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Jean-Luc Marion e la fenomenologia della donazione. Dal concetto di Gegebenheit all’indagine del fenomeno saturo. Introduzione La fenomenologia della donazione di Jean-Luc Marion non è semplicemente un’indagine condotta sul dono, come se questo fosse un fenomeno tra gli altri. La sua proposta filosofica mette in luce un fatto: l’amore costituisce l’esperienza fondamentale dell’esistenza umana, e il dono è il primo e fondamentale gesto in cui l’amore si manifesta. I temi dell’amore e del dono sono rimasti marginali nella filosofia, a causa della distanza che si è creata nel corso della storia del pensiero tra l’indagine teoretica e questa esperienza umana, spesso ritenuta secondaria rispetto ai grandi temi della filosofia occidentale. Alcune domande fondamentali quindi non solo non hanno mai ricevuto una risposta, ma addirittura sono ancora in attesa di ricevere una formulazione adeguata rispetto al loro oggetto. La causa di questo risiederebbe proprio in tale scissione originaria, foriera di paradigmi distorti (viziati da una ragione solo logica, solo deduttiva, solo astrattiva o viceversa solo empirica), che non avrebbero mai consentito all’indagine filosofica di strutturare le proprie domande in modo adeguato. La prova di questa deviazione consiste nel fatto che le tematiche legate all’amore siano state in qualche modo aggirate dalla maggior parte dei filosofi, trattate inadeguatamente o demandate ad altre discipline come la letteratura, la pittura, la musica e, in rari casi, la teologia. Insomma, la filosofia, escludendo l’amore, avrebbe non solo snaturato se stessa, ma si sarebbe preclusa sin dall’inizio la possibilità di arrivare al cuore delle risposte veramente importanti per l’esistenza dell’uomo. Infatti l’amore non è l’unico “oggetto” vittima dell’inadeguatezza dell’indagare filosofico; accanto ad esso, Marion colloca altri “oggetti” di fronte a cui troppo spesso la filosofia è rimasta muta e che però fanno parte dell’esperienza umana e la costituiscono, come la morte, il non senso e l’assurdo. La sfida di Marion consiste nel fornire alla filosofia un apparato concettuale adeguato per poter finalmente pronunciarsi di fronte a queste esperienze. Il suo percorso teoretico è condotto attraverso il metodo fenomenologico. Egli si pone in continuità con la grande tradizione inaugurata da Husserl, e trova in questa scuola

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Jean-Luc Marion e la fenomenologia della donazione. Dal concetto di Gegebenheit all’indagine del fenomeno saturo.

Introduzione

La fenomenologia della donazione di Jean-Luc Marion non è semplicemente un’indagine condotta sul dono, come se questo fosse un fenomeno tra gli altri. La sua proposta filosofica mette in luce un fatto: l’amore costituisce l’esperienza fondamentale dell’esistenza umana, e il dono è il primo e fondamentale gesto in cui l’amore si manifesta. I temi dell’amore e del dono sono rimasti marginali nella filosofia, a causa della distanza che si è creata nel corso della storia del pensiero tra l’indagine teoretica e questa esperienza umana, spesso ritenuta secondaria rispetto ai grandi temi della filosofia occidentale. Alcune domande fondamentali quindi non solo non hanno mai ricevuto una risposta, ma addirittura sono ancora in attesa di ricevere una formulazione adeguata rispetto al loro oggetto. La causa di questo risiederebbe proprio in tale scissione originaria, foriera di paradigmi distorti (viziati da una ragione solo logica, solo deduttiva, solo astrattiva o viceversa solo empirica), che non avrebbero mai consentito all’indagine filosofica di strutturare le proprie domande in modo adeguato. La prova di questa deviazione consiste nel fatto che le tematiche legate all’amore siano state in qualche modo aggirate dalla maggior parte dei filosofi, trattate inadeguatamente o demandate ad altre discipline come la letteratura, la pittura, la musica e, in rari casi, la teologia. Insomma, la filosofia, escludendo l’amore, avrebbe non solo snaturato se stessa, ma si sarebbe preclusa sin dall’inizio la possibilità di arrivare al cuore delle risposte veramente importanti per l’esistenza dell’uomo. Infatti l’amore non è l’unico “oggetto” vittima dell’inadeguatezza dell’indagare filosofico; accanto ad esso, Marion colloca altri “oggetti” di fronte a cui troppo spesso la filosofia è rimasta muta e che però fanno parte dell’esperienza umana e la costituiscono, come la morte, il non senso e l’assurdo. La sfida di Marion consiste nel fornire alla filosofia un apparato concettuale adeguato per poter finalmente pronunciarsi di fronte a queste esperienze. Il suo percorso teoretico è condotto attraverso il metodo fenomenologico. Egli si pone in continuità con la grande tradizione inaugurata da Husserl, e trova in questa scuola l’intuizione che è alla base della sua proposta: l’oggetto della filosofia non è l’essere in quanto essere o l’ente in quanto è; l’oggetto della filosofia è costituito da tutto ciò che si dà. Questo punto di partenza è fondamentale per Marion che, fenomenologicamente, riconosce nel dato in quanto dato il punto di partenza della filosofia.

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Nell’economia del pensiero di Marion, il concetto di donazione possiede un ruolo che definirei fondativo per la fenomenologia. Husserl, attraverso il concetto di epochè, avrebbe aperto la via attraverso quella che Marion definisce una prima riduzione. Heidegger avrebbe operato una seconda riduzione, ancora più radicale di quella del maestro, spingendo la fenomenologia verso l’indagine del senso dell’essere e in particolare, riconoscendo l’essere originario come ciò che dà, dell’es gibt. Secondo Marion, Heidegger non avrebbe tratto le estreme conseguenze di questa intuizione: occorre operare una terza riduzione, ed è questo l’obiettivo che egli intende raggiungere, in quanto la sua fenomenologia si basa sulla tesi che il fondamento da cui può prendere il via qualsiasi indagine è il darsi di un dato. È proprio su questo punto che Marion continua a confrontarsi nel dibattito contemporaneo, e il suo contributo originale e rigoroso in questo volume dimostra la validità dello statuto fenomenologico della donazione attraverso l’analisi della storia di tale concetto nel pensiero di Husserl e Heidegger partendo dal neokantismo. Marion fa suo un concetto portante della storia della fenomenologia dandone un’interpretazione precisa. Egli assume la donazione (Gegebenheit) dei fenomeni senza scindere i due aspetti che la caratterizzano: da un lato ogni fenomeno è dato (nel senso del dato matematico), dall’altro esso è donato da un donatore. Non si tratta di un’allusione teologica a un eventuale donatore trascendente, occorre prendere sul serio un fatto dell’esperienza: non esiste un dato senza che “qualcosa” lo abbia donato. Marion compie un grande sforzo teoretico per tenere uniti questi due aspetti, ma tale sforzo costituisce il punto di partenza essenziale affinché la sua indagine fenomenologica vada a buon fine: ogni fenomeno è frutto di un dono, e come tale va pensato. Ecco allora che il dono diviene il modello di riferimento anche per l’ontologia: se ogni fenomeno è innanzitutto dato, non possiamo pensare che il proprio dell’ente sia l’essere. Occorre considerare una nuova possibilità: l’ente è nella misura in cui si dona, perdendo la propria sussistenza intesa secondo i canoni dell’ontologia classica. Su questa concezione della Gegebenheit, Marion innesta il suo apparato di categorie e concetti, tra cui quelli di adonato e di fenomeno saturo che, da molti studiosi, vengono riconosciuti tra le innovazioni più rilevanti della filosofia contemporanea. Il punto di arrivo del percorso teoretico di Marion è l’indagine del fenomeno erotico in quanto tale. Essa però non è più un’analisi del fenomeno amoroso condotta da un soggetto conoscente che si pone come un assoluto di fronte alla realtà. Si tratta di un’indagine condotta, per usare un’espressione del filosofo, “all’interno della regione del dono”. In questo saggio, cercherò di illustrare i tre momenti fondamentali di questo percorso. Nel primo paragrafo analizzerò la rielaborazione del concetto husserliano di donazione che Marion pone alla base della sua fenomenologia. Nel secondo mostrerò come egli ricavi proprio a partire dalla donazione, l’entrata nella regione del dono, con il guadagno del concetto di fenomeno saturo e di soggetto come adonato. Nel terzo paragrafo infine, verranno brevemente abbozzati alcuni tratti del nucleo della filosofia di Marion: l’indagine del fenomeno erotico.

§ 1 Dall’ epochè husserliana alla terza riduzione.

La proposta fenomenologica di Marion è costruita a partire da un’analisi minuziosa del concetto di donazione. Egli colloca la sua riflessione in continuità con il pensiero di Husserl e Heidegger, e in particolare giustifica a partire da questi la dignità filosofica del suo concetto di Gegebenheit, che traduce coniando il termine donneité.

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Cominciando il suo percorso con una riflessione di tipo lessicale, Marion propone di soffermarsi sull’ambiguità del termine francese donation, che significasia il dono in sé, l’oggetto donato, sia il processo della donazione che rende possibile l’esistenza del dono donato. L’ambiguità lessicale di donation è il segno di «un’ineludibile dualità che ne contagia il concetto».

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Se dall’analisi dei significati del termine si passa all’analisi del concetto, occorre tenere uniti i due significati, come se esso fosse una medaglia costituita da queste due facce (Marion parla a questo proposito del pli – la piega – del dato). Non sarebbe rigoroso dunque un concetto di donation che tenesse conto solo di “oggetto donato” o solo di “atto del donare”, e questo è un punto imprescindibile per qualsiasi suo utilizzo in filosofia. Ciò che caratterizza la donazione infatti è l’imporsi del dono da parte di un’origine; dono e donazione sono inscindibili nell’esperienza e ogni concetto di dono deve rendere conto di questa verità di fatto: «la donazione non si aggiunge al dato come uno sfondo ambiguo, essa marca solo l’avvento che la rende a se stessa. – Di contro, se si pretendesse di considerare questi dati alla stregua di un factum puro, semplice e brutale, ci si condannerebbe a renderli inintelligibili [...]». Il punto di partenza della fenomenologia della donazione dunque è una netta presa di posizione metodologica senza la quale ogni passo avanti sarebbe sempre e comunque viziato all’origine: «per lavorare su dei dati, bisogna inizialmente leggerli precisamente come dei dati donati [...], dunque a partire dalla donazione da cui essi sorgono, non chiuderli nell’insignificanza di un fatto senza trama. [...] Dato e donazione non si identificano di certo, ma un dato senza donazione non si può pensare né può apparire».

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Esiste dunque un fatto, un evento che precede sempre il dato e in virtù del quale esso sussiste. Il dato inevitabilmente è segno della sua origine, è epifania della donazione, vi riconduce sempre inesorabilmente. Il problema fenomenologico non dovrà dunque porsi a partire dall’indagine sulle condizioni di possibilità del darsi di un dato poiché la sua donazione è un fatto. Optare per due termini distinti che significherebbero la donazione come processo e la donazione come dato, implicherebbe ogni volta un’interpretazione, inoltre si correrebbe il rischio di perdere una determinazione concettuale che Marion ritiene fondamentale: «la presunta ambiguità della donazione (e della Gegebenheit) non annuncia nient’altro che il suo concetto - la piega del dato come donazione».

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Dopo aver sottolineato questa dualità, Marion sviluppa la sua riflessione a partire dalla filosofia di Husserl, perché è proprio nelle opere di quest’ultimo che la questione della Gegebenheit assume una pregnanza nuova in filosofia, in quanto non viene ripresa nei vari sensi delle tradizioni precedenti. Se nel pensiero classico l’essere è, con Husserl il fenomeno è prima di tutto (un) dato, si dà. La rottura sta, sottolinea Marion, nell’aver stabilito il primato incondizionato e originario del dare rispetto all’essere: tutto deve essere dato per poter apparire. Marion sostiene dunque che non si deve più trattare del dato immediato, del contenuto percettivo o del vissuto di coscienza, in breve del qualche cosa di dato (das Gegebene), bensì dello stile della sua fenomenalizzazione in quanto dato, e cioè della sua donneité (Gegebenheit). Egli mette in campo questa sua nuova particolare interpretazione della Gegebenheit husserliana, poiché vi scorge un possibile punto di partenza per una nuova filosofia. A questo proposito, è interessante analizzare in che modo Marion riprenda il principio di tutti i principi formulato da Husserl con l’obiettivo principe di procedere secondo un metodo epurato dai presupposti di modelli di pensiero che non appartengono alla fenomenologia.Husserl sostiene che «Ogni intuizione originariamente donatrice è una sorgente legittima della conoscenza [...] tutto ciò che ci si offre originariamente nell’“intuizione” è da prendere semplicemente per come si dà, ma anche solo all’interno dei limiti in cui esso si dà».

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Questa operazione risulta fondamentale per svincolare i fenomeni da ogni altro criterio che non sia quello della donazione, soprattutto quel criterio dell’ontologia classica che imporrebbe al fenomeno, per poter apparire, una condizione di possibilità estrinseca (e quindi trascendente rispetto alla datità pura), come il passaggio dall’essenza all’effettività individuato nell’esistenza di una causa o di una ragion sufficiente del suo apparire. Marion riconosce la svolta segnata dal principio di tutti i principi, tuttavia occorre andare oltre. In particolare egli individua tre tratti fondamentali su cui compie una riflessione critica che apre a nuovi sviluppi. Il primo è l’intuizione in quanto sorgente di diritto e di fatto del fenomeno, essa basta a giustificare se stessa (a). Il secondo, legato al primo, è costituito dai limiti all’interno del quale il fenomeno si dà nell’intuizione (b). Il terzo tratto analizza l’io come perno attorno a cui ruota il darsi del fenomeno nella conoscenza (c).

a) Ogni intuizione originariamente donatrice è una sorgente legittima della conoscenza: questo primo elemento mette in luce che l’intuizione non ha altra ragione da rendere se non quella di attestare se stessa attraverso se stessa; il fenomeno si manifesta come pura apparizione di sé senza resto, senza causa, senza ragione. «Per giustificare il suo diritto ad apparire, l’intuizione basta al fenomeno, senza altra ragione: a quest’ultimo basta darsi nell’intuizione – seguendo un principio di intuizione sufficiente».

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L’espressione forte che usa Marion si commenta da sé: il principio di intuizione sufficiente costituisce un ribaltamento netto e decisivo rispetto al pensiero della tradizione. L’intuizione è per Husserl l’originario, si giustifica da sé come origine incondizionata di ogni apparire, «ma può essa giustificare questa pretesa senza arrivare a mimare la ragion sufficiente da rendere (reddendae rationis), cioè rendendosi, dunque donandosi in persona?».

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Occorre verificare se davvero il principio di tutti i principi sia in grado si aprire ai fenomeni la possibilità di apparire in modo del tutto incondizionato, e su questa pretesa Marion muove una critica al principio husserliano in quanto si formula ancora in termini di condizioni di possibilità concepite sul modello metafisico. Il primo argomento di Marion mette in luce la contraddizione del principio di Husserl, e apre alla comprensione di quei limiti, che condannano alcuni fenomeni a rimanere “oggetti impossibili” per la filosofia. L’intuizione donatrice husserliana infatti, non lascia il fenomeno libero di apparire a partire da se stesso, sia perché lo vincola all’intuizione, ma anche perché la fenomenalità, in quanto intuizione, resta essa stessa vincolata all’orizzonte di apparizione e all’io, che Marion fa emergere dettagliatamente analizzando il secondo ed il terzo tratto del principio di tutti i principi. b) Tutto ciò che si offre originalmente nell’“intuizione” è da prendere semplicemente per come si dà, e solamente all’interno dei limiti nei quali essa si dà. Ciò che Marion sottolinea di questa formulazione, è la nozione di limite che emerge prepotentemente, e che sta a dire che non tutto può essere perfettamente dato; inoltre, i limiti vengono a costituire una condizione di possibilità all’interno della quale il fenomeno è obbligato a iscriversi per poter apparire. Questa esigenza, porta il segno dell’ambiguità. Per uscire dall’empasse ermeneutico, Marion si riallaccia ad un altro brano che sembra offrire una via sicura per procedere nell’indagine. Husserl parla dell’«assenza di limiti che presentano le intuizioni immanenti non appena si passa da un vissuto già fissato ai nuovi vissuti che formano il suo orizzonte, dalla determinazione di questi ultimi, alla determinazione del loro orizzonte, e così di seguito».

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Ogni vissuto viene senza sosta rinviato a nuovi vissuti, e il ruolo dell’orizzonte diventa fondamentale, poiché è il luogo dove avviene l’unificazione tra i vissuti trascorsi e quelli che (costitutivamente, poiché la conoscenza delle realtà trascendenti non può che darsi per Abschattungen) devono ancora venire, il luogo ove l’ignoto viene accolto e fissato dal conosciuto. L’orizzonte dunque, limita già anche lo spazio in cui l’esperienza non ha ancora avuto luogo, esso «si impadronisce anticipatamente dell’ignoto, del non sperimentato, del non-guardato supponendoli sempre già compatibili, comprimibili e omogenei al già sperimentato, già guardato, già interiorizzato attraverso l’intuizione. [...] Il non visto ha di colpo il rango di un pre-visto, di un visibile semplicemente ritardato, senza novità primariamente irriducibile, in sintesi di un pre-vedibile».

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L’orizzonte viene ad assumere il carattere di una condizione di possibilità che contraddice le caratterizzazioni del fenomeno determinate fino a qui attraverso la riduzione del dono alla fenomenalità. Il principio di tutti i principi, analizzato con molta attenzione, sembra incorrere in un’inesorabile ambiguità: da un lato l’intuizione basta a se stessa, dall’altro però, non è completamente svincolata dall’orizzonte che la rende possibile, in quanto offre la dimensione in cui l’intuizione stessa deve evolversi verso il compimento. c) Il terzo tratto che Marion sottolinea, è di nuovo una critica a una condizione di possibilità ambiguamente introdotta contro ciò che, a prima vista, il principio di tutti i principi sembrerebbe sostenere. Si tratta dell’io, il cui ruolo resta indeciso fra due poli: la donazione del fenomeno all’ io puro, nel senso del processo costitutivo della coscienza intenzionale, può essere in ogni momento ribaltata nel senso di una costituzione del fenomeno da parte dell’io, secondo quella che Marion definisce egologia metafisica di derivazione cartesiana. Alla luce di questa ambiguità, occorre anche indagare quale sarebbe il possibile legame della donazione con un io ridotto, vittima di questo bipolarismo. Innanzitutto, la donazione precede sempre l’io, che non può dunque rivendicare alcun ruolo di giudice costituente della fenomenalità. Occorre spodestare l’io di Husserl dalla sua trascendentalità, riducendolo a puro attributario del fenomeno, sciogliendolo così definitivamente dall’ambiguità in cui si trova imprigionato. Questa analisi del principio di tutti i principi costituisce la base della filosofia di Marion, che si propone di indagare l’apparizione della fenomenalità liberata dal vincolo dell’orizzonte e senza il limite dell’Io trascendentale. Marion conclude l’analisi rilevando che «alcuni limiti restano certi, per principio irrefragabili e senza dubbio indispensabili. Da ciò non scaturisce, tuttavia, che ciò che li contraddice non possa paradossalmente ancora dispiegarsi come un fenomeno. Esattamente al contrario, alcuni fenomeni potrebbero non apparire se non giocando ai limiti della fenomenalità».

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Abbiamo visto quindi una messa a nudo dell’insufficienza di uno dei principi che da sempre aveva guidato l’indagine fenomenologica. La rottura epistemologica di Marion, consiste nel portare all’estremo un dato di fatto: la portata filosofica della donazione apre un campo d’indagine molto più ampio di quello dell’essere. I fenomeni estremi dell’ontologia classica (non senso, impossibile, contraddizione, nulla, non ente...) non sono dicibili con il linguaggio dell’ontologia e della metafisica classica proprio perché, classicamente, non sono. Con la donazione, la frontiera dell’essere deve essere attraversata: il dono ha uno statuto filosofico e concettuale molto preciso, e occorre pensare all’interno di questo paradigma concettuale. Occorre uscire dalla regione dell’essere per entrare nella regione del dono, ove lo statuto ontologico del dono è identico a quello del fenomeno.

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Come il fenomeno si mostra, allo stesso modo il dono si dona a prescindere da una causa efficiente o finale, e naturalmente a prescindere da un ego come inconcussum quid che lo costituisca.Solo una fenomenologia così concepita può riconoscere la visibilità di fenomeni come amore, morte, contraddizione, carne; e per giungere a questo occorre mettere tra parentesi ogni condizione ontica e oggettiva di ciò che si dà, in modo da arrivare non già al fenomeno puro di Husserl, ma al semplice darsi del dato, che nella donazione esaurisce completamente il suo essere fenomenale, pur non mostrando alcun contenuto ontico e ontologico nel senso dell’essere. In fondo, è proprio Husserl che parla dell’intuizione come originalmente offerente (gebende, donatrice), e non innanzitutto come intuizione dell’essere, dell’oggetto puro o dell’oggettità. Non solo la donazione è ciò che caratterizza originariamente l’intuizione, ma costituisce il trait d’union fra i due termini della riduzione e l’unico orizzonte in cui è possibile apparire per il fenomeno. La possibilità radicalmente nuova che si apre nell’equivalenza che si rivela tra ente e dato è notevole. In particolare c’è un elemento molto interessante: questa equivalenza è vera per quasi tutti i fenomeni nel campo del mondo fenomenico, dominio dell’ontologia, ma quando ci si sposta nell’ambito delle problematiche di confine l’equivalenza muta in un rapporto inversamente proporzionale, e cioè l’essere si ridimensiona, prendendo posto come un semplice caso della donazione. Non si tratta solo di aggiungere una fenomenologia della donazione accanto a tante altre fenomenologie già esistenti, si tratta di una proposta molto più radicale: occorre «riconoscere che ogni fenomeno sorge come un dono, dunque che ogni fenomenalità avviene come una donazione. La possibilità prossima della fenomenologia (e dunque la sua essenza) consiste nella sua autocomprensione a partire dalla logica del dono».

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Non bisogna pensare però che la fenomenologia venga destituita da una “donologia”; semplicemente si tratta di allontanare la fenomenologia da ogni precomprensione che esula dalla sua possibilità e dalla sua essenza più propria. La donazione non è nemmeno un’applicazione illegittima della fenomenologia, la quale richiede comunque che vengano rispettati due caratteri fondamentali: la riduzione e la messa in evidenza di un fenomeno. Si tratta di una proposta fenomenologica che pone le condizioni affinché quei fenomeni classicamente non indagabili, abbiano la possibilità di darsi: «La donazione, lungi dal destituire la fenomenologia come tale, libera questi fenomeni dalle figure confinate della fenomenologia, destituendo gli orizzonti che restringevano la donazione. L’apparizione dei fenomeni puri, né oggettità né enti, dipende unicamente dalla loro messa in evidenza tramite una donazione pura, dunque attraverso una riduzione radicalmente incondizionata».

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§2Fenomeno saturo e soggetto come adonato.

In questo paragrafo cercherò di mettere in evidenza la differenza tra i fenomeni “comuni” e quelli classicamente non indagabili. Marion conia per essi il termine “fenomeni saturi”: «al fenomeno supposto povero in intuizione, non si può opporre un fenomeno saturo d’intuizione? Al fenomeno che molto spesso caratterizza la mancanza o la povertà di intuizione (una delusione della mira intenzionale), anzi, eccezionalmente, l’uguaglianza semplice fra intuizione e intenzione, perché non far corrispondere la possibilità di un fenomeno in cui l’intuizione donerebbe più, anzi smisuratamente di più, di quanto l’intenzione non avesse mai scorto né previsto?».

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Ogni grande autore secondo Marion ha dovuto confrontarsi con l’evento di un fenomeno saturo, sentirsi impotente e sotto scacco, ammutolito, e rendersi infine suo semplice servo e testimone: come Cartesio con l’idea d’infinito, Kant e la dottrina del sublime, Husserl con la coscienza intima del tempo. «Il fenomeno saturo non è dunque un’ipotesi estrema o rara: si tratta di una figura della fenomenalità così essenziale che anche dei pensieri poco fenomenologici (Cartesio, Kant) vi ricorrono tanto quanto i più fenomenologici (Husserl), dal momento che la cosa stessa lo esige, quando appare secondo l’eccesso e non la penuria dell’intuizione. Di fatto, solo il fenomeno saturo può, rendendosi visibile all’eccesso, marcare le dimensioni paradossalmente senza misura della donazione possibile che niente arresta né condiziona».

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Così, seguendo il filo conduttore del fenomeno saturo, la fenomenologia trova la sua ultima possibilità: non soltanto la possibilità che oltrepassa l’effettività, ma la possibilità che sorpassa le condizioni stesse della possibilità, la possibilità della possibilità incondizionata, la possibilità dell’impossibile, il fenomeno saturo. Il fenomeno saturo non deve essere inteso come un caso limite, eccezionale, vagamente irrazionale o “mistico” della fenomenalità. Al contrario, esso è segno del compimento coerente e concettuale della definizione più essenziale del fenomeno: esso solo appare veramente come se stesso, da se stesso e a partire da se stesso, poiché esso solo appare senza i limiti dell’orizzonte o della riduzione a un io. Sistematizzando e sintetizzando il percorso fino a qui compiuto, è possibile distinguere i fenomeni in vari gruppi a seconda del loro grado di donazione, Marion ne indica tre.I primi sono i fenomeni poveri di intuizione, quelli cioè che necessitano di un’intuizione solo formale o logica (assiomi, deduzioni formali, operazioni aritmetiche); tali fenomeni hanno sempre goduto di un privilegio attribuito loro dalla vecchia metafisica: la certezza. Marion li definisce poveri d’intuizione proprio perché, in virtù della loro formalità, sono fenomeni affetti da un deficit fenomenologico radicale, in quanto la loro manifestazione non consegna all’intuizione nessun fenomeno compiuto (ad esempio un’intuizione reale, una temporalizzazione di evento etc.), dunque non possono essere eretti a paradigma della fenomenalità in generale.Al secondo grado troviamo i fenomeni di diritto comune, in cui la significazione deve ricevere un riempimento intuitivo adeguato, che può compiersi seguendo il criterio dell’oggettività (un esempio sono gli oggetti della fisica, in cui si tratta di stabilire – in una teoria – la certezza oggettiva di un massimo di concetti a partire da un minimo di intuizione). L’oggettivazione del fenomeno dunque, esige che il dato intuitivo venga ristretto a ciò che viene confermato dal concetto. Marion sostiene che questi fenomeni siano caratterizzati da un ritardo della donazione dell’oggetto rispetto al concetto, che si offre per primo in quanto lo conduce verso il suo riempimento intuitivo. Tale ritardo può essere anche interpretato come una previsione, nel senso che l’oggetto può sempre essere compreso in anticipo a partire dal concetto, conferendo alla sua manifestazione lo statuto di fenomeno derivato. Tali fenomeni dunque non possono mai essere individualizzati, proprio a causa della loro prevedibilità costitutiva: il deficit della donazione e il primato del concetto sull’intuizione implicano che tali oggetti debbano riprodursi, proprio nel senso della riproduzione in serie degli oggetti della tecnica, che sono un esempio tipico di questo genere di fenomeni.Al terzo grado troviamo infine i fenomeni saturi, in cui l’intuizione è sempre sovrabbondante rispetto all’intenzione, e la donazione sorpassa la manifestazione, modificandone le caratteristiche comuni. «In virtù di questo investimento e questa modificazione, chiamiamo così i fenomeni saturi, paradossi»

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. Marion sottolinea in questo contesto il ribaltamento radicale della sua fenomenologia: egli infatti propone di erigere il fenomeno saturo a paradigma della fenomenalità, al contrario di quanto aveva sempre fatto la metafisica, considerando il paradosso un’eccezione marginale: «La metafisica conferma così il suo nichilismo regolandosi sul paradigma dei fenomeni che non appaiono o appaiono poco, ignorando il paradigma di quelli che appaiono abbastanza per pretendere il rango di cose di pieno diritto; essa li rifiuta nella misura stessa in cui essi esigono di apparire»

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. Nel fenomeno saturo, il rapporto fra la manifestazione e la donazione si rovescia completamente rispetto ai fenomeni poveri e a quelli di diritto comune: l’intuizione oltrepassa l’intenzione, si dispiega senza concetto e lascia la donazione prevenire ogni limitazione e ogni orizzonte. Detto in altri termini, il fenomeno non si dà più nella misura in cui si mostra, ma si mostra nella misura in cui si dà. Questa eccezione della metafisica deve essere la norma della fenomenologia, perché solo i fenomeni saturi portano a compimento l’unico vero paradigma della fenomenalità.I fenomeni saturi non vanno fraintesi come qualcosa di soprannaturale o fuori dal comune. Per comprendere in modo più intuitivo la pregnanza di questo concetto, Marion formula alcuni esempi tratti dalla comune esperienza sensoriale. Supponiamo di provare la sensazione visiva di tre colori disposti uno sotto l’altro. Tale intuizione, per quanto elementare, apre due tipi di fenomeni radicalmente diversi. In un caso, il concetto permette di sintetizzare il fenomeno sul modo dell’oggetto, e l’intuizione si inscrive perfettamente in questo concetto che la contiene e la sussume integralmente. Se per esempio sono alla guida di un’automobile e ho la percezione di un tondo rosso, uno giallo e uno verde, il concetto di semaforo si impadronisce completamente dell’intuizione, al punto che l’intuizione di per sé diventa insignificante, nel senso che ciò che conta è l’uso pratico, tecnico dell’indicazione stradale che dal semaforo mi proviene. La stessa intuizione potrebbe scomparire senza problemi (sostituendo ad esempio al semaforo un vigile urbano) o essere modificata arbitrariamente, senza che il concetto subisca alcuna conseguenza. Il fenomeno non riposa sull’intuizione, non appare grazie all’intuizione: è il concetto che lo regge e lo comprende.Diverso è il caso in cui gli stessi tre colori vengano intuiti sulla tela di un grande pittore: «Qui il fenomeno (questo quadro) appare con un manifesto deficit del concetto o, se preferiamo, con un evidente sovrappiù di intuizione. [...] Non c’è dunque un concetto nel senso di un significato, ancora meno nel senso di un segno convenzionale: il quadro non vuole dire niente che si possa comprendere, non si lega a nessun significato che si potrebbe comprendere [...]. Un quadro si distingue dagli altri (oggetti) visibili precisamente perché nessun significato può renderlo comprensibile, né può dispensarci dall’incontrare la sua intuizione. Un quadro consiste prima di tutto nella sua intuizione, che scoraggia tutti i concetti che verrebbero mobilitati per comprenderlo [...]».

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Di fronte a un tale fenomeno saturo non c’è nulla da costituire o da capire: bisogna confrontarsi, mettersi in discussione, subirlo così come arriva.L’esempio funziona bene secondo il senso della vista, ma lo scarto tra fenomeno saturo e fenomeno povero potrebbe essere verificato facendo un esempio per ognuno dei cinque sensi. Nel caso del tatto è evidente: «io non accarezzo per sapere, e nemmeno per far sapere, come tastavo per orientarmi nello spazio e identificare degli oggetti: io accarezzo per amare, dunque in silenzio, per consolare e calmare, per eccitare e gioire, dunque senza significato d’oggetto, senza significato identificabile o dicibile. Così il tatto non manifesta più un oggetto, ma un fenomeno saturo: un’intuizione che nessun concetto potrà riprendere adeguatamente, ma che ne esigerà una molteplicità».

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Ogni senso insomma può essere rivelatore dello scarto che c’è tra il fenomeno come semplice oggetto, e il fenomeno «qui remplit l’âme au-delà de sa capacité».

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Confrontandosi in particolare con alcuni punti fondamentali del pensiero kantiano, Marion mette in evidenza in che modo il fenomeno saturo ecceda le categorie: «Imponderabile secondo la quantità, insopportabile secondo la qualità, assoluto secondo la relazione, inguardabile secondo la modalità»

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. In Dato che, troviamo un confronto serratissimo con Kant che qui illustrerò nei quattro passaggi fondamentali.Dicendo che il fenomeno saturo è imponderabile secondo la quantità, Marion intende dire che è essenzialmente imprevedibile. Il fenomeno quantificato sarebbe dunque, letteralmente, pre-vedibile, cioè calcolabile a partire dalla somma delle sue parti prima ancora che esso si manifesti al soggetto conoscente; esso può dunque essere determinato prima di presentarsi in persona, a partire da ciò che è altro da sé. Il fenomeno saturo contraddice puntualmente queste qualità: «un tale fenomeno, sempre straripato dall’intuizione che lo satura, dovrebbe, piuttosto, essere detto incommensurabile, non misurabile (immenso), smisurato».

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Un esempio privilegiato dell’esuberanza del fenomeno secondo la categoria della quantità, è il fenomeno della meraviglia, che Cartesio definiva come quella passione dell’anima che ci affetta prima e proprio perché conosciamo la cosa solo parzialmente.

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La meraviglia sorge quando il fenomeno s’impone imprevedibilmente proprio perché non risulta da una somma di quantità parziali già date, esso sospende la nostra sintesi conoscitiva proprio perché si offre “intero” alla conoscenza e non permette che le parti siano conosciute singolarmente: è il fenomeno che impone la sua sintesi alla nostra coscienza, liberandosi dall’oggettualità che noi altrimenti gli imporremmo inevitabilmente. L’avvento del fenomeno precede il nostro apprendimento, lungi dal risultarne; ed è proprio questo che ci sconvolge: il fenomeno ci previene, non si annuncia e sorge senza comune misura con i fenomeni che lo precedono. Sono due dunque i motivi fenomenologici che ci permettono di parlare di eccedenza del fenomeno secondo la quantità: l’intuizione saturante impedisce alla coscienza di procedere alla sintesi delle parti per costituire il tutto, annullando ogni previsione possibile del fenomeno e ogni sua conoscenza prima che esso irrompa in persona; il secondo motivo consiste proprio nella meraviglia come caratteristica costitutiva del fenomeno saturo, in cui è proprio l’imprevedibilità che compie la donazione intuitiva.Il fenomeno saturo viene definito anche insopportabile secondo la qualità, esattamente come la luce che acceca il prigioniero appena uscito dalla caverna.

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Per non soffrire l’accecamento, racconta Platone, il prigioniero deve voltarsi verso le cose che si possono guardare. L’eccesso dell’intensità della luce impedisce di vedere sia i fenomeni sensibili sia quelli intelligibili (l’idea del Bene è quella più difficile da vedere), e costituisce dunque un’allegoria degli ostacoli epistemologici dell’intelligibilità, di cui la struttura sensibile offre una figura. Potremmo dire che, secondo Marion, il mito di Platone descrive esattamente il fenomeno saturo secondo la qualità, poiché il fenomeno saturo, a causa dell’eccedenza dell’intuizione in esso, non può mai essere sopportato da uno sguardo che tenta di oggettivarlo: esso si dà solo come una percezione impossibile esattamente nell’accecamento. Ecco allora i due motivi fenomenologici che permettono di parlare di eccesso del fenomeno saturo secondo la qualità: lo sguardo è segnato da una soglia di tolleranza, che a volte viene varcata causando l’esperienza dell’accecamento. Tale esperienza è il segno del fenomeno saturo, sempre troppo ricco perché lo sguardo lo possa oggettivare, sia secondo la quantità che secondo la qualità. Il secondo motivo è intimamente connesso al primo, e riguarda l’esperienza della finitezza, che nella fenomenologia radicale viene ribaltata, perché di fronte al fenomeno saturo prendiamo coscienza di non essere in grado di misurare o accogliere l’ampiezza del dono. La finitezza non è più una valutazione proveniente dal calcolo di un soggetto conoscente di fronte alla penuria di ciò che offre l’esperienza, ma è l’esperienza di un’essenziale passività rispetto a qualcosa che non ha misura comune.Il fenomeno saturo è assoluto rispetto alla relazione perché si (im)pone come evento, eccedendo qualsiasi relazione. Marion parte da un’affermazione di Kant, che sostiene che «l’esperienza non è possibile se non attraverso la rappresentazione di un legame necessario delle percezioni». La semplice apprensione attraverso l’intuizione empirica non è però sufficiente a garantire questo legame, che deve prodursi attraverso i concetti nel tempo: «come il tempo stesso non può essere percepito, la determinazione dell’esistenza degli oggetti nel tempo non può realizzarsi se non attraverso il loro legame nel tempo in generale, solo in seguito ai concetti che li legano in generale».

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Secondo Kant, un fenomeno può manifestarsi solo rispettando l’unità dell’esperienza, cioè situandosi in una fitta rete di legami di inerenza, causalità e comunanza, che gli assegnano un luogo e una funzione. Si tratta di un obbligo stretto: «tutti i diversi devono essere unificati (soll vereignit werden)»;

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«l’analogia dell’esperienza non sarà dunque che una regola secondo cui l’unità dell’esperienza [...] deve risultare dalle percezioni (entspringen soll)».

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Per Kant, il fenomeno appare entro un luogo predefinito da un sistema di coordinate e governato dal principio dell’unità dell’esperienza. Marion si domanda se non sia un altro presupposto ingiustificato il fatto che tutti i fenomeni, senza eccezione, debbano rispettare il principio dell’unità dell’esperienza. Non va da sé che sia possibile scartare legittimamente la possibilità che un fenomeno si imponga alla percezione, senza che gli si possa assegnare una sostanza ove dimorare in quanto accidente, né una causa da cui risultare come effetto, né ancor meno un commercium interattivo ove relativizzarsi. E non è nemmeno ovvio che i fenomeni che sorgono realmente – in opposizione ai fenomeni poveri o sprovvisti d’intuizione – si lascino innanzitutto e per lo più percepire secondo tali analogie della percezione: al contrario, potrebbe darsi che essi si lascino percepire senza inscriversi nella trama relazionale che assicura all’esperienza la sua unità. Essi avrebbero invece il loro rilievo proprio perché sarebbe impossibile assegnare loro un sostrato, una causa o un commercio. Dopo una certa analisi, è dunque possibile ricondurre almeno la maggior parte dei fenomeni alle analogie della percezione. Ma la minoranza che vi sfugge, ormai deve essere presa in considerazione con un interesse profondo e rinnovato: sono proprio quei fenomeni che Marion chiama evento o fenomeno non prevedibile, evento puro. L’ultimo eccesso del fenomeno saturo riguarda la modalità, secondo cui è definito inguardabile. Marion torna sul tema del rapporto tra l’Io inteso come soggetto assoluto, e il fenomeno che si offre alla conoscenza secondo le caratteristiche proprie della donazione. Secondo lo schematismo kantiano, la possibilità del fenomeno dipende dal suo costituirsi secondo le condizioni formali dell’esperienza, in ultima analisi esso dipende dall’Io trascendentale, cioè da un’istanza esterna. Il fenomeno deve dunque il suo statuto a un’intenzionalità preliminare oggettivante e, non essendo autonomo, rinuncia a donarsi per lasciarsi costituire dalle condizioni che lo precedono. Marion inverte l’indagine di Kant, chiedendosi cosa accadrebbe nel caso di un fenomeno che non si accordasse con le condizioni trascendentali dell’esperienza. Secondo Kant, un tale fenomeno non apparirebbe, forse egli parlerebbe di una confusa aberrazione percettiva senza oggetto; Marion invece vede in questa possibilità la via non percorsa del fenomeno saturo: «il fenomeno saturo rifiuta di lasciarsi guardare come oggetto, precisamente perché appare con un eccesso molteplice e indescrivibile che annulla ogni sforzo di costituzione. [...] Il fenomeno saturo contraddice le condizioni soggettive dell’esperienza precisamente rispetto a questo non lasciarsi costituire come oggetto. Altrimenti detto, benché esemplarmente visibile, esso non si lascia guardare. Il fenomeno saturo si dà nel suo restare, secondo la modalità, inguardabile».

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L’io non può oggettivarlo nello sguardo, può solo ritrovarsi spiazzato di fronte all’abbondanza della donazione intuitiva e percepire la perturbazione che l’apparizione del fenomeno provoca nelle condizioni comuni dell’esperienza.Il fenomeno giunge come una sinfonia musicale, «in modo da procurarmi direttamente un’affezione, come pura donazione che non mediatizza nessun dato oggettivabile e che mi impone un’effettività immediatamente sua. L’offerta musicale offre innanzitutto il movimento stesso della sua venuta - essa offre l’effetto della sua offerta stessa, senza o al di là dei suoni che essa suscita».

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Alla luce del ribaltamento costituito dal fenomeno saturo, è evidente il rovesciamento anche della concezione di soggetto in quanto io puro che intenziona la realtà o in quanto soggetto conoscente che ne dà una rappresentazione. Il fenomeno saturo infatti non si mostra ad un soggetto inteso in questo modo. L’io non può oggettivarlo nello sguardo, può solo ritrovarsi spiazzato di fronte all’abbondanza della donazione intuitiva e percepire la perturbazione che l’apparizione del fenomeno provoca nelle condizioni comuni dell’esperienza. Quando un fenomeno saturo si offre, si dona, l’io è costretto ad ammettere la presenza eccedente di un fenomeno incostituibile che lo chiama in causa, lo interpella, lo lascia interloquito e spodestato rispetto alla sua condizione permanente di polo egoico. L’io diventa testimone del fenomeno saturo, che costituisce la possibilità ultima di ogni manifestazione. Marion introduce il termine adonné per indicare l’io. Il verbo francese s’adonner significa donarsi, consacrarsi a qualcosa. Il termine adonné comprende dunque due tratti fondamentali del soggetto di Marion: il soggetto è sempre “dato” da qualcosa che lo precede e lo costituisce – (a)donné –, ma è anche colui che risponde alla chiamata che gli dona la sua ipseità e solo consacrandosi (s’adonner) a essa realizza pienamente se stesso. «Bisogna riconoscere, non fosse che per inquietarsi, che il fenomeno si dona veramente, confiscando quindi obbligatoriamente la funzione e il ruolo del sé, e non potendo che concedere all’ego un me di secondo rango, per derivazione. E noi traiamo esplicitamente questa conclusione ricusando ogni pretesa dell’io a una funzione trascendentale o –che è lo stesso – la pretesa di ogni Io trascendentale ad essere la fondazione ultima dell’esperienza dei fenomeni. In altre parole, l’ego, spogliato della sua porpora trascendentalizia, deve ammettersi come si riceve, come un adonato: colui che riceve se stesso da ciò che riceve, colui al quale ciò che si dona come un sé primo – ogni fenomeno – dona un me secondo, quello della ricezione e della risposta. L’ego serba tutti i privilegi della soggettività, tranne la pretesa trascendentale d’origine».

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Il soggetto non è più colui che fissa le condizioni di possibilità dell’esperienza e nemmeno il performatore della donazione. Egli è colui che si riceve e che viene costituito dal fenomeno. Il soggetto viene spodestato al rango di complemento oggetto. Il fenomeno saturo è dunque ciò che si mostra all’adonato, a lui si dona e lo costituisce. L’adonato è colui che scopre se stesso proprio grazie al fenomeno saturo che, con il suo irrompere nella visibilità, lo interpella, lo chiama in causa e lo mette in condizioni di prendere coscienza di sé. In questa dinamica, l’adonato non può che scoprirsi come frutto di una donazione che da sempre lo precede.

§ 3Fenomeno saturo al massimo grado: un nuovo paradigma per la fenomenologia.

Avendo definito il fenomeno saturo e l’adonato, è possibile entrare nel nucleo della filosofia di Marion. A questo proposito è utile introdurre il confronto con Jacques Derrida sul concetto di dono in filosofia e, in particolare, sulla validità di tale concetto all’interno del metodo fenomenologico.

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Secondo Derrida, il dono come tale non può assolutamente essere oggetto dell’indagine fenomenologica. Esso infatti è per definizione qualcosa di assolutamente disinteressato e gratuito, altrimenti si tratta semplicemente di uno scambio. Con una serie di argomentazioni che qui non analizziamo, Derrida conclude che nell’esperienza esistono solo scambi; pertanto qualsiasi allusione al concetto di dono puro è metodologicamente scorretta poiché sarebbe una pretesa di condurre un’analisi fenomenologica su di un fenomeno invisibile, inesperibile, in ultima analisi inesistente. Affinché ci sia una donazione infatti, è necessario avere un donatore, un dono e un donatario. Il dono instaurerà sempre un legame tra donatore e donatario (anche solo di gratitudine morale), pertanto la sua purezza viene annientata nel momento stesso in cui il dono si dà. Marion risponde alle critiche di Derrida riconducendo ogni suo argomento entro i principi della logica classica, ove la possibilità di pensare un dono autentico sarebbe ostacolata dal principio di ragion sufficiente, dal principio di causalità o di non contraddizione. Se un dono c’è, occorre ad esempio che per esso ci sia una causa, sia essa efficiente o finale. L’esistenza di una causa contraddice la purezza di cui il dono necessita per essere tale, dunque lo annulla degradandolo a scambio. Nella regione del dono invece, il dono non è. Esso infatti è quel fenomeno molto particolare che per essere deve non essere. Lo statuto ontologico all’interno della regione del dono è inversamente proporzionale rispetto alle categorie tradizionali: un fenomeno appare, c’è, nella misura in cui si dà. Ma ciò che si dà, è qualcosa che si spossessa del proprio sé, del proprio essere sussistente, in altre parole è qualcosa che, a poco a poco, si perde e non è più. Questo è lo statuto ontologico dei fenomeni saturi: essi sono nella misura in cui non sono; per essere devono non essere. Sono fenomeni di fronte a cui la filosofia si è trovata senza concetti e senza parole; molti di questi non essere, costituiscono qualcosa che inesorabilmente si dà nell’esperienza, e di cui l’uomo avverte la necessità assoluta di parlare: follie irrazionali, desiderio, amore, carne, assurdo, contraddizione, giuramento, non senso, abbandono, promessa, gelosia, godimento, menzogna, sospensione, morte, concepimento di un figlio... Tutti questi eventi fuggono da una certa razionalità, quella degli oggetti prodotti in serie o degli oggetti della tecnica. Ma come già si è visto nel caso dei fenomeni saturi, non tutto ciò che si dà, si offre al modo dei fenomeni poveri. Esiste un tipo di razionalità che rende ragione di questi eventi molto più complessi: «l’amore rientra nell’ambito di una razionalità erotica»,

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e l’amore è l’esempio culmine del fenomeno saturo. Il fenomeno erotico è il fenomeno saturo al massimo grado e non può essere indagato all’interno di un orizzonte estrinseco: occorre comprenderlo semplicemente a partire da se stesso, non come ha fatto la metafisica che, concentrata sull’essere che è e sul non essere che non è, ha per lo più ritenuto se non altro marginale l’ipotesi secondo cui l’amore sarebbe potuto essere ancora più originario dell’essere stesso: «posso amare perfettamente ciò che non c’è o non è più, come posso farmi amare da ciò che non è più, non è ancora o il cui essere resta indefinito e, viceversa, un ente non esiste con certezza perché io lo amo o lui ama me, ma in quanto l’incertezza del suo essere non me lo rende eroticamente indifferente. La ricerca deve dunque descrivere il fenomeno erotico nell’orizzonte che gli è proprio: quello di un amore senza l’essere».

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Marion ritiene che la deviazione a favore dell’essere sia radicata in una decisione storicamente molto precisa: l’amore viene pensato a partire dall’ego cogito, in cui l’ego è concepito alla stregua di una pura res cogitans per la quale l’amore sarebbe una perturbazione riprovevole, fuori dall’ordine e dalla misura, facoltativa e marginalizzata. «Ego sum res cogitans, id est dubitans, affirmans, negans, pauca intelligens, multa ignorans, volens, nolens, imaginans quoque et sentiens».

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L’omissione dell’amore non è certo fortuita, perché esso non appartiene ai modi del pensiero, e dunque non determina originariamente l’ego. Stando alle Meditationes, l’uomo di Cartesio non ama, e una tale omissione dovrebbe quanto meno scioccare ogni filosofo: a detta di Marion, questo è l’unico grande errore di Cartesio di cui nessuno si sarebbe reso conto in quattro secoli. «L’uomo non si definisce né attraverso il logos, né attraverso l’essere che è in lui ma per il fatto che ama, o odia, che lo voglia o no. In questo mondo solo l’uomo ama, perché, a loro modo, gli animali e i computer pensano, e lo fanno bene, per non dire meglio di lui, ma non si può affermare che amino. L’uomo sì: l’animale che ama».

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Bisognerà dunque riprendere la descrizione dell’ego sostituendo l’io pensante con l’io che ama.La critica che Marion muove all’ego pensante riguarda il fondamento dell’edificio cartesiano. Egli sostiene che quella dell’ego cogito sia un’inutile certezza che il soggetto offre a se stesso, poiché si tratta di una certezza identica a quella che si può avere nei confronti di qualsiasi oggetto mondano. All’interno dell’esperienza storica, che giovamento trae l’io, da una certezza che gli proviene da se stesso? E la certezza dell’io pensante che certifica il sé, cosa certifica rispetto all’Io che esiste nell’esperienza storica? In fondo, l’io storico non dubita mai della sua esistenza, e il garantirsi da se stesso questa certezza non ha alcun significato. Il dubbio è una dimensione costitutiva dell’esperienza umana, e la questione della certezza di sé non si può certo liquidare con una garanzia che proviene da una deduzione formale. L’origine del dubbio esistenziale deve essere cercata non sul terreno delle dimostrazioni logiche, ma in un luogo molto più profondo e difficile da sondare.Al problema cartesiano, affrontato in modo impersonale, Marion contrappone un’indagine che può essere condotta solo parlando in prima persona, in quanto il risultato mi importa veramente. Si tratta della possibilità di stabilire qualche certezza sulla mia identità, la mia storia, il mio destino; insomma, sulla mia ipseità irriducibile. Basterebbe indirizzare una semplice domanda a coloro che ostentano le loro certezze logicamente dedotte, per vederli impallidire e sprofondare nel mare delle vanità: «À quoi bon? (E allora?)». La certezza al modo degli oggetti non mi rassicura in nulla riguardo me stesso, si tratta precisamente di una certezza inutile e incerta, che non riguarda certo il mio cuore; si tratta di una certezza derivata ed estranea, prodotta esattamente come si producono gli oggetti della tecnica. «Nulla mi espone, quindi, maggiormente all’attacco della vanità della dimostrazione metafisica dell’esistenza dell’ego, della mia pretesa di essere certo a titolo di ego. [...] Produrre io stesso la mia certezza non mi rassicura affatto, ma mi spaventa mettendomi di fronte alla vanità in persona. A che serve la mia certezza se dipende ancora da me, se io non esisto che attraverso di me?».

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L’indipendenza dell’ego cogito è dunque un’indipendenza finta, utile forse solo in un mondo ove vige il solipsismo più assoluto. Eppure, nella misura in cui l’ego è calato in una dimensione storica, esperienziale e intersoggettiva (per non dire comunitaria), il solipsismo appare come un’ipotesi troppo disincarnata per poter essere presa seriamente in considerazione da chi cerca una verità corrispondente alle domande che sorgono nell’esistenza umana autentica. Occorre allora abbandonare il paradigma della certezza inutile per abbracciare quello che riguarda un altro tipo di ragioni che, per Marion, sono quelle che rispondono alla domanda «m’aime-t-on? (mi si ama?)». Questa infatti è l’unica autentica possibilità originaria. Nessuno obietti, ancora con la metafisica, che per essere amato io devo prima di tutto essere. Si tratta di un sofisma che dà per acquisito ciò che si tratta di dimostrare: che il modo di essere dell’ego possa essere ridotto al modo di essere degli enti intramondani. Solo questi ultimi infatti, per essere amati, devono prima di tutto essere, ma nel caso dell’io, «essere amato» costituisce un enunciato analitico.La possibilità più radicale è dunque la possibilità erotica cui nessuno può rinunciare, neppure il più grande cinico del mondo (che, alla fine, non fa che pensare a questa possibilità erotica per tutta la vita). «Perché rinunziare, non fosse che alla possibilità di essere amato, opererebbe in me una sorta di castrazione trascendentale e mi abbasserebbe al livello di intelligenza artificiale, di un elaboratore o di un demone, in poche parole, probabilmente più in basso dell’animale, che ai nostri occhi può ancora almeno mimare l’amore. Di fatto coloro fra i miei simili che hanno rinunziato alla possibilità di essere amati, ed è vero in parte e solo sotto un certo profilo, hanno perduto in proporzione la loro umanità. Rinunziare a porre (porsi) la domanda “Sono amato?”, e soprattutto alla possibilità di una risposta positiva, implica nientemeno che la rinunzia all’umano in se stessi».

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L’unica certezza che conta per l’esistenza proviene dunque dalla risposta a una domanda ben precisa, che non è certo il dubbio di Cartesio. La sicurezza appropriata all’ego donato e adonato mette in opera una riduzione erotica.La domanda «mi si ama?» implica strutturalmente un’eterofondazione della certezza dell’Io. La certezza può provenire solo da altrove: per quanto possa industriarmi a produrre una serie di certezze, esse resteranno vane se non verranno assicurate da altri, ma l’evento di questa garanzia non dipende da me: io non sono in quanto penso o in quanto esisto, io sono in quanto amato, dunque voluto, eletto da altri. Occorre fare una distinzione netta fra la certezza di sé attraverso se stessi, e la rassicurazione che proviene dall’esterno, da un altri senza nome, che ad-viene senza annunciarsi, senza avviso, senza lasciarsi prevedere, come una sorpresa mi toccherà il cuore e sarà un evento che mi riguarderà a fondo. La forza dell’evento è tale da rimpiazzare la domanda «sono?» con la domanda «mi si ama?», compiendo così la riduzione erotica in cui l’unica tonalità originaria da cui mi trovo determinato è l’essere in quanto amato (o odiato) da altri: sono, non perché penso o perché lo voglio, ma perché mi si vuole da altrove. Entro così in una dimensione radicalmente nuova, ricevo il ruolo di colui che può amare e che crede e vuole che lo si ami. Da soggetto divento l’amante, non più il pensante.Su ogni indagine incombe l’ombra della domanda che apre la riduzione erotica, ricoprendo di vanità molte risposte faticosamente guadagnate nella storia della filosofia: «à quoi bon?». Non resta dunque che abbozzare brevemente lo sviluppo della riduzione erotica che Marion mette in campo seguendo, a titolo di esempio, l’indagine di tre oggetti classici dell’indagine filosofica: lo spazio (a), il tempo (b) e l’ipseità (c).

a) Se voglio determinare la mia posizione secondo il modo di essere degli oggetti, la cosa più sensata da fare è quella di descriverla secondo le coordinate geografiche convenzionali. Se voglio fare la stessa cosa determinando la mia posizione come lavoratore con una determinata mansione, dirò di occupare il tale ruolo in una certa rete di scambi economici o sociali. Ma in quanto amante, cosa dire di fronte a uno spazio così inteso se non «à quoi bon?». Nello spazio che occupo come amante, quali sono le coordinate che posso offrire al mio domandare spaziale, senza essere colpito dalla vanità? Nello spazio ridotto, le più semplici coordinate spaziali rispetto alle quali possiamo definire un qui e un là si determinano unicamente in base alla domanda «mi si ama?». Un’esperienza che molti hanno fatto è quella di un periodo di soggiorno all’estero: «il primo sguardo, entrando nel nuovo appartamento, va al telefono (o l’aggeggio assimilato); la prima preoccupazione è quella di sapere come funziona (come si prende la linea, i prefissi, la compagnia telefonica, l’abbonamento); la prima libertà, infine, è quella di usarlo.Tali dettagli banali vanno presi sul serio (e ognuno può correggerli e completarli in base alla propria esperienza personale), perché descrivono giorno per giorno l’esperienza incontestabile di un luogo non intercambiabile, né commutabile, il cui laggiù non si ridurrà mai a un qui, poiché il mio trasporto fisico, con armi e bagagli, da un qui a un altro qui non solo mantiene lo status di laggiù all’ultimo qui, ma lo rafforza. Ormai so, infatti che quel laggiù – dove sono qui – non resta tale (laggiù) per motivi geografici e circostanziali, ma so che rinvia a un qui più radicale, che interpreta il ruolo dell’altrove rispetto al quale mi lascio invischiare, in riduzione erotica, nella domanda “Sono amato?”».

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I punti di riferimento comuni, il nord e il sud universalmente accettati per gli utilizzabili intramondani, vengono svuotati di significato. Per la prima volta esiste un luogo assoluto e insostituibile in rapporto al quale io sarò sempre là, e questo là non potrà mai diventare un qui. Se nell’atteggiamento naturale io sono qui ovunque mi trovo, in riduzione erotica, sono sempre, inesorabilmente là, grazie alla distanza che mi separa dall’oggetto del mio desiderio.b) Anche la concezione naturale del tempo si trova capovolta: il tempo è scandito dall’attesa di un evento imprevedibile e fuori controllo. Tale attesa sospende lo scorrere del tempo secondo i minuti e le ore. Il tempo misura semplicemente la distanza tra me e l’evento desiderato: il tempo passa, ma se nulla accade (se passe), il tempo passa invano o non passa per niente. E non passa «fintanto che ciò che sostituisce per me l’altrove in questa circostanza non mi avrà chiamato, non mi avrà spedito la sua lettera, non mi avrà lanciato il suo messaggio, non sarà venuto, in breve, non sarà entrato nel mio campo visivo, in una parola, e molto precisa, fin quando non sarà arrivato (arrivé, accaduto) fino a me dall’altrove che gli è proprio, nulla sarà avvenuto (passé) qui e in questo momento. Nulla sarà avvenuto (passé), fintanto che esso non sarà passato (passé) qui e non avrà così trasformato il là (laggiù) dove mi trovo in un qui a pieno titolo (il suo)».

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Siamo in una situazione in cui lo spazio ordina il tempo, il senso esterno regge il senso interno, poiché il senso esterno (lo spazio invertito della riduzione erotica) decide in ultima istanza dell’ora della riduzione erotica. La temporalità dell’attesa infatti, si compie solo quando l’evento (e proprio questo evento, quello atteso) giunge al suo destinatario, dunque effettua un percorso da un altrove a un qui: il tempo non è più dunque l’estensione della coscienza, ma estensione dell’evento. Tutto ciò che si dispiega nel tempo all’infuori dell’evento atteso è inesorabilmente viziato dalla vanità, e il destinatario assisterà a questa sfilata di utilizzabili senza senso commentando «ancora no, ancora nulla, non ancora...».c) La domanda della riduzione erotica mi obbliga a dare anche una risposta circa la mia identità. Essa mi domanda di considerare me stesso non come un soggetto che svolge una funzione, come un ingranaggio sostituibile in qualsiasi momento, ma come una carne, un me insostituibile. Solo la carne mi assegna alla mia ipseità: essa mi individualizza come corpo sentito e senziente, nessuno può entrare nella mia carne, sostituirsi ad essa; io stesso non posso decidere di disfarmene, pena la morte. La certezza della propria carne non è una certezza che avviene al modo della certezza logica, potremmo dire come un assenso della volontà di fronte a un’evidenza dell’intelletto. «In riduzione erotica, infatti, la parola “Sono amato?”, non la pronunzio tanto quanto una domanda che potrei scegliere fra mille altre (“chi sono?”, “che cosa posso conoscere?”, “che cosa devo fare?”, “mi è permesso di sperare?”, “cosa è l’uomo?” oppure “come guadagnarmi da vivere?”, “come vivere felice”, e così via), ma come la domanda che mi consegna a me stesso e nella quale sperimento la mia presa di carne, insomma, in breve come la domanda che dice a me stesso, prima che io risponda e senza farlo – perché mi dona il mio qui – o piuttosto, dal suo punto di vista, il mio là».

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Il dilemma non è più «essere o non essere», ma «mi si ama – da altrove?», e non si tratta di un dilemma risolvibile velocemente, perché è precisamente il dilemma che mette in questione me stesso e la cui risposta arriverà (se arriverà) come arriva un evento: essa avrà già deciso per me, donandomi un qui irriducibile nello spazio, un presente da attendere nel tempo e una carne che mi consegna alla mia ipseità. Ma nessuno di questi doni mi appartiene, né proviene da me. La rassicurazione di cui sono in cerca non proviene mai da me: essa sorpassa ogni certezza autofondata.

Conclusioni

In questo percorso, ho cercato di mettere in rilievo il motivo per cui i risultati di Marion costituiscono un contributo importante per filosofia contemporanea. Innanzitutto egli individua percorsi nuovi e inesplorati partendo dalle intuizioni dei grandi maestri della fenomenologia, dalla cui profonda e attenta lettura sviluppa un pensiero autonomo e originalissimo. Egli non si limita a percorrere nuove strade con strumenti vecchi, ma crea un apparato concettuale e terminologico nuovo, grazie al quale riesce ad esprimere intuizioni di grande profondità. In tutto il suo percorso, è sorprendente notare come all’autonomia e all’innovazione del suo pensiero, corrisponda sempre il dialogo e il confronto critico con i classici.Il progetto di Marion è molto chiaro sin dallo studio Réduction et donation: se l’amore è il fenomeno centrale dell’esperienza umana, allora la filosofia, il logos, la ragione non potrà mai rispondere alle domande fondamentali dell’uomo se non diviene una ragione erotica. Questo non significa che il filosofo debba essere un buon amante per essere un buon pensatore: questo significa che tutta la filosofia, se vuole essere autentica, deve pensarsi all’interno della regione del dono o, potremmo dire, della regione erotica. Marion avanza così una proposta che definirei “sperimentale”, nel senso che egli porta avanti un vero e proprio tentativo di ripensare alcune categorie classiche con una ragione che non solo non esclude la dimensione amorosa, ma ne fa il punto di partenza, un dato imprescindibile, insomma, egli non pensa se non con un pensiero intrinsecamente erotico. Non si tratta di un pensiero sull’amore, ma si tratta di un vero e proprio dialogo con l’amore che Marion instaura intellettualmente sia con l’amore come concetto, sia con il lettore, al quale spesso si rivolge in prima persona. Il pensiero di Marion inoltre, non si esaurisce nell’analisi di un fenomeno espressa attraverso tutti i concetti via via ricavati, ma va oltre e apre campi di ricerca che ancora devono essere sviluppati e in cui è possibile intravedere nuovi cammini per la filosofia contemporanea.1 Cfr. R. Caldarone, Caecus amor, E.T.S., Pisa 2007. C. Canullo, La fenomenologia rovesciata. Percorsi tentati in Jean-Luc Marion, Michel Henry e Jean-Louis Chrétien, Rosemberg & Sellier, Torino 2004.2 J.-L. Marion, Réduction et Donation. Recherches sur Husserl Heidegger et la phénoménologie, P.U.F., Paris 1989, p. 52.3 J.-L. Marion, Étant donné, P.U.F., Paris 1997; tr. it. di R. Caldarone, Dato che, S.E.I., Torino 2001, p. 75.4 Ibidem, pp. 77-78.5 Ibidem, p. 83.6 E. Husserl, Ideen zur einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie, a cura di K. Schuhmann, Husserliana, vol. III, Nijhoff, Den Haag 1976, tr. it. di V. Costa, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, libro primo, Einaudi, Torino 2002, pp. 50-51.7 J.-L. Marion, Dato che, p. 226.8 Ibidem.9 E. Husserl, Idee I, p. 184.10 J.-L. Marion, Dato che, p. 229.11 Ibidem, p. 232. 12 Ibidem, p. 148, «ciò che appare si dà, ciò che si dà appare». 13 J.-L. Marion, Réponses à quelques questions, in «Revue de Métaphysique et de Morale» 1991/1, p. 71.14

J.-L. Marion, Réponses à quelques questions, p. 73.15 J.-L. Marion, Le visible et le révélé, Cerf, Paris 2005, p. 243.16 J.-L. Marion, Dato che, p. 210.17 Ibidem, p.278.18 Ibidem, p. 240.19 J.-L. Marion, Le visible et le révélé, p. 158.20 Ibidem, p. 161.21 C. Baudelaire, Le poison, in Les Fleurs du mal, XLIX.22 J.-L. Marion, Dato che, p. 246.23 Ibidem, p. 247.24 Cfr. R. Descartes, Passions de l’âme, AT XI, § 43, p. 383, 7-10.25 Cfr. Platone, Repubblica, 515 c e 517 a.26 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, Suhrkamp, Frankfurt 1974, tr. it. di P. Chiodi, Critica della ragion pura, U.T.E.T., Torino 1967, B 219, p. 217.27 Ibidem, B 220, p. 21728 Ibidem, A 180/b 222, p. 219.29 J.-L. Marion, Dato che, p. 263.30 Ibidem, p. 266.31 J.-L. Marion, De surcroît. Etudes sur les phénomènes saturés, P.U.F., Paris 2001, p. 54.32 Cfr. J. Derrida, Donner le temps, Éditions Galilée, Paris 1991; tr. it. di G. Berto, Donare il tempo, Raffaello Cortina Editore, Milano 1996. M. Mauss, Essai sur le don, in Sociologie et anthropologie, PUF, Paris 1950; tr. it. di F. Zannino, Saggio sul dono, in Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino 1965. C. Baudelaire, La fausse monnaie, in Oeuvres complètes, Bibliothèque de la Pléiade, a cura di Y.- G. Le Dantec, Gallimard, Paris 1954, tr. it. di G. Raboni, La moneta falsa, in Poesie e prose, Mondadori, Milano 1973. Si veda inoltre A.A.V.V., «Revue de Métaphysique et de Morale», 1991, 1. D. Janicaud, Le tournant théologique de la phénoménologie française, Éditions de l’éclat, Combas 1991. D. Janicaud, La phénoménologie éclatée, Éditions de l’Éclat, Paris 1998.33J.-L. Marion, Le Phénomène érotique, Grasset, Paris 2003,

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tr. it. di L. Tasso, Il fenomeno erotico, Cantagalli, Siena 2007, p. 10. Quest’opera di Marion, ha suscitato grande interesse nella comunità scientifica. Cfr. E. Cassidy- I. Leask (a cura di), Giveness and God. Questions of Jean-Luc Marion, Fordham University Press, New York 2005. S. Currò (a cura di), Il dono e l’altro. In dialogo con Derrida, Lévinas e Marion, LAS, 2005. K. Hart, (a cura di), Counter-Experiences, University of Notre Dame Press, Notre Dame, Indiana 2007. C. M. Gschwandtner, Reading Jean-Luc Marion. Exceeding Metaphisics, Indiana University Press, Bloomington 2007. V. Perego, La fenomenologia francese tra metafisica e teologia, Vita e Pensiero, Milano 2004. N. Reali, L’amore tra filosofia e teologia. In dialogo con Jean-Luc Marion, Lateran University Press, Roma 2007.34J.-L. Marion, Il fenomeno erotico, pp. 10-11.35 R. Descartes, Meditationes de prima philosophia, AT VII, p. 34, 18-21.36 J.-L. Marion, Il fenomeno erotico, p. 12.37 Ibidem, p. 27.38 Ibidem, p. 29.39 Ibidem, p. 42.40 Ibidem, p. 45.41 Ibidem, p. 52.