avv. procolo ascolese · p r e f a z i o n e l’esigenza di un processo penale sempre più rapido...

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AVV. PROCOLO ASCOLESE C O M P E N D I O D I C A S I E S P U N T I D I F E N S I V I N E L P R O C E S S O P E N A L E

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AVV. PROCOLO ASCOLESE

CC OO MM PP EE NN DD II OO DD II CC AA SS II

EE SS PP UU NN TT II DD II FF EE NN SS II VV II

NN EE LL PP RR OO CC EE SS SS OO PP EE NN AA LL EE

INDICE-SOMMARIO

Prefazione ……………........…………………………..…………………………… pag. 3 CASO N. 1: reato presupposto e dolo nel delitto di ricettazione....………....pag. 4 CASO N. 2: concorso di persone nel reato..............……………………. .....pag. 6 CASO N. 3: violazione degli obblighi di assistenza familiare.……………... pag.8 CASO N. 4: lesione personale e valutazione della prova documentale.........pag.10 CASO N. 5: reati tributari..............................…………………………….. .pag.12 CASO N. 6: favoreggiamento personale e reato impossibile..............……. .pag.14 CASO N. 7: omissione di lavori in edifici o costruzioni che minacciano rovina…...............................................................……………. pag.15 CASO N. 8: falsa testimonianza...........................................………………. pag.17 CASO N. 9: calunnia indiretta.................................………………………. pag.19 CASO N. 10: reati urbanistici e ambientali ………………………………... pag.21 CASO N. 11: truffa e concorso apparente di norme.………………………. .pag.23 CASO N. 12: detenzione, per fini di spaccio, di sostanza stupefacente...........pag.25 CASO N. 13: mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice e cause di giustificazione......................………………………. ..pag.26 CASO N. 14: maltrattamenti in famiglia....………..………………………. ..pag.28 CASO N. 15: valutazione della prova testimoniale nei reati contro l'onore, il decoro e la libertà morale...........…………………………. ..pag.30 CASO N. 16: ricettazione di titoli di credito.....................…………………. .pag.32 CASO N. 17: insolvenza fraudolenta................……………………………. ..pag.34 CASO N. 18: evasione..................................…….…………………………. ..pag.36 CASO N. 19: il dolo specifico nel reato di furto...…………………………. ..pag.37

P R E F A Z I O N E

L’esigenza di un processo penale sempre più rapido e snello, alla quale il Legislatore tentò di rispondere già a partire dalla radicale riforma del 1989, vede ridisegnata la figura dell’avvocato, spesso costretto a scelte procedurali irretrattabili e gravide di conseguenze per il proprio assistito.

Basti considerare le implicazioni che potrebbero derivare da un'opposizione a decreto penale di condanna, o i vantaggi che l'imputato potrebbe perdere rifiutando l'idea di riti alternativi quali l'applicazione della pena su richiesta delle parti.

Non sfuggirà, a questo punto, la fruibilità di un testo che tenti di rispondere all'esigenza, tutt'altro che infrequente nel giovane operatore del diritto, di attingere validi spunti difensivi, in vista di una rapida ed efficace valutazione del caso giudiziario sottoposto alla sua attenzione.

Questo volume, infatti, pur senza rinunciare a una trattazione estremamente sintetica dei casi in esso condensati, si propone di offrire una raccolta che si ritiene utile, sia sotto il profilo dell'aderenza del singolo caso alla realtà fattuale, sia sul piano dell'efficacia sortita, ai fini del giudizio, dai rilievi difensivi svolti.

Si tratta, pertanto, di casi potenzialmente idonei ad assumere valore paradigmatico, alla cui descrizione segue la relativa imputazione e la breve illustrazione delle ragioni giuridiche che inducono a propendere per l'assoluzione dell'imputato.

L'adozione di questo volumetto potrà, in sintesi, suggerire, in alcuni casi, la scelta del rito ordinario o, al limite, di quello abbreviato, dimostrando come gli esiti del processo possano dipendere dalla valorizzazione di elementi dimostrativi dello scarto fra il fatto storico e l'imputazione: il che impone una disamina particolarmente penetrante e capillare di quest'ultima, che, lungi dall'esprimere, sempre e comunque, apodittiche verità giuridiche, può risultare, talvolta, destituita di idoneo assetto argomentativo.

Avv. Procolo Ascolese

CASO N. 1 Alcuni pubblici ufficiali in divisa, notando un ciclomotore privo di targhetta in sosta presso un bar all'interno di un'area di servizio, chiedono ai numerosi operai sul posto a chi appartenga. Avvicinatosi ai pubblici ufficiali, Sempronio se ne dichiara proprietario. Risultando il veicolo oggetto di denuncia di furto, Sempronio viene accusato del delitto di ricettazione.

L'imputazione

imputato del delitto di cui all'art. 648 c.p., perché, al fine di procurarsi un profitto, acquistava o comunque riceveva un ciclomotore di illecita provenienza a lui nota, provento di furto.

LINEE ESSENZIALI DELLA DIFESA

Da controlli eseguiti presso la motorizzazione civile emerge la carenza di prova, prima ancora che dell’elemento psicologico del reato, dello stesso delitto presupposto, cioè della provenienza furtiva del ciclomotore trovato in possesso dell'imputato.

Per stabilire, infatti, se il veicolo in esame fosse proprio quello di cui era stato denunciato il furto, sarebbe stato necessario dimostrare la perfetta sovrapponibilità del relativo numero di telaio rispetto a quello impresso sul ciclomotore asportato al legittimo proprietario.

In base alle risultanze della motorizzazione civile, però, tale sovrapponibilità non può dirsi dimostrata nel caso di specie, se non in termini approssimativi.

Il codice impresso sul telaio di un ciclomotore, infatti, è composto da diciassette caratteri, di cui almeno otto ne consentono l'identificazione.

Un primo elemento di perplessità, quindi, in merito alla possibilità di ritenere il ciclomotore in esame oggetto di furto a danno di Tizio, è costituito dal numero di caratteri alfanumerici, pari a sei, da cui risulta composto il codice trascritto dai pubblici ufficiali.

Difetta, in altri termini, la prova della provenienza illecita del ciclomotore. Ma anche sotto il diverso profilo dell'elemento psicologico del reato, non se ne

può dire, nel caso di specie, dimostrata la sussistenza. Sul punto, è appena il caso di segnalare che, a sostegno della tesi accusatoria

della consapevolezza dell'imputato in ordine alla pretesa provenienza illecita del

ciclomotore in suo possesso, si pone l'accento sulla mancanza del contrassegno di identificazione nel caso in esame.

Nulla di più inesatto. L'asserzione accusatoria, infatti, prescinde del tutto dal considerare l’art. 249 del regolamento di esecuzione e di attuazione del nuovo codice della strada, secondo cui il contrassegno di identificazione, “in caso di trasferimento di proprietà […] rimane in possesso dell’intestatario che può conservarlo per apporlo su altro ciclomotore ovvero restituirla ad un Ufficio provinciale della Direzione generale della M.C.T.C. […]”.

Dovendo, quindi, la proprietà dei ciclomotori trasferirsi senza il relativo contrassegno di identificazione, non può la mancanza dello stesso nel caso di specie aver ingenerato nell'imputato anche solo il sospetto che si trattasse di ciclomotore di origine furtiva. Ad attenta analisi, anzi, è la presenza di detto contrassegno a rappresentare valido motivo di sospetto, non già la sua mancanza.

Non solo, quindi, mancano elementi idonei a dimostrare la sussistenza del dolo nel caso di specie, ma ci si trova in presenza di circostanze di segno opposto, che dimostrano il deficit assoluto dell'elemento psicologico tipico del delitto di ricettazione. Su questa direttrice, non può sfuggire, in particolare, il comportamento assunto dall'imputato al momento in cui il ciclomotore viene avvistato dai pubblici ufficiali: il suo avvicinamento a questi ultimi, infatti, porta il segno evidente del difetto assoluto di dolo in relazione all’ipotizzato delitto di ricettazione, giacché, se l'imputato fosse stato realmente consapevole della (pretesa, ma, per quanto esposto in precedenza, del tutto indimostrata) provenienza furtiva del veicolo, si sarebbe senz'altro astenuto dall’avvicinarsi ai pubblici ufficiali.

Tanto più quando si consideri che, non risultando modificato il numero del relativo telaio, non sarebbe stato arduo risalire al furto del ciclomotore: il che avrebbe senz'altro esposto colui che si fosse qualificato come proprietario del ciclomotore al rischio di una incriminazione sicura. Tutto ciò impone l'assoluzione dell'imputato, perché il fatto non sussiste o perché il fatto non costituisce reato.

CASO N. 2 I coniugi Sempronio e Lavinia sono entrambi proprietari di due immobili, su uno dei quali viene eseguito, in sopraelevazione, un manufatto abusivo di metri quadri ottanta. Deceduto Sempronio, autore materiale dell'illecita iniziativa edilizia, Lavinia è chiamata a rispondere dei relativi reati, sia in base alla sua qualità di coniuge, sia per l'accertata sussistenza del regime di comunione legale all'atto dell'acquisto immobiliare.

L'imputazione

imputata dei seguenti reati:

a) reato p. e p. dagli art.li 110 c.p. e 44, lett. c), D.P.R. 380/01, per avere iniziato, continuato ed eseguito, in concorso con Sempronio e in assenza di permesso di costruire, un manufatto di metri quadri ottanta, in sopraelevazione a un piano preesistente;

b) reato p. e p. dagli art.li 64 e 71, 65 e 72 D.P.R. 380/2001, per aver realizzato le strutture in cemento armato indicate nel capo che precede, non in base a progetto esecutivo, senza previa denuncia dei lavori all’ufficio del Genio Civile e senza la direzione dei lavori da parte di un tecnico competente;

c) reato p. e p. dagli art.li 83 e 95 del D.P.R. 380/2001 e 2 L. REG. 7/1/1983 n. 9, per avere eseguito i lavori relativi alle opere di cui al capo a) in zona sismica, omettendo di depositare, prima dell’inizio dei lavori, gli atti progettuali presso l’Ufficio del Genio Civile competente;

d) reato p. e p. dagli art.li 44 lett. C) D.P.R. 380/2001, in relazione all'art. 181 D.lgs. 42/04, per aver eseguito l'opera di cui al capo a) in area sottoposta a vincolo paesaggistico ambientale senza la prescritta autorizzazione di cui all’art. 146 D. L.gs 42/2004;

e) reato p. e p. dall’art. 734 c.p., per avere, mediante le opere di cui al capo a), distrutto o alterato le bellezze naturali dei luoghi soggetti alla speciale protezione dell’autorità ex D.L.vo n. 490/1999.

LINEE ESSENZIALI DELLA DIFESA

Il coinvolgimento dell'imputata nella vicenda in contestazione dipende da una visione distorta dei fatti e, prima ancora, del vincolo coniugale che la legava all'unico ideatore e autore materiale degli abusi edilizi.

Il nodo coniugale e, con esso, il regime di comunione legale dei beni vanno, infatti, considerati in rapporto agli aspetti che ne caratterizzano la genesi e la concreta gestione.

L'accusa, in realtà, finisce con l'enfatizzare, oltre ogni limite di accettabilità, circostanze che, non solo non costituisco una prova granitica a carico dell'imputata, ma neanche un quadro indiziario degno di rilievo.

Non basta, infatti, considerare il vincolo coniugale e il regime da cui lo stesso risulta regolato per sostenere che l'imputata sapeva, approvava e condivideva la condotta illecita dal marito.

Tanto più quando si consideri che, nel corso dei sopralluoghi ad opera della polizia municipale, l'imputata risulta assente e, quel che più conta, in modo perdurante, per avere la stessa fissata la propria dimora presso l'altro immobile di cui risultava, unitamente a Sempronio, proprietaria.

Non sarebbe corretto, in realtà, individuare un obbligo di impedire condotte lesive di beni giuridici, meritevoli di tutela in sede penale, a carico del coniuge dell'autore di tali condotte.

È la stessa giurisprudenza, infatti, sia pure implicitamente e sul diverso versante del traffico di sostanze stupefacenti, a fissare, al riguardo, un principio di carattere generale: “Non potendosi ravvisare per il coniuge convivente un obbligo giuridico di attivarsi per impedire i reati dell’altro coniuge, il solo comportamento omissivo non costituisce da solo segno univoco di concorso morale” .

Ma anche in materia di reati urbanistici, il Supremo Collegio sembra non lasciare spazio a dubbi di sorta: “in mancanza di prova di un concorso nella costruzione senza concessione edilizia, non è possibile far derivare la responsabilità per tale reato dalla mera qualità di cointestatario dell’immobile oggetto dei lavori”.

L'imputata va, quindi, assolta per non aver commesso il fatto.

CASO N. 3 Sempronio, separato dalla moglie, è obbligato a corrisponderle mensilmente una somma di denaro, per contribuire al mantenimento dei loro tre figli. Non sempre, però, la somma versata corrisponde a quella stabilita dal giudice in sede civile. Sempronio viene, quindi, denunciato per il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare in danno dei discendenti di età minore.

L'imputazione

imputato del reato previsto e punito dall'art. 570, cpv. n. 2), c.p., perché, omettendo di versare la somma stabilita in sede civile, faceva mancare ai figli minori i mezzi di sussistenza.

LINEE ESSENZIALI DELLA DIFESA Risulta che l'imputato versava in modo discontinuo l’assegno stabilito a favore dei suoi tre figli minori e che, quando il versamento avveniva, l'importo non sempre corrispondeva a quello indicato dal giudice civile.

Non va sottovalutata la pericolosità di accuse del genere quando le stesse, essendo, come nel caso di specie, inserite in un contesto di omissioni realmente verificatesi, tende, per ciò solo, ad apparire più credibile.

Occorre, quindi, recuperare il concetto secondo cui una determinata condotta omissiva non può ritenersi, sempre e comunque, fonte di responsabilità penale secondo lo schema previsto dall’art. 570 c.p.

Un'attenta lettura di tale norma incriminatrice ha, invero, indotto la Suprema Corte a chiarire che “la mancata corresponsione dell’assegno stabilito dal giudice civile non è sufficiente a dimostrare la responsabilità penale in assenza della prova che in ragione dell’omissione siano venuti meno ai familiari i mezzi di sussistenza”.

La dimostrazione dell’intervenuta carenza dei mezzi di sussistenza rappresenta, quindi, una sorta di canale necessario, prima di poter giungere ad affermare la penale responsabilità dell’imputato.

Occorre, quindi, dimostrare che, in conseguenza del mancato versamento, siano venuti a mancare ai figli minori i mezzi di sussistenza.

Ma, nel caso di specie, non vi è prova dell'intervenuta carenza di tali mezzi per effetto del discontinuo versamento della somma stabilita in sede civile da parte dell'imputato.

Risulta, infatti, che quest'ultimo si è sempre preoccupato di rispondere adeguatamente alle esigenze di vita dei figli minori, ancorché con modalità diverse dalla corresponsione dell'importo stabilito dal giudice in sede civile.

Le occasionali omissioni dell'imputato, quindi, vanno viste come espressive di temporanea difficoltà economica e, in ogni caso, non idonee a dar luogo a un vero e proprio stato di bisogno nei figli minori.

L'imputato va, pertanto, assolto perché il fatto non costituisce reato.

CASO N. 4 Sempronio viene aggredito da Tizio, che, sperando di poter costringere Sempronio a rimettere la eventuale querela, decide di querelarlo a sua volta, accusandolo falsamente quale autore di un'aggressione ai suoi danni, dalla quale Tizio non sarebbe neanche riuscito a difendersi. Nasce, quindi, un processo a carico di Sempronio, accusato del reato di percosse.

L'imputazione

imputato del reato di cui all'art. 581 c.p., per avere percosso Tizio.

LINEE ESSENZIALI DELLA DIFESA

L'interesse, mostrato da entrambe le parti, di accreditarsi quali vittime, piuttosto che quali autrici dell'ipotizzata aggressione, impone di privilegiare il dato documentale rispetto alla loro versione dei fatti.

Il referto medico dimostra, in particolare, quanto sia inverosimile il racconto di Tizio, secondo cui lo stesso fu aggredito dall'imputato, che non gli avrebbe consentito la benché minima difesa: se così fosse, infatti, l'imputato non avrebbe potuto riportare le lesioni risultanti da tale referto.

Quest'ultimo, del resto, offre indicazioni utili anche al fine di stabilire se le lesioni riportate dall'imputato siano frutto di azione volontaria o se, invece, possano dirsi derivate da azione involontaria.

Superfluo sottolineare l’importanza dell’indagine, avendo la sedicente persona offesa asserito di aver subito un'aggressione senza potersi difendere.

Orbene, la contusione al cuoio capelluto, riscontrata sulla testa dell'imputato, presuppone, evidentemente, un’azione volontaria, non potendo ritenersi riconducibile a movimenti riflessi della vittima di un'aggressione, ma a peculiare condotta attiva, come tale sorretta da coscienza e volontà.

Quando poi si consideri che l'imputato e Tizio, sotto il profilo della struttura fisica, sono agli antipodi, più esile essendo la sedicente parte lesa, più robusto, invece, l’imputato, si rivelerà tanto più agevole cogliere l’assoluta infondatezza dell’ipotesi di reato coltivata nei confronti di quest’ultimo.

Tale differenza fisica, infatti, rapportata all’entità delle lesioni subite dall'imputato, assume indubbia rilevanza ai fini del giudizio, non potendo un soggetto

esile, quale la sedicente persona offesa, se improvvisamente aggredito, determinare, a causa di un movimento involontario del corpo, una lesione al cuoio capelluto come quella riportata dall’imputato. Se ne impone, quindi, l'assoluzione perché il fatto non sussiste.

CASO N. 5 Sempronio, amministratore della società “RK” a r.l., operante nel settore della vendita di prodotti derivanti dalla macellazione di carne bovina, viene sottoposto a verifica fiscale, dalla quale nasce un processo penale per l'asserita macroscopica difformità fra i dati emersi in sede di verifica e l'ultima dichiarazione annuale relativa alle imposte sui redditi.

L'imputazione

imputato del delitto previsto punito dall'art. 4 del DLT 10/03/2000 n. 74, perché, al fine di evadere le imposte sui redditi, indicava nella dichiarazione annuale relativa a detta imposta elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo, risultando l'imposta evasa pari ad euro duecentocinquantamila/00 e l'ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all'imposizione superiore al dieci per cento dell'ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione.

LINEE ESSENZIALI DELLA DIFESA

Abolito il principio, contenuto nel previgente art. 21 legge n. 4 del 1929, della pregiudiziale tributaria, che subordinava l’esercizio dell’azione penale all’esito dell’accertamento da parte delle commissioni tributarie, il giudice penale è chiamato a subentrare pienamente in accertamenti, che, implicando la valutazione della correttezza dei parametri adottati dai verbalizzanti in sede di verifica, appaiono di particolare complessità. L'impostazione accusatoria in esame è caratterizzata da errori metodologici di non poco conto, il primo dei quali consiste nell'avere i verbalizzanti stabilito che, essendo stata rilevata, nel corso di un precedente accertamento a carico della stessa società, l'applicazione di una ricarica lorda media pari al 18%, anche la ricarica applicata successivamente si sarebbe attestata su tale percentuale. Sul punto, tuttavia, va rilevato come, a distanza di ben venticinque anni dal precedente accertamento, la percentuale di ricarico non possa ritenersi la stessa, trovandosi la società gestita dall'imputato in condizioni sociali e di mercato caratterizzate da realtà economiche e di concorrenza radicalmente diverse.

Nel lasso di tempo intercorrente fra il primo e il secondo accertamento, infatti, il numero delle aziende locali, operanti nel settore della macellazione di carne bovina, è

salito da 15 a 50, con conseguenze tutt’altro che trascurabili sul versante delle ripercussioni sortite sulla determinazione della percentuale di ricarico adottata, nei diversi periodi storici, dagli operatori del settore. Altro discutibile modus operandi è costituito dall'applicazione, nel caso di specie, della media semplice e non, invece, di quella ponderata, che tiene conto, diversamente dalla prima, delle diverse quantità e dei diversi prezzi praticati in relazione agli stessi prodotti. L'accusa, in altri termini, non tiene conto che, per esempio, a parità di prodotto, lo stato della carne da vendere, che poteva essere fresca ovvero congelata, avrebbe comportato una fisiologica diversità di prezzo. Così come, a parità di carne fresca, il prezzo di quella venduta in extremis, all’ultimo minuto, può essere significativamente diverso rispetto al prezzo di quella venduta in precedenza. Non solo. La percentuale di ricarico relativa alla vendita per conto proprio, infatti, risulta erroneamente estesa ai casi, tutt’altro che infrequenti, di vendita per commissione, da cui è derivato alla società in esame un guadagno, a titolo di provvigione, pari al 3% della somma complessivamente incassata. Non sempre, poi, l’operatore del settore in esame riesce a impedire il naturale deterioramento del prodotto e il conseguente mancato guadagno, di cui l'accusa non tiene conto. A tutto ciò si aggiunga, infine, che l'accusa in esame si incardina essenzialmente su un accertamento fiscale relativo ai cinque mesi dell'anno preso in considerazione, mesi che potrebbero essere i meno significativi sul piano dei guadagni: il che contribuisce a discreditare le risultanze di detto accertamento e, con esse, la fondatezza dell'accusa mossa all'imputato, il quale va conseguentemente assolto perché il fatto non costituisce reato.

CASO N. 6 In cambio di sostanza stupefacente di tipo cocaina, Sempronio consegna una banconota di euro 100,00 nelle mani di Tizio. Interrogato da alcuni pubblici ufficiali, che lo avevano sorpreso nell'atto di corrispondere detta somma di denaro, Sempronio, pur ammettendo di aver ricevuto la sostanza stupefacente, afferma di non averla pagata. A suo carico, quindi, nasce un processo per il reato di favoreggiamento personale.

L'imputazione

imputato del delitto di cui all’art. 378 c.p., per aver reso dichiarazioni false e reticenti alla P.G. che procedeva a carico di Tizio per il reato di spaccio di sostanze stupefacenti, volte ad aiutare Tizio, dal quale Sempronio aveva acquistato sostanza stupefacente, a eludere le investigazioni dell’autorità.

LINEE ESSENZIALI DELLA DIFESA Il caso di specie è giuridicamente inquadrabile nello schema, previsto dall’art. 49

c.p., del reato impossibile per inidoneità dell’azione, Il delitto di favoreggiamento di cui è chiamato a rispondere Sempronio, infatti,

benché non richieda, quale reato di pericolo, che la giustizia sia stata effettivamente fuorviata, si consuma solo se la condotta posta in essere dall’agente si riveli idonea ad agevolare l’autore di un illecito penale a eludere le investigazioni.

Tale idoneità appare del tutto carente nel caso di specie. Il delitto di cui all’art. 73 del D.P.R. 309/90, infatti, si configura anche se il

trasferimento della sostanza stupefacente sia avvenuto a titolo gratuito (Cass. 19.01.1984 n. 2171; Cass. 19.12.1996 n. 14329; Cass. 22.05.1987 n. 6563).

È di tutta evidenza, a questo punto, come le dichiarazioni rese dall'imputato si rivelino ab origine del tutto prive di determinazione causale nella produzione dell’evento. Si impone, pertanto, la sua assoluzione, perché il fatto non sussiste.

CASO N. 7 Sempronio si vede recapitare un'ordinanza sindacale con la quale gli vengono ordinati lavori urgenti da eseguirsi presso il condominio di cui è amministratore. Trascorsi sei mesi, alcun lavoro viene eseguito, ragion per cui Sempronio è chiamato a rispondere del reato di omissione di lavori in edifici o costruzioni che minacciano rovina.

L'imputazione

imputato del reato di cui all'art. 677 c.p., perché, in qualità di amministratore di un immobile, benché diffidato con ordinanza sindacale n. xxxxx, con la quale si imponeva l'eliminazione del pericolo derivante dalla vetustà degli intonaci di facciata, dei balconi e dei cornicioni del fabbricato, non provvedeva a eliminare tale pericolo.

LINEE ESSENZIALI DELLA DIFESA

Come risulta dai verbali di assemblea condominiale, l'imputato, ricevuta l'ordinanza sindacale, indice subito un'assemblea, nel corso della quale invita i condomini a prendere atto della necessità di provvedere all'esecuzione di lavori che consentano la tempestiva eliminazione del segnalato pericolo.

Ma molti condomini si mostrano subito riluttanti all'iniziativa suggerita dall'imputato, asserendo che gran parte dei lavori, riguardando parti del fabbricato rientranti nella loro sfera di proprietà esclusiva, non possono farsi rientrare nel novero di lavori di carattere condominiale. Si determina, a questo punto, uno stato di perniciosa stagnazione, anche per la mancanza di denaro sufficiente nelle casse del condominio. Nel corso dell'ennesima assemblea, inoltre, i condomini dichiarano a chiare lettere che ciascuno di loro provvederà autonomamente, esonerando da qualsiasi responsabilità l'amministratore, il quale si vedrà costretto a rassegnare le dimissioni, accolte con nomina di un nuovo amministratore.

Appare, a questo punto, evidente la carenza, nel caso di specie, dell'elemento psicologico del reato, che deve ritenersi incompatibile con l'impegno profuso dall'imputato nello sforzo di adempiere all'ordinanza sindacale.

I lavori da eseguire, del resto, riguardando anche porzioni di proprietà esclusiva, hanno finito, sotto tale profilo, col rappresentare ulteriore motivo di inibizione per l'imputato, venuto a trovarsi di fronte all'alternativa fra l'adempimento dell'ordinanza e il

sacrificio del diritto di proprietà dei singoli condomini, a causa della peculiare commistione fra interessi di singoli condomini e quelli generali del condominio.

Si impone, pertanto, l'assoluzione dell'imputato perché il fatto non costituisce reato.

CASO N. 8 Investito, Tizio viene trasportato in Ospedale, dove, medicato intorno alle ore 16.10, riferisce presso il drappello di polizia di essere stato investito. Caio viene, quindi, citato a giudizio per essere riconosciuto responsabile dell'accaduto e condannato, unitamente alla società “FG Assicurazioni”, al risarcimento dei danni arrecati all'infortunato. Nel corso del giudizio civile, viene escusso, in qualità di testimone oculare, Sempronio, il quale riferisce che l'incidente era avvenuto alle ore 18.00, mentre l'infortunato risultava medicato intorno alle ore 16.10, e che Tizio era stato investito da un'autovettura, mentre Caio aveva riferito di avere investito “il ragazzo con la moto”.

L'imputazione

imputato del reato di cui agli art.li 110 e 372 c.p., perché, deponendo quale testimone dinanzi al Tribunale nella causa civile promossa da Tizio contro Caio e la società “FG Assicurazioni”, affermava falsamente che l'incidente nel quale veniva coinvolto il predetto Tizio era avvenuto alle ore 18.00 e che il medesimo veniva investito da una autovettura, mentre lo stesso Tizio aveva riferito in ospedale di essere stato investito alle ore 16.00, e Caio aveva dichiarato presso il drappello ospedaliero della polizia di avere investito “il ragazzo con la moto”.

LINEE ESSENZIALI DELLA DIFESA

l'imputato viene escusso ben cinque anni dopo il sinistro sul quale doveva vertere la sua deposizione: circostanza, questa, che non può non incidere sul piano della coincidenza fra quanto realmente percepito e quanto ricordato, essendo il tempo, per il noto fenomeno psicologico della c.d. “latenza mnestica”, fattore di progressivo impoverimento della testimonianza.

Per quanto riguarda, invece, l'indicazione del tipo di veicolo dal quale l'infortunato era stato investito, non può sfuggire come, già nella lettera di messa in mora inviata a Caio e alla società assicuratrice dello stesso, Tizio aveva asserito di essere stato investito da un'autovettura mentre si trovava alla guida di un ciclomotore. Nel riferire di avere investito “il ragazzo con la moto”, Caio aveva, del resto, evidentemente utilizzato la preposizione “con” per introdurre, non già un complemento di mezzo, bensì un complemento di unione: Caio, in altri termini, intendeva dire “ho

investito il ragazzo che guidava la moto” e non, invece, “ho investito il ragazzo con la mia moto”.

Non può escludersi, quindi, sia per il notevole lasso fra il momento della percezione e quello della deposizione testimoniale, sia per la peculiare dinamica del sinistro, che la vicenda sia frutto di equivoco generato nel momento in cui Caio ebbe modo di descrivere l'accaduto presso il drappello ospedaliero della polizia.

Si impone, pertanto, l'assoluzione dell'imputato perché il fatto non sussiste.

CASO N. 9 Tizio, essendo sprovvisto di conto corrente, si fa consegnare da Sempronio, a titolo di cortesia, diversi assegni in bianco, da utilizzare nell'ambito dell'attività commerciale di cui è titolare, impegnandosi a versare sul conto di Sempronio l'importo di tali assegni, poco prima che gli stessi vengano negoziati. Ma, nonostante le rassicurazioni di Tizio, un assegno dell'importo di euro 500,00 viene posto all'incasso senza che sia stata prima depositata in banca la relativa somma di denaro. Nell'impossibilità di contattare Tizio per ottenere chiarimenti in merito all'accaduto e la restituzione degli assegni incautamente affidatigli, Sempronio decide di denunziare falsamente lo smarrimento dell'assegno n. xxxxxyyyyy di euro 500,00, in realtà consegnato in bianco, a titolo di cortesia, a Tizio.

L'imputazione

imputato del reato di cui all'art. 368 c.p., perché, con una falsa denunzia di smarrimento presentata presso il Comando Stazione dei Carabinieri, simulava a carico di Tizio, che sapeva innocente, le tracce del reato di ricettazione dell'assegno n. xxxxxyyyyy dell'importo di euro 500,00, titolo invece da lui regolarmente emesso e intestato a Tizio.

LINEE ESSENZIALI DELLA DIFESA

Secondo la costante giurisprudenza, denunciare falsamente lo smarrimento di un assegno, pur nella consapevolezza di averlo consegnato a qualcuno, configura il reato di calunnia c.d. “indiretta”, esprimendo la consapevolezza di esporre il prenditore e/o i successivi giratari del titolo al rischio di essere incriminati per il reato di furto e/o per quello di ricettazione. Deve, tuttavia, osservarsi che, in seguito alla modifica legislativa del regime di procedibilità del reato di furto non aggravato, lo stesso risulta perseguibile a querela ex art. 624, comma 3, c.p. Non può, a questo punto, sfuggire il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui il reato di calunnia non può ritenersi sussistente qualora la falsa incolpazione riguardi un reato punibile a querela della persona offesa che non l'abbia tempestivamente proposta (Cass. Pen., sez. VI, sent. n. 16644/1989, rv. 182679; n. 8142/1992, rv 191392).

Stando così le cose, non può non assumere decisivo rilievo, nel caso di specie, la mancata proposizione della querela. Vanno, inoltre, considerati i motivi per i quali l'imputato ha denunciato falsamente lo smarrimento dell'assegno n. xxxxxyyyyy di euro 500,00, giacché, pur risultando generalmente irrilevanti, i motivi che abbiano indotto l'agente alla falsa accusa “possono acquistare valore sintomatico ai fini della valutazione della prova dell'elemento soggettivo di tale reato” (Cass. pen., sent. 20.11.1991, in Cass. pen. 1993, 1406). L'imputato, in realtà, non aveva alcuna volontà di incolpare falsamente il prenditore del titolo e/o i successivi giratari per il delitto di furto e/o ricettazione, avendo agito solo al fine di porsi al riparo da rischio di un'ingiusta perdita economica. Non v'è nulla, del resto, che dimostri la coscienza e volontà dell'imputato di incolpare un innocente per il delitto di ricettazione, essendo emersa unicamente la volontà dello stesso di evitare che altri titoli, posti all'incasso, comportassero pagamenti non dovuti. La mancata proposizione della querela da parte dell'imputato dimostra, poi, l'assoluta mancanza di rappresentazione e volizione delle possibili conseguenze penali della sua condotta: se l'imputato, infatti, avesse voluto coscientemente provocare la nascita di un procedimento penale, avrebbe proposto formale istanza di punizione, mentre lo stesso si è limitato a denunciare lo smarrimento del titolo, che non comporta, in carenza di querela, la nascita di un procedimento penale per il delitto di furto. Difettano, in sintesi, elementi tali da accreditare l'ipotesi accusatoria che vuole l'imputato portatore di specifica coscienza e volontà dell'altrui falsa incolpazione: il che ne impone l'assoluzione, perché il fatto non costituisce reato.

CASO N. 10 Sempronio, senza aver chiesto il permesso di costruire o depositato una D.I.A., intraprende lavori lungo il perimetro di un manufatto, consistiti, all'atto di un sopralluogo da parte della locale polizia municipale, nella realizzazione di uno sbancamento. Posta l'area sotto sequestro, Sempronio è incriminato perché privo di titoli abilitativi.

L'imputazione

imputato dei seguenti reati:

a) reato p. e p. dall'art 44, D.P.R. 380/01, per avere iniziato, continuato ed eseguito, in assenza di permesso di costruire, uno sbancamento lungo il perimetro di un manufatto preesistente;

b) reato p. e p. dall'art. 181 D.lgs. 42/04, per aver eseguito l'opera di cui al capo che precede in area sottoposta a vincolo paesaggistico ambientale senza la prescritta autorizzazione di cui all’art. 146 D. L.gs 42/2004.

LINEE ESSENZIALI DELLA DIFESA

Quanto realizzato dall'imputato, così come risulta dal verbale di sequestro redatto dalla polizia municipale, può senz'altro inquadrarsi nel concetto di manutenzione straordinaria. Si tratta, quindi, di opere che non richiedevano il permesso di costruire.

Per quanto riguarda, invece, la normativa di carattere ambientale ai sensi del D.L.vo n. 42/2004, la stessa giurisprudenza di legittimità è ormai orientata a ritenere che, ai fini della configurabilità del reato previsto dal previgente163 D.L.vo n. 490/1999 e dall'attuale art. 181 D.L.vo n. 42/2004, non basta la realizzazione di interventi non autorizzati, essendo necessaria la loro idoneità a incidere negativamente sull'originario assetto dei luoghi sottoposti a protezione (Cfr. Cass. III, 26.04.1999 n. 5304, Zotti; sez. III, sent. 19761 del 29/04/2003, RV 224725).

Anche sotto questo profilo, quindi, lo sbancamento realizzato dall'imputato va ritenuto penalmente irrilevante, giacché lo stesso non costituisce in alcun modo pericolo per il paesaggio.

Si tratta, infatti, di un modesto sbancamento perimetrale, destinato, per sua natura e ubicazione, a essere prontamente rimosso a lavori ultimati.

Non emergono, del resto, elementi di segno opposto, che inducano a considerare l'opera in esame quale genesi di un più ampio e significativo intervento.

Si impone, pertanto, l'assoluzione dell'imputato perché il fatto non costituisce reato.

CASO N. 11 Tizio si vede citato a giudizio con la richiesta di risarcire i danni provocati all'autovettura di Sempronio in occasione di un sinistro verificatosi in un frangente in cui l'autovettura di Tizio si trovava in sosta presso un autofficina. Sempronio, pertanto, si vede querelato da Tizio per il reato di tentata truffa.

L'imputazione

imputato del reato di cui agli art.li 56 e 640 c.p., perché, con artifici e raggiri, consistiti nel denunciare un sinistro mai accaduto, inducendo in errore la compagnia di assicurazione “RX”, compiva atti idonei, diretti in modo non equivoco a procurarsi un ingiusto profitto, consistente nella somma di denaro richiesta a titolo di risarcimento dei danni alla summenzionata compagnia, con conseguente danno per la stessa e per l'assicurato.

LINEE ESSENZIALI DELLA DIFESA

Deve, innanzitutto, osservarsi come la condotta ascritta all'imputato, lungi dall'integrare gli estremi del reato di cui all'art. 640 c.p., vada piuttosto inquadrata nello schema della diversa norma incriminatrice di cui all'art. 642 c.p.

Nel caso di specie, infatti, la richiesta risarcitoria, essendo innanzitutto rivolta all'assicurato, appare del tutto inidonea a indurlo in errore, ben sapendo lo stesso di non avere mai cagionato un sinistro nella circostanza e secondo le modalità indicate dall'imputato. Anche a voler considerare, del resto, l'aumento del premio per l'anno successivo, quale effetto del declassamento assicurativo, si tratterebbe di un danno irrilevante, non essendo conseguenza di un atto di disposizione compiuto dal soggetto ingannato direttamente sulla sfera patrimoniale dell'assicurato. Del reato di truffa mancherebbero, pertanto, gli elementi costitutivi essenziali, dovendo, in ogni caso, la prestazione risarcitoria essere eseguita dalla compagnia di assicurazione.

In quanto rivolta, invece, all'assicurazione, la richiesta risarcitoria in esame si presta all'applicabilità, non già dell'art. 640 c.p., ma nella diversa norma di cui all'art. 642 c.p., che, a causa delle modifiche apportate dall'art. 24 della l. 12/12/2002 n. 273, prevede la punibilità di chiunque “...al fine di conseguire per sé o per altri l'indennizzo di una assicurazione [...] denuncia un sinistro non accaduto [...]”.

L'art. 642 c.p. costituisce, infatti, norma speciale rispetto a quella di cui all'art. 640 c.p., contenendo, oltre a tutti gli elementi costitutivi del reato di truffa, un elemento specializzante, costituito dallo scopo di tutela del patrimonio dell'assicuratore (Cnfr. Cass. 2506/2004).

Orbene, secondo la novella introdotta dall'art. 24 l. 12/12/2002 n. 273, in ordine al delitto di cui all'art. 642 c.p. “si procede a querela di parte” e, secondo la Suprema Corte, a prescindere dalla forma (semplice o aggravata) in cui il delitto possa essersi verificato (Cfr. Cass. 2506/2004).

Il diritto di querela è stato, inoltre, previsto a favore dell'assicuratore, alla tutela del cui patrimonio è dedicato l'art. 642 c.p.: il che impone, nel caso di specie, di dichiarare non doversi procedere nei confronti dell'imputato (naturalmente previa diversa qualificazione giuridica del fatto: art. 642 c.p., piuttosto che art. 640 c.p.), giacché la compagnia assicuratrice, venuta a conoscenza dell'accaduto, non ha poi provveduto a sporgere formale querela.

CASO N. 12 Sempronio viene trovato in possesso di gr. 15 lordi di sostanza stupefacente di tipo hashish presso una località di vacanza. Sequestrata la sostanza, Sempronio è chiamato a rispondere di detenzione della stessa per fini di spaccio.

L'imputazione

imputato del delitto di cui 73 del D.P.R. n. 309/1990, così come modificato dalla legge 21 febbraio 2006 n. 49, perché, senza autorizzazione e fuori dalle ipotesi previste dalla legge, illecitamente deteneva, per fini di spaccio, gr. 15 (lordi) di hashish.

LINEE ESSENZIALI DELLA DIFESA

A sostegno della formulata ipotesi accusatoria vi è il rinvenimento, all'interno dello zaino in possesso dell'imputato, di complessivi grammi 15 lordi di hashish.

La mancanza di altri elementi, tali da indurre a ritenere, in via prognostica, che si trattasse di sostanza detenuta per uso non esclusivamente personale, va considerata unitamente alla presenza di elementi di segno opposto, destinati ad accreditare l'uso personale dell'hashish in esame da parte dell'imputato: 1) la sostanza non risultava suddivisa in dosi; 2) non è stata rinvenuta alcuna somma di denaro; 3) non è stato rinvenuto alcun bilancino di precisione e/o altro strumento idoneo al confezionamento delle dosi.

Ma vi è un'altra circostanza, altamente liberatoria e assorbente ai fini del giudizio: al momento dell'accertamento, avvenuto in piena estate, l'imputato, pur risiedendo in provincia di Salerno, si trovava in Sicilia.

Tale circostanza, infatti, vista anche alla luce dell'assoluta incensuratezza del prevenuto, impone di ritenere che quest'ultimo si trovasse in Sicilia per trascorrervi le vacanze estive e che, quindi, la sostanza stupefacente dallo stesso detenuta rispondesse all'esigenza di un uso esclusivamente personale.

Si impone, pertanto, l'assoluzione dell'imputato perché il fatto non costituisce reato.

CASO N. 13 Lavinia vede fallire il proprio matrimonio con Tizio, dal quale aveva avuto una figlia. In sede di separazione, il Tribunale stabilisce che Tizio avrà diritto di vedere la bambina il mercoledì di ogni settimana. La madre, tuttavia, per ragioni legate al comportamento di Tizio, non gli consente più di vedere la figlia e viene, per questo motivo, denunciata per il reato di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice.

L'imputazione

imputata del delitto di cui all'art. 388, II° co., c.p., perché eludeva l'esecuzione del provvedimento emesso dal Tribunale, nella parte in cui lo stesso rendeva efficaci gli accordi di separazione concernenti le modalità di affidamento della figlia minore, impedendo al coniuge di incontrare e tenere la figlia minore secondo le modalità prescritte.

LINEE ESSENZIALI DELLA DIFESA

La vicenda è caratterizzata da elementi destinati a relegare la condotta ascritta

all'imputata nell'alveo delle scriminanti previste dagli art.li 51 e 54 c.p. In seguito alla separazione consensuale, infatti, la minore, probabilmente

rassicurata dalla lontananza del padre, riferiva alla madre di abusi sessuali dallo stesso perpetrati nei suoi confronti.

Le sconcertanti rivelazioni, già accreditate dal rinvenimento di alcune fotografie, troveranno conferma nei risultati dell'audizione della minore mediante incidente probatorio e in quelli della consulenza tecnica disposta dal Pubblico Ministero nell'ambito del relativo procedimento penale.

Superfluo, a questo punto, sottolineare la necessità, nell'interesse superiore della minore, di scongiurare il ripetersi di abusi dalle conseguenze facilmente immaginabili sul piano dell'integrità psico-fisica della bambina.

Delineatasi, quindi, l'esigenza di sacrificare il diritto del padre di incontrare la figlia minore, nasce, su ricorso della madre, un procedimento assegnato al Giudice Delegato del Tribunale per i Minorenni, avente ad oggetto la richiesta di porre la bambina al riparo dalla possibilità di eventuali abusi durante gli incontri col padre.

Intanto, in attesa che il Giudice Delegato si pronunci sul punto, il GIP, in accoglimento di specifica richiesta del Pubblico Ministero, emette ordinanza di

allontanamento dalla casa familiare a carico del padre, con cui vieta a quest'ultimo di incontrare o solo contattare la bambina.

Ma detto provvedimento restrittivo della libertà personale finisce col perdere la sua efficacia, per effetto di successiva ordinanza emessa dal Tribunale per il Riesame.

Al di là del breve lasso, pertanto, in cui la su indicata ordinanza di allontanamento dalla casa familiare rimane in vigore, il padre conserva nel tempo, nonostante l'innegabile gravità delle accuse formulate nei suoi confronti, il “diritto” di incontrare da solo la bambina.

Si spiega, conseguentemente, come la madre sia venuta a trovarsi di fronte all'alternativa fra il reato di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice e quello, ben più grave, che il coniuge avrebbe potuto commettere rimanendo solo con la bambina.

Sotto questo profilo, dunque, non sembra potersi dubitare della sussistenza, nel caso di specie, della scriminante prevista dall'art. 54 c.p.

Dello stato di necessità, in particolare, deve ritenersi senz'altro sussistente sia il pericolo attuale di un danno grave alla persona, essendo soggettivamente fondata la previsione del ripetersi degli abusi in danno della minore, sia il requisito dell'inevitabilità del pericolo, in carenza di provvedimenti dell'Autorità Giudiziaria idonei a scongiurarlo.

Quando poi si consideri che il fatto commesso dall'imputata a tutela della minore si presenta addirittura imposto da un peculiare dovere giuridico di assistenza di cui ciascun genitore è portatore nei confronti dei propri figli, apparirà di tutta evidenza l'applicabilità, nel caso di specie, non solo della scriminante prevista dall'art. 54 c.p., ma anche di quella contemplata dall'art. 51 c.p., nella parte relativa all' “adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica”.

Si impone, pertanto, l'assoluzione dell'imputata perché il fatto non costituisce reato.

CASO N. 14 All'esito di un alterco molto violento con la moglie Lavinia, Sempronio la percuote, provocandole lesioni personali. Dalla conseguente querela della moglie, nasce un processo penale che lo vede chiamato a rispondere dei delitti di lesione personale aggravata dal nesso teleologico e maltrattamenti in famiglia

L'imputazione

imputato: a) del delitto previsto e punito dagli art.li 81, 582, 585, 61 n. 2, c.p., perché, al fine di perpetrare il delitto sub b), con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, colpendo ripetutamente la moglie Lavinia, le cagionava lesioni personali giudicate guaribili rispettivamente in giorni 5 e in giorni 10; b) del delitto previsto e punito dall’art. 572 c.p., perché, con la condotta descritta al capo a) e nonché con sistematiche ingiurie, percosse e minacce, rendeva alla moglie Lavinia l’esistenza impossibile e la convivenza non più sostenibile.

LINEE ESSENZIALI DELLA DIFESA Risulta che la persona offesa dai presunti reati, pur avendo affermato in querela

e successivamente confermato di essere divenuta, in più occasioni, bersaglio di ingiurie e percosse ad opera dell'imputato, al quale era legata, all’epoca dei fatti, dal vincolo coniugale, ha, tuttavia, ammesso che tali condotte si verificavano con una frequenza tale da non rendere abitualmente insostenibile la convivenza con il marito.

I referti medici, del resto, accreditano la sporadicità delle riferite aggressioni, essendo intervallati da lunghi lassi: il che dimostra, in carenza di elementi di segno opposto, come gli episodi vessatori più significativi si siano alternati a lunghi periodi di tollerabile convivenza.

Tutto ciò impone di escludere senz’altro la sussistenza del delitto di cui all’art. 572 c.p., la cui configurabilità passa attraverso l’esistenza di un nesso di abitualità che leghi indissolubilmente i singoli atti di violenza.

Come chiarito dalla giurisprudenza, del resto, la condotta di sopraffazione caratterizzante il delitto di maltrattamenti in famiglia deve consistere in una serie di atti “sistematici e programmati” (Cass. Pen., Sez. III, 9 marzo 1998, n. 4752).

Ne deriva l’impossibilità di ritenere sussistente, nel caso di specie, la stessa aggravante contestata al capo a): comunque sia, infatti, anche a voler prescindere dalla mancata consumazione del reato-fine, difetta la prova che l’imputato volesse commetterlo.

Venuta meno la contestata aggravante ed essendo durata, rispettivamente, cinque e dieci giorni la malattia derivata dalle lesioni inferte alla parte lesa, la quale ha poi rimesso la querela sporta nei confronti dell'imputato, il reato di cui al capo a) dell’imputazione, previamente esclusa la contestata aggravante, deve ritenersi senz’altro estinto, in carenza della necessaria condizione di procedibilità.

Per quanto riguarda, invece, il reato di cui al capo b), si impone l'assoluzione dell'imputato perché il fatto non sussiste.

CASO N. 15 Per ragioni legate a cattivi rapporti di vicinato, si verifica un alterco fra Tizio e Sempronio, all'esito del quale quest'ultimo viene da Tizio querelato per i reati di lesione personale lievissima, ingiuria e minaccia.

L'imputazione

imputato: a) del reato p. e p. dall’art. 582 c.p., perché, colpendolo ripetutamente con calci

e pugni, cagionava a Tizio lesioni guaribili in giorni uno; b) del delitto di cui all’art. 594 c.p., perché ledeva l’onore e il decoro di Tizio,

proferendo al suo indirizzo le seguenti espressioni: “Imbecille, cretino”; c) del delitto p. e p. dall’art. 612 c.p., perché minacciava Tizio di un danno

ingiusto, dicendo: “Ti rompo la testa”.

LINEE ESSENZIALI DELLA DIFESA Sprovvisto di autonoma potenzialità dimostrativa, il solo referto medico,

ancorché non privo di qualche margine di suggestione, si rivela idoneo, al limite, ad attestare la sola sussistenza delle lesioni riscontrate, senza apportare alcun contributo sul piano dimostrativo della loro genesi.

La parola della persona offesa, poi, non potrebbe, sic et simpliciter, fare da ponte fra le risultanze di detto referto e la pretesa condotta illecita ascritta all'imputato, rivestendo il predetto testimone il ruolo di querelante, come tale portato a confermare in udienza il contenuto della querela, non fosse altro che per evitare i danni a cui si espongono i falsi denunziatori.

Tutto ciò, non consentendo di affermare dogmaticamente la credibilità della persona offesa, non autorizza, tuttavia, neanche a ritenerla inattendibile tout court, dovendosi valutare “in concreto” se possa il dictum ritenersi idoneo a trasmettere la conoscenza del fatto, attraverso un’attenta disamina di tutte le circostanze riferite dal querelante. Perfino le circostanze secondarie, infatti, secondo la giurisprudenza, possono rivelare la capacità a mentire del “teste - persona offesa”, imponendo la ricerca di elementi di controllo della sua accusa: “In tema di valutazione delle dichiarazioni della persona offesa, qualora il giudice accerti in base ad elementi acquisiti al processo, anche se non concernenti i fatti oggetto di imputazione, che la stessa sia un

soggetto incline alla descrizione di fatti non rispondenti al vero, le dichiarazioni non possono da sole costituire fondamento dell’accusa, specialmente quando siano prive del requisito dell’univocità, ma devono trovare una meditata ed attenta verifica o riscontro con riferimento a ognuno degli episodi descritti e integranti estremi di reato, senza che l’attendibilità di alcuni di essi determini l’automatica credibilità dell’intera deposizione” (Cfr. Cass. Pen., Sez. VI, 24 febbraio 1997, n. 4946).

Anche a voler prescindere dal considerare i motivi di malanimo e di rancore nei confronti del prevenuto, reo, nell’ottica della persona offesa, di averlo infastidito in più occasioni per futili motivi, il racconto della stessa appare non solo poco verosimile, ma anche in contrasto con altre risultanze processuali, e in particolare con la deposizione resa dall'altro teste dell'accusa, Caio.

In un primo momento, infatti, Caio ha dichiarato di aver conosciuto la parte lesa in occasione dei fatti oggetto del processo, non esitando, subito dopo, ad affermare di averla conosciuta molto tempo prima; poi, chiamato a fornire delucidazioni in merito a un grosso favore ricevuto dalla parte lesa, ha prima negato l'accaduto, per poi vedersi costretto ad ammetterlo, dimostrando, così, di aver mentito spudoratamente in precedenza. Da alcuni rilievi fotografici risulta, poi, un edificio ubicato fra il luogo da cui Caio avrebbe assistito all'aggressione e quello in cui la stessa si sarebbe verificata: il che non poteva consentirgli di assistere all'accaduto. L'imputato va, quindi, assolto perché il fatto non sussiste.

CASO N. 16

Sempronio, titolare di un calzaturificio, riceve, privo della firma di girata, l'assegno n. xxxxxyyyyy di euro 3.000,00 dalla società “FX”, a fronte di una fornitura di calzature. L'assegno, recante la firma di girata di Sempronio, viene da quest'ultimo consegnato nelle mani di un libero professionista, quale compenso per un'attività dallo stesso svolta nel suo interesse. Posto all'incasso, il titolo risulta di provenienza delittuosa, giacché rubato presso il deposito della ditta “HJ S.A.S.”. Sempronio è chiamato a rispondere del delitto di ricettazione.

L'imputazione

imputato del reato di cui all'art. 648 c.p., perché, al fine di trarne profitto, acquistava o comunque riceveva l'assegno n. xxxxxyyyyy della Banca zzzzz, dell'importo di euro 3.000,00, di illecita provenienza a lui nota in quanto denunziato smarrito da Tizio.

LINEE ESSENZIALI DELLA DIFESA

Costituisce elemento imprescindibile del dolo richiesto dall'art. 648 c.p. la consapevolezza della provenienza delittuosa di ciò che si è ricevuto. In caso di titolo di credito, in particolare, tale consapevolezza, che può anche non investire le circostanze di tempo, modo e luogo del reato presupposto, “può desumersi [...] dalla sua peculiare natura in quanto tale da ingenerare in persona di media levatura la certezza che la cosa non poteva essere legittimamente posseduta da chi la deteneva. Pertanto, si verifica tale situazione allorché si ricevano moduli di assegno bancario, poiché essi non sono in commercio e non possono essere ceduti se non dopo il loro riempimento da parte del titolare del relativo conto corrente” (Cfr. Cassazione penale, sez. II, 20 aprile 1998, Balzarotti). L'imputato risulta quale primo giratario dell'assegno di provenienza delittuosa: circostanza, questa, che, rapportata ad altri elementi, non può non escludere la sussistenza del dolo richiesto dall'art. 648 c.p. L'esperienza insegna, infatti, che colui il quale acquisti o riceva consapevolmente un assegno di provenienza delittuosa, per evitare si esporsi al rischio di un'incriminazione, si astenga, innanzitutto, dall'apporre la propria firma di girata sul titolo. L'imputato ha inoltre girato l'assegno in favore di un suo professionista di fiducia: il che contribuisce a escludere la consapevolezza in merito all'origine illecita del titolo, giacché il trasferimento dell'assegno a persone con le quali

si abbiano frequenti rapporti espone il ricettatore al rischio di essere facilmente identificato. Si impone, quindi, l'assoluzione dell'imputato perché il fatto non costituisce reato.

CASO N. 17 Sempronio, amministratore della società “QhJ” a r.l., consegna nelle mani di Tizio l'assegno di euro 5.000,00, a fronte dell'acquisto di beni strumentali. Successivamente, la società “QhJ” viene da Sempronio ceduta e, quindi, messa in liquidazione. Posto all'incasso, l'assegno di euro 5.000,00 non viene pagato. Su iniziativa di Tizio, nasce, a questo punto, un processo penale a carico di Sempronio, accusato del reato di insolvenza fraudolenta.

L'imputazione

imputato del reato di cui all'art. 641 c.p., perché, dissimulando il proprio stato di insolvenza, contraeva un'obbligazione col proposito di non adempierla, acquistando beni strumentali da Tizio, nelle cui mani consegnava l'assegno di euro 5.000,00, pur sapendo che lo stesso non sarebbe stato mai pagato.

LINEE ESSENZIALI DELLA DIFESA Difetta la prova certa dell’elemento psicologico richiesto dalla norma

incriminatrice in esame. La fattispecie di cui all’art. 641 c.p., infatti, si configura solo qualora la condotta

dell’agente sia presidiata dal proposito di non adempiere l’obbligazione fin dal momento della sua giuridica esistenza; e la prova di tale proposito non può desumersi da eventuali difficoltà sopravvenute da parte dell’inadempiente, anche se astrattamente configurabili con giudizio “ex ante”.

Non può, pertanto, non assumere decisivo rilievo, nel caso di specie, la circostanza che l'assegno privo di copertura, utilizzato in pagamento di beni strumentali forniti da Tizio, era stato emesso molto tempo prima che l'imputato cedesse la società “QhJ” a r.l.

Né può sfuggire come la merce acquistata da Tizio fosse stata, in precedenza, sempre e regolarmente pagata dall'imputato, il quale, del resto, poco prima di cedere la società “QhJ” a r.l., non si è sottratto al dovere di informare Tizio.

Non è rimasta, quindi, dimostrata la consapevolezza da parte dell'imputato di emettere l'assegno in esame col deliberato proposito di non pagare il relativo importo e in un momento nel quale poteva prevedersi la cessione e messa in liquidazione della società di cui lo stesso risultava amministratore.

Non può, dunque, ritenersi sufficientemente provata la sussistenza dell’elemento psicologico richiesto dall’art. 641 c.p.

Si impone, pertanto, l'assoluzione dell'imputato, perché il fatto non costituisce reato.

CASO N. 18 In esecuzione di un provvedimento emesso dal Tribunale di Sorveglianza, Sempronio veniva ammesso alla misura alternativa della detenzione domiciliare per la durata di anni due, con la prescrizione di non allontanarsi dalla propria abitazione, se non dalle ore 08.00 alle ore 10.00. Un giorno, rincasato sette minuti dopo le ore 10.00, Sempronio viene arrestato e processato con l'accusa di evasione.

L'imputazione

imputato del reato di cui all’art. 385 c.p., perché, essendo legalmente detenuto presso la propria abitazione, evadeva, non rincasando entro l’orario stabilito dal Tribunale di Sorveglianza.

LINEE ESSENZIALI DELLA DIFESA

Risulta che alle ore 9.30, l'imputato si imbatte in Tizio, che, alla guida di un'autovettura, gli chiede se voglia salirvi a bordo, per essere accompagnato a casa. Una volta accettato il passaggio, rimane coinvolto in un sinistro, a causa del quale si vede costretto a percorrere il restante tratto di strada a piedi, camminando lungo una via diversa e più lunga di quella che avrebbe percorso se non avesse accettato il passaggio offertogli da Tizio.

Tutto ciò relega il fatto-reato nell’alveo della causa di giustificazione prevista dall’art. 45 c.p., imponendo di ritenere che il ritardo in esame sia attribuibile a caso fortuito, dovuto all’azione combinata di fattori, quali la decisione di accettare il passaggio da Tizio e l'imprevedibile sinistro nel quale l'autovettura dallo stesso condotta è poi rimasta coinvolta, che legittimano l'assoluzione dell'imputato, perché il fatto non costituisce reato.

CASO N. 19 Alcuni pubblici ufficiali si portano presso la sede di una società sportiva, dove era stato segnalato un furto. Constatata la scomparsa di un orologio di cui Tizio si dice legittimo possessore, i pubblici ufficiali vengono avvicinati da Sempronio, che confessa di avere nascosto l'orologio in parola in un luogo non lontano, dove lo stesso verrà poi rinvenuto. Querelato da Tizio, Sempronio viene, quindi, chiamato a rispondere del delitto di furto.

L'imputazione

imputato del reato di cui all'art. 624 c.p., perché, al fine di trarne profitto per sé o per altri, si impossessava dell'orologio di marca XXX, sottraendolo a Tizio, che legittimamente lo deteneva.

LINEE ESSENZIALI DELLA DIFESA Risulta una circostanza assorbente ai fini del giudizio, che impedisce di

inquadrare il fatto nello schema giuridico della norma in esame: vale a dire che l’asportazione dell'orologio era avvenuta al solo fine di fare uno “scherzo” a Tizio, giocatore nella squadra di basket avversaria.

Del resto, il comportamento assunto dall'imputato in presenza dei carabinieri induce a ritenere che, effettivamente, la condotta posta in essere dallo stesso non fosse presidiata dal dolo specifico richiesto dall’art. 624 c.p., vale a dire dal “fine di trarne profitto per sé o per altri”.

Come chiarito dalla stessa Corte di Cassazione, “la sottrazione di un oggetto fatta con l'intento puramente scherzoso non può integrare l'ipotesi di furto, in quanto l'intento ioci causa, essendo incompatibile con il fine di trarre profitto, esclude il dolo specifico di detto reato” (Cfr. Cass. pen., Sez. II, 25/06/1991).

Si impone, pertanto, l'assoluzione dell'imputato perché il fatto non costituisce reato.