assistenza infermieristica al paziente in fase terminale · ruolo dell’infermiere pagina 85 10....
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Università degli Studi di Messina
Dipartimento di Economia, Sociologia, Matematica, Statistica
“V. Pareto” Sezione di Economia e Finanza
Facoltà di Medicina e Chirurgia
MASTER UNIVERSITARIO DI PRIMO L IVELLO IN
MANAGEMENT PER LE FUNZIONI DI COORDINAMENTO
NELLE PROFESSIONI SANITARIE
Direttore: Prof. Giuseppe Sobbrio
Assistenza Infermieristica al Paziente in fase terminale
Tesi di: Letteria Dottore
Relatore: Prof.ssa Anna Maria Velardo
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INDICE
Introduzione pagina 3
1. Malattia terminale pagina 7
2. Assistenza infermieristica e psicologica
del malato terminale pagina 11
3. I bisogni del morente pagina 21
4. La comunicazione con il paziente terminale pagina 27
5. Relazione di aiuto e counseling pagina 40
6. Il controllo del dolore pagina 51
7. Cure palliative pagina 74
8. La famiglia del paziente pagina 80
9. Il decesso del paziente in reparto:
ruolo dell’infermiere pagina 85
10. La morte nel Codice Deontologico
dell’infermiere pagina 98
Conclusioni pagina 108
Bibliografia pagina 112
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INTRODUZIONE
Da sempre l’uomo assiste l’altro uomo, tutta la storia dell’uomo è la
storia dello “stare vicino”, vicino alla sofferenza, vicino al dolore.
Le professioni sanitarie in genere, e quella infermieristica in
particolare, hanno come compito sociale quello di intervenire su questo
fronte, hanno il dovere professionale di accompagnare il paziente in tutte le
fasi della sua malattia, soprattutto in quella terminale. L’infermiere è la
figura dell’equipe che vede quotidianamente l’ammalato, che entra in
relazione con lui cercando di rispondere a tutti i suoi bisogni, cogliendo
tutte le eventuali modificazioni, attraverso l’osservazione e l’ascolto, che
devono essere tesi, non solo alle parole, ma anche ai gesti, alle espressioni
ed ai silenzi. Più di qualsiasi altra figura sanitaria l’infermiere entra nelle
dinamiche relazionali per il fatto che è la persona che sta a contatto con il
malato per più lungo tempo e in via più diretta, perciò rappresenta per il
malato una importante figura di riferimento. Sono gli infermieri che vedono
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maggiormente il suo soffrire di giorno di notte, sono loro che si
intrattengono in camera a parlare.
Curare è un compito difficile. Non ci si improvvisa curanti, ma si
impara a diventarlo, non soltanto attraverso l’apprendimento di tecniche
specialistiche: accanto al sapere inteso come conoscenza scientifica della
malattia e delle possibilità di affrontarla e combatterla, ai curanti viene
richiesto di “saper fare” e di “saper essere”. La difficoltà di tutto ciò si
aggrava quando il malato attraversa la fase terminale, quando il processo di
malattia si fa irreversibile e guarire diventa impossibile.
Per esempio il paziente oncologico, più di ogni altro malato convive
con l’idea della morte prima ancora che questa sia realmente prossima, per
questo spesso di fronte ad un malato di cancro la gente scappa, gli amici
scappano, i familiari compatiscono. Gli stadi avanzati di malattia e la fase
terminale rappresentano uno dei momenti più difficili, per questo
l’assistenza dovrebbe basarsi sulla conoscenza dettagliata dei reali bisogni
fisici e psicologici del malato.
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A questo mira la mia tesi, per fa si che tutti coloro che si trovano in
un fase verso la morte abbiano una giusta assistenza, ma soprattutto
abbiano una morte dignitosa, e quando la medicina e la tecnica non
possono più far guarire, io infermiere posso fare ancora qualcosa per la
persona.
Diventare sensibili ai bisogni del morente, significa comprendere che
necessita di una buona assistenza, egli ha bisogno di calore umano, rispetto
e coraggio per superare tutti i problemi che nascono dentro di lui nella
coscienza della morte: è difficile per tutti accettare l’idea della fine della
propria esistenza.
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“Io infermiere mi impegno a starti vicino quando soffri, quando hai
paura, quando la medicina e la tecnica non bastano.” (Patto infermiere
cittadino - 1996)
“L’infermiere sostiene i familiari dell’assistito in particolare nel
momento della perdita e nella elaborazione del lutto” (Codice
deontologico - 1999)
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1. MALATTIA TERMINALE
La malattia terminale è quella condizione patologica la cui
evoluzione è verso la morte a non lunga scadenza, come diretta
conseguenza della malattia.
Il paziente si può definire terminale quando in lui, nei suoi familiari e
nei curanti comincia a farsi strada l’idea della morte quale diretta
conseguenza della malattia.
La malattia è una delle situazioni più frustanti della vita, ha sempre
un riflesso acuto sulla personalità: la mette in crisi e la rivela nella sua
autenticità, spogliata da tutte le maschere. Il soggetto malato è coinvolto in
tutto il suo essere, la sua identità, il suo ruolo sociale, il mondo affettivo.
Per quanto riguarda la fase terminale della malattia ci si riferisce a
quella fase avanzata, in cui non è più possibile pensare ad una guarigione e
la prospettiva è rappresentata dalla morte. La fase terminale potrebbe essere
definita come quella che ha inizio nel momento in cui il medico dice “non
c’è più niente da fare”, dato che il paziente non risponde più ai trattamenti
intesi a prolungare la vita e che è entrato in un periodo in cui è ormai
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evidente l’inguaribilità, e per il quale le cure specifiche sono passate al
trattamento palliativo.
Tale periodo non riguarda solo le ultime ore di vita, ma è impossibile
collocare in una dimensione temporale la situazione di irreversibilità clinica
che sembra coprire varie settimane e talora mesi o anni.
La malattia terminale è un processo che evolve gradualmente, non un
evento statico. Per il malato vengono a crearsi nuovi bisogni, nuove
abitudini, un nuovo stile di vita ed essendo questi bisogni di natura diversa,
è corretto affrontarli con un approccio multidisciplinare, utilizzando
specifiche competenze e figure diverse, che si propongono l’obiettivo
comune di apportare un miglioramento della qualità di vita dell’ammalato e
l’accompagnamento ad una morte dignitosa.
Il mondo del malato terminale si basa sul bisogno di sapere che non
verrà abbandonato quando la medicina scientifica ha perso ogni capacità di
tenere lontano la morte.
La morte di una persona giovane o un bambino sconcertano di più di
quella di una persona anziana, considerata generalmente come normale
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conclusione di un ciclo vitale. Una persona che muore tra grandi sofferenze
turba di più di una che muore rapidamente senza grandi dolori fisici.
La sofferenza, il progressivo deterioramento delle condizioni
psichiche e fisiche ripropongono, infatti, in maniera molto cruda tutta la
drammaticità della malattia, della lenta attesa della morte, della
sopportazione del dolore, della coscienza più o meno chiara della fine della
propria esistenza terrena.
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2. ASSISTENZA INFERMIERISTICA E
PSICOLOGICA DEL MALATO TERMINALE
La realtà della malattia in fase avanzata e terminale si presenta
complessa e multidimensionale; i diversi aspetti, sia organici che
psicologici, sono strettamente intrecciati tra loro e vengono vissuti con
molta intensità dal malato, dai familiari e dal personale sanitario. In genere,
gli aspetti organici sono posti in primo piano mentre la dimensione
psicologica viene lasciata in secondo piano e vissuta principalmente come
"effetto collaterale" della malattia. Questa strategia di intervento rischia di
occultare situazioni che possono avere una rilevanza cruciale nella
comprensione delle dinamiche che accompagnano la malattia. In altri
termini, la mancata considerazione degli aspetti psichici ed emozionali, nel
corso delle diverse fasi della "crisi" provocata dalla malattia, rischia di
amplificare i sentimenti di disagio, solitudine e dolore non solo del malato
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e del suo contesto familiare, ma anche dell'infermiere che si occupa
dell'assistenza al malato terminale.
Nell'assistenza infermieristica al malato terminale, si assiste
all'instaurarsi di una situazione particolare che vede da una parte il malato
(il più delle volte tenuto all'oscuro delle sue reali condizioni) alla prese con
sentimenti di confusione, rabbia, solitudine destinati a non essere compresi
e contenuti, dall'altra i familiari, a loro volta travolti da emozioni di non
facile gestione ed espressione, e dall'altra ancora l’infermiere spesso
impreparato a gestire le forti emozioni suscitate dalla malattia terminale.
Successivamente vi sono incomprensioni, conflitti, vissuti abbandonici,
sensi di colpa, ecc. In particolare, le profonde emozioni attivate
dall'assistenza di un malato terminale mettono a dura prova le capacità
dell’infermiere, non solo da un punto di vista professionale ma anche e
soprattutto sotto il profilo psicologico ed emotivo.
Il dover intrattenere rapporti con un intero nucleo familiare significa
avere in carico le emozioni di tutti i membri della famiglia ma soprattutto
del malato, ovvero i suoi momenti di stanchezza psicologica, di sconforto e
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di sfiducia verso l’infermiere e tutta l’equipe sanitaria che lo assiste. Per
questo l’infermiere deve far si che l'attenzione da parte degli altri operatori
venga posta non solo prevalentemente sulla malattia e sugli aspetti tecnici e
concreti ma anche sulla persona del malato; non facendo in questo modo, i
sintomi ed il dolore che affliggono il malato e ne limitano la qualità della
vita e spesso non sono compresi nella loro globalità psicosomatica, nella
loro continua interazione con la personalità, le risorse e i bisogni del
paziente.
Ruolo_dell’infermiere
La competenza psicologica dell’infermiere è molto importante per
poter cogliere le dinamiche operanti in diverse situazioni e contesti, ma
soprattutto per sviluppare negli operatori e nelle famiglie la capacità di
saper contenere ed elaborare tensioni e sofferenze nel modo migliore
possibile.
La preparazione psicologica dell’infermiere permette può permettere
di svolgere una funzione di base sicura a cui il paziente e la famiglia può
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appoggiarsi, al fine di poter raggiungere un maggior adattamento alla
malattia ed un miglioramento delle comunicazioni intrafamiliari, ma anche
favorire l'elaborazione ed il controllo delle dinamiche psicologiche ed
emotive dell’equipe assistenziale. Quest'ultimo, è forse il compito più
gravoso, in quanto gli operatori si trovano spesso soli ad affrontare l'ansia
che gli deriva dal confronto con la morte e con la sofferenza dell'altro, in un
continuo conflitto tra l'illusione di immortalità e l'evidenza della finitudine,
tra il proprio bisogno di ottemperare alla propria professione ed il dover
accettare la propria sconfitta. Inoltre, il contatto quotidiano con malati che
evocano l'immagine della morte, con la sofferenza e la disperazione dei
familiari che viene scaricata sull’infermiere, provoca usura, attenuazione
dell'impegno, crisi depressive.
L’assistenza psicologica al malato terminale
Nel corso dell'assistenza al malato terminale, la famiglia e
l'infermiere rappresentano due poli che, nel momento in cui vengono in
contatto, devono continuamente ridefinire il proprio ruolo durante tutto
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l'iter assistenziale. Questo intervento ruota intorno ad un terzo polo,
rappresentato dal malato terminale, che si trova alle prese con la crisi più
grande è più importante di tutta la sua vita e che si differenzia da ogni altro
paziente per lo svilupparsi e l'aggravarsi di quella particolare sofferenza
che è stata definita come "dolore totale". In altri termini, la vicinanza della
morte ed il precipitare delle condizioni fisiche indicano un progressivo
modificarsi di ogni connotazione personale: l'identità corporea, il ruolo
sociale, lo status economico, l'equilibrio psicofisico, la sfera spirituale, il
soddisfacimento dei bisogni primari.
Il malato terminale, inoltre, è anche un morente e quindi ai bisogni
del malato si aggiungono i bisogni del morente. Questi è, dunque, il
principale protagonista di un processo vitale complesso che si svolge nel
tempo e coinvolge in modo totale le diverse aree dell'esistenza. In tal senso,
l’assistenza infermieristica va colta nella sua dimensione globale ed
olistica e deve necessariamente collocarsi al servizio della soggettività del
paziente, spostando l'attenzione dalla malattia alla persona del malato ed ai
suoi bisogni.
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Collocare al centro dell'assistenza infermieristica la persona del
malato, significa prendere in considerazione i diritti inalienabili di ogni
essere umano, riconoscendo, quindi, nel paziente terminale: a) la sua
dignità di persona ed i problemi relativi al suo stato, nel pieno rispetto dei
suoi diritti e delle sue convinzioni etiche e/o religiose; b) i bisogni
psicologici ed emotivi che, tenendo conto delle differenze individuali,
investono: la certezza di non essere abbandonato, la sicurezza di ricevere le
necessarie cure mediche, la possibilità di essere considerato un soggetto in
grado di ricevere informazioni regolari, comprensibili e credibili, la
certezza di poter ottenere, accanto ad una assistenza sanitaria, la necessaria
attenzione sia in termini di ascolto che di presenza.
Il rispetto di questi bisogni va considerato come parte integrante
dell'intervento dell'équipe, ma indubbiamente l’infermiere può, in modo
più specifico, accogliere e contenere l'espressione di queste esigenze stando
vicino al paziente.
E' importante sottolineare come l'intervento dell’infermiere debba
sempre tenere conto di due aspetti fondamentali: 1) evitare qualsiasi
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imposizione di un sostegno non gradito, nel riconoscimento della
fondamentale libertà da parte del sistema familiare, nelle sue diverse
componenti, di poter far richiesta o meno di un aiuto psicologico; 2) tenere
sotto controllo i propri bisogni e le proprie dinamiche personali che, se non
riconosciute, possono contribuire a creare una interferenza nel dialogo tra il
paziente e la famiglia. In altri termini, l’infermiere non deve sostituirsi alle
figure più significative del paziente, cercando, in una sorta di relazione
esclusiva con il malato, di soddisfare i propri bisogni di protagonismo.
L’infermiere, può eventualmente porsi come mediatore della
relazione talvolta interrotta, a causa della "congiura del silenzio" che spesso
avvolge il malato, talvolta carente per via delle difficoltà, sia del malato
che dei familiari, nell'affrontare le questioni sospese, i non detti, le gesta
incompiute.
L'azione di facilitazione e mediazione può contribuire ad aiutare
pazienti e famiglie ad apprezzare, pur nella drammaticità della situazione,
le esperienze positive, in termini di relazione e comunicazione, che è
possibile sperimentare quando si è o si vive con un malato grave.
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La malattia terminale, che possiamo considerare una esperienza di
confine e di "verità", può permettere ai diversi protagonisti di vivere ogni
momento in modo significativo, consentendo loro di accettare più
facilmente la propria situazione e, per quanto riguarda i malati, di aver
meno timore di lasciare la vita:
"nessuno può preparare qualcun'altro alla morte; è possibile però
"preparare" alla vita e questa preparazione consiste proprio nell'abituarsi
a riempire il proprio tempo con comportamenti umanamente validi".
Modalità dell’assistenza
Dopo aver preso in considerazione le aree di intervento è necessario
definire più specificamente le modalità proprie di un approccio
infermieristico - psicologico nel campo dell'assistenza ai malati terminali.
Per quanto riguarda l'attività specifica con le famiglie e con i malati,
l'infermiere ha il compito di raccogliere informazioni sulla storia,
organizzazione e dinamiche relazionali della famiglia; verificare la
presenza di problemi all'interno del nucleo familiare in grado di interferire
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con l'assistenza infermieristica; verificare la presenza di eventuali fattori di
rischio a carico dei familiari sia nel corso dell'assistenza che, in prospettiva,
a seguito della morte del paziente. Queste informazioni sono molto utili, in
quanto permettono all’infermiere di conoscere il paziente e di comunicare
in modo adeguato.
Conoscere bene il proprio paziente significa parlare con lui, avere il
modo e le abilità comunicative che consentano di sostenere e promuovere il
dialogo anche qualora la drammaticità della situazione lo renda difficile da
sostenere. Infermieri e medici si trovano ogni giorno di fronte a tali
situazioni e non possono da soli essere investiti di una così grande
responsabilità: devono essere loro stessi aiutati e sostenuti per poter parlare
ed aiutare.
In qualche modo la fase terminale può essere considerata come un
cammino di lutto dalla vita, una presa di coscienza graduale.
Il malato, per raggiungere questa dolorosa consapevolezza e per
arrivare ad elaborare il cambiamento, ha infatti bisogno di tempo, un
tempo, però, dato all’interno della relazione, di una dimensione dove la
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comunicazione ed il dialogo permettano di maturare dei passi in un
cammino di adattamento alla situazione.
E’ quel percorso che porta alla possibilità di accettare il proprio
morire.
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3. I BISOGNI DEL MORENTE
La vicinanza della morte ed il precipitare delle condizioni fisiche
inducono un progressivo deteriorarsi di ogni connotazione personale:
l’identità corporea, il ruolo sociale, lo status economico, l’equilibrio psico -
fisico, la sfera spirituale, il soddisfacimento dei bisogni primari.
E’ proprio a partire da questo contesto che gli attuali approcci
assistenziali sentono la necessità di spostare l’attenzione maggiormente
verso la persona e i suoi bisogni, piuttosto che nei confronti della malattia
stessa.
Facendo emergere i bisogni del paziente oncologico il ruolo e le
responsabilità infermieristiche acquistano una particolare importanza in
quanto attivamente coinvolte per migliorare la qualità di vita
indipendentemente dalla prognosi.
In una medicina che non può più avere come obiettivo la guarigione,
ma il mantenimento della miglior qualità di vita l’attenzione deve essere
spostata sulla persona e i suoi bisogni.
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E nel malato terminale vengono a crearsi nuovi bisogni, uno stile di
vita che muta con l’evolversi della malattia.
In specifico i bisogni del malato terminale possono essere suddivisi
in tre categorie, bisogni fisico - assistenziali, bisogni sociali e bisogni
personali - emozionali.
Bisogni fisico - assistenziali
Il soddisfacimento di questo tipo di bisogni riguarda in primo luogo
il controllo dei sintomi che si accompagnano alla patologia e ai trattamenti
e che causano una grossa sofferenza per il malato e la sua famiglia. Il
sintomo più presente ma anche tra i più facili da trattare è il dolore.
Possono essere presenti anche profonda astenia, dispnea, stipsi,
nausea e vomito, edemi e versamenti, prurito, incontinenza, tosse e
singhiozzo. Più la malattia avanza e più questi sintomi si accentuano
peggiorando la qualità di vita della persona e di chi la assiste.
Risolvendo il problema del controllo dei sintomi si può rispondere
facilmente anche agli altri bisogni fisico - assistenziali che sono: il
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miglioramento o il ripristino della qualità dell’alimentazione, l’aumento
delle ore di riposo e il miglioramento della qualità del sonno, la cura di sé.
Bisogni sociali
In specifico riguardano: bisogno di appartenenza , ossia la necessità
avvertita dalla persona morente di mantenere delle relazioni con i familiari
e la rete sociale di appartenenza; bisogno di mantenere la comunicazione
non solo con i familiari e gli amici, ma anche con il personale sanitario;
bisogno di esprimere i progetti formulati, sia per quanto riguarda se stesso,
la malattia, i trattamenti e i desideri per il funerale, sia per quanto riguarda i
familiari per l’organizzazione del dopo morte; bisogno di non essere
abbandonato ed essere accettato come malato e morente.
Bisogni personali - emozionali
Riguardano il bisogno di sicurezza dalla minaccia psico-fisica della
malattia; bisogno di autostima e rispetto della dignità del proprio corpo, che
implica il “non sentirsi di peso” e la necessità di occupare la giornata ma
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anche la necessità di preservare il pudore, di mantenere il senso estetico e
di essere ancora apprezzato nonostante le menomazioni dovute alla malattia
e ai trattamenti; infine bisogno di compimento, che riguarda la sensazione
di soddisfazione per la propria vita.
Quest’ultimo bisogno risulta particolarmente importante perché il
malato terminale si trova spesso a riaffrontare questioni personali mai
risolte, che spesso interessano il rapporto con gli altri. La risoluzione di
queste questioni può influenzare la qualità degli ultimi giorni di vita della
persona e la serenità della morte.
Infine, le paure sono le emozioni principali del paziente in fase
terminale: paure molteplici, mai assenti e capaci di provocare anche intense
reazioni difensive. I malati si difendono, infatti, dalla paura dell’ignoto, di
quello che può esserci oltre, dalla paura della solitudine,dell’isolamento e
dell’abbandono, dalla paura di perdere il proprio corpo, la propria integrità,
autonomia ed identità, dalla paura di perdere l’autocontrollo, di essere in
balia degli altri, dalla paura del dolore e della sofferenza, delle cure e dei
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loro effetti collaterali, dalla paura di non riuscire a dare un senso completo
alla propria vita, di essere sommersi dall’angoscia finale.
Ruolo dell’infermiere
La formazione dell’infermiere mira all’acquisizione di capacità e
competenze che permettono l’erogazione di un’assistenza olistica alla
persona malata.
E’ anche la figura maggiormente presente nei reparti ospedalieri e
non, e quindi il professionista che ha più possibilità di dedicare qualche
minuto all’ascolto del paziente e dei suoi bisogni. E’ importante però
ricordare che ogni persona è unica e portatrice di bisogni propri che non
sono mai uguali a quelli di un altro malato.
Questo implica la necessità di conoscere l’individualità della
persona, soprattutto del morente, attraverso un processo di
personalizzazione dell’assistenza.
Alla base di tutto ciò sta la necessità di istaurare una relazione con il
morente creando un rapporto basato sulla sincerità, sull’ascolto e sulla
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vicinanza anche fisica, che permetta all’assistito di fidarsi per esprimere i
suoi ultimi desideri.
Il compito principale dell’infermiere, quindi, è ottimizzare la cura e
l’assistenza del paziente in fin di vita e far si che abbia una morte dignitosa.
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4. LA COMUNICAZIONE CON
IL PAZIENTE TERMINALE
Nell’esercizio delle sue funzioni l’infermiere diviene per il paziente
un punto di riferimento di competenza ed esercita, nella relazione
assistenziale, anche un ruolo educativo che richiede la conoscenza del
processo di comunicazione nelle sue diverse modalità di espressione.
In particolare nella relazione con il paziente terminale l’intervento
professionale contribuisce, tra l’altro, ad alleviare il senso di solitudine e di
isolamento che, ancora troppo spesso, fa parte del vissuto di molte persone
ospedalizzate e in fin di vita.
La comunicazione, inoltre, costituisce, per l’infermiere, uno
strumento fondamentale sia nel momento della raccolta dati, per
identificare la manifestazione del bisogno di assistenza infermieristica, sia
per proseguire nell’applicazione di tutte le altre fasi del metodo disciplinare
(il processo di assistenza infermieristica).
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Poiché non può esservi relazione senza comunicazione, questo
aspetto assume particolare importanza.
La comunicazione viene definita dalla teoria classica come
trasmissione di un’informazione, di un messaggio, da parte di un emittente
a un ricevente.
La comunicazione diventa per l’infermiere un processo di interazione
e di influenzamento reciproco, che avviene in un determinato contesto, che
supera il semplice modello emittente/ricevente, poiché il comportamento di
ogni persona influenza ed è influenzato dal comportamento di ogni altra
persona.
Interagire infatti significa “mettere in atto un’azione scambievole tra
due o più persone. Interagire nella comunicazione ha quindi il valore forte
di realizzazione di una relazione efficace, in quanto il messaggio inviato
giunge al destinatario in modo corretto, tenendo conto delle possibilità e
delle esigenze di quest’ultimo.
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La comunicazione viene considerata come un processo circolare che
prevede l’interazione tra due poli (infermiere-persona assistita) e che attiva
sempre una reazione.
Il presupposto affinché si realizzi tale interazione nella
comunicazione è che essa sia determinata dalla necessità di soddisfare,
nella relazione assistenziale, il bisogno di assistenza infermieristica della
persona.
L’aiuto alla persona ad interagire nella comunicazione non viene
dato sfoggiando le proprie conoscenze, bensì riuscendo a far comprendere
il messaggio voluto. Per ottenere ciò è necessario adattare il proprio
linguaggio a quello dell’altro, utilizzando dei termini che egli possa
comprendere ed usando anche quelli scientifici, se è necessario, purché ne
venga immediatamente spiegato il significato: l’obiettivo è quello di
aiutare la persona a capire. Ovviamente, le modalità dell’approccio
interpersonale sono determinanti nell’influire sulle reazioni della persona, e
contribuiranno a raggiungere un risultato positivo se saranno improntate a
rendere la comunicazione meno ansiogena e meno difensiva. Con
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riferimento alla comunicazione non verbale, gli elementi che la
caratterizzano sono diversi: l’espressione del viso, le posture del corpo, il
tono, l’intensità ed il volume della voce, i gesti ed il contatto visivo. Questi
elementi integrano la comunicazione verbale e, inevitabilmente, ne
influenzano il significato. Infatti, la comunicazione non verbale può:
alterare il significato della comunicazione verbale, rafforzare un messaggio
verbale, esprimere con un gesto quello che non viene chiesto.
Anche il contesto in cui avviene la comunicazione è determinante per
la sua efficacia. Una stanza rumorosa può impedire di sentire ciò che viene
detto, una persona agitata può alterare il messaggio che le è stato inviato, la
presenza di estranei durante un colloquio può indurre la persona a
rispondere alle domande in modo approssimativo o a non farlo.
L’insieme di questi elementi, che caratterizzano il processo di
comunicazione, fanno intravedere quali capacità del “saper comunicare”,
l’infermiere deve possedere e utilizzare in modo competente con le persone
che hanno bisogno di essere informate, di essere aiutate ad esprimere
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situazioni che le preoccupano o a diminuire la paura per un evento, come la
malattia terminale ancora, ad esprimere o capire dei messaggi.
Alla luce di quanto detto finora, bisogna tuttavia considerare che,
anche con le migliori intenzioni degli interlocutori, la relazione in ambito
assistenziale non sempre si instaura e si sviluppa in maniera ottimale.
Questo può accadere in virtù di diversi fattori, attribuibili
all’operatore, alla persona assistita oppure al contesto dove nasce e si
sviluppa la relazione.
È possibile identificare i fattori che disturbano la comunicazione in
due categorie: fattori di natura personale e fattori di natura ambientale.
Nella prima categoria rientrano quei fattori che riguardano più
specificatamente sia l’assistito (anziano) come ad esempio: la stanchezza
fisica, il dolore, ostacoli all’uso della parola, disturbi della memoria (bio-
fisiologici); ma anche l’ansia, l’eccitazione, risentimento, paura, scarsa
autostima (psicologici); ancora, abilità espressiva, non conoscenza di
argomenti specifici, diversità di appartenenza etnica, ceto sociale e così via
(socioculturali); sia l’operatore come ad esempio: l’utilizzo di un codice
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inadeguato, l’esposizione confusa dei messaggi, l’assunzione di
atteggiamenti inadeguati e così via. Tra i fattori di natura ambientale,
invece, possono essere compresi il rumore, l’inadeguatezza dell’ambiente,
la mancanza di privacy (fattori di natura fisica), ma anche la presenza di
estranei/persone indesiderate e l’assenza di persone desiderate (fattori di
tipo sociali).
Altri elementi di disturbo sono: l’incompatibilità delle opinioni, l’età,
la personalità. Ciò può caratterizzarsi per l’incapacità ad esempio da parte
dell’assistito a rimettersi alla volontà ed alla competenza altrui, o
quantomeno di accettare, in qualche caso, di dover dipendere da altri per
superare una situazione difficoltosa; così alcuni assistiti possono non
accettare di buon grado (se non addirittura rifiutare) che l’infermiere si
occupi di loro, specie se si tratta di azioni sostitutive particolari ad esempio
l’igiene intima.
Altri fattori, che possono influenzare negativamente sulla qualità
della relazione interpersonale in ambito assistenziale infermieristico, sono
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da ricondursi alle modalità con cui l’infermiere gestisce l’interazione nella
comunicazione.
Alcuni autori hanno identificato cinque categorie di comportamento
che ostacolano l’evoluzione efficace della comunicazione: cambiare
argomento, esprimere le proprie opinioni sullo stato d’animo dell’assistito,
frasi rassicuranti fuori luogo, interpretare affrettatamente e fornire consigli
non richiesti, utilizzare in modo inadeguato notizie mediche e conoscenze
infermieristiche, interagire con la persona nell’ambito di contesti
inadeguati.
A volte nella realtà lavorativa la comunicazione pare collocarsi ad un
secondo livello, come se prevalesse la difesa di sé, del proprio ruolo,
piuttosto che l’interesse per l’altro e la ricerca reciproca della fiducia. Ciò,
insieme alla incapacità di neutralizzare i fattori di disturbo della
comunicazione, rappresenta probabilmente la causa principale di quelli che
possono essere definiti “incidenti di percorso” nella relazione. La gestione
corretta dell’interazione nella comunicazione esige dunque che l’infermiere
mantenga l’atteggiamento costante dell’attenzione agli stati d’animo della
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persona assistita, senza esprimere giudizi e senza assumere comportamenti
stereotipati con i quali, a volte, si tende a classificare i malati all’interno di
categorie precostituite: “il paziente lamentoso”, “il paziente rompiscatole”,
“il paziente tranquillo” e così via.
L’assenza del giudizio è necessaria perché esso viene vissuto come
riferito al complesso della persona e non solo ad una parte di essa: così chi
si sente giudicato negativamente per qualche aspetto del suo modo di
essere, finisce col sentirsi svalutato come persona. Ma, d’altra parte, anche
la valutazione positiva di un comportamento è da usare con cautela.
Se ne evince, quindi, la necessità della “coerenza comunicativa” in
riferimento al contesto. Proprio per questo motivo, non bisogna mai
dimenticare che ai due poli della relazione si aggiunge la presenza del
contesto istituzionale, fattore che spesso influisce pesantemente nella
definizione e nell’evoluzione della relazione.
In questa ottica la comprensione delle dinamiche relazionali
connesse o determinate dalla vecchiaia costituisce un requisito
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irrinunciabile per gli infermieri che svolgono la loro attività
prevalentemente in questo settore.
Risulta fondamentale focalizzare gli aspetti che in questa fase della
vita influiscono più direttamente sulla dinamica relazionale e gli effetti che
su di essa producono.
Senza dubbio l’evento che maggiormente pesa sulla dimensione
relazionale è costituita dal termine dell’attività lavorativa. Se inizialmente
questo fatto può offrire a molte persone una sensazione di libertà, in seguito
ciò che emerge è la consapevolezza di aver perso un preciso ruolo sociale;
in altre parole subentra un senso di frustrazione e di inutilità, dovuto alla
percezione che l’immagine di sé si è in qualche modo offuscata: si assiste
ad una crisi di identità e una diminuzione dell’autostima.
Il disadattamento alla nuova condizione, talvolta può assumere toni
drammatici, caratterizzati dal decadimento delle capacità cognitive, da
alterazioni dell’umore, introversione, perdita di interesse per la realtà, verso
la quale vi è un progressivo distacco.
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Secondo alcuni studi, anche il sesso influisce in maniera cospicua
sulla capacità di adattamento: per la donna esso risulta solitamente più
facile, dato che è abituata a ricoprire diversi ruoli(di lavoratrice, di moglie,
di madre).
Tutti questi fattori, descritti per altro sommariamente, comportano
profonde modificazioni della sfera relazionale.
A seconda dei casi l’anziano può sentirsi valorizzato come persona,
con un proprio vissuto degno di considerazione nonostante la sua eventuale
condizione di malattia, oppure sopportato come un problema.
Riguardo alla malattia, essa viene ancora considerata da molte
persone anziane come una componente essenziale della vecchiaia; tuttavia,
sebbene il binomio vecchiaia-malattia sia stato da tempo superato, esso si
impone quasi inevitabilmente con l’avanzare dell’età, sia con quadri
patologici tipici della senescenza, che con sequele di malattie pregresse o
croniche con il rischio conseguente di dover dipendere da altri. A ciò si
aggiunge anche l’esperienza dell’ospedalizzazione, che molti anziani
vedono come la fase preliminare alla fine della loro esistenza.
37
Ecco perché, diversamente dal giovane/adulto, nell’anziano i
problemi di adattamento all’ambiente ospedaliero sono più accentuati.
Basti pensare ad esempio alla percezione della propria inadeguatezza
di fronte alle persone che lo attorniano, alla complessità dell’ambiente in
cui si trova e alla ristrutturazione delle abitudini e del vissuto personale
connesse all’ospedalizzazione (la variazione degli orari dei pasti, l’uso
obbligatorio del pigiama, l’impossibilità di utilizzare spazi esclusivi, la
necessità di utilizzare elementi di arredo sconosciuti e così via).
Ancora, mostrare parti intime del proprio corpo o addirittura
sopportarne la manipolazione da parte di operatori sconosciuti per
l’esecuzione, ad esempio, dell’igiene intima o di prestazioni
terapeutiche/diagnostiche a livello genitale.
Quest’ultimo aspetto riveste per la persona anziana un’importanza
notevolissima, dato che il corpo viene vissuto spesso come una parte
inviolabile della propria vita; di qui la difesa talvolta ostinata della propria
intimità, del pudore.
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Il complesso dei fattori sopra descritto esercita un’influenza
considerevole sulla dinamica della comunicazione, nel senso di una sua
involuzione, caratterizzata dal bisogno, oltre che da una ovvia qualità,
anche di una quantità maggiore di tempo ad essa dedicato, perché proprio
nel tempo della comunicazione l’anziano ottiene una risposta implicita al
suo bisogno di sicurezza.
Tutti i fenomeni fin qui descritti contribuiranno a determinare quella
regressione psicologica che si osserva frequentemente negli anziani
ospedalizzati e può caratterizzarsi con l’assunzione di comportamenti
infantili oppure attraverso la scarsa collaborazione con il personale
sanitario per l’esecuzione di alcune prestazioni: ad esempio la
somministrazione di terapie.
Da queste considerazioni si può comprendere come l’approccio
relazionale che l’infermiere adotta nei confronti della persona anziana
debba essere il più possibile personalizzato e, facendo ricorso alla
comunicazione verbale e non verbale, debba essere funzionale al
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raggiungimento di un preciso obiettivo assistenziale: la risposta del bisogno
di assistenza infermieristica.
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5. RELAZIONE D’AIUTO E COUNSELING
L’infermiere è una figura professionale di fondamentale importanza
nella gestione della relazione con il malato, per il ruolo di raccordo e di
meditazione con la figura medica e con l’azienda sanitaria.
Questa sua particolare posizione lo mette a contatto con l’intera
gamma dei sentimenti dei pazienti raramente espressi con le professionalità
mediche verso le quali vi è maggiormente un rapporto di subalternità e
comunque più centrato su aspetti clinici che relazionali.
Il principale ostacolo alla relazione con l’utenza è la carenza di
tempo da dedicare al comunicare con i pazienti.
La richiesta sempre più frequente rivolta all’infermiere riguarda il
rispetto del numero delle prestazioni da erogare, ossia “tempi e metodi” di
un’assistenza che sembra sempre più incompatibile con una relazione
assistenziale intesa in senso ampio.
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Nel ritmo delle prestazioni, il malato rischia di essere “frantumato”,
percepito solo per le parti del suo corpo che necessitano di cura. Il malato si
trasforma nella sua diagnosi.
L’altro ostacolo ha a che fare con la scarsa adeguatezza dei luoghi in
cui si dovrebbe comunicare. Quanto detto sembra avere a che fare con la
fatica di poter garantire un setting adeguato all’incontro ed alla relazione
con l’altro.
E’ possibile conciliare una doverosa relazione d’aiuto con un
paziente sentito come “intero” con una pratica routinaria che avviene in
un’apparente assenza di setting, in luoghi poco idonei alla comunicazione
ed i cui tempi sono scanditi dalla durata della prestazione?
Stando ad un concetto classico di setting si direbbe che non è
possibile. Per la maggior parte dei professionisti che si dedica alla relazione
d’aiuto, appare scontato che questa si svolga in un luogo deputato allo
scopo, generalmente una stanza apposita, con delle sedia in una atmosfera
distesa in cui possa svilupparsi un clima che faciliti confidenza e
comunicazione.
42
La caratteristica, invece, che contraddistingue la relazione
infermieristica è spesso l’assenza della mancanza di un luogo deputato
all’incontro. La comunicazione infatti avviene ovunque: ambulatori, al letto
del paziente, in sala operatoria, ecc.
La relazione con il paziente accompagna qualsiasi attività routinaria:
talvolta rimane sullo sfondo, talvolta la travalica, ma rimane costantemente
presente.
Sembra possibile pensare ad uno spazio d’incontro con l’altro in cui
il tempo e il luogo siano dati dai tempi e dai luoghi della prestazione
infermieristica.
La competenza relazionale dell’infermiere influisce sul come stare
accanto al paziente secondo lo spazio ed il tempo che ha a disposizione.
Lo spazio relazionale tra infermiere e paziente può caratterizzarsi
oltre che per la tipologia di prestazioni sanitarie anche per competenze
relazionali specifiche. Le soluzioni ai problemi sarebbero:
- Gestione della relazione in contesti sfavorevoli: gestire la sala
d’attesa, stabilire un clima accogliente;
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- Gestione della sofferenza emotiva: sostenere la dignità di chi soffre,
gestire situazioni ad alto livello di emotività, rispondere a domande
delicate;
- Aumento della motivazione e adesione al trattamento: informare il
paziente e i familiari, motivare il paziente al trattamento o all’abbandono di
comportamenti problematici.
Le diverse forme di aiuto relazionale sono:
- incontro d’aiuto occasionale (parenti, amici, relazioni quotidiane)
- relazione d’aiuto
- counseling
- psicoterapia
Relazione d’aiuto
Si ha una relazione di aiuto quando vi è un incontro fra due persone
di cui una si trova in condizioni di sofferenza/confusione/
conflitto/disabilità/malattia (rispetto a una determinata situazione o a un
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determinato problema con cui è a contatto e che si trova a dover gestire) ed
un’altra persona invece dotata di un grado “superiore” di
adattamento/competenze/abilità, rispetto a queste stesse situazioni o tipo di
problema.
Se fra queste due persone si riesce a stabilire un contatto (una
relazione) che sia effettivamente di aiuto allora è probabile che la persona
in difficoltà inizi qualche movimento di
maturazione/chiarificazione/miglioramento/apprendimento che la porti ad
avvicinarsi all’altra persona (assorbendone per così dire le qualità e le
competenze) o comunque a rispondere in modo più soddisfacente al
proprio ambiente ed a proprie esigenze interne ed esterne.
Molte relazioni amicali, familiari, di vicinato, sono così relazioni di
aiuto, ma possono esserlo anche molte relazioni a carattere professionale
(infermiere-persona, medico-paziente, insegnante-studente, operatore-
cliente), oltre a quelle sviluppate da psicologi, psicoterapeuti, counselor.
L’aiuto può assumere varie forme: ascoltare, informare, insegnare,
essere vicini, non lasciare soli, condividere. Il professionista sanitario che
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mette in atto una relazione di aiuto deve possedere la consapevolezza del
processo ed il controllo dello stesso, padroneggiando razionalmente
“abilità” che sono un tutt’uno con ciò che si è. Infatti, una preparazione
inadeguata dell’operatore determina l’incapacità di ascoltarsi e di ascoltare
l’altro, requisito indispensabile per realizzare un processo di ascolto
efficace. Alla luce di quanto esposto possiamo affermare che la pratica
della relazione di aiuto presuppone un faticoso focus personale centrato sul
sé, coniugato sull’acquisizione di abilità specifiche e di una complessa
padronanza tecnica.
Poiché l’efficacia del rapporto è strettamente connessa alla
reciprocità della relazione ed al soddisfacimento dei bisogni di entrambi i
soggetti (operatore e persona assistita), di aiutare e di essere aiutato,
analizziamo brevemente le teorie psicologiche del legame.
Se la comunicazione con il malato terminale è finalizzata
all’istaurarsi di una relazione d’aiuto, ossia alla crescita e all’attivazione
delle risorse personali del paziente, può essere un utile strumento per
aiutare la persona a vivere il più attivamente possibile la sua morte.
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La relazione d’aiuto, infatti, ha come finalità quella di aiutare la
persona a riacquisire autonomia e autostima, per quanto le sue condizioni
lo permettano.
L’operatore deve ricordare, però, alcuni atteggiamenti indispensabili
per la comunicazione nella relazione d’aiuto:
- non confondere le nostre esigenze di operatività con le sue reali
necessità;
- entrare nell’universo soggettivo dell’altra persona pur conservando la
propria obiettività;
- evitare la contraddittorietà tra linguaggio verbale e non-verbale;
- accettare la persona per quello che è e farla sentire compresa;
- comunicare.
Il counseling
Il counseling in ambito sanitario è un processo di interazione fra due
persone di cui una è in difficoltà; è orientato a far prendere coscienza della
propria situazione così da poterla gestire; è un intervento che favorisce un
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cambiamento; non fornisce suggerimenti o risposte specifiche, aiuta la
persona a trovare le sue soluzioni.
Il counseling può essere considerato come una relazione d’aiuto con
una connotazione educativa, come un modo nuovo ed efficace per
rispondere ai bisogni del malato terminale e per aiutarlo a maturare,
attraverso un processo relazionale, le scelte necessarie per mantenere la
qualità di vita.
L’operatore che utilizza la tecnica del counseling dovrebbe, infatti,
mediante le proprie capacità di empatia, accettazione incondizionata
dell’individualità del malato e autenticità, favorire la maturazione delle
condizioni interne che gli permettano di definire il problema e mobilitare le
risorse residue per affrontarlo e gestirlo; perché il malato deve rimanere
sempre l’attore principale del processo decisionale.
Nel caso del malato terminale il problema che si deve gestire è quello
della morte che si avvicina.
La dottoressa Elisabeth Kübler-Ross nel corso del suo lavoro accanto
ai morenti ha individuato cinque fasi che se adeguatamente superate
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portano il malato ad accettare la morte e a vivere con serenità questo
importante evento.
Le fasi sono le seguenti:
- I fase: rifiuto e isolamento; la frase che più rappresenta questa fase è
quella che viene pronunciata dalla maggior parte dei malati dopo la
comunicazione della diagnosi: «No, non sono io, ci deve essere un errore».
Solitamente il rifiuto rappresenta una difesa temporanea che verrà presto
sostituita da una parziale accettazione.
- II fase: la collera; rabbia, invidia e risentimento prendono il
sopravvento sull’iniziale rifiuto e vengono proiettatati nei confronti di
familiari e operatori; le persone sane che circondano il malato e che
rappresentano tutto ciò che sta perdendo.
- III fase: venire a patti; come il bambino che non ottiene ciò che vuole
e prova ad usare delle strategie per accattivarsi i genitori e arrivare lo stesso
al suo scopo; così il malato in questa fase prova a “barattare” una buona
condotta con un desiderio che spesso è il prolungamento della vita.
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- IV fase: la depressione; che può essere distinta in reattiva e
preparatoria. La prima è caratteristica del primo periodo di malattia,
quando il malato affronta interventi e terapie che causano invalidità e
perdite dell’integrità sia fisica che psicologica, ma lotta adottando strategie
diverse per superare queste difficoltà. La seconda è caratteristica
dell’ultima fase di malattia e permette alla persona adeguatamente aiutata
ad affrontarla di morire in uno stato di accettazione e di pace perché ha
potuto superare le angosce e l’ansietà.
- V fase: l’accettazione; se la depressione e la rabbia sono state
superate il malato è pronto per accettare il suo destino. Non è una fase
felice, ma un momento in cui la persona non prova più dolore, ha finito di
lottare e si riposa prima dell’ultimo viaggio.
L’operatore che vuole aiutare il paziente in questo difficile percorso,
deve conoscere la tecnica del counseling, i sentimenti che ogni fase porta
con sé, ma anche i suoi vissuti e i suoi sentimenti rispetto alla propria morte
per non correre il rischio di chiudersi in un atteggiamento difensivo.
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Non dobbiamo dimenticare inoltre che il counseling si basa
sull’ascolto e l’empatia, questo significa che l’operatore deve riuscire a
cogliere tutte le peculiarità della persona che si trova di fronte cercando
d’immedesimarsi in questa senza mai perdere di vista il proprio “Io” per
non farsi sopraffare dai sentimenti di dolore e rabbia e non trasferire sul
malato i propri sentimenti e le proprie esigenze . L’operatore deve saper
leggere tra le righe per cogliere tutte le sfumature della comunicazione sia
verbale che non verbale. Per l’utilizzo di queste tecniche relazioni è
necessaria senza dubbio una predisposizione personale ed una disponibilità
nell’incontrare l’altro; ma è richiesto anche un cambiamento di mentalità e
l’acquisizione di nuove abilità.
“Siate come volontari in una spontanea RELAZIONE di AIUTO quando
aiutate, ma poi togliete l’aspetto pubblico e spettacolare dell’intervento e
fate sempre come se foste nello spazio privato e proprio della casa della
persona che aiutate: lo spazio per prendersi cura con professionalità, ma
che mai perde l’entusiasmo di chi lo fa per il semplice e disinteressato
amore e benessere dell’altro”.
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6. IL CONTROLLO DEL DOLORE
Il malato terminale si caratterizza da qualsiasi altro tipo di paziente
per lo svilupparsi e l’aggravarsi di una particolare e complessa condizione
prodotta da un insieme di sofferenze strettamente interconnesse sebbene di
diversa origine che è stata definita DOLORE TOTALE, insieme di
DOLORE FISICO, PSICHICO, SOCIALE, E SPIRITUALE.
Per DOLORE FISICO si intendono tutti quei problemi che originano
dal corpo causati direttamente dall’azione della malattia o indirettamente
dalla terapia antineoplastica , dallo stato di cachessia, dalle necessità
assistenziali connesse alla perdita di funzioni fisiche.
Il deterioramento fisico nel paziente neoplastico è più marcato di
quello di altri pazienti affetti da sindromi dolorose croniche di natura non
maligna, a causa della maggior gravità dei disturbi del sonno, della perdita
dell’appetito, della nausea e del vomito.
Il DOLORE PSICHICO scaturisce dalla reazione che la psiche, l’io
di ciascun uomo, ha nei confronti del progredire della malattia e
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dell’imminenza della morte. Questa sofferenza si esprime attraverso ansia,
aggressività, depressione, paura.
La soggettività dell’esperienza dolorosa che è infatti descritta come:
“…un’esperienza sensoriale ed emozionale…” , la svincola dalla stretta
dipendenza dallo stimolo che la provoca.
Esso subisce un processo di alterazione ed interpretazione, in
relazione all’organizzazione ideo-affettiva, e agli stili psico -
comportamentali di ogni individuo, acquisendo specifiche attribuzioni
soggettive e di significato.
La maniera in cui gli individui si adattano alla propria malattia e ai
trattamenti dipende dalla personalità, dallo stato emozionale precedente alla
malattia, dai valori, dalle attività, dalle relazioni e dai precedenti e attuali
eventi di vita.
I pazienti terminali sviluppano una più intensa reazione emotiva al
dolore, con sintomi quali ansia, depressione, ipocondria, somatizzazione,
nevrosi, dato che gli effetti del dolore si sovrappongono alle ripercussioni
emotive della malattia stessa.
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Molti pazienti associano alla malattia sentimenti di dolore,
distruzione, menomazione e spesso di morte.
Sono preoccupati non solo dell’eventuale esito fatale della loro
malattia, ma anche della possibilità di andare incontro ad ulteriori
sofferenze, in special modo ad un grave dolore fisico, prima che la loro vita
abbia termine.
Il DOLORE SOCIALE, si manifesta con l’alterazione e la perdita dei
ruoli che normalmente la persona ricopre. La malattia stravolge
completamente tutto l’assetto familiare, lavorativo, determinando la perdita
dello status sociale e del benessere economico. Per molti pazienti il dolore
diviene il punto focale attorno al quale ruota la propria vita e quella dei
familiari.
Il fatto che la maggior parte dei pazienti con neoplasia in stadio
avanzato debba smettere di lavorare comporta una crisi non solo
economica, ma anche emotiva con sentimenti di dipendenza e di inutilità.
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L’aspetto fisico e il comportamento del malato, dovuti alla
sofferenza, colpiscono emotivamente la famiglia; ciò viene percepito dal
paziente con il risultato che la sua condizione si aggrava ulteriormente.
Alcuni malati con dolore incoercibile si scoraggiano al punto di
meditare il suicidio.
La dimensione sociale viene coinvolta non solo per le modificazioni
che inevitabilmente può subire a causa della patologia di cui è affetta la
persona.
La testimonianza di una paziente dice: “…E’ la solitudine, il senso di
angoscia che ti prende quando senti gli altri parlare DEL DOLORE e non
CON IL DOLORE, parlano DEI fatti e non CON le persone…”.
Il paziente, in realtà, non vuole che si parli DEL dolore, ma CON il
dolore, ed il dolore diventa persona, diventa tutt’uno con il paziente.
L’infermiere, ma anche i familiari e gli amici, dialogheranno CON il
dolore tutte le volte che riusciranno ad entrare in relazione con il paziente.
Il DOLORE SPIRITUALE deriva dalla consapevolezza di
avvicinarsi alla fine, alla morte. Tutto ciò determina un profondo disagio,
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(più o meno presente a seconda della persona) che conduce il più delle
volte alla crisi o al crollo di quei valori, sia religiosi che laici, alla base del
comportamento e delle scelte di vita del malato. Ciò che predomina nel
50/70% dei pazienti nella fase avanzata della malattia, è il dolore fisico,
esso stravolge l’identità materiale del soggetto e, se non sottoposto a cura,
anziché rafforzarne l’animo lo rende sempre più debole rispetto alla
sofferenza.
Esiste quindi nel paziente una dimensione spirituale dell’esistenza
umana, che si definisce come insieme delle esigenze che cercano un senso
alle domande radicali della vita umana.
In una condizione di sofferenza, l’uomo tende naturalmente al senso
finale del suo essere nel mondo. Sono fondamentali i tre filoni su cui viene
sperimentato il dolore spirituale, il passato, il presente, il futuro.
Per quanto riguarda il passato, il dolore chiede di ricordare, di dare
un significato che duri nel tempo agli eventi significativi nell’ambito della
propria storia, e che venga vissuto come messaggio – eredità per le
generazioni successive.
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Il presente rappresenta la realtà più angosciante “…E’ oggi che mi
trovo così, non so perché, non so fino a quando…” Emergono rabbia contro
Dio, contro il personale sanitario, contro la società. Qui cresce il bisogno di
capire il perché, di dare un senso alla propria sofferenza.
Il futuro è la speranza, quella che si dice sia l’ultima a morire; il
convivere integrando nella propria vita l’esperienza del soffrire, della crisi,
della morte, dando un senso capace di durare nel tempo.
Che cosa è la sofferenza? E’ il dolore senza significato, senza
collocazione, senza spiegazione.
Cause del dolore
Il dolore nel paziente oncologico può riconoscere le seguenti cause:
- Varie patologie (tumori maligni ed eventuali metastasi);
- Complicanze della terapia antitumorale e antalgica (sindromi
dolorose postoperatorie, post-chemioterapia, post-radioterapia). Il dolore
post-chemioterapia, per esempio, può insorgere e manifestarsi con modalità
diverse a seconda del tipo e del dosaggio del farmaco chemioterapico
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utilizzato e a seconda delle variabili costituzionali e soggettive di ogni
singola persona.
- Sindromi paraneoplastiche: si tratta di alterazioni fisiologiche e
biochimiche legate al tumore e/o associate alle malattie croniche già
presenti nel paziente. Tra queste si riconoscono dolore muscolare, l’artrite
reumatoide che causa dolore articolare e muscolare, e infezioni
infiammazioni come si verifica con le lesioni da decubito nei pazienti
allettati.
- Disturbi dolorosi non correlati alla patologia né alla terapia: artriti,
osteoporosi, emicrania.
Influenze sulla qualità di vita
Il paziente nella fase finale della sua malattia polarizza la sua
attenzione sul suo stato al quale né lui ne altri per il momento, hanno dato
una spiegazione. L’ansia iniziale diventa depressione. Il tempo non ha
passato ne futuro, ma soltanto un presente insopportabile e senza
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significato. Quanto più il paziente si chiude in se stesso, tanto più il suo
dolore diventa insopportabile e intollerabile.
L’insieme delle tensioni e dei bisogni che la sofferenza e la morte
fanno esplodere non solo nel malato, ma anche tra i suoi familiari, è da
tener presente soprattutto in un ottica di qualità di MORTE almeno alla pari
con la qualità di VITA, cioè, la necessità di vedere salvaguardata la dignità
della persona durante tutte le fasi della malattia.
Responsabilità infermieristica nell’assistenza al paziente terminale con
dolore cronico
“Funzione specifica dell’infermiere è di assistere l’individuo, malato
o sano, ad eseguire quelle attività che contribuiscono a mantenere la salute,
ottenere la guarigione (o a prepararlo ad una morte serena) atti che
compirebbe da solo, senza aiuto se disponesse della forza, volontà, o delle
cognizioni necessarie, e di aiutarlo a riacquistare l’indipendenza più
rapidamente possibile”.
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E’ proprio risalendo a questa famosa definizione di Virginia
Henderson che già emergono come campi d’azione specifici infermieristici,
non solo quello preventivo, curativo, riabilitativo, ma anche quello
palliativo.
L’obiettivo primario è quello di assistere la persona a recuperare e
mantenere il suo ruolo come membro della società. I programmi di
trattamento usano metodi che promuovono l’integrazione delle dimensioni
fisica, psicologica, sociale, spirituale della persona in relazione al dolore.
Il ruolo dell’infermiere nella cura del dolore è allo stesso tempo
indipendente e interdipendente.
Responsabilità indipendente: l’infermiere ha il compito di insegnare
al paziente come meglio autogestire il dolore e mantenere una funzionalità
ottimale.
Proprio in questo contesto viene massa in risalto la professione
infermieristica in relazione all’importante ruolo che investe soprattutto
nell’applicare una varietà di strategie gestionali (es. tecniche cognitive,
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comportamentali, fisiche, gestione delle medicazioni) e nell’aiutare gli
individui nell’imparare ad usarle.
L’infermiere è responsabile nel riconoscere quella varietà di risposte
umane comportamentali che il paziente con dolore sceglie di sviluppare e
mettere in atto per il controllo dello stesso. La risposta comportamentale fa
parte della gestione del dolore del paziente.
Nell’ambito degli interventi infermieristici ad esempio il
comportamento posturale nel controllo del dolore, può essere incoraggiato
quando l’infermiere: documenta nel piano assistenziale la posizione
antalgica favorita dal paziente; insegna al paziente a spostarsi da quella
posizione solamente quando è necessario; aiuta il paziente a mantenere tale
posizione con cuscini e altri supporti medici.
Nel contesto ospedaliero la pianificazione ha un attuabilità diversa,
in quanto gli infermieri sono disponibili 24 ore su 24 e possono
monitorizzare continuamente sintomi e risposte di pazienti in trattamenti
antalgici e possono determinare se una tecnica è stata applicata
correttamente, se è efficace o ha bisogno di modifiche.
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E’ fondamentale che si riesca a instaurare una positiva alleanza tra
paziente e infermiere, sia per un efficace accertamento, che spesso nei casi
di dolore, è difficile e scrupoloso a causa della soggettività propri di questa
esperienza, sia perché in questo modo si può riuscire a cogliere tutti quegli
aspetti riferiti dal paziente che permettono all’infermiere di accedere a
quell’ampia gamma di esperienze e comportamenti unici nel loro genere.
Responsabilità interdipendenti: Considerando il dolore nella sua
natura multidimensionale, esso richiede una varietà di operatori sanitari, tra
i quali infermieri, medici, terapisti fisici, psicologi, e la persona che è
affetta da dolore può essere aiutata solo da un sistema che funzioni
attraverso un approccio olistico e collaborativo. Quindi, un altro aspetto
dello specifico ruolo infermieristico nei confronti del problema dolore è
quello riguardante l’interdipendenza con le altre figure professionali
presenti nell’equipe che si occupa del paziente terminale con dolore.
L’infermiera ha due obiettivi importanti che caratterizzano la
professione stessa, specialmente all’interno di un equipe multidisciplinare.
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Il primo prevede un contatto continuo con il paziente, ovvero
assistere il paziente all’ interno di un iter continuo che permette
all’operatore sanitario di non soffermarsi alla facciata che la persona malata
presenta al primo impatto, ma di andare più a fondo.
Il secondo obiettivo formativo è quello che mira a sviluppare un
determinato profilo nell’infermiera. Prendersi a cuore tutta la persona, va
dall’ostacolo empatico, al dialogo attento, al vero e proprio counseling fatto
da persone competenti. L’azione specifica dell’assistenza infermieristica
privilegia un attenta analisi dei bisogni assistenziali individuali, come tali,
maggiormente legati al vissuto personale del malato. Accanto al sapere, al
saper fare, il saper essere si pone come elemento fondamentale della prassi
infermieristica, che in questo si differenzia in maniera sostanziale da quella
medica.
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Aspetti relazionali
Nella pratica infermieristica aiutare il paziente ad affrontare la
sofferenza cronica ha due versanti: uno di tipo assistenziale - sanitario,
l’altro di tipo umano.
Il primo versante comporta che la relazione di assistenza fra malato e
infermiere rispetti l’etica del lavoro ben fatto.
Quale dolore è lecito o doveroso trattare? E’ bene ricorrere subito
all’analgesico di fronte a qualunque banale doloretto? Chi stabilisce il
confine tra le varie entità di dolore? L’unico orientamento generale è
questo: va attuato ciò che realizza maggiormente il bene della persona e le
sue capacità di “essere per il bene”. L’obiettivo sarà quello di ridurre la
sofferenza intendendola come dolore globale. L’operatore sanitario ha
perciò la responsabilità professionale di agire secondo scienza e coscienza.
In questo contesto la conoscenza e la competenza nel mettere in
pratica la corretta procedura di terapia del dolore, diventa un atto di
giustizia nei confronti del paziente.
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Non basta la scienza e la coscienza, ma bisogna far ricorso alla
sapienza. Occorre, cioè riscoprire, questa importante risorsa dell’uomo che
valutando con ponderatezza, serenità e fede nella vita, l’esistenza propria e
quella di un altro uomo, sappia operare di conseguenza le scelte più
opportune.
Tali decisioni la coinvolgono nel dibattito più ampio sul diritto del
malato a non soffrire inutilmente, e nel problema più specifico del corretto
uso degli analgesici quando essi mettono in questione la riduzione o
addirittura la soppressione dello stato di coscienza del paziente,
separandolo dalla possibilità di partecipare responsabilmente al proprio
progetto assistenziale.
A volte, il ricorso sistematico ai narcotici potrebbe essere sollecitato
dall’ansia di alleviare il disagio delle persone vicine al malato piuttosto che
da una valutazione oggettiva della sofferenza stessa del paziente.
Inoltre facendo sempre riferimento alla definizione della professione
infermieristica di V. Henderson, l’eticità del lavoro ben fatto, si svela anche
e soprattutto in relazione al fine specifico dell’assistenza: “…Aiutare il
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paziente a acquistare il massimo stato di indipendenza e autonomia il più
rapidamente possibile.” In quest’ottica il dolore ed il suo trattamento
potrebbero essere considerati come fattori che maggiormente favoriscono
od ostacolano l’indipendenza del paziente.
Infatti nei pazienti con dolore sono fondamentalmente 4 i valori
(qualità) umane che vengono coinvolti: l’intelligenza, l’autostima, la
socialità, l’autonomia.
Il dolore è “disumanizzante”; mentre una malattia può distruggere il
corpo, il dolore distrugge l’anima. Infatti quanto più il dolore è grave ,
tanto più oscura l’intelligenza del paziente. E nello stesso codice
deontologico infermieristico questo aspetto viene messo ben in risalto: La
responsabilità dell’infermiere consiste nel CURARE e PRENDERSI
CURA della persona, nel rispetto della vita, della salute, della libertà e
dalla DIGNITA’ dell’individuo[…].
L’infermiere ASCOLTA, INFORMA, COINVOLGE la persona e
VALUTA con la stessa i bisogni assistenziali, anche al fine di esplicitare il
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livello di assistenza garantito e consentire all’assistito di esprimere le
proprie scelte.
La sofferenza non ha senso quando un grido d’aiuto non viene
ascoltato ed accolto, quando malgrado la possibilità tecnica di agire per
lenire il dolore, nulla viene fatto, o viene fatto male, quando manca
qualsiasi conforto, quando uno sguardo che cerca viene lasciato cadere o
evitato, quando viene negato un atteggiamento empatico nella relazione di
cura. La sofferenza non ha senso quando l’uomo è lasciato solo nello
smarrimento di un dolore…
Nel secondo versante la relazione infermiere/paziente rientra nella
situazione che l’operatore sanitario, in quanto uomo o donna, si trova a
vivere senza che esso si configuri come un dovere deontologico, ma
piuttosto sociale, umano, nel quadro della solidarietà alla quale ogni essere
umano è chiamato per la sua stessa natura.
In questo tipo di relazione si riescono a trasmettere volontariamente e
involontariamente, messaggi di tipo prettamente umano, come la
comprensione, la condivisione, la ricerca di senso, l’accettazione.
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L’esperienza della sofferenza induce ad intraprendere un dialogo
interpersonale ad un livello molto più profondo di quanto normalmente
accade: proprio la necessità di comunicare ciò che appare incomunicabile
può spiegare e trovare risorse comunicative insospettate ed a intrecciare
legami di solidarietà molto più stabilmente fondati.
Un’esperienza condivisa da molti, è quella per cui, anche nei casi di
malattie terminale, una comunicazione reale e partecipata è in grado di
rendere vivibile la sofferenza.
La lotta contro il dolore, o se si preferisce, l’aiuto e l’assistenza
all’uomo che si trova nel dolore, non può ridursi alla somministrazione di
analgesici o di stupefacenti, oppure ad altri tipi di interventi esclusivamente
medici, perché questi possono solo calmare temporaneamente il dolore
fisico, ma non toccano la sofferenza interiore.
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La valutazione del paziente con dolore
L’accertamento del dolore costituisce il primo passo per
comprendere in che modo lo percepisce il paziente, e rappresenta la
premessa per una positiva alleanza tra il paziente e l’infermiere. Il processo
di accertamento, nei casi di dolore, è difficile spesso molto scrupoloso, in
quanto il dolore comunica in modi diversi, avendo tuttavia come fattore
comune la sofferenza fisica dell’uomo.
Poiché l’esperienza del dolore è così altamente soggettiva,
l’infermiere deve essere un bravo esercente l’arte dell’accertamento. E “I
pazienti devono essere sottoposti ad una valutazione professionale non ad
un giudizio morale”
Il primo gradino da compiere nella valutazione del paziente con
dolore è quello della raccolta dei dati.
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LA RACCOLTA DATI
Il modello per la raccolta dei dati varia a seconda del contesto clinico
in cui l’infermiere esercita.
Nei diversi contesti in cui l’infermiere può incontrare un paziente
con dolore, la raccolta dati diventa assai diversa proprio in relazione al
diverso tipo di approccio che si riesce ad instaurare. Qualunque sia lo
scenario di lavoro, si prendono in considerazione sia dati oggettivi che
soggettivi.
Il difficile compito di infondere fiducia nel paziente può essere
attuato in diversi modi; a tutti i pazienti si deve far sentire che la loro
individualità è riconosciuta e che il loro problema non è significativo solo
per loro, ma è un momento importante per il lavoro dell’operatore sanitario.
La raccolta dati all’interno di un processo valutativo - assistenziale, è
caratterizzata da tre tappe fondamentali: il colloquio, l’osservazione e
l’esame obiettivo.
70
L’OSSERVAZIONE E L’ESAME OBIETTIVO: L’osservazione è la
modalità che sta alla base di tutti i rapporti relazionali che instauriamo con
gli altri, ed è per questo valorizzata in un contesto sanitario di valutazione
del dolore.
Una buona comunicazione insieme ad una certa accortezza
nell’osservare, sono importanti per un efficace gestione del paziente.
La comunicazione non verbale è il modo attraverso il quale le
persone trasmettono informazioni su loro stessi agli altri tramite segnali
non verbali (linguaggio del corpo). E’ importante che il personale
infermieristico faccia attenzione al modo con cui i pazienti manifestano
segnali per indicare che hanno dolore.
Limiti o restrizioni nei movimenti, il controllo di parti del corpo,
posture anomale e cambiamenti nella statura sono dimostrazioni visive del
dolore per quanto riguarda gli atteggiamenti legati al movimento.
Per quanto riguarda la vista, possono essere riscontrati, l’aumento o
la diminuzione dell’ammiccamento degli occhi, le lacrime, espressioni
facciali, le smorfie, la tensione dei muscoli facciali.
71
Tra i segni verbali, il singhiozzare, il piangere, la compromissione
della fluidità della parola, i cambiamenti di tono.
Tra le emozioni più frequenti nel paziente con dolore sono presenti
rabbia, tristezza, cambiamenti dell’umore.
COLLOQUIO : E’ un importante metodo di valutazione e gestione del
paziente. E’ importante stabilire le aspettative del paziente non soltanto
direttamente correlate al dolore ma indirettamente riguardo ciò che gli
verrà fatto.
In questo contesto è la COMUNICAZIONE VERBALE che viene ad
assumere un ruolo prioritario sia per fornire informazioni ai pazienti, sia
per ottenere informazioni dal paziente.
E’ importante permettere al paziente di sapere cosa gli sta
succedendo in ogni momento (consenso informato), e sono sempre da
considerare i diritti etici del paziente.
Fanno parte di questa fase della raccolta dati sia l’intervista
anamnestica(condizioni fisiopatolologiche ed emotive del paziente) del
72
dolore sia l’esame delle caratteristiche del dolore (localizzazione, qualità,
intensità, periodicità e durata dell’esperienza remota del dolore).
Il trattamento del dolore
E' stato dimostrato che la terapia farmacologica può controllare
efficacemente il dolore almeno nel 90% dei casi.
Il trattamento del dolore cronico deve essere innanzi tutto
farmacologico: infatti il trattamento farmacologico è il primo e il più
importante dei mezzi attualmente a nostra disposizione per il controllo del
dolore; fintanto che il paziente è in preda a dolore non è possibile instaurare
una relazione interpersonale. Innanzi tutto “sedare il dolore”. Attualmente
per il trattamento farmacologico del dolore si seguono le linee guida
dell’OMS, il modello è conosciuto con il nome di “scala analgesica a tre
livelli”: oppioidi maggiori (+/- fans coadiuvanti), oppioidi minori (+/-
coadiuvanti), fans (+/- coaudivanti).
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PROPRIETA’ EFFETTI TIPO DI DOLORE
EFFETTI COLLATERALI
VIE DI SOMMINI- STRAZ.
FANS Paracetamolo A.acetilsalicilico Diclofenac Ketoralac Noramidopirina
Analgesici Anti- infiammatori Antipiretici
Analgesia da “Effetto tetto”
-Acuto e/o cronico -Lieve, moderato -Metastasi ossee -infiamm. muscolo scheletri- che
-Incremento secrezioni gastriche -Allergie, -nefrotossicità, -diatesi emorragica
s.b., os, i.m., e.v., t.d., rettale
OPPIOIDI MINORI Buprenorfina Pentazocina Tramadololo Codeina Metadone
Analgesici non anti-infiammatori
Picco di circa 1 ora, durata dalle 3 alle 14 ore
Dolore cronico moderato o medio intenso
-Sedazione -Nausea -Vomito -Stipsi
s.b, os, i.m, e.v
OPPIOIDI MAGGIORI Morfina Fentanil
Analgesici non anti-infiammatori
Sul SNC, apparato gastrointe- stinale
Dolore di intensità grave
-Sedazione -sonnolenza -depressione respiratoria assuefazione dipendenza -nausea -vomito -stipsi
os, i.m, e.v, s.c, t.d, spinale, rettale
“Lottare attivamente contro la malattia, cercare innanzitutto di ritardare
la scadenza fatale, questo può corrispondere più al bisogno dell’infermiere
che all’aspettativa del malato. Vi sono dei casi, piuttosto numerosi, in cui il
problema primordiale, quello che viene in primo luogo, è di sollevare il
malato dal dolore.”
74
7. CURE PALLIATIVE
In Inghilterra intorno agli anni ’60 nasce un movimento definito delle
Cure Palliative o movimento Hospice.
La capostipite fu la dottoressa Cicely Saunders, che nel 1967 fondò
nei pressi di Londra il primo Hospice, chiamato St Christopher. Il suo
motto era “Curare quando non si può guarire”.
L’obiettivo consiste nel cercare di ottenere la migliore qualità di vita
possibile per i malati giudicati non più guaribili e nel sostenere queste
persone quando la morte si avvicina. Nel raggiungere tale obiettivo
l’attenzione è sempre posta sul paziente e sulla sua centralità nel processo
assistenziale, tenendo conto della sua autonomia decisionale e del mondo di
esperienze che porta con sé.
Le cure palliative sono erogate da un’equipe formata da diversi
professionisti, tra cui anche l’infermiere. La funzione di questo
professionista all’interno dell’equipe risulta essere centrale e fondamentale.
L’infermiere nell’ambito delle cure palliative è investito di maggiore
75
autonomia e responsabilità, perciò può esprimere al massimo le sue
capacità in termini “creativi” e di flessibilità, le sue conoscenze in un
rapporto paritario con le altre figure professionali.
Rifacendoci alla definizione di cure palliative, esse vengono intese
come l’insieme degli interventi medici, psicologici, sociali, messi in atto
nella fase terminale della malattia per il controllo e la gestione dei sintomi
propri della fase; devono comprendere l’elaborazione e la preparazione, nel
rispetto delle credenze del paziente, alla morte, devono tenere conto e
intervenire sulle esigenze psicologiche dei familiari nei periodi di crisi e di
elaborazione del lutto.
L’assistenza infermieristica nelle cure palliative, complicata dalla
fragilità fisica e psicologica dell’individuo terminale, diviene più
complessa in quanto si basa anche sull’utilizzo di operatori non
professionali, i familiari, che oltre ad essere impegnati dal punto di vista
tecnico sono coinvolti affettivamente, e quindi bisognosi essi stessi di
attenzione. L’assistenza al malato terminale necessita di un approccio
olistico che include: la comprensione del processo patologico, l’utilizzo di
76
interventi appropriati per alleviare la sofferenza fisica, l’esplorazione
“dell’unità” dell’individuo, una comprensione dei bisogni psicologici ed
emozionali della persona malata, il rispetto della persona e di tutti i membri
della famiglia.
Di fondamentale importanza, appare, la stretta collaborazione tra le
diverse figure che vengono ad operare nell’ambito nella medicina
palliativa: la creazione di un equipe multidisciplinare è il presupposto
essenziale affinché una unità operativa di cure palliative possa adempiere
agli obiettivi stessi che la medicina si prefigge di fronte questo tipo di
malati.
La più comune responsabilità della pratica infermieristica clinica
consiste nell’aiutare il medico a diagnosticare e a trattare le malattie
dell’uomo e pertanto a mantenere l’equilibrio e la stabilità nel sistema
biologico umano. La principale responsabilità infermieristica tuttavia
consiste nel diagnosticare e trattare le risposte umane a problemi sanitari
reali o potenziali e mantenere così l’equilibrio e la stabilità nel sistema
comportamentale umano.
77
Alla terapia farmacologica possono essere affiancate una serie di
Tecniche non Farmacologiche che possono aiutare la riduzione del dolore.
Effettuando una ricerca rispetto alle pubblicazioni sul trattamento non
farmacologico per la gestione, il controllo e l'alleviamento del dolore
cronico abbiamo cercato di valutare l'efficacia di tali interventi.
I metodi trattati sono:
- Terapia comportamentale
- Medicine complementari
- Relax
- Musicoterapia
- Immagine guidata
- Massaggio
- Tecniche di distrazione
- Tecniche di stimolazione cutanea
Le tecniche complementari sembrano produrre effetti sull'individuo
che promuovono i meccanismi di modulazione del dolore e riducono la
percezione dello stimolo nocivo; tale struttura teorica si basa sulla "teoria
78
del cancello" elaborata per la prima volta da Melzack e Wall nel corso degli
anni '50 e perfezionata nel 1965 e nel 1982 a seguito delle scoperte rispetto
alla struttura del sistema nervoso.
Tutti gli elementi indicano una ridotta eccitabilità del sistema
nervoso simpatico dovuta ad una ridotta sensibilità degli organi terminali
alla noradrenalina o ad una variazione del tasso delle catecolamine e delle
endorfine.
La teoria del cancello viene usata anche per spiegare l'efficacia del
massaggio sul dolore; gli effetti periferici della stimolazione tattile sono
l'aumento del flusso ematico, miglioramento del tono muscolare e
riduzione della tensione muscolare.
Le tecniche di distrazione possono agire sul dolore con effetti
nell'area cognitiva (aumentando il controllo, la distrazione o l'attenzione) o
riguardo l'affettività (migliorando l'umore ed il rilassamento e riducendo
l'ansia), favorendo la produzione di endorfine e i meccanismi endogeni di
riduzione del dolore.
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L'applicazione delle tecniche sopra citate permette sicuramente di
poter interagire con il paziente come individuo nella sua totalità, di
utilizzare tutte le diverse capacità sensoriali del paziente per trasmettere
informazioni che permettano di elaborare l'esperienza del dolore
promuovere il rilassamento e la distrazione.
Fondamentale risulta il coinvolgimento del gruppo familiare o di
persone significative nell'addestramento all'uso di tali tecniche , sfruttando
così i principi di funzionamento del piccolo gruppo ed aiutare pazienti e
familiari ad individuare un ulteriore bisogno d'aiuto nel fronteggiare il
dolore.
“La medicina delle cure palliative è e rimane un servizio alla salute. Non
dunque una medicina per morente e per aiutare a morire, ma una medicina
per l’uomo, che rimane un vivente fino alla morte.”
80
8. LA FAMIGLIA DEL PAZIENTE
La fase terminale della malattia coinvolge profondamente ogni sfera
della vita del malato: e i suoi familiari sono indubbiamente le persone più
partecipi d’un simile dramma.
Trattare un paziente terminale vuol dire agire tutta una serie di
sistemi di relazione, affettivi e sociali.
La sofferenza del malato, la necessità di terapie continuative e di un
costante controllo medico, le limitazioni funzionali che possono arrivare ad
un grado estremo si riverberano spesso drammaticamente sui suoi familiari
e sul sistema di relazione della famiglia.
E’ indispensabile tenere conto delle relazioni della famiglia di fronte
a quell’avvenimento che è per ogni paziente la notizia che per lui non c’è
niente da fare; di conseguenza a questo si produce una differenza
nell’ambiente familiare tale da modificare tutte le variabili relazionali in
gioco. Questa differenza produce una riorganizzazione globale di tutta la
81
famiglia, estendendo così tutti i suoi effetti anche al rapporto
medico/paziente/famiglia/paziente.
Gli ultimi giorni di vita hanno un effetto destabilizzante su tutto
l’ambiente che circonda il paziente e segnala un cambiamento di stato cui
la famiglia risponde rivedendo i ruoli e le relazioni interne.
Nel momento in cui una persona diventa “malata terminale”, infatti,
l’organizzazione familiare è obbligata a raggiustarsi: il paziente
diagnosticato perde il suo ruolo di soggetto autonomo e indipendente per
diventare una persona di cui è necessario occuparsi; gli altri familiari
diventano responsabili della sua vita e della sua malattia; una gran parte
delle risorse emotive della famiglia devono essere utilizzate per affrontare
la nuova realtà; la famiglia stessa, rispetto alle istituzioni sanitarie e ai
medici, diventa dipendente e in posizione di soggezione; repentine
modifiche delle priorità della famiglia; modifiche della vita quotidiana e
dell’attività lavorativa; possibili difficoltà economiche indotte dalla
malattia; una visione del paziente verso la non guarigione.
82
E’ possibile ipotizzare comunque tre forme fondamentali di reazione
familiare:
- Negazione: in questo caso la famiglia continua a comportarsi come
se nulla stia per accadere. La gravità della situazione a volte viene
trascurata.
- Ipercoinvolgimento: tutte le routines e le abitudini della famiglia si
riorganizzano intorno all’imperativo di curare il soggetto malato, accudirlo
e ridurre la sofferenza. L’ansia di tutti i familiari raggiunge un livello molto
alto, massime sono le pressioni e le insistenze sui curanti e anche il
desiderio di terapie “magiche”.
- Di stanziamento: l’esistenza della situazione è accettata, ma la
presenza in casa del malato rifiutata. Le richieste di ricovero sono assidue:
il malato deve essere collocato fisicamente fuori della famiglia.
L’adattamento emotivo del paziente morente risulta fortemente
influenzato dalla risposta emotiva e dal comportamento dei familiari;
diversi fattori influenzano l’adattamento della famiglia alla malattia:
- lo “stadio di sviluppo” della famiglia;
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- l’organizzazione familiare;
- la storia della famiglia e dei suoi singoli membri;
- le variabili culturali ed il supporto sociale.
Uno dei bisogni predominanti della famiglia concerne la necessità di
ricevere informazioni da parte del personale sanitario, sia per ridurre
l’impatto psico-sociale della situazione che per ridurre l’ansia e la
depressione della persona malata.
Un’altra fondamentale necessità della famiglia durante la fase
terminale della malattia è quella di sapere rispondere in modo adeguato ai
bisogni fisici del paziente, al fine di evitarne la sofferenza e garantirgli una
buona qualità degli ultimi giorni di vita.
Fornire un sostegno psicologico ai familiari del malato terminale
consente di conseguire un duplice risultato. Un tale lavoro, infatti, non è
fine a se stesso, dal momento che la famiglia può fungere da “tramite
terapeutico”. La famiglia va coinvolta nel problema. La comune emotività
va affrontata, va agita, possibilmente va risolta attraverso un processo per il
84
quale tutte le energie intrapsichiche vengono canalizzate verso obiettivi più
congrui rispetto alla situazione.
La famiglia deve essere ampiamente informata sulle modificazioni
che il corpo del paziente può subire direttamente prima e dopo il decesso.
Essi non devono essere sorpresi dalla respirazione irregolare, dalle
estremità fredde, dalla confusione, da un colorito purpureo della cute o
dalla sonnolenza nelle ultime ore. Gli ultimi momenti di vita possono avere
un effetto durevole sulla famiglia, sugli amici e su chiunque offra
assistenza al paziente. Il paziente deve stare in una zona pacifica, quieta e
fisicamente confortevole. L’infermiere in questi momenti ha il compito non
solo di stare vicino al paziente, ma anche alla famiglia, che deve essere
incoraggiata a mantenere il contatto fisico con il paziente, come tenergli le
mani. Se desiderato dal paziente e dalla famiglia, deve essere incoraggiata
la presenza di amici e di preti. Deve essere concesso un accomodamento
per i riti spirituali, culturali, etnici o personali del trapasso desiderati dal
paziente e dalla famiglia.
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9. IL DECESSO DEL PAZIENTE IN REPARTO:
RUOLO DELL’INFERMIERE
Una volta avvenuto il decesso, se non è presente il medico,
l’infermiere provvede ad una prima constatazione rilevando i segni di
morte negativi, vale a dire cessazione del respiro, attività cardiaca (polso
carotideo, in quanto gli altri polsi non potrebbero essere attendibili) e
neuro-muscolare (riflesso pupillare: diminuzione o aumento del diametro
della pupilla mediante stimolazione luminosa; riflesso corneale: evocabile
toccando l’occhio che determina la chiusura delle palpebre).
Immediatamente l’infermiere dovrà chiamare il medico per la
constatazione legale di decesso (quella effettuata dall’infermiere non ha
valore legale).
Nell’attesa che arrivi il medico dovrà avere cura di:
- isolare la salma mediante paraventi o tendine se la stanza in cui si è
verificato il decesso è a più letti;
86
- preparare la cartella clinica e la modulistica necessaria (cartellini di
identificazione della salma, modulo di avviso di morte, modulo denuncia di
causa di morte e modulo ISTAT).
Il medico accerta la morte del paziente, registra la constatazione del
decesso sulla cartella clinica e firma la modulistica secondo la procedura
descritta più avanti. Non sempre è necessario l’utilizzo di apparecchiature
cliniche (ECG) per questa rilevazione.
Rapporti con i parenti
II Codice Deontologico specifica che "l'Infermiere sostiene i
familiari dell'assistito, in particolare nel momento della perdita e nella
elaborazione del lutto ".
Se i parenti sono presenti in reparto occorre assisterli e fornire loro
tutte le informazioni necessarie sulle procedure da seguire successivamente
al decesso (dove verrà trasportata la salma, orari della camera mortuaria,
adempimenti veri, ecc.). Se i parenti non sono presenti sarà cura
87
dell'infermiere avvisarli utilizzando il recapito telefonico precedentemente
comunicato.
Nel comunicare con i familiari occorre usare attenzione e delicatezza
per evitare di traumatizzarli.
Tutti gli oggetti personali ed i valori devono essere consegnati ai
parenti; qualora non siano presenti occorre redigere un verbale con l'elenco
e la descrizione degli oggetti di valore che deve essere sottoscritto dagli
infermieri di fumo e consegnato in copia, unitamente agli oggetti, al
personale incaricato alla custodia dei valori presente in ogni ospedale.
In caso di presenza di somme ingenti di denaro o di oggetti di grande
valore che potrebbero dar luogo a contenziosi relativi alla eredità del
defunto, è buona norma non consegnare nulla ai parenti presenti al
momento del decesso; la consegna va effettuata al personale addetto alla
custodia valori che poi provvederà alla restituzione degli oggetti ai parenti
nel rispetto della previsioni di legge.
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Aspetti religiosi
Nel rispetto della libertà religiosa, occorre informarsi verificando
sulla cartella infermieristica la religione di appartenenza della persona
deceduta. Se è di religione cattolica si può provvedere, previo consenso dei
familiari se presenti, a chiamare il sacerdote per somministrare il
sacramento dell'unzione degli infermi. Detto sacramento andrebbe
somministrato quando la persona è ancora in vita ma, in caso di morte
improvvisa il sacerdote può comunque somministrarlo con riserva. Qualora
il deceduto sia appartenente ad altra religione occorre procedere secondo le
regole vigenti in ospedale.
Sistemazione della salma
Prima di provvedere alla sistemazione della salma occorre attendere
che i familiari (qualora non presenti) arrivino da casa: non è infatti
decoroso far trovare ai parenti il loro congiunto sistemato nel modo in cui
si predispone il trasporto in camera mortuaria.
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Pertanto: se i parenti sono presenti si da loro la possibilità di
rimanere un po' di tempo accanto al deceduto prima di procedere alla
sistemazione della salma, mentre se i parenti devono arrivare da casa, si
dovrà attendere il loro arrivo.
Nel frattempo, sempre dopo la constatazione ufficiale del medico, si
provvede a togliere eventuali drenaggi, fleboclisi, cateteri, sondini, ecc. in
modo che all'arrivo dei parenti la salma sia nel letto, isolata con i paraventi,
con ancora il pigiama, con le palpebre abbassate e con il solo lenzuolo di
sopra alzato a coprire il capo. Il pacemaker, qualora fosse impiantato, non
va tolto.
La salma deve essere sistemata e trasportata in luogo idoneo per
l'osservazione nel più breve tempo possibile.
Se in reparto esiste un locale dedicato, la salma, dopo la visita dei
parenti, può essere isolata e preparata in detto locale, altrimenti la
preparazione avviene nella stanza di degenza dopodiché si effettua il
trasporto i camera mortuaria.
90
La preparazione della salma deve:
- garantire il massimo rispetto della persona deceduta;
- evitare la diffusione di infezioni ed eventuali intestazioni di parassiti;
- facilitare una rapida identificazione in camera mortuaria.
Materiale occorrente. Un carrello a due piani con:
- tre lenzuola
- un copriletto
- un asciugamano
- guanti monouso
- un catino
- due bacinelle reniformi grandi
- una brocca con acqua
- DPI (camice, mascherina, occhiali)
- Cartellini identificativi
- Scatolone per rifiuti sanitari pericolosi a rischio infettivo
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Tecnica (due infermieri):
- indossare i DPI necessari
- scoprire la salma
- spogliarla degli indumenti
- rinnovare le medicazioni in presenza di ferite secernenti
- lavare e asciugare rapidamente il corpo
- cambiare il lenzuolo di sotto del letto se non e pulito
- stendere un lenzuolo pulito sotto la salma
- coprire con una falda cotone o con un pannolone l'ano e il meato
urinario
- applicare un cartellino identificativo secondo le regole in uso
- avvolgere la salma con il lenzuolo lasciando scoperto solo il viso
- chiudere bene le palpebre
- non legare ne tamponare la salma
- coprire la salma con un lenzuolo pulito ed un copriletto
- applicare un secondo cartellino all'esterno
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- arieggiare la stanza
- riordinare e disinfettare il materiale usato
- attendere il trasporto in camera mortuaria
- unitamente alla salma va inviata in camera mortuaria la fotocopia del
frontespizio della cartella clinica su cui è evidenziata la firma del medico di
reparto, la non richiesta di riscontro diagnostico, i dati anagrafici e l'ora
esatta del decesso.
Altri compiti dell’infermiere
Dopo il decesso occorre ricordarsi di:
- la caposala deve consegnare non prima di 15 ore e non dopo le 30
ore dal decesso la documentazione, comprensiva di cartella clinica e
modello ISTAT alla Direzione Sanitaria dei Presidi Ospedalieri;
- togliere la cartella infermieristica dopo aver effettuato le registrazioni
di competenza;
- togliere tutta la documentazione clinica del paziente
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- cancellare la terapia o togliere il foglio dal registro
- cancellare il nome dall'elenco
- verificare che sia gettata la terapia eventualmente già predisposta per
il paziente deceduto
- inviare il Direzione sanitaria la comunicazione di avvenuta morte nel
rispetto della legge sugli espianti.
Il medico di reparto deve (se la causa di morte è nota): annotare in cartella
clinica l'ora e la constatazione dell'avvenuto decesso e controllare i dati
anagrafici.
Il personale ota e ausiliario deve: trasferire la salma dal letto di
reparto alla lettiga dedicata al trasporto (tale manovra sarà eseguita con la
dovuta attenzione soprattutto nel porre il corpo con il capo nella giusta
parte della lettiga); durante il trasporto, l'operatore non dovrà mai, per alcun
motivo, lasciare incustodita la lettiga.
Il personale della camera mortuaria deve: trascrivere sul registro
ufficiale del Servizio i dati identificativi della salma presenti sul cartellino
identificativo o compilalo dagli operatori del reparto di provenienza;
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comporre la salma nella sala di osservazione; accertarsi che la salma sia
stata composta in modo tale da non ostacolare eventuali manifestazioni di
vita; collegare gli avvisatori acustici alla salma; predisporre la modulistica
necessaria al medico necroscopo per i successivi atti medico-legali avendo
cura di controllare attentamente i dati anagrafici del defunto; vigilare
l'integrità della salma fino alla consegna alla ditta incaricata del trasporto.
Osservazione della salma
Il periodo di osservazione dura di norma 24 ore, ai sensi dell'art. 8
del Regolamento di Polizia Mortuaria approvato con DPR 285/90; "durante
detto periodo il corpo deve essere posto in condizioni tali che non
ostacolino eventuali manifestazioni di vita ".
Per questo motivo, la persona deceduta deve essere posta in un locale
riscaldato, non deve essere tamponato nella cavità orale, non deve avere
mani e piedi legati, non deve essere applicata la fionda per la chiusura del
mento. Deve essere messo in condizione di poter chiedere aiuto in caso di
risveglio da morte apparente.
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La certezza della morte si ottiene durante il periodo di osservazione
mediante l'osservazione delle note tanatologiche che sono: rigor mortis,
raffreddamento del corpo e chiazze ipostatiche.
La rigidità cadaverica si manifesta dopo 2-3 ore dal decesso,
scompare progressivamente entro 24/36 ore.
La temperatura del corpo si abbassa di un grado l'ora fino ad
uniformarsi alla temperatura esterna, su valori sicuramente non compatibili
con la vita (>25°).
Le ipostasi cadaveriche sono chiazze bluastre che non scompaiono
alla digitopressione; esse si formano nelle zone declivi a causa del
rallentamento o della cessazione dell'attività circolatoria. Esse indicano la
posizione che il corpo aveva nel momento del decesso, per questo sono
importanti anche in medicina legale.
Va tenuto presente, peraltro, che tali segni di morte non sono
assolutamente, tassativamente certi perché un spiccata diminuzione della
temperatura corporea può aversi in occasione di assideramento, si hanno
96
rigidità anche su base catatonica e quindi per fenomeni non mortali, un
accenno di ipostasi può verificarsi negli agonizzanti, in soggetti con
spiccato rallentamento dell'attività circolatoria.
L'unico segno di morte assolutamente certa, rilevabile con i comuni
mezzi semeiologici, è costituito dalla colorazione verdastra in fossa iliaca
destra (la cosiddetta macchia verde putrefattiva) che compare
inizialmente in questa sede, poiché la cute addominale è a stretto contatto
con il cieco normalmente assai ricco di germi che rapidamente si
sviluppano, producono idrogeno solforato che trasforma l'emoglobina in
solfo-meta-emoglobina, da cui la colorazione verdastra. Raramente però
questo segno si manifesta nelle prime 24 ore.
Il personale della direzione sanitaria deve: presentare al Direttore
sanitario dei presidi ospedalieri la scheda ISTAT e l'avviso di morte di
morte per la visione e la firma; fare una fotocopia dell'avviso di morte e
conservarla presso gli uffici della direzione sanitaria; consegnare all'ufficio
dell'anagrafe del Comune di Roma la scheda ISTAT e l'avviso di morte;
provvedere alla trasmissione al Settore di medicina legale della ASL del
97
certificato necroscopico in copia per gli adempimenti conseguenti di quel
settore.
Esposizione della salma
L'esposizione della salma avviene generalmente in un locale idoneo
attiguo alla camera mortuaria. La sistemazione del corpo prima della
esposizione è a cura dell'agenzia funebre incaricata dai familiari del
defunto. Per questo motivo occorre dare loro informazioni corrette al fine
di far portare abiti o altri indumenti utili per la composizione della salma
non presso il reparto, bensì direttamente in camera mortuaria.
98
10. LA MORTE NEL CODICE DEONTOLOGICO
DELL’INFERMIERE
“Noi sani, noi vivi, possiamo solo immaginare come ci si sente in quel
momento, ma non possiamo cogliere tutte le sfumature di chi vuol
ricordare, fare consuntivi, cullare speranze, provare amore in vista
dell'esame finale più importante, preparare la difesa per il processo più
temuto.”
La malattia inguaribile e la morte rappresentano una situazione
sconosciuta, che mette in crisi anche il personale sanitario più esperto che
quotidianamente si confronta con il limite della sua conoscenza e del suo
ruolo.
Di fronte a questo evento nulla vale la scienza, la tecnologia più
avanzata, i farmaci più efficaci; il personale sanitario vive la morte come
una sconfitta, un affronto, una situazione da dimenticare o da negare.
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Nella società moderna la morte è vissuta come un avvenimento che
ostacola il normale iter delle cose; l'uomo non è né preparato né educato a
considerare la morte come naturalmente legata al ciclo della vita, ciò in
quanto l’esistenza è improntata sul mito dell'eterna giovinezza e sul culto
del benessere e non si accetta che l'una e l'altro possano essere sconfitti
dalla morte.
L'individuo, a livello inconscio, non crede di morire poiché
quest'evento non gli appartiene, non l'ha mai sperimentato e pertanto tende
a negare la propria morte e ad accertare con difficoltà e con distacco quella
degli altri.
Chi sta morendo ha diritto:
- Ad essere considerato persona sino alla morte;
- Ad essere informato sulle sue condizioni, se lo vuole;
- A non essere ingannato e a ricevere risposte veritiere;
- A partecipare alle decisioni che lo riguardano e al rispetto della sua
volontà;
- Al sollievo del dolore e della sofferenza;
100
- A cure ed assistenza continue nell'ambiente desiderato;
- A non subire interventi che prolunghino il morire;
- Ad esprimere le sue emozioni;
- All'aiuto psicologico e al conforto spirituale, secondo le sue convinzioni e
la sua fede;
- Alla vicinanza dei suoi cari;
- A non morire nell'isolamento e in solitudine;
- A morire in pace e con dignità.
Noi possiamo fare molto per recuperare il senso più autentico della
morte poiché, in quanto l’infermieri, ha la responsabilità di "prendesi cura
della persona nel rispetto della vita, della salute, della libertà e della
dignità dell'individuo" (Codice Deontologico dell’Infermiere, Federazione
Nazionale Collegi IP.AS.VI. 1999) e pertanto dobbiamo sostanziare con
atti concreti i diritti dei morenti. Questo non solo per compito istituzionale
ma per profonda convinzione etico-deontologica.
101
A questo proposito il punto 4.15 del Codice Deontologico così si
esprime:
“L’infermiere assiste la persona, qualunque sia la sua condizione
clinica e fino al termine della vita, riconoscendo l’importanza del
conforto ambientale, fisico, psicologico, relazionale, spirituale.
L’infermiere tutela il diritto a porre dei limiti a d eccessi diagnostici e
terapeutici non coerenti con la concezione di qualità della vita
dell’assistito.”
“…Quando la sfida medica vacilla di fronte all’inevitabilità della morte
allora il moribondo subisce un triplice isolamento: spaziale (lo si colloca
in disparte o lo si nasconde dietro un paravento), temporale (si risponde
con minor premura alle sue chiamate), relazionale (la persona che si
occupa di lui è sempre meno altolocata nella gerarchia delle mansioni
mediche….”
102
Riprendiamo ora il punto 4.15 del Codice deontologico e parliamo del:
Conforto ambientale
In Ospedale esistono spazi dedicati ed attrezzati per garantire al
paziente le più moderne terapie, locali adibiti a camere da letto per le
partorienti create per demedicalizzare l’evento fisiologico della nascita.
Se la morte fa parte del ciclo della vita, e quindi è un evento naturale
come la nascita, è necessario individuare nelle nostre corsie ambienti
confortevoli, silenziosi e capaci di ricreare il più possibile il clima di casa
consentendo ai familiari di stare vicino e sostenere il loro caro sino alla
fine, senza limitazioni di orario e di accudimento. Risulta essenziale dar
loro la possibilità di alimentarlo, lavarlo, sistemargli i cuscini, di compiere
cioè atti semplici che rappresentano occasioni di comunicazione affettiva
con il loro caro.
103
Conforto fisico
Molto può essere fatto anche sul piano della sofferenza fisica.
Occorre un’alleanza tra il Medico e l’infermiere perché venga concordato
un programma terapeutico-assistenziale capace di alleviare e risparmiare al
paziente e ai familiari inutili sofferenza in vista di una morte dignitosa.
Vale ricordare quanto disposto dall’articolo 37 del Codice di deontologia
medica:
“In caso di malattie a prognosi sicuramente infausta o pervenuti alla
fase terminale, il Medico deve limitare la sua opera all’assistenza
morale e alla terapia atta a risparmiare inutili sofferenze, fornendo al
malto i trattamenti appropriati a tutela, per quant o possibile, della
qualità della vita”
Inoltre l’entrata in vigore della legge n. 39 del 26 Febbraio 1999
sulla terapia del dolore ha adeguato il quadro normativo alle reali esigenze
della medicina palliativa che deve essere intesa come “un processo
terapeutico finalizzato non solo al controllo dei sintomi, ma soprattutto alla
104
difesa e al recupero della migliore qualità di vita possibile, mediante
interventi che coinvolgono anche la sfera psicologica, spirituale e sociale”
Conforto psicologico-relazionale
Più facile a dirsi che a farsi proprio perché saper instaurare,
affrontare e mantenere un adeguato rapporto con il morente e con la sua
famiglia non è facile per nessuno. Occorre saper instaurare una relazione di
aiuto “singolare” che, oltre a basarsi sul rapporto empatico, sull’ascolto
attivo, sulla comprensione e sulla solidarietà, deve possedere “quel certo
non so che”, ogni volta diverso perché legato all’unicità e irripetibilità della
persona assistita, volto ad aiutarla ad affrontare una “morte serena e
dignitosa”.
105
Conforto spirituale
Consideriamo ora l’atteggiamento da assumere nella soddisfazione
del bisogno spirituale. Adesso come non mai la nostra società è divenuta
multietnica e multiculturale e il bisogno spirituale delle persone ha assunto
dimensioni sino ad ora quasi sconosciute.
E’ compito specifico dell’infermiere assicurare, nel rispetto della
volontà della persona, la presenza del Ministro del culto quando il morente
è ancora in condizioni di comprendere e trarre conforto dall’aiuto che
riceve: ha poco significato chiamare il religioso quando il paziente sta
esalando l’ultimo respiro, questo serve solo a tacitare le coscienze dei vivi.
Il dovere dell’Infermiere di tutelare il diritto a porre limiti ad eccessi
diagnostici e terapeutici incoerenti con la qualità della vita dell’ assistito è
strettamente legato al dovere del Medico di astenersi dall’ostinazione in
trattamenti, da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la
salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita (Art. 14).
L’alleanza Medico - Infermiere è dunque fondamentale per
assumersi la responsabilità del prendersi cura e garantire che al paziente
106
vengano praticate le normali cure del caso senza peraltro sottoporlo a
trattamenti non più adeguati alla reale situazione perché ormai
sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare o anche perché troppo
gravosi per lui e per la sua famiglia.
Il tema della responsabilità dell’Infermiere nell’era tecnologica è
stato affrontato anche nell’ultimo Congresso Nazionale IP.AS.VI. svoltosi
a Roma dal 19 al 21 Settembre scorso.
Il punto 1.3 del Codice Deontologico cita:
“La responsabilità dell’Infermiere consiste nel curare e nel prendersi
cura della persona, nel rispetto della vita, della salute, della libertà e
della dignità dell’individuo.”
“L’infermiere, nell’aiutare e sostenere la persona nelle scelte
terapeutiche, garantisce le informazioni relative al piano di assistenza
ed adegua il livello di comunicazione alla capacità del paziente di
comprendere. Si adopera affinché la persona disponga di informazioni
107
globali e non solo cliniche e ne riconosce il diritto alla scelta di non
essere informato.” (Punto 4.5 del Codice Deontologico)
Anche questo è un altro momento difficile da affrontare e gestire nel
processo del prendersi cura poiché è indispensabile riuscire a capire se dire
o meno la verità al paziente destinato a morte sicura.
L’Infermiere è combattuto tra la “paura di non saper gestire reazioni
eccessive ed inconsulte e la contraddittorietà di rassicurare un paziente che
egli osserva con impotenza spengersi lentamente ed inesorabilmente.”
108
CONCLUSIONI
Si parla sempre più spesso, da qualche tempo, di diritti dei malati
terminali. Vocaboli quali accanimento terapeutico, living will, sostegno
vitale, eutanasia, scelte di fine vita, biocard, sono ormai ricorrenti sulle
pagine dei quotidiani. E il discorso non tocca solo episodi di malasanità o
passaggi di cronaca giudiziaria; quasi giornalmente medici, filosofi e
politici si confrontano, anche nel nostro Paese, su un tema fin a pochi anni
fa giudicato scabroso, rimosso un po’ da tutti: la condizione
giuridico/sanitaria di chi sta per morire.
Alla diffusione di questi argomenti ha contribuito, da un lato,
l’invecchiamento progressivo della popolazione, con il moltiplicarsi di
patologie legate all’età avanzata; dall’altro lato, la frequente trasformazione
in situazioni croniche di malattie che, nel passato, consumavano
repentinamente chi ne era affetto (si pensi ai progressi scientifici nelle cure
oncologiche).
109
Risulta sempre più evidente come la qualità della vita di coloro che
hanno pochi mesi innanzi a sé sia un affare dell’intera comunità, non
ristretta al personale ospedaliero o ai famigliari dell’infermo.
Una fiammella umana che si spegne è pur sempre un vita, una fase
(l’ultima) dell’esistenza di ciascuno. Prepararsi alla morte nel rispetto della
propria dignità, dei propri affetti, della propria visione del mondo; ecco ciò
che, più di qualsiasi altra cosa sulla terra, può desiderare ognuno di noi,
quando pensa a momenti del genere. Se così è, sembra difficile negare
come il patimento e i malesseri psico-fisici, che caratterizzano tanto spesso
la condizione del malato terminale, andrebbero presi in seria
considerazione e rintuzzati/prevenuti dalla società, utilizzando a tal fine
qualsiasi strumento la moderna medicina possa offrire.
La morte ha qualcosa di paradossale: pur essendo uno dei momenti
più significativi nella vita di una persona, perché la conclude e perché
intorno ad essa il pensiero ha elaborato riflessioni e rappresentazioni a non
finire, non è traducibile in alcuna esperienza.
110
Ai fini di un'esperienza di vita è, in tal senso, molto più importante il
dolore, anche perché di questo noi possiamo conservare un ricordo, che poi
può servirci per sopportare meglio il dolore la volta successiva.
Il dolore ci fortifica, la morte ci distrugge o, se vogliamo, ci libera
dal peso di un dolore insopportabile, vero o immaginario che sia, sempre
che la morte sia per così dire "naturale" e non ci colga di sorpresa. Noi
possiamo avere esperienza solo della morte altrui, che ci addolora in misura
proporzionale ai sentimenti provati per quella persona in vita. Il motivo per
cui non riusciamo ad accettare la morte è dovuto al fatto che per istinto
rifiutiamo l'idea che ci venga a mancare una persona amata. Ma una vita
che abbia condotto un'esistenza normale, di regola avverte la morte come
un fenomeno naturale, che pone fine a una vita che si sta logorando. E'
proprio la consapevolezza di veder deperire fisicamente il corpo che induce
a vedere la morte come una soluzione liberatoria. Anzi, si potrebbe dire che
si avverte la fine come prossima quando la vita in generale, il suo
trascorrere nel tempo, le forme in cui essa si manifesta non risultano più
111
idonee a proseguirla e vengono in sostanza percepite, o meglio, sentite,
come un peso insopportabile.
Il corpo è un involucro soggetto a decomporsi: quando si comincia
ad avere consapevolezza di questo, si comincia anche a desiderare di vivere
una nuova condizione. Questo processo evolutivo può essere
tranquillamente applicato alla storia di tutte le civiltà. E' proprio il concetto
di tempo, la percezione del suo trascorrere, che ci mette in condizioni di
comprendere se determinate forme di esistenza possono essere considerate
irreversibilmente superate o no. Non si può attribuire alla morte un
significato più grande di quello che si deve attribuire alla vita, appunto
perché della morte noi non possiamo avere alcuna vera esperienza.
“Chi seppe farsi amare non muore interamente lascia la sua memoria
come alle notti la stella lascia un bianco lucor che nessuna ombra invola e,
morto nella sua bara, rivive dentro ai cuori No….tutto non è perduto”
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