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CAMBIARE LITALIA CON LE IDEE Relazione del Presidente Stefano Landi Reggio Emilia, 26 giugno 2013

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Page 1: Assemblea Unindustria Reggio Emilia 2013 - relazione presidente Stefano Landi

CAMBIARE L’ITALIA CON LE IDEERelazione del Presidente Stefano Landi

Reggio Emilia, 26 giugno 2013

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Signor Ministro, Autorità, Signore e Signori, Colleghe e Colleghi,

sono trascorsi sei mesi da quando gli imprenditori reggiani hanno deciso di dar vita alla loro grande Associazione unitaria.

Le parole del Presidente Kennedy ben sintetizzano la visione che li ha guidati.

“Cambiare è la legge della vita. Chi guarda solo al passato o al presente perde il futuro”.

Un messaggio che ben esprime non solo la volontà di rinnovamento, ma anche e soprattutto, quello slancio verso il domani che rappresenta il tratto distintivo dell’agire imprenditoriale.

Una volontà di guardare avanti per la quale abbiamo messo in discussione – attraverso l’unificazione – equilibri consolidati, esperienze e identità associative.

Una scelta dettata, prima di tutto, dalla volontà di dare maggior rappresentatività al nostro sistema produttivo che da anni affronta una grande trasformazione che s’intreccia con la crisi e i troppi mali del Paese.

LA GRANDE CRISI

Dal 2007 a oggi il Prodotto Interno Lordo italiano è sceso di otto punti, tornando così ai livelli del 1997.

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La manifattura registra un calo di produzione del 25%.

Il 15% della base produttiva industriale è perduto.

Abbiamo raddoppiato il numero dei disoccupati che sfiora ormai la cifra di tre milioni tra uomini e donne, soprattutto giovani.

Ma non si tratta solo di danni materiali.

La crisi opera come un solvente che tende ad allentare i legami sociali: nelle aziende, tra datori di lavoro e collaboratori; nelle filiere produttive, tra fornitori e committenti; nell’economia, tra chi investe e chi finanzia; e, infine, nel sistema delle relazioni sociali e nelle istituzioni.

Dovunque si guarda ci si accorge di quanto l’Italia sia inadeguata alle dinamiche competitive della nuova dimensione globale.

La consapevolezza dell’eccezionalità dei tempi ci ha spinti a dedicare questa assemblea alla sola possibile via d’uscita: “cambiare l’Italia con le idee”.

Facciamo riferimento alle idee perché crediamo che i fattori materiali non siano l’unico e più importante elemento di sviluppo.

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Oggi, sono indispensabili anche politiche capaci di mobilitare il Paese.

Esattamente ciò che non è stato fatto in questi anni di “decrescita”, per nulla felice, nella quale s’è palesata quell’Italia a due velocità da tempo descritta da economisti e sociologi.

Da un lato, un sistema industriale forte e competitivo; dall’altro, una parte dell’economia e della società totalmente impreparata a misurarsi con le dinamiche competitive della globalizzazione.

UN GRANDE CUORE INDUSTRIALE

È l’export che conferma l’esistenza di un’altra Italia.

La nostra industria è seconda in Europa, settima nel mondo e quinta assoluta per esportazione.

Un flusso imponente di produzioni ha iniziato a raggiungere anche i mercati più lontani compensando, in tal modo, i cali registrati in Italia e in Europa.

Nell’anno in corso raggiungeremo 500 miliardi di export superando così i massimi pre-crisi.

Risultati ai quali anche le nostre aziende hanno contribuito in maniera significativa, nonostante le enormi difficoltà del fare impresa in Italia.

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In ogni caso, cinque anni di crisi hanno insegnato che non è possibile esprimere giudizi assoluti.

Al di là dei dati macroeconomici ci troviamo, infatti, davanti a realtà aziendali che presentano diversità, persino all’interno dello stesso settore.

In particolare, sono sempre più evidenti le difficoltà delle piccole imprese, soprattutto quelle attive sul mercato locale o nazionale.

Si va deteriorando, in tal modo, una parte vitale del tessuto imprenditoriale italiano.

Per non considerare poi il grave stato in cui versa l’edilizia, le cui imprese pagano un prezzo elevato a una crisi senza precedenti che, a sua volta, deprime anche i settori manifatturieri legati alle costruzioni.

Ma al peggio, purtroppo, non c’è limite.

Lo stock dei prestiti erogati in un anno, dalle banche alle imprese italiane, s’è ridotto di circa cinquanta miliardi di euro.

Reggio Emilia, con un -7,5%, è al penultimo posto in ambito regionale per quanto riguarda il tasso di prestiti alle imprese da parte degli istituti bancari.

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Siamo ormai in presenza di un’asfissia da credito che, paradossalmente, rappresenta la prima vera causa delle sofferenze lamentate dallo stesso sistema bancario.

Alle banche chiediamo di dare fiducia alle tantissime aziende che hanno capacità di pagare gli interessi sui prestiti loro concessi e che, attraverso questi ultimi, possono creare più produzione, più investimenti e, soprattutto, occupazione.

L’ECONOMIA REGGIANA

L’industria reggiana esprime molto bene tutte queste potenzialità.

La nostra realtà, infatti, è saldamente ancorata a quel made in Italy che, come abbiamo visto, continua a crescere e ad affermarsi nel mondo.

Nei giorni scorsi, durante la Giornata dell’Economia, organizzata dalla Camera di Commercio di Reggio Emilia, la situazione del sistema produttivo locale è stata efficacemente sintetizzata.

Pur nella loro pesantezza, i dati del primo trimestre 2013 mostrano alcuni miglioramenti rispetto a quelli drammatici con i quali si era chiuso il 2012.

L’export reggiano s’è riportato ai livelli del 2008, dopo aver toccato il suo peggior risultato nel 2009.

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Nonostante l’acuirsi della crisi e dei suoi effetti economici e sociali, il nostro sistema produttivo ha dimostrato un’elevata capacità di tenuta.

Con un 4,8% di disoccupazione siamo al terzo posto dopo Bolzano e Verona.

Un risultato ottenuto grazie alle numerose aziende che hanno fondato le loro nuove strategie sulla qualità; su un’elevata interazione con la domanda; sull’attenzione al capitale umano e sulla capacità di spingersi nei mercati esteri che contano.

Un orientamento fondato su tre nuove competenze.

La prima, è un maggior grado di integrazione a monte, per controllare la qualità dei processi e garantire velocità e flessibilità di risposta.

La seconda, è costituita da richieste, sempre più complesse, rivolte a fornitori obbligati, a loro volta, a diventare sempre più evoluti e interattivi.

La terza, infine, è la crescente integrazione verso valle, uno spostamento indispensabile per presidiare mercati sempre più complessi, esigenti e lontani.

Ci troviamo di fronte a una grande discontinuità e la buona notizia è che, oggi, la parte più dinamica del sistema industriale reggiano risponde già ai requisiti

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indispensabili per il riposizionamento competitivo dell’industria italiana.

Un dato significativo, che, tuttavia, non deve indurre a sottovalutare il grande lavoro ancora da fare per radicare l’innovazione nel nostro sistema produttivo.

CONOSCENZA E INNOVAZIONE

Secondo l’Osservatorio Innovazione di Unioncamere Emilia-Romagna, la quota di aziende reggiane che sono riuscite a introdurre innovazioni di prodotto o di processo, è costituita prevalentemente da imprese di medie e medio-grandi dimensioni.

Allo stesso tempo, l’indagine regionale evidenzia lo scarso legame fra le industrie, da una parte, e l’università e i centri di ricerca, dall’altra.

Ci riferiamo a mondi che comunicano ancora troppo poco, tanto che le aziende trovano le proprie fonti informative e di conoscenza altrove.

In altre parole, si conferma che le aziende hanno come interlocutori privilegiati gli attori della propria filiera: dai fornitori ai clienti, alle altre imprese attive nel medesimo settore.

Si evidenzia così l’esigenza di rivedere le logiche e i modi attraverso i quali un sistema locale promuove la conoscenza, i saperi e la proprie risorse umane.

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IMPRESE E LAVORO

All’interno di questo complesso processo evolutivo diventa sempre più necessario un salto di qualità nelle relazioni industriali.

In questi anni sono stati fatti passi importanti in questa direzione.

A livello nazionale abbiamo regolato la contrattazione collettiva e stiamo regolando la rappresentanza, due facce della stessa medaglia.

Confindustria è impegnata per realizzare un sistema di relazioni industriali semplice, non conflittuale, che poggi sul rispetto e sull’esigibilità dei contratti collettivi che si sottoscrivono con la maggioranza.

L’accordo Interconfederale del giugno 2011 ha definito, rispetto ai diversi modelli di rappresentanza nei luoghi di lavoro, le condizioni perché un contratto aziendale sia efficace ed esigibile.

L’accordo del 31 maggio scorso ha fissato i principi per determinare sia la rappresentatività sindacale, sia le condizioni per avere – dopo sessant’anni – contratti nazionali di lavoro pienamente esigibili.

Ora dobbiamo passare dalla carta alle misure attuative, dalle parole ai fatti e, soprattutto, alla coscienza delle persone e dei Sindacati.

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Una questione, anche culturale, che rimanda alla necessità di condividere il ruolo e il valore sociale espresso dalle imprese manifatturiere.

Se tutto ciò si realizzerà, potremo dire di aver inciso sulle fondamenta delle relazioni industriali in Italia.

Un’evoluzione importante per l’intero Paese, ma ancor più significativa in una realtà, come la nostra, nella quale, specie nel settore metalmeccanico, viviamo da tempo non solo una strisciante conflittualità, ma anche una perniciosa incapacità a riconoscere regole condivise tra le parti.

Ci auguriamo, pertanto, che anche a Reggio Emilia si determinino le condizioni per avviare una nuova stagione, nella quale l’antagonismo e le posizioni di principio lascino il posto a soluzioni maggiormente partecipative.

Questa è la via per ridare centralità e protagonismo all’impresa e al lavoro.

Un tema che, necessariamente, chiama in causa la rappresentanza degli interessi organizzati e, più in generale, il ruolo dei corpi intermedi della società in un momento di profonda trasformazione.

In tale prospettiva il processo di aggregazione, avviato da Unindustria Reggio Emilia, esprime un valore non solo per la semplificazione che introduce, ma anche

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perché crea i presupposti per rinnovare la funzione e i contenuti dell’associazionismo d’impresa.

L’UNIONE DI TUTTI GLI INDUSTRIALI REGGIANI

Chi interpreta Unindustria Reggio Emilia solo come un nuovo soggetto di maggiori dimensioni coglie solo la parte esteriore delle nostra nuova identità.

In questi sei mesi la nostra Associazione unitaria è stata un laboratorio attraverso cui abbiamo affinato la capacità di comprendere la realtà produttiva locale e nazionale.

Nei fatti, siamo una forza aggregatrice impegnata nella “ t u t e l a ” d e l l e i m p r e s e e n e l l ’ a z i o n e d i modernizzazione del sistema territoriale locale.

Questo è il nostro modo di intendere la rappresentanza e su questa visione vogliamo costruire il nuovo “patto” tra imprese, associazione e territorio.

Se consideriamo l’ultimo anno d’impegno, rileviamo l’ampiezza delle iniziative poste in atto per sostenere le imprese nella difficile congiuntura.

Per brevità mi limito a richiamare le attività per la ricostruzione, successiva all’evento sismico che nel maggio 2012 ha colpito anche la nostra provincia.

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La “crisi” locale determinata dal terremoto ci ha visto impegnati in una pluralità di iniziative di assistenza alle imprese coinvolte.

L’emergenza non è ancora finita e siamo solo a metà del guado.

Per completare l’attraversamento serve tre cose: la semplificazione delle procedure, la riduzione dei tempi di pagamento e nuove e ulteriori risorse.

Al resto ci penserà l’intraprendenza, la laboriosità e la solidarietà della nostra gente.

Venendo alla realtà locale e agli enti che la governano ricordiamo che le nostre valutazioni al riguardo sono sempre ispirate da grande senso di responsabilità.

Non potrebbe essere diverso.

IL SISTEMA TERRITORIALE REGGIANO

Per noi fare rappresentanza significa, anche, produrre visioni e progetti capaci di propagarsi, di convincere per diventare poi obiettivi generali.

Le indicazioni dei gruppi di lavoro sulle direttrici dello sviluppo locale e sulle grandi scelte del Capoluogo – avviati dagli Stati Generali – sono il segnale di un nuovo modo di operare da noi attivamente promosso.

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Allo stesso modo, abbiamo contribuito, tra le altre cose, a porre in evidenza il ruolo fondamentale della cosiddetta Area Nord.

Un ambito caratterizzato dalla Stazione Mediopadana e dalle ex Officine Reggiane, nelle quali è previsto l’insediamento del Tecnopolo, vale a dire il nodo locale della Rete regionale dell’Alta Tecnologia.

Realizzazioni che contribuiranno a ridefinire non solo l’identità del Capoluogo, ma, sotto molti aspetti, le sue vocazioni e il suo ruolo.

Una prospettiva che comporta un’ancora più intensa collaborazione tra il pubblico e i privati.

UNA GOVERNANCE LOCALE DELL’INNOVAZIONE

Reggio Emilia Innovazione costituisce in tal senso un buon esempio.

Nei suoi confronti Unindustria Reggio Emilia ha non solo incrementato il proprio contributo finanziario, ma ha anche messo a disposizione alcune risorse umane che hanno collaborato alla definizione del nuovo Piano Industriale.

Cresce la volontà di realizzare un’iniziativa dedicata all’innovazione e al trasferimento tecnologico coerente con le esigenze espresse dai più significativi settori

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produttivi reggiani: l’agroalimentare, la meccanica e la meccatronica. Possiamo confermare, sin da ora, la nostra volontà di sottoscrivere il Protocollo d’intesa, intitolato “La governance dell’Innovazione a Reggio Emilia”, che la presidenza di REI ha sottoposto recentemente all’attenzione degli stakeholder locali.

Proprio la consapevolezza circa l’importanza di una visione condivisa ci spinge ad avviare un’ulteriore riflessione.

L’insieme degli attori locali – nonostante la qualità delle loro rispettive iniziative – rappresenta ancora una somma d’individualità.

Tutto ciò non basta: serve di più.

È indispensabile impegnarsi per creare una comunità di stakeholder che condivida un progetto locale di riposizionamento competitivo.

Un obiettivo coerente con alcuni elementi che prefigurano l’avvio di un nuovo ciclo.

Il primo, come abbiamo visto, è il costante processo di trasformazione del sistema produttivo reggiano.

Il secondo, è l’accelerazione delle dinamiche indotte dalla crisi e dall’affermarsi di nuovi paradigmi.

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Il terzo, infine, è costituito da alcune precise scadenze istituzionali.

Ci riferiamo al rinnovo del governo locale con l’avvio di una nuova legislatura.

A questo appuntamento si affiancano il rinnovo dei vertici della Camera di Commercio e della Fondazione Manodori; per non considerare poi la riorganizzazione del sistema istituzionale con la prevista abolizione delle province.

Scadenze che offrono l’opportunità di misurare non solo quanto è stato fatto, ma anche e soprattutto, quali sono le priorità, i progetti e gli obiettivi che, negli anni a venire, dovranno essere perseguiti.

LA NUOVA DIMENSIONE MEDIOPADANA E L’AREA VASTA

La corretta e condivisa interpretazione del ruolo mediopadano di Reggio Emilia rappresenta, in tal senso, un vero e proprio banco di prova.

Comprendere il ruolo mediopadano significa aprirsi a una discontinuità che impone, a tutti gli attori locali, l’elaborazione condivisa di un progetto di lungo periodo.

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Un obiettivo, quest’ultimo, che gli industriali reggiani hanno contribuito a mettere a fuoco attraverso il loro impegno per la nuova stazione.

La nostra attenzione a questo tema risale, infatti, alla metà degli anni ’90 quando iniziò la progettazione esecutiva della linea ad alta velocità.

Da allora, abbiamo non solo investito risorse per sostenere la prima stesura delle idee progettuali di Santiago Calatrava, ma anche organizzato convegni e commissionato ben tre ricerche realizzate negli ultimi anni da Prometeia e CAIRE.

Abbiamo così contribuito a definire il nesso che lega la nuova stazione a quel ruolo mediopadano che negli anni a venire dovrà caratterizzare il nostro Capoluogo.

Accanto a questa elaborazione, teorica, ma ricca di contenuti e implicazioni pratiche, ci siamo impegnati anche per affermare l’idea che la stazione è, prima di tutto, un formidabile “nodo”.

Nelle settimane scorse abbiamo presentato una ricerca che ha rilevato il deficit infrastrutturale che interessa l’intero bacino d’utenza della nuova stazione.

A questo proposito, ci pare significativo evidenziare che, nel nostro lavoro di analisi, riferito all’Alta Velocità, abbiamo coinvolto le Associazioni degli industriali a noi vicine.

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Tutto ciò a partire da una precisa visione.

Oggi, è indispensabile una progettualità coerente non solo con la realtà lineare costituita da Reggio Emilia e Modena, ma anche con quella formata dai territori vicini, come Mantova, Parma e persino Verona.

Ciò significa ragionare in termini d’area vasta, vale a dire misurarsi con nuovi paradigmi dimensionali.

Ci auguriamo che anche la politica abbandoni logiche locali per aprirsi a una prassi più ampia e condivisa.

La ricomposizione di interessi diversi, l’elaborazione di progetti territoriali, l’addensamento anziché la dispersione, devono diventare gli obiettivi di ciascun attore economico, sociale e amministrativo.

L’ASSOCIAZIONISMO LOCALE E NAZIONALE

In tale prospettiva, la moltitudine delle industrie reggiane trova nella propria Associazione non solo un’identità collettiva, ma anche un protagonismo territoriale altrimenti irrealizzabile.

Unindustria Reggio Emilia è la dimostrazione che un sistema è sempre superiore, per capacità e potenzialità, alla somma delle parti che lo compongono.

Le Associazioni che si confrontano tra loro e a loro volta con i decisori pubblici, rappresentano una delle

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condizioni indispensabili per garantire la libertà d’impresa.

A questo proposito sento il dovere di riconoscere a Confindustria i risultati importanti che troppo spesso dimentichiamo di ricordare.

Penso alle moratorie sui mutui, alla sospensione del Sistri, allo sblocco dei pagamenti da parte della Pubblica Amministrazione e, da ultimo, l’ecobonus sulle ristrutturazioni edilizie.

Nei giorni scorsi abbiamo apprezzato i provvedimenti del “Decreto del Fare” che, recependo precise richieste di Confindustria, interviene su credito, investimenti, oneri burocratici e giustizia.

Un buon avvio, che richiede ora ulteriori interventi, a partire dal provvedimento sul pacchetto lavoro.

Dobbiamo dire le cose come stanno vincendo la paura di apparire presuntuosi: senza Confindustria molti degli obiettivi richiamati non sarebbero mai stati raggiunti!

Per ottenere risultati importanti e concreti come questi serve una grande organizzazione capace non solo di dare voce alle imprese e di esprimere competenze e relazioni, ma anche di misurarsi con chi, a ogni livello, prende decisioni di governo o amministrative.

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Nella consapevolezza di ciò attendiamo la riforma di Confindustria avviata dal Presidente Giorgio Squinzi.

Noi ci sentiamo pronti e ci auguriamo che un’analoga volontà di rinnovamento pervada l’intera società italiana.

Ne abbiamo tutti bisogno.

UN PAESE IN CRISI

In questi anni gli industriali non hanno perso alcuna occasione per sollecitare riforme strutturali a partire dai tagli della spesa pubblica improduttiva.

Allo stesso tempo abbiamo denunciato una politica colpevole di aver trasformato l’amministrazione della cosa pubblica in un fatto personale, dimenticando così i cittadini e la qualità dei servizi resi.

I risultati sono nefasti: nella pubblica amministrazione merito e concorrenza sono valori troppo spesso sconosciuti, mentre da decenni cresce il peso delle appartenenze di partito.

Sono troppe le società pubbliche usate come parcheggi per quei politici che hanno perso questa o quella competizione elettorale.

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Non stupisce, dunque, se lo Stato italiano è oggi una macchina vecchia, pesante, incapace di produrre decisioni efficaci a tutti i livelli e, soprattutto, costosa al punto di determinare una tassazione fuori da ogni logica.

Nel 2012 la pressione fiscale in Italia è stata superiore al 45% del Prodotto interno lordo.

Un risultato che ci colloca ai primi posti al mondo.

Non solo, l’Italia è il paese dell’Unione Europea con la più alta tassazione sul lavoro: 43% contro una media Ocse che non raggiunge il 23.

Primeggiamo anche nelle tasse a carico delle imprese la cui “aliquota totale”, vale a dire la somma di tutte le imposte dirette e indirette a cui le imprese sono soggette, ha raggiunto il 68%, contro una media Ocse che sfiora il 43.

Ma non basta: nel nostro Paese le tasse sono non solo elevate, ma anche difficili da pagare.

Ciascuna azienda deve lavorare in media 270 ore l’anno per redigere una documentazione tributaria che in altri paesi sarebbe giudicata perversa.

Ciò che stupisce, in un quadro come questo, è il dibattito riferito all’opportunità o meno di ridurre il carico fiscale alle imprese e al lavoro.

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Oggi nessuno può avere dubbi: ridurre le tasse è una decisione assolutamente necessaria.

Lungo questo percorso si deve abolire o tagliare l’Irap, un’imposta che grava sui costi di produzione delle aziende, incluso il costo del lavoro, e non sugli utili.

Occorre contenere il “cuneo fiscale”, vale a dire la differenza tra quanto un lavoratore incassa e quanto quello stesso lavoratore costa all’azienda.

È necessario poi ridurre le imposte sui redditi delle imprese, come l’Ires, e delle persone, come l’Irpef.

Tuttavia, peggio di dover pagare le tasse, è il fatto di doverne pagare di più senza sapere quando.

Le vicissitudini della Tares – il tributo comunale sui rifiuti e servizi indivisibili la cui prima rata è ormai in scadenza in molti comuni – è uno degli esempi delle condizioni di sudditanza del contribuente italiano.

Introdotta alla fine del 2011, finirà col costare di più della somma delle due imposte che l’hanno preceduta.Un incremento che, insieme all’IMU, configura un esproprio patrimoniale ai danni delle imprese.

Naturalmente, per ridurre le tasse alle imprese e al lavoro occorre iniziare – sul serio – a tagliare la spesa pubblica in misura almeno equivalente.

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Ci piacerebbe che la creatività usata nell’inventare nuove tasse fosse riposta nello sforzo di individuare i tanti e possibili tagli alla spesa improduttiva, le tante e possibili razionalizzazioni e i tanti e possibili risparmi.

CONCLUSIONI

Signori relatori, cari Ospiti, Amiche e Amici,

Poche settimane fa il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ci ha ricordato che in questi anni il nostro Paese non è stato capace di dare risposte ai grandi cambiamenti geopolitici, tecnologici e demografici.

La politica ha colpe gravissime, ma anche l’intera società italiana per troppo tempo s’è rifiutata di guardare in faccia la realtà e di assumersi le proprie responsabilità.

Non si tratta certo di una questione marginale.

Il Novecento – da qualcuno definito “il secolo breve” – ci ha lasciato una grande lezione: crescita e sviluppo non dipendono solo dai governi, dalle politiche o dalle velleità pianificatorie.

La verità è che il potere di avviare grandi cambiamenti è distribuito tra milioni di persone.

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Si determinano sviluppo e crescita quando questa poderosa e inarrestabile energia collettiva si mette in movimento e nella medesima direzione.

In Italia questa grande forza creatrice è oggi avvilita, ripiegata su se stessa, spossata da decenni di conflitto di tutti contro tutti.

Nelle scorse settimane, il Presidente di Confindustria Squinzi ha sostenuto che serve al Paese un vero e proprio shock competitivo accompagnato da un New deal.

Altri autorevoli esponenti del mondo industriale hanno parlato di una sorta di Piano Marshall.

Ma ciò che serve, prima di tutto, è la forza d’animo indispensabile per far convergere l’intera comunità nazionale su tre obiettivi irrinunciabili: mettere in sicurezza i conti; tornare a crescere; creare lavoro.

Signor Ministro, Autorità, Signore e Signori, care Colleghe e cari Colleghi, Henry Ford sosteneva che “gli ostacoli sono quelle cose terribili che si vedono quando si distoglie lo sguardo dall’obiettivo”.

Se osserviamo la storia del nostro Paese ci accorgiamo che, nei momenti di grave emergenza, le sue

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leadership hanno sempre saputo concentrarsi sugli obiettivi, superando in tal modo gli ostacoli.

In altri termini, hanno saputo trovare il punto d’incontro tra le realtà sociali, i valori e gli ideali espressi dai diversi schieramenti.

L’azione di Governo – che confidiamo abbia davanti a sé il tempo di attuare tutte le scelte indispensabili – deve oggi ispirarsi a un semplice principio.

Quello che è buono per le imprese e il lavoro è buono per l’Italia.

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