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Appunti dalle lezioni 2017-2018 di Roberto Alfieri per il corso "Politiche territoriali dei servizi sanitari e sociali". Introduzione La salute dipende, prima di tutto, dalle condizioni socio-economiche e culturali in cui si vive. Sono queste condizioni a determinare, in larga parte, sia la longevità di una popolazione che la frequenza delle sue disabilità e malattie. I servizi sanitari contano meno. Contano nella gestione più o meno appropriata delle malattie, una volta che si sono manifestate, ma hanno un impatto nullo per quanto riguarda, ad esempio, la comparsa di una malattia tumorale, cardiovascolare, respiratoria o di altro genere. I servizi sanitari contano ancor meno nei riguardi del disagio sociale. Eppure il disagio sociale ha ingenti ripercussioni sulla salute. Condizioni socio-economiche e culturali insoddisfacenti influenzano, infatti, la frequenza di molte malattie croniche, delle dipendenze patologiche (alcol, droghe, gioco d'azzardo, obesità...), della violenza e criminalità, dell'abbandono scolastico, delle gravidanze adolescenziali... Si potrebbe dire, allora, che la salute dipende molto dalle condizioni sociali in cui si trova un Paese e dalle politiche adottate, durante il succedersi di diverse generazioni. Le politiche, infatti, hanno bisogno di tempo per esercitare il loro impatto sulla salute, influenzando i settori più diversi: da quello scolastico a quello fiscale, lavorativo, economico, urbanistico, ecologico, agro-alimentare, dei trasporti.. I servizi sanitari vanno considerati solo come elementi settoriali di politiche molteplici e hanno un impatto, tutto sommato, contenuto sulla salute pubblica. Nonostante ciò, la percezione dell'importanza della politica per quanto riguarda la salute è, perlopiù, difettosa. Si sopravvaluta, invece, il ruolo dei servizi sanitari, anche perché le nostre stesse storie di vita ci portano ad apprezzare personalmente il sollievo che otteniamo grazie alle cure mediche, quando ci ammaliamo. E, sulla base di queste esperienze personali, il più delle volte positive, arriviamo, addirittura, a pensare che quanto più si spende per la sanità e quante più prestazioni si ottengono, tanto più alto è il livello di salute cui possiamo mirare. Quindi, alla luce di tutto questo, credere che i servizi sanitari abbiano una minore importanza delle condizioni socio- economiche e culturali risulta, perlomeno, contro-intuitivo. Non riusciamo a capire che la salute complessiva di una popolazione è molto più influenzata dal rischio di ammalarsi più o meno frequentemente piuttosto che dal fatto di essere curati appropriatamente quando ci si ammala. Occorre, insomma, convincersi di questa semplice verità: la salute è condizionata dal modo in cui si nasce, si cresce, si studia, si lavora, si abita e

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Appunti dalle lezioni 2017-2018 di Roberto Alfieri per il corso "Politiche territoriali dei servizi sanitari e sociali". Introduzione La salute dipende, prima di tutto, dalle condizioni socio-economiche e culturali in cui si vive. Sono queste condizioni a determinare, in larga parte, sia la longevità di una popolazione che la frequenza delle sue disabilità e malattie. I servizi sanitari contano meno. Contano nella gestione più o meno appropriata delle malattie, una volta che si sono manifestate, ma hanno un impatto nullo per quanto riguarda, ad esempio, la comparsa di una malattia tumorale, cardiovascolare, respiratoria o di altro genere. I servizi sanitari contano ancor meno nei riguardi del disagio sociale. Eppure il disagio sociale ha ingenti ripercussioni sulla salute. Condizioni socio-economiche e culturali insoddisfacenti influenzano, infatti, la frequenza di molte malattie croniche, delle dipendenze patologiche (alcol, droghe, gioco d'azzardo, obesità...), della violenza e criminalità, dell'abbandono scolastico, delle gravidanze adolescenziali... Si potrebbe dire, allora, che la salute dipende molto dalle condizioni sociali in cui si trova un Paese e dalle politiche adottate, durante il succedersi di diverse generazioni. Le politiche, infatti, hanno bisogno di tempo per esercitare il loro impatto sulla salute, influenzando i settori più diversi: da quello scolastico a quello fiscale, lavorativo, economico, urbanistico, ecologico, agro-alimentare, dei trasporti.. I servizi sanitari vanno considerati solo come elementi settoriali di politiche molteplici e hanno un impatto, tutto sommato, contenuto sulla salute pubblica. Nonostante ciò, la percezione dell'importanza della politica per quanto riguarda la salute è, perlopiù, difettosa. Si sopravvaluta, invece, il ruolo dei servizi sanitari, anche perché le nostre stesse storie di vita ci portano ad apprezzare personalmente il sollievo che otteniamo grazie alle cure mediche, quando ci ammaliamo. E, sulla base di queste esperienze personali, il più delle volte positive, arriviamo, addirittura, a pensare che quanto più si spende per la sanità e quante più prestazioni si ottengono, tanto più alto è il livello di salute cui possiamo mirare. Quindi, alla luce di tutto questo, credere che i servizi sanitari abbiano una minore importanza delle condizioni socio-economiche e culturali risulta, perlomeno, contro-intuitivo. Non riusciamo a capire che la salute complessiva di una popolazione è molto più influenzata dal rischio di ammalarsi più o meno frequentemente piuttosto che dal fatto di essere curati appropriatamente quando ci si ammala. Occorre, insomma, convincersi di questa semplice verità: la salute è condizionata dal modo in cui si nasce, si cresce, si studia, si lavora, si abita e

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si invecchia, perché sono questi contesti esistenziali a determinare, soprattutto, la frequenza di comparsa delle diverse malattie e disabilità. Una volta convinti di questo si può capire meglio, ad esempio, perché la longevità della popolazione degli Stati Uniti sia inferiore a quella della popolazione di Cuba (79,6 contro 80 anni) (Il mondo in cifre. The Economist) nonostante gli Stati Uniti spendano, mediamente, in favore di ogni cittadino, per la sanità, circa venticinque volte di più rispetto a quanto spendono i cubani. Si tratta di un divario di spesa abissale, ma, tutto sommato, ininfluente sull'attesa di vita, che è un indicatore abbastanza accurato della salute complessiva di una popolazione. E qualcosa di analogo avviene in tanti altri Stati, come la Costarica, il Portorico, la Guyana Francese, che spendono tutti molto meno degli Stati Uniti per la sanità, ma godono di una longevità addirittura superiore. E si badi che ciò accade nonostante il livello tecnico e scientifico della medicina statunitense sia straordinariamente elevato, tanto che le università e gli ospedali degli Stati Uniti rappresentano l'esempio da emulare per tutta la medicina del mondo industrializzato. La spiegazione di dati così sorprendenti risiede nel fatto che sono politica e cultura a giocare il ruolo più rilevante per la salute. Ma cosa si intende per politica e come può la politica esercitare questo suo potere quasi miracoloso sulla salute? Cosa si intende per politica? Va chiarito subito il significato che attribuiamo al termine "politica". La politica è, insieme, l'arte e la scienza di costruire la "città", di creare le condizioni favorevoli per relazioni di pace e amicizia tra tutti i cittadini. E' un'arte della convivenza. Ha a che fare, quindi, con la capacità e volontà di tessere dei legami sociali fecondi, di regolare armonicamente la convivenza tra esseri umani. Intesa in questo senso, la politica aspira al bene comune e presuppone che la prerogativa più autentica dell'essere umano consista nelle sue relazioni: in quelle che nel tempo hanno contribuito a costruire la personalità dei singoli e continuano, poi, ad animarli nella vita di ogni giorno. Esistono, però, delle difficoltà nel perseguimento del bene comune. Contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, il bene comune è divisivo. Non coincide con la somma degli interessi di ciascuno, benché la teoria economica neoclassica sostenga proprio questo. Né corrisponde col rispetto cieco dell'autonomia, in assenza di regole, in contrasto con quello che sostiene il pensiero neoliberistico, che ormai è diventato parte essenziale della cultura dominante. Perciò ci siamo disabituati a riflettere sul bene. Nel dibattito pubblico il discorso sulla "vita buona" si è, ormai, eclissato. Del resto, se basta fare il proprio interesse egoistico per contribuire al raggiungimento del bene comune, diventa superfluo parlarne. E infatti, in nome della garanzia di una neutralità valoriale, se ne parla il meno possibile. Non si vogliono urtare delle sensibilità che si ritengono appartenere alla sfera individuale. Come se il modo migliore per rispettare i valori di tutti fosse quello di ignorarli.

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E così, la carenza di riflessione sul bene impedisce un approfondimento condiviso e favorisce la divisione. E diventa difficile, per la politica, aderire al proprio ruolo. Quando gli interessi di alcuni gruppi si trovano in conflitto tra loro, la politica dovrebbe schierarsi a favore dei più deboli, di chi ha meno autonomia e minori possibilità di fare sentire la propria voce. Dovrebbe farlo dichiarando in modo chiaro le proprie ragioni, esprimendo in modo esplicito i principi cui si appella, evocando i diritti e i doveri contenuti nelle carte costituzionali. Se ci lasciamo ispirare da un ideale di giustizia, sono proprio i più deboli da tutelare prioritariamente, perché rischiano di essere schiacciati dagli altri che hanno maggiori possibilità di imporsi e far prevalere i loro interessi. Questa nostra presa di posizione, che muove da una concezione personalistica dell'essere umano (quella che riconosce nelle relazioni il carattere costitutivo dell'umano) e, nel contempo, da una concezione di potere intimamente legata al servizio (che vuole offrire risposte, prima di tutto, alle persone che si trovano in condizioni di più grave bisogno), non è l'unica possibile. Ci sono, infatti, diverse teorie della giustizia che si esprimono in modo differente sull'idea di politica. Ma l'approccio che qui proponiamo assume significato soprattutto parlando di salute, benessere sociale e servizi, dove dovrebbe diventare naturale l'adozione di un atteggiamento altruistico. Dove la politica deve valorizzare le dimensioni etiche dell'agire e, quindi, prendere sul serio i processi educativi di costruzione della coscienza. Le politiche sanitarie e sociali, infatti, hanno il compito di prevenire le malattie, il disagio sociale, di prolungare la vita e migliorarne la qualità. Si occupano, tradizionalmente, di persone che, in momenti delicati della loro esistenza, vengono a trovarsi in condizioni di bisogno e necessitano, perciò, di essere aiutate. Esula, quindi, dalla nostra idea di politica la concezione oggi prevalente, per cui essa consiste in un "insieme di procedure che permettono alle persone di scegliere da sé il proprio obbiettivo" (si veda il libro di Sandel). Si tratta, infatti, di una concezione troppo individualistica che porta all'isolamento dei singoli e alla polverizzazione della società, che viene, così, esclusa da una riflessione condivisa sul significato di una "vita buona". E, a maggior ragione, è estranea alla nostra mentalità l'idea che la politica si riduca all'arte di acquisire, mantenere ed espandere il potere, a favore di se stessi e della propria parte, poiché questa concezione rappresenta, piuttosto, la sua degenerazione: ciò che la politica rischia di diventare in circostanze avverse, in climi di sfiducia e conflitto. Qual è la priorità di cui occuparsi? Dopo aver riflettuto sul modo di esercitare l'arte della politica e sui principi che devono orientare il suo agire, ragioneremo sulla disuguaglianza, di cui deve occuparsi prioritariamente la politica. Di questo tema tratta approfonditamente il bel libro di Wilkinson e Pickett intitolato "La misura

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dell'anima", da cui trarremo diversi spunti. La disuguaglianza ha impatti tremendi sia sul benessere sanitario che su quello sociale. La priorità che assegniamo alla disuguaglianza non è dovuta solo a un ideale di giustizia che potrebbe scuotere più o meno fortemente le nostre coscienze. I giudizi di valore relativi al grado di gravità della disuguaglianza, infatti, potrebbero differire grandemente, a seconda delle diverse esperienze di vita e degli orientamenti politici di ciascuno di noi. Qualcuno, inoltre, potrebbe obiettare, in modo sostanzialmente corretto, che anche un eccessivo egualitarismo potrebbe essere ingiusto, al pari di un'eccessiva disuguaglianza. Come in tutte le questioni importanti, infatti, non ci si può schierare da una parte o dall'altra di opposti estremismi, ma si deve cercare di adottare un atteggiamento equilibrato. La priorità del problema delle disuguaglianze, almeno nelle sue forme più vistose, si impone alla luce di ciò che oggi sappiamo relativamente ai suoi impatti e all'efficacia ed efficienza dei rimedi che possiamo adottare. Le priorità, infatti, non sono solo definite dalla gravità e dalla frequenza dei diversi problemi, ma anche dall'efficacia ed efficienza delle soluzioni possibili. Se il problema della disuguaglianza e dei suoi impatti negativi fosse insolubile, la politica potrebbe trascurarlo. Diventerebbe, se mai, un problema di competenza della ricerca, per capire ciò che serve ad aiutarci nell'affrontarlo. Oggi, invece, i dati scientifici dimostrano che siamo di fronte a una nuova era per la politica e l'economia dei Paesi più industrializzati, come il nostro. Il contenimento delle sperequazioni realizzato, ad esempio, in Paesi come la Svezia o il Giappone, procura un netto vantaggio nel benessere dei loro cittadini. Altri Paesi come gli Stati Uniti pagano, invece, un enorme sacrificio di vite umane e salute a causa delle forti sperequazioni che hanno accumulato negli anni. La conoscenza disponibile ci raccomanda di cambiare la direzione dell'impegno economico e politico per arrivare a società meno sperequate e, di conseguenza, gravate da una minore mole di problemi sanitari e sociali. Non dobbiamo più investire sul progressivo incremento del Pil, sempre più slegato dai miglioramenti nella qualità di vita, ma sull'attenuazione delle scandalose differenze di reddito che riguardano i vari cittadini. Anche perché le eccessive disuguaglianze non danneggiano esclusivamente i gruppi sociali più svantaggiati all'interno di un Paese, ma fanno male all'intera società, incluse le componenti più ricche della popolazione. Le eccessive disuguaglianze comportano per tutti un aumento della mortalità, dei disturbi mentali, dell'ansia, dello stress, delle tossicodipendenze, della violenza e criminalità. Come agiscono le disuguaglianze? Dovremmo, a questo punto, chiederci attraverso quali vie le disuguaglianze diventano causa di un così gran numero di problemi sanitari e sociali.

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Tramite il ricorso a nuovi approcci di studio basati sui "corsi di vita" si è potuto constatare che il destino delle singole persone, le traiettorie esistenziali delle loro vite e gli eventi correlati con la salute sono per larga parte pre-determinati, fin dal momento del concepimento, dalla posizione sociale occupata dai loro genitori. Le eccessive sperequazioni sociali non vanno rimosse esclusivamente perché sono disfunzionali per le società nel loro complesso, ma anche perché sono profondamente ingiuste, dal momento che predeterminano, in larga parte, il destino delle persone e impediscono, in un certo senso, che tutti gli uomini nascano liberi e uguali in dignità e diritti. E, quindi, violano il primo articolo della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Al di là dei meccanismi profondi di ordine fisio-patologico che interessano il sistema endocrino, nervoso e quello immunitario, vedremo che le disuguaglianze generano risentimento, ostilità e sfiducia. Sfilacciano la rete delle relazioni sociali: quella rete che oggi è considerata così importante, per i problemi di benessere, da suggerire lo studio della sua struttura anche solo tramite alcuni semplici metodi quantitativi, per analizzarla e comprenderne meglio le potenzialità. La rete delle relazioni nell'ambito sanitario e sociale entra, infatti, con un duplice ruolo: può diventare, da una parte, un fattore di suscettibilità alle malattie e, dall'altra, un fattore cruciale per un'appropriata assistenza e riabilitazione dei malati. Di quale prevenzione deve occuparsi la sanità pubblica? Se il problema politico prioritario, oggi, è diventato quello delle disuguaglianze, allora le politiche sanitarie e sociali devono occuparsi, finalmente, della vera prevenzione. Lo faranno smettendo di perpetuare l'errore, ormai inveterato, di medicalizzare problemi che sono esclusivamente sociali. Ha poco senso intervenire sulle conseguenze della povertà assoluta e relativa lasciandone inalterate le cause. E' irrealistico pensare che i più poveri, in particolare, possano continuare a vivere nelle stesse condizioni di prima, ma senza più soccombere di fronte ai disturbi mentali, alle gravidanze adolescenziali, agli insuccessi scolastici, all'alcolismo, alle tossicodipendenze e all'obesità, semplicemente per il fatto che sono stati informati della possibilità di adottare abitudini personali più salutari. Serve a poco insegnare ad essere più assennati nei propri stili di vita. Non è quasi mai vero che sapere che qualcosa fa male può, di per sé, indurre a cambiare i comportamenti dannosi. E' raro che un fumatore smetta di fumare solo perché viene a sapere che il fumo è nocivo. La strategia di prevenzione individuale, basata sugli interventi rivolti alle persone esposte ad "alti rischi", finalizzata a far assumere farmaci "protettivi" o a cambiare i loro stili di vita, si è rivelata, oltre che poco efficace, inutilmente costosa. Servono strategie di prevenzione rivolte alla totalità della popolazione e, ancora prima, occorrono

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interventi che, diminuendo le sperequazioni, promuovano una maggiore autonomia e un maggior controllo sulla propria vita da parte di tutti. Il nuovo welfare che ci attendiamo non dovrà basarsi, come ora, soprattutto su strategie riparative, ma contribuire a creare le condizioni sociali, economiche e culturali favorevoli alla salute di tutti. La salute dipende soprattutto dai modi in cui si nasce e si vive. Ci sarà ancora bisogno di servizi volti a diagnosi, cura, riabilitazione e palliazione, perché le malattie e le disabilità, legate anche all'invecchiamento, non potranno certo scomparire, ma la leva dell'impegno dovrà essere rappresentata eminentemente dalla prevenzione, per recuperare in parte il tempo perduto. A che disciplina scientifica riferirsi? Delineare politiche sanitarie e sociali di questo tipo e applicarle alla popolazione nel suo insieme comporta il ricorso alla disciplina fondamentale della sanità pubblica: l'epidemiologia. Così come la medicina clinica si interessa dei problemi del singolo malato, l'epidemiologia si interessa, invece, dei problemi di salute della popolazione. Essa viene definita come la scienza che studia la frequenza e la distribuzione dei fenomeni correlati con la salute in gruppi specifici di popolazione e analizza i fattori di rischio che influenzano tali frequenze e distribuzioni. Accenneremo alle unità di misura fondamentali (i tassi di incidenza e di prevalenza) che utilizza l'epidemiologia per definire le priorità, prevenire le malattie, pianificare i suoi interventi e valutare il raggiungimento dei risultati previsti. Soprattutto, in riferimento ai nuovi sviluppi nel campo della epidemiologia delle malattie croniche, faremo cenno a suoi approcci di studio estremamente promettenti, quelli basati su studi longitudinali che seguono, con misure ripetute, le singole persone di un campione, nel corso di un'intera esistenza. Nell'ambito delle patologie croniche, l'interesse non può più essere concentrato su ciò che accade in un determinato momento storico, in prossimità della presentazione della malattia. Le malattie croniche sono, infatti, influenzate da fattori che agiscono fin dalle fasi della vita embrionale. Si parla di approcci di studio basati sul "corso della vita" (life-course approach) per distinguerli da altri studi longitudinali, più limitati nel tempo, e dagli studi trasversali che si riducono ad osservare le situazioni in un determinato momento e non tengono conto dei cambiamenti avvenuti nelle singole persone nel corso del tempo. Insomma, le politiche che vogliamo proporre devono essere più avvedute e innovative, per tanti versi. Richiedono profondi mutamenti culturali che si scontrano con le idee più tradizionali e con potenti interessi precostituiti. Bisogna arrivare a una diversa consapevolezza e costruire in noi stessi e nelle nuove generazioni delle coscienze più mature. Non solo per quel che riguarda la prevenzione, ma anche per quel che riguarda le cure abbiamo

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bisogno di ricorrere ad altre idee, più ricche di quelle tradizionali, se non vogliamo far precipitare nella insostenibilità i nostri servizi sanitari nazionali. Una diversa conoscenza si impone perché, come sosteneva Einstein, non si possono risolvere i problemi restando ancorati alla stessa cultura che li ha generati. E aggiungeva, poi, che è folle continuare a ripetere le stesse cose e sperare di ottenere dei risultati diversi. Dobbiamo, perciò, elevarci a un grado di conoscenza più profonda e, sulla base di questa, cambiare le nostre strategie politiche. Le nuove politiche devono essere, allora, legate a saperi diversi e ispirate da un sentimento umanitario più profondo.

Come riuscire ad accordarsi La politica dovrebbe alimentarsi di nuovi saperi e essere ispirata da un diverso modo di sentire. Alla base di queste innovazioni dovrebbe stare la consapevolezza del legame che ci unisce gli uni agli altri. Perché l'essenza costitutiva dell'essere umano, ma anche di tutto ciò che esiste al mondo, sono le relazioni e le “proprietà emergenti” che ne derivano. A incominciare dalla relazione degli atomi tra di loro, delle molecole e delle particelle subcellulari, fino agli organismi, alle famiglie, alle comunità, alle nazioni e agli ecosistemi. Non si tratta tanto di nostre intime convinzioni, ma dell'esito di scoperte scientifiche. Ad esempio, la teoria dell'evoluzione spiega la comparsa dell'homo sapiens a partire dalle interazioni dei costituenti elementari di una cellula primordiale (cellula LUCA, circa 3 miliardi e mezzo di anni fa). E, volendo arrivare alle prerogative più squisitamente umane e alle capacità intellettive, oggi le neuroscienze dimostrano che la nostra mente è una proprietà emergente che nasce dalle relazioni tra il cervello, l'ambiente esterno (che include gli altri esseri umani) e le altre parti del corpo. Se è la relazione a costruirci a poco a poco per quello che siamo, la qualità del nostro essere al mondo dipende, in gran parte, dalla qualità delle relazioni che ci hanno in qualche modo riguardato. Un nuovo sentire, allora, dovrebbe discendere da questa consapevolezza. Dovrebbe motivare la voglia di contribuire a perfezionare noi stessi e il mondo, migliorando le relazioni che lo costruiscono, a incominciare da quelle cui partecipiamo e che dipendono anche da noi. Si tratta di prestare attenzione alla cura, al rispetto, all'ascolto... Vedremo come questo nuovo modo di sentire rappresenti il terreno favorevole su cui coltivare le nostre decisioni e attività per poter raggiungere gradi superiori di certezza e accordo, insieme con altri. E' un atteggiamento di fondo che sta alla base delle cosiddette condizioni discorsive ideali di cui ci parla Habermas. Condizioni che dovrebbero

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fecondare i nostri dibattiti anche su argomenti difficili, caratterizzati da posizioni di partenza contrastanti. Dicevamo, ad esempio, che la politica dovrebbe aspirare al "bene comune". Non dovrebbe perseguire un bene predefinito, ma aspirare a costruire insieme e condividere una visione di bene comune. Si tratta, comunque, di qualcosa che è difficile definire e perseguire concretamente. Infatti, il bene comune, paradossalmente, è qualcosa che divide. Non corrisponde quasi mai con le preferenze e gli interessi di ciascuno. Chi sacrificare, allora, e perché? Cosa fare di fronte a vincoli che non ci consentono di soddisfare i desideri di tutti? Come arrivare a delle decisioni politicamente difendibili sul piano logico ed etico? Per rispondere a queste domande è utile riferirsi alla cosiddetta matrice di Stacey che ci permette di riflettere sul grado di complessità dei problemi da affrontare per raggiungere, insieme con altri, più elevati gradi di certezza e accordo su ciò che bisogna decidere e fare. La definizione di politiche sanitarie e sociali relative alle più diverse problematiche implica che siano coinvolti nelle decisioni molteplici attori, ciascuno con la propria storia, cultura, il proprio linguaggio, il proprio ruolo. Non si tratterà mai di decisioni prese una volta per tutte, ma di processi decisionali che evolvono e si perfezionano nel tempo, man mano cresce il grado di certezza e accordo tra i partecipanti. Occorre dibattere insieme per comprendere meglio la natura del problema e accordarsi sui modi di affrontarlo e gestirlo. Di fronte a problemi complessi, come quello della disuguaglianza, non sarà possibile trovare delle risposte risolutive, ma si potranno reperire modalità adatte per contenerli e gestirli. Per realizzare dei cambiamenti effettivamente migliorativi non ci si può accontentare di adesioni formali da parte dei diversi attori. Occorrono delle ragioni convincenti per superare eventuali resistenze e ottenere adesioni sincere. Incominciamo con l'illustrazione della matrice di Stacey, detta anche diagramma di certezza e accordo.

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Il diagramma ci permette, prima di tutto, di inquadrare i diversi problemi in cui ci imbattiamo. Per scegliere il posto in cui collocare, nel diagramma, il problema alla nostra attenzione, dobbiamo distinguere la zona della complessità dalla zona del caos e da quella della semplicità. La zona della complessità richiede dei comportamenti di "adattamento". Essa ospita problemi in cui il grado di accordo e di certezza è insufficiente a rendere ovvi i passi successivi per un'appropriata gestione del problema in esame, ma, nello stesso tempo, non è talmente basso da rendere plausibile ogni decisione e far precipitare la situazione nel caos. La zona della complessità esclude la possibilità di strategie predefinite. Confida, viceversa, nella definizione di strategie passo-passo che vengono a delinearsi sempre meglio durante il cammino percorso insieme. La figura include lo schema decisionale della teoria della direzione dei servizi sanitari (R. Alfieri. Dirigere i servizi socio-sanitari. Ed Angeli 2000) per farci comprendere come l'incertezza e il disaccordo possono riguardare sia l'esame del problema che la definizione degli obbiettivi da raggiungere, dei mezzi adatti da impiegare e l’interpretazione dei cambiamenti in corso

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Nei processi politici assume una delicatezza particolare l'esame della natura del problema e dei suoi aspetti più critici, cui sono legati, poi, gli obbiettivi da perseguire e i mezzi da impiegare. Occorre, infatti, evitare di accapigliarsi sulle soluzioni prima di aver ben compreso il problema nella sua essenza. Diversi dubbi potrebbero anche sussistere riguardo a una serie di cambiamenti capaci, nel tempo, di influenzare il problema nella sua evoluzione. La complessità di questi processi deriva dal fatto che i giudizi sono molto influenzati dalla soggettività di ciascuno e perturbati dalla ricorsività. Le tappe illustrate nello schema non sono, infatti, sequenziali, ma ricorsive. Si sa che per decidere su una situazione ritenuta problematica occorre definire degli obbiettivi da raggiungere e degli interventi capaci di ottenere i risultati desiderati. Si tratta del classico metodo decisionale dei fini e dei mezzi. In realtà, però, la questione problematica può essere concepita in modi diversi a seconda dei valori e della finalità che ispirano i singoli attori e del grado di esperienza e confidenza che ciascuno ha maturato con le diverse tipologie di interventi possibili. In più, i cambiamenti che avvengono, nel tempo, nel contesto di riferimento, modificano continuamente il problema e i suoi aspetti più critici. Per tutti questi motivi il processo assume, in realtà, un andamento ricorsivo che può provocare stanchezza e confusione. La zona della semplicità, invece, è tipicamente quella delle soluzioni predefinite, per problemi su cui esiste un buon grado di certezza e accordo. In questa area, si può, quindi, pianificare e controllare con un certo agio. Si possono citare, ad esempio, i vari protocolli per interventi chirurgici di routine. In questi casi il sistema non ha bisogno di far emergere nuovi comportamenti, ma di adottare soluzioni efficaci, eque ed efficienti, ormai universalmente assodate, su cui si è raggiunto un elevato livello di competenza. Le questioni relative alle malattie croniche, così come quelle relative alla disuguaglianza, occupano, invece, la zona della complessità, fino ai bordi del caos. Occorre riconoscerle nella loro natura, contrastando la tentazione di banalizzarle, che scaturisce dal desiderio molto umano di una maggiore sicurezza, ma conduce inevitabilmente a soluzioni inefficaci e di breve respiro. Occorre anche evitare, all'altro estremo, di essere sopraffatti dalla stanchezza e cadere nel caos, senza tentare di raggiungere tutte le intese possibili. Nella zona del caos, invece, ogni previsione è impossibile perché l'incertezza è massima. Non si può prevedere, ad esempio, come reagirà di qui a venti anni una persona adulta di fronte all'attacco di un cancro letale. Come percepirà il suo problema? Fino a quando lotterà per una sopravvivenza più lunga o opterà per una più alta qualità di vita?

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Condizioni discorsive ideali e relazioni generative Di fronte a problemi complessi, la via più promettente, per non precipitare nel disaccordo e nell'incertezza, è quella di costruire delle "condizioni discorsive ideali" in grado di favorire l'emergere di decisioni ed azioni appropriate alle circostanze. Sono queste particolari condizioni che consentono l'arricchimento reciproco di tutti i partecipanti al dibattito. Le relazioni sono generative perché generano in ciascuno un supplemento di comprensione e sensibilità. L'antidoto migliore per evitare i rischi opposti della semplificazione e del caos è quello di dibattere con metodo sul problema da affrontare, senza annullare necessariamente qualsiasi ambiguità, senza pretendere di risolvere tutte le contraddizioni o strappare un accordo ad ogni costo. Il nostro istinto, basato su un pensiero riduzionistico, sarebbe invece quello di muoversi a passi forzati verso la zona della semplicità, cara al fanatismo dei tecnocrati e a quello dei dogmatici. Per evitare questa trappola vanno create le circostanze che, secondo Habermas, possono essere qualificate come "discorsive ideali", ossia dotate delle seguenti caratteristiche: - è accordata a tutti i partecipanti al dibattito la stessa possibilità di prendere la parola (ciò è segno di accoglienza e rispetto reciproci); - sono assenti distorsioni comunicative intenzionali (per questo è dannosa la presenza ai tavoli decisionali di persone portatrici di evidenti conflitti di interesse perché, a priori, non sono interessate alla verità, ma a confondere la realtà o occultarla); - vige l'impegno a raggiungere gradi superiori di certezza e accordo tramite argomentazioni critiche, con caratteristiche di comprensibilità, sincerità (l'intenzione di dire ciò che ci sembra vero) e veridicità (l'impegno di ricercare e affermare la verità). A proposito di veridicità, l'aspirazione è duplice. Si intende, infatti: a) rappresentare in modo veritiero la realtà, nei suoi aspetti quantitativi e qualitativi, secondo i dettami della scienza, per arrivare ad appropriati giudizi di fatto; b) assegnare un valore appropriato ai vari aspetti di ciò che è reale, secondo i dettami della coscienza, per arrivare a giudizi di valore ben ponderati. E, sulla base di questi ultimi, definire le implicazioni dei giudizi di fatto, ossia decidere su cosa impegnarsi e perché farlo. La veridicità, per i giudizi di fatto, non può che tenere conto di un fondamento empirico. Per i giudizi di valore, invece, la veridicità dovrebbe fondarsi su una base ermeneutica e, più precisamente, sulla strategia del cosiddetto "equilibrio riflessivo". Si tratta di una strategia intellettuale, su cui ci soffermeremo più avanti, volta a mediare tra la pressione dei fatti e quella dei valori, dal momento che giudizi di fatto e giudizi di valore si influenzano a vicenda, come si vorrebbe far capire con l'esempio seguente. Immaginiamo di interessarci del problema del gioco d’azzardo. Poiché il fenomeno della dipendenza da gioco d'azzardo risulta, nei fatti, frequente e

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capace di mietere molte vittime, la nostra inquietudine per il problema tende ad essere più acuta, e il nostro giudizio di valore, riguardo a chi specula su queste debolezze umane, diventa più severo. Non ce la prenderemmo così tanto se il fenomeno del gioco d'azzardo fosse una rarità. Quindi, i giudizi di fatto influenzano i giudizi di valore. D'altra parte, nel caso in cui fossimo stati colpiti personalmente dal dramma del gioco d'azzardo (ad esempio, avessimo avuto il padre giocatore che ha sperperato i beni di famiglia) e avessimo, così, sviluppato una forte avversione contro di esso, saremmo portati a classificare come gioco d’azzardo anche situazioni che non rivestono un carattere francamente patologico, come una banale tombola tra familiari. In un caso come questo, l'iniziale giudizio di valore condiziona la percezione della realtà e i relativi giudizi di fatto, portando a classificare come gioco d’azzardo qualcosa che non lo è. Qual è la metodologia adatta per raggiungere gradi superiori di certezza e accordo? Una risposta un po' schematica a questa domanda potrebbe tenere distinti tra loro i giudizi di fatto e i giudizi di valore. Per i giudizi di fatto potremmo indicare il metodo scientifico come quello più adatto; per i giudizi di valore ci si potrebbe rifare alla cosiddetta strategia dell'equilibrio riflessivo. Attraverso il ricorso a questi 2 metodi, quindi, potremmo arrivare a una migliore comprensione di problemi che hanno attirato la nostra attenzione. Al di là degli schematismi, però, ci rendiamo conto che i giudizi di fatto sono inestricabilmente intrecciati con quelli di valore e viceversa. Non esiste, infatti, una qualsiasi osservazione della realtà che possa qualificarsi come "pura", così come sosteneva Popper. L'osservazione, per essere tale, ha bisogno di un punto di vista, di un oggetto determinato, di uno scopo preciso, di una motivazione. Ancor prima di affrontare un dato problema si passa attraverso una fase preanalitica che ha a che fare con la nostra visione del mondo, il nostro sistema emozionale e rende ragione del perché ci interessiamo proprio di quel particolare problema e lo guardiamo con una prospettiva che è specificamente nostra. Perciò i fatti non sono separabili dalle emozioni e dai ricordi che suscitano. Tutte le percezioni che rivestono un qualche significato per noi sono sempre associate alle emozioni e si trascinano dietro paure, desideri, aspirazioni, frustrazioni. Nonostante le difficoltà, tuttavia, i fatti esistono e non possono essere manipolati a nostro piacimento per giustificare opinioni manifestamente distorte.

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Migliorare i giudizi di fatto: il metodo scientific o Incominciamo con un accenno al metodo scientifico che dovrebbe consentire, tramite argomentazioni critiche, di pervenire a giudizi di fatto più certi e condivisibili. Possono esserci delle situazioni in cui è sufficiente una condivisione della conoscenza scientifica già disponibile, tra tutti i partecipanti al processo decisionale. Si potrebbe partire con l'esame dei risultati di ricerche condotte in passato da altri. Anche in casi come questi, la conoscenza del metodo scientifico si rivela necessaria per riuscire a distinguere i risultati della ricerca su cui possiamo confidare da quella che non merita la nostra fiducia. Se le ricerche sono pertinenti e rilevanti rispetto al nostro problema di interesse e sono state condotte adeguatamente, possiamo confidare, almeno in parte, nei risultati cui sono pervenute e dirimere le incertezze che avevamo prima di conoscerle. Applicare nella pratica i risultati della ricerca scientifica significa passare attraverso la costruzione - o, più spesso, l'uso - di "revisioni sistematiche" e di eventuali "meta-analisi". In una revisione sistematica ogni studio rilevante e pertinente con il problema di interesse è valutato nella sua qualità. Una revisione sistematica della letteratura scientifica è in grado di recare un grande contributo. Si parla di revisioni sistematiche perché non tutti gli studi meritano la stessa fiducia, né hanno la stessa dignità. Talvolta, addirittura, giungono a conclusioni discordanti. Grazie alle revisioni, studiosi appositamente preparati distinguono per noi gli studi su cui possiamo contare da quelli che, per la loro natura, impostazione e modalità di svolgimento, dobbiamo scartare. Ci si può anche avvalere delle cosiddette meta-analisi. Esse riguardano gli studi sperimentali. I risultati di diversi studi (raggruppabili secondo criteri di somiglianza) vengono combinati insieme in un'analisi statistica (meta-analisi) dove a ciascuno studio è assegnato un peso proporzionale al numero di persone osservate. Quindi, se 2 studi analoghi conducessero a risultati opposti, ma avessero coinvolto un numero di persone molto diverso, la meta-analisi darebbe un maggior peso ai risultati dello studio effettuato sulla popolazione più numerosa. Queste revisioni e meta-analisi, nell'ambito della sanità pubblica, hanno contribuito alla pratica della "evidence based public health", ossia alla disamina e alla conseguente adozione di interventi di sanità pubblica basati sui risultati consolidati della letteratura scientifica degna di meritare la nostra fiducia. In altri casi, per lo studio di situazioni più circostanziate, potrebbe essere necessario condurre degli studi scientifici sul problema di nostro interesse, troppo specifico per essere assimilabile a esperienze precedenti. Quando,

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poi, gli interventi sono complessi, come spesso accade nel caso di problemi di rilevanza politica, è difficile trovare in letteratura esperienze precedenti dello stesso tipo, perché i contesti sono troppo diversi. Se, però, teniamo conto sapientemente delle analogie e delle differenze esistenti tra ciò che si vuole fare e ciò che è già stato fatto e valutato, si possono comunque trarre dallo studio della letteratura scientifica preziose indicazioni per il nostro impegno futuro. Sia nel caso in cui ci limitiamo a revisionare la letteratura scientifica, sia nel caso in cui conduciamo direttamente una ricerca, vale la pena ricordare alcune fasi fondamentali di uno studio condotto con metodo scientifico. Quali sono le fasi fondamentali di uno studio scien tifico? 1) Una prima tappa è quella della formulazione di un'ipotesi "falsificabile" relativa al problema di interesse. La falsificabilità è una caratteristica propria della scienza. Le teorie scientifiche, infatti, sono tali in quanto possono essere messe alla prova e falsificate. L'ipotesi potrebbe riguardare, ad esempio, il fatto che la disuguaglianza si sia accentuata negli ultimi decenni o che essa sia causa di malessere sanitario e sociale. 2) Una seconda fase consiste nel disegnare uno studio in grado di falsificare l'ipotesi formulata. Tale studio può essere o osservazionale o sperimentale. 3) Una terza fase consiste nella realizzazione dello studio e nella successiva valutazione dei risultati conseguiti, sulla base dei quali l'ipotesi viene "temporaneamente" accettata o rifiutata. Esaminiamo uno per uno questi passaggi, mettendo in evidenza alcune caratteristiche importanti. 1) A proposito della falsificabilità dell'ipotesi, ciò che contraddistingue gli

enunciati scientifici dalle semplici congetture ha a che fare col metodo utilizzato. Gli enunciati scientifici sono il risultato di uno studio disegnato in modo da essere in grado di fare rifiutare l'ipotesi quando non ci sia sufficiente evidenza che sia vera. Le semplici congetture, invece, sono l'esito di altri ragionamenti. Ad esempio, l'affermazione contenuta nella teoria psicoanalitica dei sogni per cui essi rappresenterebbero dei tentativi di realizzare dei desideri, magari inconsci, non è di tipo scientifico perché non è falsificabile tramite uno studio osservazionale o sperimentale. Se, infatti, in uno studio osservazionale, qualcuno dicesse, a proposito del proprio sogno, che esso non corrisponde con alcun desiderio, gli si potrebbe sempre obiettare che quel desiderio non è stato da lui riconosciuto perché giace nelle profondità del suo inconscio. A questa stregua l'ipotesi secondo cui i sogni sono desideri non è falsificabile per sua natura. Quando, infatti,

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qualcuno si esprime in senso contrario all'ipotesi viene accusato di sbagliarsi. Persino gli incubi potrebbero essere spiegati come desideri. L’apparente paradosso viene spiegato, nella teoria dei sogni, sostenendo che, in soggetti disturbati da atteggiamenti masochistici, gli incubi rappresentano, in realtà, desideri reconditi.

2) Nella seconda fase dobbiamo disegnare uno studio che, almeno potenzialmente, sia in grado di falsificare l'ipotesi formulata. Abbiamo anticipato che lo studio può essere osservazionale o sperimentale. Chiariamo qui cosa si intende per l'uno e per l'altro. Lo studio osservazionale è quello in cui ci si limita ad osservare la realtà per come si presenta, senza intervenire in alcun modo a modificare il corso naturale degli eventi. In realtà si tratta di una semplificazione perché il fatto stesso di effettuare un'osservazione modifica in qualche modo anche chi viene osservato, soprattutto nell'ambito delle scienze umane. Trascurando, comunque, questa precisazione, negli studi osservazionali ci si può accontentare di "fotografare" la realtà (nel caso in cui interessi una sua descrizione in un determinato punto temporale) o si può procedere a "filmarla" (nel caso in cui si sia interessati a seguire lo scorrere degli eventi per un determinato periodo di tempo). Lo studio sperimentale è, invece, quello in cui lo studioso realizza il suo esperimento intervenendo attivamente a modificare la realtà, con l'intento di tenere sotto controllo delle variabili che potrebbero interferire con la validità delle sue conclusioni. Tipicamente, i differenti trattamenti da confrontare tra loro sono assegnati secondo le regole del caso ai vari soggetti che partecipano all'esperimento. La randomizzazione e la creazione di un gruppo di controllo sono due tra gli stratagemmi più usuali cui ricorre lo sperimentatore per essere più sicuro della validità dei risultati. Attraverso questi strumenti si vogliono evitare, soprattutto, 2 rischi: a) quello per cui i risultati osservati non siano ascrivibili ai fattori di cui si vuole misurare l'effetto, ma a differenze presenti già in precedenza nei soggetti sottoposti all'esperimento. Immaginiamo di interessarci agli effetti della consulenza psicologica. Ad esempio, i soggetti di un primo gruppo hanno risposto a un intervento di counseling di un dato tipo meglio dei soggetti di un secondo gruppo che sono stati sottoposti a un intervento di counseling diverso. La differenza, tuttavia, non è ascrivibile al tipo di counseling praticato, ma al fatto che i soggetti del primo gruppo sono diversi dai soggetti del secondo gruppo: sono più ricettivi e desiderosi di migliorare la loro condizione rispetto agli altri. b) Quello per cui i risultati osservati non siano ascrivibili ai fattori di cui voglio misurare l'effetto, ma semplicemente a fattori legati al passare del tempo e alle relative modificazioni che ciò comporta. Per contrastare questi rischi il ricercatore può avvalersi di 2 procedure.

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La prima è la randomizzazione, ossia l'assegnazione casuale delle unità osservazionali ai diversi gruppi di trattamento o non trattamento. La seconda procedura è la creazione, accanto al gruppo dei trattati, di un gruppo di controllo, caratterizzato, nel caso più semplice, dall'assenza di trattamento, in cui i risultati rifletteranno le modifiche intervenute nel tempo, comunque indipendenti dal trattamento in esame. Supponiamo di effettuare un esperimento su 300 persone. La randomizzazione implica che ad ogni malato, ad esempio, venga assegnato un numero riferibile a qualsiasi tipo di ordinamento (es. alfabetico, data di nascita, numerazione in un elenco...) Tramite l'estrazione dalle tavole dei numeri casuali (numeri random) potrei, così, scegliere a caso i primi 150 numeri (corrispondenti ad altrettanti soggetti) da assegnare al gruppo dei trattati e gli altri 150 da assegnare al gruppo dei controlli. Il confronto eseguito con queste modalità tra i 2 gruppi permetterà: - di assicurare, nei limiti del possibile, che i soggetti assegnati al gruppo dei trattati e a quello dei controlli differiscano solo per effetto del caso e - di separare l'effetto del trattamento dal puro effetto del tempo. Ciò non sarebbe stato possibile in assenza di un gruppo di controllo. Nel caso, ad esempio, di una malattia banale come il raffreddore che passa da sé nell'arco di circa 1 settimana, un qualunque farmaco somministrato a un unico gruppo di persone raffreddate, in assenza di un gruppo di controllo, avrebbe potuto far concludere sull'esistenza di un effetto benefico, per via dell'avvenuta guarigione, a distanza di 7 giorni, nella maggior parte dei soggetti di questo gruppo. Viceversa, l'esistenza di un gruppo di controllo consente di evidenziare che non sussiste alcuna differenza nella guarigione tra il gruppo dei trattati e quello dei controlli permettendo, così, di tenere distinto l'effetto del farmaco da quello del tempo che, passando, consente di guarire. Così come è importante l'esistenza di un gruppo di controllo, nella sperimentazione è cruciale la cosiddetta randomizzazione. Per spiegarlo voglio raccontarvi un aneddoto. Alcuni ricercatori, anziché ricorrere alla corretta procedura di randomizzazione, per provare l'efficacia di un ipnotico su 2 gruppi di topolini erano ricorsi a un'altra procedura, non proprio ortodossa. In una grande gabbia erano contenuti in tutto 100 topolini. Prelevarono di seguito i topolini dalla gabbia: ai primi 50 somministrarono l'ipnotico, agli altri 50 somministrarono un placebo. Essi volevano confrontare nei singoli topolini dei 2 gruppi la capacità di reazione, la mobilità, la vigilanza e tutte le caratteristiche che avrebbero dovuto essere sedate nel gruppo trattato con l'ipnotico. L'esperimento portò a concludere che l'ipnotico somministrato ai primi 50 topolini era molto efficace perché c'era una differenza significativa nella "vivacità" misurata nei 2 gruppi. Se non che, questo stesso esperimento, condotto poi da altri ricercatori, ricorrendo a

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una corretta procedura di randomizzazione, portò a risultati completamente diversi: il farmaco utilizzato non era per niente efficace. Non veniva, infatti, rilevata alcuna differenza di risultato nei 2 gruppi di topolini. La domanda che vi faccio è: cosa non aveva funzionato nel primo esperimento? Perché si era arrivati a un risultato così erroneo? L'errore era dovuto alla mancanza di una corretta procedura di randomizzazione. Infatti, la cattura dei primi 50 topolini per assegnarli al gruppo dei trattati e dei successivi 50 per costituire il gruppo dei controlli, dipende molto dalla vivacità di ogni singolo topolino che cerca di scappare per non essere preso. I primi topolini catturati sono quelli meno vivaci, meno mobili e vigili. Gli ultimi sono, invece, i più vivaci, Perciò le differenze misurate erano semplicemente dovute a caratteristiche presenti in precedenza nei topolini, indipendentemente dall'effetto della somministrazione del farmaco ipnotico. Si era incorsi nel cosiddetto "bias" (vizio) di selezione, per cui le differenze erano dovute alle caratteristiche dei topolini selezionati nei 2 gruppi, non alle proprietà del farmaco. Tale farmaco, infatti, in una sperimentazione successiva (questa volta condotta con procedure corrette) si era rivelato del tutto inefficace. In conclusione, negli studi sperimentali, attraverso la randomizzazione e la costruzione di un adatto gruppo di controllo posso mettermi, almeno in parte, al riparo da 2 possibili fonti di errore, in grado di pregiudicare la correttezza delle conclusioni sui confronti cui sono interessato: 1) il "vizio" (in inglese bias) di selezione per cui le unità trattate in un certo modo sono diverse da quelle trattate in un modo alternativo; 2) il "vizio" di osservazione per cui le unità trattate in un certo modo vengono osservate più meticolosamente di quelle trattate in modo diverso o nemmeno vengono prese in considerazione quando, ad esempio, non esiste un gruppo di controllo. In aggiunta a questi 2 tipi di errore, è sempre in agguato anche il cosiddetto "errore casuale". Esso è dovuto alla variabilità individuale che non possiamo certo eliminare perché è una caratteristica propria della vita. Come ci si può cautelare, allora, rispetto a questo errore? Occorre aumentare la popolazione dello studio. Attraverso l'aumento della numerosità del campione su cui si effettua lo studio (sia osservazionale che sperimentale) si può diminuire l'errore casuale. Senza approfondire la dimostrazione, è intuitivo come, ad esempio, confrontare l'effetto di 2 diversi trattamenti su 2 gruppi costituiti ciascuno da 1 persona possa portare a errori casuali superiori che nel caso in cui i gruppi siano costituiti ciascuno da 10 o, a maggior ragione, da 1000 persone. Potrebbe, sembrare, a questo punto, quasi indifferente ricorrere a studi sperimentali o osservazionali, se non per una maggiore garanzia, offerta dagli studi sperimentali, riguardo agli errori di selezione (tramite la

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randomizzazione) e di osservazione (tramite la costruzione di un gruppo di controllo). In realtà, non è così, come spiegheremo tra poco, perché i due tipi di studio hanno delle finalità diverse. Gli scopi diversi degli studi osservazionali e sper imentali Gli studi osservazionali e sperimentali, in campo biomedico, tendono a scopi diversi. Sono richiesti in circostanze differenti: non sono sostituibili l'uno con l'altro. Nel caso in cui l'ipotesi da testare nello studio sia quella di un effetto non desiderato, di un danno relativo a una determinata esposizione, lo studio non può che essere osservazionale. Invece, nel caso in cui l'ipotesi sia di un effetto voluto, di un beneficio relativo a una determinata esposizione, lo studio non può che essere sperimentale. Sarebbe, infatti, possibile condurre un esperimento che consiste nel somministrare un agente supposto nocivo a un gruppo di persone? Immaginate che la mia esperienza mi porti a ipotizzare la cancerogenesi di una sostanza chimica utilizzata in un certo settore industriale. Potrei condurre un esperimento per testare la mia ipotesi o dovrei invece compiere uno studio osservazionale? Certamente occorrerebbe pensare a uno studio osservazionale, raccogliendo, ad esempio, i dati di interesse sulle persone che sono state esposte nel corso della loro vita al fattore sospettato di cancerogenesi per confrontarle con persone che, viceversa, non sono state esposte allo stesso fattore. Si potrebbe indagare, ad esempio, se, nel gruppo di persone esposte, un dato tumore è comparso con maggiore frequenza rispetto al gruppo delle persone non esposte. Forse non è così chiaro, invece, perché non possano essere condotti degli studi osservazionali per dimostrare l'effetto di un trattamento supposto benefico, somministrato intenzionalmente proprio in virtù di questa supposizione. Immaginiamo che, sulla base della mia esperienza, abbia il sospetto che un farmaco anti-ipertensivo non sia così efficace come si vorrebbe far credere e non riesca a ridurre la pressione arteriosa. Se, per testare la mia ipotesi conducessi uno studio osservazionale e misurassi la pressione in un gruppo di persone trattate con esso e in un gruppo non trattato, potrei arrivare alla conclusione che il farmaco non serve a nulla o, addirittura, ha un effetto peggiorativo. Ma queste conclusioni non sarebbero valide. Perché? Perché, presumibilmente, rileverei, nel gruppo dei trattati, una pressione più alta che nel gruppo dei non trattati. Infatti, le persone, generalmente, vengono trattate con farmaci dotati di proprietà anti-ipertensive in quanto sono ipertese. Le persone che non vengono trattate, in genere, differiscono da quelle trattate in quanto non sono ipertese. Perciò esse non assumono questi farmaci specifici.

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A falsare i risultati di uno studio di questo tipo interviene un "vizio di selezione" per i soggetti del primo e del secondo gruppo: non sono diversi esclusivamente per via della somministrazione o meno dell'anti-ipertensivo, ma per via della precedente presenza o assenza di una condizione ipertensiva che ne ha indicato o meno il trattamento farmacologico. Si potrebbe fare un ulteriore esempio, tratto, questa volta, dal campo della scuola. Potrei voler valutare se le lezioni di ripetizione di matematica servono a migliorare il profitto degli studenti che le prendono. A questo fine, in uno studio osservazionale, si potrebbero confrontare in una scuola i voti presi in matematica da chi ricorre alle lezioni di ripetizione e da chi non vi ricorre. Sarebbe plausibile trovare che chi non ricorre alle lezioni di ripetizione prende voti migliori. Questo risultato non è dovuto al fatto che le lezioni non servono, ma al fatto che gli studenti che non vi ricorrono, in genere, sono più versati in matematica rispetto a chi vi ricorre. E’ questo un ulteriore esempio per dimostrare come gli studi osservazionali non siano adatti a testare l’ipotesi di un effetto supposto benefico. Sono perciò necessari, a questi fini, gli studi sperimentali. Raccolta, analisi, interpretazione dei risultati Accenniamo, ora, all'ultima fase che caratterizza uno studio effettuato secondo le procedure del metodo scientifico. Si tratta della raccolta, analisi e interpretazione dei risultati. La statistica ci aiuta a prendere delle decisioni difendibili, coerenti coi risultati ottenuti. Ci troviamo, così, nelle condizioni di accettare o rifiutare l'ipotesi che avevamo formulato inizialmente. Si tratta, comunque e sempre, di conclusioni provvisorie. E' importante sottolineare come la scienza aderisca a una concezione dinamica della verità. Essa rifiuta sia la concezione dogmatica di verità (secondo cui la verità è già nota e non va messa in discussione) che quella scettica, secondo cui ogni opinione si equivale, e la scelta tra opzioni diverse dipende solo dalla convenienza di chi decide. L'accettazione, così come l'eventuale rifiuto di un'ipotesi, è basata su una procedura condivisa da tutti i ricercatori. Si tratta, comunque, di una valutazione temporanea, fino a prova contraria. Nelle discipline scientifiche mature, la scienza, per passi successivi, conduce a un perfezionamento della conoscenza di cui si dovrà tenere conto per migliorare i nostri processi decisionali. L'atteggiamento del ricercatore dovrebbe essere sempre vigile nei confronti di nuovi indizi che, magari, lo portano a contraddire le conclusioni di un precedente studio. Una qualità cruciale dello scienziato è, perciò, la sua onestà intellettuale che è tanto più tutelata quanto più egli è distante da situazioni di conflitto di interesse.

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Migliorare i giudizi di valore: la strategia dell'e quilibrio riflessivo Dopo aver così accennato, almeno in termini generali, al metodo scientifico che ci aiuta a ragionare criticamente sui giudizi di fatto, intendiamo spiegare, ora, come, invece, per ragionare criticamente sui giudizi di valore e pervenire a giudizi morali ben ponderati, occorra riflettere sul concetto di giustizia. Secondo alcuni una società giusta è quella che massimizza il benessere, secondo altri è quella che rispetta la libertà, per altri è quella egualitaria, secondo altri ancora è quella che favorisce un comportamento virtuoso. Ma, in relazione a questa ultima opinione, chi stabilisce quali sono le virtù da premiare e i vizi da perseguitare? Le nostre società oggi sono pluraliste, vogliono apparire neutrali di fronte ai diversi valori e alle differenti concezioni di vita buona. Ognuno, nella sua esistenza, dovrebbe realizzare la "propria" concezione di vita buona, senza essere obbligato a coltivarne altre. Sembra pericoloso imporre per legge i comportamenti virtuosi perché si scade facilmente nell'intolleranza e nella coercizione. Aristotele insegna, invece, che la giustizia consiste nel dare a ciascuno ciò che merita e, per poter stabilire chi merita che cosa, dobbiamo definire le virtù che devono essere onorate e premiate. La pensano diversamente Kant e Rawls. Le teorie moderne della giustizia partono dalla libertà, anche perché non possono prescindere dal pluralismo culturale, politico, religioso, valoriale delle nostre società. Ma tutto questo è problematico perché dovrebbe esistere un qualche fine sovra-ordinato che favorisca la coesione, che impedisca una eccessiva polverizzazione della società, protesa verso scopi non solo diversi, ma addirittura conflittuali. Sembra, quindi, che una società giusta non è solo quella che vuole accrescere la prosperità economica e rispettare la libertà o tutelare l'eguaglianza, ma è anche quella che favorisce comportamenti virtuosi e si interroga su giudizi di valore. E' comunque un mondo variegato. Porsi il problema della giustizia significa chiedersi come distribuire le cose cui diamo valore: diritti e doveri, ricchezza, redditi, benessere, cariche e onori, potere e occasioni. La filosofia politica non è in grado di dare risposte certe a problemi di questo tipo ma contribuisce a offrire chiarezza. Non offre soluzioni pre-confezionate, ma suggerisce una strategia per affrontare le discussioni etiche. E' quella dell'equilibrio riflessivo, che procede per tappe. In linea con la filosofia morale analitica, di marca anglosassone (che manifesta una particolare attenzione al linguaggio e alla specificità dei problemi), ma di derivazione socratica (perché comporta un continuo interrogarsi), la strategia dell'equilibrio riflessivo consiste in una sequenza di tappe di ragionamento di questo tipo:

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a) dobbiamo partire da un problema che ci sta a cuore, ad esempio quello dell'aborto (scelta di un problema); b) dobbiamo poi esprimere una nostra opinione (ad esempio, la nostra contrarietà all'aborto) rispetto al problema e cercare di motivarla in base a un principio pertinente col problema in esame: ad esempio, quello secondo cui la vita è sacra (scelta di un principio); c) dobbiamo, in seguito, applicare questo principio sia al problema in esame che ad altri problemi analoghi, per i quali esista la stessa pertinenza del principio, e ragionare sulle conseguenze della sua applicazione (applicazione del principio al problema in esame e a problemi analoghi). Ci accorgeremo, così, che, applicando lo stesso principio, non solo l'aborto andrebbe bandito, ma dovrebbero essere messi al bando anche la pena di morte, la guerra, le sanzioni economiche contro gli Stati, i limiti di finanziamento dei servizi sanitari e sociali; d) a questo punto, dovremmo esprimere dei giudizi ben ponderati relativi all'applicazione del principio a tutti questi casi e pervenire, eventualmente, a una rivisitazione della nostra opinione e del principio stesso. Ad esempio, in virtù di quale principio può essere giustificato l'intervento armato per impedire un genocidio? In virtù di quale principio può essere giustificato il limite di finanziamento dei servizi sanitari o escluso un trattamento troppo costoso? In virtù di quale principio può essere giustificato l'aborto in caso di stupro o per impedire un grave nocumento alla salute della madre o per interrompere la gravidanza in un'adolescente? e) Il principio della sacralità della vita andrebbe, perciò, rivisitato e, in una sua nuova formulazione, andrebbe di nuovo applicato a tutti i problemi considerati per valutare le conseguenze che provoca ed esprimere, su di esse e sul principio stesso, dei giudizi ben ponderati. Potrebbe essere adottato, ad esempio, il principio per cui va rispettata, nel più alto grado possibile, la dignità di ogni vita umana. Nel caso in cui non fossimo sufficientemente sicuri dell'appropriatezza del principio e delle sue applicazioni nei diversi contesti, potremo di nuovo procedere con una sua rivisitazione. In questo modo si reitera il ciclo a partenza dalla fase descritta al punto b). A proposito di politiche sanitarie e sociali, è opportuno un cenno ai dati di fatto relativi all'esempio preso in considerazione (l'interruzione volontaria della gravidanza (IVG)), oltre che alla legislazione italiana sull'aborto (legge 194 del 1978) e ai principi cui si è ispirato il legislatore. Per quanto riguarda i dati, ci troviamo di fronte a un problema in progressiva diminuzione. Nel 2007 il decremento è stato del 46% rispetto a quello che si verificava nel primi anni di applicazione della legge. Oggi il tasso di abortività è di circa 9 donne su mille (si considera, per convenzione, la fascia di età tra 15 e 49 anni). I dati dimostrano, comunque, un netto gradiente sociale, per cui il problema dell'aborto

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colpisce maggiormente le persone con un livello socio-economico più basso. Nonostante le specifiche indicazioni normative della legge 194, restano poche, ad esempio nella nostra provincia, le donne che si rivolgono ai consultori familiari per ottenere la certificazione per Ivg. Ciò preclude tutta una serie di potenzialità preventive in cui i consultori sarebbero implicati, anche in ordine alla prevenzione delle recidive. Capita, infatti, che le IVG si ripetano a distanza di tempo nella stessa persona. Nella popolazione della nostra provincia il tasso complessivo di IVG è nell’ordine del 6 per mille. Se si distinguono le donne italiane dalle straniere si passa da un tasso del 4 per mille per le italiane a un tasso di circa il 20 per mille per le straniere. Il rischio di andare incontro a una Ivg per le donne straniere è 5 volte più alto che per le italiane (indagine personale del 2007). I dati, anche in questo delicatissimo campo, evidenziano la necessità di un impegno aggiuntivo. Per quanto riguarda la legislazione vigente, dovendo prendere posizione tra gli interessi eventualmente conflittuali dell'embrione e della madre, il legislatore ha deciso di privilegiare gli interessi materni. E' probabile che in questa decisione siano intervenute anche considerazioni importanti relative al momento in cui un embrione diventa "persona": un momento che non si è ipotizzato coincidere con quello del concepimento. Il principio che comunque è stato seguito, anche in virtù delle considerazioni precedenti, è quello della necessità di tutelare la qualità di vita e la salute della madre. La legge 194 prevede, infatti, che l'interruzione della gravidanza possa essere praticata entro i primi 90 giorni. Dopo, è previsto il cosiddetto «aborto terapeutico», in particolare situazioni e, di solito, entro la 24ª settimana di gestazione, anche se un termine ultimo non è esplicitato. Dopo i 90 giorni è possibile l'interruzione in caso di rischio di salute per la donna o in caso di malformazione che metta a rischio la salute della gestante. «L'interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi 90 giorni - recita l'articolo 6 della legge - può essere praticata: a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna». Si poteva temere che una conseguenza indesiderata della scelta del legislatore potesse consistere in un aumento del numero degli aborti, quasi trasformati, da una legislazione intesa come eccessivamente permissiva, in strumenti di controllo delle nascite. Se, viceversa, fosse prevalsa la posizione favorevole al divieto di abortire, si poteva temere un aumento degli aborti illegali, con gravi rischi per la salute della donna. O, ancora, non si sarebbe ridotto il numero delle gravidanze e dei figli indesiderati. Fortunatamente, invece, in seguito al varo della nuova normativa, il numero degli aborti si è più che dimezzato, rispetto a quanto accadesse prima.

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I ragionamenti sui giudizi di valore non ricorrono all'empirismo, che costituisce l'epistemologia primaria (ossia il metodo fondamentale di acquisizione di conoscenza) quando si investiga nel campo dei fenomeni naturali. Si ricorre, invece, all'ermeneutica. La conoscenza su ciò che è bene o ciò che è male, su ciò che è giusto o sbagliato proviene dal dialogo e dalla riflessione (con se stessi e con altri) tramite il linguaggio e l'interpretazione. L'oggetto della conoscenza ha a che fare con la mente umana, i processi di conoscenza sono dialogici (non monologici), l'interpretazione è fondamentalmente qualitativa (non quantitativa). Sembra più difficile accordarsi su giudizi di valore. Non ci si può basare, come per i giudizi di fatto, sull'oggettività e la riproducibilità dei risultati. Non si perviene a conclusioni certe. Non possiamo aspettarci di arrivare a dei fondamenti etici assoluti, ma a posizioni difendibili, ispirate a principi che, opportunamente qualificati, possono essere applicati coerentemente in ambiti analoghi dell'esperienza umana. Possiamo, così, mantenere un certo grado di coerenza tra i nostri giudizi. Non possiamo, ad esempio, schierarci contro l'aborto ed essere favorevoli alla pena di morte. Non possiamo proclamare che la salute non ha prezzo e tollerare che muoiano di fame e di freddo i barboni nelle nostre città. E' una strategia che considera i valori e i principi, ma non li assolutizza. Non prescinde dalla realtà cui i principi vengono applicati perché valuta le conseguenze pratiche dell'applicazione del principio in situazioni reali. In questo senso essa cerca un giusto equilibrio tra la pressione dei fatti (collegata alle conseguenze più o meno ipotetiche che verrebbero a realizzarsi) e quella dei valori che ci stanno a cuore. Anche se non si raggiunge la perfezione si arriva, perlomeno, a posizioni difendibili sul piano logico ed etico. Il problema delle disuguaglianze socio-economiche: giudizi di fatto e di valore.

Cercheremo, ora, di applicare gli insegnamenti teorici di queste lezioni iniziali. Per farlo prenderemo in considerazione un problema assolutamente prioritario per la sanità e i servizi sociali: quello delle disuguaglianze, di cui parla ampiamente il bel libro di Wilkinson e Pickett.. Cercheremo di esprimere dei giudizi attraverso argomentazioni critiche, sia in ambito di fatti che di valori.. a) Dovremo, prima di tutto, condividere alcuni giudizi di fatto. Ad esempio, come viene generalmente definita la disuguaglianza, qual è la portata di questo problema, come si può misurare, quali sono i suoi impatti negativi?

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Da cosa è causata, quali sono i fattori che la diffondono e la aggravano? Qual è la tendenza temporale dell'andamento di questi fattori (ad esempio minori tutele, meno regole, perdita di potere dei sindacati, finanziarizzazione dell'economia, delocalizzazione delle imprese, automazione dei processi produttivi, minore progressività del sistema fiscale, diminuzione delle tasse di successione....)? Allo scopo di chiarire meglio la natura del problema, faremo riferimento ai risultati di alcuni studi scientifici che hanno affrontato specificamente questi aspetti. b) Ci scambieremo, poi, le nostre opinioni su quanto la disuguaglianza possa considerarsi ingiusta e, quindi, sui principi cui ispirarsi per esprimere giudizi di valore da attribuire a questo fenomeno. Per farlo ricorreremo alla sequenza di ragionamenti suggeriti dalla strategia dell'equilibrio riflessivo. Tenteremo, quindi, di applicare insieme i metodi che sono più adatti alle nostre diverse argomentazioni critiche sulla disuguaglianza, confidando così, di poter arrivare a comprenderla meglio e condividere le strategie per affrontarla. Dobbiamo, prima di tutto, chiarire cosa intendiamo per disuguaglianza, sulla base delle definizioni più usuali, e perché costituisce un problema. Giudizi di fatto 1) Cosa intendiamo per disuguaglianza? Ci riferiamo alle differenze esistenti nelle condizioni socio-economiche degli esseri umani. Accenneremo sia a quelle presenti tra le singole persone all'interno di ciascun Paese sia a quelle che risultano dai confronti internazionali tra le popolazioni dei vari Paesi. Solitamente si ricorre a 4 diversi indicatori di posizione socio-economica che ci permettono di misurarla e analizzarla secondo varie prospettive: - livello di reddito; - grado di istruzione; - tipologia di abitazione; - tipologia di occupazione. Dirò subito che, ad esempio in sanità, nei flussi amministrativi correnti, purtroppo è raro avere a disposizione questi indicatori che ormai da tempo manifestano tutta la loro importanza. Si tratta di una lacuna che dovrebbe essere colmata con urgenza per poter misurare con la dovuta serietà la portata delle disuguaglianze, mettendo in relazione la posizione socio-economica con i diversi fenomeni sanitari. E' chiaro che si tratta di dati sensibili, da maneggiare con le dovute cautele. Lo sono, del resto, anche tutti quelli relativi alla salute, per i quali è altrettanto doveroso garantire la maggior sicurezza possibile. Un dato positivo è, invece, relativo al fatto che si incominciano a misurare le disuguaglianze e a valutare i loro effetti nei documenti delle maggiori istituzioni internazionali. Ciò che si misura

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influenza, infatti, ciò che viene fatto e attesta l'importanza politica acquisita da questo problema. 2) Qual è l'andamento delle disuguaglianze? Questi indicatori possono essere misurati attraverso studi trasversali che fotografano la situazione di una o più variabili in un determinato momento storico, oppure in studi longitudinali che analizzano i cambiamenti che intercorrono nel tempo nelle stesse persone. La maggior parte degli studi è di tipo trasversale e quindi non mette in evidenza i cambiamenti che marcano le diverse traiettorie esistenziali delle singole persone. Gli studi trasversali ripetuti in epoche diverse segnalano che la disuguaglianza è cresciuta nel tempo, più o meno dalla fine degli anni 70 ad oggi. Il caso degli Usa è un po' emblematico di quanto è accaduto nei Paesi dell'occidente industrializzato. Se, ad esempio, le differenze di reddito tra lo stipendio di un amministratore delegato di una grande industria e quello di un operaio, fino agli anni 70, potevano variare tra 30 e 40 volte, oggi, queste differenze sono aumentate fino a 300 e 400 volte, in conseguenza delle ondate neoliberistiche di questi ultimi decenni. Esaminando, invece, le variazioni che riguardano nel tempo le singole persone, come, appunto, negli studi longitudinali, si può studiare la cosiddetta mobilità ascendente intra-generazionale (per cui si raggiungono posizioni sociali progressivamente superiori all'interno di una sola generazione) o inter-generazionale, quando la posizione socio-economica dei figli viene confrontata con quella dei loro genitori. In questi ultimi decenni la mobilità sociale ascendente è diminuita sia all'interno delle generazioni che tra le generazioni. Si è inceppato il cosiddetto ascensore sociale. Ci confrontiamo con società più cristallizzate nelle loro differenze di origine. 3) Che relazione esiste tra reddito medio pro- capite e qualità di vita nei diversi Paesi? Per capire meglio il problema delle disuguaglianze nei redditi dei diversi Paesi, possiamo analizzare la relazione esistente tra reddito pro-capite e longevità. Nella figura 1.1 la longevità viene presa come esempio di indicatore di benessere (vedi “La misura dell’anima” pag 21). Possiamo constatare che la longevità sale all'aumento del reddito medio pro-capite fino a una certa soglia che si situa tra i 10.000 e i 20.000 dollari. Dopo questa soglia, che distingue i Paesi più ricchi dagli altri, la longevità non sale più. Se, poi, si mettesse al posto della longevità, un altro indicatore qualsiasi di benessere o di qualità della vita, il grafico sarebbe del tutto sovrapponibile. Mentre la relazione tra reddito e benessere appare netta nella prima parte del grafico, dove si ha un incremento evidente a

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ogni aumento successivo del reddito, nell'ultima parte del grafico, per gli aumenti oltre una certa soglia, la relazione svanisce completamente. A un livello globale, sarebbe quindi importante concentrare gli sforzi nel miglioramento del reddito dei Paesi più poveri, perché questo potrebbe imprimere un sostanziale beneficio alla loro qualità di vita. Ad esempio, l'incremento degli aiuti nella cooperazione internazionale, a patto che siano ben impiegati (il che è tutt'altro che scontato), potrebbe portare a un incisivo incremento del benessere complessivo. 4) Perché si può affermare che il Pil ha esaurito la sua funzione nei Paesi più industrializzati? L'aumento del reddito medio pro-capite non è ormai più legato all'aumento della qualità di vita nei Paesi dell'occidente industrializzato. Il risultato messo in evidenza dalla figura 1.1 non ci sorprende più di tanto perché è conforme a quanto ci aspettiamo in base a una legge ben conosciuta in campo economico: quella dei benefici marginali decrescenti. Sulla base di questa legge, all'acquisto di successive unità di un bene, il beneficio ottenuto diventa via via minore, fino ad annullarsi. Il risultato evidenziato, confortato da tanti altri dello stesso tipo è, comunque, di importanza storica. In base ad esso, infatti, si può affermare empiricamente che il Pil ha esaurito la sua funzione nei Paesi industrializzati. Il suo aumento non è più correlato con il benessere delle persone. Dopo gli anni 70 l'andamento degli indicatori di qualità della vita e quelli relativo al Pil hanno assunto, infatti, direzioni divergenti. I primi hanno incominciato a calare progressivamente mentre ancora il Pil proseguiva la sua ascesa, fino alla crisi del 2008. E' finita un'era, per i Paesi industrializzati. Dovrebbe iniziarne un'altra radicalmente diversa di cui, però, ancora non intravediamo la linea di partenza. 5) Con che cosa è correlato, allora, il benessere sociale e sanitario? Resta associato con la riduzione delle sperequazioni. Le sperequazioni possono essere calcolate attraverso il cosiddetto coefficiente di Gini che varia tra 0 (quando il reddito è distribuito in modo assolutamente uguale) e 1 (quando la totalità del reddito appartiene a una sola persona). L'Onu, invece, misura la sperequazione come rapporto tra il reddito che acquisisce il 20% più ricco e quello acquisito dal 20% più povero della popolazione. Nella figura 2.1 vengono ordinati i vari Paesi industrializzati per il loro grado di sperequazione (“La misura dell’anima”, pag. 29). Se ora isoliamo i 30 Paesi più ricchi al mondo e correliamo il grado di sperequazione dei redditi presente all'interno della loro popolazione con un indice di benessere, possiamo constatare ancora l'esistenza di una relazione abbastanza netta (vedi figura 2.2 “La misura dell’anima”). Tanto minore è la sperequazione all'interno dei Paesi ricchi tanto minori sono i

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problemi sanitari e sociali. La qualità della vita nei Paesi ricchi, quindi, non è correlata con il reddito medio pro-capite, ma con la diminuzione delle sperequazioni. Queste relazioni sono analizzate approfonditamente da 2 studiosi (Wilkinson e Pickett) in un libro edito da Feltrinelli, intitolato "La misura dell'anima". Se fossero prese con la dovuta serietà imprimerebbero un nuovo corso all'economia e alla politica. Ci insegnano 2 cose importanti: a) i Paesi ricchi sono arrivati alla fine di un'epoca storica basata sul progressivo incremento del Pil. L'incremento del Pil, infatti, dimostra di avere esaurito i suoi effetti benefici. Sarebbe provvidenziale, oltre che consolatorio, tenerne conto in questi anni caratterizzati, in diversi Paesi, da un sostanziale arretramento del Pil. b) Per ottenere, quindi, un maggior progresso e una nuova vera crescita occorre orientarsi verso qualcosa di diverso e, precisamente, verso società più equilibrate che mettano al centro delle loro politiche l'equità, sensibili all'equa uguaglianza delle opportunità, tramite un welfare più attento ai "veri" bisogni, una distribuzione dei redditi e della ricchezza meno sperequata e l'adozione di meccanismi retributivi e redistributivi più funzionali. La vera crescita, nei Paesi industrializzati, non deve tendere tanto all'aumento del Pil, ma all'aumento dell'equilibrio. Tutto questo è vero per i Paesi ricchi. Per gli altri, che non hanno ancora raggiunto una soglia minima di ricchezza, il Pil conserva ancora la sua importanza. La lezione che i Paesi in via di sviluppo potrebbero comunque imparare dalla storia è di riservare la dovuta attenzione anche ai problemi dell'equità, oltre che all'aumento del loro Pil. Si tratta di una lezione che, ad esempio, tra i Paesi emergenti, il Brasile dimostra di aver ben appreso e che resta, invece, del tutto inascoltata da un Paese come la Russia. Contemporaneamente, a un livello internazionale, la questione di una migliore distribuzione del reddito tra Paesi ricchi e poveri mantiene un'importanza cruciale, poiché si dovrebbe raggiungere anche su questo piano un diverso equilibrio nella distribuzione dei redditi e delle ricchezze. 6) L'esistenza di un'associazione statistica tra sperequazione e malessere sanitario e sociale equivale all'esistenza di un rapporto di causa-effetto? La presenza di un’associazione statistica non dimostra, di per sé, una relazione causale. Un esempio, a conferma di queste affermazioni, potrebbe venire dalla colorazione giallastra delle dita presente nei forti fumatori. Non è certo questa colorazione ad aumentare l’incidenza del cancro polmonare. Essa è associata causalmente al fumo, ma solo statisticamente al cancro polmonare. E' il fumo, non la colorazione delle dita, a rappresentare un fattore di rischio per il cancro.

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Un altro aspetto critico, nel concludere che esiste effettivamente un rapporto di causa-effetto tra sperequazioni e bassa longevità, viene dall'oggetto dello studio. La difficoltà è data dal fatto che l'associazione statistica è stata ottenuta al livello di interi Paesi. I Paesi esaminati, infatti, potrebbero differire tra loro, oltre che per le sperequazioni, per numerosissime altre variabili che non sono state considerate nello studio e che potrebbero risultare la vera causa del malessere sanitario e sociale. Qualcuno potrebbe obiettare, tanto per fare un esempio, che la vera causa del malessere è l'inquinamento dell'aria, di cui non si è tenuto conto nello studio. Il passo metodologico successivo, per analizzare meglio un'associazione trovata a livello di Paese (in questo caso tra disuguaglianza e un indicatore di benessere come la longevità) è quello di ricercare l'associazione a un livello più elementare, nelle singole persone. Lo scopo è di chiarire se succede la stessa cosa anche per le singole persone: se oltre che per i Paesi è vero che anche nelle persone una maggiore disuguaglianza si accompagni a un maggior malessere sanitario e sociale. Diversi studi effettuati sull'associazione tra gradiente sociale e salute hanno verificato questa correlazione anche nelle singole persone. Si può, quindi, aggiungere un qualche grado di certezza al fatto che le differenze nei problemi sanitari e sociali rappresentati nella figura che abbiamo commentato sono provocate da disuguaglianze sociali. E' possibile, ad esempio, mettere costantemente in evidenza l'associazione statistica tra i diversi indicatori di posizione sociale (reddito, istruzione, occupazione, abitazione) e la salute nelle singole persone. I risultati dei diversi studi sono, quindi, coerenti tra di loro. Ma, a corroborare l'esistenza di un rapporto di causa-effetto, valgono anche altre dimostrazioni, come a) la corretta sequenza temporale per cui le cause precedono gli effetti (ad esempio, la disuguaglianza provoca malessere e non viceversa); b) la forza dell'associazione, che risulta alta. Ad esempio, la prevalenza di malattie croniche tra le donne italiane classificate per grado di istruzione è di 3,5 volte più alta nel gruppo con una scolarità elementare rispetto al gruppo più istruito; c) l'esistenza di un effetto dose-dipendente, per cui gli impatti negativi sulla salute crescono all'aumentare dello svantaggio sociale misurato da ogni singolo indicatore di posizione; d) l'attributo di una plausibilità biologica a questa associazione, dovuta sia allo stress generato dalla disuguaglianza (di cui parleremo al punto successivo) sia anche al fatto che l'esposizione a fattori di rischio noti (fumo, alcol, sedentarietà, cattiva alimentazione, obesità) aumenta gradualmente con l'incremento dello svantaggio sociale. 7) Attraverso quali meccanismi le sperequazioni causano malessere sanitario e sociale?

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Le sperequazioni provocano risentimento, ostilità, senso di inferiorità, sfiducia, insicurezza. Generano, quindi, ansia e stress. Lo stress è una reazione di adattamento dell'organismo a situazioni che lo mettono alla prova, dal punto di vista fisico e psico-sociale. Bisogna distinguere le reazioni di breve periodo, che possono essere utili, da quelle che si protraggono nel tempo. Queste ultime caratterizzano lo stress cronico e hanno effetti deleteri per la salute. L'ormone interessato è il cortisolo, prodotto dalla parte corticale del surrene. Esso media gli effetti dannosi dello stress sulla salute, a partire dallo sviluppo cognitivo, dalle malattie cardiovascolari, i disturbi mentali fino all'indebolimento delle difese immunitarie. Al di là dei meccanismi fisio-patologici nervosi, endocrini e immunitari attraverso cui le sperequazioni sconvolgono la vita dei singoli , influenzano le relazioni che tengono unite le persone e finiscono per corrodere i legami d'amicizia e vicinanza. Sfilacciano le reti sociali. Equivalgono a fattori inquinanti che nuocciono al benessere delle società nella loro interezza. Non fanno male solo ai più poveri, ma a tutte le classi sociali. Questo mi sembra essere il punto di forza e il principale valore aggiunto delle ricerche di Wilkinson e Pickett. Ad esempio, può essere molto istruttivo il confronto tra Svezia e Inghilterra. Risulta, infatti, che i tassi di mortalità infantile nella classe sociale inferiore in Svezia sono più bassi rispetto a quelli della classe sociale più alta in Inghilterra (Vedi Figura tratta da “La misura dell’anima). . Sulla base di questi risultati possiamo affermare che, così come ci sono delle persone malate e delle persone sane, allo stesso modo esistono delle società malate e delle società sane. Ci sono fondate ragioni per credere che le sperequazioni siano la causa della malattia di queste società. La sperequazione è disfunzionale per le nostre popolazioni. Infatti, tanto più le società sono sperequate, tanto più aumenta la probabilità di essere esposti a fattori nocivi, di diventare più vulnerabili a questi stessi fattori e ammalarsi, di subire conseguenze di maggiore gravità in rapporto con queste malattie e disabilità. 8) Quali correlazioni con la disuguaglianza possono essere menzionate in campo sanitario e sociale? In ambito sanitario possono essere elencati: longevità, mortalità infantile, mortalità per incidenti, morbosità e mortalità per malattie croniche e disturbi mentali. Sappiamo, ad esempio, che esistono delle differenze notevoli nell'attesa di vita tra i diversi Paesi del mondo. Ad esempio, ci sono quasi 37 anni di differenza nella longevità tra Zimbahwe e Giappone (47 anni a confronto con 83,2); ci sono 7 anni di differenza all'interno di uno stesso Paese, ad esempio l'Inghilterra, per quel che riguarda la longevità tra uomini che

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vivono nelle aree più degradate e in quelle più ricche (77 contro 70). In Italia questa differenza scende a 3 anni. Differenze più alte (di 17 anni) esistono per l'attesa di vita libera da disabilità tra ricchi e poveri (53 anni per i più poveri e 70 anni per i più ricchi). Analogamente succede, poi, per la salute percepita, l'obesità, l'esposizione a fattori di rischio, gli infortuni lavorativi, gli incidenti, gli avvelenamenti dei bambini.. In ambito sociale possiamo citare: insuccesso scolastico, gravidanza nelle adolescenti, tossicodipendenze, alcolismo, violenza, criminalità, tasso di incarcerazione. 9) In quale età della vita si verifica il maggior impatto delle disuguaglianze sul benessere sanitario e sociale? Sono soprattutto gli studi epidemiologici relativi alle malattie croniche a svelarci che i periodi più critici sono legati alle fasi più precoci dell'esistenza (gestazione, nascita, primi mesi di vita). Questo lega indissolubilmente il destino dei figli a quello dei loro genitori, soprattutto alle condizioni della madre che li ospita in utero durante la gravidanza e li accudisce poi in un rapporto di stretta vicinanza. Se vogliamo interessarci davvero dei problemi dei minori che poi si trascineranno dietro di sé il retaggio di eventuali esposizioni nocive precoci, non possiamo disinteressarci dei problemi dei loro genitori. Oggi conosciamo l'origine embrio-fetale delle malattie croniche cardiovascolari. Ad esempio, una bassa crescita intra-uterina costituisce un fattore di rischio importante per una varietà di disturbi cronici come l'ipertensione, il diabete di tipo 2, l'infarto e l'ictus. Dal punto di vista, poi, dello sviluppo cognitivo, il fattore che più di ogni altro influisce sul rendimento scolastico è l'ambiente familiare. L'apprendimento inizia alla nascita. Molti studi hanno dimostrato che i comportamenti conosciuti nell'infanzia tendono ad essere replicati nell'età adulta. Ad esempio, i bambini maltrattati o abusati tendono ad abusare e maltrattare a loro volta nel corso della vita adulta. La scuola da sola non è in grado di controbilanciare l'influenza di un ambiente familiare inadeguato. Conta, soprattutto, promuovere condizioni di maggior benessere nelle famiglie d'origine. La scuola, infatti, riproduce le disuguaglianze, le conferma, non riesce a colmarle. Nello studio della coorte britannica del 1970 (formata da 17000 persone) si dimostra, ad esempio, che i bambini di alto livello sociale riescono a recuperare lo svantaggio di una bassa capacità cognitiva posseduta all'età di 22 mesi (partono dal 10' percentile) piazzandosi, a 10 anni a un livello corrispondente al 60' percentile. Quelli di basso livello sociale che partono da una capacità cognitiva analoga non riescono, invece, a recuperare che minimamente.

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D'altra parte, i bambini di basso livello sociale che avevano una buona capacità cognitiva a 22 mesi (partono dal 90' percentile) all'età di 10 anni peggiorano la loro posizione piazzandosi sotto il livello raggiunto dai loro coetanei che a 22 mesi si posizionavano al 10' percentile, ma appartenevano a un'alta classe sociale. E' come se ai bimbi più svantaggiati da un punto di vista economico e sociale si fosse legata una zavorra ai piedi e, ai bimbi più fortunati, si fossero invece, messe le ali. Dovremmo mettere le ali a tutti i bambini o, perlomeno, liberarli dalle zavorre. Altri esempi. 1) Vedi confronti sulla situazione dei bambini: l'italia a confronto con altri Paesi secondo l’Unicef (Tabella seguente, tratta da “Internazionale”) Il rapporto dell'Unicef, purtroppo, mette in luce una verità molto amara che riguarda il nostro Paese. Esso occupa le ultime posizioni in classifica, benché i nostri uomini di governo abbiano enfatizzato da anni il valore della famiglia e proclamino continuamente di schierarsi a sua difesa. Tutta questa ostentazione priva di contenuti rasenta l'ipocrisia. Tanto più se consideriamo la peculiare avarizia nelle politiche nazionali di contrasto alle forme più gravi di deprivazione. Nel 2007, ad esempio, l'Europa ha destinato alle politiche minorili e di sostegno alla famiglia mediamente il 2,1% del proprio Pil. L'Italia, il paese che più di ogni altro ha fatto della retorica della famiglia il cavallo di battaglia delle sue politiche sociali, ha destinato un misero 1,2%, poco più della metà della media europea.

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Giunti a questo punto, grazie all'analisi di diversi risultati, tratti da studi scientifici internazionali, siamo riusciti a condividere dei giudizi di fatto relativi all'impatto delle sperequazioni socio-economiche sul benessere della popolazione del mondo industrializzato. I dati disponibili ci hanno dimostrato che le sperequazioni non danneggiano solo i più sfortunati, ai gradini più bassi della scala socio-economica, ma danneggiano le popolazioni nel loro complesso. In base al grado di sperequazione esistente si potrebbero distinguere, da un parte, delle società

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più malate e, dall'altra, delle società più sane. Per di più, le disuguaglianze provocano i loro danni fin dal concepimento e dalle fasi più precoci dell'esistenza. Possiamo, quindi, affermare di aver dimostrato che sono malefiche perché generano malessere sia da un punto di vista sanitario che sociale. Ma, oltre che malefiche, le disuguaglianze sono anche ingiuste? Continuando a riflettere sulle disuguaglianze, ci chiederemo quanto siano inique le sperequazioni esistenti. Non basta, infatti, sapere, sulla base di giudizi di fatto, che esse generano una gran quota di sofferenza. Se vogliamo cambiare la situazione attuale, contraddistinta da una mole così estesa di disuguaglianze, dobbiamo anche convincerci che sono inaccettabili. Dovremmo, quindi, arrivare a persuaderci reciprocamente della loro iniquità e condividere dei giudizi di valore. Giudizi di valore Che giudizio di valore, allora, esprimiamo sull'esistenza delle disuguaglianze e dei loro impatti? Certo, disuguaglianze così abissali da mettere qualche fortunato nelle condizioni di soddisfare qualsiasi capriccio e, all'altro estremo, tali da non consentire ad altri di sfamarsi o ripararsi sotto un tetto sono difficilmente accettabili. Addirittura ci ripugnano, in particolare quelle esibite, a volte in modo sfacciato. Ma anche un eccesso di uguaglianza, come l'egualitarismo più bieco che non riconosce l'impegno, il merito e lo spirito di sacrificio, è a sua volta inaccettabile. Oltre tutto mortificherebbe la libertà di iniziativa, l'intraprendenza e finirebbe per favorire il dilagare della pigrizia, a danno della società tutta intera. Come possiamo giudicare, allora, le disuguaglianze? Vediamo se ci aiutano i passi di ragionamento tipici della strategia dell'equilibrio riflessivo. a) La prima cosa da fare è definire il problema di interesse. Qual è il problema? Potremmo riassumere in questo modo, ricordando quanto già detto. Le disuguaglianze sono molto aumentate negli ultimi decenni; da tempo si conosce il loro impatto negativo sul benessere dei più poveri. Oggi è stata pienamente riconosciuta anche l'influenza sfavorevole che esse esercitano sull'intera società. Per di più, si è scoperto che manifestano i loro effetti negativi fin dalle prime fasi dell'esistenza. In altre parole, la posizione sociale dei genitori predetermina, per tanta parte, le traiettorie di vita, il destino sociale e la salute dei figli. b) Quale posizione prendere? In relazione a quale p rincipio rilevante e pertinente?

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Potrebbe venirci spontaneo manifestare la nostra avversione di fronte a disuguaglianze eccessive che ci sembrano inaccettabili. Ma in nome di quale principio potremmo sostenere questa posizione? Ricordiamo, prima di tutto, che si definisce principio un "enunciato che riflette la nostra costellazione di valori di riferimento". In termini di principi non c'è nulla di meglio che farsi ispirare dalle varie dichiarazioni sui diritti umani, a partire dalla dichiarazione d'indipendenza degli Stati Uniti nel 1776, dalla dichiarazione dei diritti dell'uomo e dei cittadini in occasione della rivoluzione francese e dalle carte costituzionali che si sono succedute nel tempo. Esse rappresentano le espressioni più alte dei valori e dei principi condivisi nelle comunità umane. Di volta in volta, nel corso del tempo, hanno voluto tutelare i valori più calpestati, in relazione con le circostanze storiche che li mettevano a rischio. Da queste solenni enunciazioni dovrebbero discendere, con coerenza, le leggi e le politiche dei vari governi, anche in ambito sanitario e sociale. In relazione al problema specifico delle disuguaglianze, potremmo riferirci inizialmente al seguente principio: “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti". E' quanto afferma l'articolo 1 della dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, sancita solennemente nell'assemblea dell'Onu del 10 dicembre 1948. Circa un anno prima, la nostra Costituzione, all'articolo 3 stabiliva che "t utti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la liberta e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese". L'intenzione era di garantire a tutti la libertà dal bisogno, condizione indispensabile per l'effettivo godimento dei diritti civili, politici e sociali. Se l'eguaglianza, allora, si riferisce in particolare alla dignità e ai diritti che ne conseguono, dovremmo, prima di tutto, soffermarci a riflettere sui diritti e sulla loro natura. Ci accorgeremmo, così, che non tutti i diritti hanno la stessa perentorietà ed esigibilità. Non comportano lo stesso grado di obbligazione da parte di chi li deve rispettare e, quindi, non possono essere invocati con la stessa forza da parte di chi ne è titolare. Ad esempio, si possono distinguere diritti civili, politici e sociali. I diritti civili si sono affermati per primi, in risposta alla necessità di essere tutelati dagli eccessi di un potere dispotico e assoluto come quello di monarchi e tiranni. Questi avevano potere di vita e di morte sui loro sudditi. Potevano privare di qualsiasi bene e della vita stessa ogni abitante del loro regno senza rendere conto ad alcuno di ciò che facevano. Il loro è stato, per molti secoli, un potere assoluto e completamente arbitrario. Diventava perciò

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prioritario, per i comuni mortali, difendersi da questi eccessi. Un passo fondamentale in questa direzione è stato ottenere che ci fossero delle leggi scritte, cui tutti potessero fare riferimento, così come è avvenuto tra gli antichi Romani, per evitare l'assoluto arbitrio delle autorità. Sulla stessa scia il re d'Inghilterra, nella Magna charta del 1215, proclamava il principio dell'"habeas corpus" promettendo a ogni uomo libero di non mettere mano su di lui, se non in virtù del giudizio legale dei suoi pari, secondo le leggi del Paese. Dopo i diritti civili, si sono affermati i diritti politici relativi all'elezione dei propri rappresentanti e alla facoltà di candidarsi per essere eletti (in Italia il suffragio universale maschile fu introdotto nel 1912, e solo nel 1946 il diritto di voto fu esteso alle donne; in Svizzera, ad esempio, avvenne solo nel 1971 ) I diritti sociali si sono affermati in un'epoca ancora successiva. A differenza dei diritti civili, come quello di libertà (di pensiero, parola, religione, associazione, circolazione, stampa, proprietà...), che richiedono, per essere rispettati, l'astensione da parte di un'autorità almeno potenzialmente vessatoria, i diritti sociali richiedono, invece, delle prestazioni. Non si limitano, quindi, al diritto più generale di non subire ingerenze arbitrarie, di vedere rispettate le cosiddette libertà negative. Richiedono un impegno attivo da parte delle istituzioni. I diritti sociali si sono affermati e sono stati poi tradotti in norme giuridiche nel 900. Ad essi appartengono il diritto alla sicurezza, al lavoro, alla salute, all'istruzione, alla famiglia, all'alloggio...Sono condizionati da circostanze socio-economiche e politiche. Il loro rispetto è subordinato alle risorse che sono rese disponibili dalla società in una determinata epoca storica. Hanno quindi caratteri di discrezionalità e ineffettività che li rendono particolarmente problematici per la teoria del diritto. Dovrebbero essere le etiche pubbliche a suggerirci, secondo diverse prospettive, il modo in cui vanno distribuiti questi diritti nell'ambito delle società e quanto dovrebbe essere influenzata questa distribuzione dalle disuguaglianze sociali presenti. Quanto dovrebbero incidere le disuguaglianze sull'accesso a un lavoro decente, un'istruzione adeguata, una buona salute, un alloggio dignitoso? A questo punto, per orientarci meglio ed esprimere dei giudizi di valore più consapevoli sulle disuguaglianze, passiamo brevemente in rassegna i 4 principali approcci filosofici di cui tratta Sandel nel suo libro "Giustizia". 1) Partiamo dall'utilitarismo. E' un'etica consequenzialistica. Giudica un'azione in base alle conseguenze che provoca. Tra le diverse azioni possibili sono da preferire quelle che ottengono gli effetti migliori. Lo slogan dell’utilitarismo è: "Il maggior bene per il maggior numero". Cosa può dirci l'utilitarismo rispetto alle disuguaglianze nelle condizioni socio-economiche? Sono disfunzionali perché contrastano con la sua finalità principale di massimizzare il benessere nelle popolazioni di

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cui si interessa. Se, infatti, teniamo conto della legge economica dei benefici marginali decrescenti, impariamo che una più equa distribuzione del reddito potrebbe migliorare il benessere di tutti. La legge insegna, infatti, che le utilità che possiamo ottenere in seguito all'acquisizione di unità aggiuntive di un qualsiasi bene tendono progressivamente a diminuire nella loro importanza. Riprendendo una figura già illustrata, se, ad esempio, si potessero spostare 5.000 euro di reddito annuo pro-capite dai Paesi della fascia attorno ai 40.000 euro ai Paesi della fascia attorno ai 2000 euro, il benessere complessivo della popolazione mondiale aumenterebbe notevolmente perché i benefici dei Paesi più ricchi, con quella perdita, diminuirebbero molto meno di quel che guadagnerebbero i Paesi più poveri, grazie all’acquisto aggiuntivo degli stessi 5000 euro. L’utilitarismo, quindi, in nome della massimizzazione del benessere collettivo, potrebbe essere propenso a trasferimenti di questo tipo. Ciò potrebbe accadere o tramite politiche retributive più eque oppure tramite una redistribuzione in seguito a tassazione o tramite un welfare più selettivo e attento ai veri bisogni. L'attualità dell'utilitarismo risiede anche nel fatto che esso resta il riferimento teorico fondamentale per la riflessione etica degli economisti che si chiedono come migliorare le condizioni della popolazione. Spesso, tuttavia, da parte degli economisti, è stata equivocata la prosperità col benessere. L'utilitarismo, poi, in quanto teoria consequenzialista, ha il difetto di non interrogarsi sull'accettabilità dei mezzi impiegati per ottenere i risultati voluti. Inoltre, l'ottenimento di una conseguenza voluta potrebbe entrare in conflitto coi diritti di qualcuno. Il rischio potrebbe essere, ad esempio, quello di ricorrere a mezzi che limitano troppo la libertà, sacrificando, quindi, un diritto fondamentale allo scopo di massimizzare il benessere della maggioranza. Occorrerebbe, invece, conciliare sempre tra di loro valori che sono, in parte, conflittuali. Amartya Sen propone di superare questo limite proprio dell'utilitarismo includendo tra le conseguenze, nel calcolo delle utilità ottenute, anche i mezzi impiegati e il rispetto dei diritti. Sen supera anche un altro limite dell'utilitarismo perché tiene conto delle differenze nella distribuzione delle utilità, oltre che della loro massimizzazione. Un conto, infatti, è ottenere una utilità di dimensione 1000 a vantaggio di una sola persona, un conto diverso è ottenerla distribuendola su 100 persone. Anche se le utilità complessive sono uguali, il vantaggio, nel secondo caso, va considerato superiore perché più equamente distribuito. Concludendo, l'utilitarismo ha fornito molti contributi sul miglior uso possibile delle risorse. Esso tende al benessere aggregato e non esclude di avvalersi della legge dei benefici marginali decrescenti per contrastare le sperequazioni. In ambito sanitario ha tradizionalmente sottolineato l'importanza della definizione delle priorità per garantire l'universalità dell'accesso e la gratuità delle prestazioni essenziali, a favore dell'equità tra

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tutti i cittadini. Lo ha fatto fornendo opportuni criteri di scelta tra interventi alternativi quando le risorse sono limitate, attraverso il ricorso al rapporto costo/utilità più favorevole. Nonostante ciò, l'utilitarismo non gode di una buona reputazione, da un punto di vista della qualità delle sue scelte etiche. Si tratta, però, di una reputazione, almeno in parte, immeritata, poiché ha a che fare non tanto con la sua teoria, ma con l'uso che talora ne è stato fatto. Si è confusa, infatti, l'attenzione al calcolo razionale delle utilità, intese come indicatori di soddisfazione, con un atteggiamento di tipo edonistico che l'utilitarismo, appunto, promuoverebbe. La confusione poteva, per certi versi, essere generata dalla formulazione originaria dell'utilitarismo compiuta da Jeremy Bentham che legava le utilità al piacere ottenuto. Se, invece, ci riferiamo alla versione che dell'utilitarismo ha dato John Stuart Mill verso la metà dell'800, l'utilità non viene legata esclusivamente a un interesse egoistico. Essa può includere tutto ciò che dà senso alla vita umana (il piacere estetico o intellettuale o la sofferenza psichica o spirituale). Può essere associata alla soddisfazione che deriva da qualsiasi atto: ad esempio, al piacere connesso con un gesto di generosità, con una relazione di amicizia, l'ascolto della musica, la lettura di un libro, la contemplazione di un paesaggio. La teoria dell'utilità attesa ha il merito di fornire delle misure quantitative per scegliere in condizioni di incertezza. Non dobbiamo, però, trascurare le difficoltà di assegnare i diversi valori alle variabili che entrano nella formula per il calcolo del rapporto costo/utilità: una difficoltà che limita le potenzialità delle sue applicazioni. 2) Che contributi può darci, a sua volta, il marxismo? Lo slogan del marxismo è diverso: "A ciascuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno secondo le sue capacità". Si manifesta un'attenzione molto pronunciata nei confronti dell'equità. Il limite consiste nel capire quali sono i bisogni e le capacità di ciascuno. Il ruolo spetterebbe all'apparato di uno Stato totalitario. Ma le possibilità di prevedere e pianificare tutto si sono rivelate assolutamente illusorie. L'intenzione era quella di rimuovere le disuguaglianze esistenti, in reazione agli eccessi dell'economia capitalistica. Ma l'egualitarismo che non tiene conto dell'impegno, dei meriti, dello spirito di sacrificio e mortifica la libera iniziativa è a sua volta ingiusto. Il rimedio alla disuguaglianza può diventare peggiore del male. Per di più, nelle società comuniste, le disuguaglianze persistevano nelle caste privilegiate del partito unico e dell'apparato militare. Comunque, il marxismo, a proposito di disuguaglianze, ha avuto il grande merito di denunciare l'ingiustizia dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, la sofferenza di masse di lavoratori che vivevano in condizioni degradate e prive di qualsiasi tutela. In conclusione, il marxismo considera inaccettabili le disuguaglianze socio-economiche, anche se non ha saputo indicare, nella concretezza della sua

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storia, una strategia valida per arrivare a società più giuste, in cui non fosse mortificata, per vie diverse, la dignità dell'essere umano. 3) Cosa dice, a questo punto, il libertarismo? Se per il marxismo il valore più importante coincide con l'eguaglianza, per il libertarismo esso corrisponde con la libertà. L'uomo ha il pieno diritto di proprietà di sé. Può vendere, addirittura, i suoi organi, se lo vuole. Deve sempre sentirsi libero di agire, affrancato da qualsiasi costrizione, senza, però, minacciare la libertà di altri. Va tutelato il principio di giusta circolazione dei diritti di proprietà: questi devono essere scambiati senza frodi e coercizioni. Nel caso in cui siano, però, intervenute frodi e coercizioni, nel passato, andrebbe applicato il principio di rettificazione. In base ad esso lo status attuale non può essere accettato perché è inestricabilmente ingiusto. Occorrerebbe un azzeramento, una ripartizione egualitaria di tutte le ricchezze disponibili prima di effettuare una nuova partenza. Ci si potrebbe chiedere di che natura è la libertà del libertarismo. Si tratta di una libertà formale perché una libertà autentica presuppone la garanzia dei mezzi per esercitarla: livelli adeguati di istruzione, di salute, di risorse economiche. Concludendo, non si può certo dire che il libertarismo sia particolarmente attento al problema delle disuguaglianze se derivano dal libero gioco delle forze di un mercato non truccato. Le funzioni dello Stato sono ridotte al minimo. Esso ha i compiti fondamentali di difendere la nazione dagli attacchi esterni, di tutelare la sicurezza e i diritti di proprietà. Tuttavia, il libertarismo invoca il principio di rettificazione per un nuovo inizio tutte le volte che si siano verificate frodi o coercizioni. La teoria del libertarismo si rivela, così, meno libertaria rispetto al modo in cui la predicano e la praticano i suoi sostenitori. 4) Quali contributi può dare, infine, l'egualitarismo liberale di Rawls alla nostra discussione? Come dice il nome, si propone di conciliare il valore della libertà con quello dell'uguaglianza. Esso vuole garantire a tutti l’applicazione del principio di equa eguaglianza delle opportunità. Non esige che si garantisca a tutti i cittadini la stessa probabilità di accesso alle diverse posizioni sociali. Richiede solo che le persone con gli stessi talenti naturali abbiano la stessa opportunità di accesso a quelle posizioni, in base alle loro diverse concezioni di vita buona. Vale, poi, il principio di differenza. Si possono fare delle differenze solo se vanno a vantaggio di chi sta peggio. Ad esempio, le persone non dotate di alcun particolare talento dovrebbero accedere alla posizione di lavoratore non qualificato ed essere remunerate in modo tale da aver garantita una vita

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decente, al di là di quanto imporrebbero, di per sé stesse, le leggi vigenti di mercato. L'organizzazione della società dovrebbe essere tale da proteggere tutti i suoi membri dall'arbitrio della cosiddetta roulette biologica e sociale cui è sottoposto ciascun essere umano. Dovremmo sempre metterci nei panni di chi sta peggio e, attraverso leggi adeguate, proteggere le persone che sono state colpite da menomazioni, disabilità, handicap (roulette biologica) così come coloro che hanno avuto la sfortuna di nascere in ambienti particolarmente degradati, a partire dalla regione, dal luogo specifico e dalla famiglia di origine (roulette sociale). A questo proposito, Rawls parla di un "velo di ignoranza" che dovrebbe ricoprire il legislatore nel momento in cui legifera. Si tratta di una regola auto-imposta cui dovrebbe sottostare. Questo velo non dovrebbe certo riguardare i giudizi di fatto del legislatore che, anzi, dovrebbero essere il più possibile illuminati dalla conoscenza di tutti i saperi disponibili. Il velo di ignoranza richiama, invece, la necessità, da parte del legislatore, di astrarsi dalla sua posizione di privilegio e mettersi davvero nei panni di coloro che vivono nelle condizioni peggiori al fine di rendere la vita decente anche per loro. In conclusione, per Rawls le disuguaglianze di opportunità sono ingiuste. Vanno tutelate soprattutto le persone che hanno subito l'arbitrio degli esisti sfavorevoli della cosiddetta roulette biologica o sociale. Amartya Sen, a completamento della teoria di Rawls, sottolinea, accanto alla posizione sociale e al reddito ad essa legato, l'importanza di contesti socio-culturali adatti. A parità di reddito, infatti, non tutti hanno la stessa capacità di trasformare le proprie dotazioni in "funzionamenti", ad esempio in un'adeguata nutrizione, in una vita affettivamente felice, in buone condizioni di salute. Un'adeguata qualità dei processi educativi e dell'istruzione sono un prerequisito essenziale per contrastare la disuguaglianza. Che cosa possiamo dire, a questo punto, delle disuguaglianze, dopo aver passato in rassegna, in termini molto succinti, le 4 teorie della giustizia? Tre approcci filosofici le considerano inique e motivano diversamente il loro giudizio negativo: - l'utilitarismo perché esse contrastano con la massimizzazione dell'utilità attesa; - il marxismo perché contrastano con il valore dell'eguaglianza tra gli uomini; - l'egualitarismo liberale perché contrastano con l'equa eguaglianza di opportunità nell'accesso alle diverse posizioni sociali. Lo stesso libertarismo, il quarto approccio esaminato, benché sensibile più che altro al valore della libertà che, in diverse circostanze, potrebbe confliggere con quello dell'equità, considera ingiusto lo stato attuale di disuguaglianza e, in virtù del principio di rettificazione, propone una nuova partenza dopo una ripartizione egualitaria della ricchezza.

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c) Quali conseguenze deriverebbero dall'applicazion e dei principi in cui crediamo? Continuando a seguire i passi della strategia dell'equilibrio riflessivo, l'applicazione del principio per cui gli esseri umani devono nascere effettivamente liberi e eguali in dignità e diritti, che conseguenze provocherebbe? Per l'umanità questo rappresenterebbe un vantaggio perché si procurerebbe maggior benessere alla popolazione nel suo complesso, non solo ai gruppi più direttamente interessati, in quanto svantaggiati rispetto agli altri. La politica, perciò, dovrebbe studiare la miglior combinazione possibile tra distribuzione, redistribuzione del reddito e assetto del welfare, tale da rendere effettiva una maggiore equità nelle nostre società così sperequate. C'è da chiedersi, allora, come mai in questi ultimi decenni le disuguaglianze siano persistite e addirittura aumentate, nonostante fossero note da tempo nella loro consistenza e nei loro impatti. Ad esempio, nel regno Unito si sono succeduti, tra il 1980 e il 2010, 4 rapporti importanti, commissionati dai vari governi, sulle disuguaglianze di salute: tutti sostanzialmente concordi nelle analisi e nelle raccomandazioni, ma con esiti fallimentari perché le differenze di mortalità nelle diverse classi sociali si sono progressivamente acuite. Eppure, sempre restando all'esempio del Regno unito, si sono succeduti governi di vario colore politico. Nonostante questo, non ci sono state sostanziali differenze di approccio al problema. Perché? Perché la politica, in questi ultimi decenni ha abdicato dal suo ruolo. Ha subito una progressiva subordinazione da parte del potere economico cui si è inchinata, sia a destra che a sinistra degli schieramenti politici. A dire il vero, bisogna riconoscere che è obbiettivamente difficile, ad esempio, tassare capitali mobili che, con la globalizzazione e la diffusione della tecnologia informatica, si spostano liberamente a livello mondiale nei Paesi con le giurisdizioni fiscali più favorevoli. Forse, comunque, la dimostrazione più evidente del disinteresse della politica è stata, in tutti questi anni, la dittatura del Pil cui di fatto si sono prostrati tutti i governi. La misura del Pil per quantificare il benessere degli stati è l'analogo della misura del reddito di una persona per valutare il suo benessere. Si tratta di una semplificazione inaccettabile perché, al di là di una certa soglia di reddito, ciò che qualifica l'esistenza umana dipende dalle relazioni, dalla qualità dell'educazione ricevuta, dalla salute, dalla sicurezza, dalla salubrità dell'ambiente, dalla bellezza e funzionalità delle città in cui si abita. Ridurre una persona al suo reddito equivale ad assimilare la dignità umana alla capacità di acquistare e possedere. Un indicatore come il Pil potrebbe essere consono con le esigenze dell'apparato produttivo che ha come fine il suo auto-potenziamento, mediante la vendita dei suoi prodotti. Mal si adatta, invece, alle esigenze ben più variegate di uno Stato che ha a cuore il benessere di tutti i suoi cittadini.

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Bisognerebbe misurare anche l'andamento dell'istruzione, della salute, della ricerca, dell'inquinamento, della sicurezza... Si avvertono, tuttavia, dei segnali nuovi che potrebbero lasciare intravedere delle diverse attenzioni. L'Onu, fin dal 1990, ha elaborato un nuovo indice, quello dello "sviluppo umano" che riassume in sé, oltre al reddito di cui riconosce l'importanza, anche la longevità e il grado di istruzione. Proprio nel 2010, a sottolineare l'attenzione sulle disuguaglianze, ha fatto la sua comparsa l'indice di sviluppo umano aggiustato per l'equità, che tiene conto della variabilità di ognuna delle 3 dimensioni dell'indice. Non basta la media a qualificare l'indice: tanto minori sono le disuguaglianze, infatti, tanto più alto esso diventa. Si tratta di un segnale ancora timido, perché non ha fatto ancora breccia nelle menti di chi governa il mondo, ma è già significativo per il suo valore simbolico. Su questa scia, infatti, anche il nostro Paese ha stabilito, nel 2011, di mettere a punto nuovi indicatori diversi dal Pil, che compongono il cosiddetto Bes (benessere equo e sostenibile). Conclusione La disuguaglianza non causa solo un'immensa mole di sofferenza umana, ma pregiudica, per larga parte, il destino delle persone, fin dalla loro nascita. Possiamo affermare che questo è un enunciato dichiarativo, proprio dei giudizi di fatto, validato da un punto di vista scientifico. Ma possiamo anche aggiungere che la disuguaglianza va considerata inaccettabile e iniqua. E questo è un enunciato normativo, proprio dei giudizi di valore. Infatti, tutti gli uomini dovrebbero nascere liberi ed eguali in dignità e diritti, a differenza di quanto succede. Lo confermano anche le differenti teorie della giustizia, benché con modalità e accentuazioni diverse. La politica ha fatto poco per contrastare la disuguaglianza. Anzi, ha lasciato che negli anni aumentasse e accentuasse la sua nocività. Ha affidato ai sistemi di welfare il compito di soccorrere i casi più gravi. Si tratta di sistemi eminentemente riparativi perché cercano di rimediare agli impatti delle disuguaglianze dopo che questi si sono verificati. Dovremmo tendere, invece, alla prevenzione. E questo non sarebbe più un compito esclusivo del welfare, ma di tutta la politica. La politica, se mai dovesse riappropriarsi del suo ruolo, dovrebbe riprendere proprio dalla prevenzione. Ma di questo parleremo tra poco. La prevenzione: quella vera e gli altri tipi L'impatto delle disuguaglianze e dell'ingiustizia ad esse legata ci induce ad affrontare in modo nuovo la questione della prevenzione. Col termine

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prevenzione si sogliono intendere delle cose molto diverse tra loro. Alcune hanno un valore dubbio. Solo la prevenzione primaria è la prevenzione vera, su cui dobbiamo investire. E' poco praticata perché è estranea sia agli interessi della medicina che a quelli dell'industria della salute. Entrambe, infatti, prosperano sull'esistenza delle malattie, non certo sulla loro assenza. Purtroppo, poi, la prevenzione primaria sembra essere estranea anche agli interessi della politica. E' rimasta orfana, in attesa che qualcuno, cui stia a cuore il benessere della popolazione, la adotti e le permetta di crescere. Incominciamo col premettere qualche distinzione. Si parla di 3 diversi tipi di prevenzione: primaria, secondaria, terziaria. 1) Primaria: è l'unica prevenzione che merita questo nome, come si anticipava. Comporta la rimozione o attenuazione delle cause di malattia, disabilità e malessere. Appartiene alla prevenzione primaria la cosiddetta promozione della salute. Essa viene definita come processo di "knowledge development" (emancipazione, tramite il sapere) o di " empowering", che rende capace la popolazione di aumentare il controllo sulla sua salute e migliorarla. Ci sono fondamentalmente 2 approcci alla promozione della salute: uno di tipo più educativo, l'altro, invece, socio-strutturale. 1) Il primo, più esercitato negli Stati Uniti negli ultimi 30 anni, concepisce la promozione della salute come un tentativo di ridurre i rischi connessi con stili di vita sfavorevoli, attraverso programmi diretti a individui e gruppi bersaglio appositamente selezionati: è l'approccio stili di vita, che si basa, soprattutto sull'informazione. 2) Il secondo, più praticato in Canada e in alcuni Paesi Europei, parte dalla considerazione delle influenze socio-strutturali sulla salute. Esso si basa sugli enunciati della carta di Ottawa del 1986, secondo la quale le condizioni e le risorse fondamentali per la salute sono la pace, l'abitazione, l'istruzione, il cibo, il reddito, un ecosistema stabile, le risorse sostenibili, la giustizia sociale e l'equità. Il miglioramento dei livelli di salute deve essere saldamente basato su questi pre-requisiti fondamentali che vanno ben al di là degli stili di vita sani dei singoli individui. Sono le condizioni socio-economiche e culturali della popolazione a determinare il suo livello di salute e, nello stesso tempo, ad influenzare gli stili di vita dei cittadini che ne fanno parte. La salute non è tanto una questione di informazioni e di educazione, ma di politiche giuste. Tra gli interventi di promozione della salute con approccio socio-strutturale sono particolarmente importanti quelli volti a diminuire le disuguaglianze socio-economiche e culturali. Questo approccio tiene anche conto degli enunciati della conferenza di Rio (1992, Agenda 21) e del progetto Città sane (1992) che testimoniano, da una parte, sensibilità ai problemi ambientali e di sostenibilità, dall'altra, impegno a costituire delle comunità in cui tutte le organizzazioni, dai gruppi informali alle istituzioni di governo, lavorano efficacemente insieme per migliorare la qualità della vita di tutti, riducendo le iniquità nei confronti delle opportunità di una buona salute.

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Volendo fare un confronto tra le 2 diverse strategie, è dimostrato come quelle basate sulla partecipazione comunitaria e sul coinvolgimento dell'intera popolazione risultino molto più efficaci ed efficienti rispetto agli interventi settoriali sui gruppi"a rischio", finalizzati a migliorare i loro stili di vita. Si possono prendere ad esempio 2 interventi che hanno adottato strategie diverse per contrastare i problemi legati alle malattie cardio-vascolari. Confrontando l'intervento in North Karelia (una regione della Finlandia), basato sulla partecipazione comunitaria, e il progetto Multiple Risk Intervention Trial (negli Usa), basato sulla selezione di gruppi a rischio per modificare gli stili di vita, il rapporto costo efficacia, relativo all'abbassamento della mortalità, è stato stimato 80 volte più favorevole, nel primo caso. La valutazione di interventi complessi è sempre problematica. Eppure diventa sempre più necessario cercare di identificare quelle politiche capaci di avere maggiori impatti favorevoli sulla salute della popolazione, anche quando riguardano settori diversi da quello prettamente sanitario (come, ad esempio, in ambito di scuola, trasporti, urbanistica, alloggi, industria...). Questa attenzione, oggi sempre più necessaria, perché, a fronte di investimenti crescenti nel settore sanitario, tendiamo a ottenere rendimenti via via minori (è la legge dei benefici marginali decrescenti), viene testimoniata nella dichiarazione di Adelaide (1988) che parla di salute in tutte le politiche, per sottolineare l'importanza primaria del bene salute. Infatti, gli obbiettivi dei governi sono raggiunti al meglio, in termini di efficacia, efficienza ed equità, quando tutti i settori di cui si occupa la politica includono benessere e salute come componenti essenziali dello sviluppo complessivo. La prevenzione primaria, quindi, intesa secondo l'approccio socio-strutturale, non ha a che fare tanto con la medicina (al contrario dell'approccio "stili di vita"), ma con interventi politici e sociali volti a creare le condizioni più favorevoli per promuovere e mantenere la salute. Gli esempi più tradizionali di prevenzione primaria sono soliti riguardare il risanamento degli alloggi degradati, l’approvvigionamento di acqua potabile, l'igiene degli alimenti, lo smaltimento dei rifiuti liquidi e solidi, l'obbligatorietà delle vaccinazioni. Solo più recentemente, in seguito ai guasti dell'industrializzazione selvaggia, verso la metà del secolo scorso, la legislazione sanitaria si è occupata delle industrie insalubri e dell'esposizione a composti chimici nocivi. Si è, poi, reagito all'epidemia di incidenti stradali e si è reso obbligatorio l'uso del casco, delle cinture di sicurezza e si è regolamentata l'esposizione all'alcol. Si è anche reagito di fronte all'epidemia di malattie cardio-vascolari e tumori polmonari limitando l'esposizione al fumo, incluso quello passivo. Vengono, invece, spesso trascurati, nell'ambito della prevenzione primaria, interventi meno specifici, ma di portata più ampia e profonda. Il più importante è l'impegno politico per assicurare condizioni di vita decenti per tutti. Gli esempi da emulare potrebbero provenire dal caso della Svezia e del Giappone. Questi Paesi hanno adottato strategie diverse per attenuare le

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sperequazioni. Le modalità, infatti, possono cambiare anche in relazione alla storia e alla cultura locale. Nonostante le differenze, entrambi hanno raggiunto il loro scopo con successo. La Svezia agisce soprattutto con la tassazione, la conseguente redistribuzione e un welfare molto avanzato. Il Giappone agisce soprattutto con una distribuzione dei redditi meno sperequata fin dall'origine. Tramite questi provvedimenti non hanno solo diminuito la povertà assoluta. Hanno diminuito anche la frequenza della povertà relativa, identificata, ad esempio, da un reddito inferiore del 40% (in altri casi si adotta la soglia del 60%) rispetto al reddito medio nazionale. Chi subisce questo tipo di povertà nei Paesi industrializzati non soffre certo la fame né ha particolari difficoltà a procurarsi i beni essenziali. Tuttavia, proprio alla diffusione della povertà relativa, a causa dello stress da essa generata, è dovuta tanta parte del malessere sanitario e sociale che affligge le nostre società. Perciò va affrontata con determinazione, tramite la strategia preventiva di tipo socio-strutturale. 2) Prevenzione secondaria: la sua finalità è diagnosticare precocemente una condizione di malattia, nell'assunto che un intervento medico più anticipato possa comportare un vantaggio per il malato. Ci sono, però, 2 difficoltà. Non tutte le malattie si prestano a una diagnosi precoce attraverso interventi di screening che identifichino presuntivamente una malattia, tramite test poco costosi, accettabili, di rapida e semplice somministrazione, con adeguate caratteristiche di sensibilità e specificità. Per di più, non è scontato che la diagnosi precoce procuri un effettivo vantaggio. A volte il prolungamento della sopravvivenza che si è registrato nel caso di malattie ad alta letalità diagnosticate precocemente è stato solo fittizio: non è dovuto a un'effettiva posticipazione della morte, ma a un'anticipazione del momento di misurazione del tempo di sopravvivenza. Le pratiche più comuni di prevenzione secondaria riguardano gli screening oncologici, come quello del cancro del collo dell'utero, del seno e del colon-retto. Nel proporre interventi di screening occorre non solo tenere conto dei loro costi, ma anche degli eventuali danni che derivano, ad esempio, dalle radiazioni ionizzanti impiegate in alcuni screening di massa o dal cosiddetto eccesso di diagnosi e di interventi. Si potrebbero diagnosticare anticipatamente, infatti, casi di tumore che lasciati al loro decorso naturale potrebbero, poi, regredire spontaneamente, in assenza di trattamenti più o meno aggressivi. E' ciò che può capitare, ad esempio, per i tumori del seno in fase iniziale. Per questo motivo da diversi anni, ormai, i ricercatori più avveduti hanno messo in dubbio l'utilità di questo screening eseguito secondo le attuali modalità. Lo screening per il carcinoma del seno comporta sia effetti positivi che negativi, bisogna conoscerli entrambi per poter scegliere in modo libero e consapevole. Il consenso, infatti, deve essere "informato". Attualmente, però,

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le informazioni offerte alle donne sui pregi e i difetti dello screening appaiono molto difettose, tanto da violare il principio secondo cui le persone devono conoscere in anticipo rischi e benefici di qualsiasi intervento sanitario cui si sottopongano. Il problema di un'informazione solitamente così lacunosa, contenuta nelle lettere di invito e dépliant informativi che si possono leggere, andrebbe affrontato con la dovuta urgenza perché pone notevoli questioni di carattere etico e legale. Esso non è ancora emerso nella sua drammaticità perché le donne che sopportano le conseguenze più negative derivanti dallo screening sono quelle che sviluppano un tumore a crescita lenta, soggetto a regressione. Queste persone, verosimilmente, non si sarebbero mai accorte di aver sviluppato un tumore, in assenza di screening. Eppure, sono proprio queste stesse donne che decantano le virtù miracolistiche delle screening perché credono di essersi "salvate" grazie ad esso e alle terapie più o meno invasive che ne sono conseguite. In realtà, ad averle "salvate" non è stato lo screening, ma sono state le caratteristiche intrinseche del tumore che hanno sviluppato. Sembra paradossale, ma le persone che hanno perso di più a causa dello screening diventano, per una serie di difficoltà obbiettive di comprensione, le sostenitrici più tenaci della sua efficacia. 3) Prevenzione terziaria: mira a promuovere più corretti stili di vita, in persone che già si sono ammalate, e a favorire eventuali percorsi riabilitativi. Esempi frequenti della sua applicazione riguardano malati di cuore che vengono invitati a smettere di fumare, abbassare la pressione, aumentare l'attività fisica, perdere peso, alimentarsi meglio. Dopo questi accenni ai vari tipi di prevenzione, ci rendiamo conto che quella autentica, che riduce la frequenza delle malattie, è la prevenzione primaria. Essa intende, infatti, eliminare o attenuare le "cause", definite come quei fattori senza i quali un effetto non avrebbe potuto verificarsi, nelle specifiche circostanze in cui è accaduto. Vale la pena, a questo punto, soffermarci un po' a ragionare sulla particolarità delle cause di malattia. La causalità in ambito bio-medico Cause uniche o multiple? Nell'ambito biologico e delle scienze umane abbiamo a che fare con cause particolari. Quasi mai, poi, si tratta di cause uniche, necessarie e sufficienti a provocare da sole un determinato effetto. Al contrario di ciò che avviene nell'ambito della fisica e della chimica, dove è più facile capire quale sia la causa di un fenomeno, nell'ambito delle scienze umane, è più difficile individuare ciò che causa, ad esempio, una malattia. Anche nei casi che sembrano più semplici, come quelli delle malattie infettive, si è scoperto che il microrganismo infettante non basta, da solo, a causare la malattia, Si è constatato, ad esempio, che le persone infettate dal micobatterio della

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tubercolosi erano molto più numerose di quelle che si ammalavano effettivamente. Perché si sviluppasse la malattia era sì necessaria l'infezione del micobatterio (ossia la sua penetrazione nell'organismo ospite), ma non era sufficiente da sola. Occorreva la concomitanza di particolari condizioni ambientali e dell'ospite: ad esempio, da una parte, alloggi malsani o sovraffollati, dall'altra, persone denutrite o con qualche deficit immunitario. A maggior ragione, se si esce dal campo delle malattie infettive per entrare in quello delle malattie cronico-degenerative, che oggi costituiscono di gran lunga i problemi prevalenti in ambito sanitario e sociale, occorre tenere presente che non esiste mai una singola causa necessaria e sufficiente insieme, ma una costellazione di fattori di rischio. Si parla di "complessi causali multifattoriali". Si usa dire, a proposito di molti tumori, che la loro genesi è provocata da un insieme sufficiente ma non necessario di fattori, ognuno dei quali, preso singolarmente, non è né necessario né sufficiente. E' solo l'interazione di una combinazione sufficiente di più fattori a provocare lo sviluppo di un tumore. Per rendere più chiaro il concetto di causalità necessaria o sufficiente si può ricorrere a un altro esempio. La caduta di una tegola in testa può essere una causa sufficiente di un trauma cranico. Essa non è, però, una causa necessaria perché il trauma cranico potrebbe manifestarsi in seguito ad un incidente d'auto, una caduta o in tanti altri modi ancora. Le cause necessarie e sufficienti insieme sono più l’eccezione che la regola. Ad esempio, nel caso dell'emofilia, siamo in presenza di una causa necessaria e sufficiente: un particolare difetto genetico è la causa di questa malattia che ostacola la coagulazione del sangue. Cause deterministiche o probabilistiche? Se le malattie più frequenti fossero dovute a un'unica causa, il compito della prevenzione sarebbe molto facilitato. Basterebbe concentrare l’attenzione su un solo fattore. Invece è tutto più complicato. Anche perché i vari fattori di rischio che concorrono nella genesi delle malattie non le determinano con certezza. Si possono, ad esempio, citare casi di persone che hanno superato i 100 anni fumando e bevendo a più non posso. I fattori di rischio, quindi, in combinazione tra loro, non causano con certezza una data malattia, ma aumentano la probabilità della sua comparsa. Spesso accade che il gettito di malati provenienti dalla vasta parte della popolazione esposta a rischi di media entità sia superiore al gettito di malati proveniente dal gruppo molto più ristretto di popolazione esposto a rischi di alta entità. Probabilità anche piccole moltiplicate per grandi numeri danno, infatti, luogo a una massa superiore di malati rispetto a probabilità più alte moltiplicate per numeri molto inferiori di soggetti a rischio. Proprio a causa di questa constatazione, la prevenzione deve basarsi su interventi estesi alla totalità della popolazione, non solo a individui particolarmente esposti rispetto ad altri. Altrimenti la prevenzione otterrebbe un impatto troppo limitato.

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Cause prossime o remote? Un altro problema della prevenzione, oltre a quello della multi-fattorialità dei complessi causali e del loro ruolo probabilistico (non deterministico) nel provocare gli effetti indesiderati, riguarda il grado di approfondimento nella ricerca dei fattori di rischio. In particolare, quanto bisogna spingersi indietro nel tempo per indagare le catene causali? Da un punto di vista teorico occorrerebbe spingersi fino a trovare una causa in grado di influenzare da sola diversi fattori di rischio e problemi di salute. Se si riuscisse, infatti, a intervenire su di essa eliminandola, si potrebbero disinnescare dei processi correlati con l'origine comune di diverse malattie. Si taglierebbe alla radice una vasta ramificazione di malattie che provengono dallo stesso tronco. Ma un approccio di questo tipo, purtroppo, non è il più seguito. Si suole fermarsi alle cause prossime anche perché risulta molto più semplice risalirvi. I limiti della strategia preventiva individuale Prendiamo l'esempio delle malattie cardiovascolari che sono responsabili del maggior numero di morti nella nostra popolazione e di una cospicua parte della spesa sanitaria. Da diversi decenni, ormai, si sa che le malattie cardiovascolari sono associate con alcuni fattori di rischio tra cui i più importanti sono il fumo, l'ipertensione, l'ipercolesterolemia, il diabete, il sovrappeso, lo stress... L'approccio preventivo tradizionale è consistito nella raccomandazione di smettere di fumare, di abbassare la pressione, migliorare l'alimentazione, muoversi maggiormente, diminuire di peso. Si tratta dell'approccio "stili di vita", come abbiamo prima anticipato. Si è soliti seguire una strategia preventiva individuale. A parte i provvedimenti legislativi che sono stati adottati da molti Stati per disincentivare il fumo di tabacco e diminuire i luoghi di esposizione passiva, gli interventi preventivi hanno riguardato, per lo più, le persone esposte a un rischio di sviluppare malattie cardiovascolari eccedente una determinata soglia. Oggi esistono formule per calcolare la misura del rischio che interessa ogni singola persona, tenendo anche conto delle interazioni tra i diversi fattori. Vengono selezionate le persone esposte a uno o più fattori di rischio sopra specifiche soglie e si interviene su di loro con prestazioni di carattere medico. Viene, così, adottato l'approccio tipico dei medici che usano rivolgere il loro interesse alle singole persone che hanno bisogno del loro aiuto. Si ritiene che la prevenzione debba essere fondamentalmente una questione di assennatezza. Una volta informati e consapevoli dei danni relativi a certe esposizioni nocive, si crede che diventi consequenziale modificare in modo favorevole i propri stili di vita e adottare dei comportamenti più sani. Purtroppo, invece, non accade così.

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Nel caso in cui, poi, non basti la modifica dei comportamenti individuali per abbassare, ad esempio, il colesterolo o la pressione a livelli accettabili, si suole ricorrere a farmaci del tipo degli anti-ipertensivi e delle statine, che diminuiscono rispettivamente la pressione arteriosa e il livello del colesterolo nel sangue. Nonostante le buone intenzioni, però, la strategia preventiva individuale ha messo in evidenza diversi limiti: a) ci si ferma al primo stadio nella ricerca delle cause (quello delle cause prossime) e, così facendo, si medicalizzano dei problemi che sono spesso di origine sociale; b) è difficile modificare i comportamenti di una persona quando intorno a lei l'ambiente resta immodificato: bisognerebbe, piuttosto, modificare la cultura di tutti; c) resta alta l'inesattezza delle previsioni dello sviluppo di una malattia in un singolo individuo, benché etichettato "a rischio". Nella pratica può succedere che persone a basso rischio possano ammalarsi, mentre altre, ad alto rischio continuino a star bene; d) il beneficio complessivo per il controllo del problema nella popolazione è spesso deludentemente basso. Farmaci e abbassamento delle soglie Se poi si guarda, specificamente, alla pratica dell'uso dei farmaci per ridurre l'esposizione a fattori di rischio, la questione diventa ancora più problematica. Abbiamo citato prima, ad esempio, l'uso di anti-ipertensivi e di statine con l'intento di abbassare, rispettivamente, la quantità di esposizione all'ipertensione e al livello di colesterolo nel sangue. In questi casi, come in altri in cui i farmaci non vengono utilizzati a scopo curativo, ma a scopo preventivo, la cautela è, però, d'obbligo. Sappiamo, infatti, che ogni farmaco, oltre ad avere un costo che può diventare rilevante, soprattutto nel caso debba essere assunto quotidianamente e per tutta la vita, ha anche la possibilità di provocare degli effetti indesiderati. Questi ultimi possono essere noti, in quanto già individuati e studiati, o ancora ignoti, soprattutto quando si utilizzano farmaci relativamente nuovi. Se i farmaci vengono utilizzati con finalità curativa su malati di una certa malattia, possono essere confrontati tra loro, da una parte, costi e rischi della terapia e, dall'altra, i vantaggi ottenuti dalla cura. La cura va prescritta quando i vantaggi superano i rischi e i costi. Il singolo malato può rendersi conto anche autonomamente del fatto che gli effetti indesiderati del farmaco superino i suoi benefici. Quando, però, i farmaci non vengono somministrati per curare ma per prevenire, si possono calcolare allo stesso modo i costi e i rischi connessi con la loro somministrazione, ma non i vantaggi. I vantaggi ottenuti dal loro impiego sono, infatti, del tutto aleatori. C'è la possibilità che vengano somministrati per tutta la vita farmaci a persone che, nella grande

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maggioranza dei casi, non avrebbero comunque sviluppato la malattia che si intendeva prevenire. Esse si trovano, così, a sopportare i costi e gli eventuali effetti indesiderati di una somministrazione incapace di assicurare alcun beneficio consistente. Situazioni di questo tipo sono diventate più gravi e frequenti in questi ultimi decenni per via dell'affermazione di un fenomeno indotto, per tanta parte, dalle multinazionali farmaceutiche: il cosiddetto progressivo abbassamento delle soglie. Con questi termini ci si riferisce al fatto che, ad esempio, la soglia di rischio della colesterolemia oltre cui trattare farmacologicamente le persone per abbassarne il livello, è passata da valori superiori a 250 mg/100 ml negli anni 70 ai valori attuali di 190 mg/100 ml. Analoghe diminuzioni nelle soglie di riferimento sono intervenute per la glicemia a digiuno, l'ipertensione e l'osteoporosi. In seguito a questi abbassamenti di soglia, gli studiosi valutano che circa la metà della popolazione, nelle nostre società, dovrebbe assumere quotidianamente dei farmaci. Ci avviamo verso una medicalizzazione universale senza essere consapevoli del fatto che i rischi connessi con questi eccessi tendono sempre di più a superare gli eventuali benefici che possiamo trarne. Una diversa strategia preventiva I limiti e gli eccessi della strategia preventiva individuale basata sul rischio ci inducono a proporre una strada diversa. Già gli approcci di popolazione, come quelli seguiti in Finlandia (nella Carelia settentrionale) per contrastare le malattie cardiovascolari, sono più efficaci, efficienti ed equi: sono state emanate con successo delle leggi per abbassare il contenuto di grassi negli alimenti in commercio, ottenendo attraverso questa via una notevole diminuzione nelle malattie cardiovascolari. Meglio ancora sarebbe, però, non fermarsi ai fattori di rischio più immediatamente associati con le malattie cardiovascolari, ma risalire alle loro cause. Bisogna capire che cosa provoca, ad esempio, l'ipertensione, l'abitudine al fumo, l'ipercolesterolemia, una diminuita tolleranza al glucosio. La massima aspirazione consisterebbe nel riuscire a risalire a una causa da cui origina la maggior parte dei fattori di rischio. Se si riuscisse a eliminare questa causa, si eliminerebbero anche tutte le sue conseguenze. Non dovremmo rincorrere l'eliminazione di ogni singolo fattore di rischio, ma concentrare i nostri interventi su questo specifico precursore. A parte questo, poi, non ci troveremmo a medicalizzare dei problemi che sono eminentemente sociali. Abbiamo ricordato prima, a proposito delle strategie individuali, quanto sia difficile modificare i comportamenti di una persona quando resta circondata da un ambiente immutato che continua a condizionarla nello stesso modo di prima. Anche quando esistono problemi biologici associati alle malattie, essi sono oltre tutto, sempre fortemente intrecciati a problemi economici e sociali su cui è importante intervenire.

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Nella seguente figura viene ben esemplificata l'interazione tra fattori biologici e sociali nell'avvento di malattie respiratorie. La bassa posizione socio-economica condiziona negativamente tutti i percorsi di malattia. Anche il percorso contrassegnato con la lettera a) che sembrerebbe condizionato, al contrario degli altri, da fattori prevalentemente biologici (il percorso b è prevalentemente sociale, quello c) è sociale e biologico insieme, mentre quello d) è biologico e sociale.), vede, in realtà, come precursore del basso peso alla nascita le condizioni socio-economiche della madre. Esiste, infatti, per il basso peso alla nascita, un netto gradiente sociale correlato con lo stress cui è stata sottoposta la madre nel corso della sua vita.

Ritornando, ora, al problema della malattie cardiovascolari, non può sfuggire come anch'esse, al pari della malattie respiratorie, vedano come precursore le precarie condizioni socio-economiche della madre cui consegue il basso peso alla nascita. I più recenti studi dell'epidemiologia delle malattie croniche confermano, infatti, che una bassa crescita intra-uterina è accompagnata da alterazioni immunitarie, endocrine, vascolari e infiammatorie e, tramite queste, predispone a malattie cardio-vascolari, diabete, ipertensione oltre che a una vulnerabilità aumentata agli effetti di successive condizioni avverse. Insomma, migliorare le condizioni socio-economiche incominciando da chi sta peggio e diminuendo il divario rispetto a che è più avvantaggiato, non solo consente di abbassare la frequenza di malattie cardiovascolari, ma di prevenire altre malattie e disabilità e di vivere, tutti quanti, una vita più sana.

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Periodi critici Abbiamo così capito che, nell'ambito della prevenzione, occorre risalire, ogni volta che è possibile, alle cause precorritrici di diverse altre cause che, a loro volta, procurano problemi di salute. Le "cause" delle cause più importanti sono quelle che agiscono nei cosiddetti periodi "critici": ossia in quei momenti, come la gravidanza, in cui sono in grado di procurare effetti durevoli, per tutta l'esistenza, su strutture e funzioni di sistemi biologici, organi e tessuti. L'aver messo in luce l'esistenza di un periodo critico come la gravidanza non deve farci pensare esclusivamente alla necessità di migliorare il controllo delle donne e dello sviluppo embrio-fetale nel corso della gestazione o di organizzare corsi di preparazione al parto più adeguati e accessibili. Certo, un rinnovato interesse verso i consultori familiari e il loro rilancio sarebbe quanto mai opportuno. Non si tratta, però, di una questione esclusiva di igiene della gravidanza. L'attenzione principale va riservata alle condizioni socio-economiche avverse sopportate dai genitori fin dalla loro fanciullezza. Differenze di 2 o 3 volte nella frequenza di basso peso alla nascita, infatti, non sono spiegate da fattori di rischio presenti durante la gravidanza. Sono spiegate, viceversa, da condizioni stressanti sperimentate nelle prime fasi di vita della madre. In altre parole, il basso peso alla nascita può essere considerato un esito intermedio tra le condizioni avverse della fanciullezza nella prima generazione (quella della madre) e la salute debilitata dell'adulto nella generazione successiva (quella del figlio). La strategia preventiva qui sopra delineata si rivela estremamente efficace. Riesce, infatti, a interrompere un circolo vizioso che si trasmette sia di generazione in generazione che all'interno di una generazione, acuendo progressivamente lo svantaggio col passare del tempo, dalla nascita alla vita adulta e fino alla vecchiaia. Gli interventi preventivi contro le eccessive sperequazioni socio-economiche diminuiscono, infatti, sia le esposizioni a fattori nocivi, sia la vulnerabilità e le malattie conseguenti a queste esposizioni, sia le disabilità connesse con le patologie intervenute (vedi Figura). Essi hanno bisogno di tempo per manifestare appieno i loro effetti benefici: occorre il passaggio di un'intera generazione per spezzare il circolo vizioso. Interessarsi della salute dei bambini, infatti, significa interessarsi di quella dei loro genitori e migliorare il modo in cui essi nascono, crescono, vivono, studiano e lavorano.

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Conclusione In base alle conoscenze oggi disponibili, la prevenzione dovrebbe seguire un nuovo corso: quello della prevenzione primaria, delle strategie di popolazione e delle cause remote. La diminuzione delle sperequazioni socio-economiche migliorerebbe radicalmente le condizioni di salute della popolazione nel suo complesso e corrisponderebbe appieno al nuovo corso auspicato per la prevenzione. Adotterebbe, infatti, strategie di popolazione e mirerebbe a rimuovere cause remote, alla base di tanti esiti di malessere sanitario e sociale. Gli effetti sociali sarebbero immediatamente percepibili. Gli effetti sulla salute, viceversa, per manifestarsi nella loro completezza, avrebbero bisogno del passaggio di un'intera generazione. C'è, comunque, un'urgenza morale per intervenire. La prevenzione diventa assolutamente prioritaria. Le eccessive disuguaglianze socio-economiche causano, infatti, una vasta mole di sofferenza e sono inique perché violano il principio secondo cui gli uomini devono nascere liberi e uguali in dignità e diritti Allo stato attuale, invece, le conoscenze scientifiche dimostrano che le condizioni dei genitori predeterminano, per tanta parte, il destino dei figli ancor prima che essi nascano, in un circolo che può diventare davvero infernale per i più sfortunati. E questo non dovrebbe essere più accettato dalle nostre coscienze.

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Antonio Censi e Roberto Alfieri. Le politiche a favore degli anziani. Inquadramento del problema a) I vecchi aumentano. L' Italia, insieme con il Giappone, è uno dei Paesi con la popolazione più anziana del mondo: non solo per via della longevità dei suoi abitanti, ma anche per la bassa fecondità, quasi da primato mondiale. In Italia la popolazione anziana sopra i 64 anni conta più del 20% della popolazione totale. Le persone sopra i 79 anni sono circa 1/3 del totale degli anziani. b) Di conseguenza aumentano i malati, rispetto al passato. Le malattie, infatti, sono più frequenti tra le persone anziane. Le disabilità crescono pure, ma di meno. Crescono perché sono legate alle malattie, a loro volta in aumento Ma crescono meno, rispetto alle malattie, perché vengono gestite meglio che nel passato, grazie ai progressi in campo bio-medico. Circa 1/3 sono gli anziani affetti da disabilità. c) Per posticipare l'inizio delle malattie e della disabilità nella vecchiaia bisognerebbe puntare di più sulla promozione della salute. Dall'inizio del ventesimo secolo ad oggi abbiamo guadagnato circa 40 anni nell'attesa di vita. Ma siamo arrivati anche a dover convivere per diversi anni con la malattia. Mai come in questa fase storica gli esseri umani sperimentano sulla propria pelle così a lungo la condizione di fragilità che è propria della loro natura. La malattia interviene quasi inesorabilmente nelle ultime fasi della vita. Ma un'adeguata promozione della salute potrebbe spostarla più in là nel tempo e permettere di vivere più a lungo in una condizione libera da malattia e disabilità. Un eccessivo aumento della morbosità nelle persone anziane potrebbe, quindi, essere considerato un insuccesso della prevenzione. Così come un aumento più contenuto della disabilità, analogo a quello che oggi constatiamo tra gli anziani, potrebbe essere considerato, invece, un successo della cura. Ancora una volta, quindi, dovremmo puntare sulla prevenzione che ci permetterebbe, grazie ai suoi effetti benefici, di concentrare gli sforzi della cura e della riabilitazione su un minor numero di persone. d) Per promuovere la salute negli anziani bisognerebbe anche puntare di più sulle componenti non fisiche della salute, ossia sul benessere psicologico e sociale. Perciò si dovrebbe incominciare almeno a contrastare pregiudizi e stereotipi che accompagnano la vecchiaia e le sottraggono quel tanto di potenzialità di cui resta ancora dotata, nonostante le sue limitazioni. I vecchi, infatti, sono qualcosa di più e di diverso rispetto a corpi mal funzionanti che hanno progressivamente perso le loro prerogative umane. e) Esiste anche un problema di medicalizzazione della vecchiaia. Ha a che fare soprattutto con l'adozione di strategie tipiche della medicina specialistica ospedaliera per le malattie croniche che riguardano gli anziani. Per rispondere ai problemi legati alla cronicità bisognerebbe, invece, ricorrere alle strategia dell'assistenza sanitaria primaria, molto meno intrusiva e basata sulle risorse territoriali. Lo stesso atteggiamento medicalizzante si riflette anche nell'assistenza delle Rsa (residenze sanitarie assistenziali). Il peso della componente medica prevale troppo sul peso della componente sociale. Vengono messe in evidenza le carenze di corpi malfunzionanti, non vengono a sufficienza valorizzate le funzioni che restano ad animare la vita dei vecchi.

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A proposito delle politiche sanitarie che riguardano la popolazione anziana, si potrebbe dire che l'individualismo tipico della nostra cultura si rispecchia nella politica. Le politiche, infatti, partono costantemente dai problemi che la vecchiaia provoca sulla parte "valida" della società. Per una politica più matura e consapevole, bisognerebbe, invece, invertire la prospettiva e affrontare anche i problemi che la società, con le sue azioni e/o omissioni, provoca sui vecchi (vedi schema).

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I contributi della sanità pubblica e dell'epidemiologia L'iniquità delle disuguaglianze e la gravità del loro impatto sul benessere sanitario e sociale hanno fatto emergere l'esigenza prioritaria di prevenirle in un modo nuovo e più radicale: attenuando le profonde sperequazioni che oggi esistono nelle posizioni socio-economiche dei vari cittadini. La medicina non suole, tuttavia, interessarsi di interventi di questo tipo. Si è tradizionalmente occupata di soccorrere i malati. Esiste, però, un settore degli studi medici che non riguarda i singoli malati, ma la salute della popolazione nel suo insieme. Di questo si occupa la sanità pubblica, che "è la scienza e l'arte di prevenire le malattie, prolungare la vita e promuovere la salute, attraverso l'impegno organizzato della società". Essa dovrebbe assumere un ruolo fondamentale per proporre tutto ciò che serve affinché la gente resti sana il più a lungo possibile. Il suo sguardo spazia sull'intero sistema in cui viviamo, non si limita all'ambito dei servizi sanitari e degli interventi medici. Oggi, in nome della libertà e del mercato, la sanità pubblica riveste, purtroppo, un ruolo marginale. L'intervento pubblico è, infatti, osteggiato in nome della libertà individuale. A questa ragione di fondo, che spiega la sua marginalità odierna, si aggiungono, poi, delle motivazioni più contingenti, legate al discredito in cui sono cadute la politica e la pubblica amministrazione. La sanità pubblica avrebbe il compito di coordinare i vari ambiti dell'attività sanitaria anche in relazione ad interventi di altri settori della pubblica amministrazione che non hanno come scopo diretto la salute, come le politiche sociali, abitative, urbanistiche, scolastiche, lavorative...Essa si avvale dei risultati degli studi (ad esempio, quelli sulla epidemiologia delle malattie croniche) e dei metodi epidemiologici, per pianificare i servizi, valutarne la qualità, ricercare e controllare i fattori di rischio. L'epidemiologia è, infatti, la principale disciplina di riferimento per la sanità pubblica. Le politiche sanitarie e sociali rischierebbero l'insignificanza se non si basassero su dati, informazioni e conoscenza acquisiti tramite studi epidemiologici per prevenire, progettare e valutare. Ci soffermiamo, perciò, a chiarire sinteticamente cosa si intende per epidemiologia (la componente scientifica della sanità pubblica) e quali sono i suoi metodi. 1) Definizione Incominciamo col definire l’epidemiologia. Etimologicamente, significa studio (logos) circa (epi) la popolazione (demos). E', più specificamente, "lo studio dell'occorrenza e della distribuzione degli stati e degli eventi correlati con la salute in specifiche popolazioni. Include lo studio dei fattori (o determinanti) che influenzano tali stati ed eventi e l'applicazione di questa conoscenza per controllare i problemi di salute". a) Dalla definizione emerge una prima caratteristica. Il suo carattere distintivo è lo studio di popolazione. A differenza della clinica, che si occupa dei problemi di salute nel singolo malato, essa rivolge la sua attenzione ai gruppi di popolazione. Così come il medico clinico fa una diagnosi su un individuo, l'epidemiologo fa una diagnosi di comunità. Egli analizza la frequenza e la gravità dei problemi sanitari che coinvolgono i diversi gruppi della popolazione. Fornisce i dati utili per la pianificazione e valutazione dei servizi. Contribuisce a identificare le priorità sulla base di criteri espliciti. Consente di evitare di fare troppo o troppo poco, per il singolo e la collettività. Pone in giusto equilibrio il valore dell'autonomia dei singoli con quello dell'equità, per la popolazione nel suo complesso. Per fare tutto questo deve riuscire a dialogare sapientemente anche con i medici che si occupano di clinica. Non si può arrivare, infatti, come sosteneva Pascal, a comprendere il tutto senza comprendere le parti. Questo vale anche per i medici clinici che devono, a loro volta, cercare di comprendere meglio la situazione di salute della popolazione nella

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sua globalità per comprendere più approfonditamente il problema del malato che si trova di fronte a loro. b) La definizione ci ricorda anche che l'epidemiologia è uno studio pratico, oltre che teorico. Va, perciò, applicato per migliorare la salute di tutti. Non ci si può accontentare di sapere che cosa si dovrebbe fare. Vanno cercati gli accorgimenti più adatti per tradurre le indicazioni suggerite dalla teoria in politiche concrete. c) Inoltre, la definizione ci insegna che, partendo dalla distribuzione delle malattie, possiamo ipotizzare qualcosa sui determinanti (o fattori) che le influenzano. Nasce, infatti, spontanea la domanda sul perché la frequenza dei fenomeni sanitari vari nei diversi gruppi di popolazione. Per quale motivo, ad esempio, una malattia è più frequente in una data zona geografica o in una certa epoca storica o in persone con determinate caratteristiche? A questo proposito, accenneremo a questioni di metodo, ma prima ancora, per facilitarne la comprensione, rievocheremo la storia di 2 pionieri dell'epidemiologia che hanno aperto la strada alla sua successiva evoluzione. 2) La storia di Lind e Snow. Incominciamo col ricordare la storia di James Lind, che si situa nel bel mezzo del secolo dei lumi. Un secolo caratterizzato, tra l'altro, dall'ascesa sociale della borghesia e dal rapido sviluppo degli scambi e del commercio, anche lungo le rotte di navigazione trans-oceanica. Era un medico della marina inglese. Fu lui a scoprire, nel 1747, la causa dello scorbuto, una malattia dovuta a carenze dietetiche (poi si scoprirà che era la vitamina C a mancare nella dieta. Lo scorbuto era un vero flagello per chi navigava. Restò tale sino alla fine del 700. Falcidiava le vite degli uomini degli equipaggi che salpavano per lunghe rotte intercontinentali. Causava emorragie che portavano a morte in poco tempo. Mieteva tante più vittime quanto più il viaggio era lungo. Affliggeva gli uomini della ciurma molto più degli uomini del comando. Ad esempio, nel 1497, in occasione del viaggio di Vasco di Gama, che doppiò il capo di Buona Speranza alla volta dell'India, morirono per lo scorbuto 100 dei 160 uomini che erano partiti. In seguito, la situazione non era molto migliorata, nonostante ci fossero già delle supposizioni sul ruolo della frutta e della verdura nel prevenire lo scorbuto. Non esisteva, infatti, un accordo unanime. Qualcuno attribuiva la malattia all'umidità, al freddo o all'aria inquinata. Lind, partendo dalla constatazione della diversa frequenza dello scorbuto tra gli ufficiali e gli uomini della ciurma, ipotizzò che fosse dovuta alla differenza di dieta esistente nei 2 gruppi. Gli ufficiali potevano, infatti, beneficiare di una dieta più ricca. Non si fermò qui perché, forte della sua ipotesi, inaugurò anche il metodo della sperimentazione clinica controllata. A 12 persone che navigavano sulla sua stessa nave e presentavano sintomi di scorbuto del tutto simili, somministrò 6 trattamenti diversi (2 persone per ciascun trattamento), tra cui anche succo di arancia e limone. Soltanto i due marinai che avevano assunto succo di agrumi migliorarono e guarirono. Lind dimostrò, così, l'efficacia degli agrumi per il trattamento e la prevenzione della malattia. I risultati furono così evidenti, nonostante l'esiguo numero dei casi trattati, poiché, con la somministrazione di agrumi, aveva rimosso la causa necessaria (la carenza di vitamina C) di una malattia che si sviluppa dopo un periodo di incubazione relativamente breve e da cui si può guarire in un intervallo di tempo altrettanto rapido. Purtroppo, i risultati della sua scoperta furono a lungo trascurati. Soltanto nel 1797, a distanza di mezzo secolo e dopo altre migliaia di vittime, la Royal Navy deliberò la obbligatorietà di una dieta integrata con agrumi per le lunghe navigazioni intercontinentali. Fu anche grazie a questa applicazione politica delle scoperta di Lind che l'ammiraglio Nelson vinse nella battaglia navale di Trafalgar contro Napoleone (1805). L'equipaggio delle sue navi, infatti, grazie alle intuizioni di James Lind, poté restare immune dallo scorbuto, a differenza di quanto successe alla flotta napoleonica.

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Il secondo personaggio che voglio presentarvi è John Snow, un medico ostetrico che era diventato famoso, ai suoi tempi, per aver somministrato cloroformio (un anestetico) alla regina Vittoria, durante un travaglio di parto. Abbiamo, con lui, fatto un salto di un secolo nel tempo. Ci troviamo ancora in Inghilterra, a Londra. Nel 1849 ci fu un'epidemia di colera particolarmente violenta che causò 15.000 morti, soprattutto nella zona a sud del Tamigi, dove l'acqua era fornita principalmente da 2 compagnie che captavano l'acqua del fiume, in una zona contaminata dagli scarichi fognari. Cinque anni dopo, nel 1854, si verificò un'ulteriore epidemia di colera, questa volta meno violenta. Era successo, infatti, che una delle 2 compagnie fornitrici dell'acqua potabile avesse spostato la sua fonte di captazione più a monte, rispetto agli scarichi fognari. Pressato dalle morti e dalle malattie, il governo inglese istituì, nell'estate del 1854, una commissione scientifica per contrastare l'emergenza. Vigeva, allora, la "teoria dei miasmi" che attribuiva il contagio ai cattivi odori provenienti dai cumuli di rifiuti e dalle fogne a cielo aperto. Solo più di 30 anni dopo Pasteur individuò nei germi gli agenti responsabili delle malattie infettive. La commissione propose, allora, una disinfezione a base di calce viva, estesa alle fogne e alle strade. Si trattò di un intervento comunque utile. Ma fu grazie alle piogge e alla diluizione dell'acqua del fiume che l'epidemia si attenuò e passò, di lì a qualche tempo, La dimostrazione dell'origine dell'epidemia non fu merito della commissione scientifica, ma fu postuma e dovuta a John Snow, nel 1855. Egli intuì che la minor gravità della epidemia del 1854 poteva avere a che fare con lo spostamento della captazione dell'acqua da parte di una compagnia fornitrice. Sulla base di questa intuizione si lanciò in un'indagine estenuante porta a porta, auto-finanziata, per verificare se i cittadini che erano forniti da questa compagnia fossero meno colpiti rispetto agli altri. Il compito era improbo perché la fornitura d’acqua delle compagnie non era contraddistinta da specifiche aree geografiche. Anzi, capitava che, nello stesso edificio, potessero essere allacciate le tubature di 2 o più compagnie diverse. Nonostante le difficoltà, riuscì a raccogliere i seguenti dati: Compagnie Numero Famiglie Numero casi Casi/10000

famiglie A 40046 1263 315 B 26107 98 37 Altro 256423 1422 55 Si evinceva chiaramente come la frequenza di colera fosse inferiore in chi era rifornito di un'acqua più pulita, come accadeva per la compagnia B. Egli attribuì l'epidemia di colera alla contaminazione dell'acqua da parte degli scarichi fognari. Oggi tutto questo appare scontato perché si sa che il colera è una malattia infettiva a trasmissione oro-fecale dovuta a un batterio, il vibrione del colera, scoperto da Robert Koch nel 1883. Allora, invece, fu una scoperta sorprendente perché i cultori della medicina erano convinti che il colera si trasmettesse attraverso l'aria inquinata. Le conclusioni di Snow ebbero un ascolto maggiore e più tempestivo rispetto a quelle di Lind. Solo 2 anni dopo, nel 1857, fu imposto per legge che tutte le compagnie erogatrici di acqua dovessero sottoporla preventivamente a filtrazione. 3 Il metodo epidemiologico Ricordate le storie di questi 2 personaggi, cui dobbiamo la nostra gratitudine, diventa più facile accennare al metodo cui ricorre l’epidemiologia.

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a) L'epidemiologia studia l'occorrenza e distribuz ione di malattia in relazione allo spazio, al tempo e alla persona. Essa cerca, infatti, di chiarire se un'area geografica è più colpita rispetto a un'altra; se nel tempo aumenta o diminuisce la frequenza di malattia; se ci sono delle caratteristiche personali distintive in chi ha la malattia rispetto a chi non la ha. Vediamo, ripercorrendo la storia di Lind e Snow, quanto abbiano contribuito alla emersione delle loro ipotesi sulle cause morbose i dati relativi alla distribuzione di malattia nel tempo, nello spazio e nelle persone. Nel caso di Lind, per quanto riguarda il tempo, la frequenza di malattia aumentava con la durata del viaggio. Per quel che riguardava lo spazio, la malattia era fondamentalmente confinata allo spazio della navigazione, non interessava le persone che risiedevano sulla terra ferma. Per quel che riguardava le persone, inoltre, la frequenza era più alta tra gli uomini della ciurma rispetto a quelli che comandavano. Tutti questi indizi rinforzavano la sua ipotesi sul ruolo di una carenza dietetica. Nel caso di Snow, per quel che riguarda il tempo, la malattia era stata più violenta nel 1849 piuttosto che nel 1854, quando intervenne una modifica riguardante la captazione dell’acqua potabile. Per quel che riguarda lo spazio, la zona più colpita era situata a sud del Tamigi, dove si beveva acqua contaminata dagli scarichi fognari. Per quel che riguarda le persone, gli individui più colpiti erano quelli che bevevano l'acqua proveniente da una specifica compagnia fornitrice che si approvvigionava a valle degli scarichi fognari. Anche in questo caso tutti gli indizi erano convergenti. b) Ancora, riguardo al metodo, la storia di Lind e di Snow ci dice qualcosa di utile sulla sequenza del ragionamento epidemiologico . Il ragionamento parte quasi costantemente da osservazioni effettuate a livello di gruppo, dove si può ipotizzare un'associazione tra caratteristiche di gruppo e occorrenza di malattia. Snow, ad esempio, aveva notato che la popolazione di Londra, in occasione della prima epidemia, era stata più colpita che in occasione della seconda. Una caratteristica diversa nei 2 periodi epidemici e che poteva, quindi, essere implicata, riguardava la fornitura dell'acqua potabile che aveva subito un cambiamento nell'intervallo di tempo tra la prima e la seconda epidemia. Una volta assodata la diversa frequenza nei gruppi, legata a loro caratteristiche diverse, occorre chiedersi se effettivamente la malattia è associata alle caratteristiche ipotizzate importanti anche a livello dei singoli individui, non solo a livello di gruppo. Il passo successivo nel ragionamento epidemiologico consiste, quindi, nel trasferire la propria attenzione dalla esposizione del gruppo a quella dei singoli individui. A questa domanda si può rispondere in 2 modi diversi, andando a verificare se: 1) le persone con malattia sono esposte più frequentemente al fattore considerato;

2) le persone esposte al fattore sviluppano più frequentemente la malattia.

Nel primo caso si individuano i malati esistenti in un determinato momento e si verifica la loro esposizione passata al fattore considerato. Si valuta, così, se le persone malate sono state più esposte a caratteristiche supposte nocive rispetto a persone che non sono malate.

Nel secondo caso si attuano degli studi prospettivi perché si valuta se le persone esposte al fattore considerato sviluppano, entro un determinato periodo di tempo, più frequentemente la malattia rispetto alle persone che non vi sono esposte.

Snow, attuando uno studio prospettivo di tipo storico, aveva verificato che le persone esposte all’acqua inquinata dagli scarichi fognari avevano sviluppato più frequentemente il colera rispetto ai non esposti. Ciò era servito per rafforzare la sua ipotesi di una relazione di causa-effetto tra acqua inquinata e malattia.

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Lind, dal canto suo, aveva verificato che i malati di scorbuto esposti a un fattore protettivo (il succo di agrumi) erano guariti, al contrario di altri malati esposti a fattori diversi.

c) Sempre in relazione al metodo, le misure di occorrenza, negli studi epidemiologici , sono relative a 2 classi di fenomeni: gli stati e g li eventi. Siamo interessati agli "eventi" quando osserviamo la transizione tra 2 stati diversi, ad esempio, tra lo stato di salute e quello di malattia. In questo modo possiamo contare il numero di nuovi casi di una data malattia o condizione che si verificano in un determinato tempo. Otteniamo, così, una stima del rischio di ammalare. Snow e Lind si erano interessati ai nuovi casi (eventi) di colera e di scorbuto e sono riusciti, così, trovare le cause di queste malattie. Sappiamo, per fare un altro esempio, a proposito del tasso di mortalità, che in 1 anno, nella popolazione generale, circa 10 persone su mille transitano dallo stato di vivo allo stato di morto. La morte è, perciò, un evento, in quanto transizione tra 2 stati. Lo studio degli eventi è importante per la ricerca dei fattori di rischio o di quelli protettivi. Quando, invece, siamo interessati agli "stati", ci limitiamo ad osservare la condizione che esiste in un particolare momento storico. Possiamo, così, contare il numero delle persone che oggi sono afflitte da una data malattia nella popolazione generale. Sappiamo, ad esempio, che nella popolazione generale circa 5 persone su 100 sono afflitte da diabete. Lo studio degli stati è importante per la pianificazione dei servizi. Per la misurazione dell'occorrenza di stati ed eventi si utilizzano, in epidemiologia, unità di misura diverse. Per gli stati si ricorre ai tassi di prevalenza, per gli eventi si ricorre ai tassi di incidenza. Per misurare l'occorrenza di una malattia in una popolazione (utilizzando i tassi di prevalenza e di incidenza) è sempre necessaria la conoscenza di 3 tipologie di dati: 1) il numero di casi di malattia 2) il numero delle persone nella popolazione che dà origine ai casi 3) un'indicazione del tempo cui riferire stati o eventi. d) Tassi di prevalenza e di incidenza Una prima misura di occorrenza è il tasso di prevalenza di una malattia o proporzione di prevalenza. E' una fotografia istantanea. E' importante per pianificare i servizi (da quelli di prevenzione, diagnosi e cura, fino ai servizi di riabilitazione e palliazione) perché rispecchia i bisogni su cui intervenire. La misura della prevalenza deriva dall'equilibrio tra 2 opposti processi: l'apparizione di nuovi casi (che ne fa aumentare il valore) e la scomparsa dei casi che muoiono o guariscono (che ne fa diminuire il valore). Il tasso di prevalenza di una data malattia indica la proporzione di persone che, in una popolazione, sono colpite da quella malattia, in un determinato momento temporale. P= (n malati della data malattia)/ (numerosità della popolazione in quel momento) E’ sufficiente conoscere il tasso di prevalenza di una malattia e la dimensione della popolazione per stimare il numero complessivo dei malati. Il tasso di incidenza rappresenta la proporzione di individui che vengono colpiti dalla malattia in un determinato periodo di tempo: I= (numero di nuovi casi di una data malattia nel periodo considerato) / (numerosità della popolazione osservata nel corso del periodo considerato). Per un calcolo preciso si tiene conto, al denominatore, delle persone effettivamente osservate nel corso del periodo considerato e, al numeratore, del numero di persone che si sono ammalate, o hanno subito una definita transizione nella loro salute, durante l'osservazione (nuovi casi verificati nell'unità di tempo considerata) Il tasso di incidenza stima, perciò, la probabilità di ammalare di una certa malattia in un determinato periodo di tempo, ossia il "rischio" di malattia.

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L’importanza dei tassi è dovuta al fatto che essi tengono conto della numerosità della popolazione da cui provengono i casi. E’ così possibile confrontare tassi di popolazioni diverse, indipendentemente dalla loro dimensione. Ricorrendo a un esempio fittizio, 6000 casi di diabete nella città di Bergamo, riferiti a una popolazione di 120000 abitanti risultano inferiori a 800 casi nella popolazione di Lovere, riferiti a una popolazione di 8000 abitanti. Il tasso, infatti, nel primo caso corrisponde al 5% e, nel secondo, al 10%. Ci si potrebbe chiedere, ora, se ci sia una relazione tra incidenza e prevalenza e quale essa sia. Si ricordava, prima, che la prevalenza riflette l'equilibrio tra l'ingresso di nuovi casi e l'uscita di chi muore o guarisce e, quindi, cessa di essere "caso". Può risultare intuitivo che la proporzione di malati presenti in una popolazione (tasso di prevalenza) è tanto più alta quanto più alta è la proporzione di nuovi casi di quella malattia che si verificano entro un determinato arco di tempo (tasso di incidenza). Ancora, intuitivamente, possiamo capire come le malattie di breve durata (o perché portano a morte o perché guariscono, come succede tipicamente per le malattie infettive) influiscano sulla prevalenza meno delle malattie di lunga durata (tipicamente le malattie croniche). Perciò i tassi di prevalenza, a parità di tassi di incidenza, risultano più alti nel caso di malattie di maggior durata. La relazione che lega i 2 tassi è la seguente: P= I * (Durata media di malattia) La prevalenza è direttamente proporzionale alla incidenza e alla durata media della malattia. La prevalenza delle malattie croniche, quindi, se la incidenza resta costante o non diminuisce, è destinata ad aumentare, poiché la durata delle malattie tende a crescere, grazie all'aumento della longevità e ai miglioramenti della terapia. Tutto ciò, se da un lato ci rallegra, dall'altro deve allertarci, a causa della necessità di offrire dei servizi progressivamente più capaci. A questo proposito, si possono ipotizzare diversi scenari più o meno favorevoli per la salute delle persone e i bilanci pubblici. - Fries, all'inizio degli anni 90, ipotizzava una "compressione" della morbosità: gli anni di vita in buona salute, secondo la sua ipotesi, crescono progressivamente. Il risultato sarebbe una diminuzione del numero di anni vissuti in condizione di cattiva salute, fino al caso estremo di arrivare a morire senza alcuna malattia e disabilità. - Un altro scenario possibile è quello della "posticipazione" della morbosità, accompagnato da un identico prolungamento dell'attesa di vita. Si acquisterebbero, così, ulteriori anni di vita attiva, ma si subirebbero, poi, le malattie per lo stesso numero di anni rispetto a prima. - Un ulteriore modello è quello della "estensione" della morbosità in cui gli anni di vita in buona salute finiscono, ad esempio, alla stessa età attuale mentre l'attesa di vita si prolunga nel tempo. Il risultato complessivo è un aumento degli anni di vita in cattiva salute. Questo ultimo rappresenta lo scenario più minaccioso. Viene anche interpretato come lo scenario del "fallimento del successo" a causa del potenziale fallimento del bilancio statale provocato dal prolungamento dell'attesa di vita che, in sé stesso, va considerato un successo.

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Ipotetici scenari futuri sulla durata media della morbosità Situazione attuale 70 anni in buona salute ……………………………………

10 anni in cattiva salute

Compressione della morbosità 75 anni in buona salute ………………………………………………

5 anni in cattiva salute

Posticipazione della morbosità con allungamento della longevità 75 anni in buona salute ………………………………………………

10 anni cattiva salute

Estensione della morbosità con allungamento della longevità 70 anni in buona salute ……………………………………

15 anni cattiva salute…………

Potrebbero, inoltre, manifestarsi diverse combinazioni di scenari di compressione o estensione, con maggiori o minori posticipazioni di morbosità. Di conseguenza si verificherebbero diversi impatti su salute e finanze pubbliche. Gli scenari qui tratteggiati potrebbero diventare più negativi nel caso in cui aumentasse l’esposizione a fattori di rischio di malattia. In una situazione di questo tipo, infatti, potrebbero crescere contemporaneamente sia l'incidenza che la durata della malattia. E’ ciò che accade, ad esempio, nel caso del diabete, correlato anche con la epidemia di obesità che ha investito l'intera umanità. La prevalenza, dipendendo dal prodotto dei 2 fattori (incidenza e durata) sale più rapidamente di quanto sale ogni singolo fattore. Scenari di questo tipo portano alle conseguenze più disastrose sia per la salute delle persone che per i bilanci degli Stati. Il tasso di prevalenza è usato soprattutto in relazione alle malattie croniche poiché dà una misura dei bisogni cui i servizi devono offrire delle risposte. Ad esempio, dovendo i servizi sanitari rispondere ai bisogni dei malati di diabete, occorre sapere che esso ha un tasso di prevalenza di circa il 5%. Applicando questo tasso alla popolazione della provincia di Bergamo (circa un milione di abitanti), ci rendiamo conto che occorre garantire dei servizi adeguati di diagnosi, cura e riabilitazione approssimativamente per 50.000 malati di diabete. Il tasso di prevalenza non ha, invece, molto senso nell'ambito delle malattie acute, a causa della loro durata limitata. Per le malattie acute acquisisce invece significato il tasso di incidenza che dà una misura del rischio di ammalarsi cui è sottoposta la popolazione, oltre che dei servizi che devono essere predisposti per affrontare in modo appropriato i casi di malattia quando si presentano. Ritornando alla storia di Lind e di Snow, va sottolineato che essi hanno misurato dei tassi di incidenza. Questi tassi, infatti, hanno a che fare con la stima del rischio. I 2 ricercatori volevano, appunto, indagare le cause di malattia al fine di identificarle e attenuarle o rimuoverle. Erano entrambi interessati alla conoscenza dei rischi per controllare i problemi di salute che li angustiavano: lo scorbuto per il primo e il colera per il secondo.

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e) Il confronto di popolazioni diverse: tassi grezz i e tassi specifici. Sottolineiamo ancora l'importanza dei tassi di incidenza e prevalenza quando si vogliono confrontare gruppi diversi. Capita, talvolta, ad esempio, di leggere che nel comune A sono morte, in un anno, 1200 persone, mentre nel comune B ne sono morte 120. Di fronte a questi dati, quale sarebbe la nostra reazione? C'è un rischio più alto di morire nel comune A o nel comune B? La misura del tasso di mortalità (si tratta di un tasso di incidenza) ci consente di contestualizzare i dati riferendoli alla popolazione media residente, nel corso dell'anno, in ognuno dei 2 comuni. Nella tabella seguente possiamo così calcolare i tassi di mortalità nei 2 comuni Comune numero dei morti nell'anno popolazione residente nell'anno Tasso grezzo di mortalità A 1200 120.000 10 per mille B 120 10.000 12 per mille

In assenza della contestualizzazione del dato, poteva sembrare che nel comune A fosse più alto il rischio di morire rispetto al comune B (1200 morti contro 120). Conoscendo, invece, la popolazione di riferimento e attraverso il ricorso ai tassi di mortalità, si potrebbe credere che è proprio vero il contrario (10 per mille contro il 12 per mille). Non dobbiamo dimenticare, però, che il fenomeno della mortalità è molto condizionato dalla composizione della popolazione nelle sue diverse fasce d'età, oltre che dal sesso. Le femmine hanno in genere una mortalità più bassa rispetto ai maschi, tanto che la loro attesa di vita è superiore di 4-5 anni. Sappiamo anche quanto incidano le condizioni socio-economiche riguardo alla mortalità (cresce in relazione con lo svantaggio sociale). Ma limitiamoci, per semplicità, solo al fatto che le persone più vecchie hanno una probabilità più alta di morire rispetto ai giovani e agli adulti. Per confrontare correttamente i tassi di mortalità del comune A e del comune B, allora, non dobbiamo accontentarci dei tassi grezzi di mortalità, ma dobbiamo tenere conto della composizione della popolazione nelle diverse specifiche fasce d'età nei 2 comuni. Accontentiamoci, sempre per semplicità di calcolo, di queste grossolane aggregazioni delle fasce d'età nella tabella seguente: Comune Fasce d’età Numero dei

morti Popolazione residente

Tasso specifico di mortalità

A 0-49 180 80.000 2,25 per mille >49 1020 40.000 25,5 per mille Tutte le

fasce 1200 120.000 10 per mille (tasso

grezzo) B 0-49 10 5.000 2 per mille >49 110 5.000 22 per mille Tutte le

fasce 120 10.000 12 per mille (tasso

grezzo) Distinguendo, quindi, le diverse fasce d'età, notiamo come i tassi specifici di mortalità nella popolazione B siano costantemente più bassi rispetto alla popolazione A, nonostante il tasso grezzo di mortalità sia superiore. Questa analisi ci conduce a una

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conclusione più veritiera sulla mortalità reale, non viziata dalla composizione molto diversa delle due popolazioni, relativamente all’età delle persone che ne fanno parte. Abbiamo così visto come la composizione della popolazione nelle sue varie fasce d'età influenzi la mortalità, dato che le persone più vecchie hanno un rischio superiore di morire rispetto ai più giovani, Lo stesso si potrebbe dire anche per il rischio di ammalarsi. Non stupisce, perciò, che il finanziamento, da parte dello Stato, dei servizi sanitari delle diverse regioni non sia indifferenziato, in base al criterio della numerosità delle loro popolazioni, ma sia specifico, sulla base della composizione delle popolazioni regionali nelle diverse fasce d'età. Questa considerazione ha riscosso un certo interesse anche da parte dell'opinione pubblica qualche anno fa, quando la regione Lombardia ha polemizzato con lo Stato perché riceve, per il finanziamento del servizio sanitario regionale, una somma pro-capite inferiore a quella che ricevono altre regioni d'Italia come la Liguria, la Toscana o l'Emilia Romagna. Se si guarda, però, ai dati demografici, la polemica non ha molte ragioni di essere sostenuta. Se, infatti, la Lombardia ha complessivamente una somma pro-capite inferiore riferita ai suoi 10 milioni di abitanti, è solo perché la sua popolazione è mediamente più giovane rispetto alle altre regioni citate. La polemica andrebbe, eventualmente, reindirizzata sulla entità delle somme pro-capite specifiche decise per le fasce d'età, nel caso in cui fossero davvero sbilanciate e non si dimostrassero congrue con gli effettivi bisogni di ciascuna specifica fascia. Epidemiologia e ricerca sui “corsi di vita” L'epidemiologia si è arricchita negli anni recenti di nuova conoscenza che proviene dalla ricerca sui corsi di vita. Gli studi sui corsi di vita non derivano da una nuova teoria, ma rappresentano un approccio di studio innovativo. Essi si sono sviluppati negli ultimi 30-40 anni come un'area di studio interdisciplinare su ciò che avviene nella vita umana tra il concepimento e la morte, avvalendosi dei contributi di discipline come la sociologia, l’antropologia, la demografia, l’economia e la psicologia. A tali contributi si sono aggiunti, negli ultimi tempi, quelli provenienti dagli studi genetici. Questa ricerca ha consentito una comprensione più profonda dell'eziologia delle malattie croniche. Ha, infatti, potuto analizzare gli effetti a lungo termine, sul rischio di malattie croniche, delle esposizioni fisiche, socio-economiche e culturali durante la gestazione, l'infanzia, l'adolescenza, la vita adulta e la vecchiaia. Fino agli anni 70 il modello ideale degli studi per le scienze sociali era rappresentato dagli studi trasversali e dalla loro replicazione periodica. Dagli anni 80 il nuovo modello è diventato lo studio longitudinale sui corsi di vita di individui e famiglie. In questo tipo di ricerca, lo sviluppo del corso di vita viene analizzato come l'esito, da una parte, di caratteristiche personali e scelte individuali; dall'altra, di condizioni socio-politiche e culturali. Le analisi possono riguardare il livello micro, ad esempio l'individuo; il livello meso, ad esempio la coppia genitoriale o la famiglia; il livello macro, ad esempio, la società o la coorte ("un gruppo di persone nate nello stesso tempo storico, che sperimentano particolari cambiamenti sociali, in una determinata cultura, nella stessa sequenza e alla stessa età"). L'analisi dei corsi di vita e delle coorti è essenziale per delineare politiche sociali che aspirino a un cambio di paradigma, puntando non più a un welfare riparativo, ma a un sistema di sicurezza sociale orientato alla prevenzione. Finora, infatti, anche per quel poco che ci si è interessati di prevenzione, l'attenzione è stata rivolta alle cause prossimali di malattia (difficili da rimuovere e con effetti di minore portata). Non sono state messe in evidenza e riconosciute, nella loro importanza, le cause distali, più remote e all'origine di lunghe catene causali. Ad esempio, si è focalizzato lo sforzo sulla cattiva

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nutrizione, sulla sedentarietà o sul fumo, non sui determinanti socio-economici che stanno alla base di questi e altri comportamenti nocivi. Nella epidemiologia delle malattie cardiovascolari è prevalso, fino agli anni 70, il modello dello stile di vita dell'adulto. Si è puntato sul cambiamento delle abitudini nocive Oggi si sta meglio comprendendo l'importanza dell'approccio dei corsi di vita per tenere conto della rete dei fattori di rischio interconnessi che agiscono fin dalla gravidanza. Questi fattori non sono solo responsabili dell'instaurarsi di stili di vita nocivi, ma intervengono ancora prima e direttamente sui sistemi metabolici, endocrini, immunitari, alterandoli nelle loro strutture e funzioni. Lo studio dei corsi di vita si connota, perciò, come un'azione finalizzata di natura politica, per l'ampiezza della sua portata che può spesso travalicare i confini dei servizi sanitari. Le azioni politiche si rivelano sempre più necessarie perché è emerso in tutta la sua drammaticità il problema dell'aumento delle sperequazioni e della gravità dei loro impatti sul benessere sanitario e sociale della popolazione. In ambito sanitario possono essere elencate, tra le conseguenze negative, la diminuzione della longevità, la mortalità infantile, mortalità per incidenti, morbosità e mortalità per malattie croniche e disturbi mentali. In ambito sociale possiamo citare: insuccesso scolastico, gravidanza nelle adolescenti, tossicodipendenze, alcolismo, violenza, criminalità... Importanti studi epidemiologici, come quelli di Wilkinson e Pickett (La misura dell’anima, ed Feltrinelli) dimostrano che le sperequazioni nei Paesi dell’occidente non danneggiano solo i più sfortunati, ai gradini più bassi della scala socio-economica, ma danneggiano le popolazioni nel loro complesso. E' per questo motivo che, in base al grado di sperequazione, si potrebbero distinguere, da un parte, delle società più malate e, dall'altra, delle società più sane. Se vogliamo cambiare la situazione attuale, dobbiamo anche convincerci che le disuguaglianze sono inaccettabili, in quanto profondamente inique. Questa però non è tanto una questione di saperi epidemiologici, ma di spessore etico della nostra cultura e di indirizzi politici che ci diamo. Concetti di base della prospettiva dei "corsi di vi ta". I corsi di vita delle persone sono caratterizzati da continuità, transizioni, rotture, svolte, tornanti e sono inesorabilmente esposti a molteplici influenze. Cerchiamo di definire meglio questi termini... Transizione : cambiamento in ruoli e stati che rappresenta una modifica sostanziale rispetto a ruoli e stati precedenti. La vita è piena di queste transizioni: inizio della scuola, pubertà, fine della scuola, ingresso nel lavoro, abbandono della casa dei genitori, costruzione di una propria famiglia, nascita dei figli, pensionamento. Si tratta di esperienze comuni che rientrano nella vita di molti di noi. Traiettorie: coinvolgono un tratto più lungo del corso di vita, fatto di stabilità e di cambiamenti dovuti a molteplici transizioni. Esistono diverse traiettorie che si intrecciano: traiettorie educative, economiche, di vita familiare, di salute, di lavoro. Esse possono essere presentate visivamente in grafici separati o in un unico grafico, usando, ad esempio, diversi colori Evento di vita (life event): è un accadimento significativo che comporta un cambiamento relativamente repentino, un punto di svolta, e produce effetti seri e a lungo termine. Può trattarsi di una promozione importante, un licenziamento, della morte di un coniuge, di una malattia grave, di uno sfratto... Una transizione, rispetto all’evento di vita, è un cambiamento più graduale che capita con l'inizio di una nuova fase di vita. Tre tipi di eventi di vita, in base ai risultati della ricerca, possono fungere da punto di svolta: - eventi che chiudono o aprono opportunità;

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- eventi che provocano un cambiamento duraturo nell'ambiente della persona; - eventi che cambiano la percezione della propria identità, credenze, aspettative. L'impatto dei punti di svolta differisce a seconda che avvengano prima o dopo la metà del corso di vita. Prima della metà tendono a essere correlati con cambiamenti di ruolo; dopo la metà della vita sono correlati con la crescita personale. Una transizione può diventare un punto di svolta quando comporta una crisi ed è seguita da conflitti familiari e conseguenze negative impreviste. In riferimento alla prospettiva dei “corsi di vita”, gli interventi degli operatori sociali possono assumere un significato più profondo. Essi aspirano a riportare in carreggiata traiettorie deviate da eventi o transizioni che hanno provocato punti di svolta sfavorevoli. In una prospettiva preventiva, gli operatori dovrebbero anche impegnarsi per creare le condizioni adatte al verificarsi di transizioni ed eventi favorevoli o, perlomeno, meno distruttivi, sui corsi di vita. Punti di forza e di debolezza della prospettiva "co rsi di vita". Punti di forza Questa prospettiva incoraggia maggiore attenzione ai cambiamenti storici, politici e sociali, di cui va riconosciuta pienamente l’importanza. Essa è molto coerente con il modello bio-psico-sociale per la comprensione della varietà dei fattori che influenzano la salute anche se, poi, non è facile intervenire. Esistono, infatti delle difficoltà legate all'inerzia della politica e alla persistenza di compartimenti stagni nell'ambito della pubblica amministrazione. L'approccio dei corsi di vita enfatizza l'interdipendenza, in particolare quella inter-generazionale. Non è una teoria deterministica perché riconosce il ruolo della libertà e della capacità dell'uomo nel disegnare le proprie traiettorie esistenziali. Nello stesso tempo, però, chiarisce la portata dei possibili condizionamenti e l'impatto del potere e del privilegio sull'esistenza delle persone. Perciò suggerisce delle strategie per raggiungere una maggiore giustizia sociale. Punti di debolezza L’eterogeneità dei corsi di vita può rendere impossibile discernere definite tipologie di traiettorie per via di una variabilità disorientante. Forse, più che pensare alle forme delle traiettorie individuali, è meglio concentrarsi sulle loro forme a livello meso e macro per studiare i fattori che le influenzano. Un altro limite consiste nella capacità di questi studi di riuscire a tener conto effettivamente delle influenze a livello micro (individuo) e a livello macro (istituzioni sociali e organizzazioni formali). Storicamente, le scienze sociali, da una parte, e quelle comportamentali, dall’altra, le hanno studiate isolatamente. L'approccio dei corsi di vita tenta con difficoltà di studiarle insieme. La storia “naturale” delle malattie L'approccio dei corsi di vita offre all'epidemiologia la possibilità di tracciare la storia tipica di una malattia, dal suo inizio fino al suo esito finale. E’ vero che, anche nell’ambito di una singola malattia, non esiste, per chi la vive, una storia uguale all’altra. E’, tuttavia, utile scoprire sia le analogie che le differenze che distinguono la storia di una malattia dall’altra. E' possibile pervenire a questo risultato mediante indagini longitudinali iniziate fin da prima del momento in cui le persone si ammalano di una data malattia e proseguite successivamente, dopo che si sono ammalate. Quando le osservazioni sono

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sufficientemente numerose, si può tracciare un percorso tipico della storia della malattia, tenendo conto anche della sua variabilità. Prima che compaiano i sintomi caratteristici di una data malattia (fase di "espressione"), esiste una fase di "induzione" in cui inizia l'esposizione a un determinante della malattia e, poi, una fase di "promozione" in cui incominciano i processi patogenetici che portano all'inizio delle manifestazioni cliniche. Dopo un certo periodo passato dall'inizio dei sintomi, la malattia può guarire o cronicizzarsi e portare, col tempo, a disabilità più o meno gravi fino alla morte (vedi Figura).

In seguito a osservazioni ripetute su più soggetti si può calcolare la durata media, la gravità e la variabilità per ciascuna di queste fasi. L'epidemiologia per prevenire e pianificare Quando si uniscono le informazioni tratte da questo tipo di studi con quelle relative ai tassi di incidenza e prevalenza delle malattie presenti all'interno della popolazione, si può giungere a una "diagnosi di comunità". In base al numero e al tipo di malati presenti nella popolazione, si può pensare alle misure preventive da adottare e si possono pianificare i servizi capaci di rispondere ai bisogni rilevati, secondo criteri di priorità. Pianificare significa scegliere, tra diverse opzioni alternative, i modi e i tempi più opportuni per raggiungere obbiettivi predefiniti. In riferimento alla figura precedente, potremmo, allora, ipotizzare quale ruolo debba avere la prevenzione primaria (per rimuovere i fattori di rischio responsabili della "induzione"), quale gli screening (per diagnosticare precocemente le malattie nella fase di "promozione"), quale i servizi di diagnosi e cura, riabilitazione e palliazione (nella fase di "espressione" della malattia). Riguardo ai servizi, bisognerebbe anche considerare in quanta parte prestarli nei diversi contesti (ospedalieri, ambulatoriali, domiciliari) e quanti ricoveri, visite, test e farmaci essere pronti ad offrire. Una gestione della sanità fondata sull'epidemiologia dovrebbe tendere a un modello di "congruenza". In tale modello l'offerta dei servizi pianificati dovrebbe essere tale da coincidere coi bisogni reali e questi ultimi dovrebbero essere correttamente interpretati e orientati per generare una domanda appropriata, sia da parte dei malati, che da parte dei medici. Bisogni reali------*-----> Domanda------------>Offe rta * ruolo dei medici * ruolo della cultura

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Attualmente, invece, a causa della "aziendalizzazione" della sanità e delle pressioni esercitate dal marketing, può capitare che l’offerta, finalizzata soprattutto a incrementare i profitti, possa ingigantire i bisogni o crearne di fittizi, inducendo una domanda in gran parte inappropriata. L'epidemiologia per valutare Anche per mettere in luce le possibili incongruenze sopra accennate, un'ulteriore finalità dell'epidemiologia è valutare i servizi che vengono utilizzati. Possono esserci 3 principali approcci alla valutazione: si può valutare la idoneità delle risorse impiegate per determinati scopi, nella loro quantità e qualità (approccio strutturale); l’idoneità delle procedure utilizzate (approccio di processo); l’idoneità dei risultati conseguiti in termini di salute (approccio di esito o “outcome”). Alla base della valutazione è sempre lo scarto tra ciò che si osserva e ciò che dovrebbe avvenire sulla base degli standard previsti da un'appropriata pratica professionale che faccia riferimento alla deontologia professionale e all'evidenza scientifica esistente: quella che deriva dai risultati di idonei studi sperimentali o osservazionali reperibili nell'ambito della letteratura scientifica. La valutazione della qualità dei servizi non dovrebbe limitarsi a mettere in luce le differenze esistenti tra l'osservato e l’atteso, ma dovrebbe anche proporre adeguate misure correttive, dato che gli studi epidemiologici hanno una finalità eminentemente pratica. Alcune proposte di cambiamento potrebbero riguardare, ad esempio, l’accessibilità dei servizi o i processi di formazione del personale o l'organizzazione e gestione dei servizi o la promozione di una cultura diversa, per suscitare comportamenti più idonei da parte dei vari attori. Altre proposte, meno usuali, ma di gran lunga più pregnanti, potrebbero riguardare l’adozione di politiche diverse, non solo relativamente ai servizi sanitari, ma al sistema complessivo che, più di tutto, è in grado di influenzare la salute. Le misure relative in epidemiologia Veniamo, ora, a parlare dell'esistenza di misure epidemiologiche "relative". Finora abbiamo parlato di tassi d'incidenza e prevalenza che sono misure "assolute" perché delucidano un fenomeno considerato in sé stesso, non in relazione ad altro. In epidemiologia esistono anche delle misure relative che misurano un fenomeno in relazione a un altro Il Rischio Relativo (RR) è l'esempio più importante, in epidemiologia, di una misura relativa. Incominciamo col definirlo: esso è il risultato del rapporto tra il tasso di incidenza di una data malattia nelle persone che sono esposte a un determinato fattore e il tasso di incidenza della stessa malattia nelle persone che non sono esposte a quel determinato fattore. RR = Incidenza negli esposti / incidenza nei non esposti Quando il tasso di incidenza degli esposti al fattore è più alto di quello di chi non è esposto, il RR è superiore a 1. Il fattore cui si è esposti, quindi, rappresenta un fattore di rischio per la malattia in esame. Quando i 2 tassi sono uguali, il RR equivale a 1 e ci fa ipotizzare che chi è esposto al fattore ha la stessa probabilità di ammalare rispetto a chi non è esposto. Quando, poi, il RR è inferiore all'unità, il fattore cui si è esposti ci fa pensare a un fattore protettivo che diminuisce la probabilità di ammalare. Potrebbe, ad esempio, trattarsi dell'esposizione a un farmaco o a un intervento dotato di un effetto benefico.

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Quanto più la misura del RR si discosta dall'unità, tanto più alta è la cosiddetta "forza dell'associazione" che, insieme con altre caratteristiche di cui abbiamo già parlato, contribuisce a corroborare l'ipotesi di un nesso causale tra esposizione al fattore di rischio e malattia (nel caso il RR sia superiore a 1) o tra esposizione al fattore e protezione dalla malattia (nel caso il RR sia inferiore a 1). Ciò che va sottolineato, a proposito di queste misure, è che un determinato valore del RR può essere il risultato del rapporto tra quantità molto diverse. Ad esempio, un RR=0,5 può essere il risultato del rapporto tra: (20:100) / (40:100 )= 20/40= 0,5 oppure tra (2:10000)/ (4: 10000)= 2/4= 0,5 Nel primo caso il fattore protettivo fa diminuire l'incidenza di una malattia dal 40% al 20%. Questo dimezzamento, imputabile al fattore protettivo, è di un'importanza pratica notevolissima perché riduce della metà una probabilità di ammalare consistente. Nel secondo caso, invece, il fattore protettivo, pur dimezzando, come nel primo caso, l'incidenza della malattia, la fa passare da 4/10000 a 2/10000. In questo caso l'importanza pratica del fattore protettivo è scarsa perché riduce alla metà una probabilità di ammalare che è di per sé stessa già molto bassa. Potrei essere, infatti, ragionevolmente sicuro di non incorrere mai nella malattia nel corso della mia vita, anche in assenza del fattore protettivo. Inoltre, prima di decidere di espormi a un fattore protettivo in una circostanza come questa, dovrei valutare bene i suoi costi e gli effetti indesiderati per capire se valga la pena affrontare svantaggi certi di una data entità (quali, appunto, i costi e gli effetti indesiderati) nella speranza di ottenere vantaggi minimi e del tutto aleatori. Un conto, poi, è che il fattore protettivo consista, ad esempio, nell'adozione di stili di vita sani, come aumentare l'attività fisica o smettere di fumare. Se consistesse in questo, non dovrei temere né costi aggiuntivi né effetti indesiderati. Un caso completamente diverso si verifica, invece, quando il fattore protettivo è di natura artificiale, come avviene con l'assunzione di un farmaco. In una situazione di questo tipo sarebbe appropriata la massima cautela per evitare di prendere decisioni sbagliate e farsi del male con le proprie mani. L'esempio fatto precedentemente vuole dimostrare che non ci si può più limitare a considerare la diminuzione del RR per valutare, ad esempio, l'impatto benefico di un farmaco protettivo. Infatti, nel primo caso esemplificato, la diminuzione del 50% del rischio di ammalare corrisponde a un impatto fortemente benefico; nel secondo caso la stessa diminuzione corrisponde a qualcosa di insignificante nella pratica. Accanto, allora, alla misura del RR, occorre affiancare la misura della differenza nei rischi assoluti, ossia dei rispettivi tassi d'incidenza. Nel primo caso la diminuzione del rischio assoluto è del 20% ((40:100) - (20:100)). Nel secondo caso, la diminuzione del rischio assoluto è del 2 per diecimila ((4:10000)- (2:10000)). Nel primo caso occorre somministrare il farmaco protettivo a 5 persone per prevenire un caso di malattia. Nel secondo caso occorre somministrare il farmaco protettivo a 5000 persone per prevenire un caso di malattia. Detto in altri termini, 4999 persone assumeranno inutilmente il farmaco esponendosi ai costi e agli effetti indesiderati del trattamento, mentre 1 persona ogni 5000 potrà evitare di ammalarsi, a fronte di quei costi ed effetti indesiderati. Purtroppo, spesso si fa un uso ingannevole della diminuzione del RR per magnificare, ad esempio, l'effetto di un farmaco. Ora sappiamo perché, in questi casi, per decidere

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appropriatamente, dobbiamo anche chiederci quale sia la effettiva diminuzione del rischio assoluto. Un'altra importante misura relativa, in epidemiologia, è il "rischio attribuibile" (R.A.). Esso viene definito come la proporzione di una malattia che può essere attribuita alla esposizione nociva. Nel caso del fumo di tabacco e del cancro del polmone, ad esempio, il rischio attribuibile è la proporzione degli eventi di cancro polmonare che può essere attribuita al fumo di sigaretta. In altri termini il R.A. rappresenta la proporzione di diminuzione nell'incidenza di malattia che si verificherebbe se l'intera popolazione non fosse più esposta alla esposizione nociva. Affermare che il rischio attribuibile al fumo per il cancro polmonare è dell'80% significa dire che, qualora tutta la popolazione fosse libera dal fumo, si verificherebbe una diminuzione dell'80% di nuovi casi di cancro polmonare. In base alla sua definizione si sarebbe tentati di calcolarlo così: RA= (Ie x Pe) / (Ie x Pe + Ine x Pne) Ponendo al numeratore l'incidenza negli esposti moltiplicata per la numerosità della popolazione esposta e, al denominatore, la somma tra l'incidenza negli esposti moltiplicata per la numerosità della popolazione esposta e l'incidenza nei non esposti moltiplicata per la numerosità della popolazione non esposta. Bisogna, però, considerare che gli esposti a un determinato fattore di rischio (ad esempio, il fumo di sigaretta) non si ammalano di tumore polmonare esclusivamente perché sono esposti a tale fattore, ma contemporaneamente sono sottoposti, per così dire, a un rischio "di fondo". Infatti, si possono ammalare di tumore polmonare anche persone che non sono esposte al fumo di tabacco. Per questo motivo, allora, la formula deve tenere conto di questo rischio di fondo, il cui impatto va sottratto a quello effettivamente attribuibile al fattore di rischio fumo. La formula corretta è perciò: RA= (Ie x Pe - Ine x Pe) / (Ie x Pe + Ine x Pne)

Reti sociali e salute Non è un caso che questo corso finisca trattando il tema delle reti sociali e della salute. Anche perché, se non si riconoscesse l'importanza del modo in cui la società è strutturata e dei legami che tengono unite le sue componenti, non avrebbe senso parlare di politiche territoriali dei servizi sanitari e sociali. La politica nasce, infatti, per dare forma alla società e favorire legami di amicizia e di pace tra le persone. Solo in questo modo può promuovere un autentico benessere nella popolazione, da un punto di vista sanitario e sociale. E' quindi l'occasione giusta per ribadire alcuni concetti fondamentali ed entrare più in profondità su questi argomenti. Adottare una prospettiva di rete significa, infatti, leggere e interpretare il mondo in modo nuovo, a tutti i livelli del reale, dal piano biochimico a quello ecosistemico. 1) Prima di tutto, l'essere umano va considerato come una persona, non come un individuo. Parlare dell'essere umano in una prospettiva personalistica significa riconoscere la sua natura intrinsecamente relazionale. L'uomo, infatti, nasce da una relazione, si sviluppa e diventa quello che è grazie alle molteplici interazioni coi suoi simili e con

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l'ambiente che lo circonda: l'ambiente nelle sue componenti socio-economiche, culturali, biologiche, fisico-chimiche. Siamo quindi lontani da una concezione individualistica che vede l'essere umano come un'entità separata da tutti gli altri. L'uomo non è né un'isola priva di porti, ponti e relazioni, né un monolite, assolutamente omogeneo al suo interno, chiuso in sé stesso e nelle sue certezze. In realtà, l'essere umano, oltre che essere costitutivamente relazionale, è anche riconoscibile come una confederazione di anime diverse, in dialogo tra loro. Anche grazie a questo dialogo interiore egli può perfezionarsi. Nel dialogo intimo della coscienza, le reazioni più immediate e stereotipate agli stimoli esterni possono venire inibite per approfondire la riflessione. Quanto più il dibattito interno è intenso, tanto più ricchi e fecondi risultano i pensieri che vengono elaborati. Aumenta, così, la capacità personale di comprensione che facilita l'apertura al rapporto con gli altri. 2) La concezione personalistica dell'essere umano va considerata anche come un grande contributo della scienza. Si è trascurato troppo a lungo il fatto che questo modo di intendere l'uomo non è solo appannaggio di qualche importante corrente filosofica o fede religiosa, ma è anche il frutto dei maggiori traguardi scientifici raggiunti nell'ambito della genetica e delle neuroscienze. La genetica, infatti, ci ha oggi permesso di comprendere come il ruolo del patrimonio genetico, preso isolatamente, assuma un peso minore rispetto a quanto si ritenesse in passato. Lo sviluppo dell'essere umano è fortemente condizionato da una continua interazione tra il patrimonio genetico e l'ambiente socio-cuturale e fisico in cui si svolge il corso di vita delle persone. E' proprio di queste influenze che ci parla l'epigenetica. Più specificamente, poi, nell'ambito delle neuroscienze, si afferma la stessa cosa riguardo allo sviluppo della mente che è, a sua volta, il risultato di una molteplicità di interazioni tra patrimonio genetico e ambiente, inteso in senso lato. La mente, infatti, è “una proprietà emergente che nasce dalle interazioni del cervello con il resto del corpo e con tutti gli stimoli che provengono dall'ambiente esterno”. Il suo schema organizzativo di base è geneticamente predeterminato, ma il risultato dello sviluppo mentale, fin dalla gravidanza, è condizionato dalla quantità e qualità delle interazioni che accompagnano la sua storia esistenziale: dall'amore che si riceve, ai processi educativi cui si viene esposti, al cibo che si mangia, all'aria che si respira... Per comprendere meglio come la scienza ci insegna a pensare in termini di persone e di reti, accennerò brevemente alla natura del patrimonio genetico e alle sue interazioni.

Geni, genoma ed epigenetica.

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La scoperta dei geni è avvenuta prima di quella del genoma. Forse anche per questo abbiamo in un primo tempo sopravvalutato il ruolo dei geni e confuso il concetto di genoma. Per evitare fraintendimenti bisogna ricordare, prima di tutto, che i geni non agiscono direttamente, ma tramite la codifica della produzione delle proteine, sottoposta, a sua volta, a molteplici interazioni. Il genoma, poi, non è semplicemente l'insieme dei geni presenti all'interno di ogni cellula dell'organismo. Esso è "l'insieme delle istruzioni biologiche necessarie e sufficienti per far nascere, sviluppare e, al momento opportuno, riprodurre un organismo vivente". I geni veri e propri occupano solo circa il 3% della sequenza del genoma. Una regione molte volte più vasta è necessaria per la corretta attivazione di questi geni. Per il restante 97% il Dna sembrava non servire a nulla, tanto che è stato definito "spazzatura". Invece, l'aspetto più interessante del genoma non è costituito dai geni veri e propri, ma dalla regolazione della loro azione che è opera della porzione di Dna che non contiene geni. Se guardiamo ai geni che codificano proteine, il nostro Dna è sovrapponibile per il 99% a quello dello scimpanzé. Non sono le proteine a essere diverse nelle 2 specie, ma il loro assemblaggio, dovuto a differenti meccanismi regolatori.

Il genoma, oltre a far dividere e moltiplicare lo zigote (cellula uovo fecondata dallo spermatozoo) provoca anche:

- la differenziazione cellulare per cui alcune linee cellulari diventano tessuti del cuore, cellule cerebrali, del sangue, del fegato ecc.

- la morfogenesi per cui ogni cellula si posiziona in un luogo conforme alla sua differenziazione e contribuisce a dare una certa forma alla struttura che compone.

Il genoma, quindi, ordina cosa diventare e come posizionarsi. E' un insieme ordinato di programmi specifici che si susseguono dinamicamente nel tempo e nel modo dovuto. E' un programma di accensione e spegnimento selettivi di specifici geni. All'inizio del tutto, il programma di attivazione di tali geni è di natura puramente genetica, quasi automatico. Poi la situazione cambia, e il genoma viene influenzato dalle interazioni tra le cellule e con l'ambiente circostante.

Ogni cellula finisce, così, per controllare l'attività dei geni. Questo processo prende il nome di regolazione genica. Esso stabilisce il "se", il dove" il quando e il quanto della produzione genica. Il programma del genoma agisce, così, in relazione a ciò che accade nel tempo all’interno dell’ambiente di vita. L’insieme delle caratteristiche effettive possedute dalle persone, il cosiddetto “fenotipo”, nasce dall’interazione del genotipo con l’ambiente.

L’epigenetica (etimologicamente: sopra la genetica) è una nuova branca della genetica. Essa studia tutte le molteplici segnalazioni che giungono al Dna dal mondo circostante e dalla sua storia più recente, sulla base delle quali il Dna orienta la sua azione controllando l'espressione dei vari geni.

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Si sa da tempo che i fattori ambientali, come lo stress o l’alimentazione, possono influenzare l’espressività dei geni in un organismo. I geni, infatti, sono sottoposti a un’espressività differenziale per cui possono essere accesi o spenti. In base all’espressività differenziale, molti geni presenti in una cellula sono repressi per la maggior parte o, addirittura, per tutta la vita. Ciò che viceversa rappresenta una scoperta più recente e, in parte, rivoluzionaria, nel campo dell’epigenetica, è data dal fatto che l’espressione dei geni, modificata da fattori ambientali, può essere trasmessa nei discendenti. In questi casi il cambiamento deve interessare le cellule riproduttive, per via della presenza o assenza di molecole che influenzano il funzionamento del Dna. La doppia elica non cambia, ma i geni delle nostre cellule possono accendersi e spegnersi sulla base di caratteristiche acquisite dai genitori in relazione alle loro esposizioni ambientali. Viene, per certi versi, ripresa la teoria di Lamarck sulla ereditarietà dei caratteri acquisiti che solo poco tempo fa procurava scandalo tra gli scienziati.

E’ tuttavia importante enfatizzare che la maggior parte dei tratti non è trasmessa per via epigenetica: si tratta solo di eccezioni alla regola. Tutto questo, tuttavia, deve destare una profonda attenzione a come le condizioni di vita non solo influenzano la salute, ma possono trasmettere i loro impatti nelle generazioni successive. Nello stesso tempo, incrementa notevolmente l’interesse per gli studi sui corsi di vita e l’epidemiologia delle malattie croniche. Queste scoperte sono, infatti, coerenti con i risultati degli studi epidemiologici sulle malattie croniche e, in particolare, con gli approcci sui corsi di vita. La malattia cronica, in alcuni casi, può essere interpretata come l'esito tardivo dell'interazione tra le condizioni della madre nell'età dell'adolescenza e l'embrione che si annida e sviluppa nel suo utero. Alla luce di tutto ciò si prospetta, per gli operatori e per i servizi, un ruolo preventivo meglio definito, anche da un punto di vista delle conoscenze scientifiche: quello di influenzare positivamente le traiettorie esistenziali delle persone creando le condizioni affinché nascano e vivano in ambienti privi di stress e favorevoli alla loro salute. E se mai qualcuno imboccasse una traiettoria insidiosa per il suo benessere sanitario e sociale, gli operatori dovrebbero promuovere dei "punti di svolta" per aiutare a riprendere il cammino su una strada più salubre e sicura.

3) Se l'essere umano va considerato come una persona, la società va vista nella sua forma reticolare, come un insieme di persone in relazione tra loro. Va confutata la famosa sentenza di Margaret Tatcher, che ha segnato la storia del neoliberismo, secondo cui non esiste la società, ma esistono solo gli individui. La società non è costituita semplicemente dalla sommatoria dei singoli individui. E' molto di più della somma degli elementi che la compongono, poiché le persone che costituiscono la società sono in relazione tra loro e danno, così, luogo a una moltitudine di proprietà emergenti, per tanti versi imprevedibili. 4) Per via dei modi in cui si devono intendere l'essere umano e la società, ha senso, in tema di sanità e salute, tenere conto dell'importanza delle relazioni e pensare ad approcci di rete. Secondo questi approcci, il cittadino, sano o malato che sia, è un nodo collegato con altri nodi (persone) da relazioni più o meno intense. Non si tratta, certo, di idee innovative, ma di declinazioni più specifiche provenienti da contributi ormai vecchi di mezzo secolo. Già negli anni 60, infatti, la nascita della teoria generale dei sistemi metteva in evidenza le relazioni che legano le diverse componenti tra loro, i differenti tipi di struttura che danno forma ai sistemi e li fanno funzionare in un certo modo. Tra gli anni 60 e l'inizio degli anni 70 nasce, poi, l'ecologia, definita come “la scienza che studia i rapporti degli organismi tra loro e con l'ambiente fisico, chimico e biologico in cui si svolge la loro vita”. Essa può riguardare diversi livelli di organizzazione (dall'ecosistema a

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una popolazione specifica e a un sottoinsieme al suo interno) e diversi tipi di interazione degli organismi viventi (es. flussi di energia, di informazioni, di materia...) 5) La promozione della salute, la prevenzione e la cura delle malattie non vanno viste, perciò, in termini individualistici, ma in termini di rete. a) Per quanto riguarda la promozione della salute e la prevenzione delle malattie, abbiamo ripetuto più volte, nel corso dei nostri incontri, come le disuguaglianze abbiano effetti devastanti sulla coesione sociale. Esse, infatti, corrodono i legami che uniscono le persone, generano e diffondono invidia, ostilità e sfiducia. A un livello macro, in un confronto tra le diverse nazioni dei Paesi più ricchi, le società più sperequate sono disfunzionali poiché hanno effetti distruttivi sulla salute dei cittadini che ne fanno parte. Tanto maggiori sono le sperequazioni, tanto più frequenti sono la mortalità, la depressione, l'ansia, la violenza, la criminalità, l'alcolismo, la tossicodipendenza, l'obesità, l'insuccesso scolastico, le gravidanze tra adolescenti. Analoghi risultati si ottengono a un livello micro. Diversi studi hanno associato le condizioni di salute dei singoli con la situazione delle loro reti sociali di appartenenza. Nei casi in cui le persone facciano parte di reti sociali strutturalmente più ampie o funzionalmente più connesse (secondo indicatori sia soggettivi che oggettivi) diminuisce la probabilità di ammalare o morire. b) Per quanto riguarda, poi, la cura delle malattie, gli approcci di rete devono tener conto sia della diffusione degli effetti della malattia, nella rete sociale cui il malato appartiene, che della necessità di coinvolgere la rete nell'aiuto da offrire al malato. - In riferimento alla diffusione degli effetti della malattia, la malattia non colpisce solo la persona che ne è affetta, ma, in grado diverso, tutta la rete sociale di cui fa parte il paziente. Vista l'importanza assegnata ai conti economici, l'approccio di rete dovrebbe renderci più consapevoli, tra l'altro, degli impatti economici reali della salute e della malattia sulla società. Le conseguenze sono molto maggiori di quel che siamo soliti calcolare. Se le nostre analisi diventassero più corrette, attribuiremmo maggior valore a una sanità efficace, equa ed efficiente. I calcoli tradizionali dell'economia sanitaria usano mettere in luce non solo i costi economici diretti, ma anche quelli indiretti e intangibili. Abbiamo già sottolineato, invece, che i calcoli dell'economia aziendale, in modo riduttivo, tengono conto solo dei costi diretti. I costi economici diretti sono quelli sostenuti dal servizio sanitario nazionale per curare il malato (ricoveri ospedalieri, visite, test diagnostici, esami, farmaci...) I costi indiretti (o sociali) sono quelli che derivano dalla ridotta produzione associata all'assenza dal lavoro durante il periodo di malattia. I costi intangibili sono relativi alla sofferenza, alla perdita di tempo libero, alla diminuzione dell'autonomia... Questi 3 costi vengono in genere quantificati secondo una prospettiva individualistica che occulta completamente i costi relativi agli altri membri della rete familiare e sociale. Invece, anche gli altri nodi della rete possono essere coinvolti negli stessi 3 tipi di costo. Un marito può, ad esempio, andare incontro a una depressione, in seguito alla malattia da cui è colpita la moglie e generare, a sua volta, dei costi diretti, per via delle cure cui si sottopone. Inoltre, può essere costretto a perdere delle giornate di lavoro, a causa della depressione, e dar origine, così, a costi indiretti. A parte, poi, i costi diretti e indiretti, la sua sofferenza per la malattia della moglie, l'abbandono degli eventuali passatempi e l'impoverimento della vita di relazione aggiungono una mole notevole di costi intangibili che deteriorano la qualità della sua esistenza, oltre che quella delle persone con cui è in rapporto. Se, poi, considerassimo le conseguenze sulla vita dei figli e anche solo dei

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parenti più stretti di questa coppia, avremmo una percezione più chiara dei costi che implica la cattiva salute di una persona per tutta la rete sociale. - Per quanto riguarda il coinvolgimento della rete nell'aiuto, in un'epoca come la nostra, caratterizzata dalla diffusione progressiva delle malattie cronico-degenerative, l'approccio di rete è particolarmente funzionale nell'organizzare l'assistenza al malato. Diventa sempre più importante, infatti, il sostegno dato dai familiari e dagli amici, accanto a quello tipico dei professionisti sanitari. I contesti domiciliari sono diventati il luogo abituale in cui vengono prestate cure e assistenza a questi malati. Le organizzazioni gerarchiche degli ospedali hanno ceduto il posto alle organizzazioni a rete che hanno come luogo di riferimento principale le case dei malati. Ma, prima di soffermarci a riflettere su ciò che implica, per i professionisti, questo diverso approccio, esaminiamo con metodo quello che ci dice oggi la scienza riguardo a struttura e funzioni delle reti. 6) L'analisi delle reti sociali Alla luce di queste considerazioni diventa importante acquisire qualche strumento di analisi sulla struttura e le funzioni delle reti sociali. Alcune modalità strutturali e funzionali delle reti sociali possono essere interpretate, infatti, come causa e/o conseguenza di buona o cattiva salute. Si sa, ad esempio, che la malattia può comportare una parziale o totale perdita dell'autonomia e condurre a un progressivo isolamento del malato e all'impoverimento della sua rete sociale. In questo caso, il deterioramento della rete sociale è "conseguenza" delle cattive condizioni di salute. Si sa anche che le reti sociali sono capaci di veicolare risorse cui è possibile accedere per la emancipazione, la valorizzazione e la salute di tutte le persone che ne fanno parte. In questo altro caso la rete sociale diventa "causa" delle condizioni di salute delle persone. E' facile intravedere, nel rapporto tra reti sociali e salute, una stretta analogia col rapporto che esiste tra posizione socio-economica e salute. Alle posizioni socio-economiche superiori sono solite corrispondere delle reti sociali più ampie e connesse. Anche per le reti sociali c'è una relazione di ricorsività con le condizioni di salute, per cui le une influenzano le altre, in un circolo che può diventare virtuoso o vizioso, a seconda della qualità delle condizioni di partenza. C'è, inoltre, un'influenza reciproca tra struttura e funzione delle reti. Da un punto di vista strutturale, infatti, una rete poco estesa (di scarsa ampiezza), con poche relazioni (a bassa densità) ha scarsa capacità di funzionare, al contrario di una rete più ampia e connessa. E da un punto di vista funzionale, una rete in cui le relazioni sono ricche per via della qualità dei suoi legami, indipendentemente dal fatto che sia poco estesa, ha la facoltà di allargare il suo raggio d'azione, includendo altri nodi e costruendo altre relazioni. Le reti sociali, quando tendono a crescere, lo fanno in base a legami preferenziali. I singoli nodi aumentano le loro relazioni legandosi ad altri nodi sia in base al numero dei legami che già hanno, sia anche in base alla loro "fitness", una capacità attrattiva dovuta alle loro caratteristiche intrinseche. Le reti sono, infatti, regolate dalle cosiddette "leggi di potenza". La crescita avviene, quindi, sulla base di collegamenti preferenziali che privilegiano i nodi che già posseggono le connessioni più numerose (di maggior grado) e sono dotati della miglior "fitness". In conseguenza dell'operato delle leggi di potenza, la distribuzione di frequenza del numero di relazioni dei diversi nodi (definito grado, come diremo più avanti) non corrisponde con una curva gaussiana, a campana, ma con una curva caratterizzata da una lunga coda che scende lentamente verso destra, a significare la presenza di una piccola quota di nodi con grado elevatissimo. I nodi caratterizzati da un elevato numero di legami sono definiti "hub".

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Sono proprio le leggi di potenza che spiegano, ad esempio, la ragione per cui, nelle nostre società, i ricchi tendono a diventare, in assenza di un'adeguata regolamentazione, sempre più ricchi, aggravando, così, l'entità delle sperequazioni esistenti. In ambito sociale e sanitario le leggi di potenza spiegano, ad esempio, la distribuzione del numero di contatti dei singoli utenti coi servizi sociali o dei singoli malati coi servizi sanitari. Come si possono, allora, analizzare le reti che ci interessa esaminare? Prima di tutto c'è un lessico di cui tenere conto, proprio della teoria dei grafi. Teoria dei grafi Linguaggio sociologico Nodo attore sociale linea, arco relazione, legame Rete struttura sociale

Definita la corrispondenza dei termini tra teoria sociologica e teoria dei grafi, lo studio delle reti si basa sostanzialmente su 3 tappe: 1) raccolta della matrice dei dati In altri ambiti di studio, la tipica matrice per la raccolta dei dati è rettangolare n x k (dove n rappresenta il numero delle osservazioni e k il numero delle variabili raccolte per ogni unità osservazionale). Nell'analisi di rete, invece, la matrice è tipicamente quadrata (n x n, dove n è in numero dei nodi presenti nella rete). Il dato di ogni cella alla intersezione tra le righe e le colonne della matrice rappresenta l'esistenza o meno di una relazione tra 2 attori (1 se esiste, 0 se non esiste). In ambito sanitario e sociale, le reti di peculiare interesse sono quelle "egocentrate" che legano un determinato attore ad altri nodi per vari tipi di relazione (di supporto, affettive..) Immaginiamo, ad esempio, che A sia il nome di un malato in condizioni di parziale autonomia e in rapporto con la moglie (B), un amico intimo (C) e la sorella (D). La moglie e la sorella non si parlano per via di antichi rancori mai sopiti. L'amico intimo ha un rapporto esclusivo con lui, conosce la moglie e la sorella solo di vista. La matrice seguente è la rappresentazione formale della situazione che è stata descritta. A B C D Somma A - 1 1 1 3 B 1 - 0 0 1 C 1 0 - 0 1 D 1 0 0 - 1

2) Visualizzazione grafica della rete. Il primo grafico è la rappresentazione visiva della rete di cui abbiamo parlato. Possiamo, ora, immaginare che il malato, sentendo svanire le proprie forze, si impegni per il riavvicinamento delle persone che lo circondano e riesca in questo suo tentativo. I nodi, a questo punto, possono diventare tutti collegati tra loro. La prima rete, quella descritta, si trasforma, perciò, nella rete successiva che è definita "completa" perché tutti i nodi sono connessi tra loro.

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3) Analisi descrittiva delle proprietà della rete riguardo a: a) caratteristiche della rete complessiva - ampiezza della rete è data dal numero dei nodi che la compongono. L'ampiezza delle 2 reti è di 4 nodi - densità della rete = legami osservati / legami potenziali legami potenziali = (numero nodi) x (numero nodi -1)/2 in caso di relazioni biunivoche La densità della prima rete è 0,5; della seconda è 1. Nelle reti complete, quando ogni nodo è collegato con tutti gli altri, la densità è 1 Si definiscono "hub" nodi con numerosi legami diretti ad ampio raggio: sono tessitori di relazioni, hanno una funzione di interconnessione della rete. Quanto più la rete è interconnessa, tanto minore è il grado di separazione media tra 2 nodi scelti a caso nella rete stessa. Per stabilire il grado di separazione si fa riferimento al numero di nodi intermediari attraverso cui occorre passare per raggiungere il nodo selezionato. Ad esempio, se il grado di separazione è 6, occorre passare attraverso 5 nodi intermediari per raggiungere il sesto, quello selezionato. Ma la probabilità che 2 nodi scelti a caso possano entrare in contatto direttamente o indirettamente è anche legata alla qualità dei vari legami, alla ricchezza e intensità delle loro relazioni. Perciò lo studio delle reti non può essere solo quantitativo, ma deve arricchirsi di un approfondimento qualitativo. A questo proposito, occorre, per esempio, riflettere sulla natura della relazione esistente tra 2 nodi diversi. Si tratta di una relazione di scambio (basata sul potere contrattuale), di reciprocità o di dono? Inoltre, per ogni nodo si possono raccogliere dei dati "attributo" tipo il sesso, la data di nascita, la posizione sociale, la professione, atteggiamenti, preferenze.... Queste caratteristiche possono essere valutate nel loro grado di affinità in relazione a quelle di un attore specifico, ad esempio, del malato di cui si vuole studiare la rete sociale. La forza della relazione che lega il malato agli altri attori dipende dalle affinità di interessi, dalle consonanze emotive, dalla durata e periodicità della frequentazione. La relazione, per essere tale, deve comunque basarsi su flussi reali (di informazioni, beni materiali, immateriali, supporto reciproco...) che la qualificano come forte o debole, a seconda della natura ed entità dei flussi.

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7) Professioni di aiuto e prospettiva di rete La prospettiva di rete viene adottata quando l'operatore riconosce l'importanza della trama che connette i vari attori e vuole puntare sulle relazioni sia per gestire i problemi che per dare un maggior senso all'esistenza di tutti.

Con questa consapevolezza l'operatore può proporsi 2 obbiettivi:

- fare un lavoro "in" rete (diventare lui stesso un nodo della rete che si costruisce) e

- praticare un lavoro "di" rete, ossia di guida basata sul coordinamento, sulla direzione da dare e sullo sviluppo, inteso come crescita della consapevolezza degli attori, della qualità dei loro legami ed, eventualmente, dell'ampiezza della rete, adeguatamente estesa e connessa.

Facendo un lavoro di rete l'operatore diventa un nodo speciale della rete che contribuisce a costruire: diventa un “hub”, ossia un nodo con molteplici legami, un tessitore di relazioni capace di aumentare l'ampiezza e la densità della rete.

Egli deve decidere, insieme con le altre persone della rete di aiuto, se tentare di coinvolgere altri attori. Deve anche decidere su che tipo di relazioni investire (professionali, di reciprocità, di gratuità...)

Il suo impegno è gravato da un difficile equilibrio, ai margini di un crinale sottile che, da una parte, può far scivolare nell'esproprio (delle responsabilità degli altri, accentrando tutto su di sé) e, dall'altra, nella delega (quando si fugge dalle proprie responsabilità e ci si ritrae, delegando troppo ad altri).

L'esito dell'azione di una rete in cui l'operatore ha assunto un ruolo di guida non dipende solo dalla struttura e dalle relazioni che la caratterizzano, ma anche dalla difficoltà dei compiti. La rete informale, infatti, non può essere investita di compiti troppo tecnici o difficoltosi.

L'operatore di rete può retroagire sugli altri attori (feed-back) rinforzando atteggiamenti e comportamenti se la rete fa bene (favorisce così l'apprendimento) o inibendoli se fa male, oppure stimolando una "potenzialità" per svilupparla in una certa direzione.

Il feed-back è un accorto dosaggio di stimoli e rinforzi positivi o negativi. Esso assume spesso le modalità della "riformulazione", elaborata sulla base dei discorsi fatti dai vari attori, nella forma di un rinforzo rispetto a quanto è stato detto o di uno stimolo verso l'approfondimento. Lo stimolo può orientare la rete rispetto a possibili piste da esplorare su uno stesso livello logico oppure favorire l'approfondimento su un ulteriore livello, passando, ad esempio, dal livello dei giudizi di fatto al livello dei significati connessi coi fatti e, quindi, dei giudizi di valore o, infine, agli intrecci di questi significati con le storie particolari delle persone coinvolte che contribuiscono a rendere comprensibile l'espressione dei giudizi di valore da parte dei singoli (personalizzazione).

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Conclusione

Giunti al termine di questo corso, credo si possa condividere come la politica possa fare molto per la salute: prima di tutto per prevenire le malattie, fondamentalmente tramite la costruzione di società meno sperequate. Si possono riorientare le finalità della politica. Non si deve rincorrere tanto un irrealistico e rischioso progressivo incremento del Pil, ma soprattutto una sua distribuzione più equa. Lo sviluppo su cui puntare riguarda una crescita dell'equilibrio per migliorare la coesione sociale e la fiducia. Si può evitare la corrosione dei legami che uniscono le persone, l'ostilità e la sfiducia generate dalla disuguaglianza.

La politica può fare molto anche per migliorare la qualità della vita di chi si ammala. Pensare alla società in una prospettiva reticolare ci aiuta a interpretare l'impatto della salute e della malattia in modi nuovi e più veritieri. La malattia non colpisce solo il singolo paziente, ma anche la rete delle persone che gli sono più vicine

La prospettiva reticolare ci consente, inoltre, di valorizzare le reti sociali che si sono costruite per aumentare la capacità di auto-controllo dei malati sulle loro vite, anche in condizioni di menomazione. Infatti, l'assistenza dei malati nelle loro case e l'organizzazione a rete riassegnano ai malati cronici, soprattutto nelle fasi terminali dell'esistenza, la dignità e l'autonomia di cui devono restare titolari fino all'ultimo.

Sono molte le ragioni per cui dobbiamo riprendere a interessarci seriamente del bene comune. In questa epoca così buia per la politica, i problemi della sanità e della salute fanno appello alla sensibilità di tutti affinché le politiche sanitarie e sociali possano risollevarsi fino a raggiungere l'altezza richiesta dal loro ruolo. Lo scopo non è fare l’interesse dei potenti, come talvolta accade, ma migliorare il più possibile la salute e la qualità della vita di tutta la popolazione, a incominciare da chi sta peggio.