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1 Antonio Draghi LA CHIESA DI SAN MARTINO DI PIANIGA E IL POLITTICO DI FRANCESCO BISSOLO

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Antonio Draghi LA CHIESA DI SAN MARTINO DI PIANIGA E IL POLITTICO DI FRANCESCO BISSOLO

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AGRO CENTURIATO E TOPONOMI Il territorio comunale di Pianiga occupa la zona sudorientale dell’ agro centuriato che a nord di Padova ancora sussiste nella forma di graticolato e che corrisponde alla colonizzazione romana del II° secolo d.C. Il nome Pianiga fu registrato nel corso dei secoli anche come Oppelianica, Pilinica, Pillanicha, Piglianiga, Pejaniga. La prima supposizione toponomastica fu quella di Giacomo Giucoppo, dottissimo parroco del luogo dal 1803 al 1828, che ipotizzò che “la voce Oppelianica possa derivare da Oppilione Picauro, nobilissimo cittadino padovano e patrizio romano che fu console di Roma nel 524, nominato dallo storico Orsato nella sua Storia Civile di Padova “. Un’altra suggestiva supposizione fu proposta da Don Fortunato Giacomello nel 1905 il quale, constatato il luogo piano e gualivo su cui sorge effettivamente Pianiga, ed osservando che “in generale nelle molte variazioni del nome Pianiga prevalgono le consonanti p, l, n, e la vocale a con le quali in latino si forma la parola “planus” (…) non dovrebbe certo far maraviglia a nessuno se Pianiga derivi da sito o luogo tutto piano e gualivo”. Ma Carla Marcato, ricercatrice dell’Università di Padova, riportò con chiarezza la questione del toponimo a quella che sembra essere la sua vera matrice e al contesto della colonizzazione romana: “…almeno i due nomi di Pianiga e Cazzago risalgono all’epoca romana, o tardo romana, e sono in stretta relazione con il particolare assetto territoriale del tempo. Infatti la loro struttura linguistica è quella delle formazioni prediali, cioè di quei nomi derivati da un nome personale, o gentilizio, latino con l’aggiunta di un suffisso (ad esempio –ano, il più diffuso in Italia, oppure –ago o –igo (…) che corrisondono al latino –anus, -acus, -icus). Questi nomi così formati in origine hanno la funzione di aggettivi riferiti a parole latine come praedium o fundus, o al femminile villa (come nel caso del vicino paese di Caltana), che hanno a che fare con propietà fondiarie. Perciò si tratta del nome di una persona cui appartiene una proprietà, nome che poi passa ad indicare il luogo in cui sorge la proprietà, così si mantiene e si trasmette nel tempo. (…) Pianiga è un nome femminile e probabilmente è riferito a una villa, nel suo significato antico di proprietà terriera con abitazione, ed al nome del possessore che certo è il latino Pellius, attraverso una forma derivata ( e non documentatta dalle fonti latine) Pellianus, poi con il ‘suffisso prediale’ si ha Pellianica (villa), quindi Planiga o Pilaniga (come nell’anno 1085) ed infine Pianiga. Quindi è da escludere che Pianiga derivi dal latino planus perché sorge in un luogo pianeggiante: ciò è vero ma non c’entra niente col nome”.1 Questa impostazione scientificamente fondata e non fantasiosa come le altre permette di intendere anche molti altri toponimi che costellano l’area della centuriazione brentana fin quasi alla laguna , come, ad esempio, Massanzago, Cazzago, Oriago, Borbiago, Martellago; Scaltenigo, Zianigo; Salzano, Marano e lo stesso Mirano.

1 da “Pianiga, cercando fra le vecchie carte e le scarse memorie”, a cura del Gruppo Culturale di Pianiga, 1988.

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PIANIGA NEL MEDIOEVO “…habet fictum nemorum habet fictum de palù, et parte pra “ 2. Il paesaggio di Pianiga nel quattrocento era caratterizzato da boschi, paludi e prati. Ed è pensabile che lo fosse stato fin dal periodo di decadenza della agricoltura strutturata della romanità e così fosse persistito per alcuni secoli dopo gli sconvolgimenti alluvionali del 589 d.C. E’ solo dopo il Mille che il nome di Pianiga appare in un certo numero di atti amministrativi fra quelli raccolti nei tre volumi del Codice Diplomatico Padovano da Andrea Gloria. Nel XII secolo alcuni atti vengono rogati proprio a Pjaniga, segno dell’esistenza di un centro rurale che si andava formando attorno alla Pieve. Da essi sappiamo che anche a Pianiga molte terre appartenevano a potenti monasteri come quello di S. Cipriano di Murano o quello di S.Ilario. Quest’ ultimo era un cenobio benedettino di ragione veneziana che sorgeva nella zona delle Gambarare e che irradiò la sua influenza economica e culturale sull’entroterra per molti secoli. Tra le famiglie di origine feudale che la Repubblica Padovana (1183-1318) obbligava a risiedere in città vi era anche quella dei da Pianiga, dei membri della quale si ha memoria di un Germano, di un Rustichello, di un Guido. Si presume però che il vassallo principale di questo luogo fosse il visdomino del monastero di S. Ilario e che esso esercitasse anche il diritto di supramarigancia, cioè il diritto di nominare il marigo della villa, cioè il referente civile della popolazione. Al tardo medioevo , probabilmente, alla prima metà del XII secolo, risale anche la formazione delle altre ville che dal XIX secolo unendosi con Pianiga contribuirono a formare il suo territorio comunale: Mellaredo, Albarea, Rivale e Cazzago.

2 Da un documento dell’Archivio parrocchiale di Pianiga del 1463.

Annibale Maggi, Carta del Territorio Padovano, 1449 Particolare del settore est-nord-est del territorio. Il nord è a destra della mappa. In alto la città di Padova con le cinte murarie comunale e carrarese.In basso Venezia. La villa di Pianiga è indicata nel suo settore, a nord della Brenta, seppure non nell’esatta posizione.

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Mappa disegnata nel 1657 da Francesco Fiorini vice-proto al Magistrato alle Acque che ne trasse copia da una del 1616 disegnata da Alvise Gallesi Proto Ingegnere dello stesso Magistrato alle Acque, a sua volta ricopiata da una disegnata qualche mese prima da Lorenzo di Bianchi Pubblico Agrimensore della Magnifica Comunità di Padova. A sud del fiume sono evidenziati i tracciati dei Tagli di S. Bruson (BRENTA NOVA) e di Mira (BRENTA NOVISSIMA) e a nord il Taglio di Mirano scavato proprio agli inizi del ‘600. La mappa è stata predisposta per rappresentare il territorio e le ville a nord del fiume e misurare i terreni alluvionati in quell’area a causa della rotta del Brenta avvenuta nei pressi di Fiesso nel 1616. Fu coinvolto anche un ampio tratto del graticolato con le ville di Mellareo, Caltana, Rivale e Piglianiga. (A.S.V., Acque,……..) LA PARROCCHIALE INTITOLATA A S.MARTINO VESCOVO DI TOURS “Templum Hoc Vetustate pene consumptum Iulius Alvarotus Proton. Apost. Huius Eclesiae Administrator Restauravit A.D. MDLV – In Parrocchiali Eccl. S. Martini” Questa iscrizione ricorda il restauro della vecchia chiesa da parte del Protonotario Apostolico Giulio degli Alvarotti nel 1555. Vi si ricorda la vetustà che ha quasi “consunto” la fabbrica e la data, 1555, ci permette di ricordare che solo da alcuni decenni il territorio della Serenissima era entrato in un vero periodo di pace, dopo il grande rischio corso da Venezia di scomparire sotto i colpi della Lega di Cambrai. Il più antico documento in cui viene nominata la chiesa è del 1136. E’ un atto di vendita di un terreno posto vicino alla stessa da parte di Gualgagno da Fiesso a certi Gaido e Patavina. Il secondo documento del 1192 è il celebre testamento di Speronella Dalesmanini, rampolla di una delle più ricche famiglie padovane dell’epoca, moglie di Ezzelino da Romano detto il Monaco.La chiesa di S. Martino è fra le molte chiese beneficiate dalla ricca donna, i cui possedimenti si estendevano da Padova fino alla laguna. Alcuni indizi portano a supporre che l’edificio sia ancora più antico, addirittura che sorga sui resti di una chiesa paleocristiana. Certamente l’ubicazione all’incontro di un cardo e di un decumano della centuriazione induce all’idea di una persistenza edificatoria di carattere sacro che può andare molto indietro nella storia.

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IL POLITTICO DI S.MARTINO Tra le opere cutodite nella chiesa la più importante è il polittico dell’altare maggiore la cui collocazione deve aver suggellato il rinnovo cinquecentesco della chiesa voluto da Giulio degli Alvarotti apportandovi un segno assai rappresentativo dell’arte pittorica veneziana; una acquisizione, questa del polittico, in grado di elevare il tono della parrocchiale dai caratteri semplici di una pieve rurale della campagna padovana al rango di chiesa testimone di raffinata venezianità.

Per lungo tempo si attribuì quest’opera a Giovanni Bellini, quantomeno alla sua bottega. Ed in effetti alcuni caratteri richiamano i modi del grande maestro. Ma nel 1883 una commissione accademica di pittura, appositamente incaricata di visitare l’ancona in vista di un suo restauro, attribuì quest’opera a Francesco Bissolo (1470-1554) che fu effettivamente per un breve periodo allievo e collaboratore del Gianbellino.3 Il polittico si compone di 11 tavole inquadrate in una elaborata cornice di legno rivestita in foglia d’oro la cui imponenza forma l’impianto architettonico dell’altare. Due possenti colonne con capitelli corinzi reggono un timpano con la cuspide centrale scemata e una coppia di putti a tutto tondo ne reggono i monconi ai lati di una sorta di arca. Il trilite inquadra una sorta di fornice ad arco all’interno del quale è ricavata una balconata su tre livelli. Le velette formate dall’arco nell’incontro con le colonne e il timpano sono occupate da due figure di angelo a bassorilievo ciascuno dei quali tiene con la mano un grosso anello passante di legno; la consistenza e la disposizione dei due anelli (delle due s-ciòne) fa pensare che dovessero avere una funzione precisa, forse quella di reggere il velario che nei riti della settimana santa veniva posto sulle figure protagoniste della Passione, Gesù Cristo innanzitutto e Maria. 3 Francesco Bissolo pare sia nato a Treviso (1470/72) dove imparò l’arte da Girolamo da Treviso il Vecchio. Con Giovanni Bellini lavorò al Palazzo Ducale, dove la sua presenza è registrata nel 1492. Tra le poche opere firmate la Trasfigurazione nella chiesa di S. Maria Mater Domini a Venezia (1512) e l’Incoronazione di S. Caterina alle Gallerie dell’Accademia (1514). Anche una copia di questo polittico di S. Martino è conservata, con l’attribuzione al Bissolo, presso le stesse Gallerie. La critica dice di lui , dopo un primo periodo influenzato dallo stile figurativo e cromatico del Bellini, nella sua maturità si avvicinò allo stile manierista di Palma il Vecchio.

Il polittico di S. Martino che fa da pala all’altar maggiore.

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L’ordine gerarchico è preciso, regolato sia in orizzontale che in verticale. Tre fasce verticali, tre ordini orizzontali. In alto, al centro, da solo, il Padreterno domina. Sul piccolo timpano del palchetto a Lui riservato la colomba bianca simbolo dello Spirito Santo. Al centro, subito sotto il Padreterno, la seconda figura della Trinità, il figlio Gesù rappresentato bambino eretto in piedi sul ginocchio sinistro di Maria. A fianco il quasi coetaneo profeta del Messia Giovanni Battista, pure lui bambino, in atteggiamento già devoto. Sempre al centro, ma dell’ordine più basso, la tavola che raffigura il santo titolare della parrocchiale, Martino, rappresentato, secondo tradizione, mentre in sella ad un fiero cavallo bianco sta prendendo la decisione di un atto di carità e, sfoderata la spada, si accinge ad usarla non per colpire ma per tagliare il mantello e donarne una metà al povero semignudo appena incontrato lungo la strada. Qui osservo che, oltre a quella di Martino, una aureola dorata contrassegna anche la testa del povero. Non solo, la sua fisionomia richiama quella tradizionalmente usata per raffigurare Gesù. Il tutto dunque potrebbe non essere casuale ma rientrare in un disegno iconologico che intende da un lato ricordare le parole di Cristo riportate nel Vangelo -di considerare agni atto di carità come un atto d’amore verso lui stesso- ma anche di completare la rappresentazione trinitaria con una chiara immagine cristologica dal forte impatto simbolico. Passando agli otto santi v’è da dire che su alcuni le identificazioni dei vari studiosi convergono, mentre su altri vi sono opinioni contrastanti. Nel secondo ordine il primo che ci appare a sinistra è sicuramente S. Teodoro di Amasea, legionario romano e martire cristiano (fine III sec.- inizi IV°), santo molto venerato nell’impero bizantino e protettore del suo esercito. E’ quel San Tòdaro che fu protettore anche di Venezia già a partire dal VI secolo e che tale rimase, ma di secondo rango, dopo la dedicazione della città all’evangelista Marco, i cui presunti resti vennero scoperti ad Alessandria e da lì trafugati e portati a Venezia nel XIII secolo. Il santo che lo affianca dovrebbe essere S.Gregorio Magno papa (540-604). A destra della Madonna, sempre guardando il polittico, troviamo S. Sebastiano martire trafitto dalle frecce, il primo santo invocato come protettore dalla peste. Più in là, la figura di un giovane vescovo rappresenta S. Lodovico d’Angiò che fu appunto vescovo di Tolosa (1274-1297). I gigli dorati ricamati sul piviale sono lo stemma di casa d’ Anjou e non lasciano adito al dubbio.4 Nel primo ordine troviamo all’estrema sinistra un inconfondibile S.Pietro, date le chiavi che tiene in mano. Più problematica la identificazione del santo che lo affianca. Alcuni vi riconoscono S. Paolo, ma S.Paolo viene di norma rappresentato con la spada. Qui il santo tiene un libro con la sinistra e uno stilo con la destra e grazie alla ostentazione di questo strumento di scrittura io propendo per un evangelista; escludendo il giovane Giovanni, chè non se ne intravedono i tratti, non essendoci alcuno dei noti simboli degli altri tre - il bue, l’angelo, il leone- è difficile dire di quale di essi si tratti. Escluderei Marco, che è sempre rappresentato col Leone, tanto più a Venezia dove fu il leone stesso a divenire insegna e simbolo della Repubblica di S. Marco. Ed escluderei anche Luca, se non altro perché già divenuto simbolo di Bologna. Dovrebbe essere dunque S. Matteo, ma il dubbio non sia dato per sciolto. Passando ai due santi che occupano i palchetti di destra, il vecchio con cappa rossa e cappello cardinalizio e leone ai piedi è sicuramente S. Gerolamo (ca. 347-419), padre della chiesa. L’ altra figura di destra viene usualmente identificata con S. Giovanni Evangelista; ma anche in questo caso l’effigie non è proprio quella di un giovane. E poi c’è un particolare che non può essere trascurato: il santo tiene in mano anche lui un libro ma con l’altra regge un bastone da pellegrino, caratterizzato dal gancio al quale i viandanti erano soliti appendere la fiasca per l’acqua, di solito una zucca cava. Il santo pellegrino per antonomasia è l’apostolo Giacomo, detto Giacomo Maggiore, l’evangelizzatore della Spagna e suo protettore, ivi noto e venerato come Santjago nel grande santuario di Compostela.

4 Figlio di Carlo II re di Francia e di Maria d’Ungheria rinunciò al trono e si fece francescano. Nel 1296, all’età di soli 22 anni venne nominato vescovo di Tolosa, ma morì di lì a poco nel 1297.

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La Parrocchia di S. Martino di Pianiga ha sempre fatto parte della Diocesi di Padova, ma questo polittico non ha alcun riferimento iconografico ai santi patroni di questa Diocesi: S. Giustina martire, S. Prosdocimo, S. Daniele e S. Antonio. Quella del polittico è una iconologia tutta veneziana. Un dettaglio non da poco è inoltre da considerare: il pannello con la figura di S.Martino è inserito in modo poco consono con l’impianto architettonico della incorniciatura. L’architrave fregiato che separa i due ordini è malamente interrotto e sostituito con un esile e scomposto fregio ad arco. La tavola di S. Martino risulta quindi con una collocazione più elevata rispetto a quelle dei santi laterali. Sembra quasi che il tratto di architrave tagliato sia quello che sta ora collocato sotto la figura. In sostanza, è facile intravedere un adattamento. Ciò potrebbe essere un indizio per ritenere che l’opera del Bissolo fosse stata realizzata per un’altra committenza, ben più ricca di quella della villa di Pianiga, e dunque per un’altra collocazione- magari una chiesa urbana di Venezia- e che sia stata acquisita dall’intraprendente protonotario Alvarotti che la fece adattare con la sostituzione della immagine di S.Martino a quella di un legittimo santo titolare originario. ALTRE OPERE NOTEVOLI Il frammento di affresco con la presunta immagine di Maria (o di S.Lucia) Dell’apparato figurativo che decorava le pareti della chiesa nell’assetto tardocinquecentesco rimane un lacerto di affresco sulla parete a destra del presbiterio. E’ il tronco superiore di una figura femminile espressiva ma di sommaria fattura. Ha la mano destra sul petto in segno di contrizione e di carità, sentimenti che lo zelante pittore ha pensato di esaltare esagerando le proporzioni della mano stessa e delle dita. Qualcuno afferma che sia l’immagine di Santa Lucia. Ne dubito, data l’assenza della consueta simbologia che identificava questa santa protettrice della vista che solitamente regge un vassoietto con i globi oculari che le erano stati strappati come atrocità specifica del suo martirio. Che possa essere una immagine popolaresca di Maria nell’atto di ricevere l’annunciazione - il che fa presupporre che sul lato sinistro dell’arco del presbiterio vi fosse l’angelo Gabriele - mi sembra più verosimile anche se non è certo. La formella in marmo della Madonna col Bambino Sulla sinistra della parete che separa la navata dal presbiterio è collocato un piccolo bassorilievo in marmo di pregiata fattura. Rappresenta la vergine-madre che sostiene con dolcezza il bambino appoggiato su un davanzale. La striscia di panno srotolata che si vede in primo piano sembra alludere alla classica operazione del cambio della fasciatura, oggi si direbbe il cambio del pannolino. Il richiamo a questo gesto contiene un messaggio preciso: il figlio di Dio si è fatto veramente uomo nella pienezza di tutte le sue funzioni vitali; un bambino come tutti gli altri. E’ un’ opera che meriterebbe un approfondimento perché cela la mano di un artista di primo piano forse più riconducibile all’ambito fiorentino (o toscano) che non a quello veneziano.

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Il presbiterio e l’altare maggiore La balaustra e l’altare maggiore con i due angeli a lato risalgono al 1690 e sono opere dignitose di una bottega di scultori, forse quella padovana dei Bonazza. Le porte trifore ai lati sono interventi più recenti e corrispondono all’ampliamento della chiesa sui due lati del presbiterio. La cappella della fonte battesimale La cappella che ospita la fonte battesimale venne costruita e decorata agli inizi del XVII secolo. Un pittore ignoto ha rappresentato nei vari riquadri episodi della vita di S.Martino: il battesimo, il taglio del mantello e alcuni suoi miracoli di non chiara interpretazione. Sulla volta una ingenua ma efficace rappresentazione della gloria del Paradiso con Dio Padre al centro circondato da uno stuolo di cherubini, gli angeli bambini tutta testa molto appropriati in una fonte battesimale. Martino, il santo più popolare della Francia mediovale, ma non solo della Francia, nacque a Sabaria, in Pannonia, nel 315 d.C. e morì a Candes nella Turenna francese nel 397. Era un ufficiale dell’esercito romano e come soldato compì il famoso atto della spartizione del mantello. Battezzato nel 337 smise di fare il militare e si mise a pellegrinare in Pannonia e in Italia per combattere l’arianesimo. Fu ordinato diacono e poi prete da S. Ilario (360 d.C.) che fu evidentemente il suo maestro, fondò il primo monastero cristiano d’occidente a Ligurgè e, infine, divenne vescovo di Tours. 5 Ecco chiarito il rapporto di S.Martino con la zona brentana: fu S.Ilario, il titolare del più importante monastero benedettino dell’area perilagunare, a consacrare S. Martino. Quindi la titolazione della pieve di Pianiga è tutt’altro che casuale. Va poi ricordato chè, essendo santo di carità, molte chiese a lui votate erano dotate anche di ospizi per pellegrini e poveri viandanti. E i romei, i pellegrini diretti a Roma, passavano anche per le strade del graticolato per raggiungere i passi sul fiume Brenta. E’ assai interessante la figura in bronzo di S.Giovanni Battista che si erge dal coperchio della fonte battesimale. Il corpo dell’annunciatore del Messia è alto, ben tratteggiato nei lineamenti e proporzionato negli arti. La pelle che lo cinge e quella posata sulla spalle destra danno il senso della morbidezza organica, malgrado il metallo e malgrado i rischi della fusione. 5 E qui occorre una nota sulla devozione popolare a questo santo particolarmente diffusa in questa zona e nel Piovese. Da ricordare che S. Martino è il patrono anche di Piove di Sacco che era il centro della podestaria che comprendeva anche comuni come Stra, Camponogara, Campagnalupia e altri oggi compresi nella provincia di Venezia. Va ricordato anche che tutte le pasticcerie della zona in occasione della festa di S. Martino mettono ancora oggi in vendita un dolce di pastafrolla che rappresenta in un ingenuo bassorilievo il santo a cavallo con la spada e il mantello e il povero beneficato. Il dolce può essere di varie misure, ma è sempre contrappuntato da confetti e altri dolciumi colorati.

Il bassorilievo in marmo della Madonna col Bambino.

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Gli affreschi sul soffitto della navata Sul soffitto della navata, in tre riquadri, le tre Virtù Teologali: la Fede al centro, la Speranza e la Carità. La Fede è una giovane donna – paffuta e tutt’altro che misticamente sofferente- che, vestita da capo a piedi di bianco, regge la croce e una pisside con l’ostia. Due angiolotti, robusti e determinati, cacciano negli inferi una figura demoniaca, l’uno con una lancia, l‘altro con la fiaccola, fiaccola veramente prodigiosa dato che la fiamma vince la tensione ascensionale propria del fuoco. La Speranza è una giovane aggraziata, orante e fiduciosa, illuminata da un promettente raggio di luce. L’angiolotto che la affianca è una sorta di mozzo alato- morè era chiamato il ragazzo sui burchi- che regge una grossa àncora. Speranza come àncora di salvezza dunque. Un vaso di terracotta colmo di fiori collega il cielo dello spirito, nel quale galleggiano le figure, alla terra e ai terrestri. La Carità è invece una giovane madre col figlioletto in braccio, avvolto in un panno bianco e nello stesso mantello materno. Un putto (un putelo) di poco più grande è in piedi felice alla destra della madre. Un altro è placidamente addormentato, soddisfatto del bussolà che tiene con la mano donatogli in un gesto di carità. E’ forse tranquillo anche perché inconsapevole della enormità del piede destro della madre che gli incombe dappresso. Si dice che tali figure siano da ricondurre a qualche allievo della scuola del Tiepolo. Non azzarderei tanto. E poi, ancora una volta, non c’è necessità di attribuire a questo o a quel grande artista un’opera per cambiare la natura delle cose. Sono dipinti un po’ ingenui , un po’ naif, fatti da un onesto e divertito pittore. E poi erano da guardare da sotto in su e da una certa distanza. I quadri della navata: la Lavanda dei Piedi E’ certamente un’ opera di maniera ma equilibrata nella composizione. La testa radiosa di Cristo fissa il centro, ma gli sguardi degli apostoli stupefatti sono rivolti verso l’atto della asciugatura del piede destro di Pietro. Atto simbolicamente estremo di umiltà e di dedizione ai fratelli. I quadri della navata: l’ Ultima Cena Solo il Cristo e i due apostoli in primo piano e a figura piena sono ben delineati e rifiniti. Le altre figure sono solo accennate. L’Ultima Cena è una scena canonica, chissà quante volte replicata dalla bottega cui è stata commissionata questa della chiesa di Pianiga. E’ facile immaginare che data la limitatezza di denaro disponibile per la commissione, i fabbricieri e i parrocchiani ne fossero molto soddisfatti: fa comunque la sua figura ! La pala della Madonna del Rosario E’ un’opera pittorica di pregio che un tempo era collocata sull’altare della Beata Vergine. Non è firmata ma sull’angolo in basso a destra riporta una iscrizione con la data, 1567. L’iscrizione appare erosa nella parte sinistra più prossima alla cornice, ma vi si può leggere: MDLXVII-SOTO Il R.DO PRE. FRANCESCO DI SILVESTRI…MATTEO MASIN PELIZZARO E ZANON CALZAVARA. Sembra quindi essere stata commissionata da una confraternita- magari intitolata alla Madonna del Rosario- i cui reggenti erano in quel momento il Pelizzaro e il Calzavara mentre il Pievano era Francesco De Silvestri. Altra ipotesi è che il Pelizzaro e il Calzavara fossero i massari della chiesa. Importante associare la data al soggetto: il Concilio di Trento si è concluso nel 1563 condannando le riforme di Lutero e Calvino, confermando il culto della Vergine Maria e, in genere, dei Santi e delle loro immagini. Opera dunque attualissima e fortemente ideologica per quel momento storico: vi è l’esaltazione di Maria e della articolata preghiera in suo nome che ricorda i 15 momenti cruciali della Vita, della Passione e della Resurrezione di Cristo, i cosiddetti Misteri Gaudiosi, Dolorosi e Gloriosi qui felicemente ricordati in una vera e propria corona che circonda la Madonna, con i 15 ovali collegati

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fra loro da perle, in ciascuno dei quali è sintetizzato ogni singolo episodio. Geniale artificio pubblicitario !

Identifichiamo ora i santi che, in primo piano, due a sinistra, maschi, due a destra, femmine, formano la scena terrestre dei testimoni degni di venerazione, scena che sottostà a quella celeste della Madonna col Bambino. Le due figure maschili sono quelle di S. Sebastiano e di S. Rocco, con i loro canonici segni identificativi, le frecce del martirio per il bel giovane, il mantello, il bastone e i calzari da pellegrino per San Rocco che non si esime dal mostrare la piaga, ovvero il bubbone pestifero; al suo fianco l’amico cane accucciato, in questo caso ben ritratto ed espressivo. Sono Sebastiano e Rocco i due protettori dalla peste e da ogni altra epidemia, e per questo fra i santi più invocati e rappresentati nei secoli scorsi. A destra le due figure di santa sono state variamente identificate: ad esempio si è detto trattarsi di S. Elisabetta Imperatrice e S. Agata, oppure, per la figura seduta, S.Caterina di Alessandria. Ma gli emblemi che le accompagnano sono segni iconologici inconfutabili: la Santa con la Torre è Santa Barbara martire, quella in piedi con la grande croce è S. Giulia, martire pur essa, patrona della Corsica e ivi martirizzata e gettata in mare legata appunto ad una croce. Su questa pala varrebbe la pena di effettuare delle ricerche archivistiche; si potrebbero trovare indizi o prove per identificarne anche l’autore. Che si tratti di una mano felice chiunque lo può capire, pur in un quadro di maniera e puramente devozionale, dalla resa felice dei tratti fisionomici, dalle figure proporzionate, dai panneggi e dallo stesso scorcio di paesaggio. La trovata del rosario con le immagini dei Misteri e la abilità vignettistica di rappresentare con chiarezza le 15 scene in un quadro più grande come una ideale corona del rosario fanno poi pensare che l’autore avesse una buona mano ma fosse anche di buono spirito.

La pala della Madonna del Rosario

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La pala della Pietà La pala della Pietà o della Deposizione Anche questo dipinto, più tardo dell’altro, è degno di attenzione per la qualità pittorica pur se è opera di maniera.Rappresenta in alto la Madonna che regge il corpo del figlio morto appena deposto dalla croce; le siede a fianco S. Giuseppe, il suo compagno terreno e padre putativo-cioè creduto tale- di Gesù. I due santi in primo piano sono S. Antonio, il Santo padovano con il classico gambo di gigli in mano e un’ espressione giovanile e mansueta: le mani sono particolarmente riuscite, soprattutto la destra che regge il fiore. L’altro, con gli abiti cardinalizi, il pastorale e il berretto portato da un angelo chierichetto - che solo i santi possono permettersi- è S. Carlo Borromeo di nobile e ricca famiglia milanese ma con un ramo padovano, fervente promotore di una riorganizzazione della Chiesa nello spirito del Concilio Tridentino. Fin da bambino, da un analogo quadro, però più brutto e più piccolo che si trova nella sacrestia del Duomo di Montagnana, ho imparato che il tratto distintivo di S. Carlo era il cospiquo naso aquilino; per di più, mio padre raccontava spesso, come di una meraviglia del mondo ben degna di una gita –e lui c’era stato- della gigantesca statua di S.Carlo vicino al Lago Maggiore. Vi si poteva salire da dentro fino alla testa e nella grande cavità nasale vi stavano addirittura quattro persone; forse erano meno di quattro, ma l’idea del grande naso di S. Carlo mi si impresse per sempre. Il portico dell’ingresso principale e il portale settentrionale Il portico che protegge la porta principale che sta a occidente è detto anche pronao; non è proprio sbagliato, dato che sta proprio davanti alla porta, ma il termine è inappropriato per una costruzione certamente non magniloquente. E’ un portico elegante, contraddistinto da due colonnine i cui capitelli sono da ascrivere al XVI secolo; quindi si tratta di una aggiunta (o una sostituzione) all’impianto primitivo. Sulla lunetta che la volta a crociera disegna sulla facciata, sopra la porta è raffigurato ancora una volta il patrono nel celebre atto del dono con la scritta MDCXXXXV (1645)

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S. MARTINE ORA PRO NOBIS. Una più recente scritta incisa su pietra, PARROCCHIA DI S.MARTINO, è collocata anche sopra l’arco frontale. Non ci si doveva e poteva sbagliare tanto più che anche sopra la porta settentrionale è collocata la figura del santo. In questo caso un bel bassorilievo in pietra bianca d’Istria che su un piedestallo tiene il centro di un timpano ad arco scemo che completa l’apparato del portale molto curato. E sui due rami interrotti dell’arco non potevano mancare due angiolotti di servizio, quello di sinistra con la mitria vescovile di Tours, quello di destra monco del braccio sinistro che sicuramente reggeva il bastone pastorale. Il campanile Il campanile è una costruzione notevole, sicuramente di antico impianto anche se sono noti numerosi interventi e rimaneggiamenti anche recenti (1986). Sono interessanti gli incorniciamenti del fusto e quelli della cella campanaria e della cuspide, questi ultimi contrassegnati da archetti pensili. Eleganti pure i quattro pinnacoli che segnano gli angoli della terrazza quadra da cui svetta la cuspide sommitale. Il capitello votivo Vicino al campanile sorge un capitello votivo, eretto per implorare la fine della peste insorta nel 1550 e che aveva ridotto la popolazione maschile di Pianiga a soli 40 uomini adulti. Interessanti le tre formelle in cotto, due delle quali portano incise data e richiamo dedicatorio. Il sagrato recintato Tutte le chiese avevano intorno el sagrà, il sagrato, lo spazio consacrato adibito a cimitero.Poi, con la legge di prevenzione igienico-sanitaria di Eugenio di Beauharnais del primo ‘800, i cimiteri furono allontanati dalle chiese e dagli abitati. Qui a Pianiga resta il recinto del sagrato, persistenza insolita, con dei pilastrini su cui posano delle palle di pietra che reggono croci cimiteriali di ferro battuto. BIBLIOGRAFIA MINIMA AA.VV., Fiori di devozione e di riconoscenza, Bollettino Parrocchiale- Numero Unico , 14 luglio 1963 Cenni di storia del paese e della parrocchiale raccolti e pubblicati nel 25° anniversario della ordinazione sacerdotale del Parroco Don Ferdinando Bordin. R. BELLOTTO, A. CEOLDO, F. DANESIN, S. Martino Vescovo in Pianiga, s.d. ma ca. 1979 GRUPPO CULTURALE DI PIANIGA, PIANIGA, Cercando fra le vecchie carte e le scarse memorie, A cura del Comune di Pianiga con il contributo della Regione Veneto, 1986. RICCARDO ABATI, Pianiga, storia, parroci e civiltà contadina in un paese veneto, Pieve di Soligo 1991

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Antonio Draghi SANBRUSON DI DOLO

VILLA FERRETTI – ANGELI Architetto Vincenzo Scamozzi (1548 -1616)

La veduta dal fiume di Villa Ferretti nella incisione di Gianfrancesco Costa (ca. 1750). Essendo realizzata con la camera ottica la ripresa è molto realistica. Il disegno è di grande effetto e l’incisione è magistrale.

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L’ origine Nelle Dichiarazioni d’Estimo del 1582 Gerolamo Ferretti, cittadino di Vicenza, denunciava una “casa dominicale” nell’ Isola di San Bruson. Ed in effetti l’area su cui sorge la villa faceva parte della cosiddetta Isola di Sambruson intesa in senso ampio, e dunque possiamo ritenere che la casa denunciata nel 1582 fosse ubicata all’incirca nello stesso luogp ma fosse già vetusta e che ben presto fosse maturato l’intento di erigervi una nuova più conveniente dimora.6 Ed è Vincenzo Scamozzi, il grande architetto vicentino, a esser chiamato proprio da Girolamo Ferretti a progettare una nuova casa nel 1596. Questa è infatti la data che lui riporta in un disegno autografo che possiamo ritenere corrispondente al progetto che non appare nel suo trattato “L’ Idea della Architettura Universale” ma che viene edito a Leida nel 1713 in un compendio di numerosi disegni autografi di fabbriche scamozziane. La costruzione si conclude nel 1600 come certifica l’iscrizione posta sull’architrave del timpano mediano: HIERONYMUS FERRETTUS M.D.C.

Il disegno autografo di Vincenzo Scamozzi di Villa Ferretti (Du Ry , 1713)

6 E. Bassi, Ville della provincia di Venezia,Milano 1987 pag.133. A:Baldan in Stroia della Riviera del Brenta, Cassola 1982, III, p.311. riporta che i Ferretti già nel 1351 avevano acquistato a Sambruson ben 835 campi dai Benedetini di S.Gregorio di Venezia.

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L’ architetto: Vincenzo Scamozzi. Nato quarant’anni dopo il già celebrato Andrea Palladio, Vincenzo Scamozzi fu certamente il più importante architetto veneto fra quelli che gli sono succeduti e non solo della generazione a lui immediatamente successiva; ma non ne è stato allievo e ha perseguito una diversa idea dell’architettura, un’idea universale. E così infatti intitola il suo trattato: Dell’idea universale della architettura (1615). Ha operato nello stesso stato e nello stesso territorio in cui ha operato il Palladio, certamente nello stesso ambiente culturale condizionato dalla “sesta” del grande predecessore, ma ha evitato imitazioni o semplici accostamenti, perseguendo un proprio linguaggio in un rapporto più pragmatico con le tecniche del costruire, sperimentando modelli nuovi e compiacendosene, ispirandosi pur sempre a quelli della classicità greca e romana.Egli ha lavorato per una committenza varia, progettando e costruendo numerose dimore di campagna, molti conventi con le relative chiese e alcuni importanti palazzi di città a Padova, a Vicenza e a Venezia. Quando accetta la commissione del gentiluomo vicentino Gerolamo Ferretti, il già affermato architetto era impegnato in altri cantieri nel padovano e nel vicentino: il Convento dei Teatini a Padova, la casa dei Da Molin alla Mandria e il palazzo Priuli a Carrara, la villa Godi a Sarmego e la villa Priuli a Treville.

La facciata sud della villa in una foto del 1987 (da ELENA BASSI, Ville…)

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Descrizione del complesso Sicuramente molte sono state le modifiche e gli adattamenti, anche recenti, della distribuzione interna dell’edificio su entrambi i piani e il confronto fra le piante attuali e quella del disegno edito dal Du Ry permette di accertarlo immediatamente; ma l’impianto del corpo centrale di Villa Ferretti è quello improntato dallo Scamozzi7 e i prospetti sono esattamente quelli del progetto. Le facciate a nord e a sud, verso il Brenta e verso la strada, sono identicamente caratterizzate da una sorta di tempietto centrale con quattro grandi paraste sormontate dal timpano. Questo tempietto compartisce due piccole ali simmetriche contrassegnate pur esse da quattro più piccole paraste. L’ ordine scelto per i capitelli è quello jonico. La composizione formale è dunque rigorosamente semplice, volutamente semplice. A riprova di questa valutazione si consideri che Vincenzo Scamozzi divideva le proprie fabbriche di villa in tre categorie: quelle “onorevoli” dette anche “magnifiche e alla grande”, quelle di “mediocre grandezza” e quelle “comuni”. E mi permetto di non concordare con Elena Bassi quando afferma che forse, in questa classificazione, lo Scamozzi avrebbe catalogato la Ferretti fra quelle “comuni”.8 Basterebbe la ricchezza chiaroscurale che caratterizza i due fronti e la scelta dell’ordine jonico a distinguere questa fabbrica dalle altre più ordinarie e comuni che l’architetto ha progettato per altri committenti. Sul timpano della facciata a sud spicca l’arma della casata retta da due robusti angiolotti ben modellati. Sulla cornice della facciata a nord spiccano invece quattro eleganti guglie che contrassegnano e ingentiliscono le torrette dei camini, torrette assenti sulla facciata sud. Che non vi siano mai stati camini a sud non è possibile dirlo se non a seguito di ispezioni dirette, dato che le incisioni del Volkamer e del Costa riprendono entrambe la facciata nord vista dalle sponde del fiume. A questo proposito va ricordato che, indipendentemente dall’orientamento, quella rivolta al fiume era la facciata pubblica più importante delle ville sorte in Riviera; era il fiume Brenta la via principale e i proprietari giungevano da Padova e da Venezia alle proprie dimore quasi esclusivamente per via d’acqua con gondole e burchielli. Anche villa Ferretti aveva a nord il giardino, spazio esclusivamente padronale, sulla riva del fiume con tanto di recinto, cancello e approdo. A sud si apriva invece la “corte” accessibile dalla strada e sempre a sud erano rivolti gli annessi di servizio: la barchessa, la scuderia e la stalla, le cantine. Oggi la percezione si è invertita, si considera e si indica come facciata principale quella a sud accessibile dalla strada. Ed è deludente constatare che solo a quest’ultima si rivolga una qualche attenzione manutentiva mentre quella verso il fiume, che comunque è la facciata vista dalle migliaia di turisti che percorrono il naviglio con i vari burchielli moderni, sia del tutto trascurata. E’ pure sconfortante leggere, anche su pubblicazioni di alto livello, cose di questo genere a proposito di villa Ferretti: “sorge …a Dolo lungo il fiume che scorre alle sue spalle” e ancora insistendo “…e , alle sue spalle, verso il fiume,(ha) un grande giardino all’italiana suddiviso in comparti triangolari”.9 L’affaccio pubblico principale era, e dovrebbe

7 Il fatto di sapere che dall’ agosto del 1599 lo Scamozzi compie un importante viaggio che lo porterà in Francia e nel nord Europa fa dire a molti studiosi che l’architetto. come spesso gli sarebbe accaduto, non seguì direttamente anche l’esecuzione di questi lavori. A mio avviso ci dice solo che, semmai, la fase inaugurativa della costruzione non lo vide presente. Consideriamo infatti che qualunque proprietario avrebbe preferito contrassegnare la nuova casa con l’ anno centenario, piuttosto che con una data lunga da leggere e che segnava la fine di un secolo. Sarebbe stato certamente più beneaugurante l’inizio del nuovo secolo.

8ELENA BASSI, Ville della provincia di Venezia, pag. 133 9 Si veda la scheda Villa Ferretti Angeli a Dolo, di Ilaria Abbondandolo nel Catalogo C.I.S.A. della mostra su

Vincenzo Scamozzi, pag.357

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continuare ad essere, quello verso il fiume Brenta, oggi Naviglio, dove si sviluppa il giardino, la parte più nobile ed esclusiva fra le varie aree scoperte di un complesso di villa. Oltre al corpo padronale il complesso comprende una barchessa in linea con l’edificio principale, ma distaccata da quello da un passaggio coperto di un solo piano. Con i cinque fornici ad arco ribassato rivolti a sud, è quella stessa che vediamo ripresa dal fiume nella incisione di G.F. Costa (1750 ca.). L’insieme comprende ancora un altro edificio posto ortogonalmente al corpo padronale che, contrassegnato da un grande arco di portico, chiude la corte a est. Questo edificio non corrisponde affatto a quello che lo Scamozzi rappresenta in pianta nel disegno pubblicato dal Du Ry. In ogni caso questo corpo chiudeva la corte ma non esauriva le pertinenze. A ovest, ci dice infatti lo Scamozzi nel suo disegno, c’era il Bruolo che si estende à lungo la Brenta e a est il Bruoletto e una stradella che conduce alla Brenta fiume. Vi è una particolarità che va sottolineata: la dislocazione delle varie parti che componevano e compongono la proprietà rispetto alla strada (oggi via Brenta Bassa) : proprio in corrispondenza del punto in cui sorge l’oratorio della villa la strada fa un insolito e inaspettato gomito a perfetto angolo retto, per cui la villa appare incastonata in mezzo a due linee ortogonali di case accostate a schiera, una che si conclude sull’oratorio in direzione sud-nord, una seconda lungo la direzione est-ovest, con case che sembrano risalire quantomeno al XVII° secolo e che con ogni probabilità appartenevano alla stessa proprietà Ferretti, case da fittar o da coloni.

La cappella gentilizia Come si è detto, l’oratorio, cioè la cappella gentilizia della villa, si trova proprio in corrispondenza dell’angolo retto formato dalla strada e dalla disposizione delle varie pertinenze della proprietà originaria. E’ una piccola costruzione contrassegnata pur essa in facciata da quattro lesene con capitello però tuscanico, non jonico come quelli della villa, e dal sovrapposto timpano. Fra le lesene affacciano la porta e due finestroni. Sopra la porta uno stemma; sulla copertura, verso la villa, un campaniletto a vela. L’oratorio non appare nel disegno dello Scamozzi; questo però non vuol dire che non appartenga all’impianto

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originario del complesso. Nel periodo in cui appartenne ai Mocenigo l’oratorio divenne cappella sepolcrale di questa famiglia. Cronistoria del complesso dal 1600 a oggi ed esatta denominazione I Ferretti avevano a Sambruson parecchie proprietà, alcune addirittura dal 1351, e per chi ha cercato di compilarne un regesto cronologico non è stato facile destreggiarsi.10 Si sa comunque che fino al 1658 la villa appartenne e venne tenuta in uso dagli eredi di Girolamo Ferretti, ma che in quell’anno Chiara Monti, vedova di un Zambattista Ferretti, affitta la casa a Francesco Pisani. La figlia di Francesco Pisani nel 1650 aveva sposato un Grimani e quindi l’uso in affitto passa poi a questo nome11 fino a che nel 1748 Elisabetta Grimani sposa Ludovico Manin, il futuro Doge, e l’affitto passa a questo nuovo titolare. Quando nel 1789 Ludovico ottiene il dogato, la villa è da tempo divenuta di sua proprietà ed anch’egli, a sua volta, la affitta a Marco Contarini. Alla caduta della Repubblica il Contarini vi risiede mentre i Ferretti possedevano ancora nelle vicinanze quattro “casini”, cioè piccole case e molti campi. Deceduto quello che fu l’ultimo Doge nel 1802, la villa è ereditata dai nipoti che continuano a darla in affitto finchè nel Catasto Napoleonico (1812) se ne dichiara proprietario un certo Antonio Rigoni e a distanza di qualche decina d’anni, nel catasto successivo, quello austriaco ne risulta proprietario un tal Gian Battista Angeli, da cui il nome con cui viene comunemente citata ancor’oggi la villa. Ma la denominazione Angeli apparirà a tutti inopportuna se si viene a sapere che la proprietà Angeli durò molto poco, dato che un ramo dei Mocenigo vi subentrò ancora nell’ 800. Durante la seconda guerra mondiale la villa fu requisita e abitata da sfollati e subito dopo la guerra adattata ad ospitare alloggi popolari. Fu poi comprata dalla Sicedison (poi Montedison) che vi fece apportare pesanti lavori di consolidamento statico e ne rinnovò gli infissi. Passata alla Provincia di Venezia, ospitò a lungo il Liceo Scientifico di Dolo; ora vi ha sede l’Enaip Veneto, un centro per la formazione professionale. La villa dovrebbe dunque chiamarsi solo Villa Ferretti non tanto perché quella fu la famiglia che ne detenne più a lungo la proprietà ma in quanto famiglia che la fece edificare da Vincenzo Scamozzi associando il nome della propria committenza al nome del grande architetto che ne ideò il progetto e che condusse l’opera a compimento. Questo per correttezza storica e filologica. Se poi si dovesse, per contribuire a farla meglio conoscere, associarla al nome di Ludovico Manin che ne ebbe la proprietà negli ultimi anni del ‘700, questo potrebbe essere considerato più corretto e comunque appropriato che non Villa Ferretti Angeli. Villa Ferretti Manin dunque. Lo stato attuale e la scarsa valorizzazione dell’edificio nel novero delle Ville della Riviera del Brenta Allo stato attuale la villa vede un utilizzo certamente importante sotto il profilo civile e sociale. Ma la proprietà pubblica, nella fattispecie la Provincia di Venezia dovrebbe considerare finalmente la necessità di valorizzare anche culturalmente e turisticamente questo edificio che rappresenta uno dei più significativi esempi di villa della Riviera, oggi quasi totalmente misconosciuta ai più, siano essi i cittadini della zona o siano essi i clienti dei tours organizzati sui battelli. Sicuramente la conoscono e la cercano quei viaggiatori italiani e stranieri che si avventurano sulle nostre strade in bicicletta e che fanno rientrare la villa Ferretti di Vincenzo Scamozzi fra le tappe più significative delle loro escursioni.

10 V. ELENA BASSI, Ville della provincia di Venezia,,pag. 133-134 11 Ed in effetti nella incisione del Volkamer del 1714 l’intestazione riporta il nome della famiglia che allora lo aveva in affitto: Palazzo del N.H. Grimani Burgunzi al Dolo.

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Valorizzare non comporta necessariamente la predisposizione immediata di un progetto di restauro, che è una operazione complessa e onerosa, cosa che comunque va messo in programma. Si può partire però con una campagna accurata di studi e rilievi, come fase comprensiva e propedeutica, utile a discernere gli interventi più appropriati di restauro; si valorizzi la visibilità e l’accessibilità dal Naviglio predisponendovi un approdo, si inserisca la villa fra quelle (poche) visitabili della Riviera, rendendola effettivamente accessibile anche all’interno, e si divulghi la notizia. Sarebbe già un contributo concreto, e non troppo impegnativo, alla tanto declamata necessità di potenziare il turismo colto e di qualità nella Riviera del Brenta.12 Ricordando, da ultimo, a chi sogna di trasformare la ex Strada Statale 11, oggi Regionale, in un “boulevard” senza veicoli o quasi – magari così giustificando implicitamente la realizzazione della camionabile lungo l’asse dell’Idrovia - che il percorso da valorizzare in quanto matrice della Riviera è quello d’acqua del Naviglio, fino al 1858 principale e storico corso del fiume chiamato la Brenta Vechia. La strada , o meglio le strade, di riviera , quella nord e quella a sud, ne erano struttura complementare. Oggi il rapporto è sicuramente variato ma un progetto complessivo di valorizzazione deve ricondurre la percezione degli abitanti e dei visitatori a percepire e considerare l’acqua del grande fiume Brenta come elemento matrice di quello splendido borgo lineare che è la Riviera del Brenta, anticipo o continuazione della più bella strada d’acqua del mondo, il Canal Grande.

Bibliografia minima

SAMUEL DU RY, Oeuvres d’architecture de Vincent Scamozzi tin architecte de la Republique de Venise : contenues dans son idèe de l’architecture universelle (...) par Augustin Charles d’Aviler (...) traduit nouvellement par Samuel Du Ry, Leida 1713 FRANCO BARBIERI, Vincenzo Scamozzi, Vicenza 1952 ALESSANDRO BALDAN, Storia della Riviera del Brenta, Cassola 1982

ELENA BASSI, Ville della provincia di Venezia, Milano 1987 C.I.S.A.Centro Internazionale di Studi di Architettura) ANDREAPALLADIO, Vincenzo Scamozzi 1548-1616, Catalogo della Mostra 2003-2004 a cura di Franco Barbieri e Guido Beltramini, Venezia 2003

FRANCO BARBIERI, Appunti scamozziani 1-Villa Ferretti a Sambruson del Dolo,in “Annali di Architettura” (Rivista del Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio), 21 (2009), pp. 127-135

12 Un ulteriore contributo di poca spesa verrebbe dall’evitare nella descrizione che viene fatta di questa o di altre ville nei siti internet ufficiali della Provincia, del Comune o dell’APT svarioni, inesattezze o interpretazioni fantasiose di toponimi e di storie. Approfitto per richiamare l’attenzione, anche da queste righe, sulla necessità di ripristinare ufficialmente la compiutezza di due toponimi corrispondenti al nome dei più importanti centri della Riviera, Mira e Dolo. Senza ricorrere a grandi proclami sulla lingua veneta sarebbe giusto ripristinare la giusta scrittura “la Mira” e “il Dolo” cioè con tanto di articolo. Sarebbe un atto di responsabilità storica e culturale che permetterebbe da un lato, di orientarne correttamente la interpretazione etimologica , secondo quanto dimostra Mario Poppi (v. In Sancto Ambrosone ) , e dall’altro di far corrispondere la scrittura al modo di esprimersi popolare tuttora in uso comprensivo di articolo: “sta matina vago al mercà al Dolo e stasera se vedèmo ala Mira” !

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Disegni di rilievo tratti da Elena Bassi, Ville della Provincia di Venezia, Milano 1987. Planimetria d’insieme, piante del piano terra, del piano primo, prospetto sud sulla corte.

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Il prospetto sud e la corte con la cancellata visti da via Brenta Bassa in una foto del 1987.

Una foto della facciata nord che evidenzia il forte effetto chiaroscurale delle lesene aggettanti per rafforzare l’effetto scenografico di una costruzione volumetricamente modesta ed esile.

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Antonio Draghi

LUGO DI CAMPAGNALUPIA (VE)

LA CHIESA DELLA NATIVITA’ DI MARIA

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Lugo, un bosco sacro fra terra e laguna A evocare il paesaggio del luogo in epoca preromana e romana potrebbe bastare il toponimo, Lugo. Il termine deriva linearmente dal latino lucus, che significa bosco sacro. I boschi, insieme alle paludi- gli specchi delle quali affiancavano e talora inglobavano i corsi sinuosi dei fiumi nel loro lento defluire verso il mare- caratterizzavano il territorio intorno alla laguna. Questo tipo di paesaggio persistette fino al medioevo, riducendosi poi fino a scomparire, coi disboscamenti, con la regolazione delle acque e con le bonifiche susseguitesi dal XV secolo in poi. La Brenta –Meduacus in latino- è il fiume matrice di tutto questo territorio. Le sue acque si dividevano in due rami: il Meduacus Major a nord scorreva più o meno lungo la linea dell’attuale Naviglio; il Meduacus Minor scorreva invece a sud provenendo da Padova lungo quello che attualmente è il corso del Cornio, sfociando in laguna nei pressi di Lova e spingendo le sue acque in mare fino alla bocca di porto di Malamocco. La Chiesa di S. Maria sorse lungo questa via di comunicazione fluviale che ebbe una importante funzione di collegamento della città e del territorio di Padova con la laguna e il mare fino a quando, questo ramo del Brenta venne ad esaurirsi. A nord del piccolo nucleo di case che forma l’attuale abitato di Lugo, si trova il paese di Lughetto, il cui nome è il diminutivo di quello del primo; la sua chiesa risale al 1509 ma il nuovo villaggio è cresciuto forse a partire dal Taglio Novissimo della Brenta e dalla sua entrata in funzione come canale navigabile agli inizi del XVII secolo. Poco più a sud è Lova, il cui toponimo deriva dal latino lupia (luvia), che significa lingua di terra sabbiosa. Qui c’era certamente un porto fluviale all’incontro del Meduacus Minor con la laguna; da qui le barche padovane potevano prendere varie direttrici lungo i canali lagunari e le barche da Venezia potevano viceversa risalire verso Padova. Più all’interno, a ovest delle paludi e dei boschi, stava la terra coltivata, più alta e asciutta, la campagna degli uomini di Lupia. Ed è a partire dal XII secolo che, dopo la riduzione di rango del ramo minore del Brenta, dopo la decadenza del porto fluviale, dopo il terremoto del 1102 che pare abbia provocato l‘abbassamento dei suoli e la dilatazione delle paludi lagunari e dell’acqua salsa, fu proprio Campagna a diventare il centro più popoloso dell’area, anche se Lova -Lupia riprenderà, a partire dal ‘600, una certa rilevanza nella rete dei trasporti fluviali segnando il punto di incontro del Novissimo con il Fiumicello di Piove.

Tavola Peutingeriana, particolare dell’Adriatico superiore con Altino e Aquileia. Insieme ad alcuni numeri che indicano le distanze in miglia, leggiamo, in corrispondenza del nostrro entroterra lagunare, ad portum,Maio meduaco e Mino meduaco. La mappa, risalente al periodo imperiale romano, è disegnata su un striscia di pergamena lunga 6,83 metri e larga solo 34 centimetri, per cui l’insieme dei territori rappresentati è assai deformato.(Nationalbibliothek di Vienna).

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L’AVVENTURA IN TERRA BRENTANA DELLO SPARTANO CLEONIMO Nell'anno 308 avanti l'era volgare lo spartano Cleonimo, navigando il mare dell'Adria, all'avventura e senza meta prestabilita, entrò colla sua flotta per le foci del fiume Medoaco ed avanzò tra le melmose sue rive fino ad un punto dove gli si aperse la veduta d’un lago spazioso, che principiando ad Aureliacus si estendeva dalla parte di mezzodì e più in là la veduta di terre ridenti e ubertose. Cleonimo, non potendo per la grossezza delle sue navi penetrare nel Medoaco, che continuava al di là del lago, gettò le ancore e mise a terra alcuni dei suoi, ingiungendo loro di esplorare diligentemente il paese e di rendernelo diligentemente informato. Dopo alcun tempo i messi tornarono con notizie lusinghiere e incantevoli. Tre vici doviziosi stavano d'accosto al fiume e campagne fiorite si estendevano fino a una popolosa città non lontana da una catena di ridenti colline. A tale annunzio l'intraprendente condottiero si credette da tanto da poter fare delle conquiste. Lasciati alquanti alla custodia delle navi, sbarcò tutte le sue genti, che, avide di rapina, assalirono i vici indifesi e dopo di averli saccheggiati vi appiccarono il fuoco. Avrebbe forse anco fatto di più, se gli abitanti di Patavium, venuti a cognizione di tali non provocate ostilità, non si fossero mossi ad affrontare gli invasori e proteggere il paese. Aspra guerra successe, ma l'esercito di Cleonimo venne alla fine sconfitto. Decimato di molto, fuggente coi Patavini alle spalle, poté a gran ventura raggiungere le navi ed, imbarcatosi, alla meglio prendere il largo. I nostri recuperarono quanto era stato rapito, presero ai nemici anco di più, s'impadronirono di varie loro navi e tornarono trionfanti alla loro città. Una tanta vittoria continuò a celebrarsi annualmente ed in questa circostanza fingevasi una battaglia navale presso al delubro (tempio) di quella divinità (Giunone). (Traduzione- Riduzione da Tito Livio, da Luigi Dian, Intorno al Comune di Vigonovo, 1873) PAESAGGI DLL’ENTROTERRA VENETO DESCRITTI DA CASSIODORO NEL VI SECOLO "Infatti, quando il mare sarà chiuso a causa dei venti furiosi, si spalanca per voi una via attraverso le amenissime località dei fiumi. Le vostre navi non temono la furia dei venti: con somma facilità sfiorano la terra e, pur incagliandosi frequentemente, non si rovinano. Viaggiano trainate con le funi quelle navi che erano solite restare alla fonda e, cambiata condizione, gli uomini le aiutano a piedi. le trascinano senza fatica e, per timore di usare le vele, si muovono più velocemente dei naviganti. Mi piace riferire in quale modo scoprimmo dove sono le vostre abitazioni: Le Venezie, una volta degne di lode, piene di nobili, a sud toccano Ravenna e il Po, a est godono soavemente della soavità del lido ionico dove l'alterna marea avanzando con rifluente inondazione ora ricopre, ora rivela l'aspetto della campagna. Qui le vostre case sono simili ai nidi degli uccelli acquatici. E veramente si scorge ora un paesaggio terrestre, ora insulare, tanto che pensi di essere alle Cicladi, quando all'improvviso scorgi l'aspetto dei luoghi trasformato. Certamente, a somiglianza di quelle, si vedono dall'acqua a grande distanza vaste e sparse aree abitabili che non fornì la natura , ma la

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diligenza degli uomini. Infatti colà il terreno è tenuto compatto con vimini flessibili intrecciati e non si dubiti che la fragile difesa resista all'onda marina. (da CASSIODORO, "Epistole" 1, XII )

Questa miniatura del Tacuinum Sanitatis della Osterreichisches Nationalbibliothek di Vienna ben può rievocare il paesaggio e le condizioni di vita nel territorio perilagunare durante il medioevo. Prima dei diboscamenti e delle bonifiche delle aree paludose che procedettero a partire dalla seconda metà del XVI secolo, estese aree boscate convivevano con zone vallive di acqua dolce collegate al sistema dei fiumi e alla rete dei canali. La barca era sicuramente il mezzo di trasporto per eccellenza ; essa permetteva di spaziare funo alla laguna , a Venezia e a Chioggia, e di risalire fino a Padova. Le imbarcazioni leggere e a fondo piatto non potevano che essere come le “mascarete ala valesana” o i “batèi a paradìo” che conosciamo ancora oggi, se non altro per le manifestazioni dimostrative e rievocative come qulla organizzata per la Sagra di Santa Giustina di Lova. Le attività prevalenti erano la pesca e l’allevamento di crostacei come i granchi e i gamberi. Le abitazioni e i ricoveri di barche e attrezzi erano di canne palustri; l’allevamento di pennuti e la caccia di uccelli acquatici forniva un ulteriore fonte di alimentazione e la merce di scambio per avere cereali e farine dai contadini della campagna.

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Annibale Maggi, Carta del Territorio Padovano, 1449 - Biblioteca Ambrosiana-Milano Particolare del settore est-nord-est della mappa. Il nord è a destra. In alto la città di Padova con le cinte murarie comunale e carrarese.In basso Venezia. La villa di Lugo ( in basso a sinistra) è contraddistinta come negli altri casi dal simbolo di una chiesa; ma la chiesa è in questo caso è più grande di tutte le altre della zona e di quelle di tutto il territorio rappresentato. Ciò può indicare che in quel periodo (metà del XV secolo), come vedremo, quello di S.Maria di Lugo era un santuario molto noto e frequentato e che per i padovani era stato uno dei capisaldi dei loro territori orientali . E Annibale Maggi era un padovano e questa carta esprime tutta la nostalgia dello stato carrarese sconfitto e inglobato da Venezia nel 1405

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Le origini della chiesa e la sua titolazione Nel VI-VII secolo Lugo si venne a trovare lungo l’incerto confine fra l’area di influenza bizantina a sud e quella di influenza longobarda a nord. E’ certamente suggestiva l’ipotesi che un primo luogo di culto mariano sia stato edificato in quel periodo- magari sui resti di un tempietto pagano che sorgeva all’interno del bosco sacro nei pressi della strada consolare romana Ravenna-Aquileia- e sia stato intitolato alla Natività di Maria proprio per essere questa ricorrenza oggetto di devozione sia da parte dei bizantini che dei longobardi. Ma ritengo sia una ipotesi che si giustifica solo per l’incertezza confinaria che caratterizza la conoscenza di quel periodo storico. Solo una delle due parti deve averne promosso la fondazione e propendo per la parte bizantina; è una questione tutta da approfondire, anche se gli indizi raccolti e raccontati di seguito portano in questa direzione. Sulla ricorrenza religiosa della Natività di Maria vale la pena di tratteggiare alcuni passaggi storici. Il Concilio di Efeso del 431 d. C. sancì la qualificazione di Maria quale Madre di Dio e sempre nella prima metà del V secolo fu fissata la data dell’ 8 settembre per la celebrazione della Natività di Maria. La figlia di Anna e Gioacchino, la prescelta a diventare la madre del Cristo Dio, veniva a dare inizio nascendo a tutta la vicenda cristologica. L’antico calendario liturgico infatti iniziava a settembre con la nascita della Madonna e finiva ad agosto con la sua Assunzione in cielo (15 agosto). L’anno liturgico si divideva infatti in tre fasi: la prima, che si apriva a settembre e si chiudeva con il Natale di Cristo e con l’Epifania; la seconda, il cosiddetto polo cristologico, si chiudeva con la Pasqua e la Pentecoste; la terza si chiudeva con la chiamata in cielo di Maria. E’ interessante ricordare che l’ufficiatura della festa bizantina della Natività di Maria, in uso almeno dal IX secolo, durava sette giorni; si apriva il 7 di settembre con la vigilia, poi la festa vera e propria dell’8 settembre, quattro giorni di dopofesta e, infine, la chiusura del ciclo il 13 di settembre.. Secondo una tradizione non confermata da adeguate ricerche si fa risalire l’edificio attuale alla seconda metà dell’ XI secolo. Va detto che la chiesa, dal momento di questa riedificazione, è sempre appartenuta alla Diocesi di Padova e tuttora vi appartiene. Nel 1399 la chiesa fu una delle tappe più importanti del cosiddetto “movimento dei bianchi”, un fenomeno di frenesia religiosa sorto in Umbria e che pervase molte contrade italiane comprese le venezie e il padovano. Uomini e donnne vestiti di una identica cappa bianca e muniti di un cappuccio appuntito dello stesso colore, si riunivano presso una chiesa e in processione si trasferivano pregando e cantando in altri luoghi di culto , incontrandosi con altri cortei dello stesso movimento. I predicatori che ne prendevano la testa, parlavano della caducità della vita terrena, della necessità di purificare l’anima in vista della morte e di un necessario rinnovamento ecclesiastico. Nel Liber regiminum padue, in una cronaca di poco più tarda, troviamo scritto: “Molti furono quelli che portarono per oltre un mese quella veste, recandosi ogni giorno nelle chiese di Padova e del distretto padovano; e in particolare in quella di S. Maria di Lugo tutti andavano, quell’anno(1399), con grandissima devozione.”13 Durante le contese territoriali fra padovani e veneziani nel XIV secolo si ricorda una “bastia di S.Maria di Lugo” che fu baluardo militare dei padovani che vi resistettero fino alla caduta definitiva dello stato carrarese nel 1405. La chiesa di S.Maria proprio in quegli anni fu significativamente unita coi suoi beni alla Sacristia del Duomo di Padova, restando saldamente in mano a quel Canonicato.14 Non si trattò dunque solo di una appartenenza della chiesa al territorio della Diocesi ma di una proprietà vera e propria. Sappiamo che tale luogo di culto era considerato un santuario, meta di continui pellegrinaggi. Di queste frequentazioni e di questa devozione abbiamo significativa riprova in un documento di Papa Eugenio IV che riguarda proprio S. Maria di Lugo datato 22 13 Da MARIO POPPI, In Sancto Ambrosone, pag. 85-86 14 Sulla parete interna sinistra del presbiterio è infissa una lapide con la seguente iscrizione: ISTA ECCLESIA UNITA SACRESTAE MAIORI R.di CAPITULI CANONICORUM PADUE

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novembre 1438: “…ingens fidelium moltitudo, devotionis causa, confluere consueverit…”15 e ancora “…Cum itaque accepimus ad ecclesiam campestrem Beatae Mariae Virginis de Lugo, Paduanae diocesis, ob plurima que Virginis eiusdem meritis, Altissimus inibi dignatus est operari miracula.”16 Premesso tutto ciò il papa Eugenio IV, che era il veneziano Gabriele Condulmèr, concede delle indulgenze: “…omnibus vere penitentibus et confessis, qui, in Nativitatis beatae Marie Genitricis Domini Nostri Jesu Christi festo, a primis vesperis usque ad secundas vesperas, ecclesiampredicram devote visitaverint et ad reparationem, et fabricam predictam manus adiutrices porrexerint, unum annum de iniunctis eis penitentis misericorditer relaxamus presentibus, perpetuis futuris temporibus valituris”. Chi avesse dunque visitato il santuario, dopo essersi confessato e sinceramente pentito e avesse dato un contributo alla fabbiceria della chiesa, e dunque alla Sacristia del Duomo di Padova, avrebbe goduto della indulgenza di un anno, che voleva dire la remissione di un anno dal periodo di pene del purgatorio che aveva accumulato a causa dei suoi peccati. Con questo riconoscimento, appena si sparse la voce, la notorietà e la frequentazione del piccolo santuario sicuramente rifiorirono. E questa situazione durò almeno per tutto il secolo XV, cioè almeno fino alle vicende belliche della difesa veneziana contro la Lega di Cambrai; e quella di Lugo riprese ad essere una tappa privilegiata del cammino dei pellegrini verso Roma, punto di convergenza di vari tragitti verso la strada che si sarebbe da allora chiamata Romea. A me preme però sottolineare che la concessione papale si riferisce a un lasso di giorni preciso e ben delimitato per un utile pellegrinaggio : “in Nativitatis beatae Marie Genitricis Domini Nostri Jesu Christi festo, a primis vesperis usque ad secundas vesperas” cioè esclusivamente in occasione della festa della Natività di Maria, dal primo vespro al secondo vespro. Il primo vespro era quello della vigilia della ricorrenza dell’ 8 settembre e il secondo vespro non poteva che essere quello che chiudeva il ciclo dopo sette giorni, il 13 settembre, il tutto cioè secondo quella che abbiamo visto essere stata l’antica ufficiatura bizantina della Natività di Maria. Ho appreso che questa tradizione è ancora oggi ricordata malgrado il lungo periodo di abbandono, di privatizzazione e di degrado.C’è dunque un filo che lega l’indulgenza di Eugenio IV alla liturgia bizantina; questo filo può condurre alla giusta chiave di lettura delle origini della chiesa e della sua titolazione. Potrebbe essere l’indizio decisivo per attribuire ai bizantini la sua fondazione.

In questa carta cinquecentesca di Cristoforo Sabbadino sono evidenziati i progetti di ulteriore taglio del Brenta che anticipano quello del Taglio Novissimo che verrà realizzato nei primi anni del secolo XVII. Nel territorio fra Lova e Lugo vengono rappresentati un labirinto di canali e ampi tratti di terre vallive.

15 Trad.: “ E consuetudine che una ingente folla di devoti vi affluisca” 16 Trad.: ”Infatti abbiamo appreso che accorre alla chiesa campestre della Beata Vergine Maria di Lugo della Diocesi di Padova, per i molti miracoli che l’ Altissimo si è degnato di operare per intercessione e per merito della stessa Vergine Maria”

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I caratteri architettonici L’impianto della piccola chiesa è molto semplice. E così, come un edificio semplice, la descrisse il Vescovo Pietro Barozzi in occasione della sua visita pastorale nel 1489: “ est lata pedes 22, alta usque ad contignationes 20, longa 35 non computata cuba que est in oriente” : cioè larga circa m 7,80, alta fino alle capriate m. 7.10, lunga m. 12,30 circa esclusa la cappella presbiteriale che è a oriente. Poi il Barozzi segnala che vi sono quattro finestre sulla parete meridionale, un oculo su quella occidentale e una finestra di nessuna eleganza ( sine ulla elegantia) nella cappella. Il Barozzi segnala dei dipinti alle pareti e nota che il pavimento è in mattoni posati a spina di pesce. Nella descrizione manca un cenno alla torre campanaria, l’elemento architettonico che più caratterizza questa chiesa per la sua pregiatissima fattura e per la posizione all’angolo di nord-ovest dell’aula. Di questo campanile e della sua insolita posizione si è molto congetturato, arrivando qualcuno alla conclusione che la torre sia successiva alla chiesa e che vi sia stata incastrata in una data imprecisata. Proprio il fatto che nella descrizione del Barozzi il campanile non sia citato, secondo alcuni farebbe pensare che esso sia addirittura successivo al 1489. L’ architettura assai semplice della chiesetta contrasta a prima vista con la ricercata e raffinata tessitura muraria della torre. Essa parte da un tronco di base a tessitura piena da cui si erge un fusto intermedio alleggerito da tre lesene che terminano con una cornice di archetti pensili. Dal fusto intermedio si erge una cellula dalla struttura a colombara, poi ancora un tratto cieco prima della cella campanaria con la classica bifora aperta su ogni lato. A mio avviso è nei caratteri architettonici non ordinari di questa torre che vanno individuati gli elementi più antichi e pregiati del piccolo complesso di S. Maria di Lugo. E d’altra parte perchè mai, ci si pensi, si sarebbe deciso di azzardare una costruzione alta e articolata demolendo l’angolo della chiesa, quando si sarebbe potuto costruire il campanile senza rischi o interferenze un po’ più in là, che l’area non mancava. Potrebbe dunque bastare il solo buon senso per stabilire che la torre è preesistente e che l’aula vi sia stata accostata solo successivamente. 17 Chi guarda la chiesa coglie subito, sulle pareti sud e ovest, la presenza di una serie di modiglioni in pietra infissi sulle pareti a distanza regolare a mo’ di mensola. A cosa servivano ? In questo caso condivido l’opinione dell’Ing. Zecchin. Servivano per reggere una serie di travi orizzontali (dormienti) sulle quali poggiavano le travi inclinate della copertura di un portico, che a loro volta poggiavano su piedritti sempre di legno in modo da formare una tettoia, una sorta di riparo facilmente installabile e rimovibile. Un riparo necessario ai numerosi pellegrini che, come abbiamo visto, affluivano al santuario nel periodo della “sagra” della Natività di Maria.

17 Addirittura Andrea Gloria ipotizza che il campanile, che ha “fisionomia di torricciuola”, sia avanzo delle “indicate fortificazioni”, intendendo però quelle realizzate e utilizzate nelle contese fra padovani e veneziani sul finire del secolo XIV.

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Lavori di restauro Si sa di lavori effettuati nel 1468 sulla chiesa e sulla casa annessa promossi da Frate Cristoforo, il curato del tempo, con una spesa di 200 piccoli, per la quale spesa fu esentato per un certo periodo dall’affitto da parte dei Canonici del Duomo di Padova. Di una serie di interventi di restauro e di rinnovo effettuata nel 1700 siamo inoltre a conoscenza grazie ad una iscrizione posta sull’altar maggiore che così recita: D.O.M. DEIPARAE VIRGINI MARIAE DICATUM EX VETUSTA IN AUGUSTIOREM FORMAM REDACTUM CAPITULI PATAVINI DECRETO: co. HIERONIMO DE ZACCHIS CANONICO THESAURAR. ANNO DOMINI MDCC18 Riteniamo sia con questo intervento che inizia per la chiesa la metamorfosi che si concluse con la demanializzazione e poi con il passaggio in mano privata. La metamorfosi riguardò soprattutto il titolo; si trascurò quello originario della Natività di Maria e si passò a quello della Vergine addolorata , in virtù della statua che venne introdotta proprio con i rinnovi settecenteschi. Nel 1915, nel pieno della prima guerra mondiale, durante la sua visita pastorale alla parrocchia dei Santi Gregorio e Tommaso di Lughetto, la chiesa è registrata come ”eretta in epoca sconosciuta…sprovvista di arredi e paramenti; attualmente chiusa al pubblico per ordine del prefetto e adibita a ospedale di isolamento” . Viene anche annotato che: “Vi è annessa una casa di abitazione con due campi: il tutto venne incamerato dal demanio e poi acquistato da Pietro Canton di Piove di Sacco, sindaco di Campagna Lupia.” Il più recente intervento è stato effettuato nei primi anni ’90 del secolo scorso su progetto dell’ Ing. Arch. Fabio Zecchin. Questo intervento fu intrapreso insieme con la acquisizione da parte del Comune dell’immobile e dell’area e fu la premessa per l’allestimento nella chiesa del piccolo museo archeologico che ora vi è ospitato e l’occasione per sistemare a giardino l’area circostante di diretta pertinenza e collegare il sito tramite un ponticello pedonale sul canale ad un piccolo parcheggio. Il Museo Archeologico e la campagna di scavo in corso Da alcuni anni nella chiesa è ospitata una piccola ma significativa raccolta di reperti archeologici ritrovati nella zona. Vi sono bronzetti votivi, frammenti ceramici e di decorazioni architettoniche, monete e quattro anelli d’oro,uno dei quali con incisa la parola ostis. E’ inoltre in corso una importante campagna di scavi arccheologici in un area limitrofa a quella della chiesa condotta in collaborazione fra l’Università di Padova (Prof. Brogiolo) e la Soprintendenza Archelogica del Veneto (Dott.ssa Bonomi).

18 A Dio Ottimo e Massimo18 – Nell’anno del Signore 1700 questo oratorio dedicato alla Vergine Maria Madre di Dio fu condotto dalla forma vetusta che aveva ad una forma più dignitosa grazie a un Decreto del Capitolo di Padova ed essendo Canonico tesoriere il Conte Girolamo De Zacchi.

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Carta Geomorfologica della Provincia di Venezia, settore comprendente Lugo, Lova, la Valle dell’Averto e le altre valli limit rofe. In verde sono indicati i dossi fluviali, in rosso e arancione le tracce di antichi corsi fluviali. BIBLIOGRAFIA: ANDREA GLORIA, Intorno al Comune di Campagna della Provincia di Venezia, Padova 1869 ANTONIO LAZZARINI ( a cura), La visita pastorale di Luigi Pellizzo nella Diocesi di Padova (1912-1921), Roma 1975 MAURIZIO BOZZATO, Santa Maria di Lugo di Venezia, dalla unione alla Sacristia della Cattedrale di Padova sino alla fine del XV secolo, Tesi di laurea A.A. 1977-78 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’ Università di Padova. G. CONTON, G. FORMENTON, Abbondia, Borgo, Cazoxana: la nascita delle frazioni miresi, S.Giovanni Lupatoto 1985 FABIO ZECCHIN, Relazione Storico Artistic, dal Progetto di Restauro, 1990 ANTONIO BELLAMIO, Campagna Lupia, la sua terra, la sua gente, Brugine 1997 MARIO POPPI, In sancto Amrosone, Dolo 2008 ALDINO BONDESAN,CHIARA LEVORATO (a cura) AA.VV. ,I geositi della Provincia di Venezia, Provincia di Venezia – Rubano 2008

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Uno dei lacerti pittorici rimessi in luce con gli ultimi restauri.

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Antonio Draghi

LA BASTIA DI STRA E L’ISOLA DI SARMAZZA

Gian Francesco Costa, Veduta del Ponte di Stra’ sulla Brenta Vecchia (da G.F.Costa, Delle delicie del fiume Brenta espresse ne’ Palazzi e Casini situati sopra le sue sponde dalla sboccatura nella Laguna di Venezia fino alla città di Padova, Venezia 1750, 1756 e Riedizione ritoccata, 1762)

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LA BASTIA DI STRA E L’ ISOLA DI SARMAZZA Ai margini estremi dell' ambito comunale di Vigonovo, al confine con Stra e con Noventa Padovana, si trova un lembo di territorio ricco di storia in riva al Piovego e al primo tratto del Naviglio Brenta. Si tratta di quella parte della Sarmazza che è rimasta in riva sinistra della Cunetta, cioè del corso moderno e attuale del Brenta, totalmente tagliata fuori dal capoluogo di riferimento, Vigonovo. Sino al 1858, cioè sino all'entrata in funzione del nuovo corso canalizzato e artificiale del fiume, questo tratto di territorio ha infatti rappresentato l ' affaccio di Vigonovo sulla riva destra del corso naturale del fiume, e quindi ha costituito e costituisce il legame fisico di appartenenza di questo comune allo storico asse fluviale che fra Venezia e Padova ha generato la Riviera del Brenta costellata di palazzi, di case, di parchi, di broli e di giardini. Al tempo stesso la Sarmazza rappresentò il caposaldo territoriale della podestaria di Piove cui apparteneva. L' importanza del sito si può ricavare da documenti d'archivio, da mappe e da disegni; ma anche una esplorazione attenta dei luoghi permette di riconoscere ancora oggi i segni della storia, pure se celati dalle trasformazioni più recenti. Con questo studio ho cercato di ricostruire le vicende di tale snodo territoriale mettendo a confronto ciò che si può desumere da alcuni di quei documenti con ciò che è ancora possibile osservare oggi. A partire dal VII secolo d.c. la storia di quest' area può essere divisa in cinque periodi: 1- il periodo che antecede il 1208, anno del compimento dell'escavo del canale Piovego da parte del Comune di Padova, opera che segna la riconquista del collegamento diretto di questa città con la Brenta, il suo fiume matrice con il quale aveva perso contatto a seguito degli sconvolgimenti idraulici del 589 d.C.; 2- il periodo che va dal 1208 lungo i due secoli del dominio padovano fino alla conquista veneziana e alla espansione dello stato di terra della Serenissima nel 1405; 3-il periodo che segna l’avvio del dominio veneziano e che vede in Sarmazza la realizzazione della prima moderna conca a porte dello stato veneziano e, proprio in quest’ area, vicende decisive della rivincita di Venezia contro i collegati di Cambrai per la riconquista di Padova (1405-1509); 4-il periodo che va dagli inizi del XVI secolo sino al 1797, anno che segna la fine della Repubblica Veneziana e, ancora, sino all’ escavo della Cunetta compiutosi nel 1858; 5-infine,il periodo che dal 1858 giunge sino ai giorni nostri, con il Naviglio ancora attivo per il trasporto di merci sino all'immediato secondo dopoguerra, cioè sino al tracollo repentino del trasporto fluviale che coincise paradossalmente con gli anni della grande, ma effimera, illusione del suo rilancio con la moderna Idrovia Padova –Venezia, a tutt’ oggi ancora incompiuta.

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1. Ripresa aerea dell’ area di incontro fra Brenta e Piovego. Ripresa effettuata ben prima del 1983, ancora con il vecchio ponte di Stra che verrà rifatto nel 1999. Sulla sinistra la piazza odierna di Stra; in mezzo la punta su cui sorgeva la rocca e poi la villa dei Bernardo, indi Valier; sulla destra del Piovego il borghetto della Giudecca e il filare curvo di robinie che segna il tracciato della buova che definiva l’isola della Sarmazza, ovvero del canale ristoratore dell’antica conca di navigazione di Stra. 1. PRIMA DEL PIOVEGO Per evocare quale fosse l'assetto dell ' area prima del 1208 bisogna ovviamente immaginare di cancellare dalla mappa del luogo non solo la Cunetta e l ' Idrovia ma anche il Piovego. La Sarmazza aveva allora come confine settentrionale la Brenta nel suo ramo maggiore, quello che era stato in epoca romana il Major Meduacus. La chiesa di S. Maria di Sarmazza irradiava le sue pievi succursali sulla riva destra del fiume fino a Sanbruson verso la sponda lagunare, ma la sua area di influenza si estendeva anche a ovest sino alle porte di Padova.19 A sud faceva da confine a quest’area il secondo ramo del Brenta, il Minor Meduacus, dapprima abbandonato per mancanza d’acque 20, riutilizzato poi in epoca mediovale e chiamato Cornio; a ovest confinava con i nuclei abitati di Camin e di Noventa, entrambi dotati di un porto lungo quel ramo minore del fiume che, 19 Luigi Dian, nel suo libro Intorno al Comune di Vigonovo edito nel 1873, basandosi su notizie raccolte per lui dall’amico Andrea Gloria, il grande storico padovano, così accenna alla chiesa di S.Maria di Sarmazza. “Il casale di Sarmazza era anticamente molto popolato ed importante, come c’insegnano i documenti, con castello dei Dalesmanini, e con chiesa di S. Maria, arcipretale e matrice delle cappelle di Strà (S. Pietro), Fossò, Campoverardo, Camponogara, Pratomaggiore (Premaore), Sandon e Villatora. Sembra che il luogo sia stato devastato dagli Ungri nella loro incursione dell’anno 800, e che per tale devastazione e per maggior comodo degli abitanti siasi trasferita poco appresso la giurisdizione della sua chiesa a quella di Vigonovo vicino (Visite Vescovili del 1739). (…) L’antedetta antichissima chiesa di Sarmazza più non esiste. Ridotta ad altra forma era negli ultimi secoli posseduta dai Marcello di Venezia (Visite Vescovili del 1739) Ai nostri tempi i resti di essa, grossi macigni, furono adoperati nel ristauro di Ponte Molino di Padova.” 20 Si veda la persistenza del toponimo brenta secca a Saonara.

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verosimilmente, dalla rinascita altomedioevale sino alla realizzazione del Piovego costituì la ridotta via d' acqua che mantenne collegata la città di Padova con le lagune a Lugo e a Lova. La strada da Padova alla laguna era ancora quella romana, la Annia-Altinate, probabilmente già articolata in varie digressioni. Il punto di maggior avvicinamento di questa strada al fiume maggiore si aveva proprio in questa località della Sarmazza, laddove il Brenta, da una direttrice nordovest- sudest, dopo una serie di anse, voltava più decisamente a oriente. Da qui in poi la strada correva pressochè parallela al corso d'acqua , a tratti più vicina, a tratti più lontana, in ragione della larghezza molto variabile dell ' alveo e delle marezane. Grazie a un traghetto (passo) - o, forse, già grazie ad un ponte del quale però non abbiamo notizie certe per questo periodo- la strada superava il fiume raddoppiando il percorso sulla riva sinistra verso i territori trevigiani. Nei pressi di questo bivio, sulla riva destra del fiume, si attestò il toponimo Stra, derivante con tutta evidenza dal tardo latino strata, strada.21 I Dalesmanini, famiglia feudale ritenuta originaria di Pianiga, furono i feudatari più potenti e ricchi di questa zona e si ritiene che anche in Sarmazza avessero una dimora fortificata, una rocca, fatta edificare secondo il Salomonio già nel 1084. A Padova essi erano proprietari oltre che dell ' arena romana, venduta poi agli Scrovegni, di numerosisssime case a partire dalla porta Altinate lungo tutto il Borgo di Ognissanti e, fuori città, di estesissime possessioni di terra a Camin, Noventa, in Sarmazza, a S.Pietro, Fossò, Paluello, Sandon , Sanbruson e Camponogara. E' probabile che la chiesa di S. Maria come la rocca dalesmaniniana si trovassero proprio nei pressi di questo punto strategico in cui la via Annia giungeva al Brenta, laddove verosimilmente doveva essere ubicato un approdo intermedio per le zattere di legname che scendevano il fiume provenienti dalla Valsugana e da Bassano e per le imbarcazioni dirette a Venezia. Quel luogo non può che essere identificato con l'area in questione, avendo come indizio suppletivo la persistenza del ponte, che dal 1208 diventerà duplice, sul Brenta e sul Piovego, e della stessa fortificazione che poi divenne nota come Castello o Rocca di Stra. L'ipotesi che può essere avanzata è che il Piovego sia stato fatto sfociare in questo punto proprio in virtù della presenza del ponte e della rocca e della prossimità della strada.

21 Occorre ricordare che il nucleo originario di Stra coincideva con quello dell’attuale S. Pietro.

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2 Nel particolare della mappa di Nicolò Dal Cortivo del 1534 (A.St.Ve., S.E.A., Diversi, Rotolo 175, dis. 2) si vede il tracciato rettilineo del Piovego che da Padova viene ad immettersi nella Brenta a Stra. Va notato che il toponimo Stra indica il punto di incontro fra canale e fiume e si ripete ad indicare il paese attuale di S.Piero. 2. IL PREDOMINIO PADOVANO La realizzazione del Piovego22 ridisegna tutta l' area in questione confermandone , anzi, accentuandone , l’ importanza strategica.

22 Piovego significa pubblico, in questo caso canale pubblico, distinguendosi per importanza da quelli consortili. Veniva usato questo aggettivo per quelle opere canalizie promosse dalla repubblica padovana e dagli stati che vi succedettero, il Principato carrarese prima, La Serenissima Repubblica poi. Per molte aste idrauliche troviamo usato il termine piovego, o i diminutivi pioveghella e pioveghetto; nell’area padovana di più diretta pertinenza questo di Stra divenne il Piovego per antonomasia.

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Il nuovo canale fu per Padova un' opera rivoluzionaria sia per l' assetto idrografico interno alla città che per il rapporto logistico con l ' intero territorio rappresentando innanzitutto la nuova fluida via commerciale con Venezia. Le cronache dicono che solo un secolo dopo il compimento del Piovego di Stra nel 1208, verrà completato dalla republica padovana il disegno della ricongiunzione piena con il suo fiume tramite una derivazione a monte dell ' acqua del Brenta , da Limena, con l'escavo della Brentella (1314). Ma , anche solo avendo a mente le leggi idrauliche, è difficile pensare che il Piovego, in adduzione d’acqua al fiume e non in derivazione d' acqua dal Brenta, sia stato alimentato per più di un secolo solo dal mutevole corso del Bacchiglione in continuità con le acque ubane, in assenza di una derivazione d'acqua dallo stesso Brenta nel quale andava poi a riconfluire. E' immaginabile che una presa d’acqua dal Brenta lungo lo stesso tracciato della Brentella fosse già scavata fin dagli inizi del XIII secolo. Il tracciato del Piovego viene dunque a tagliare la Sarmazza. La parte rimasta a nord del canale costituirà quella che ancora oggi riconosciamo nella punta del territorio comunale di Noventa che si insinua nel cuore del moderno centro di Stra. 23 Quella rimasta a sud continuerà a chiamarsi Sarmazza24 e a costituire un comune rurale autonomo fino all’assorbimento nel Comune unificato di Vigonovo nel XIX° secolo. In questa fase lo sbocco del canale navigabile nel fiume dovette essere regolato, per via del dislivello, da una rosta dotata di un dispositivo a carro per consentire il passaggio delle barche. Ciò rese ancor più complesso il sito, che divenne un nodo idraulico di vitale importanza, da controllare e da difendere. Il vecchio ponte sul Brenta venne prolungato con una nuova campata sul Piovego e l ' insieme che si venne a formare - ponte, porto, chiusa di regolazione, rocca - costituì la estrema proiezione orientale della struttura urbana di Padova. Il Piovego realizza di fatto la prima idrovia artificiale fra Padova e Venezia e segna l ‘ avvio di un processo di intensificazione dei traffici fra le due città ; rinnova e acuisce tensioni confinarie con Venezia ancora totalmente proiettata sul mare , ma incentiva scambi con essa, creando occasioni di investimento e di lavoro per entrambe le città. Con l ' escavo del Piovego nasce di fatto la Riviera del Brenta. Dalle ricerche del Baldan che riprende le note di un cronista del periodo Carrarese apprendiamo informazioni utili sulla struttura del ponte di Stra e sull’importanza militare del sito nel corso del ‘300. “In quest' anno (1388), durante una delle contese fra padovani e Veneziani, Francesco Novello da Carrara affidò a suo cognato Arcoano Buzzaccarini la difesa del castello e questi vi pose un presidio comandato dal capitano Nicolò Da Caselle. Il cronista di allora Andrea Galeazzo Gatari racconta che "...messer Giacomo dal Verme (capitano delle truppe veneziane ndr) messe il campo attorno al castello di Strà, e in quello fece tirare tre bombarde delle quali il castello hebbe tanta paura che

23 Va subito ricordato che allora , sulla riva sinistra del Brenta, esisteva un piccolo villaggio, quello di Fossalovara, che solo a partire dal 1858, si estenderà su quello che era stato per millenni l'alveo del fiume, alveo abbandonato e "imbonito" dopo il taglio della Cunetta, e che solo nel secolo scorso nascerà il moderno Comune di Stra con l’unificazione di Fossalovara, sulla riva sinistra e S.Pietro e Paluello sulla riva destra della Brenta Vecchia diventata Naviglio. 24 Sulle origini del toponimo esistono due interpretazioni: la prima lo fa risalire ad uno stanziamento di soldati alleati dei romani provenienti dalla Sarmatia, territorio ultrabalcanico; la seconda vuole che il termine sarmazza stesse ad indicare, qui come altrove (v. Selvazzano, Sarvazzan, Sarmazzan), un’area caratterizzata da terre basse e paludose. Lo stesso Dian accenna ad entrambe le ipotesi: “Sarmatia potrebbe aver sortito il suo nome o dai mercenari Sarmati, che furono di guarnigione a Padova, o dalla posizione un tempo forse deserta ed abbandonata”.

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non aspettando la quarta si diede salvo l'havere e le persone, lasciando quello in potere del nemico". Pare però che il Da Caselle fosse stato corrotto dai veneziani perchè cedesse la rocca e che quella dei colpi di artiglieria sia stata solo una messinscena. Si dice ancora che in quell’anno il ponte sulla Brenta fosse fatto di barche "...perchè l'altro per foga e piena della brenta era diruinato e però era fato quello di nave (barche), il quale gli enemixi di prexente prexe e per simile prexe il ponte ch'era su la Fossa Lovara, dove per l'uno e per l'altro ponte tutta la giente passò e intrò in lo passo del Piovà di Sacco." 25 E' significativa quest' ultima notazione: il passaggio del Brenta in questo punto e il passaggio del ponte sul Piovego davano accesso al Piovado di Sacco, il territorio del quale aveva dunque nella Sarmazza il suo passo, la sua "porta" settentrionale, il suo collegamento con la più diretta via d’acqua verso Venezia e il punto di approvvigionamento di legname e di altre merci provenienti da nord. Tale ruolo di porta settentrionale della Podesteria di Piove si mantenne inalterato sino ai primi decenni del XIX° secolo. Nel 1404 Paolo Savelli passò a guado il Brenta per entrare nel Piovado, il che dimostrerebbe che solo dopo il 1405, anno della conquista veneziana, si ricostruissero i ponti sul Brenta e sul Piovego. Della rocca invece si sa che fu conquistata dai veneziani tra il 28 settembre e il 2 ottobre del 1405. Ma, diversamente da quanto dice il Baldan, i veneziani non si affrettarono a spianarla, dato che la ritroveremo ancora in uso, come vedremo, nel 1509. Le prime rappresentazioni cartografiche a noi note sono quelle che fecero dello stato padovano dapprima il Maggi nel 1449 e poi lo Squarcione nel 1465. Entrambe furono disegnate quando già lo stato carrarese aveva cessato da alcuni decenni di esistere e tutto il territorio era diventato dominio della Serenissima. In entrambe le carte il luogo chiamato Stra indica la lingua di terra che contrassegna l' incontro del Piovego con il Brenta; in corrispondenza di essa è rappresentata una rocca con una alta torre che sovrasta il ponte doppio. Entrambi i disegni esaltano con una forte sottolineatura simbolica la importanza strategica di questo sito rispetto ad altri luoghi. La fortificazione è rappresentata esattamente di fronte al ponte doppio sul Piovego e sulla Brenta: nel disegno del Maggi i ponti sono disegnati distinti con orientamenti diversi, mentre in quello dello Squarcione addirittura sembrano un tutt' uno, una costruzione continua. Sarmazza è identificata con il simbolo di villa, cioè di villaggio; il toponimo Stra identifica invece esattamente ed esclusivamente il sito fortificato; S. Piero è ancora appartato e autonomo e Fossolovara è un piccolo villaggio sulla riva sinistra del fiume.

25 A. Baldan, Storia della Riviera del Brenta, Abano Terme, 1988 , vol.II, pag.271

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3. Descrizione de’ Fiumi, Canali, e Ponti nella Città e contorni di Padova. (Disegno anonimo in D. POLCASTRO e S. STRATICO, Notizie della scoperta fatta in Padova d’un ponte antico con romana iscrizione, Padova 1773). All’estremo superiore è raffigurata la congiunzione a Stra del Piovego con la Brenta con l’individuazione dell’isola formata dal canale ristoratore e la scritta: Stra-Porte di Stra fatte verso il 1400. L’ orientamento vede il nord a sinistra della mappa.

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4. Particolare della incisione tratta dalla mappa di Annibale Maggi del territorio padovano rappresentato prima della conquista veneziana. (Hannibal De’ Madijs, Il territorio padovano, Biblioteca Ambrosiana Milano, Rastr. 78, n. 940 )

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5. La mappa su pergamena del territorio padovano eseguita nel 1465 ca. da Francesco Squarcione, il maestro di Andrea Mantegna (Francesco Squarcione, Padua, Biblioteca del Museo Civico di Padova, RIP. XLII /5402)

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3. LA NUOVA CONCA A PORTE DI DIONISIO DA VITERBO E LA RICONQUISTA VENEZIANA DI PADOVA NEL 1509 Un passo di Bernardino Zendrini26, che qui riportiamo, ricostruisce l’introduzione nel 1481 della nuova conca a porte che rivoluziona il sistema di passaggio delle barche. Opera che, per essere la prima in tutto lo Stato da Tera della Serenissima, mette in risalto l’importanza strategica primaria per Venezia del nodo stradale e fluviale di Stra. "Ho trovato adunque che Dionisio, e Pietro Domenico fratelli di Viterbo del fu Maestro Francesco di detta Città Ingegnere, della Signoria di Venezia acquistano del 1481 di 3 Settembre da' Sign. Contarini certo sito nella Bastia di Strà, luogo ben noto di Padova, per formar in esso un soratore (ristoratore, scolmatore) del Piovego, ch'è quel canale che viene da Padova al detto luogo di Strà ed in certa supplica de' medesimi da Viterbo di detto anno resta espresso ch' essi, che si chiamano Mestri di orologio, faranno che le barche e burchi potranno passare la chiusa di Strà senza pericolo, operando in modo che le acque usciranno con facilità, e senza essere obbligate a scaricare e senza essere tirate. Aggiungono poi le condizioni, fra le quali la principale si è quella di aver essi a formar l'ingegno come lo chiamano, e mantenerlo: il che essendo stato loro accordato assieme a quel provento che pur avevano dimandato, costa (consta) da Ducale a' Rettori di Padova, in cui si esprime compito (compiuto) il Sostegno di Strà; perlochè ricercarono i detti Maestri di far una buova per maggior perfezione dell' opera. A costoro dunque, almeno nello Stato Veneto, si può dar vanto di tale invenzione, non trovando chi prima di essi l'abbia ideata ne' posta in pratica".27 Questo passo è ricco di informazioni; esaminiamolo con attenzione. Innanzitutto i soggetti. I due fratelli da Viterbo, sono ingegneri, o maestri di orologio come si fanno chiamare, cioè inventori e costruttori di macchine, e rappresentano una bottega, uno studio affermato di ingegneria dell’ epoca, essendo figli d'arte, figli cioè di Francesco che era stato a sua volta ingegnere.28

26 Bernardino Zendrini (1679-1747) fu dal 1720 Pubblico Matematico della Serenissima Repubblica e Soprintendente alle acque dei fiumi, porti, canali e lagune di tutti i territori della Dominante. Grande personaggio, illuminato e appassionato studioso di scienze idrauliche, autore delle Memorie storiche dello stato antico e moderno delle lagune di Venezia, imponente opera andata alle stampe solo nel 1811. 27 Bernardo Zendrini, Leggi e fenomeni, regolazioni e usi delle acque correnti,Venezia, 1741 28 A proposito di Dionisio da Viterbo lo troviamo attivo negli anni seguenti il 1481 come ingegnere al servizio di Venezia nella guerra contro Ferrara. Nel 1483 Marin Sanudo, membro di una commissione nominata dalla Signoria perché ispezionasse le condizioni di tutte le fortificazioni di terraferma , giunge al campo veneziano di Lagoscuro sulla riva del Po. Qui rimase impressionato dal ponte di barche progettato e fatto realizzare proprio dallo stesso Dionisio e nella sua cronaca così scrive: “Visto quelo ponte excelso fu facto nel naval Veneto per Dionisio architecto, et è sopra burchi con tavolle,assà largo, et celeberrimo, qui constat burchionis viginti tribus similis concatenatis, et da uno capo all’altro è vargi 410, il quale se puol desfar, et quando niun burchio vien giò, uno si vava et passa. E do ponti, uno di un capo, l’altro de l’altro, levadori, et mete mel bastion dil Lacoscuro... (Marin Sanudo, Itinerario per la terraferma veneziana nell’ anno MCCCCLXXXIII, manoscritto; edito a stampa a Padova nel 1847) E’ da notare che l’opera è stata realizzata nell’ Arsenale a Venezia, nel naval Veneto, e poi rimorchiata sul posto a congiungere le due rive del Po. Questa testimonianza dimostra che Dionisio era diventato per la Serenissima il più quotato progettista e costruttore di marchingegni civili e militari dell’epoca.

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Essi acquistano i diritti su di un'area nella Bastia di Strà avendo progettato di costruirvi un moderno sistema di conca a porte, in sostituzione del precedente sistema di passaggio delle barche basato sullo scivolamento delle stesse su un piano inclinato e su un carro di trazione. Apprendiamo innanzitutto che il luogo veniva chiamato Bastia, cioè era identificato dal fatto di essere un area fortificata (bastia proviene dal latino abbastita, che significa luogo fortificato da terrapieni e palizzate). Essi comprano tali diritti dai Contarini, famiglia che aveva dunque titolo di proprietà sull’ area così definita, la stessa famiglia al cui nome e ai cui diritti fu legata anche la conca a porte che immetteva nel Piovego fuori mura le acque interne di Padova, le famose Porte Contarine,permettendo il passaggio dei burci. Apprendiamo inoltre che il nuovo marchingegno avrebbe consentito di non avere gli inconvenienti del vecchio sistema, incentrato, come è detto, sul trascinamento delle imbarcazioni per superare il dislivello a scendere da Piovego a Brenta e, a salire, da Brenta a Piovego.29 Lo Zendrini, scoperta negli archivi questa notizia, dichiara così di aver accertato chi sia stato per primo a introdurre nello stato veneto il rivoluzionario sistema della conca di navigazione, regolata dalle porte cosiddette vinciane, e che questa prima applicazione avvenne a Strà.30 Gli ingegneri chiedono e ottengono di costruire tale conca artificiale, essendo per ciò pagati, ma anche di manutenerla; e qui non sappiamo se si tratti solo di manutenzione o anche di gestione. La Ducale ai Rettori di Padova conferma il compimento e l'entrata in funzione dell' opera nel 1481. Da ultimo apprendiamo che essi realizzano, per maggiore perfezionamento dell' opera, una buova, che è quel canale scolmatore o ristoratore, che troveremo poi sempre rappresentato, il quale aggira il sistema della conca e garantisce, anche a porte chiuse, il continuo passaggio di una certa quantità di acqua dal Piovego alla Brenta.31 Marin Sanudo, all’inizio del suo Itinerario come ispettore alle fortezze dello stato di terra nel 1483 si trasferisce in barca da Venezia a Padova e , dopo aver disnato a Mira nel pomeriggio arriva : “...al castello di Strada dove è uno castello fabricato nel angullo di do acque. Una la Brenta o sia Bachagion (sic) vien di Bassano, l’altra quella fossa manu facta va a Padova (il Piovego), et qui è do ponti passa queste do aque, con quello lavor fece Dionisio mirabille architecto, per esser l’andata pericolosa:”32 E qui troviamo dunque descritta la nuova conca già in funzione. Essa desta l’ammirazione per Dionisio da Viterbo del giovane Sanudo che ricorda la pericolosità del sistema precedente soprattutto nell’andare, cioè nel salire da Brenta a Piovego delle barche provenienti da Venezia o da monte.

29 Il sistema usato prima del 1481 anche a Stra è quello che a Fusina -che era detto carro o lizza- rimase in uso più a lungo almeno fino al 1581, cioè sino a quando fu sostituito dalla conca a porte dei Moranzani. Mediante degli argani azionati da ruote fatte girare da cavalli o asini, le barche, preventivamente alleggerite del carico e imbragate, venivano sollevate e trascinate lungo un piano inclinato, a scendere o a salire di quota. 30 E’ Leon Battista Alberti, nel suo De re edificatoria del 1452 ca. a descrivere per la prima volta una conca non più a sbarramento verticale, a travatura o a saracinesca, ma a porte girevoli su cardini; il sistema fu perfezionato poi da Leonardo da Vinci che suggerì di inserire piccoli portelli che, una volta disserrati, avrebbero eliminato i dislivelli, consentendo alle porte grandi di aprirsi con minore sforzo. 31 Per approfondire il tema della navigazione fluviale e del rivoluzionario sistema delle conche nella seconda metà del XV° secolo si veda il libro di Giovanni Rodella, Giovanni da Padova un ingegnere gonzaghesco nell'età dell' umanesimo, Milano 1988. 32 Marin Sanudo, Itinerario per la terraferma veneziana nell’ anno MCCCCLXXXIII, manoscritto; edito a stampa a Padova nel 1847

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6. Vista dall’alto delle porte Contarine di Padova nel 1956, prima della loro chiusura avvenuta con l’interramento del Naviglio Interno. Tramite questa conca le barche provenienti da Stra e dal Portello potevano passare al canale interno lungo la riviera dei Ponti Romani e poi, seguendo il tratto dal ponte delle Torreselle alla Specola, arrivare sino al porto di S.Giovanni delle Navi, il secondo porto di Padova, per proseguire in direzione sud lungo il canale di Battaglia fino al nodo di Battaglia verso Bovolenta oppure verso Monselice, Este e Montagnana; in senso inverso lungo lo stesso percorso giungevano alle porte Contarine per scendere al Piovego i burchi provenienti da sud. E’ da ricordare infatti che il tratto occidentale del circuito canalizio di Padova, sin dal medioevo, era impedito alla navigazione dallo sbarramento costituito dai numerosi mulini natanti e terragni di Ponte Mulino.

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7. Il carro di Fusina che consentiva alle barche di superare l’argine che impediva lo sbocco delle acque del Brenta in laguna, descritto da Michel de Montaigne nel suo “Giornale del viaggio in Italia del 1580 e 1581", da Vittorio Zonca, Novo teatro di macchine et edificii, Padova 1607. Il sistema in uso anche a Stra sino al 1481 è da immaginare simile a questo.

8. In questo disegno Zonca ricostruisce un modello di conca a porte idrauliche simili a “...quelle fatte nel fiume ch’esce dalla città di Padova per la comodità di essa...”, da Vittorio Zonca, Novo teatro di macchine et edificii, Padova 1607. Il disegno vale anche per immaginare il funzionamento della conca a porte di Stra introdotta da Dionisio da Viterbo nel 1481 che in più, sopra la porta verso la Brenta aveva un ponte. A quanto risulta da un altro disegno di un incisore tedesco del ‘700 pubblicato dal Guiotto, le porte qui rappresentate dallo Zonta sono esattamente quelle dei Moranzani

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9. Nell’incisione raffigurante il Palazzo del N.H. Tron al Dolo, Gian Francesco Costa, oltre a una barca di volta ritrae sul fiume anche una zatta (zattera) fatta di travi o tronchi legati insieme a riprova di una genere di trasporto diffuso e vitale fino al XIX° secolo sia lungo il Piave, per il quale molte ricerche recenti sono state pubblicate, sia lungo la Brenta, per la quale però quasi mai si è fatto riferimento a questa tipologia di natante. Il terminal veneziano delle zattere del Piave era alle Fondamenta Nove, per quelle del Brenta lungo le rive lagunari dell’ area di S. Marta e di S.Nicolò dei Mendicoli, rive chiamate ancora oggi Alle Zattere.(G.F.Costa, Delle delicie del fiume Brenta espresse ne’ Palazzi e Casini situati sopra le sue sponde dalla sboccatura nella Laguna di Venezia fino alla città di Padova Venezia 1750, 1756 e Riedizione ritoccata, 1762)

10. I più tipici fra i natanti della Riviera del Brenta: il burchio da carico, la barca di volta per passeggeri di basso rango e due eleganti burchielli per i viaggiatori più abbienti.

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La riconquista di Padova da parte dei veneziani nel 1509, contro i collegati della Lega di Cambrai guidati dall’imperatore Massimiliano che l’avevano a lungo assediata e poi conquistata, passa proprio per Stra. “A di 17 luio (1509 ndr), fo Santa Marina. Nostri introno in Padoa e ave iterum el dominio di quella sità, la qual zorni 42 era stata soto il re di romani et il governo di Lunardo da Dresano, capitanio regio.33 Così inizia il capitolo dei Diarii nel quale il Sanudo descrive i fatti della riconquista veneziana di Padova nel 1509 e di alcuni dei quali è stato testimone diretto. Uno degli avvenimenti decisivi è la ripresa del Castello di Stra, che consente di portare il grosso delle truppe e numerose barche a Padova, dopo che la città era stata ripresa militarmente con un colpo a sorpresa alla Porta di Codalonga. Ne riporto la cronaca. . “Ma dala banda dil Portello, dove questa note erano andati molte barche, si dile contrade , con li podestadi di Torzello et Muran, et sier Nicolò Pasqualigo, patron a l’arsenal, con tutte le maistranze di l’ arsenal; item, altre barche gran numero, et molte andate a l’avadagno, perchè la fama fo di darla a sacho. Et etiam andò sier Sebastian Bernardo , quondam sier Hironimo, con 200 homeni armati, e lui armato, qual à da far a Strà. Item, di le Gambarare venero zercha 700 homeni villani, armati, con sier Filippo Paruta, quondam sier Nicolò, à da far lì, di ordine di la Signoria nostra, et con quel Nicolò Gallo, capo di diti villani. Et cussì nel far dil dì, zonte tute queste zente et di Miran villani assaissimi, i qualli sono marcheschi, dove è lì provedador sier Alvise di Dardani, el qual perhò non si mosse lui di Miran, el provedador Pasqualigo sopradito mandò uno trombeta al castello di Strà, dove era un capitanio todesco con 25 todeschi,li qualli stavano in castello, reteniva barche di formenti di nostri et fevano danno assa’ a’ nostri. Et dito trombeta a cavallo li dimandò il castello da parte dil provedador Griti per nome di la illustrissima Signoria. Et quel capitanio, aponto era in corte dil castello, et non lo intendendo, perchè ‘l non sapeva latin, dimandò a uno era con lui: Che dixelo ? Li disse volea il castello la Signoria, se non vegniria con zente a tuorlo per forza. Esso capitanio branchò per il cavallo dito trombeta e lo tirò in el castello senza altra risposta e levono il ponte; e quelli di Strà credeteno lo dovesse amazar, ma poi ussì salvo. In questo mezo zonse le zente nostre, e li villani di le Gambarare primi introno per busi fati in la prima muraja dentro, et comenzono a darli la bataja et maxime con freze. E quelli dentro, todeschi 26, con schiopeti ne amazono e ferite qualche uno di nostri; et nostri et le maistranze erano tutti atorno dil castello, da persone X milia e più, et quelli andono di sora il castello e con sassi feva difesa, nostri messeno fuogo a le porte dil castello e le brusono. Et dicitur, todeschi feno fra lhoro, che il primo parlava di darse fosse morto da li altri, et cussì uno, parlò di darse, essi li tajò la testa e la butò zo di le mure, et il corpo lo butono nel castello zoso; qual corpo vidi senza testa. Or nostri , brusato le porte, et lhoro vedendo non poter difendersi, si reseno et fonno callati con corde zoso et uno fo morto da’ nostri in castello et do amazati combatendo, adeo numero 22 in le barche , a ore 20, fonno mandati a Venetia per presoni. Quelo fo fato di lhoro lo dirò poi. Noto. In questa bataglia sier Pelegrin da Canal, di sier Bernardin, andato lì da si con alcuni homeni, volendo aver dito castello, fu ferito da uno schiopeto in ...., e portato a Venetia, volendolo cavar, il dì driedo morite. Et in questo mezo le nostre barche tutte passoe suso a la volta di Padoa, e introno in la terra per il Portello, qual era za aperto e il Griti intrato e la terra era di la Signoria, et veneno verso la piaza tutti.”... Le vicende della guerra dei veneziani contro Massimiliano portano ancora in primo piano la principale via di comunicazione con Padova e le acque del Brenta insieme con il nodo strategico di Strà. Marin Sanudo va di nuovo a Padova il 6 e 7 ottobre del 1509. “ Et in questa matina, andai a Padoa con sier Alvise e sier Antonio Sanudo mei fratelli e sier Francesco Malipiero qu. Sier Perazo, et vedemo molte cosse, et ne l’andar per Brenta, vedemo molte barche e cari con robe di villani tornavano a loro ville , et poi sentimo una voce ogi i nimici

33 Marin Sanudo, I diarii (1496-1533), Venezia 1997; pagg. 157-160

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aver corso fin a Peraga e di lì via, adeo quelli villani voleano ritornar. Tamen non fu vero, et li confortavemo andar di longo, et non era verità.Pur eramo in qualche dubitatione, et zonti a Strà, perchè non si pol più andar avanti, si va a cavallo o a piedi per non esser l’aqua di Strà in là. Et erano assa’ patricii venivano zoso, alcuni stati fin hora in l’assedio a Padoa, et altri soldati, et andamo a Padoa con sier Marco Zustignan qu. Sier Jacomo, sier Nicolò Zorzi qu. Sier Bernardo, sier Luca Vendramin qu. Sier Lunardo, sier Luca Loredan qu. Sier Francesco et sier Lorenzo Moro di sier Cristofolo.... Tamen, i nimici haveano a Limene tolto le acque, adeo mal si poteva masenar in Padoa, maxime a Ponte Molin et era carestia di pan, adeo molti fanti vidi a la porta dil capitanio dimandando pan..... A di 7, domenega de matina, sier Hironimo Contarini proveditor di l’ armada, con alcuni cavali lizieri et arzieri et altri, cavalchò verso Limene, e intese certo eri tutto il campo esser partito verso Vicenza, e vete la rostra fata lì per tuor le acque, la qual da guastatori si farà cavar li burchi et piere.”34

11. Il disegno raffigura la presa d’acqua dal Brenta dei Colmelloni di Limena da cui trae origine la Brentella scavata, come si dice, dai padovani nel 1314 per arricchire di acque la rete canalizia urbana e in particolare i due pioveghi, quello di Stra e quello di Battaglia. E’ in questo punto che gli imperiali costruirono nel 1509 la rosta per ostruire la presa e lasciare senz’acqua la città di Padova come estremo tentativo di ridurla di nuovo in stato d’assedio; ciò che poi non avvenne per la decisione di Massimiliano di ritirarsi definitivamente. 34 Marin Sanudo, I diarii (1496-1533), Venezia 199: pagg. 169-170

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4. IL CATASTICO DELLA VIa PRESA DEL 1675 E IL VASO DELLE PORTE NEL 1761 Con il progressivo affermarsi della lunga pax veneziana, a partire dal secondo decennio del XVI secolo, la fortificazione di Stra come tante altre rocche di origine medioevale perse di importanza; verrà dapprima ceduta e infine distrutta, ma è certo che qui verrà mantenuto un punto di controllo e di esazione daziaria sul traffico fluviale, quantomeno sino alla fine del XVIII secolo. Nel 1675 viene redatto, ad opera del perito Paolo Rossi, un catastico completo del territorio della cosidetta VIa presa del Brenta, cioè una rilevazione accurata di tutte le proprietà immobiliari pubbliche e private nelle ville, ossia nei comuni rurali, appartenenti a quello che oggi definiamo un consorzio, in modo da assegnare a ciascun proprietario la tassa per l 'irrigazione e la manutenzione della rete canalizia in relazione all'entità e alla natura del bene fondiario.35 Questo catastico, comprendente tutto il territorio del distretto di Piove alla destra del Brenta e fino al Taglio Nuovo di Sambruson, descrive, fra le altre, tutte le proprietà fondiarie della Sermazza, ancora villa autonoma, così come quelle di Vigonovo, GaltaTombelle, Celeseo, anch' esse considerate ville ancora distinte.

12. Paolo Rossi, Catastico della VIa presa della Brenta, 1675 –Consorzio di Bonifica Bacchiglione-Brenta. Rielaborazione grafica e assemblaggio delle diverse particelle. Ricostruzione dell’assetto dell’area a destra dell’ultimo tratto del Piovego nel Comune censuario della Sarmazza fatta da me nel 1994 per assemblaggio a mosaico dei disegni delle singole particelle fotocopiati, ricopiati e ricomposti. Nella zona che interessa la nostra indagine, cioè la fascia costiera lungo il Piovego e il primo tratto del Brenta verso il territorio del comune di S.Piero, troviamo registrate e raffigurate le seguenti proprietà: 1. lungo il Piovego e il canale scolmatore - al confine di Tombelle, un terreno con casa di Zuanne Anselmi di Padova ; - un palazzo con brolo di Giacomo Minio ;

35 Paolo Rossi. Catastico della VIa presa della Brenta, Archivio Storico del Consorzio di Bonifica Bacchiglione-Brenta

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- un palazzo e una fornase di Andrea Vendramin, che teneva parte della proprietà, probabilmente il palazzo, per suo conto, mentre la fornace di laterizi era affittata ; - una casa con terra di Antonio Capello , ancora oggi esistente seppure in parte trasformata (si tratta della casa sul fianco della quale è l'edicola della Madonna in via Pasubio in località Giudecca); - una casa con valesela (piccola valle: terra bassa , lasciata adacquata probabilmente per uso di peschiera); - un palazzo con case da abitadori di Francesco Loredan e fratelli; 2. lungo il primo tratto del Brenta dopo lo scolmatore - un palazzo di Andrea Vendramin, per uso di casa ; - un palazzo di Antonio Capello secondo, per suo uso ; - un palazzo di Francesco Loredan, per suo uso; 3.Infine, lungo la direttrice della attuale via Giotto, poco distante dal ponte e dalle chiuse di allora, troviamo altre due proprietà interessanti: - un terreno con palazzo di Piero e Zambattista Foscarini; - un palazzo con un pezzo di terra di Triadon Gritti. Purtroppo il catastico esclude dalla registrazione e dalla rappresentazione proprio quella porzione di territorio che formava la testa di ponte meridionale e che era compresa tra Piovego e Brenta da un lato, e dall’altro tra il canale scolmatore e la stradina che lo affiancava verso S. Piero; quindi non c’è il borghetto della Giudecca né il casino già Bellavitis. Del palazzo Vendramin con la fornace non c'è più traccia oggi, ma abbiamo la incisione del Costa che ce lo rappresenta; scomparsi sono sia il palazzo dei Foscarini, sia quello di Triadon Gritti. Lungo il Brenta, subito dopo il ponte, del palazzo "bifamiliare" Vendramin-Capello non resta traccia, ma se ne ha memoria nelle incisioni del Coronelli e del Costa, mentre rimane ancora oggi quella villa Loredan, corrispondente all'attuale villa Smania., da non confondersi con le altre due ville dei Loredan poste lì vicino e già nel territorio di Stra. Del canale scolmatore e della stradina ad esso parallela resta invece traccia evidente nel fosso interrato affiancato da una linea di alberelli e di cespugli che, iniziando da via Giotto in faccia all’ imbocco di via Pasubio, circonda tutta l'area sbucando su via Roma in corrispondenza del vicolo Pisa oltre il ponte . Un inedito disegno tecnico del 1761 ci permette di capire come era efettivamente la conca delle porte di Stra inventata 280 anni prima da Dionisio da Viterbo e, a quella data, ancora in funzione.

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13. "Pianta del Mandrachio e Vaso delle porte di Strà, formato in ordine a lettera dell' Ecc.mo Mag.to alle acque del giorno 9 aprile corrente nel quale con lettere A B restarono marcati li N: 70 piedi del murazzo del Mandrachio i quali minaciano di cadere giusto alla rella.ne del giorno di oggi. Strà li 14 aprile 1761.Gioseppe Foin, Ajut.e" Come recita il titolo, il disegno rappresenta la "Pianta del Mandrachio e Vaso delle porte di Strà, formato in ordine a lettera dell' Ecc.mo Mag.to alle acque del giorno 9 aprile corrente nel quale con lettere A B restarono marcati li N: 70 piedi del murazzo del Mandrachio i quali minaciano di cadere giusto alla rella.ne del giorno di oggi. Strà li 14 aprile 1761.Gioseppe Foin, Ajut.e" 36 Oltre alla pianta in "Scala di passi n.° 50 veneti" è riportato anche uno "Spaccato attraverso del Mandrachio in faccia il Murazzo pregiudicato". Dunque il rilievo viene effettuato con estrema sollecitudine dal perito Giuseppe Foin, su ordine del Magistrato alle Acque, per evidenziare lo stato di pericolo rappresentato dalle condizioni di un tratto di circa 25 metri del murazzo di destra del mandrachio, che era quel tratto d'acqua che fungeva da terminale del Piovego prima del vaso delle porte vero e proprio. Il disegno è oltremodo ricco di informazioni. Partiamo dal sistema delle acque. A ovest abbiamo l'ultimo tratto del canale che viene da Padova; prima di entrare nel mandrachio, che formava una specie di darsena, si dirama sulla destra il canale cosiddetto ristoratore -con funzione di scolmatore, lo stesso chiamato buova da Dionisio da Viterbo e raffigurato nel catastico della VI presa- il quale aggira tutto il sito formando così un isola circondata da acque, collegata ai lembi di terra circostanti da tre ponti: a nord dal ponte posto esattamente sopra una delle due porte della conca in linea con quello principale sul Brenta, a ovest da un ponte posto sulla direttrice di riviera a destra del Piovego verso Tombelle e Vigonovo e a est un ponticello verso S. Piero.

36 Il disegno del Foin si trova presso l’Archivio di Stato di Padova.

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Esattamente di fronte al ponte sulle chiuse, fra le case ivi attestate , è indicata una osteria. La riva a sinistra del Piovego vede indicata la strada reggia , cioè la strada principale verso Noventa e Padova, fra il Piovego e il Muro di Ca' Valier37; di estremo interesse è la indicazione de Il torresino posto su questa riva proprio all'imbocco del mandrachio, proprio in faccia al muro pericolante. Il modo con cui tale piccola torre è disegnata sembra indicare un rudere; probabilmente si tratta di un resto del sistema di fortificazione medioevale, più precisamente di una torretta di quella prima muraja della rocca di cui parlava il Sanudo.38 Registriamo dal disegno di sezione che il Mandrachio era largo poco più di 23 piedi, cioè circa 8 metri e che era protetto sul fianco sinistro da un muro di ca. 1, 8 metri e sul fianco destro da un muro di quasi 5 metri, a sostenere dunque un alto terrapieno. Va ricordato che, fino ai grandi lavori ottocenteschi, eccetto il sistema mandrachio-conca, le rive del Piovego così come quelle del fiume erano pressochè prive di argini, ciò che conferiva ai luoghi un carattere molto diverso dall' attuale, ciò che vediamo testimoniato dalle incisioni del Costa e del Coronelli. C’ è sempre stato un unico tratto nel quale la riva destra del Brenta era molto più alta, proprio quello del bordo dell’ isola della Sarmazza o di Strà. Si tratta certamente una altura naturale, un dosso, quello che costituì la sponda di svolta verso est del fiume e luogo ideale per collocarvi la bastia intorno alla testa di ponte opposta a quella della rocca . Un altro disegno del 1769 del perito Tommaso Scalfurotto merita di essere analizzato nel tratto che raffigura quest’area. Esso mette in evidenza la confluenza in Brenta della Tergola (Veraro) da Nord e quella del Piovego da Sud e sulla punta fra il canale e il fiume il palazzo Valier con il suo giardino. Sulla riva sinistra del fiume sta la Villa, cioè il paese, di Fossalovara; alle due teste del ponte doppio Villa Foscarini da una parte e il piazzale con un nucleo di case dall’altra, prossime alla conca di navigazione. Il canale ristoratore è indicato con il generico sborador mentre appare il toponimo Giudecca lungo una stradina , tuttora esistente, che taglia la punta di terra fra Brenta e Piovego alle spalle di Villa Valier.39

37 Come si può capire la strada regia, ossia strada principale, era ancora quella che andava verso Noventa in destra Brenta e non la attuale che porta da Stra alla Busa di Vigonza. 38 Il Baldan ricorda come ancora nelle cartoline dei primi anni del '900 il ponte sul Piovego venisse chiamato Ponte del Torresino. Ho potuto però constatare che a livello popolare fra le persone di una certa età il ponte viene chiamato ancora in questo modo. 39 Il disegno di Tommaso Scalfurotto , pubblicato da M.Guiotto in Momumentalità della Riviera del Brenta-Itinerario storico artistico dalla laguna di Venezia a Padova, Limena-Padova,1983, si trova in S.E.A., Brenta, n.83- Archivio di Stato di Venezia.

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14. Tommaso Scalfurotto, Corso del Brenta dal ponte di Vigodarzere a quello di Strà, 29 dicembre 1769.- A.S.P.- Particolare

15. Palazzo del Sig. Santorio, incisione di G.F. Costa (G.F.Costa, Delle delicie del fiume Brenta espresse ne’ Palazzi e Casini situati sopra le sue sponde dalla sboccatura nella Laguna di Venezia fino alla città di Padova Venezia 1750 e 1756 e, Riedizione ritoccata, 1762) Si tratta del palazzo con annessa fornace, situato sul Piovego nei pressi dell’isola di Sarmazza, che nel 1675 risultava appartenere ai Vendramin.Le due costruzioni, prima la fornace e poi il palazzo, risultano essere state demolite già intorno alla metà dell’800, non essendo più registrate a partire dai catasti austriaco e austro-italiano.

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16. G.F.Costa, Palazzo del N.H. Valier. La villa, non più esistente, secondo alcune fonti, sarebbe stata progettata da Andrea Palladio. Essa sorse sul tratto estremo della lingua di terra fra Brenta e Piovego- proprio nell’area dove sorgeva la Rocca di Stra- per iniziativa dei Bernardo, famiglia che come i Contarini aveva forti interessi sulle porte d’acqua, poi passò ai Valier e infine ai Foscarini ai quali appartenne la tuttora esistente Villa Foscarini - Negrelli, oggi Rossi. (G.F.Costa, Delle delicie del fiume Brenta espresse ne’ Palazzi e Casini situati sopra le sue sponde dalla sboccatura nella Laguna di Venezia fino alla città di Padova Venezia 1750 e 1756 e, Riedizione ritoccata, 1762) Quella del catasto napoleonico è la prima rappresentazione effettuata con precisione geometrica della configurazione dell'area e del suo assetto idrografico, della divisione proprietaria e dei fabbricati. A differenza del disegno della perizia Foin del 1761, la tavola rappresenta tutta l'area oggetto di questa indagine, sia quella parte compresa fra il Piovego e il canale ristoratore, sia le zone ad essa contermini appartenenti sempre al comune di Vigonovo, fra le quali l'ultima parte della lingua di terra fra Piovego e Brenta, ai confini di Noventa. La zona è chiamata, ciò che forma il titolo della tavola, Piazzale di Stra; evidentemente non è una indicazione assegnata dal geometra compilatore bensì un toponimo di uso comune. D' altra parte è questo luogo specifico ai margini della Sarmazza ad essere sempre stato identificato con il termine Stra, sin dalle carte quattrocentesche, e "piazzale" era chiamato lo slargo stradale fra i ponti e oltre le chiuse, dove c'era l' osteria.

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17. 1808 ca CATASTO NAPOLEONICO-Vigonovo Foglio 16 b- Archivio di Stato di Venezia Si può dire che la mappa catastale napoleonica sia l’ ultima raffigurazione del nodo stradale e fluviale di Stra prima delle grandi trasformazioni ottocentesche; si può anche ritenere con buona ragione che rappresenti, almeno planimetricamente, l'assetto che è perdurato pressochè inalterato a partire dal 1481. E' registrato in questa pianta anche quel triangolo di terra compreso fra il Piovego e le attuali via Pasubio e via Giotto, che era stata totamente escluso nel catastico della VIa presa e rappresentato solo in parte nel disegno del 1761, nel quale sono registrate l'attuale villa Bellavitis-Draghi, le casette Vendramin a nord della stessa e i piccoli edifici a schiera che ancora oggi caratterizzano via Pasubio, strada nota anche come Giudecca. A nord del ponte sul Piovego si prolunga il giardino della seconda villa Foscarini, quella scomparsa, che nel disegno del 1761 è indicata come Ca' Valier e che prima ancora era dei Bernardo. A sud del ponte si apre uno slargo con una serie di case, più o meno quelle che ancora vi si vedono e in una delle quali nel 1761 c'era l'osteria, osteria che possiamo facilmente immaginare sussistesse ancora nel 1808 e per molto tempo ancora, posta proprio laddove l'attesa di burchi, burchielli e barche di volta del proprio turno di passaggio delle porte, imponeva ai passeggeri e ai barcari soste abbastanza lunghe da indurli a prendere ristoro. La strada che corrisponde grossomodo alla attuale via Giotto presenta ancora un andamento discontinuo: il tratto che proviene da sud come laterale della via Annia- Altinate- il più diretto collegamento con Vigonovo fino al 1858 -sbocca ancora in asse alla facciata di villa Bellavitis e all'incrocio è fiancheggiata dall' edificio che come nel 1675 è ancora attribuito ai Capello.

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Sulla sinistra della tavola troviamo registrate le case che furono dei Minio (1675) e il Palazzo con la fornace da mattoni che furono dei Vendramin; in mezzo a queste due proprietà sbuca un' altra strada, ora scomparsa, anch'essa proveniente da Vigonovo. Non è registrato un ponte sullo sbocco dello scolmatore in Brenta fra il piazzale e la strada di riva verso S. Piero, ponte che pure era segnato nel disegno del Foin. Significa che a quel tempo , chi avesse voluto andare sulla riva destra del fiume , verso S.Piero e Fossò, doveva aggirare tutta l'isola passando il ponte sul lato opposto.40 5. DAL TAGLIO DELLA CUNETTA ALL’IDROVIA INCOMPIUTA Il cosiddetto catasto austriaco,41 redatto fra il 1828 e il 1845, cioè non moltissimi anni dopo quello napoleonico, registra nella zona già delle trasformazioni significative. Innanzitutto, in basso a sinistra del foglio, si intravede segnato il nuovo tracciato rettilineo del taglio del Cunetta, che in quegli anni è in corso di realizzazione. Risulta poi allargata la strada corrispondente alla attuale via Giotto, chiamata Strada di Villanova, la quale risulta rettificata venendo ad assumere più o meno il tracciato attuale. Villa Bellavitis amplia il terreno di pertinenza verso est, così come l' edificio ex Capello che la fronteggia a sud. Appare un nuovo ponte sul Piovego proprio in linea con la via di Villanova allargata. Il tratto terminale della punta denominata storicamente Stra, un tempo del Comune di Sarmazza e poi assegnato dal catasto Napoleonico al Comune di Vigonovo, passa ora al Comune di Fossolovara. In questo catasto appare il termine isola per indicare il settore ancora circondato dalle acque del canale ristoratore e che ancora per pochi anni rimarrà tale. Non appare più la fornace Vendramin. Col cosiddetto catasto austro-italiano-che rimase in vigore anche dopo il 1866, anno dell' unità del Veneto all'Italia, e che fu aggiornato sino al 1889- troviamo consolidate e completate le grandi trasformazioni comparse già nella precedente mappatura.

40 Dobbiamo in ogni caso immaginare che il fiume in vari punti era attraversabile con barche che avevano funzione di traghetto; un passo è ipotizzabile a Fiesso, un'altro a Paluello. 41 1828-1845 CATASTO AUSTRIACO-Vigonovo Foglio 3-A.S.Ve.

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18. 1846-1889 CATASTO AUSTRO-ITALIANO-Vigonovo Foglio 3-A.S.Ve Il nuovo corso del Brenta è cosa fatta: il Cunetta con i suoi argini appare sulla sinistra del foglio. E' già stata realizzata anche la nuova conca di navigazione con le porte, nella posizione attuale fra il nuovo Brenta e l'ultimo tratto del Piovego che diventa così il primo tratto del canale Naviglio Brenta. Proprio in questo tratto l 'alveo del vecchio Piovego viene rettificato e affiancato da alti argini; il mandrachio con i suoi muri viene demolito; il canale ristoratore viene imbonito , cioè quasi totalmente interrato, scomparendo così definitivamente la separatezza della plurisecolare Isola di Stra nella Sarmazza, anche se nella planimetria appaiono ancora molto marcati i tracciati di quelli che furono i bordi del canale ridotto a fosso, e i margini della strada che lo fiancheggiava. Dopo la fornace scompare anche il palazzo Vendramin. In questa fase il ponte per passare a Fossolovara risulta essere eslusivamente quello sorto dirimpetto a via Giotto. Sappiamo da Luigi Dian42 che truppe di occupazione austro-ungarica di nazionalità croata, andandosene nel luglio del 1866, all'arrivo dei cavalleggeri italiani del Monferrato- così come avrebbero fatto i tedeschi in ritirata nel 1945- avevano "abbruciato il ponte sul Piovego", (questo ponte) che era dunque di legno, e "fatto saltare in aria parte dell'altro in pietra che attraversava la Brenta", il primo ponte della Noventana sul nuovo taglio del Cunetta. Tutte le strade che collegavano questa parte della Sarmazza con Vigonovo vengono interrotte o deviate a causa del taglio della Cunetta, in particolare la strada detta di Villanova (attuale via Giotto) a sinistra del nuovo canale viene ad interrompersi sull' argine; sulla riva opposta viene deviata lungo l'argine e portata a confluire nel punto in cui sorgerà il ponte sul Piovego in prossimità a quello sul nuovo Brenta-Cunetta della Noventana. Le trasformazioni più importanti di tutto il secolo XX sono state quelle causate dal taglio dell' idrovia moderna che, come sappiamo, rimane a tutt’oggi incompiuta e abbandonata. 42 Luigi Dian, Intorno al Comune di Vigonovo nella Provincia di Venezia- Cenni storici, Padova , 1873.

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Mentre venne scavato e adacquato il tratto fra la zona dell' Interporto di Padova e la Cunetta, fino al punto dove si realizzò in parte anche l'impianto della nuova conca, più oltre, cioè a sud dell' area in questione , si tracciò lo scavo, si espropriarono i terreni, si realizzarono ponti e svincoli, ma non si completò mai il canale. Ma se alla sinistra del Cunetta e a sud di questa parte della Sarmazza non vennero a completarsi le opere della moderna idrovia, le modifiche alla viabilità stradale che rimangono assurda testimonianza della grande incompiuta, hanno comunque caricato sull' area, intesa stavolta in senso più ampio, sino al centro di S.Pietro nel Comune di Stra e a quello di Galta nel Comune di Vigonovo, ulteriori segni di disordine ambientale. 5. EDIFICI ESISTENTI E ALTRE PERSISTENZE DELL’ANTICO ASSETTO Come abbiamo detto all’inizio molti sono ancora i segni persistenti dell’antico assetto. L’isola di Sarmazza è ancora ben riconoscibile dato che , seppure imbonito già dalla metà del XIX° secolo, il corso d’acqua che faceva da scolmatore alla conca veneziana mostra ancora ben leggibile il suo tracciato sul terreno.

19. Veduta del blocco di edifici davanti al ponte di Stra sulla sponda dell’Isola di Sarmazza (foto eseguita prima del 1983).

20. Ponte del Torresino in un’immagine di primo novecento.

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21. Vista dell’ultimo tratto del Piovego dopo la rimozione della conca di Dionisio da Viterbo.Immagine di primo novecento Per quanto riguarda gli edifici, tutto il blocco di case che si affacciava sul ponte ancora persiste pressochè integro , e non solo nella sua configurazione planimetrica. Fino a pochi decenni or sono rimase attiva in uno di questi edifici un esercizio pubblico,da ultimo come gelateria, nella stessa posizione che troviamo registrata l’osteria nei disegni e nelle memorie dei secolo scorsi. Lo stesso casino di villeggiatura Grimani raffigurato dal Costa in una delle sue incisioni, e che si affacciava non sul fiume ma proprio sul canale ristoratore, è riconoscibile per posizione e per alcuni caratteri in quella villa che è stata recentemente restaurata prossima a vicolo Pisa, cioè prossima al canale ristoratore .

22. G.F. Costa, Casino del N.H. Grimani (G.F.Costa, Delle delicie del fiume Brenta espresse ne’ Palazzi e Casini situati sopra le sue sponde dalla sboccatura nella Laguna di Venezia fino alla città di Padova Venezia 1750 e 1756 e, Riedizione ritoccata, 1762)

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23. Il casino Contarini- Bellavitis, come appare oggi. La foto ripresa dall’alto e da nord-est permette di distinguere il corpo centrale originario cinque- seicentesco, la zonta settecentesca a ovest e quella ottocentesca a est. Caratteristico il ponticello a tre archi risalente alla seconda metà dell’ottocento che permetteva e permette di raccordare dolcemente la quota del piano rialzato, posto sopra quello seminterrato della cantina, con la quota arginale del Piovego. Villa Bellavitis, un altro edificio nato come casino di villeggiatura di un ramo della famiglia Contarini43, che pare sia stato adibito anch’esso nel XVIII° secolo ad osteria con locanda, e data la accesa colorazione chiamato casin rosso, esiste ed è stato recentemente recuperato dal degrado.44 Questo edificio segnava il punto di arrivo della strada proveniente da Vigonovo e da Piove, capoluogo della Podesteria del distretto Padovano cui appartenne l’area sino al ridisegno moderno dei distretti e poi delle provincie. Esso rappresentava innanzitutto la postazione più prossima della potente famiglia veneziana ai diritti, condivisi con altre famiglie quali i Bernardo, i Foscarini e i Valier, sul transito dei burchi da carico, dei burchielli e delle “barche di Padoa” per la conca di Strà. Anche di una casa appartenuta ai Capello, testimoniata nel catastico della VIa presa e nei sommarioni del Catasto Napoleonico, restano tracce in un edificio situato all’imbocco di via Pasubio, anch’esso significativamente intestato in cao (all’inizio) della strada proveniente da Vigonovo prima del suo ridisegno. Lo stesso borgo di piccole case dell’ attuale via Pasubio è testimone dell’ antico assetto della zona e delle attività che si svolgevano attorno a questo nodo strategico delle porte d’acqua prima del loro spostamento nella posizione attuale, attività che perdurarono sicuramente fino allo scomparire del

43 Sulla facciata nord della casa, quella verso il Piovego, sul timpano del baroer si conserva ancora la corona comitale in ferro che soprastava tradizionalmente l’arma dei Contarini del Zaffo o di San Basegio. Di una delle insegne di pietra che contrassegnavano sicuramente entrambe le facciate, è stata ritrovata solo la parte superiore. 44 La famiglia Bellavitis di Venezia possedette questa villa a partire probabilmente dalla seconda metà dell’800 fino agli anni dell’immediato secondo dopoguerra. Attualmente è di proprietà dei coniugi Elisabetta Tittonel e Antonio Draghi, il sottoscritto.

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trasporto fluviale.Questo borgo è chiamato ancora oggi dai suoi abitanti Giudecca, malgrado l’attribuzione, forse durante il ventennio, del più patriottico nome di via Pasubio.45

45 Giudecca - ed è curioso che questo toponimo sia registrato nel 1769 dallo Scalfurotto anche sull’altra sponda del Piovego- sta sicuramente a ricordare la presenza di abitanti di religione ebraica, attirati forse dalla posizione particolarmente felice per l’esercizio dei commerci ai quali si dedicavano. Va ricordato infatti che Stra e l’isola della Sarmazza erano il punto di confluenza della linea di trasporto da Nord rappresentata dal Brenta con quella, sempre fluviale e canalizia fra Venezia e Padova e con quella stradale con il Piovese, e costituivano una piazza densa di traffici e di viaggiatori che vi si fermavano e brulicante di persone addette ai vari mestieri: barcari, facchini, cavallanti, osti e camerieri, guardiani alle porte, guardie ed esattori, mendicanti. Anche a Dolo, nei pressi della vecchia conca interrata anch’essa con l’entrata in esercizio del Brenta Cunetta, persiste lo stesso toponimo Giudecca con un gruppo di case particolarmente denso.

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25. Bastia di Stra e Isola della Sarmazza. Individuazione degli edifici e delle tracce persistenti e degli edifici e dei siti scomparsi sulla base della Carta Tecnica Regionale.

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UN BRANO DELLA RIVIERA DEL BRENTA DA SALVAGUARDARE Con questa ricerca ho cercato di mettere insieme tutti gli elementi utili a dimostrare la grande importanza storica di questo brano di territorio. Quanto rimane come traccia del suo antico assetto è ancora sufficiente, insieme a questi dati documentari, a rievocarla. Il rischio è che queste tracce residue via via si perdano o vengano assorbite e cancellate da nuove aree di espansione edilizia o trascurate da malaccorti Piani Particolareggiati di recupero. Ritengo che la conservazione monumentale e paesaggistica di quest’area possa invece costituire un fondamentale contributo alla salvaguardia della Riviera del Brenta proprio perchè ha costituito e costituisce uno dei suoi snodi principali, ovvero la sua intestadura occidentale, e l’occasione per salvaguardare quello che si può considerare uno dei brani del paesaggio rivierasco più significativi e ancora intatti, cioè il tratto di territorio agricolo che si estende a sud dell’Isola di Sarmazza sino alla via Altinate. La decisione spetta innanzitutto alla Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio in quanto organo di tutela, ma la proposta della conservazione è rivolta anche al Comune di Vigonovo che potrebbe così meglio fondare e valorizzare la propria appartenenza alla sponda storica della Riviera del Brenta , oltre che alla Regione del Veneto perchè includa anche questa fra le zone di conservazione ambientale e di valorizzazione turistica nello specifico Piano d’Area della Riviera del Brenta. Un vincolo ambientale e paesaggistico potrebbe essere il primo passo nella direzione della salvaguardia; il secondo potrebbe essere una campagna di indagine archeologica e geologica che faccia da preludio alla riproposizione , magari in sezione ridotta, dell’acqua nella buova del canale ristoratore. Avvertenza. Mi corre l’obbligo di ricordare l’opera che mi ha offerto più di altre elementi e indizi per questa ricerca. Si tratta del libro di Mario Guiotto, Momumentalità della Riviera del Brenta-Itinerario storico artistico dalla laguna di Venezia a Padova, Limena-Padova, 1983. L’ architetto Mario Guiotto, fu Soprintendente in Sicilia, poi a Trento e, dal 1960 al 1968, Soprintendente ai Monumenti del Veneto Orientale, circoscrizione che comprende anche la Riviera del Brenta. La sua opera Monumentalità della Riviera del Brenta è ancora oggi la più sistematica, documentata e completa disamina storico-critica di questo territorio, un itinerario attento che diventa anche un catalogo delle memorie documentarie e di ogni persistenza edilizia o ambientale via via identificata e riconosciuta ormai più di 25 anni fa. (a.d.)

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Antonio Draghi

VENEZIA LA CHIESA DI S. NICOLO’ DE’ MENDICOLI

E LA COMUNITA’ DEI NICOLOTTI

Perchè mai S. Nicolò dei Mendicoli, una delle più antiche chiese di Venezia, viene inserita fra i

Luoghi e gli Itinerari della Riviera del Brenta ? Perché questa chiesa del sestiere di Dorsoduro, all’estremo limite sud-occidentale dell’ aggregato

insulare su cui sorge Venezia, è stata il fulcro della comunità dei Nicolotti, fatta di pescaori, di barcari e squeraroli, di marineri, remurchianti e acquaroli.

Questi due ultimi mestieri -quello dei remurchianti e quello degli acquaroli- avevano molto a che fare con la via d’acqua del Brenta e col suo terminale di Fusina sul bordo della laguna.

I remurchianti effettuavano con una barca a remi il servizio di traino dei burchielli e delle altre barche che dovevano imboccare il Brenta a Lizza Fusina, dove avrebbero potuto noleggiare il traino con i cavalli per proseguire, o che arrivavano a Fusina e dovevano attraversare la laguna e i canali interni alla città. Gli acquaroli andavano con barche cariche di botti alle gorne dei Moranzani per

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caricare l’acqua proveniente dalla Seriola, l’acquedotto di Venezia, derivato dal Brenta all’altezza del Dolo, per portarla in città e caricare i pozzi privati e quelli pubblici quando l’acqua piovana risultava scarsa.

Ma la punta sabbiosa su cui erano sorte le chiese di S.Nicolò e di S. Marta era essa stessa un portato del Brenta in laguna. Tale lingua di sabbia formata dalle torbide del fiume era diventata agli inizi del ‘500 così lunga che quasi toccava la terraferma e, rappresentando un serio pericolo per la sicurezza militare della città, venne ridimensionata.

Ma questo settore della città con la vicina Riva delle Zattere costituì anche in seguito il terminale veneziano della Brenta e dei traffici di persone e merci che si svolsero lungo il suo corso fino alla crisi della navigazione fluviale. Inoltre esso rappresentò anche uno dei centri di urbanizzazione più antichi e simbolici della città, quello che più di ogni altro può evocare le origini di Venezia nella tarda romanità e il ritrarsi dei padovani nelle lagune per sfuggire alle devastanti invasioni barbariche. La comunità dei Nicoloti costituiva, con quella antagonista di Castello, il sestiere dell’Arsenale all’estremo opposto di Venezia, uno dei capisaldi del consenso popolare su cui si fondava lo Stato veneziano. I Nicolotti eleggevano addirittura un proprio Gastaldo chiamato doge dei nicoloti e i pescatori erano considerati i più attendibili conoscitori della laguna, delle sue acque e delle sue barene tanto da esere sempre consultati dal Magistrato alle Acque su ogni questione riguardante l’assetto idraulico lagunare, quello dei fiumi e delle valli da pesca.

LA CHIESA DI S. NICOLO’ Ha un impianto basilicale a tre navate. Una fastosa venezianissima decorazione lignea a bassorilievo, con le statue degli apostoli e tele con episodi della vita di Cristo, corre lungo tutta la navata centralee si conclude nell’iconostasi con il Crocifisso, la Madonna, S. Giovanni Battista e due angeli di raffinata fattura. Molte opere d’arte e di fine artigianato decorano la chiesa ed è l’insieme di esse, pur in assenza di opere dei pittori veneziani più famosi, che rendono la chiesa di S. Nicolò uno dei luoghi più significativi per capire la storia del suo popolo e la stessa venezianità.

LA CHIESA DELL’ ANZOLO RAFAELE

Anche la chiesa dell’ Anzolo Rafaele, uno dei quattro Arcangeli, è fra le più antiche di Venezia anche se ampiamente rimaneggiata nel XVII° secolo. Essa è a croce greca su tre navate. Progettata per avere tre facciate, gli esterni non furono poi mai completati. Sul parapetto dell’organo settecentesco che sovrasta l’ingresso vi sono i comparti delle Storie di Tobiolo dipinti da Gianantonio Guardi ( per alcuni da attribuire al più noto fratello Francesco) capolavoro della pittura veneziana del ‘700. Altre opere pittoriche arricchiscono la chiesa che però è ragguardevole soprattutto per la spazialità della sua architettura.

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I REMURCHIANTI

In questa incisione di G.F. Costa (1750-539 si vedono due barche di remurchianti: una che viene da Venezia che traina un burchielo di prima

classe, un'altra ha agganciato una barca da Padova , di classe inferiore ma munita di tiemo46, in attesa di trainarla a Venezia.

I POZZI DI VENEZIA

"Venezia è in acqua et non ha acqua", così scriveva Marin Sanudo, storico e cronista veneziano, intorno ai primi anni del 1500.

Costruita dove nessun popolo avrebbe mai ragionevolmente edificato una città, Venezia, circondata dall'acqua salata, ebbe, in effetti, fin dalle sue origini, il problema, di fondamentale importanza, del reperimento dell'acqua potabile. I primi abitanti delle lagune probabilmente sfruttarono con scavi e

46 Il tiemoera il coperchio fatto di tavole disposte a volta per riparare le merci deperibili sui burci da carico o, nel caso di barche per il trasporto passeggeri, per riparare le persone.

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rudimentali trivellazioni le falde acquifere superficiali, formate dalle piogge e trattenute dagli strati argillosi (fenomeno ancor oggi riscontrabile in alcune grandi isole della laguna e lungo i litorali). Ma il trasferimento del governo veneziano nelle isole realtine (811) aggravò il problema dell'approvvigionamento idrico.

La soluzione fu trovata con la costruzione dei "pozzi alla veneziana" di cui ancora oggi rimangono le testimonianze (le "vere da pozzo", alcune autentiche opere d'arte) nei "campi" e in molti luoghi della città. Il "pozzo alla veneziana" è una struttura complessa che aveva funzioni sia di cisterna (cioè di recipiente per conservare l'acqua), sia di grande filtro per depurare l'acqua piovana.L'opera veniva realizzata dai "Pozzèri", che formavano un "colonnello", cioè un sottogruppo, dell'Arte o Scuola dei "Murèri", esistente già nel 1200.L'esperienza dei "pozzeri", che tramandavano di padre in figlio i segreti della particolare tecnica costruttiva, era determinante per l'ottimale sfruttamento dello spazio disponibile e per il buon funzionamento del pozzo.Una volta deciso il luogo ove costruire il nuovo pozzo, si procedeva all'esecuzione dello scavo, in genere non più profondo di 5 metri sotto il livello del "comune marino", cioè del livello medio del mare. Le pareti dell'invaso venivano ricoperte con uno strato d'argilla, di 50-60 centimetri di spessore al fondo e di 30 alla sommità. L'argilla veniva a sua volta ricoperta con sabbia pulita, continuamente bagnata. Sul fondo, al centro dello scavo, veniva posta una lastra di pietra su cui si costruiva la "canna" del pozzo. Lungo il perimetro della vasca, alla sommità, si ponevano i "cassoni", specie di canali coperti, costruiti a secco. Ai vertici dei cassoni, vi era un elemento verticale di raccordo (la "pilela"), coperto da una lastra lapidea ("sigillo") con ("gatoi").A completamento dell'opera vi era la sistemazione della "vera da pozzo" e della pavimentazione a falde inclinate verso i "gatoi".L'acqua, lasciate eventuali impurità più grossolane nei cassoni, veniva filtrata dal letto di sabbia e si raccoglieva alla base della canna per essere poi attinta dall'alto. ( Testi e immagini sui pozzi veneziani sono tratti da ArcheoVenezia Trimestrale di informazione culturale-Archeoclub d’Italia-Sede di Venezia-AnnoVII, n. 4, dic.1995)

LA SERIOLA , L’ACQUEDOTTO DI VENEZIA

HINC POTUS URBIS (Trad.: Da qui l’acqua da bere della città) Questa iscrizione accompagna il bassorilievo col leone

marciano nel punto di presa d’acqua della Seriola al Dolo.

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Moranzani al termine di via Pallada Pontecanale pensile sopra il quale scorreva l’acqua della Seriola Veneta proveniente dal Dolo e diretta al mandracchio delle gorne (bacino adiacente alle chiuse, utilizzato attualmente per il rimessaggio dei natanti) per essere imbarcata sui burchi e distribuita nella città di Venezia. Sopra, un particolare del disegno ad acquerello del Foin del 1769.

Acquaroli che dalla barca caricano un pozzo versando l’acqua su una lunga gorna di legno.

Idroforo: “che porta l’acqua”. A pianterreno ospitava le idrovore di innalzamento dell’acqua della Seriola destinata ad alimentare la condotta sublagunare che portava l’acqua potabile a Venezia; al primo piano l’appartamento del custode. L’idroforo meccanico e la condotta sublagunare furono costruiti sul finire dell’800 in sostituzione del vecchio sistema.

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Da DARIO ZANVERDIANI

“San Nicolò dei Mendicoli un luogo emblematico nella storia della Serenissima”

Estrema propaggine a sud est della città, non solo la concludeva con l'insediamento conventuale di Santa

Marta, fondato nel 1315, ma originariamente la prolungava, anzi quasi la connetteva con la terraferma

tramite un sottile banco sabbioso e boscoso, il Ponte o Punta dei Lovi (lupi), definitivamente distrutto

soltanto nel 1509, quale pericolosa minaccia all'inviolabile isolamento insulare, in tempo di drammatici

eventi bellici (Lega di Cambrai).

Attraverso la contrada, quindi, un ponte, non solo materiale, ma anche simbolico e funzionale, risultava

gettato tra Venezia ed il territorio padovano. Esso riconduceva alla nascita stessa della città lagunare, sia

per la propria leggendaria fondazione, il giorno 25 marzo dell'anno 421, ad opera di tre nobili consoli

padovani, sia per l'azione dell'antico corso del Brenta, nel fissare con le sue ramificazioni e conseguenti

depositi alluvionali, le linee guida della futura forma urbis. Il ruolo nell'antico sistema di trasporti lagunari

viene invece testimoniato dalla toponomastica storica. Si registrava infatti la presenza, a nord, della

scomparsa fondamenta, con calle e campiello, dei Remurchianti, ovvero i rematori di grossi battelli

destinati al rimorchio in laguna di imbarcazioni e navigli di stazza maggiore. Ancora sussiste, presso il

campiello dell'Oratorio, la fondamenta di Lizza Fusina, sede fino all'inizio del XVIII secolo di un traghetto

diretto a quella località, per il collegamento con le terre patavine attraverso il Naviglio del Brenta. Una di

quelle direttive, per il trasporto di persone e merci, che artisti e cartografi, quali Jacopo de' Barbari

(1500), Matteo Pagan (1559) ed altri, evidenziano nelle loro piante prospettiche, ad illustrare le “porte

acquee” d'ingresso alla città. Vincenzo Coronelli, nella sua mappa topografica (1697), annota inoltre la

presenza di magazzini per merci, anch'essi un tempo segnalati dai toponimi e sempre da Fusina, in

Jacopo de’ Barbari Veduta di Venezia, 1500 Particolare della Punta di S. Nicolò e di S. Marta

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particolare dal canale artificiale della Seriola (XVI sec.), si provvedeva all'approvvigionamento d'acqua

dolce, trasportata in appositi burchi dagli acquaroli, la sede della cui arte si trovava presso la prossima

chiesa di San Basilio.

Nondimeno la titolazione al celeberrimo santo vescovo Nicola assumeva proprie connotazioni simboliche,

che rafforzavano le citate relazioni. Patrono, infatti, dei naviganti, le chiese a lui dedicate venivano fondate

a protezione degli itinerari acquei, in questo caso l'asse che dalla bocca di porto, con San Nicolò del Lido,

passava per i Mendicoli a Dorsoduro, per giungere alle ramificazioni del Brenta, con un San Nicolò a Mira,

come Myra località dell'Asia Minore, sede della cattedra del santo. Una evidente corrispondenza che

suggerisce una possibile origine della denominazione della cittadina, che si può affermare costituisse una

vera e propria estensione della Dominante, quale centro della vita “in villa” della celebrata Riviera del

Brenta. Per accennare soltanto brevemente all'importanza di San Nicolò per la fede e le tradizioni

veneziane, si possono invece ricordare le sue raffigurazioni nella Basilica Marciana ed una leggenda che lo

vede protagonista della miracolosa salvezza della città da un terribile fortunale, che l'avrebbe totalmente

sommersa, coadiuvato in ciò da San Marco e San Giorgio, proprio i santi che, con i loro templi, segnano

fisicamente un punto cruciale del citato percorso, tra il Bacino ed il canale della Giudecca, ovvero il luogo

del porto e del governo della Serenissima.

Ma era soprattutto la Venezia del popolo e delle origini, della pesca e della vita in laguna, che trovava in

questa contrada l'emblema più riconoscibile ed il suo fulcro, venendo a costituire un elemento cardine di

quella struttura civile che, nella convivenza dei diversi ceti, favoriva la concordia sociale e permetteva il

perpetuarsi della Repubblica. Anche occasioni festose, vivacemente raffigurate da Canaletto (1697-1768) e

Giambattista Brustolon (1712-96), cementavano questi rapporti: le sagre di Santa Marta che, illuminando

le calde notti di fine luglio e d'agosto, vedevano accorre all'arzere patrizi e cittadini facoltosi, a mescolarsi

con gli umili abitanti, per gustare le sogliole appena pescate e direttamente cucinate sulla spiaggia. I

pescatori, custodi delle secolari conoscenze sui delicati equilibri idrodinamici della laguna, godevano inoltre

di tale considerazione in materia, da venire di norma consultati dalle magistrature venete e dai loro tecnici

o proti, come il celebre Cristoforo Sabbadino (1489- II metà XVI sec.), grande protagonista degli studi e

degli interventi per la regolazione delle acque, ma anche del rinnovamento urbano rinascimentale, con

progetti anticipatori di futuri sviluppi.

La coesa comunità di San Nicolò, unita alla gemella dell'Angelo Raffaele, godeva di particolari e simbolici

privilegi, attraverso la figura del suo gastaldo, il Doge dei Nicolotti. Essa si contrapponeva

simmetricamente ai Castellani del capo opposto della città, sede della Cattedrale di San Pietro di Castello,

dando vita alle note e spesso cruente “battaglie” sui ponti. Certo mendicoli, cioè “bisognosi” e quindi

doppiamente protetti dal patrono, ma anche riconosciuti nel proprio ruolo dal potere politico e partecipi del

cerimoniale laico dello stato. Il ceto popolare degli abitanti della contrada non impediva tuttavia, in uno

sforzo condiviso, di mantenere ed arricchire il proprio tempio, simbolo religioso ma soprattutto di una

orgogliosa compagine sociale e frutto aulico del lavoro e delle fatiche di ogni giorno, che concretizzavano

nel mattone e nella pietra una civiltà millenaria, una storia unica ed irripetibile. Il nucleo parrocchiale della

Mendigola, come noto, è infatti antichissimo. Tralasciando le testimonianze d'epoca romana, la tradizione

ne fa risalire la fondazione alla Venezia predogale del VII-VIII secolo, mentre le prime notizie certe si

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riferiscono alla dedicazione dell'anno 1160, epoca dell'attuale costruzione. Vetustà d'insediamento che

l'accomuna alla vicina chiesa dell'Angelo Raffaele, che vanta una prima documentazione certa risalente al

1193, in occasione di una ricostruzione dell'edificio.

L'originaria morfologia urbana dell'area, come osservabile nelle testimonianze cartografiche, dalla pianta

prospettica del de' Barbari ai catasti ottocenteschi, mostra infatti un probabile, primitivo nucleo isolato,

costituito da un semplice tessuto edilizio, prevalentemente organizzato in corti e guidato, nella sua

articolazione, dagli affacci sulle direttrici acque: gli attuali rii di San Nicolò – Angelo Raffaele, delle Terese

e, posteriormente, presso la fondamenta dei Remurchianti, il rio ora interrato dell'Arzere, che scorreva

lungo il perimetro dei bassi fondali ad ovest della città. Una sacca in tempi più recenti imbonita (primi

decenni XIX sec.) per divenire terreno dell'austriaco Campo di Marte e poi delle Officine del Gas (1893). In

periodo tardoromanico e gotico, in particolare lungo rio dell'Angelo Raffaele, il tessuto edilizio, civile e

religioso, creò la connessione con gli antichi nuclei parrocchiali verso levante, cioè le insule di Santa

Margherita e San Pantalon, mentre nella direzione cardinale opposta, costituì la naturale conclusione di

questa conformazione urbana, con gli edifici e gli orti del monastero di Santa Marta.

Catasto Napoleonico, 1812. La punta di S.Nicolò con la Spiaggia di Santa Marta

L'iconografia veneziana, in primo luogo il vedutismo settecentesco, mostra infatti come la concezione di

forma urbis, elaborata senza soluzione di continuità nei secoli della Serenissima, prevedesse, quale

praticata soluzione terminale per le insule allungate, un insediamento conventuale con ampie aree d'orti.

Basti pensare al Canale della Giudecca, con i complessi di San Giovanni Battista e San Biagio, entrambi

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scomparsi ed in qualche modo sostituti: l'uno verso San Giorgio da una caserma con area verde, l'altro

dalla mole con torre del Mulino Stucky. Tra i molti altri esempi si può ricordare il monastero del Corpus

Domini, sul Canal Grande, all'estremità ovest di Cannaregio, presso l'attuale scalo ferroviario di Santa

Lucia, per sottolineare come, purtroppo, proprio in queste aree marginali si siano spesso concentrate le

peggiori devastazioni postnapoleoniche, fino agli attuali, mai paghi di far danni, emulatori.

Infatti nella stagione della cosiddetta Venezia industriale postunitaria, da alcuni chissà perché definita la

grande Venezia, si attuò la cancellazione fisica di gran parte dell'edilizia minore dei Mendicoli, operazione

proseguita in periodo fascista. Contemporaneamente si chiuse e si celò quanto sussisteva delle

architetture, quasi ad umiliare ed obliare, soprattutto, un'antica identità civile, con il conseguente,

inevitabile degrado sociale.

Gaetano e Bernardo COMBATTI, Planimetria della Città di Venezia , 1846- Punta di S.Nicolò e di S.Marta. Risulta già

realizzato il Campo di Marte.

Al 1882-83 è datata la prima insanabile cesura nel tessuto urbano, dovuta al complesso del Cotonificio

Veneziano (ora sede IUAV), una sorta di diga di mattoni e calcestruzzo, che isola e condanna alle

demolizioni la punta di Santa Marta, racchiusa tra di essa, l'ex Campo di Marte ed i nuovi interramenti per

la banchina portuale contemporaneamente realizzati. Questi avendo coperto la spiaggia, avanzando di

molto il margine della città verso il Canale della Giudecca, permisero la realizzazione dei Magazzini

Generali, entrati in attività soltanto nel 1896, ma con lavori iniziati nel decennio precedente. Mentre dal

lato opposto, rispetto al Cotonificio, s'interrò lo specchio d'acqua, o sacca, prospiciente l'insula di San

Nicolò, che scorgiamo ancora accogliere velieri alla fonda in una litografia di Marco Moro (1817-85),

datata 1860.

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Si eliminarono, inoltre, gli importanti squeri dell'Angelo Raffaele sul canale della Giudecca, retaggio

dll'antica ed ancora attiva ed anzi già modernizzata, arte degli squerarioli: alcuni complessi protoindustriali

che con le loro teze e le indefinite e sfrangiate rive digradanti verso il canale, per un verso costituivano un

ulteriore simmetrico richiamo a Castello, con i suoi squeri sul bacino, per un altro, ancora alla fine del XIX

secolo, erano l'elemento urbano più caratteristico di tutta l'area, la quale, votata alla vita in rapporto con

l'acqua, non poteva, evidentemente, avere con essa limiti troppo netti. I nuovi spazi così ottenuti, anche

grazie ad ulteriori demolizioni lungo la riva sud di rio di San Nicolò, permisero la realizzazione dei

magazzini del Punto franco, in costruzione nel 1889 ed aperti nel 1892.

Tra il 1924 ed il 1930, l'Istituto Autonomo Case Popolari concluse l'edificazione del nuovo quartiere

residenziale di Santa Marta, completando la tabula rasa delle superstiti abitazioni dei Nicolotti, a ponente

del cotonificio, lungo calle dello Stendardo. Nel secondo dopoguerra, dietro la chiesa dell'Angelo Raffaele la

mole fastidiosa ed opprimente di alcuni condomini, venne innalzata a celare in gran parte il tempio. Nel

medesimo periodo San Nicolò, venne invece visivamente “cancellato”, verso il Canale della Giudecca, dallo

squallore utilitaristico dei magazzini frigoriferi, realizzati sull'area parzialmente ottenuta da altre

demolizioni di storici edifici civili ed in luogo di magazzini di minore entità presenti, a partire dal 1913

circa, sul citato interramento dello specchio d'acqua situato presso il suggestivo campiello dell'Oratorio.

Su questo non solo si affacciano tuttora un'antica scoletta (Oratorio di San Filippo Neri) tipicamente

insediata in posizione angolare, il campanile e parte del perimetro delle navate della chiesa, ma anche un

caratteristico, piccolo giardino veneziano, perfetta estensione e complemento del costruito circostante. Un

luogo questo singolare, dall'atmosfera sospesa, dentro la città e fuori di essa, senza negozi, locali,

insegne, in cui domina il solo dialogo tra l'acqua e le pietre millenarie. Prima del 1948 ca., come testimonia

la Venezia Minore, di Egle Renata Trincanato (vedi riedizione 2008), il sito era arricchito, oltre il rio, da due

interessanti case gemelle secentesche con abbaini, che rivolgendo il loro prospetto principale verso lo

slargo acqueo, invece che sulla prossima e suggestiva prospettiva di rio dell'Angelo Raffaele, ne

confermavano le qualità di ambiente urbano solidamente configuratoQuesto si concludeva, verso la

Giudecca, con un presumibile giardino all'italiana illustrato dalla pianta topografica (1846-56) dei Combatti

ed in seguito, ampliato all'inglese, sull'imbonimento della sacca, come vediamo nella mappa di un

progetto, datato 1889, relativo alle infrastrutture portuali e nel fotopiano del 1911. Mentre una planimetria

del 1912, allegata ad una richiesta di concessione edilizia per la realizzazione di un ponte privato verso il

Cotonificio, indica la presenza di una cavana al termine di un segmento di canale. (continua …)

BIBLIOGRAFIA MINIMA ROBERTO ZAGO, I nicolotti. Storia di una comunità di pescatori a Venezia nell’età moderna, Abano Terme, 1982 A.GALLO, S. MASON, Chiesa di San Nicolò dei Mendicoli. Arte e devozione, Venezia 1995 AA.VV., Venezia, guida turistica del Touring Club, Milano 2005 D. ZANVERDIANI, http://digilander.libero.it/dariozanverdiani

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Autore: ANTONIO DRAGHI Titolo: LUOGHI E ITINERARI DELLA RIVIERA DEL BRENTA E DEL MIRANESE- VOL. I Capitoli:

1. La chiesa di S. Martino di Pianiga e il polittico di Francesco Bissolo Una delle chiese più antiche chiese del territorio, scrigno di numerose opere pittoriche, fra le quali il polittico di S.Martino di Francesco Bissolo (1470-1554).

2. La Villa Ferretti- Angeli di Vincenzo Scamozzi al Dolo La villa realizzata dal grande architetto nel 1600: una delle più significative della Riviera ma anche una delle meno conosciute.

3. La chiesa di S. Maria di Lugo di Campagnalupia La storia delle origini della chiesa-santuario della Natività di Maria sede di un piccolo significativo museo archeologico.

4. La Bastia di Stra e l’isola di Sarmazza Uno dei principali nodi strategici della Riviera e del sistema di navigazione fra Padova e Venezia dal 1209.

5. S. Nicolò dei Mendicoli e la comunità dei Nicolotti a Venezia Il terminale veneziano della navigazione in Brenta fra pescaòri, remurchianti e acquaroli. ( con un testo di Dario Zanverdiani)