armato”.

Non si tratta di biasimare la Coca-Cola, o comunquenon solo l’azienda di Atlanta, dal momento che altre com-pagnie americane continuarono a fare affari con la Germa-

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nia anche dopo lo scoppio della guerra (come la Ford e laStandard Oil, o, invertendo i termini della questione, comela Fiat, che vendeva in modo piuttosto disinvolto materieprime al “nemico” Stati Uniti). E cosa dire di quelle azien-de destinate a diventare il simbolo della nuova economiaoccidentale dagli anni Ottanta in poi? La IBM, per esem-pio, che aveva in Germania un’importante filiale, pare ab-

bia offerto ai nazisti tutto l’occorrente per quel rudimenta-le (ma all’epoca assolutamente rivoluzionario) sistema diinformatizzazione che successivamente sarebbe stato uti-lizzato per dirigere il “traffico umano” di milioni di vittimedestinate alla “soluzione finale”. La circostanza che la casamadre fosse o meno a conoscenza dell’operato della filialetedesca è ancora oggetto di furibonde polemiche. È certoinvece che l’allora presidente dell’IBM Thomas Watson(non certamente nazista, ma un uomo che chiaramentecredeva al fatturato della propria azienda molto più che al-

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le dichiarazioni di principio scolpite delle carte costituzio-nali dei cosiddetti “paesi liberi”) fu decorato nel 1937 conuna medaglia al merito dal cancelliere Adolf Hitler in per-sona: «Onore agli stranieri che hanno fatto di se stessi deiservitori del Reich».

Non si tratta di mettere la Coca-Cola in croce, ma di cer-care di fornire alle cose, e alle loro dinamiche, un nome euna descrizione che siano quanto possibile calzanti. Le im-prese produttrici di merci destinate a un largo consumo nonsono propriamente “cattive”. La loro natura impone unacrescita continua e una progressiva “evangelizzazione” deifedeli-consumatori – la loro carta costituzionale non è per-fettamente sovrapponibile alla carta costituzionale dei paesiin cui vengono ospitate (ma è sempre meno chiaro il giocodelle parti: chi ospita chi? Chi contiene chi? Chi è al serviziodi chi?) –, per cui si potrebbe parlare di “cattiveria” allo stes-so modo dello scorpione di Welles, costretto a secernere ve-leno da un impulso che non contempla il libero arbitrio masolo ostacoli oggettivi, ed eventuali, all’uso del pungiglione.

Così, se le esigenze dell’espansione (il bisogno di uno“spazio vitale” molto diverso da quello tristemente noto ne-gli anni del secondo conflitto mondiale) possono fare in mo -do che un’azienda collabori nello stesso momento con duepaesi ideologicamente contrapposti senza che questo siapercepito dall’azienda stessa e men che meno dallo spiritodei suoi prodotti come una contraddizione, la necessità di“evangelizzare” i consumatori la conduce eventualmente acibarsi, quando possibile, del patrimonio culturale presen-te nel contesto cui si trova ad agire, a metabolizzarlo, a re-stituirlo infine al mondo trasformato secondo le esigenzeche il suo desiderio di teocrazia le impone. Il caso di SantaClaus, per la descrizione di una simile dinamica, può con-siderarsi emblematico.

7. LA SVASTICA SUL LOGO 87

8. Martin Lutero contro san Nicola

Coi protestanti per Nicola arrivarono i guai. Il fervoreantipapista della Riforma aveva tra i suoi bersagli – oltre al-la vendita delle indulgenze, ai canti liturgici, alle messe insuffragio – anche il culto dei santi. In una situazione simi-le, un personaggio come Nicola aveva meno speranze ri-spetto ad altri “colleghi” di guadagnarsi la benevolenzadella Chiesa riformata: la sua disinvoltura nel maneggiarel’oro poteva valergli l’accusa di non saper distinguere per-fettamente tra Dio e Mammona; i suoi interventi come tu-tore dell’ordine ricordavano troppo le ingerenze tempora-li della Chiesa di Roma; il patronato di ladri, commercian-ti, prestatori di denaro a pegno lo rendevano quanto menosospetto; la sua funzione iniziatica rischiava di far sì che inlui s’intravedessero delle sopravvivenze delle divinità pa-gane – caratteristica, quest’ultima, che non può poi consi-derarsi a lui del tutto estranea. Così, nei paesi protestanti ilnome di Nicola venne cancellato dal calendario liturgico ele sue celebrazioni estromesse dal rituale.

La circostanza che i riformatori non avevano però tenu-to in conto consisteva nel fatto che la figura di Nicola eradiventata molto popolare anche tra i fedeli dei paesi nor-deuropei e che un atto formale di espunzione non potevafar cadere nell’oblio un personaggio che aveva guadagnato

consensi continuando a crescere, a radicarsi, a rafforzarsiper oltre mille anni. Così, cacciato dalle navate delle chie-se e dalle feste ufficiali, Nicola continuò a sopravvivere neifocolari domestici e quindi a registrare i segni dell’ennesi-ma “mutazione”. In particolare, fu la sua vicinanza ai bam-bini, la sua fama di elargitore di doni a fare da lasciapassa-re perché Nicola registrasse, tra XVI e XVIII secolo, soltan-to un semplice appannamento, un’eclissi temporanea, unarimozione oltre la quale soffiavano già i venti del sincreti-smo che porterà a Babbo Natale.

Un’altra delle fortune di Nicola all’indomani della Rifor-ma consistette nel fatto che, nel corso dei secoli precedenti,proprio dal ceppo della sua fama di elargitore di doni aves-

sero iniziato a svilupparsi delle figure “parallele”, dei veri epropri doppi in tempi non sospetti – doppi che (stornati suc-cessivamente almeno in parte dal “bersaglio” dei prote-stanti) poterono liberamente assurgere a nuova vita.

Proprio nell’Europa settentrionale, per esempio, precisa-mente a Rouen, appare nell’XI secolo la figura del “vescovo

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fanciullo”. Si trattava di un bambino che ogni anno, il 28 di-cembre – il giorno della festa degli Innocenti – veniva sceltoper rappresentare san Nicola. Vestito con paramenti episco-pali di colore bianco distribuiva ai bimbi buoni dolci, uovae frutta compiendo un giro cerimoniale che lo conduceva diporta in porta attraverso tutta la città. Il “vescovo fanciullo”era normalmente accompagnato da un secondo bambino –Nicodemo, come fu chiamato quando questa tradizione sidiffuse anche nei Paesi Bassi –, un piccolo servo, un aiutan-te che poteva però considerarsi anche il suo doppio specu-lare. Nicodemo infatti era vestito di nero (quando non sitrattava di un ragazzo di colore) e il suo compito consistevanel guidare un asinello carico di doni che il “vescovo fan-ciullo” avrebbe poi distribuito e nel terrorizzare invece queibambini che durante l’anno si erano comportati male distri-buendo loro delle verghe. Da Nicodemo si svilupperà la fi-gura dello Schwarzer Mann (l’‘Uomo Nero’), nel quale con-fluirono elementi di matrice precristiana mischiati a temi del

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folklore locale, ed è interessante notare come le due funzio-ni (quella di elargitore di doni e quella di sanzionatore), uni-ficate nella stessa persona durante la “prima vita” di Nicola,trovino questo iniziale sdoppiamento a partire dall’XI seco-lo per perdersi poi nelle ultime versioni di Babbo Nataleche, abbandonato definitivamente ogni valore punitivo, sipropone oggi come un inesauribile dispensatore di doni,buonumore e altro materiale esilarante.

Se la comparsa del “vescovo fanciullo” si può conside-rare una delle prime ma decisive “gemmazioni” destinatea svilupparsi dalla figura di san Nicola, la festa degli Inno-centi è interpretabile a sua volta come una rivisitazione inchiave cristiana delle feriae pagane che avevano lo scopoprincipale di esorcizzare i fantasmi scaturiti dall’approssi-marsi della stagione fredda, e che appunto venivano cele-brate intorno al solstizio invernale. Il parallelismo tra i duetipi di celebrazioni si basa sia sull’elargizione di beni – inepoche pagane si può parlare di vero e proprio spreco, co-sì come di spreco tornerà a parlarsi a proposito delle festi-vità natalizie di tipo post-cristiano, ossia le nostre – sia sul-l’inversione dei ruoli. Nei Saturnali, per esempio, i servi sifacevano nobili, i pastori “diventavano” animali, i bambi-ni adulti, così come durante la festa degli Innocenti spettaproprio a un bambino interpretare un ruolo “altro”, ve-stendo per un giorno i paramenti vescovili.

La festa degli Innocenti, che come tante feste cristianeintrise di paganesimo si radicò nelle abitudini della popo-lazione anche in ragione del proprio sincretismo (in questocaso estendendosi dalla Francia a tutti i paesi del Nord Eu-ropa), fu una delle manifestazioni di Nicola che resistette,seppure con dinamiche diverse, alla Riforma. Estromessodal calendario ufficiale delle Chiese riformate, il Nicola

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elargitore di doni continuò la sua carriera in modo “clan-destino” – cacciato dalle strade, come abbiamo detto, tro -vò un rifugio sicuro nelle case dei fedeli. Consegnato alfolklore popolare diventò di conseguenza quel Nikolaus“domesticizzato” che, a dispetto dei propri detrattori, con-

tinuava a passare per la rituale distribuzione di doni inogni dimora in cui ci fosse un bambino durante la notte trail 5 e il 6 dicembre. Nacque probabilmente in questo pe-riodo l’abitudine di far depositare accanto al letto o al fo-colare le scarpe (poi le calze) che al mattino sarebbero sta-te ritrovate colme di piccoli doni.

Presa coscienza dell’impossibilità di liberarsi completa-mente di Nicola, o comunque delle sue sopravvivenze do-mestiche, le Chiese riformate tentarono di ricorrere a del-le contromisure. Lo fecero cercando di costruire piuttostoartificiosamente, sul Nikolaus dispensatore di doni, altrepresenze più consone alla propria dottrina. Se proprio la fi-gura di un benefattore che opponesse ai demoni invernali

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la sua gerla carica di dolci, frutta e biscotti doveva consi-derarsi inestirpabile dall’immaginazione popolare, dovet-tero pensare i riformatori, che almeno questo ruolo fosseinterpretato da qualcun altro.

Nasce così la figura di Kris Kringle (o Christkindel),quel Gesù Bambino la cui comparsa quale portatore di do-ni ebbe come unico effetto davvero duraturo lo sposta-mento di ciò che restava della festa degli Innocenti dal 6 al25 dicembre e la sua conseguente sovrapposizione con lanotte di Natale. Lo stesso Lutero, che a quanto pare anco-ra nel 1535 faceva regali ai suoi bambini durante la nottetra il 5 e il 6 dicembre, dieci anni dopo aveva posticipato lapratica alla vigilia di Natale.

Nonostante nella figura di Gesù Bambino poteva ravvi-sarsi qualche punto di contatto con san Nicola – in parti-colare la funzione iniziatica: se san Nicola favorisce alcunipassaggi di status circostanziati (da ragazza a donna ma-dre, da fanciullo ad adulto…), nella redenzione offerta daGesù si ritrova il passaggio di status per antonomasia – iltentativo di proporlo definitivamente come distributore didoni in sostituzione di Nikolaus non ebbe il successo spe-rato. Si scatenò piuttosto una caotica sovrapposizione diruoli e personaggi che a un certo punto i riformatori nonriuscirono più a controllare.

Le religioni confessionali, come del resto i movimentipolitici, hanno successo quando codificano, trasformanoin slogan o liturgia un bisogno reale già diffuso nella so-cietà, e sono destinati al fallimento quando la hybris li por-ta a credere che il bisogno in questione possa essere indot-to, per esempio, dall’opportunità di conciliare attriti tramovimenti o correnti interne. Proprio per questo, la fab-bricazione in vitro di un mito del tutto artificiale (il KrisKringle dispensatore di doni) e il suo conseguente innesto

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nel corpo di un bisogno reale (la celebrazione di feste checontenessero ancora elementi dei vecchi Saturnali, in par-ticolare la circostanza di offrire beni in olocausto pur diplacare la vis mortifera delle potenze invernali) creò unareazione di rigetto. La situazione conseguente a tale riget-to fu la permanenza di un bisogno sul quale la mano delpotere religioso non riusciva più a esercitare un efficaceruolo di controllo e sistematizzazione. Così, scioltasi dallatutela di un guardiano che fosse all’altezza del suo compi-to, l’impossibile assimilazione di san Nicola da parte diKris Kringle si trascinò per oltre tre secoli lungo l’Europasettentrionale come una sorta di blob religioso, continua-mente fecondato dal folklore popolare, da residuati reli-giosi cristiani, da elementi pagani mai sopiti come gli spiri-ti dei boschi e le divinità silvane.

Fu così che apparvero le figure di Weihnachtsmann,Papà Natale, Pére Noël, Father Christmas, che affiancava-

no Gesù Bambino nell’immaginazione popolare (quandonon agivano dietro suo mandato) per la distribuzione didoni durante la notte di Natale. In altri casi queste tre fi-gure (san Nicola, Papà Natale, Gesù Bambino) divennero

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intercambiabili, come pure intercambiabili divennero ledate del 6 e del 25 dicembre.

Che cosa ne sarebbe stato di questo ormai irriducibile econtinuo gioco di aggregazione e distacco tra Nicola, Ge-sù Bambino e Papà Natale se avesse continuato a svilup-parsi nell’ormai piccolo recinto del Vecchio Continente,non può dirlo nessuno. Se a partire dal XIX secolo l’Euro-pa non avesse trovato negli Stati Uniti l’occasione per unodei più interessanti e vertiginosi esperimenti culturali del-la propria storia, sicuramente ci saremmo ritrovati a rac-contare una vicenda diversa. Nello stesso tempo, se nel XIX

secolo la figura del “portatore di doni” fosse stata chiusa inuna rigida codificazione religiosa, la sua assimilazione e laconseguente rinascita sul territorio degli Stati Uniti (consuccessiva ri-esportazione in Europa dal dopoguerra inpoi) probabilmente non si sarebbe realizzata.

Proprio la circostanza invece di ritrovarsi “per le mani”un materiale sufficientemente informe, caotico, libero, di-sposto a offrirsi come oggetto di altri innesti e “procedi-menti alchemici” che lo rendessero funzionale a un ulte-riore bisogno reale (la reinvenzione dell’uomo nelle societàconsumistiche) fece in modo che il brodo culturale di Ni-cola-Gesù Bambino-Papà Natale si rapprendesse nellagran diosa e solidissima figura di Santa Claus. Il quale però,come vedremo nei prossimi capitoli, può dirsi figlio degliStati Uniti solo in ragione di una progenitura che lo terràlegato a un nodo mai sciolto, e continuamente riproposto,del pensiero occidentale.

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9. La conquista della Terra

Al di là del fatto di averlo arruolato come testimonial diuna fortunatissima campagna pubblicitaria e di avergliconferito il look con il quale tutti noi oggi lo conosciamo,qual è la vera natura del rapporto che la Coca-Cola intrat-tiene con Santa Claus? Il fatto che Babbo Natale abbiaavuto nell’azienda di Atlanta la sua prima e fondamentalecassa di risonanza è sufficiente per farci dire che la Coca-Cola è a tutti gli effetti il papà (o la mamma) di uno tra ipiù significativi simboli della nostra cultura? Non potreb-be in qualche modo essere anche il contrario? Non è, valea dire, possibile che la Coca-Cola, nella messa a punto del-la campagna orchestrata da Archie Lee, abbia piuttostocercato di evocare un suo possibile Padre, una vera e pro-pria divinità di riferimento, uno spirito guida?

Quando esce dai pennelli di Haddon Sundblom (ricor-diamolo, siamo ancora nel 1931…), Babbo Natale ha dellecaratteristiche che lo pongono già parecchi passi avanti ri-spetto alla Coca-Cola. La sua ubiquità richiama le aspira-zioni della bibita ad essere distribuita in tutto il mondo(passare dalla semplice mescita nelle “rivendite di bibite”alla produzione industriale fu del resto una delle primegrandi imprese dell’azienda); la benevolenza di SantaClaus, inoltre, la sua disarmata quanto inattaccabile capa-cità di portare gioia e buonumore a grandi e piccini è il tra-

guardo che la Coca-Cola si proponeva di far tagliare al pro-prio impalpabile e radioso messaggio di paradiso in terra.

Così, se l’attuale versione di Santa Claus è effettivamen-te stata elaborata nei laboratori mitopoietici di Atlanta, èpure vero che il “vecchio con la slitta” deve considerarsicontemporaneamente una proiezione dei desideri e dellevelleità degli uomini che gli diedero luce. Dati una fisiono-mia e un vestito a un aggregato di energie scaturite dalcuore postmoderno del mondo dei consumi, gettato in uncerto senso il cuore oltre l’ostacolo, la Coca-Cola dagli an-ni Trenta in poi cercò con successo di ridurre la distanzache la separava dal proprio figlio-padre Santa Claus. Laparola d’ordine a quel punto diventava: universalità.

La seconda guerra mondiale fu l’occasione che permisealla Coca-Cola di uscire massicciamente dai confini nazio-nali. Subito dopo la guerra, il piano Marshall diede all’a-zienda di Atlanta (così come anche ad altre multinazionaliamericane) la possibilità di rafforzare le posizioni rocam-bolescamente conquistate durante gli anni del conflitto.

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La penetrazione della Coca-Cola in Europa non fu deltutto indolore. La diffusione della bibita nel Vecchio Conti-nente venne vissuta inizialmente come uno stupro culturaleoltre che una minaccia economica. I viticoltori francesi, peresempio, temevano che l’invasione delle “nuove bibite anal-coliche” potesse costituire una minaccia per la produzionelocale e cercarono di far mettere la Coca-Cola fuori leggementre su alcuni manifesti pubblicitari della bibita a Parigiiniziarono a comparire da un giorno all’altro teschio e ossaincrociate. Sul piano più squisitamente mediatico, «LeMonde» denunciava i pericoli che la Coca-Cola poteva rap-presentare per la “civiltà francese” paragonando la pubbli-cità della company alla propaganda nazista. A Cipro, deivandali sfregiarono con falce e martello alcune insegne del-la bibita. In Belgio, le associazioni dei birrai cercarono di ac-quistare gli impianti in franchising della Coca-Cola con ilproposito di rifiutarsi successivamente di produrre la bibita,mentre in Italia i movimenti di sinistra provarono a diffon-dere vere e proprie leggende metropolitane: la Coca-Colafaceva venire i capelli bianchi, era dannosa per la salute, pro-vocava la colite. Si diffuse perfino la voce che a Lambach, inAustria, gli stabilimenti per l’imbottigliamento della Coca-Cola nascondessero un arsenale nucleare degli Stati Uniti.In Germania comparvero pamphlet diffamatori, uno deiquali era intitolato: “Coca-Cola, Karl Marx e l’imbecillitàdelle masse”, nel quale si spiegava come non la religione mala Coca-Cola doveva considerarsi ormai l’oppio dei popoli.Alexander Makinsky, uomo chiave della company in terrafrancese, parlò con preoccupazione di “maccartismo rove-sciato”, aggiungendo che il miglior termometro per misura-re i rapporti tra Stati Uniti e resto del mondo era rappresen-tato dal tasso di gradimento della Coke in terra straniera.

Anche fuori dall’Europa l’espansione della bibita fu sa-lutata con iniziale sospetto. Nelle Filippine si diffuse la vo-

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ce che la Coca-Cola faceva cadere i denti. In Egitto, alcuniintegralisti islamici cercarono di far crollare le vendite dellabibita dichiarando che tra i suoi ingredienti c’era sangue dimaiale. In Giappone si riteneva che la Coca-Cola potesserendere sterili le donne, mentre in Brasile venne accusata diprovocare l’impotenza maschile e favorire i processi tumo-rali. E poi naturalmente l’Unione Sovietica che, vedendonella bibita uno dei simboli dell’imperialismo a stelle e stri-sce, cercava di conseguenza di screditarla con ogni mezzo.

Con la diffusione in gran parte del mondo dei codiciestetici e comunicativi e degli stili di vita che gli Stati Uni-ti sperimentavano da almeno un trentennio, la diffidenzanei confronti della Coca-Cola era destinata ad affievolirsi epoi a dissolversi quasi completamente. Ma questo non si-gnifica che gli uomini della company non abbiano fattonulla per agevolare il processo di assimilazione.

Una prima strategia messa a punto dalla Coca-Cola con-sistette nell’improntare l’ingresso nei nuovi territori al ri-spetto della cultura locale – il che, a ben vedere, non era unatteggiamento molto diverso da quanto sperimentato inGermania durante gli anni del nazismo dalla Coca-ColaGmbH. Ecco allora che l’inaugurazione degli stabilimentidi Cork, in Irlanda, fu accompagnata dalla benedizione diun prete cattolico. Ecco che gli stabilimenti di Bangkokvennero “santificati” da nove monaci vestiti di arancione, iquali camminarono a piedi nudi per tutta la struttura trac-ciando una striscia di vernice dorata lungo le attrezzature esulla fronte degli operai. Agli italiani, gli uomini della Coca-Cola consigliavano di diluire la bibita nel vino. Nei Caraibi,il tentativo di sposare la Coke alle bevande locali ebbe piùfortuna e così nacque il Cuba-Libre. Nel Sudafrica domi-nato dai bianchi, la company sponsorizzò le celebrazioniper l’anniversario della sconfitta degli zulu. Alle Olimpiadi

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di Helsinki, nel 1952, la Coca-Cola regalò un distributoreautomatico alla squadra russa per poi fotografare gli atletisovietici mentre bevevano la bibita. Anche la cortina di fer-ro, dovettero pensare con lungimiranza gli stati maggioridella multinazionale, prima o poi sarebbe crollata.

In parallelo, la Coca-Cola arruolò per le proprie campa-gne pubblicitarie star dello sport (il che avrebbe dovutocontribuire a fugare ogni sospetto sui pericoli per la saluteche l’assunzione della bibita poteva comportare) e uominidi spettacolo, rendendo scientifico il rudimentale macchi-nario di captatio benevolentiae che molti anni prima Ange-lo Mariani aveva messo a punto per il suo celebre vino allacocaina.

Naturalmente non mancarono le ingerenze di tipo po-litico. Negli Stati Uniti, l’importanza che la bibita iniziavaad avere sia sul piano economico che su quello simbolicofu tale che i presidenti dell’Unione ebbero spesso nei con-fronti della company un rispetto che sfiorava la soggezio-ne (quando nel 1952 Eisenhower conquistò la Casa Bian-ca, l’amicizia che legava il nuovo presidente a RobertWood ruff era decisamente sbilanciata verso quest’ultimoquanto a rapporti di forza e confronto di personalità, tan-to che si ritenne di poter dire che a Washington sedesseun uomo della company – il fatto che Woodruff avessepreso a mandare lettere a Eisenhower iniziandole con unironico e affettuoso «Caro Capo…» può far capire moltobene quale fosse la natura del loro rapporto). Ma anchefuori dagli States la company seppe intrattenere rapportiche andavano ben oltre la cordialità con i potenti del po-sto. Hussein di Giordania e Feisal, re dell’Iraq, si eranomostrati molto ben disposti all’ingresso della bibita nel lo-ro paese, come naturalmente Batista a Cuba. In Spagna,alcuni stretti collaboratori di Franco avevano lavorato co-me imbottigliatori per la company, alla quale rimasero

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sempre fedeli. James Farley, un ex membro del PartitoDemocratico che nel 1932 aveva curato con successo lacampagna elettorale di Roosevelt e che adesso la Coca-Cola utilizzava per le proprie missioni diplomatiche all’e-stero, riuscì a diventare amico del dittatore brasiliano Ge-tulio Vargas, di Somoza in Nicaragua, di Chiang Kai-sheka Taiwan. Il risultato fu che, a metà degli anni Cinquanta,la Coca-Cola poteva smettere di considerare come un so-gno il proprio piano di espansione planetaria – un proget-to che andava ben oltre la semplice crescita di fatturato,tanto che tra gli uomini della company divenne celebre lastoriella dell’indiano messicano che non aveva mai sentitoparlare della seconda guerra mondiale ma alla parola«Coca-Cola?» rispondeva con prontezza: «Coca-Cola? Esperfecto, es magnifico!».

L’espansione della bibita funzionava dunque secondoun meccanismo perfetto di “conversione”: avvicinarsi auna cultura adottando una strategia mimetica (sia nei con-fronti dei governanti che delle masse) e poi cercare di assi-milarla ai propri codici – un sistema che non è molto di-verso dalle pratiche di evangelizzazione cattolica nel TerzoMondo e che s’inscrive nel più generale processo di cam-biamento che stava portando l’Occidente “pesante” delleprime epoche industriali a diventare l’Occidente “volatile”in cui quasi tutti oggi viviamo.

Il percorso di “universalizzazione” di cui si è detto all’i-nizio del capitolo, e che avrebbe portato la Coca-Cola a ri-durre le distanze dal suo spirito guida Santa Claus, può es-sere sintetizzato da due campagne pubblicitarie che segna-rono l’immagine (e la potenza fagocitatrice) della bibitanegli anni Settanta e Ottanta.

Nel primo caso siamo proprio all’inizio del decennio: il1971. Sono passati quattro anni dalla Summer of Love, tre

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dal Maggio francese e italiano, due soltanto dal concerto-ne di Woodstock, che celebrando definitivamente il gran-de sogno del pacifismo e dello spirito hippie mostrò ai piùattenti il ciglio del burrone oltre il quale lo stesso peace andlove sarebbe diventato uno slogan come tanti appaltato al-la società dello spettacolo. Era il periodo di Let It Be, di Si-mon & Garfunkel, delle prime sbornie new age spacciateper spiritualismo di orientamento buddhista, ma anche lostretto giro di boa cronologico oltre il quale non riusciro-no a passare Jim Morrison, Janis Joplin e Jimi Hendrix, trepesi massimi della cultura alternativa scomparsi prematu-ramente proprio nel 1971.

La Coca-Cola riuscì a cogliere nei movimenti giovaniliche avevano infiammato il decennio i due elementi che piùpotevano farle gioco: la pretesa di essere i depositari di unmessaggio universale e, appunto, la circostanza del tuttotransitoria di avere meno di trent’anni. Nelle mani dellacompany, il “grande sogno di cambiamento” che aveva illu-so una generazione (e avrebbe bruciato la successiva) di-venne pura suggestione estetica, venne cioè svuotato di tut-te le sue contraddizioni e asperità, dunque dei suoi residuidi vita. Di conseguenza riuscì ad essere eternato in quel pre-sente parallelo ma totalmente immateriale che, come abbia-mo detto, rappresenta il continente dal quale le multinazio-nali muovono alla conquista dei cittadini-consumatori.

Il set che la Coca-Cola scelse per questa campagna pub-blicitaria fu un paesaggio molto suggestivo della Toscana(una sorta di Chiantishire ante litteram). Più di duecentogiovani provenienti da ogni angolo del mondo, apparte-nenti a ogni razza e opportunamente vestiti coi propri co-stumi nazionali, arrivarono in Italia centrale e vennero fattidisporre sulla sommità di una collina formando una pira-mide rovesciata all’insegna della solidarietà, della pace, del-l’amore tra i popoli. Ciascuno stringendo la propria botti-

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glia di Coca-Cola, i ragazzi cantavano con un fervore com-movente e lobotomico al tempo stesso: «I’d like to buy theworld a home and furnish it with love / Grow apple trees andhoney bees / And snow white turtle doves…», per conti-nuare verso il momento clou di questo jingle francescano inchiave beat: «I’d like to teach the world to sing in perfectharmony / I’d like to buy the world a Coke / And keep itcompany / That’s the real thing… / What the world wantstoday is Coca-Cola / Is the real thing» (‘Vorrei comprare unacasa al mondo e arredarla con amore / Coltivare alberi damele e api da miele e tortore bianche come la neve… / Mipiacerebbe insegnare al mondo a cantare in perfetta armo-

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nia. / Mi piacerebbe comprare una Coke al mondo e tener-gli compagnia. / Ecco una cosa vera… / Quello che il mon-do vuole oggi è Coca-Cola / È la cosa vera’).

Inaugurata nell’estate del 1971, la pubblicità ebbe subi-to un successo strepitoso. La company fu sommersa da ol-tre centomila lettere di apprezzamento. Il 45 giri della can-zone, registrato e distribuito in tempi record, sbancò i bot-teghini dei negozi di dischi. Se fino all’inizio dei Cinquan-ta gli stati maggiori di Atlanta discutevano sull’opportunitàdi mostrare negli spot della Coca-Cola persone di colore,questo ostacolo era stato completamente polverizzatovent’anni dopo all’insegna dell’espansione multinazionalepiù che della cultura multirazziale. Nessuno sembrò scan-dalizzato dal fatto che una bibita avesse la pretesa di salva-re il mondo. Eppure la natura totalitaria di un messaggioche come al solito vampirizzava lo spirito dei tempi per de-clinarlo in chiave aziendal-escatologica era abbastanzachiara e tanto più irritante perché schermava il sogno (as-solutamente realizzabile) di colonialismo culturale da par-te di un marchio commerciale con quello (del tutto utopi-co) della pace e della fratellanza tra tutti gli esseri umanidel pianeta.

Trent’anni dopo, la natura perversa di questi progetticomunicativi verrà completamente a galla. Toccherà a un’a -zienda italiana (la società di telecomunicazioni Telecom) ea un sedicente regista progressista (Spike Lee) concepire lapubblicità che più di ogni altra darà punti alla massima se-condo la quale la strada dell’imperialismo sarebbe lastrica-ta di buone intenzioni.

Al centro della campagna Telecom partita nell’autunnodel 2004 c’è niente meno che Gandhi. Un celebre discorsodel Mahatma viene diffuso contemporaneamente da tutti imezzi di comunicazione del pianeta. Nello spot si vedono

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folle oceaniche convergere verso Times Square, verso Pic-cadilly Circus, sulla Piazza Rossa e rimanere in raccogli-mento davanti a maxischermi occupati dall’inconfondibi-le figura di Gandhi – immagine che nello stesso tempo simanifesta sui display dei telefonini, sugli schermi dei com-puter, nelle televisioni di ogni luogo civilizzato. A questopunto compare uno slogan che recita: «Che mondo sareb-be se avesse potuto comunicare in questo modo?», e chenon può essere metabolizzato con cognizione di causa sen-za sentire scorrere un brivido lungo la schiena.

Basta togliere infatti dalla pubblicità della Telecoml’immagine di Gandhi e mettere al suo posto quella di Hi-tler, o di Stalin, o di Pol Pot e chiedersi «che mondoavremmo oggi, se avessero potuto comunicare in questomodo?» per rendersi conto che qualunque pensiero – fos-

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se anche quello del Mahatma o di san Francesco – nel mo-mento in cui monopolizza i media di tutto il mondo di-venta già pericolosamente “pensiero unico”. E l’amoreper un “pensiero unico” è proprio quello che, neanchetroppo sotterraneamente, viene espresso dallo spot diSpike Lee, un pensiero che non ha più niente a che farecon quello di Gandhi, nulla con quello di Stalin, di Hitlero di Pol Pot, e che ammantandosi dietro le ideologie delNovecento le supera da destra e da sinistra celebrandosemplicemente la forza totalizzante (e già totalitaria) delMoloch mediatico messo al servizio di un apparato tecni-co-produttivo capace di sovrastare qualunque vera indivi-dualità nel tentativo di ridurre ogni singolo vivente ad ap-pendice di un Sistema. La commozione verso cui siamonaturalmente spinti dalla natura ricattatoria dello spot –pur consapevoli della sua ipocrisia – è alimentata dal sen-so di originario scoramento davanti al quale ci troviamoogniqualvolta veniamo messi, più o meno fraudolente-mente, di fronte all’ipotesi di un paradiso perduto: «Chevita sarebbe stata, la nostra, se non avessimo vissuto sullaTerra e non fossimo appartenuti al genere umano?».

La “magica armonia” di cui cantavano i ragazzi dellaCoca-Cola fraternamente riuniti trent’anni prima tra i col-li toscani esprime in realtà – per chi continui ancora a cre-dere nelle capacità di affrancamento che possono fare diun aggregato cellulare un individuo – un agghiacciante de-siderio di ordo ad unum, un luminoso messaggio di amoredirettamente proveniente dai secoli bui, diretto a tutti gliuomini di buona volontà.

Dodici anni dopo, siamo nel 1982, la Coca-Cola mette apunto un’altra campagna pubblicitaria capace di rafforza-re la propria vis teocratica senza che, per farlo, ci sia piùneanche il bisogno di adagiarsi parassitariamente su una

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cultura o un immaginario preso dal “mondo esterno” (va-le a dire dal mondo reale).

Al termine di un anno di ricerche che avevano pochiprecedenti nelle già ponderatissime campagne della bibi-ta e di infinite prove sui consumatori, John Bergin, unpubblicitario di grande esperienza che aveva lavorato perla concorrente Pepsi-Cola, presentò agli uomini di Atlan-ta uno spot culminante con uno slogan che rasentava laperfezione quanto a sintesi e capacità di impatto. Nellapubblicità – lanciata in contemporanea sulle più impor-tanti reti televisive americane il 4 febbraio 1982 – venivamostrato un raduno di incoraggiamento prima di una par-tita di football o, alternativamente, una festa di complean-no a sorpresa, un’esibizione di ballerini, il primo pianodell’attore comico Bill Cosby intento a intrattenersi confi-denzialmente con il suo pubblico. Al termine di ognunodi questi spot, partiva lo slogan «Coca-Cola è!» («Coca-Cola is it!»), così, semplicemente, senza niente da aggiun-gere.

L’intento di John Bergin e dei suoi committenti era sta-to quello di “non essere troppo precisi”, non troppo “de-scrittivi o letterali”, lasciando al consumatore il compitodi completare la frase e dunque la supposta libertà di de-cidere – infilandosi nell’impossibile spazio tra la sua con-clusione e il punto esclamativo –, a seconda di quale fosseil proprio stato d’animo, che cosa la Coca-Cola precisa-mente fosse.

Il meccanismo psicologico che scattava nella testa deitelespettatori davanti al messaggio «Coca-Cola è!» era inrealtà molto diverso. La bibita era riuscita nel corso deglianni a crearsi intorno una narrazione talmente potente epervasiva che la libertà interpretativa dei destinatari dellospot restava chiusa nella griglia emozionale costruita dagliuomini della company. Qualunque cosa la Coca-Cola aves-

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se potuto essere, non sarebbe mai riuscita a sovvertire ilmessaggio di gioia impalpabile, inesprimibile voglia di vi-vere, astratta felicità prêt-à-porter che ormai la bibita rap-presentava in tutto il mondo. La fortuna della campagnapubblicitaria testimoniava il successo con cui la companyera riuscita a creare un proprio immaginario, una proprianarrazione, un’epopea talmente coerente, funzionante ecentripeta da riuscire ad assorbire (e, ancora una volta, con -vertire ai propri codici e alla propria poetica) tutte le pos-sibili declinazioni della frase: «Coca-Cola è!».

Negli anni Cinquanta i vertici della Coca-Cola collabo-rarono per qualche tempo con quella che gli stessi uominidi Atlanta chiamavano scherzosamente “squadra degli abis-si”. Si trattava di un team di psicologi, antropologi, sociolo-gi che, strappati per qualche tempo ai propri studi profes-sionali o alle proprie aule universitarie, offrirono i loro ser-vigi alla multinazionale nel tentativo di comprendere qua-li fossero i meccanismi inconsci che spingevano la gente adacquistare un prodotto piuttosto che un altro. Sull’onda diquesto nuovo approccio alle tattiche di espansione com-merciale, la Coca-Cola si affidò anche alla SubliminalProjection Company facendo partire un breve progettosperimentale che consisteva nell’inserire messaggi sublimi-nali durante la proiezione di film nelle sale cinematografi-che – il messaggio in questione era semplicemente «Coca-Cola», durava tre millesimi di secondo e veniva proiettatosullo schermo ogni cinque secondi per tutta la durata del-lo spettacolo.

Nonostante le rassicurazioni della Subliminal ProjectionCompany sull’efficacia del progetto, gli uomini della Coca-Cola decisero di abbandonare piuttosto in fretta gli esperi-menti a base di pubblicità subliminale. Dovevano aver ca-

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pito in qualche modo che la manipolazione del pensieronon seguiva più strade sotterranee ma percorsi aerei. Sape-vano cioè che le cosiddette società del consumismo avanza-to erano già qualche passo in avanti rispetto alle teorie diFreud e, più vicine all’Arcobaleno della gravità di ThomasPynchon – sebbene all’epoca non fosse stato ancora scritto– che all’Interpretazione dei sogni, avevano nel proprio in-conscio uno specchio perennemente in fieri del mondoesterno più che un pozzo di abissale chincaglieria.

Era tutto lì fuori, vale a dire, sempre a portata di mano.Così come lì fuori, nel firmamento unico di tutte le cittàdel pianeta, Babbo Natale continuava a volteggiare sullasua slitta chiudendo in sé desideri, inclinazioni e proiezio-ni di qualche miliardo di esseri umani.

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10. Uno spettro si aggira per l’America

Avevamo lasciato i resti di san Nicola vaganti per la pa-lude dell’Europa riformata alla ricerca di una nuova iden-tità. Li avevamo visti confondersi con un Gesù Bambino di-spensatore di doni, creato per pure ragioni di querelle reli-giosa, e con un Papà Natale che raccoglieva miti e leggendedel Nord Europa precristiano. Questa creatura di Franken-stein, impegnata a perdere pezzi con la stessa incontrollabi-le velocità con cui ne guadagnava di nuovi, iniziò a ritrova-re un’identità stabile solo nel Nuovo Continente.

Furono gli olandesi, nel XVII secolo, quando venne fon-data Nuova Amsterdam (poi New York), a importare ne-gli Stati Uniti ciò che restava del vescovo di Mira. Ancorauna volta – e questa, forse, tra le sopravvivenze del vecchioNicola, è la più dura a morire e la più facile a cambiare abi-to lungo il suo secolare percorso – sono le pure e sempliciesigenze commerciali a costruire il ponte attraverso cui ilprotettore dei pellegrini troverà una nuova casa.

Dall’Olanda cominciarono infatti a venire importati ne-gli States i cosiddetti “biscotti di San Nicola”, la cui diffu-sione, soprattutto a New York, era uno dei sistemi con cuigli olandesi d’Europa intrattenevano rapporti economicicon i loro fratelli d’oltreoceano ai quali veniva data in que-sto modo anche l’opportunità di “sentire” una continuitàculturale con il proprio paese di origine (allo stesso modo,

gli irlandesi traslarono per esempio nel Nuovo Continentele tradizioni legate a san Patrizio e gli scozzesi fecero lastessa cosa con sant’Andrea…) – anche se si sa: innestareuna vecchia tradizione in un contesto nuovo significa ine-vitabilmente candidarla a un cambiamento.

I biscotti di San Nicola si legavano come detto a quellericorrenze che si diffusero per tutto il Nord Europa a par-tire dall’XI secolo. Si trattava di frollini che riproducevanol’immagine del santo in abiti vescovili e che, nell’Americadi fine Settecento, trovavano come sempre il loro momen-to di maggiore diffusione e consumo tra Natale e Capo-

danno. Nella comunità olandese di Manhattan si era infat-ti diffusa l’abitudine, poi estesa anche alle altre enclave, discambiarsi in prossimità del Capodanno regali di naturaalimentare: tè, sherry, cognac e, appunto, biscotti di im-portazione europea. Lo scambio avveniva nel corso diparty che potevano considerarsi i pronipoti dei riti inver-

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nali della fertilità. Mentre in quest’ultimo caso si trattava dioffrire doni alle potenze invernali per placare la loro forzamortifera e salvare i raccolti, nella Manhattan del XVIII eXIX secolo le luci, i balli, la musica, lo scambio di doni e ilconsumo di beni voluttuari erano di buon auspicio per lanuova avventura in cui gli immigrati europei si stavano co-raggiosamente lanciando, un’avventura che aveva il benes-sere come obiettivo e l’economia di mercato – il piccolo eil grande commercio – come febbrile, pericoloso, eccitan-te ma soprattutto unico sistema per raggiungerlo.

Trasportato da un continente all’altro, ma soprattutto daun sistema economico (prevalentemente agricolo) a un al-tro (la nascente economia di consumo), lo strano aggregatoculturale che ancora ci si ostinava a identificare come sanNicola, già provato dai cambiamenti degli ultimi secoli, eradestinato a perdere altri elementi che lo legavano alle suevecchie origini. Primo fra tutti il nome. Nel ribollire dellediverse enclave e nei continui travasi culturali ed economi-ci di quello che sarebbe diventato il melting pot, a SantaClaus si giunse attraverso la corruzione fonetica non dell’o-landese Sinterklaes (come sarebbe stato più logico, dal mo-mento che gli immigrati provenienti dalla Germania eranomolti meno rispetto agli olandesi) ma del tedesco SanktHerr Nikolaus. Anche la data della sua festa venne fuoridalla lotteria delle commistioni culturali di cui Santa Claussi era nutrito e che ora si approssimava a sintetizzare perprocurarsi un’identità stabile: si oscillò tra il 6 dicembre(giorno di San Nicola), il 28 (giorno degli Innocenti), il 6gennaio (giorno dell’arrivo a Betlemme dei Magi, dispensa-tori di doni anch’essi) finché fu Kris Kringle, il Gesù Bam-bino riformato che, nell’atto di abbandonare un monopo-lio mai realmente posseduto sulla distribuzione di doni nelperiodo invernale, regalò a Santa Claus il 25 dicembre, cheda quel momento divenne un particolarissimo luogo di

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coabitazione tra il dio cristiano e il campione del consumi-smo. Una coabitazione che vedrà i due inquilini – divisidalla propria dottrina di riferimento – condividere oltre algiorno del calendario anche un messaggio di salvezza.

Se fino alla fine del XVIII secolo la presenza di SantaClaus nella vita pubblica newyorkese viene affidata allaspontanea vivacità degli immigrati nordeuropei – un pe-riodo poco documentabile, e quindi avvolto in un misterole cui nebbie si diradano a fatica solo con gli strumenti del-l’induzione, così come pochissimo documentati sono delresto i primi anni di san Nicola nella Patara del III secolodopo Cristo –, lo stadio successivo della sua diffusione ne-gli Stati Uniti passa per situazioni finalmente “ufficiali”.

Il primo a inserire San Nicola/Santa Claus tra le ricor-renze del calendario newyorkese fu John Pintard, patriotae antiquario di origini ugonotte che lo ospitò in un alma-nacco della città da lui redatto nel 1793. Qualche anno do-po Pintard fondò la New York Historical Society, nell’am-bito della quale, col tentativo probabilmente di dare un pa-trono alla città, il giorno di San Nicola/Santa Claus comin-ciò ad essere regolarmente osservato come festa religiosa(quel 6 dicembre fragile come il guscio di un uovo che San-ta Claus avrebbe infranto e abbandonato molto presto).

Nelle stampe che la New York Historical Society diffu-se a partire dal 1810, Santa Claus ha ancora un piede nellevecchie tradizioni popolari, dal momento che viene raffi-gurato in abiti vescovili e il suo ruolo di dispensatore didoni non risulta ancora del tutto scisso da quello “puniti-vo” (il santo-quasi-non-più-santo è raffigurato accanto aun caminetto acceso da cui pendono una calza piena di do-ni e un’altra invece carica di fruste). Ma, mentre la NewYork Historical Society si ostinava a costringere SantaClaus tra le maglie di san Nicola, fu proprio un suo mem-

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bro, lo scrittore Washington Irving, a provocare una frat-tura decisiva tra le due figure.

Nato a New York nel 1783, relativamente poco cono-sciuto in Europa (qualche riverbero della sua opera ci è ar-rivato ultimamente grazie alla trasposizione cinematografi-ca della Leggenda di Sleepy Hollow firmata da Tim Bur-ton), Irving viene considerato uno dei padri della lettera-tura nordamericana. Nel 1809, dopo un esordio comescrittore satirico, confermò brillantemente quest’attitudinecon la pubblicazione della Knickerbocker’s History of NewYork, una storia della città attribuita a un immaginario stu-dioso olandese-americano (Dietrich Knickerbrocker, perl’appunto), nella quale la società dell’epoca veniva amabil-mente parodiata. Nelle intenzioni di Irving, la Knicker-bocker’s History of New York sarebbe dovuta essere unaversione satirica di una guida alla storia della città prece-dentemente pubblicata da Samuel L. Mitchell, ma a di-stanza di anni venne riconosciuto il suo valore autonomotanto che oggi è considerata la prima importante testimo-nianza della letteratura umoristica americana.

Molte pagine del libro di Irving (che, come detto, avevaa che fare da vicino con la nascente mitologia statunitensein quanto membro della New York Historical Society), so-no dedicate a Santa Claus. La sua versione del personaggioprende le mosse da una leggenda secondo la quale una sta-tua di Sinterklaes, fissata alla prua di una nave olandese ap-pena giunta nel porto di New York, avrebbe preso vita li-brandosi per i cieli della città su un carro trainato da un ca-vallo e carico di doni che, dai tetti delle case, venivano con-segnati ai bambini facendoli cadere giù per l’imboccaturadei camini.

Sotto la spinta del successo della Knickerbocker’s Historyof New York, altre pubblicazioni ripresero il Santa Claus di

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Irving e continuarono a rielaborarlo secondo canoni este-tici sempre più vicini all’immaginario del nuovo paese d’a-dozione – il carro si trasformò in una più suggestiva slitta;il cavallo, che a sua volta era una rivisitazione del “mulo”di Nicodemo, diventò una renna; alla singola renna nevennero aggiunte altre sette, probabilmente per dare l’im-pressione di un “servizio” più rapido ed efficiente. Si arri-va in questo modo al 1822, quando un altro scrittore, ilprofessor Clement Clark Moore, sicuramente meno dota-to di Washington Irving, diede alla progressiva cristallizza-zione di Santa Claus un contributo anche maggiore rispet-to a quanto aveva fatto il suo più illustre collega.

Nato nel 1779 a Chelsea, New York, Clement Clark Moo-re aveva al suo attivo un considerevole numero di pubbli-cazioni sugli argomenti più disparati (tra cui persino un di-zionario ebraico), quando, all’età di trentatré anni, decisedi buttare giù un testo che sarebbe dovuto rimanere inedi-to ma che finì invece per costituire la più solida delle basisu cui continuare a fabbricare il mito di Santa Claus.

La vigilia di Natale del 1822, vale a dire, Clement ClarkMoore scrisse una filastrocca con il semplice scopo di leg-gerla ai suoi bambini subito dopo il cenone. Per quantobreve, il testo piacque a un editore locale da cui Moore silasciò convincere a pubblicarlo con il titolo: A Visit from StNicholas. La filastrocca riscosse un buon successo tra gliabitanti di New York, tanto che pochi anni dopo fu ri-stampata prima nel New Jersey, poi in Pennsilvanya, infinein tutti gli Stati Uniti diventando il testo di riferimento perla favola di Santa Claus. Come si può vedere dal testo, in AVisit from St Nicholas sono presenti tutti gli elementi che,dirozzati, lucidati e introdotti infine nell’organo cavo deimass media, avrebbero diffuso in tutto il mondo la favola diBabbo Natale:

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T’was the night before Christmas, when all through the house Not a creature was stirring, not even a mouse; The stockings were hung by the chimney with care, In hopes that St Nicholas soon would be there.The children were nestled all snug in their beds, While visions of sugar-plums danced in their heads; And mamma in her ’kerchief, and I in my cap,

Had just settled down for a long winter’s nap, When out on the lawn there arose such a clatter, I sprang from the bed to see what was the matter. Away to the window I flew like a flash, Tore open the shutters and threw up the sash. The moon on the breast of the new-fallen snow Gave the lustre of mid-day to objects below, When, what to my wondering eyes should appear, But a miniature sleigh, and eight tiny reindeer,

With a little old driver, so lively and quick, I knew in a moment it must be St Nick. More rapid than eagles his coursers they came, And he whistled, and shouted, and called them by name; «Now, DASHER! now, DANCER! now, PRANCER and VIXEN! On, COMET! on CUPID! on, DONDER and BLITZEN! To the top of the porch! to the top of the wall! Now dash away! dash away! dash away all!».

As dry leaves that before the wild hurricane fly, When they meet with an obstacle, mount to the sky, So up to the house-top the coursers they flew, With the sleigh full of toys, and St Nicholas too. And then, in a twinkling, I heard on the roof The prancing and pawing of each little hoof. As I drew in my hand, and was turning around, Down the chimney St Nicholas came with a bound. He was dressed all in fur, from his head to his foot, And his clothes were all tarnished with ashes and soot; A bundle of toys he had flung on his back, And he looked like a peddler just opening his pack.

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His eyes – how they twinkled! his dimples how merry! His cheeks were like roses, his nose like a cherry! His droll little mouth was drawn up like a bow, And the beard of his chin was as white as the snow; The stump of a pipe he held tight in his teeth, And the smoke it encircled his head like a wreath; He had a broad face and a little round belly, That shook, when he laughed like a bowlful of jelly.

He was chubby and plump, a right jolly old elf, And I laughed when I saw him, in spite of myself; A wink of his eye and a twist of his head, Soon gave me to know I had nothing to dread; He spoke not a word, but went straight to his work, And filled all the stockings; then turned with a jerk, And laying his finger aside of his nose, And giving a nod, up the chimney he rose; He sprang to his sleigh, to his team gave a whistle, And away they all flew like the down of a thistle. But I heard him exclaim, ere he drove out of sight, «HAPPY CHRISTMAS TO ALL, AND TO ALL A GOODNIGHT».

Era la notte prima di Natale e in tutta la casa regnava [il silenzio,

niente si muoveva, neppure un topo. Le calze, appese ordinate davanti al camino, aspettavano che san Nicola arrivasse.I bambini accoccolati al calduccio nei loro lettini sognavano dolcetti e zuccherini. La mamma, avvolta nel suo scialle e io col mio berrettostavamo per andare a dormire

quando, dal giardino di fronte alla casa, giunse un rumore. Corsi alla finestra per vedere, spalancai le imposte e alzai il saliscendi. La luna sul manto di neve appena caduta illuminava ogni cosa come se fosse giorno e io vidi, con mia grande sorpresa, una slitta in miniatura tirata da otto minuscole renne

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e guidata da un piccolo vecchio arzillo e vivace; capii subito che doveva essere St Nick. Le renne erano più veloci delle aquile e lui le incitava chiamandole per nome. «Forza, SAETTA! Forza, BALLERINO!Forza, RAMPANTE e BIZZOSO! Dai, COMETA! Dai, CUPIDO! Dai, TUONO e TEMPESTA! Su in cima al portico e su per la parete! Avanti presto, muovetevi!».

Leggere come foglie portate dal vento, le renne volarono sul tetto della casa, trainando la slitta piena di giocattoli. Sentii lo scalpiccio degli zoccoli sul tetto, non feci in tempo a voltarmi che san Nicola arrivò giù dal camino con un tonfo. Era tutto vestito di pelliccia, da capo a piedi, sporco di cenere e fuliggine con un gran sacco sulle spalle pieno zeppo di giocattoli: sembrava un venditore ambulante sul punto di mostrare la mercanzia!

I suoi occhi come brillavano! Le sue fossette che gioia! Le guance rubiconde, il naso a ciliegia! La bocca piccola e buffa piegata in un sorriso, la barba bianca come la neve, teneva in bocca una pipa e il fumo circondava la sua testa come una ghirlanda. Il viso era largo e la pancia rotonda sobbalzava come una ciotola di gelatina quando rideva.

Era paffuto e grassottello, metteva allegria, e senza volerlo io scoppiai in una risata. Mi fece un cenno col capo ammiccando e la mia paura svanì, non disse una parola e tornò al suo lavoro. Riempì una per una tutte le calze, poi si voltò, accennò un saluto col capo e sparì su per il camino. Saltò sulla slitta, fece un fischio alle renne e volò via veloce come il piumino di un cardo.

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Ma prima di sparire dalla mia vista lo sentii esclamare: «BUON NATALE A TUTTI E A TUTTI BUONANOTTE!».

Nonostante Clement Clark Moore parli ancora di «StNick», è chiaro che il protagonista della filastrocca non hapiù niente a che fare con il Nicola della tradizione cattoli-ca e ortodossa, e pochissimo ormai pure con le contamina-zioni successive alla Riforma. Siamo di fronte insomma alprimo documento veramente importante che testimonia ilsuo processo di “americanizzazione”. È invece motivo didibattito se le renne, la slitta e soprattutto l’abito con i bor-di di pelliccia che liquidava definitivamente i paramentivescovili debbano essere attribuiti all’estro di Clement ClarkMoore o rappresentino la rielaborazione di altre favole, fi-lastrocche, storielle pubblicate con minore diffusione efortuna negli anni precedenti al 1822.

Pare, ad esempio, che le renne fossero già presenti inThe Children’s Friend, un piccolo libro per l’infanzia di au-tore sconosciuto pubblicato poco prima di A Visit from StNicholas e che Moore finì piuttosto arbitrariamente con

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l’attribuirsi. Ma, anche a trovare e riordinare i documentida cui si riesca a evincere chi per primo portò sulla paginale mutazioni che St Nicholas aveva registrato in terra ame-ricana negli ultimi decenni, non si riuscirebbe comunque astabilire in modo troppo circostanziato in quale occasione,in quale ricorrenza, dopo quale episodio di preciso questicambiamenti si siano verificati all’interno del molle, etero-geneo e fertilissimo corpus sociale che era la New York diquel periodo. Come per tutte le leggende che si rispettino,la scintilla del Big Bang, il vero momento aurorale di San-ta Claus (la barba si fa bianca, la figura longilinea inizia agonfiarsi, il cavallo partorisce otto renne, il carro si trasfor-ma in una slitta…) è destinato a conservare una grossa per-centuale di insondabilità.

Se con il libro di Irving e la filastrocca di Moore SantaClaus, al pari dei suoi predecessori, si poteva considerareprovvisto di un’anima sempre più definita (e invocabile damigliaia di adepti o semplici simpatizzanti), il corpo delpersonaggio – vale a dire l’apparato iconografico capace didargli una dimensione visiva e quindi una sicura riconosci-bilità – mancava. È vero, nei versi di Moore si parla di un«piccolo vecchio arzillo e vivace», «vestito di pelliccia»,con gli occhi che «brillavano», le «guance rubiconde», il«naso a ciliegia», «la barba bianca come la neve», la «pan-cia rotonda», la pipa in bocca. Ma la slitta è una «slitta inminiatura», le renne «otto minuscole renne» e St Nick ar-riva nella casa del narratore calandosi giù per il camino. Diconseguenza, ancora sprovvisto di un’immagine visivacondivisa, il Santa Claus di Moore potrebbe benissimo es-sere un folletto, uno spirito silvano, un personaggio che siallontana sì dall’austera dimensione dei vescovi orientalima è ancora troppo vicino alle creature fantastiche dei mi-ti e delle leggende nordeuropee, come del resto testimonia

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l’illustrazione di F.O.C. Darley per A Visit from St Nicho-las, un disegno tanto celebre (era una delle prime rappre-sentazioni grafiche in cui del san Nicola cristiano non re-stava più traccia) quanto transitorio, destinato a venire asua volta seppellito da nuove versioni di Santa Claus.

Se Washington Irving e Clement Clark Moore raccolse-ro il febbrile lavoro di rielaborazione che la società new yor -ke se aveva compiuto su Santa Claus tra XVIII e XIX secoloper scagliarla come un sasso contro la vecchia icona del ve-scovo di Mira – in modo che il “doppio” si separasse dallapropria massa originaria acquistando finalmente vita auto-noma – toccò a Thomas Nast, probabilmente il più celebrevignettista americano dell’Ottocento, conferire a BabboNatale un volto e una fisionomia capaci di resistere nel tem-po, almeno fino a quando Haddon Sundblom, per contodella Coca-Cola, non scaverà nell’immagine del portatore didoni le stimmate di una paurosa definitività.

A partire dal 1863 Nast iniziò a produrre una serie didisegni natalizi per «Harper’s Weekly» in cui Babbo Nata-

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le appariva già molto simile al futuro testimonial dellaCoke. Nast era di origini bavaresi, ma nel dare una fisio-nomia a Santa Claus cercò di sbarazzarsi di quanto offrival’immaginario nordeuropeo con una forza uguale e contra-ria a quella che lo portava a integrarsi nel suo paese d’ado-zione. Niente folletti, dunque, niente gnomi o spiriti deiboschi: il suo Babbo Natale era finalmente un uomo tra al-tri uomini (un cittadino americano più cittadino degli altri,probabilmente), un grosso e gioviale signore barbuto ve-stito di rosso che – pur ricordando il padre dello stesso Nast,suonatore di trombone nell’esercito bavarese imbarcatosicon la famiglia molti anni prima su un bastimento per New

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York – era certamente più vicino a un desiderio di benes-sere, di felicità, di spreco che gli Stati Uniti sentivano or-mai alla loro portata e che la mole, la “prossimità pur nel-la magia”, la dimensione fisica del nuovo elargitore di do-ni rendeva quasi tangibile. Alle caratteristiche che abbia-mo visto, venne ad aggiungersi in questo periodo la resi-denza polare di Santa Claus – una circostanza suggeritadalla slitta e dalle renne, certo, ma forse anche da un desi-derio di conquista che porterà qualche anno dopo RobertPeary a piantare la bandiera a stelle e strisce al centro delcontinente artico.

I disegni di Thomas Nast ebbero un successo travol-gente e contagioso. Santa Claus iniziò a venire riprodottosulle milioni di Christmas cards che viaggiavano da un latoall’altro degli Stati Uniti con l’approssimarsi del Natale,trovò spazio sui libri per bambini, divenne parte di unmeccanismo commerciale su vasta scala (fece il suo ingres-so nei grandi magazzini e dunque cominciò a sfilare per laFifth Avenue come sulle strade principali dei paesini diprovincia, prestò il nome ad aziende di giocattoli – laNorth Pole Home of Santa’s Workshop, per esempio) chelo portò rapidamente a diventare il personaggio-chiave delNatale americano.

In questo modo, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio delNovecento uno spettro si aggirava per l’America, era vesti-to di rosso ma non aveva niente a che fare con la furia bol-scevica che nel Vecchio Continente si illuse di poter cam-biare il mondo in dieci giorni. Il miracolo che questo spet-tro riuscì a compiere consistette invece nel diffondersi tratutti i gruppi etnici e sociali che formavano gli Stati Uniti,dai quali venne accolto a braccia aperte, a dispetto delledifferenze di razza, di ceto, di opinione politica, di prove-nienza geografica. Ereditando in una situazione completa-

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mente nuova la funzione iniziatica di san Nicola, BabboNatale contribuì dunque all’impresa di realizzare l’integra-zione culturale dei nuovi arrivati – tutta nel segno del be-nessere nel mondo dei consumi – i quali sperimentavanoun passaggio di status decisivo: da ex schiavi, o immigratitedeschi o olandesi o italiani o irlandesi, a partecipi, tuttiquanti insieme (pure da blocchi di partenza in certi casilontanissimi, minati da discriminazioni che avranno ancoramolto tempo avanti a sé prima di cominciare ad attenuar-si), del sogno americano.

Raggiunta una simile dimensione, un simile valore e unatale forza, era evidentemente necessario che la figura diSanta Claus trovasse una collocazione ancora più stabile.Se XVIII e XIX secolo lo avevano prima staccato dalle sueorigini e poi rafforzato in una nuova identità, serviva ades-so una patina di vernice impermeabile, un’armatura scin-tillante che avrebbe dovuto impedirgli di candidarsi a nuo-vi cambiamenti consentendogli così di reiterare il suo mes-saggio in una dimensione circolare, ipnotica, tautologica,infinita – il passato non esiste mentre il presente si candidacome l’unica dimensione narrativa consentita. A tutto que-sto, come detto, provvederà la Coca-Cola.

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Con la fine della seconda guerra mondiale non sarà so-lo la Coca-Cola a realizzare in pieno la propria vocazioneinternazionale. Il medesimo destino toccherà infatti a San-ta Claus.

Il piano Marshall ha ricostruito l’Europa, ma è stato an-che lo strumento attraverso il quale il Vecchio Continenteha saggiato in casa propria l’esito di un esperimento intra-preso pochi secoli prima al di là dell’oceano. I puristi del-la parola Heimat hanno guardato con angoscia a quegli an-ni, leggendoli come il principio di uno stupro culturaleperpetrato dagli Stati Uniti a danno dell’Europa. Ma, piùche di una gigantesca opera di colonizzazione (o peggio, diaggressione), si può parlare forse di un riflusso inevitabile,un movimento di ritorno. Il caso di Santa Claus, ad esem-pio, può assimilarsi con qualche grossolanità a quello di unfiglio che, mandato all’estero per molti anni, viene riaccol-to in casa da genitori che con sconcerto riconoscono a ma-lapena il sangue del proprio sangue.

Così come accadde per la Coca-Cola, l’ingresso di San-ta Claus in Europa subito dopo la fine della guerra fu salu-tato con sospetto se non con vero e proprio allarme. Negliambienti ecclesiastici e in quelli che ancora sognavano lasupremazia mondiale del Vecchio Continente perlomenosul piano culturale, la diffusione di Santa Claus venne con-

siderata una minaccia. Tra i vari episodi di “resistenza”, ilpiù importante (quanto meno a livello simbolico) rimanequello riportato anche da Lévi-Strauss nel suo piccolo maprezioso saggio Babbo Natale giustiziato.

Si tratta di un fatto di cronaca verificatosi in Francia nel1951, su cui la stampa e l’opinione pubblica ebbero mododi dibattere a lungo. Il successo con cui anche in terra tran-salpina Santa Claus andava diffondendosi togliendo gra-dualmente la scena a figure di più lunga tradizione fu inter-pretato come un sintomo della paganizzazione delle festi-vità natalizie. La Chiesa protestante si unì una volta tantoalle gerarchie cattoliche tuonando contro una coabitazione(quella del 25 dicembre) per descrivere la quale si ricorrevasempre più frequentemente alla metafora del cuculo cheoccupa un nido altrui a scopi usurpativi. La polemica si ri-scaldò con l’avvicinarsi del Natale e sulle pagine dei giornalivennero accolte le opinioni più disparate – i lettori, in par-ticolare, si dimostrarono generalmente ostili alle posizioniecclesiastiche, a testimonianza di come la penetrazione diSanta Claus nel tessuto sociale fosse stata rapida.

È interessante notare come protestanti e cattolici, divisisecoli prima sull’affaire san Nicola, si ritrovassero uniti neltentativo (vano) di ricacciare almeno fuori dai confini nazio-nali la sua più riuscita mutazione. La loro crociata fu porta-ta avanti con tanta veemenza che il 24 dicembre dello stessoanno la cattedrale di Digione fu teatro di un evento che sem-brò la parodia involontaria dei roghi medioevali. Duecento-cinquanta bambini vennero fatti radunare davanti al cancel-lo della chiesa, dove un pupazzo di Babbo Natale fu primaimpiccato, poi trascinato sul sagrato e qui bruciato pubbli-camente come eretico. Al termine dell’esecuzione venne dif-fuso un comunicato in cui, tra le altre cose, si diceva che: «Inrappresentanza di tutte le famiglie cristiane della parrocchiadesiderose di lottare contro la menzogna, duecentocin-

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quanta bambini, raggruppati davanti alla porta principaledella cattedrale di Digione, hanno bruciato Babbo Natale.Non si è trattato di un evento spettacolare ma di un attosimbolico. Babbo Natale è stato sacrificato in olocausto. Lasua menzogna non risveglia nei bambini alcun sentimentoreligioso e non può considerarsi in nessun caso educativa[...]. Per noi cristiani la festa del Natale è e deve rimanere laricorrenza che celebra la nascita del Salvatore».

A seguito di questa iniziativa la città si spaccò in due. Sa-crificato davanti alla cattedrale, Babbo Natale venne fatto“resuscitare” il giorno dopo nel municipio. Sembrava inquesto modo che Santa Claus potesse diventare lo spartiac-que di una battaglia ideologica tra pensiero laico e pensieroreligioso, ma la polemica sulla legittimità della sua presen-za in Europa era destinata a diventare sempre più un argo-mento per intellettuali che si sfidano a colpi di fioretto sulterreno dell’antropologia, della filosofia, della teologia dalmomento che, divisi dalle opinioni sulle cose ultime o dai

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loro sottoprodotti, tutti quanti (fedeli, laici, atei, agnostici,chierici bianchi o rossi o neri…) sarebbero stati investiti edunque accomunati da un altro movimento “di riflusso”, dicui i nuovi miti (Babbo Natale in pole position) non eranoche gli alfieri: il benessere irruppe fragorosamente nel Vec-chio Continente dopo l’evento bellico (Lévi-Strauss, sem-pre a proposito dell’“esecuzione” del 1951 davanti alla cat-tedrale di Digione, dice che «da circa tre anni» l’attivitàeconomica in Francia era tornata normale, ma nel giro dipoco tempo avrebbe cominciato a marciare al ritmo for-sennato che darà a Roland Barthes gli elementi per scriveree pubblicare, nel 1957, Miti d’oggi), e con il benessere s’im-piantò anche da noi il complicato apparato produttivo, tec-nico, estetico, mitografico che aveva fatto degli Stati Unitila punta di diamante del nuovo pensiero occidentale.

Di conseguenza, certo, in Francia, in Italia, in Germaniasi poteva continuare a discutere su Babbo Natale, ma risul-tava sempre più difficile considerarlo un invasore o un cor-po estraneo, perfettamente inserito com’era nella logica cheportava questi paesi a produrre Citroën DS e motorini Piag-gio, a scoprire le gite fuori porta e le vacanze estive, ad ac-cendere i primi televisori, a farsi conquistare da Hollywood,a dimenticare il lied o la canzone napoletana affidandosi aiquattro quarti del rock’n’roll. Anno dopo anno, insomma,discutere su Babbo Natale diventava sempre più un eserci-zio di autocoscienza. Un esercizio a cui, secondo Lévi-Strauss, avrebbero partecipato paradossalmente persino irappresentanti del mondo cristiano nell’episodio di Digione.

«La Chiesa», scrive Lévi-Strauss sempre in Babbo Nata-le giustiziato, «non ha torto quando denuncia, nella cre-denza di Babbo Natale, il più solido bastione e uno dei piùattivi focolai del paganesimo nell’uomo moderno [...]. Re-sta da sapere se l’uomo moderno non possa difendere an-ch’egli i suoi diritti nell’essere pagano». E poi, rintraccian-

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do dietro l’origine nicolaiana di Santa Claus un’origine an-cora più antica – i Saturnali, come già abbiamo visto –,l’antropologo francese conclude in questo modo: «il re deiSaturnali è a sua volta l’erede di un prototipo antico che,dopo aver impersonato per un mese il re Saturno ed esser-si permesso ogni eccesso, veniva solennemente sacrificatosull’altare del Dio. Nell’autodafé di Digione, ecco dunquericostruito l’eroe con tutti i suoi caratteri [...]. Volendo di-struggere Babbo Natale, il clero digionese non ha fatto al-tro che restituire nella sua interezza, dopo un’eclisse diqualche millennio, una figura rituale».

Dallo scontro si passò quindi all’assimilazione. L’Olan-da e la Finlandia, per esempio, cercarono di saltare sul car-ro del vincitore e rivendicarono la paternità di Babbo Na-tale cercando di sfruttare come cassa di risonanza gli stessimedia che ne avevano segnato la fortuna negli States – mariferendosi non ai folletti o agli spiriti dei boschi della lorotradizione bensì alla versione esportata in tutto il mondoda Haddon Sundblom. In altri paesi, riconosciuta l’origineamericana di Santa Claus, i vecchi portadoni sopravvisse-ro in una dimensione sempre più marginale. È il caso del-la nostra Befana, nata probabilmente sulle ceneri di Dianae dei culti della fertilità, diffusasi soprattutto nell’Italiacentro-meridionale durante il Medioevo e alla quale Bab-bo Natale concesse perlomeno la subalternità – un destinosimile toccò ai Krampus della tradizione tirolese, ai topinibianchi dei villaggi sul Reno, all’Hoteiosho di origine nip-ponica e così via. Allo stesso modo di quanto sarebbe ac-caduto per il cinema e la musica popolare, le province del-l’Impero sperimentarono la fruizione di miti e prodotti se-condo una logica binaria. Locale e globale, vale a dire, ini-ziarono a correre in parallelo – una corsa che, nel tempo,sarebbe diventata sempre più impari.

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Sbaragliata la concorrenza, conquistato il mondo interoanche grazie al fatto di incarnare in modo neppure troppolatente la tematica della protezione e della gratificazioneassolute (ovvero, due tra i capisaldi del pensiero occiden-tale contemporaneo), Babbo Natale è diventato un puntodi riferimento talmente solido e scontato da essere ormaiun tema sul quale esercitare un’infinità di variazioni. Libri,film, fumetti, canzoni e altri prodotti della nostra cultura

(anche di quella antagonista) non hanno più la forza diesercitare su Santa Claus una funzione di vera contamina-zione. O, meglio, la figura di Santa Claus è un elemento or-mai “centrale” della nostra cultura, così consunstanziale alsistema che degnamente rappresenta il fatto che su di essaè solo possibile svolgere un lavoro di interpretazione. Se,come abbiamo visto, fino ai primi decenni del Novecento

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ci troviamo davanti a un aggregato ancora sufficientemen-te magmatico da poter venire fecondato, plasmato, “cor-retto” da una filastrocca di grande successo, da un roman-zo, da una campagna pubblicitaria, oggi sarebbe necessa-rio un cambiamento epocale, qualcosa che scuota le fon-damenta della nostra civiltà per candidare Santa Claus aun’ulteriore metamorfosi e soprattutto per mettere in di-scussione un ruolo elargitivo che neanche la più ardita al-

legoria sulla potenza e sulla pervasività della produzioneindustriale riuscirebbe a eguagliare.

Celebrato dalla cultura mainstream o “detournato” daquella antagonista, arruolato dalla letteratura popolare (ifumetti, ad esempio, dall’italiano Dylan Dog di “Chi haucciso Babbo Natale?” alle più note rivisitazioni di Disney,Marvel e DC Comics, una tra tutte lo scontro con l’alienoultraviolento Lobo dal quale il Vecchio con la slitta vienesottoposto alle sevizie più penose), ingaggiato come prota-gonista per decine di film natalizi, Santa Claus emerge

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puntualmente da queste fiction rientrando nella sua ver-sione che ormai possiamo considerare “classica”, al pari diun grande attore la cui immagine non ha la minima possi-bilità di venire intaccata per più di una stagione dai ruolivolta per volta interpretati.

Se dunque su Babbo Natale è possibile compiere soltan-to un esercizio di esegesi, possiamo ricordare almeno duefilm del passato recente che meglio di altri prodotti sonoriusciti a mettere in luce aspetti interessanti (e inquietanti)della sua natura e del suo rapporto con la nostra società.

Il primo è Polar Express, uscito nelle sale di tutto il mon-do alla fine del 2004 e diretto da Robert Zemeckis avvalen-dosi della “performance capture”, una nuova tecnica checonsente di catturare appunto movimenti ed espressionifacciali di attori in carne e ossa per riversarli su personaggicreati al computer. Il risultato di questo ibrido tra “anima-zione” e “live action”, almeno nel caso di Polar Express, è unfilm dal respiro quasi epico, un’epica oscura e schiacciantein cui Babbo Natale viene mostrato in tutta la sua dimensio-ne di monarca assoluto, più “Piccolo Padre” che Re Sole.

Il Polar Express è un treno che porta al Polo Nord i mi-scredenti, ovvero quei bambini che (per arroganza o insi-curezza, o per qualunque altro motivo sia capace di allon-tanarli dalle convinzioni “rette” e “giuste” dei propri simi-li) si rifiutano di credere a Babbo Natale. Una volta che iprotagonisti giungono a destinazione, però, gli spettatoripiù scafati vengono subito colti dal sospetto che il “regnodi Babbo Natale” immaginato dagli autori del film sia unaversione infiocchettata e – non si capisce quanto volonta-ria – della Metropolis di Lang. Mai il rosso di Santa Clausaveva avuto sfumature tanto regali. Mai il suo mondo si eramostrato come un apparato totalitario fondato sulla tecni-ca e su una spettacolarità sincronica che porta i piccoli

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protagonisti a un’immediata conversione – un rientro neiranghi che fa gridare vendetta a tutti i Franti e i Lucignolidell’immaginario infantile – e gli spettatori adulti con unminimo di senso critico a domandarsi se “conservare losguardo incantato” (e poi, incantato su che cosa?) valga unconsenso senza condizioni, mentre gli elfi marciano quasial passo dell’oca e Santa Claus, distante e siderale come undio precristiano, saluta a braccio teso una folla adoranteche a certi critici ha ricordato le adunate oceaniche di No-rimberga e piazza Venezia.

Per alcuni osservatori Polar Express non è altro che ladeclinazione della favola di Santa Claus in chiave neocon –l’umiltà, la fede e la carità senza sfumature a cui i bambinivengono “educati” grazie all’incontro con questo GrandeVecchio sono parse troppo simili alla dottrina Bush. È pos-sibile tuttavia che il film celi una dottrina e un messaggio

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ancora più nascosti. La fede, l’umiltà, la carità, più che va-lori di approdo, svolgono un ruolo strumentale, sono cioèla chiave d’accesso (e il pretesto) per celebrare il mondocome uno strabiliante regalificio senza vie d’uscita, un ute-ro meccanico e spettacolare continuamente gravido, capa-ce di alimentarsi da sé grazie a un moto perpetuo dalla mi-steriosa scintilla scatenante, al pari di una rotativa ossessi-vamente accesa ventiquattr’ore su ventiquattro, gettando-ci nelle spire della quale senza più alcuna riserva diventa-no automaticamente inservibili anche tutti i valori che og-gi si illudono di poter governare o dare un senso al mondo(vengano essi dalla dottrina neocon, da quella liberal, dal-la morale cattolica, dalla teologia della liberazione, dal pro-gressismo laico di matrice europea…) per ottenere in cam-bio una nuova, ineffabile quanto spaventosa, promessa diimmortalità.

Ed è qui che entra in gioco il secondo film. Si tratta delNightmare before Christmas di Tim Burton. Se Polar Ex-press dà l’idea di un lapsus tragico e abissale sul mondo in

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cui viviamo (al pari della pubblicità della Telecom firmatada Spike Lee), Tim Burton, con la macabra gentilezza cheha reso inconfondibile la sua poetica e con il suo struggen-te amore per tutti i dark sides dell’esistente, riesce a sugge-rire le motivazioni profonde che stanno dietro il carnevaleconcentrazionario di Zemeckis. Il colpo di genio di Burtonconsiste nell’aver immaginato Halloweentown (ovvero ilregno dei morti) e il paese di Babbo Natale (il nostro mon-do) come due universi paralleli, legati l’uno all’altro da unalegge di complementarità cosmica ma – e qui, vedremo, lalucida analisi dei nostri tempi – suscettibili di venire incontatto tra loro con risultati sempre più traumatici.

Quando infatti Jack Skellington, il re delle zucche, l’in-nocente scheletro di Halloween, scoperta una porta di ac-cesso tra i due mondi, decide di “invadere” il regno diBabbo Natale sostituendosi per un anno a Santa Claus nel-la distribuzione dei regali, genera sì terrore tra gli abitantidel mondo “reale”, ma dal terrore si passa subito alla vio-lenza: interviene prima la televisione a stigmatizzare il ge-

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sto e poi l’esercito, la contraerea, l’artiglieria pesante, chescaricando i propri missili sul povero re delle zucche (im-pegnato a solcare allegramente i cieli a bordo di una baratrainata da renne-scheletro) riesce infine ad abbatterlo.Giustizia è fatta: Skellington ritorna a Halloweentown eSanta Claus riprende posizione sul suo trono.

Viviamo in un mondo sempre più chiuso, sembra sugge-rire Burton, in cui ci si illude di liberarsi completamente dal-la morte, dalle potenze oscure, dal proprio stesso destinoutilizzando come esorcismo finale un gigantesco apparatomediatico-tecnologico. Non è un suggerimento da poco.Perché, proprio girando intorno alla dinamica messa in sce-na da Burton, indagandola, sezionandola, mettendola incontatto con i vecchi esorcismi contro le forze invernali èpossibile giungere al cuore del “problema Santa Claus”, ca-pire qual è il suo vero ruolo nel mondo in cui viviamo e, ri-percorrendo a ritroso tutte le sue precedenti incarnazioni,riconoscerlo come la manifestazione postmoderna di unproblema che ha a che fare con gli albori della nostra civiltà.

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12. In fine

È del giugno 2005 la notizia di un incredibile esperi-mento portato a termine con successo dall’Università diPittsburgh. Alcuni scienziati hanno provocato la cessazio-ne delle funzioni vitali in un gruppo di cani, svuotandoglile vene, sostituendo il sangue con una soluzione salina asette gradi centigradi. Poi, dopo tre ore di morte apparen-te – niente respiro né attività cardiaca, nessun segnale ce-rebrale – sono riusciti a invertire il processo. Il sangue èstato ripompato nel corpo delle bestie che, sollecitate conelettroshock e ossigeno per rimettere in moto cuore e pol-moni, hanno “ripreso a vivere” senza segni di danneggia-mento per gli organi vitali. Le prime sperimentazioni sugliesseri umani, dichiarano da Pittsburgh, potranno comin-ciare non prima del 2015.

Pur non potendosi parlare di reversibilità della mortecerebrale (nei cani le cellule dell’encefalo sono state per treore in una situazione di “addormentamento”, senza speri-mentare tuttavia quella necrosi che è ancora protetta dalcrisma del non ritorno), ciò che è accaduto a Pittsburgh –insieme a ciò che accade quotidianamente nei più sofisti-cati laboratori scientifici del pianeta – desta il consuetosentimento contrastante di euforia e spavento. E costringechi può alle ratifiche dell’Erode di Oscar Wilde, il quale inSalomè, di fronte alla notizia di un Messia capace di resu-

scitare gli uomini, afferma sconcertato: «Gli si dica, così hadisposto Erode il re: “Io non ti concedo di resuscitare imorti”. Cambiare l’acqua in vino… guarire i ciechi e i leb-brosi… egli può fare queste cose se gli aggrada. Ma resu-scitare i morti… Sarebbe terribile se i morti ritornassero».

Se l’intelligenza collettiva delle multinazionali potesseesprimersi tramite un solo portavoce, se i fotogrammi de-gli spot pubblicitari mostrassero per un attimo il proprionegativo, se la volontà di potenza della scienza e della tec-nica spezzasse la propria circolarità in nome dello spaven-to supremo che le ha dato vita, verrebbero espresse le stes-se parole di Erode in Salomè. Con una semplice ma fonda-mentale differenza: a suscitare sconcerto non sarebbe l’ef-fettiva possibilità di una resurrezione, ma il ritorno dei

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morti inteso come pensiero, sospetto, sentimento della fi-ne – un sentimento, un sospetto, un pensiero che si crededi poter cancellare o rimuovere per sempre grazie alla for-za dell’apparato tecnico, produttivo, scientifico, mediaticoche oggi domina il mondo occidentale. Un tentativo che,

come detto nel capitolo precedente, è reso molto bene dal-la scena di Nightmare before Christ mas in cui Jack Skel-lington viene abbattuto dalla contraerea nella vana speran-za che ricacciarlo in Halloweentown (ovvero, depennaredalle nostre teste il sentimento della fine) significhi richiu-dere per sempre la soglia che collega il mondo dei vivi – ilregno di Santa Claus – a quello dei defunti.

Quando abbiamo detto che la Coca-Cola, arruolandoSanta Claus come testimonial, non si limitò ad aggirare unalegge che proibiva di produrre materiale pubblicitario incui venissero mostrati under 12 mentre bevevano la bibitama cristallizzò nella sua estetica un vero e proprio spiritoguida, non ci riferivamo solo al desiderio di incrementare lapropria “potenza di fuoco” – un desiderio che certamentemuoveva gli uomini di Atlanta mentre sognavano un futu-ro in cui la Coke, a imitazione dell’ubiquità del Vecchio conla slitta, fosse presente in tutti i luoghi del pianeta. Adotta-re Santa Claus significava anche fare proprio (da veri adep-

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ti) un messaggio sulle cose ultime di cui il portadoni stavadiventando una delle più compiute incarnazioni. Questomessaggio, appunto, dice: «Non morirete più».

Nei capitoli precedenti abbiamo ripercorso la storia del-la Coca-Cola prendendo la multinazionale di Atlanta comemodello di una determinata logica aziendale. L’abbiamodescritta come una struttura dominata da un’ansia per lasopravvivenza – e per la conquista di sempre maggiori spa-zi di manovra – che sembra quasi lo spostamento su altrifronti della lotta per la prosecuzione della specie. Proprioin ragione di questo “spostamento”, abbiamo creduto dipoter dire che le multinazionali non hanno nel loro codicegenetico un necessario amore per i paesi che le ospitano,così come non riconoscono (se non come sponde su cuigiocarsi la partita) nell’etica o nella morale dominante unostacolo insuperabile. In poche parole siamo arrivati ad af-fermare, rischiando la retorica, che le aziende di grosse di-mensioni tendono per loro natura a riconoscere nell’uomouna funzione puramente strumentale, non un fine ma unelemento necessario alla propria sopravvivenza. Per tra-sformare gli uomini in consumatori e i consumatori in “fe-deli”, abbiamo visto che le industrie si avvalgono di narra-zioni di grande suggestione – ciò che è stato definito “crea-zione del fantasma” o del “doppio ectoplasmatico”. Ma,questo il punto, al di là del valore d’uso degli oggetti chepure conserva un’importanza, la fidelizzazione dei consu-matori, il nostro lasciarci affascinare e sedurre da un pro-dotto commerciale, quell’ineffabile sensazione di gratifica-zione e protezione che ci si insinua quando volenti o nolen-ti pensiamo al sistema delle merci, non prende le mosse dalprodotto in sé, ma dalla sua “aura”, dal “fantasma”, dallanarrazione che lo circonda e di cui, più che essere espres-sione, la merce rappresenta il medium, la porta di accesso.

Ora, i vari tipi di “fantasma” che circondano i prodotti

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commerciali di largo consumo, seppure distinguibili tra diloro come altrettante divinità di un singolare pantheon po-stcristiano (il carattere o la poetica della Coca-Cola presen-ta delle differenze rispetto a quello della Nike, di Versace,di McDonald’s…), condividono lo stesso messaggio difondo – «non morirete mai» –, un messaggio che trova nel-la funzione distributiva di Santa Claus un’espressione su-prema: se non sovraordinata sicuramente riassuntiva.

Qual è, bisogna domandarsi allora, il vero senso del do-nare che, giunto all’apice con Santa Claus, caratterizza anchele sue precedenti incarnazioni? Marcel Mauss, nel suo cele-bre Saggio sul dono, analizzando le dinamiche che regolanotutta una serie di società preindustriali, ci insegna che ele-mosine, potlatch, banchetti nuziali, alienazioni di oggettisenza immediato corrispettivo non sono propriamente attigratuiti e nello stesso tempo si allontanano dal modello clas-sico dello scambio a fine di lucro. Il dono vincola chi lo rice-ve – un vincolo sociale ma anche magico, esoterico. L’ogget-to donato in determinati contesti arcaici ha cioè un suo par-ticolare “valore” capace di tenere invisibilmente in contattoelargitore e beneficiario, col risultato di rafforzare tutta unaserie di legami, e di obblighi, che contribuiscono alla buona

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conservazione del corpus sociale – ma questa promozione diben determinati rapporti interpersonali, riletta da alcuni in-terpreti di Mauss come la base di una possibile convivenzaalternativa rispetto a quella fondata sull’utilitarismo dell’Oc-cidente avanzato, è destinata a dissolversi quando l’atto deldonare si inscrive nell’universalità, di conseguenza nell’ano-nimato, del sistema a cui fa capo Santa Claus.

A maggior ragione, non sono atti gratuiti i doni scambia-ti in occasione di quelle celebrazioni tramite cui si cercava,nelle società antiche, di esorcizzare la potenza mortifera del-le forze invernali. Abbiamo visto come la festa di san Nico-la (e le sue successive declinazioni premoderne, come la fe-sta degli Innocenti) nasca sulle ceneri delle feriae precristia-ne – ancora una volta i Saturnali che, in prossimità del sol-stizio d’inverno, utilizzavano lo scambio di doni, lo spreco,lo scatenamento orgiastico, il sovvertimento temporaneo

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dei ruoli per ingraziarsi le forze ultraterrene così da favorireil buon esito dei raccolti (Saturno è il dio dell’agricoltura) e,dunque, la sopravvivenza dell’intera comunità.

Santa Claus, sull’operato del quale la gratuità è smenti-ta dalle stesse pubblicità di Sundblom che vedono la di-stribuzione di regali premiata dai suoi destinatari in modoquasi tautologico con un ulteriore oggetto di consumo (na-turalmente una bottiglia di Coca-Cola, che il vecchio beveavidamente per ristorarsi dalle proprie fatiche), presentanella sua festa molti elementi di contatto con i grandiosiolocausti – più o meno codificati, più o meno trasformatiin feriae o liturgie – delle società antiche, ma ha pure la ca-ratteristica di rivolgersi a una precisa categoria sociale: ibambini. Si potrebbe pensare che in questo caso il donoabbia il semplice scopo di incoraggiare l’obbedienza deipiù piccoli, premiati annualmente in ragione della lorobuona condotta. A questo tuttavia si unisce un elementopiù nascosto. Chi dice infatti che i bambini abbiano dirit-to a un premio quando magari per esercitare una forzapreventiva basterebbe un apparato sanzionatorio?

Lévi-Strauss, sempre in Babbo Natale giustiziato, oltrealla già citata parentela coi Saturnali, ha creduto di rin-tracciare più di una somiglianza tra la distribuzione dei do-ni operata da Babbo Natale e le elargizioni a favore deibambini presenti nei rituali di alcune civiltà primitive o co-munque preindustriali. In particolare Strauss prende inesame il mito dei “katchina”, diffusosi presso gli indianiPueblo sin dai tempi in cui queste tribù si trasferirono neivillaggi a sud-ovest degli Stati Uniti.

I katchina sarebbero gli spiriti dei bambini annegati neifiumi nel corso delle migrazioni ancestrali i quali, a ricor-renze periodiche, tornano a minacciare i Pueblo. Si tratta diuna visita dall’oltretomba; per esorcizzarla, la tribù di pelle-rossa escogitò una messa in scena: gli adulti, travestiti da spi-

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riti dei morti, terrorizzavano o premiavano i bambini del vil-laggio nel corso di danze rituali che, oltre ad avere il compi-to di cacciare i katchina, rappresentavano per i più piccoli(che non avevano la possibilità di riconoscere, sotto il trave-stimento, i propri genitori) una prova iniziatica. Nel compli-cato gioco di specchi tra gli adulti-travestiti e i bambini, que-sti ultimi, afferma Lévi-Strauss, sono non-iniziati, cioè non

sono ancora entrati nel consesso sociale ma, proprio perquesto, si possono considerare anche dei super-iniziati. Ibambini, vale a dire, nella finzione rituale – assorbendo e ri-flettendo il travestimento degli adulti – rappresenterebberoi morti. Sono loro i veri strumenti di comunicazione con l’al-dilà. I doni di cui sono destinatari svolgono allora un ruolodi scambio, servono cioè a placare le forze sotterranee, a ri-cacciare periodicamente gli spiriti dei defunti nel loro regno– spiriti con i quali, tuttavia, pur nell’ambito della “messa inscena”, esiste ancora un incontro ravvicinato.

Lévi-Strauss porta altri esempi (le questue nell’Inghil-terra fino al XVIII secolo, per dirne uno) in cui le categorie

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presociali, donne e bambini, intrattengono con gli iniziatiscambi di simile significato. Forse il caso che viene in men-te con più facilità è quello di Halloween, la festa di Ognis-santi nel corso della quale i bambini, travestiti da spiriti deimorti, girano di casa in casa, ricevendo dai vivi-adulti i pic-coli doni simbolici che serviranno a rispedire le loro rap-presentazioni nell’oltretomba almeno per un altro anno.

Con la nascita di Santa Claus questo esorcismo subisceun cambiamento epocale. Interrottosi il confronto ravvici-nato tra vivi e morti, il compito di distribuire i doni, di pla-care gli spiriti dei defunti, di annichilire il sospetto, la sen-sazione, il pensiero della fine viene affidato a un mediato-re. A un simbolo, vale a dire, a uno spirito, a una mitologia.È come se gli adulti a un certo punto abbiano firmato unadelega che li solleva dall’avere rapporti troppo intimi conThanatos, affidando il “lavoro sporco” a un monopolistavestito di rosso i cui poteri (ubiquità, capacità pressoché il-limitata di disporre dei frutti dei nostri sistemi produttivi)sembrano far impallidire le caratteristiche presenti nei por-tatori di doni delle epoche passate.

Nella notte di Natale, allora, ci sono effettivamente duefigure in concorrenza tra di loro, investite di una missioneche si propongono di portare a compimento da posizioni econ strumenti decisamente diversi – la nascita del dio cri-stiano, che offre vita eterna attraverso la morte carnale; labattaglia di Santa Claus contro la morte carnale, combat-tuta attraverso una totalitaria distribuzione di regali. Qua-le tra questi due sistemi per confrontarci (o per rimuovere)il sentimento della fine sia oggi più praticato è sin troppoevidente. Resta solo da ricordare che Santa Claus è un per-fetto simbolo del nostro apparato tecnico, produttivo, me-diatico. Affidando a lui il compito di neutralizzare il senti-mento della fine, non facciamo che rimettere le nostre spe-ranze di amnesia sulla mortalità nel sistema che governa la

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società in cui viviamo – quella che oggi potremmo tropposemplicisticamente chiamare globalizzazione. Babbo Na-tale è dunque lo spirito del capitalismo avanzato. All’esor-cismo contenuto nella distribuzione di regali di cui è indi-scusso protagonista si rifanno, con sfumature diverse, pra-ticamente tutte le narrazioni scaturite dall’attività delle im-prese postmoderne (prima tra le altre, come abbiamo vi-sto, la Coca-Cola). È curioso allora che l’uccisione del diocristiano secondo Nietzche, agevolata dal senso di prote-zione offertoci dal progresso tecnico e scientifico in antite-si al terrore millenario dell’uomo di fronte alla wildernessdello stato di natura, anziché portarci ad affrontare con lu-cidità la circostanza della nostra finitudine, ci spinga versoun nuovo rifiuto dell’irreversibile, una rimozione ottenutaproprio attraverso l’apparato che avrebbe dovuto essere,secondo le previsioni del filosofo tedesco, lo strumentodella nostra emancipazione. La sensazione è che quanto piùla rimozione si fa profonda tanto più la dimensione dell’e-sorcismo è costretta a crescere in potenza e pervasività.

«Non morirete mai!», dice Babbo Natale attraversandosulla slitta gli scacchieri delle nostre città e ricevendo con-ferme dai movimenti delle presse negli opifici, dagli impul-si delle antenne radiofoniche e televisive, dall’insonnia del-le rotative tipografiche, dalle turbine delle centrali elettri-che, dai codici binari dei calcolatori elettronici. E tuttavia,disseppellendo l’istanza disperata che si cela dietro questomessaggio benaugurale, facendosi spazio a fatica tra le luci,i colori, il traffico, le carte da regalo, spingendoci nell’oc-chio del ciclone che alimenta il movimento orgiastico dellanotte di Natale, è possibile riuscire a cogliere un lapsus, unsovvertimento, forse anche un’ancora di salvezza: un rifles-so da lemure sulla giubba di Santa Claus e, nel suo messag-gio, l’anagramma dopomoderno del memento mori.

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Nota bibliografica

Sulla Coca-Cola

Imprescindibile è il lavoro monumentale di Mark Pendergast ForGod, Country and Coca-Cola: The Definitive History of the GreatAmerican Soft Drink and the Company That Makes It, attualmentepubblicato negli Stati Uniti da Basic Books e apparso anche in Italianel 1993 da Piemme con il titolo Per Dio la Patria e la Coca-Cola. Im-portanti sono anche The Real Thing: Truth and Power at the Coca-Cola Company, di Costance L. Hays, pubblicato da Random House(2004); The Sprankling Story of Coca-Cola, di Gyvel Young-Witzel eMichael Karl Witzel, pubblicato da Voyageur Press (2002); Il mitoCoca-Cola, di Jean-Pierre Keller, pubblicato in Italia da Lupetti(1986); Una storia del mondo in sei bicchieri, di Tom Standage, pub-blicato in Italia da Codice (2005).

Su San Nicola/Santa Claus

Tra le tante fonti disponibili, sono state prese in esame: San Nico-la di Bari, di Gerardo Cioffari (edizioni San Paolo, 1988); Da San Ni-cola a Santa Claus. Un’indagine antropologica, di Elvira S. Tiberini(Bagatto Libri 1987); San Nicola il barese, di Ignazio Schino (Schena1993); San Nicola è amante dei forestieri, di Franco Sorrentino (Edi-zioni Giuseppe Laterza 1997); La storia di Babbo Natale, di CarloSacchettoni (Edizioni Mediterranee 1996); Storia e leggende di Bab-bo Natale e della Befana, di Claudio Corvino e Erberto Petoia (New-ton Compton 2004); Babbo Natale giustiziato, di Claude Lévi Strauss(Sellerio 2002); The Night Before Christmas: A Visit from St Nicholas,di Clement C. Moore (Harcourt Children’s Books 2003); The Auto-biography of Santa Claus, di Jeff Guinn (Tarcher 2003).

Sui temi più generalmente legati alla società dei consumi

Tra i vari testi tenuti presenti dall’autore, meritano una menzioneparticolare: Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle so-cietà arcaiche, di Marcel Mauss (Einaudi 2002), Lo scambio simboli-co e la morte, di Jean Baudrillard (Feltrinelli 1979), Il sogno dellamerce, sempre di Baudrillard (Lupetti 2002), Miti d’oggi, di RolandBarthes (Einaudi 2004), Dialettica dell’illiuminismo, di MaxHorkheimer e Theodor W. Adorno (Einaudi 1997), Il godimento co-me fattore politico, di Slavoj Zizek (Raffaello Cortina 2001); Il grandealtro. Nazionaliso, godimento, cultura di massa, sempre di Zizek (Fel-trinelli 1999); L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecni-ca, di Walter Benjamin (Einaudi 2000), Massa e potere, di Elias Ca-netti (Adelphi 2004); Il popolo bambino. Infanzia e nazione dallaGrande Guerra a Salò, di Antonio Gibelli (Einaudi 2005); Stanze, diGiorgio Agamben (Einaudi 1993).

NOTA BIBLIOGRAFICA150

Indice

BABBO NATALE

1. Santa Claus: l’impossibilità di diventare adulti 9

2. Coca-Cola, anno XLV (1931) 16

3. Morte e rinascita di un commesso viaggiatore 27

4. San Nicola: agiografia di un uomo d’azione 43

5. L’anima e il corpo della bibita 55

6. San Nicola alla conquista dell’Europa 67

7. La svastica sul logo 74

8. Martin Lutero contro san Nicola 88

9. La conquista della Terra 96

10. Uno spettro si aggira per l’America 110

11. Christmas before Nightmare 125

12. In fine 137

Nota bibliografica 149

Collana «Le terre»

25. David Denby, Grandi libri, traduzione di Lucia Olivieri.

26. Valentino Zeichen, Ogni cosa a ogni cosa ha detto addio. (2a ed.)

27. Tim Page, Dawn Powell. Una biografia, traduzione di ChiaraVatteroni.

28. Alessandro Zaccuri, Citazioni pericolose. Il cinema come criticaletteraria.

29. Claudio Damiani, Eroi.

30. Michele Lauria, L’Amante Assente. (2a ed.)

31. Camillo Langone, Cari italiani vi invidio.

32. Gabriella Sica, Poesie familiari. (2a ed.)

33. John Fante, Sto sulla riva dell’acqua e sogno. Lettere a Mencken(1930-1952), introduzione di Michael Moreau. Traduzione diAlessandra Osti.

34. Gore Vidal, La fine della libertà. Verso un nuovo totalitarismo,traduzione di Laura Pugno. (3ª ed.)

35. Richard Stengel, Breve storia della piaggeria, traduzione di DanieleBallarini.

36. Tommaso Orsini, Quintodecimo. I sogni dei fanatici, i paradisidelle sette.

37. Seamus Heaney, Beowulf, a cura di Massimo Bacigalupo. Con unsaggio di John R.R. Tolkien. Con testo inglese a fronte. (Poesia)

38. Joel Dyer, Raccolti di rabbia, traduzione di Pietro Meneghelli.(Interventi)

39. Anton La Guardia, Terra Santa, guerra profana, traduzione diNazzareno Mataldi. (Interventi)

40. Nafeez Mosaddeq Ahmed, Guerra alla libertà. Il ruolo del -l’amministrazione Bush nell’attacco dell’11 settembre, traduzione diPietro Meneghelli. (Interventi) (3a ed.)

41. Roberto Galaverni, Dopo la poesia. Saggi sui contemporanei.(Scritture)

42. Pier Luigi Celli, Breviario di cinismo ben temperato, presenta-zione di Domenico De Masi. (Scritture)

43. Filippo Tuena, La passione dell’error mio. Il carteggio di Michelan-gelo. Lettere scelte 1532-1564. (Scritture)

44. Gore Vidal, Le menzogne dell’impero e altre tristi verità. Per-ché la junta petroliera Cheney-Bush vuole la guerra con l’Iraq e al-tri saggi, traduzione di Luca Scarlini e Laura Pugno. (Interventi)(3a ed.)

45. Philippe Beaussant, Anche il Re Sole sorge al mattino. Una gior-nata di Luigi XIV, prefazione di Giuliano Ferrara. Traduzione di Lau-ra Pugno. (Scritture)

46. Alessandro Spaventa - Fabrizio Saulini, American Lies. Ascesa ecaduta della Enron. (Interventi)

47. Ekkehart Krippendorff, L’arte di non essere governati. Politica eticada Socrate a Mozart, traduzione di Vinicio Parma. (Pensiero)

48. Dag Tessore, La mistica della guerra. Spiritualità delle armi nel cri-stianesimo e nell’islam, prefazione di Franco Cardini. (Civiltà)

49. Jacques Allaman, Cecenia. Ovvero, l’irresistibile ascesa di VladimirPutin, traduzione di Giuliano Cianfrocca. (Interventi)

50. Antonio Monda, La magnifica illusione. Un viaggio nel cinemaamericano. (Scritture)

51. Nafeez Mosaddeq Ahmed, Dominio. La guerra americana all’I-raq e il genocidio umanitario, traduzione di Thomas Fazi, AndreinaLombardi Bom, Nazzareno Mataldi, Pietro Meneghelli, VincenzoOstuni e Isabella Zani. (Interventi).

52. Mario Gamba, Questa sera o mai. Storie di musica contemporanea.(Scritture)

53. Christopher Hitchens, Processo a Henry Kissinger, traduzione diMarco Pettenello. (Interventi)

54. James Wilson, La terra piangerà. Le tribù native americane dalla

preistoria ai nostri giorni, traduzione di Alberto Bracci Testasecca.(Civiltà)

55. Baruch Kimmerling, Politicidio. Ariel Sharon e i palestinesi, tra-duzione di Elisa Bonaiuti. (Interventi)

56. Colm Tóibín, Amore in un tempo oscuro. Vite gay da Wilde adAlmodóvar, traduzione di Pietro Meneghelli. (Scritture)

57. Robert Nozick, Invarianze. La struttura del mondo ogget tivo, in-troduzione di Sebastiano Maffettone. Traduzione di Gianfranco Pel-legrino. (Pensiero)

58. Manlio Dinucci, Il potere nucleare, prefazione di Giulietto Chie-sa. (Interventi)

59. Rita Di Giovacchino, Il libro nero della Prima Repubblica, prefa-zione di Massimo Brutti, con un’intervista a Giovanni Pellegrino. (In-terventi) (2a ed.)

60. Clyde V. Prestowitz, Stato canaglia. La follia dell’unilateralismoamericano, traduzione di Irene Floriani. (Interventi)

61. Will Hutton, Europa Vs. USA. Perché la nostra economia è più effi-ciente e la nostra società più equa, prefazione di Guido Rossi, con unsaggio di Massimiliano Panarari. Traduzione di Fabrizio Saulini. (In-terventi)

62. Gianfranco Fini, L’Europa che verrà. Il destino del continente e ilruolo dell’Italia, a cura di Carlo Fusi, prefazione di Giuliano Amato.(Interventi)

63. Thomas Cahill, Desiderio delle colline eterne. Il mondo prima e do-po Gesù, traduzione di Nazzareno Mataldi. (Civiltà)

64. William Blum, Il libro nero degli Stati Uniti, con un aggiornamen-to di Nafeez Mossadeq Ahmed. Traduzione di Giorgio Bizzi, MariaFausta Marino, Riccardo Masini, Chiara Vatteroni e Isabella Zani.(Interventi) (4a ed.)

65. Alessandro Spaventa - Fabrizio Saulini, Divide et impera. La stra-tegia dei neoconservatori per dividere l’Europa. (Interventi)

66. Gore Vidal, Il canarino e la miniera. Saggi letterari 1956-2000, po-stfazione di Claudio Magris. Traduzione di Stefano Tummolini.(Scritture)

67. James Bamford, L’orecchio di Dio. Anatomia e storia della NationalSecurity Agency, traduzione di Riccardo Masini. (In terventi)

68. Tariq Ali, Bush in Babilonia. La ricolonizzazione dell’Iraq, tradu-zione di Francesca Minutiello. (Interventi)

69. Klaus K. Klostermaier, Induismo. Una introduzione, traduzione diMimma Congedo. (Civiltà)

70. John H. Berthrong - Evelyn Nagai Berthrong, Confucianesimo.Una introduzione, traduzione di Marcello Ghilardi. (Civiltà)

71. Hilary Putnam, Fatto/Valore. Fine di una dicotomia e altri saggi, in-troduzione di Mario De Caro, traduzione di Gianfranco Pellegrino.(Pensiero)

72. Lapo Pistelli - Guelfo Fiore, Semestre nero. Berlusconi e la politicaestera, prefazione di Lucio Caracciolo. (Interventi)

73. Henri de Grossouvre, Parigi Berlino Mosca. Geopolitica del -l’indipendenza europea, prefazione di Pierre Marie Gallois. Traduzio-ne di Maura Posponi. (Interventi)

74. Jonathan Spence, Mao Zedong, traduzione di Loredana Baldinuc-ci. (Biografie)

75. Paul Johnson, Napoleone, traduzione di Ilaria Belliti. (Biografie)

76. Philip Jenkins, La terza chiesa. Il cristianesimo nel XXI secolo,prefazione di Franco Cardini. Traduzione di Pietro Meneghelli. (Ci-viltà)

77. Franco Ferrucci, Il teatro della fortuna. Potere e destino in Ma-chiavelli e Shakespeare. (Scritture)

78. Gore Vidal, Democrazia tradita. Discorso sullo stato del l’Unione2004 e altri saggi, traduzioni di Marina Astrologo, Giuseppina One-to e Stefano Tummolini. (Interventi)

79. Ekkehart Krippendorff, Critica della politica estera, prefazionedi Gian Giacomo Migone. Traduzione di Elisabetta Dal Bello.(Pensiero)

80. John Gray, Al Qaeda e il significato della modernità, postfazionedi Sebastiano Maffettone. Traduzione di Lorenzo Greco. (Pensiero)

81. Gret Haller, I due Occidenti. Stato, nazione e religione in Europa enegli Stati Uniti, con una postfazione dell’autrice all’edizione italiana.Traduzione di Francesca Febbraro. (Interventi)

82. Paolo Cacace, L’atomica europea. I progetti della guerra fredda, ilruolo dell’Italia, le domande del futuro, prefazione di Sergio Roma-no. (Interventi)

83. Richard Heinberg, La festa è finita. La scomparsa del petrolio, lenuove guerre, il futuro dell’energia, prefazione all’edizione italiana diAlfonso Pecoraro Scanio, prefazione all’edizione statunitense di Co-lin J. Campbell, prefazione dell’autore all’edizione italiana. Traduzio-ne di Nazzareno Mataldi. (Interventi)

84. Michele Lauria, Telekom Serbia, pupi e pupari, con la collabora-zione di Laura Trovellesi. (Interventi)

85. David Ray Griffin, 11 settembre. Cosa c’è di vero nelle “teorie delcomplotto”, prefazione all’edizione inglese di Michael Meacher, pre-fazione all’edizione statunitense di Richard Falk. Traduzione di Giu-seppina Oneto. (Interventi)

86. Nafeez Mosaddeq Ahmed, Guerra alla verità. Tutte le menzognedei governi occidentali e della Commissione “indipendente” USA sull’11settembre e su Al Qaeda, traduzione di Nazzareno Mataldi, PietroMeneghelli, Matteo Sammartino, Francesca Valente e Piero Vereni.(Interventi)

87. Franco Rella, Pensare per figure, Freud, Platone, Kafka, il postu-mano. (Pensiero)

88. Robert R. Reich, Perché i liberal vinceranno ancora, prefazione diWalter Veltroni, con un saggio di Massimiliano Panarari. Traduzionedi Francesca Minutiello. (Interventi)

89. Frances Stonor Saunders, La guerra fredda culturale. La CIA e ilmondo delle lettere e delle arti, postfazione di Giovanni Fasanella.Traduzione di Silvio Calzavarini. (Interventi)

90. Robert Pogue Harrison, Il dominio dei morti, postfazione di An-drea Zanzotto. Traduzione di Pietro Meneghelli. (Scritture)

91. Fausto Bertinotti - Lidia Menapace - Marco Revelli, Nonviolenza.Le ragioni del pacifismo. (Interventi)

92. Victoria Shofield, Kashmir. India, Pakistan e la guerra infinita, tra-duzione di Massimiliano Manganelli. (Storia)

93. El Hassan Bin Talal, Il cristianesimo nel mondo arabo, prefazionedi Carlo d’Inghilterra, prefazione all’edizione italiana del cardinale PioLaghi. Traduzione di Flavia Tesio Romero. (Civiltà)

94. Andrea Ricci, Dopo il liberismo. Proposte di una politica economi-ca di sinistra, prefazione di Luciano Gallino. (Interventi)

95. Valentino Zeichen, Passeggiate romane. (Poesia)

96. Bernard Williams, Genealogia della verità. Storia e virtù del dire ilvero, prefazione di Salvatore Veca. Traduzione di Gianfranco Pelle-grino.

97. Thomas Cahill, Giovanni XXIII, traduzione di Elisa Bonaiuti. (Bio-grafie)

98. Piero Sanavio, La gabbia di Pound. (Biografie)

99. Riccardo Bagnato - Benedetta Verrini, Armi d’Italia. Protagonistie ombre di un made in Italy di successo. (Interventi)

100. Klaus K. Klostermaier, Buddhismo. Una introduzione, traduzio-ne di Nicoletta Sereggi. (Civiltà)

101. James Miller, Daoismo. Una introduzione, traduzione di Marcel-lo Ghilardi. (Civiltà)

102. Walter Friedrich Otto, Le Muse e l’origine divina della parola edel canto, a cura di Susanna Mati. Postfazione di Franco Rella. Pre-messa di Giampiero Moretti. (Scritture)

103. Massimo Nava, Vittime. Storie di guerra sul fronte della pace, fo-tografie di Livio Senigalliesi. Prefazione di Claudio Magris. (Inter-venti)

104. Bernard Stiegler, Passare all’atto, prefazione di Roberto Esposi-to. Traduzione di Elena Imbergamo. (Pensiero)

105. Giulietto Chiesa, Cronache marxziane, a cura di MassimilianoPanarari. (Interventi)

106. Jean-Michel Valantin, Hollywood, il Pentagono e Washington. Ilcinema e la sicurezza nazionale dalla seconda guerra mondiale ai giorninostri, traduzione di Jacopo De Michelis. (Interventi)

107. Clement Leibovitz - Alvin Finkel, Il nemico comune. La collusio-ne antisovietica fra Gran Bretagna e Germania nazista, prefazione diChristopher Hitchens. Traduzione di Silvio Calzavarini. (Storia)

108. Leonard Peltier, La mia danza del sole. Scritti dalla prigione, a cu-ra di Harvey Arden. Prefazione di Ramsey Clark. Traduzione di Giu-liano Bottali e Sibilla Drisaldi. (Interventi)

109. Givanni Fasanella - Corrado Incerti, Sofia 1973: Berlinguer devemorire, prefazione di Giuseppe Vacca. (Interventi)

110. Daniele Ganser, Gli eserciti segreti della NATO. Operazione Gla-dio e terrorismo in Europa occidentale, prefazione di Giuseppe De Lu-tiis. Traduzione di Silvio Calzavarini. (Storia)

111. Dag Tessore, Introduzione a Ratzinger. Le posizioni etiche, politi-che, religiose di Benedetto XVI, postfazione di Bartolomeo I patriarcadi Costantinopoli. (Interventi)

112. R.W.B. Lewis, Dante Alighieri. Una biografia attraverso le opere,traduzione di Giueseppina Oneto. (Biografie)

113. La mente e la natura. Per un naturalismo liberalizzato, a cura di Ma-rio De Caro e David Macarthur, prefazione di Armando Massarenti.Traduzione di Lorenzo Greco e Gianfranco Pellegino. (Pensiero)

114. Gore Vidal, L’invenzione degli Stati Uniti. I padri: Washington,Adams, Jefferson, traduzione di Marina Astrologo. (Storia)

115. Ekkehart Krippendorf, Shakespeare politico. Drammi storici,drammi romani, tragedie, traduzione di Robin Benatti e FrancescaMaterzanini. (Scritture)

116. Thomas Cahill, come i greci fondarono l’Occidente, traduzione diGuido Lagomarsino. (Civiltà)

117. Michel Onfray, Trattato di ateologia. Fisica della metafisica, tra-duzione di Gregorio De Paola. (Interventi)

118. Nicola Lagioia, Babbo Natale. Dove si racconta come la Coca-Co-la ha plasmato il nostro immaginario. (Memi)

119. Paolo Zanotti, Il gay. Dove si racconta come è stata inventata l’i-dentità omosessuale. (Memi)

Finito di stamparenel mese di novembre 2005dalla tipografia Graffiti srl

Via Catania, 8 Pavona (Albano - Roma)per conto diFazi Editore

CAPITOLO 161