anni di lacrime e sangue

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PILLOLE DI STORIA ANNI DI LACRIME E SANGUE Breve storia dell’Italia dalla fine del compromesso storico all’avvento del governo Craxi MAURIZIO STANIC mailto:[email protected] 23/07/2014

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Breve storia del periodo 1979-1982 dalla fine del compromesso storico all'avvento del governo Craxi.

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PILLOLE DI STORIA

ANNI DI LACRIME E SANGUE

Breve storia dell’Italia dalla fine del compromesso storico all’avvento del governo Craxi

MAURIZIO STANIC

mailto:[email protected]

23/07/2014

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Il governo di Andreotti della “solidarietà nazionale” era entrato presto in crisi di

consunzione. I comunisti, che lo avevano appoggiato dall’estern,o si dicevano stanchi

di sostenerlo ulteriormente; i democristiani non volevano concedere ulteriori

soddisfazioni al PCI; i socialisti vagheggiavano un governo di sinistra e mal

sopportavano l’alleanza DC-PCI, che li escludeva dai giuochi.

Il PCI, con il passaggio nella maggioranza, non aveva ottenuto successi

apprezzabili nelle elezioni amministrative parziali svoltesi nel maggio 1978: queste

consultazioni erano state per il PCI una sconfitta e per la DC un successo. Le misure

severe contro il terrorismo, l’austerità economica, le disposizioni restrittive

sull’ordine pubblico toglievano consensi ad un partito (il PCI) che era sempre stato di

opposizione. Nel governo, pur non avendo ministri, i comunisti avevano influito in

maniera rilevante sulle decisioni. La base però non era soddisfatta e rivendicava

aumenti salariali.

Berlinguer esaltava la diversità comunista e voleva giungere ad un’alternativa di

sinistra (la famosa “terza via”). L’ala più moderata del partito era perplessa in quanto

temeva di perdere in consenso dei ceti medi. Berlinguer era stato duro con il PSDI

colpevole, a suo avviso, di essere prigioniero della logica capitalistica. Aveva anche

criticato Craxi che, rifiutando il marxismo, si rifaceva al socialista utopista

dell’Ottocento Proudhon.

C’erano anche altri motivi di malcontento: le nomine in molti enti, che

trascuravano il PCI, e l’avvio dello SME o sistema monetario europeo.

La crisi era quindi inevitabile. I comunisti discussero la possibilità di restare o

meno nella maggioranza. Bufalini e Trivelli volevano continuare l’esperienza del

compromesso storico; Napolitano privilegiava i socialisti e li voleva nella

maggioranza. Dalla parte di Berlinguer si schierò il presidente del partito Luigi

Longo, semiparalizzato da un ictus ma ancora molto autorevole. Berlinguer il 25

gennaio 1979 ribadì ufficialmente le sue perplessità in una riunione dei segretari di

partito che avevano sostenuto il governo. L’Andreotti IV era ormai all’estrema

unzione: nessun partito tranne la DC voleva proseguire l’esperienza della “solidarietà

nazionale”.

Andreotti rassegnò quindi le dimissioni e il presidente Pertini li affidò un

reincarico. Egli mise nel programma quattro importanti questioni: occupazione,

investimenti, inflazione e terrorismo. I comunisti ora non volevano più avere solo

“ministri ombra”, volevano sedere a pieno titolo in consiglio dei ministri. La DC e il

PSDI si opponevano fermamente a questa eventualità. I socialisti indicavano un

tripartito DC-PRI-PSDI appoggiato all’esterno dalla sinistra oppure suggerivano di

chiamare al governo gli indipendenti di sinistra, meno soggetti ai veti democristiani.

Pertini avrebbe voluto, per risolvere la situazione, dare l’incarico a personaggi molto

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qualificati come Leo Valiani e Ugo la Malfa. Valiani, da tutti stimato per la sua

integrità morale, non aveva pero una base politica. Maggiori possibilità le aveva La

Malfa, leader del PRI, dotato di forte personalità e gradito anche ai comunisti.

Andreotti, viste le difficoltà, rinunciò al mandato e l’incarico passò così a Ugo La

Malfa. Venne proposto un tripartito DC-PRI-PSDI con l’appoggio delle sinistre e la

DC diede il suo assenso. Si disse anche che Lama stava facendo dei sondaggi e si

fecero i nomi di Spinelli e di Zaccagnini. Alla fine si giunse a Saragat che sarebbe

stato presidente del consiglio con Andreotti e La Malfa vicepresidenti. L’intesa stava

per essere formalizzata quando improvvisamente la DC cambiò idea e l’incarico

ritornò ad Andreotti. Egli mise quindi in piedi in suo quinto governo con La Malfa

vicepresidente. Il suo era tuttavia un esecutivo di transizione che aveva come scopo

principale quello di preparare le elezioni: il 3 giugno le parlamentari italiane, il 10

giugno le europee.

Nel tripartito DC-PSDI-PRI Forlani aveva gli Esteri e Rognoni l’Interno.

Il 26 marzo 1979 moriva Ugo La Malfa colpito da emorragia cerebrale. La vita

politica italiana perdeva così, in un momento difficile, un grande protagonista,

qualifica questa riconosciutoli sia dagli amici che dagli avversari.

Tratteggiamo ora una sua breve biografia.

La Malfa era nato a Palermo nel 1903 da famiglia modesta: suo padre era

sottufficiale di pubblica sicurezza. Si diplomò in ragioneria nella sua città e, grazie

all’aiuto di un parente facoltoso, frequento economia politica nella veneziana Ca’

Foscari. Detestò subito il fascismo rozzo e prepotente. Dopo la laurea trovò lavoro

prima presso l’Enciclopedia Treccani a Roma poi presso la Banca Commerciale

Italiana a Milano.

Aderì a Giustizia e Libertà e successivamente al Partito d’Azione. Per le sue idee

politiche dovette però riparare in Svizzera. Rientrò in Italia dopo il 25 luglio 1943 per

rappresentare il Partito d’Azione nel CLN.

Si distinse subito per l’impegno morale e per una dialettica che privilegiava gli

ideali piuttosto che le azioni concrete. La Malfa era profondamente democratico e

incarnava le speranza dell’Italia più illuminata, quella del Mondo di Pannunzio.

Nella disputa monarchia-repubblica La Malfa optò naturalmente per la repubblica.

Sciolto il Partito d’azione a causa delle feroci dispute interne, aderì al Partito

repubblicano. Contrastò Randolfo Pacciardi, capo storico del partito e insigne

antifascista nella guerra civile spagnola, e lo vinse.

Non amava il potere e non ebbe compiacimento o nostalgia delle sue cariche.

Approvò la nazionalizzazione dell’energia elettrica e sostenne l’apertura ai mercati

esteri dimostrandosi così uno statista moderno.

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Voleva convertire i comunisti alla democrazia ma poi perse questa speranza.

Amava i progetti ambiziosi ed era quindi un politico anomalo che col suo

idealismo si contrapponeva al pragmatismo di Andreotti. La sua perdita rese più

povero il Palazzo dove tutti lo rimpiansero.

Andreotti non riusciva a trovare una maggioranza stabile e decise così di farsi

sfiduciare per poter con sicurezza gestire le elezioni ormai prossime.

Nel 1976 la DC aveva ottenuto quasi il 39%, il PCI aveva superato il 34% e il PSI

aveva raggiunto il 10%. Si temeva l’ulteriore ascesa dei comunisti anche se c’erano

molti segnali che preannunciavano un loro regresso.

La DC era dilaniata dalle faide tra le varie correnti e l’assassinio di Aldo Moro

l’aveva privata di un mediatore di primo piano. Alla presidenza del partito c’era

Flaminio Piccoli e alla segreteria Zaccagnini era condizionato da ben quattro

vicesegretari: Donat Cattin, De Mita, Gaspari e Gullotti. Orfano era anche il PRI che

poteva però contare su persone di tutto rispetto come Spadolini e Visentini. Compatto

il PSI intorno a Craxi (la fronda di sinistra non aveva peso). Il PSDI fu colpito dallo

scandalo Lockheed che coinvolse l’ex segretario Mario Tanassi. Valerio Zanone

voleva modernizzare il PLI con il rischio di stravolgerlo. Anche nel PCI le acque non

erano tranquille.

In questo contesto politico non brillante per le idee e gli uomini un elemento di

originalità lo diede Marco Pannella con il suo Partito radicale. Di formazione liberale

ma propenso a ogni bizzarria, Pannella riusciva a mettere insieme persone delle più

diverse provenienze (Leonardo Sciascia, Fernanda Pivano, ex dirigenti di Lotta

continua come Pinto e Boato, ecc.). Pannella parlava molto e faceva parlare molto di

sé. Il suo partito si presentava infatti come alternativo alla partitocrazia imperante.

La crisi di governo e la vigilia elettorale furono segnate da sanguinosi episodi di

terrorismo. La percezione era che le BR stessero dilagando anche se in effetti era

iniziato il loro declino. Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa riuscì, con le sue

grandi capacità, a infliggere duri colpi alle organizzazioni terroristiche. Metà dei

dirigenti delle BR fini in quei mesi del 1979 in galera senza che i politici e l’opinione

pubblica ne erano pianamente consapevoli.

Continuavano però gli omicidi a sfondo politico. Nel gennaio del 1979 vennero

uccisi il giudice Emilio Alessandrini a Milano e il sindacalista comunista Guido

Rossa1 a Genova. Ambedue non erano certo dei “reazionari”: Alessandrini aveva

indagato sugli ambienti fascisti coinvolti nella strage di Piazza Fontana e Rossa

all’Italsider era in sintonia con il PCI sulle posizioni antiterroristiche.

1 L’operario Rossa venne colpito a causa di una delazione: aveva denunciato un compagno di fabbrica, Berardi, che

distribuiva volantini delle BR e che poi si suicidò.

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Ci fu anche chi cercò di capire le motivazioni dei terroristi, di studiare il fenomeno.

Si giunse subito alla conclusione che l’estremismo di sinistra obbediva alla regola di

considerare i riformisti più pericolosi dei conservatori. Su questa base ideologica fu

assassinato Walter Tobagi (28 maggio 1980), giornalista del Corriere della Sera che

aveva studiato a fondo il terrorismo essendo egli stesso stato un contestatore quando

era ancora studente.

La base comunista sul problema del terrorismo era ambigua e usava lo slogan “né

con le BR, né con lo Stato”.

In questo clima si giunse così al famoso 7 aprile 1979, giorno in cui un magistrato

di Padova, Pietro Calogero, arrestò Toni Negri e altri aderenti ad Autonomia operaia.

Calogero era gradito alla sinistra ufficiale – aveva inquisito per Piazza Fontana Freda

e Ventura. Egli divenne celebre per un “teorema” che gli fu attribuito: collegare le

responsabilità dei “professori” (ideologi di estrema sinistra) con i terroristi operativi.

Calogero riteneva che dai documenti di Autonomia operaia trasparisse questo legame.

L’operazione interessò l’università di Padova dove lavorava Toni Negri, dove

esisteva una radio Sherwood che era la voce della lotta armata e dove si erano

manifestati numerosi episodi di violenza che avevano avuto come vittime docenti. La

magistratura colse insomma lo stretto legame che esisteva tra una certa divulgazione

e una certa azione. Il PCI ripudiò il terrorismo senza per questo diventare

conservatore e ciò influenzò anche le prese di posizioni della cultura militante.

Antonio Negri era figlio di un medico. Entrò inizialmente nelle organizzazioni

cattoliche su posizioni addirittura integraliste. Militò nella DC con la quale entrò

presto in conflitto quando fondò il gruppo dell’Intesa che raggruppava i cattolici di

sinistra. Passò poi al PSI e a Potere operaio per arrivare alla fine ad Autonomia

operaia. Si laureò con il massimo dei voti e divenne ben presto professore ordinario

di dottrina dello Stato nella facoltà di scienze politiche dell’Università di Padova.

Durante i tumulti di Bologna del 1977 riparò in Francia ritornando con il crisma del

perseguitato politico.

Calogero accertò elementi ci connessione operativa tra Toni Negri e le BR.

L’astuzia di Negri come quella di tutti i “maestri” dell’eversione stava però nel

sostenere che la libertà di espressione era sacra e non perseguibile. Con Calogero

furono i comunisti, contro l’intellighenzia di sinistra che qualificava il suo come un

“teorema” inconsistente.

La vicenda giudiziaria fu lunga e tormentata. Nel 1983 vennero, in primo grado,

inflitti a Negri trent’anni di reclusione per i reati di associazione sovversiva e di

banda armata. Toni Negri, però, grazie a Pannella, che gli aveva fatto conquistare un

seggio nelle politiche del 1983, fuggì a Parigi scarcerato in virtù dell’immunità

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parlamentare. In appello prese dodici anni confermati nel 1988 dalla Corte di

Cassazione.

Prima delle elezioni, il 3 maggio 1979, un commando delle BR fece irruzione nella

sede del Comitato regionale della DC a Roma. Fu un vero e proprio atto di guerriglia

urbana che provocò la morte di due agenti di polizia.

In questo clima drammatico, tutti attendevano il responso delle urne che fu chiaro:

le politiche del 1979 decretarono il regresso del PCI e la stasi della DC che sperava in

un avanzamento. Il PSI prese il 9,8%, inferiore alle attese di Craxi. Stazionario il PRI

e un piccolo passo in avanti per PSDI e PLI. Il vero vincitore fu Marco Pannella che

ottenne il 3,4% equivalente a 18 seggi alla Camera. Sicuramente il PR tolse consensi

al PCI, soprattutto di quei gruppi ai quali non erano piaciuti la politica della fermezza

e il teorema Calogero su Autonomia operaia.

Il 10 giugno le europee convalidarono con qualche aggiustamento questi risultati.

Andreotti sapeva però che doveva lasciare.

Egli ebbe un reincarico formale: Pertini infatti aveva in mente ben altro in quanto

nel luglio del 1980 conferì l’incarico al socialista Bettino Craxi. Craxi tentò di

formare un quadripartito DC, PSI, PSDI, PRI ma non riuscì nel suo intento in quanto

gli mancò il consenso della DC. Questo partito era diviso: Zaccagnini non voleva

sostenere i socialisti, Forlani invece li appoggiava. Venne allora chiamato un tecnico

di economia, Filippo Maria Pandolfi, personaggio di basso profilo, che dovette subito

abbandonare il campo.

L’incarico passo alla fine a Francesco Cossiga, ministro dell’Interno al tempo del

sequestro Moro, che era rimasto furori dalla politica per espiare quella tragedia che lo

aveva toccato personalmente. Nell’agosto del 1979 Cossiga riuscì a varare il suo

primo governo. Egli si appellò all’articolo 92 della Costituzione che attribuiva solo a

lui la facoltà di scegliere i ministri. Andreotti e Forlani non ebbero dicasteri, mentre

agli Esteri andò Malfatti e all’Interno Rognoni. La troika economica era composta da

Andreatta, Pandolfi e Reviglio. Il professor Massimo Severo Giannini, insigne

giurista, divenne ministro della Funzione pubblica.

I due maggiori partiti, formato il governo, si dedicarono ai loro problemi interni.

Per il PCI la sconfitta emersa dalle urne era deludente e Berlinguer sapeva che

doveva fornire delle risposte. Egli disse che la sua linea di abbandono del

compromesso storico era stata corretta per salvaguardare il partito da uno

snaturamento. Alla fine Berlinguer rafforzò il suo potere rifiutando di essere

attorniato da un ufficio politico. Estromise Pajetta dalla segreteria e sostituì

Napolitano con Chiaromonte come dirigente del settore economico. Egli affermava

che nessun modello esistente interpretava correttamente il socialismo anche se la

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suggestione dell’URSS era ancora forte, come forti erano anche le sue diffidenze per

l’economia di mercato.

Berlinguer e Cossiga era legati da parentela: i nonni erano fratelli e Francesco ed

Enrico si frequentavano dall’infanzia. Le divergenze politiche però restavano.

Nell’autunno 1979 venne in primo piano il problema dei missili Cruise e Pershing

che la NATO voleva schierare in Europa per fronteggiare gli SS20 sovietici. I

pacifisti e gli extraparlamentari scesero in piazza. Anche il PCI era contrario. Tutto si

risolse però per il meglio: l’URSS ritirò i suoi missili contestualmente a quelli

NATO.

La DC in quel periodo cambiò dirigenza. Al congresso che si tenne nel 1979 Carlo

Donat Cattin presentò un “preambolo” dove si diceva che la DC non doveva più

collaborare coi comunisti: Zaccagnini veniva quindi sconfessato e il nuovo segretario

divenne Piccoli.

Nel PSI Craxi era riuscito ad esautorare Lombardi, leader della sinistra del partito,

e ne diventava l’unico padre-padrone.

Nell’aprile del 1980 il Cossiga I cadde e fu subito sostituito da un Cossiga II.

Nello scenario internazionale, il 27 dicembre 1979 le truppe sovietiche invadevano

l’Afghanistan portandosi al seguito un loro uomo da installare alla testa del paese:

Babrak Karmal. Il mondo democratico insorse, il presidente degli Stati Uniti emanò

una serie di sanzioni, tra le quali il boicottaggio delle Olimpiadi di Mosca dell’estate

del 1980. La deplorazione fu unanime anche in Italia e ad essa si associò il PCI che

condannò tutti gli imperialismi, sia quello sovietico che quello americano.

Il 1° gennaio 1980 se ne andava Pietro Nenni. Il grande vecchio del socialismo

italiano aveva 89 anni. Prima del collasso fatale aveva letto i giornali e preso appunti

per l’intervento che doveva tenere al comitato centrale del PSI. Nenni ebbe mai una

linea politica coerente. Fedele all’idea socialista, alla quale aveva dedicato tutta la sua

vita fatta anche di sofferenze e di galere, aveva spesso cambiato idea. Commetteva

errori che lui stesso poi riconosceva.

Amava il partito come la sua famiglia. Già prima della guerra si era reso però

conto che esso, per compattezza organizzativa, era sopraffatto da quello comunista.

La sua vita fu condizionata da questo complesso di inferiorità. Odiava e amava

Togliatti come Mussolini odiava e amava Hitler. Non immaginò mai che un giorno i

potenti partiti comunisti potessero sbriciolarsi come neve al sole.

Sul piano umano Nenni fu sicuramente un grande uomo. Era uno scampolo della

vecchia Italia prefascista con tutta la sua passionalità. La sua lunga militanza politica

non lo aveva guastato. Tollerava le debolezze degli altri, qualche volta se ne serviva,

ma non le approvava. Non nutrì rancori per nessuno, nemmeno per l’ex compagno

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Mussolini. Accettava i tradimenti degli amici e non meditava mai vendette personali.

Non nutriva ambizioni di potere.

Non sarebbe stato un grande statista. Il suo teatro politico erano la piazza e le

assise di partito dove sfoggiava tutte le sue doti oratorie. Nato con il socialismo

italiano, Nenni lo aveva rappresentato con autentica passione. Per fortuna Nenni non

ebbe il tempo di conoscere il socialismo di Tangentopoli.

Sempre nel 1980 se ne andarono anche Luigi Longo e Giorgio Amendola.

Longo era stato un “padre fondatore” del PCI: aveva rappresentato l’ala

combattente del partito contrapposta a quella burocratica di Togliatti. Negli ultimi

anni, colpito da un ictus, aveva dato un prezioso sostegno a Berlinguer.

Amendola era un personaggio complesso. Era nel PCI un “migliorista”, favorevole

all’apertura verso il mercato e contrario agli estremismi. Quando l’URSS invase

l’Afghanistan Amendola prese però una posizione staliniana, dicendo che l’Armata

Rossa aveva il diritto di intervenire per pacificare il paese.

Tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 l’Italia attraversò omenti

drammatici: estremismo, terrorismo, crisi economica. In campo sindacale la

conflittualità era forte stante la crisi. I gruppi violenti ricevevano consensi ed erano

sicuri della loro impunità, garantita anche dalla magistratura del lavoro. Ma si

avvertivano già i segni di un mutamento delle relazioni sindacali. Molti lavoratori

erano interessati alle rivendicazioni economiche e non condividevano le finalità

politiche eversive. La “maggioranza silenziosa” stava insomma prendendo

consapevolezza della sua importanza e voleva far sentire la sua voce. Per molto

tempo la gente tranquilla e laboriosa non aveva avuto peso ed era stata tacciata di

fascismo. La stampa assecondava la sinistra. A quella gente diedero una voce Il

Giornale di Montanelli e Telemontecarlo, unica alternativa alla socialità conformista

della RAI.

In quegli anni venne decisa impudentemente la smilitarizzazione delle forze di

polizia. Mentre il terrorismo continuava a colpire, c’erano cortei che chiedevano il

disarmo della Polizia di stato. Aldo Aniasi, sindaco di Milano, si giustificò dicendo

che voleva la smilitarizzazione per evitare incidenti nelle manifestazioni di piazza.

Per fortuna non si arrivò ad una polizia senza armi da opporre a quelle delle BR e di

Prima linea.

Un’altra sconfitta dello Stato la subì per opera dei controllori di volo che erano

militari e rivendicavano uno status di impiegati civili. Sicuramente avevano ragione,

ma scioperando nell’ottobre del 1979 commisero un reato. Una loro incriminazione

era doverosa. Intervenne nella questione il presidente Pertini che in presenza di

Cossiga intimò al procuratore militare di non iniziare l’azione penale. Ci furono

dimissioni di protesta nelle Forze armate.

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In terrorismo continuava a fare vittime tra i magistrati (Bachelet, Minervini, Galli),

i giornalisti, gli imprenditori, gli agenti, i carabinieri, ecc.

Particolare eco suscitò l’uccisione dell’ufficiale dei carabinieri Antonio Varisco.

L’11 dicembre 1979 un commando terrorista irruppe nell’istituto di

amministrazione aziendale Valletta di Torino, una scuola professionale della FIAT.

Ferirono alle gambe studenti e docenti.

Gli arresti si susseguivano. Il generale Dalla Chiesa otteneva risultati con metodi

non sempre ortodossi. Veniva anche varata la nuova normativa sui pentiti che

inducendo alla delazione fu decisiva nella lotta contro il terrorismo.

Nel febbraio del 1979 un gruppo di Prima linea era stato individuato dalle forze

dell’ordine mentre preparava un attacco terroristico a Torino. Due terroristi furono

uccisi e i loro compagni decisero di vendicarsi contro il proprietario del bar dove i

due abbattuti erano stati intercettati, si chiamava Carmine Civitate e fu accusato di

essere una spia della questura. Cinque giustizieri portarono a compimento la

sanguinosa azione, tra essi Marco Donat Cattin, figlio del famoso notabile

democristiano Carlo, e Roberto Sandalo.

Come se niente fosse, Marco Donat Cattin subito dopo andò in vacanza in Francia

con la sua fidanzata e con Massimo Prandi col quale decise di sospendere le azioni

armate per un certo periodo e di dar vita a un nuovo gruppo. Nel 1980 fu catturato il

terrorista di Prima linea Roberto Sandalo che si avvalse della legge sui pentiti per

avere uno sconto di pena. Sandalo disse che aveva avuto contatti col senatore Carlo

Donat Cattin e di aver saputo che il presidente del consiglio Cossiga aveva informato

il padre di Marco che suo figlio era ricercato. Il vicepresidente della DC smentì

Sandalo e disse di non avere notizie del figlio da almeno due anni. Smentì anche

Cossiga. I magistrati trasmisero gli atti alla Commissione inquirente che decise

l’archiviazione. Per iniziativa delle sinistre la questione fu riaperta ma subito dopo

venne definitivamente seppellita. Sandro Pertini si inserì nella vicenda con un

comunicato stampa dove si affermava che se qualcosa fosse emerso a carico di

Cossiga questi avrebbe dovuto dimettersi. Seguì però una rettifica ed il governo

sopravvisse.

Il 2 agosto 1980 avvenne una terribile strage politica: la strage alla stazione di

Bologna che provocò 85 morti. Dopo anni di processi che hanno portato alla

condanna degli esecutori materiali Mambro e Fioravanti, i mandanti non sono mai

stati individuati.

Non va poi dimenticato il disastro aereo di Ustica del 27 giugno 1980. Un Dc9

sulla linea Bologna-Palermo di proprietà dell’ITAVIA si inabissò causando 81 morti.

Inizialmente si parlò di un fatto accidentale (errori di pilotaggio o guasto tecnico).

Solo successivamente vennero avanzate altre spiegazioni: un missile indirizzato per

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errore sul Dc9 da un aereo militare. Dopo anni di reticente, solo recentemente sembra

che la Francia abbia ammesso che il missile era suo.

Sul versante sindacale, il PCI cercava di riaffermare la sua egemonia nelle

fabbriche anche se in riflusso dell’ondata estremistica degli anni ’70 era già in atto.

Molti luoghi di lavoro erano diventati invivibili per i dirigenti e i quadri intermedi.

Nella massa operaia si erano infiltrati veri e propri professionisti della violenza con

una grande capacità di fare proseliti.

Nell’ottobre la FIAT aveva sospeso e denunciato ben 61 dipendenti.

All’inizio dell’estate del 1980 il governo Cossiga aveva varato una serie di

provvedimenti austeri in campo economico. Tra essi c’era la proposta di ridurre la

“scala mobile” che incentivava l’inflazione galoppante. I sindacati difesero la scala

mobile ma acconsentirono un prelievo di solidarietà dello 0,50% sui salari di tutti i

dipendenti. Ciò provocò il malcontento di molti operai che scesero in sciopero e

Berlinguer si mostrò solidale con essi.

Nel settembre 1980 la FIAT dovette affrontare una crisi di vendite (l’economia era

in recessione stante la stretta creditizia per contrastare il deprezzamento della lira) e

mise in cassa integrazione decine di migliaia di operai. Si giunse allo sciopero

generale contro il tentativo di Agnelli di recuperare il decisionismo aziendale.

Berlinguer si schierò con gli scioperanti recendosi a Mirafiori dove fu accolto con

entusiasmo e sostenne anche la legittimità di un’eventuale occupazione della

fabbrica.

Il 14 ottobre 1980 il segretario comunista fu però sconfessato dalla “marcia dei 40

mila”: impiegati e quadri intermedi della FIAT scesero in piazza perché finissero le

intimidazioni e gli estremismi. Fu la resa per il sindacato che dovette accettare la

cassa integrazione per 23 mila dipendenti. Fu una sconfitta anche per Berlinguer.

In quel periodo non mancarono gli scandali. Uno di essi coinvolse l’ENI di Giorgio

Mazzanti, socialista ma in conflitto con Craxi. Nel 1979 l’ENI aveva firmato con

Petromin dell’Arabia Saudita un contratto triennale giudicato vantaggioso: Petromin

consegnava all’ENI 91 milioni di barili di petrolio al prezzo di 18 dollari al barile. Fu

accertato però che era stata pattuita una tangente che veniva incamerata dai partiti

italiani e da mediatori sauditi. Questo episodio di corruzione portò alla fine del

governo Andreotti V e alla sua sostituzione con Cossiga il quale convinse Mazzanti a

dare le dimissioni. I sauditi annullarono il contratto ma intanto erano stati versati ai

partiti 14 miliardi di lire in tangenti. Ci furono molte indagini, sia della magistratura

sia della commissione inquirente, ma non giunse a nessuna condanna. Rammentiamo

che Mazzanti era iscritto alla P2 di Licio Gelli.

Un altro scandalo o, meglio, vicenda umana, coinvolse il governatore della Banca

d’Italia Paolo Baffi e il vicedirettore generale Mario Sarcinelli nel marzo 1979. Il

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giudice Alibrandi accusò Baffi di non aver trasmesso alla magistratura il rapporto

compilato in seguito all’ispezione al Credito industriale sardo. L’ispezione era

collegata alle vicende della SIR di Nino Rovelli.

I bene informati si resero subito conto che Baffi era vittima di una persecuzione

per essersi accanito contro Sindona, Calvi e l’Italcasse, dominata dalla DC. Pertini

sostenne Baffi insieme a molti illustri economisti.

Baffi nell’agosto 1979 si dimise da governatore sostituito da Carlo Azrglio Ciampi

chiudendosi in un silenzio dignitoso. Baffi e Sarcinelli furono poi pienamente

scagionati.

Si seppe poi che nel 1974 a Montecarlo la P2 decise quell’offensiva contro la

Banca d’Italia: alla riunione era presente Roberto Calvi.

Il 1980 finì con un fatto luttuoso. Il 23 novembre un terremoto imponente provocò

in Irpinia, nella valle del Sele e in provincia di Potenza la morte di seimila persone e

il ferimento di diecimila. I soccorsi, a differenza del Friuli, furono lenti e caotici. Ci

furono molte critiche in sede politica e giornalistica. Ma il peggio doveva ancora

avvenire. Il disastrò divenne uno scandalo: furono stanziati ben 60.000 miliardi di

aiuti che finirono in gran parte in tangenti. Un’operazione da sciacalli!

Il governo Cossiga II superò il caso Donat Cattin del luglio 1980 ma non riuscì a

contrastare i franchi tiratori insiti nella maggioranza. Non si era potuto varare un

pacchetto economico importante ed urgente prima delle vacanze estive. Il decreto

imponeva sacrifici ed era quindi impopolare. Le lobbies del Parlamento difendevano

le categorie rappresentate e ciascuna di esse voleva scaricare il peso delle misure

economiche sulle altre. Riaperte le Camere si passò al voto. Per superare

l’ostruzionismo dei molti emendamenti il governo pose la questione di fiducia. A

voto palese, il 27 settembre 1980, il Parlamento la concesse. Nel voto finale a

scrutinio segreto la maggioranza fu invece battuta.

Cossiga dovette così rassegnare le dimissioni. Il paese era indignato dal

comportamento meschino dei parlamentari.

Si confezionò in fretta un nuovo governo in quanto democristiani e socialisti

dissero che la loro collaborazione sarebbe continuata.

La scelta di Pertini cadde su Arnaldo Forlani, veterano della DC ma un neofita per

Palazzo Chigi. Forlani allora non aveva nemici: aveva infatti un comportamento

compassato e non aspirava attivamente ad avere poltrone ministeriali. I suoi discorsi

erano calmi ed ecumenici anche se privi di concretezza. Forlani era insomma un

artista nel minimizzare i problemi. Il suo fu un quadripartito DC-PSI-PSDI-PRI con

l’appoggio esterno dei liberali. Colombo ebbe gli Esteri e Rognoni l’Interni. Giorgio

La Malfa, Reviglio e Andreatta ai dicasteri finanziari. Assenti Andreotti e Craxi.

Quest’ultimo in quei giorni aveva presentato le dimissioni da segretario del PSI ma

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ottenne subito un’entusiastica riconferma. Forlani ebbe una larga maggioranza anche

se poi in certe occasioni si decompose. Nelle votazioni chiave si ebbero assenze di

socialisti e socialdemocratici ma anche di democristiani. Forlani riuscì a far passare la

legge di bilancio ma venne bocciato sui provvedimenti riguardanti i terremotati

dell’Irpinia. I suo governo, come molti altri, passò presto allo stato dell’agonia.

Il 17 maggio 1981 si svolse, insieme ad altri, il referendum sull’aborto. Il 13

maggio ci fu l’attentato al papa da parte del fanatico turco Ali Agca. Giovanni Paolo

II riuscì a salvarsi ma ebbe una convalescenza lunga. Il mondo cattolico si strinse

attorno al pontefice. Nel referendum, tuttavia, il 68% dei votanti disse sì alla

legalizzazione dell’aborto, pratica condannata dalla Chiesa in quanto contraria allo

spirito evangelico. In compenso le dure misure sull’ordine pubblico volute da

Cossiga non furono abrogate.

Due casi di terrorismo, che per fortuna non si conclusero con l’uccisione dei

sequestrati, spiccarono agli onori della cronaca: il sequestro del magistrato Giovanni

d’Urso e quello dell’assessore regionale democristiano in Campania Ciro Cirillo.

Il 12 dicembre 1980 le BR rapirono Giovanni D’Urso, importante dirigente della

Direzione generale carceraria al Ministero della Giustizia. Era un ufficio sul quale le

BR prestavano molta attenzione: da esso infatti provenivano gli ordini di destinazione

dei terroristi condannati. I terroristi volevano la chiusura del carcere dell’Asinara e su

questa questione il paese di ruppe in un fronte della fermezza e in un fronte della

trattativa. Craxi era favorevole al dialogo e la sua tesi prevalse: il carcere dell’Asinara

fu chiuso. Berlinguer manifesto giustamente il suo sdegno.

Il 28 dicembre 1980 scoppiò una rivolta nel carcere di Trani in Puglia.

Intervennero gli uomini del GIS (gruppi d’intervento speciale) per liberare gli agenti

di custodia tenuti come ostaggi e riuscirono nel loro intento. Le BR attuarono subito

la vendetta uccidendo il generale dei carabinieri Enrico Galvaligi. Poi annunciarono

che D’Urso era stato condannato a morte se non veniva pubblicato un appello dei

carcerati di Trani. L’idea era di Giovanni Senzani. A questa provocazione dei

brigatisti quasi tutti i giornali reagirono con in rifiuto; si dissociò Giuliano Zincone

che dirigeva Il Lavoro di Genova.

In questa vicenda Marco Pannella divenne protagonista offrendo uno spazio

televisivo alla figlia di Giovanni D’Urso che polemizzò contro i giornalisti e insistette

sulla pubblicazione del proclama che avrebbe salvato il padre. Per fortuna D’Urso

venne liberato dalle BR.

Il 27 aprile 1981 iniziò, con il rapimento di Ciro Cirillo a Torre del Greco, una

torbida vicenda. Rammentiamo che nel sequestro del notabile democristiano persero

la vita l’autista e il carabiniere di scorta. Cirillo era vicepresidente del Comitato

tecnico per la ricostruzione dopo il terremoto dell’Irpinia del 23 novembre 1980.

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Sempre Senzani esplicitò le richieste delle BR: la requisizione degli alloggi sfitti, le

indennità per i colpiti dallo sisma e la pubblicazione dei proclami del “processo”

Cirillo.

Il 28 luglio 1981 Ciro Cirillo fu liberato e qualcuno affermò che lo Stato aveva

abdicato alle richieste dei terroristi: erano stati requisiti gli alloggi liberi, fu assegnata

un’indennità di disoccupazione ai terremotati, il villaggio provvisorio alla Mostra

d’Oltremare fu smantellato.

La fermezza della DC nel caso Moro doveva valere anche per Cirillo. Invece si

trattò in maniera oscura. Fu versato alle BR un riscatto di un miliardo e 450 milioni

raccolto da “amici” di Cirillo. Intervennero nei negoziati la camorra e i servizi segreti

(in gran parte aderenti alla P2). Uomini dei servizi si incontrarono con Cutolo

detenuto ad Ascoli Piceno; con loro cerano anche il segretario dell’assessore

democristiano e il luogotenente di Cutolo, Vincenzo Casillo.

Poco dopo venne rapito e decapitato dalla camorra il criminologo Aldo Semerari,

uomo di destra indiziato per la strage di Bologna e perito di fiducia del boss Raffaele

Cutolo.

Tra le morti misteriose va ricordata quella di Vincenzo Casillo nel 1983.

Antonio Gava, grande notabile della DC, fu sospettato di essersi interessato per la

liberazione di Cirillo.

Voci e sospetti, nulla però di rilevante per la magistratura.

E’ doveroso notare che in questa ultima fase il terrorismo si alleò alla criminalità

organizzata. E’ doveroso anche mettere in rilievo il diverso atteggiamento rispetto al

caso Moro: la DC passò dal fronte della fermezza a quello della trattativa a dispetto

del sacrificio di vite umane.

Intanto il governo Forlani entrava in crisi.

Per dare un segnale di rinnovamento della vita politica italiana, il presidente Pertini

diede quindi l’incarico di formare un nuovo esecutivo ad un “laico”. Furono proposti

i nomi di Leo Valiani, di Bruno Visentini, finché la scelta cadde su Giovanni

Spadolini. Egli formò un pentapartito – DC, PSI, PSDI, PRI, PLI – ed ebbe il

sostegno di ampi settori del mondo culturale ed economico.

Spadolini era stato professore di storia, articolista fecondo e direttore di giornali.

Nella politica attiva era entrato solo nel 1972 dopo aver lasciato la direzione del

Corriere della Sera. Studioso del Risorgimento, scelse di aderire al PRI anche se era

insieme mazziniano, garibaldino e cavouriano. Spadolini amava infatti tutti i Padri

della Patria, pur non ignorando i limiti del processo risorgimentale.

La sua carriera politica fu rapida e brillante: parlamentare, ministro, segretario del

PRI. Era un esemplare politico raro per la preparazione culturale, l’integrità morale e

la capacità di mediazione.

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La composizione dello Spadolini I non era molto diversa da quella del precedente

governo Forlani (la logica spartitoria rimase). Restarono Colombo agli Esteri e

Rognoni all’Interno. Entrarono il socialista Formica come Ministro delle Finanze e il

liberale Altissimo come Ministro della Sanità. Nel suo programma Spadolini

insistette sulla questione morale, sulla questione economica e sulle tensioni

internazionali. Volle e attuò lo scioglimento della P2.

Il dinamismo e l’ottimismo di Spadolini gli procurarono molti consensi popolari e

anche la comprensione di Berlinguer.

All’estero, il 13 dicembre 1981 il generale polacco Jaruzelski impose, dopo una

fase di apertura politico-sindacale, la legge marziale. I carri armati attuarono la

“normalizzazione” e molti dirigenti di Solidarnosc, tra i quali Lech Walesa, furono

arrestati. La reazione nei paesi democratici fu forte e indignata. Berlinguer si associò

alla generale deprecazione: in precedenza si era entusiasmato per l’agosto di Danzica

del 1980. Era evidente che Jaruzelski aveva agito per evitare che agisse Mosca con la

sua Armata Rossa. Il comunicato ufficiale del PCI condanno il colpo di stato militare

sebbene in tono cauto, addebitandone una parte della responsabilità agli estremismi

dell’opposizione. Cossutta ovviamente si dissociò dalla linea ufficiale del partito e

parlò si una “strappo” con la sua tradizione storica. Berlinguer parlò anche della

solita “terza via” senza rendersi conto che il comunismo era incompatibile con la

libertà. E’ interessante notare che il pugno di ferro di Jaruzelski non turbò le

coscienze dei pacifisti italiani.

Il 17 dicembre 1981 fu rapito dalle BR il generale americano J. L. Dozier. Era un

importante generale della NATO che sicuramente possedeva informazioni cruciali dal

punto di vista militare. I brigatisti Savasta e Vanzi suonarono al campanello di casa

Dozier dicendo di essere dei tecnici venuti a riparare un termosifone. I due entrarono

nell’appartamento sul Lungadige a Verona e immobilizzarono il generale insieme alla

moglie Judith che venne legata. Il generale fu messo in un baule e trasportato nel

covo padovano di via Pindemonte dove rimase per 42 giorni. Venne annunciato il

solito “processo popolare” e vennero spediti dai brigatisti dei volantini alla stampa.

L’azione aveva uno scopo propagandistico: i sequestratori non conoscevano l’inglese

e non potevano quindi interrogare il generale. Dozier venne poi liberato dai NOCS

(nucleo operativo centrale di sicurezza della Polizia di Stato) e il governo Spadolini

venne lodato dagli Stati Uniti per la sua fermezza ed efficienza.

Erano però le ultime fiammate del terrorismo “rosso”: gli arresti si susseguivano e

il 29 maggio 1982 venne approvata la legge 304 (Misure per la difesa dell’ordine

costituzionale) che prevedeva forti sconti di pena per i collaboratori di giustizia.

Questa fu una legge basilare per sconfiggere il terrorismo. Per fare un esempio, al

processo di appello per il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro, Valerio Morucci

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lesse un documento di addio alla lotta armata firmato da ben 170 brigatisti detenuti.

Lo Stato prevaleva sulla sovversione.

Ai primi di maggio del 1982 la DC tenne il suo 15° congresso. Il segretario Piccoli

si presentava dimissionario e Ciriaco De Mita veniva accreditato come il suo

successore. De Mita aveva però bisogno del consenso del mondo economico e lo

ebbe. La risposta dei grandi imprenditori non fu negativa. Marcora nel nord, Misasi

nel sud e Fabiani a Roma si diedero da fare per convincere gli industriali e i grandi

finanzieri (Mario Schimberni, Lamberto Mazza, Carlo De Benedetti, Leopoldo

Pirelli, Vittorio Merloni) che De Mita era l’uomo giusto su cui puntare per ottenere il

rinnovamento della DC e del paese. Anche gli Agnelli furono consultati per

convincerli in tal senso.

Egli era presentato come un uomo nuovo con una mentalità aperta, un

“rottamatore” avanti lettera: aveva infatti detto che, qualora fosse stato eletto, avrebbe

subito sciolto le correnti interne della DC.

Non sappiamo quanti abbiano veramente creduto nella trasformazione di De Mita,

dal notabile avellinese all’uomo della “nuova frontiera”. Anni dopo, Gianni Agnelli

gli affibbiò l’epiteto di “intellettuale della Magna Grecia”, per sottolineare la sua

l’inadeguatezza a guidare un paese con un nord moderno e aperto all’integrazione

europea.

In effetti Ciriaco De Mita parlava due lingue diverse: un linguaggio moderno e

aperto al nuovo a Roma e un linguaggio meridionalistico in Irpinia con tutte le sue

limitazioni, clientelismo compreso. La gestione dei fondi destinati ai terremotati

dell’Irpinia fu un esempio di sperperi del denaro pubblico, indipendentemente dalle

sue responsabilità dirette.

De Mita al congresso non fu però il candidato unico: a lui si opponeva Arnaldo

Forlani. Con De Mita stavano Fanfani, Piccoli e Andreotti; con Forlani si erano

schierati Bisaglia, Donat Cattin e i forlaniani veri e propri. La linea di divisione tra i

due gruppi non era tuttavia ideologica, bensì puramente tattica: Forlani voleva

collaborare con i socialisti, De Mita era invece contrario a questa relazione e faceva

appello all’orgoglio di partito (lo slogan “demitizziamo Craxi” era indicativo del

piglio dei demitiani di allora).

De Mita vinse la sua partita per la segreteria ma perse la sua battaglia per

compattare il partito che rimase diviso nelle sue fazioni.

Nell’estate di quel 1982 il governo Spadolini I entrò in crisi sulle questioni

economiche, crisi aggravata dalla querelle al vetriolo tra il democristiano Andreatta

(ministro del Tesoro) e il socialista Formica (ministro delle Finanze.

Le manovre di austerità si erano rivelate vane: l’inflazione era al 18% e il deficit

superava il tetto dei 100 mila miliardi di lire.

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Il pacchetto fiscale – amara medicina per affrontare la situazione – colpiva certe

categorie che avevano le loro lobbies in Parlamento. Il 4 agosto i provvedimenti

andarono in votazione alla Camera ma furono affossati dagli assenteisti e dai franchi

tiratori. Come da protocollo, seguirono le dispute tra democristiani e socialisti circa

l’attribuzione delle responsabilità di questo naufragio.

Craxi ritirò la delegazione socialista dal governo aprendo così ufficialmente la

crisi. Pertini si limitò a riconferire il mandato a Spadolini che riuscì in poco tempo a

confezionare un governo “fotocopia” del precedente: misteri della prima repubblica!

Con un gesto provocatorio i radicali di Pannella davanti a Montecitorio

distribuivano la “ribollita” uscita dalla cambusa del pentapartito.

Lo Spadolini bis, per darsi un tono elevato, aveva redatto un “decalogo

istituzionale” e aveva costituito la commissione bicamerale per le riforme

istituzionali presieduta dal liberale Aldo Bozzi, che redasse una montagna di progetti

e studi da nessuno letti.

Il 1982 fu anche un anno contrassegnato da un duplice delitto di matrice mafiosa: il

3 settembre il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa insieme alla giovane moglie

Emanuela Setti Carraro furono falciati dalla mafia palermitana. Cosa nostra lanciava

così una sfida allo stato uccidendo l’uomo simbolo della lotta alle cosche.

La vecchia mafia patriarcale si asteneva dal colpire le istituzioni per evitare

ritorsioni e mantenere la pace sociale basata sul suo predominio. Questa antica

società era ormai scomparsa. Reti internazionali per il traffico della droga, legami con

la politica, soprattutto nel settore degli appalti, uso di mitra ed esplosivi al posto della

vecchia lupara, uso dell’informatica per il riciclaggio del danaro sporco: tutti questi

erano i segni del suo imbarbarimento e del suo adeguamento ai nuovi tempi. I mafiosi

in doppiopetto erano cioè anche dei manager della finanza.

Numerosi erano stati gli omicidi eccellenti: ricordiamo il Presidente della regione

siciliana Piersanti Mattarella, il deputato comunista Pio La Torre, ecc.

Nelle intenzioni dei politici, Carlo Alberto Dalla Chiesa avrebbe dovuto avere i

poteri del mitico Cesare Mori, ma erano solo intenzioni manifestate a livello verbale.

Il prefetto-generale aveva, per contrastare la criminalità organizzata, le normali

prerogative di un qualsiasi prefetto italiano. Ma c’era anche un’altra differenza tra

Mori e Dalla Chiesa: Mori aveva avuto il pieno sostegno del regime fascista, Dalla

Chiesa invece aveva avuto incoraggiamenti solo di facciata, in nome del garantismo e

della democraticità dello stato di diritto.

Carlo Alberto Dalla Chiesa era un militare determinato ed intelligente che

apparteneva ad una famiglia di ufficiali dell’Arma dei carabinieri. Era nato nel 1920 a

Saluzzo nel Piemonte, anche se la famiglia era originaria del parmense. Iniziò la sua

carriera come ufficiale di fanteria. Al momento dell’armistizio dell’8 settembre 1943

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si trovava in Montenegro dove dimostrò il suo valore: non si arrese ai tedeschi e

formò una banda partigiana. Riuscì a tornare in Italia. Passò poi ai carabinieri e venne

destinato in Sicilia. A Corleone indagò sull’uccisione del segretario della locale

Camera del lavoro Placido Rizzotto, ma i magistrati di Palermo assolsero per

insufficienza di prove gli indiziati del delitto da lui individuati. Lasciò poi la Sicilia

per giungere a Milano dove si impegno nella lotta alla criminalità comune. A

Palermo ritornò nel 1966 come colonnello comandante della legione. In questa veste

inferse colpi alla mafia riuscendo ad incarcerare, tra gli altri, Frank Coppola.

I suoi metodi investigativi non piacevano a tutti ma la sua fermezza fu adeguata

nella lotta contro il terrorismo, alla quale partecipò attivamente: Curcio e

Franceschini furono catturati grazie alle sue indagini.

Un fatto è indicativo della sua intransigenza: nella rivolta che scoppiò nel carcere

di Alessandria, Dalla Chiesa ordinò ai carabinieri di intervenire; sette furono i morti

tra i detenuti e i sequestrati. Aspre furono le critiche a livello politico per il suo

comportamento, ma ritengo che ugualmente sarebbe stato criticato per la sua

inazione. Era un uomo cha agiva non un “sufi” della politica italiana.

Rese anche più sicure le carceri italiane non condividendo il permissivismo intriso

di falsa socialità del quale la legge Gozzini è un simbolo palese.

Nel 1978 morì la moglie Dora Fabbro: era stato un matrimonio sereno che gli

aveva dato tre figli (Simona, Nando e Rita).

Quando il vedovo generale conobbe Emanuela Setti Carraro, ragazza di buona

famiglia milanese e molto più giovane di lui, aspettò parecchio prima di proporle il

matrimonio: l’attaccamento alla prima moglie era stato forte.

Dalla Chiesa arrivò a Palermo nel maggio del 1982 proprio mentre si svolgevano i

funerali di Pio la Torre. Il suo stile di vita era impavido: non abitava nella sede della

Prefettura ma in una residenza privata e si spostava senza l’auto blindata e senza la

scorta. Forse voleva dimostrare ai cittadini che la mafia non era poi così pericolosa:

fu sicuramente un errore di sottovalutazione della sua capacità di colpire chiunque e

ovunque.

Dalla Chiesa capì subito che le istituzioni non gli avrebbero dato i poteri necessari

per contrastarla con efficacia, in primo luogo sul piano economico-finanziario.

C’erano nei suoi confronti contrarietà scoperte e coperte: alcuni sindaci

minimizzarono la potenza della mafia richiamandosi ad una sorta di “leggenda nera”

che secondo loro era ben lontana dalla realtà.

La morte del generale – come avverrà anni dopo per Falcone e Borsellino –

scatenò una indecorosa rissa politica per appropriarsi della sua memoria. Fu pianto

anche da politici conniventi con ambienti mafiosi.

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Sicuramente, se gli fossero stati dati i pieni poteri, avrebbe potuto contrastare

efficacemente cosa nostra - lo riconosce anche Andreotti nel suo Governare con la

crisi.

Era stato un generale e un prefetto anomalo ma di grandissimo valore. Dalla

Chiesa purtroppo morì e la mafia continuò a imperversare. Al suo successore

Emanuele di Francesco, fu conferita la qualifica di “alto commissario per la lotta alla

mafia dotato di ampi poteri” che non era stata conferita a Dalla Chiesa. Di Francesco

era più un burocrate e la mafia non si preoccupò molto per i sui vasti compiti.

Torniamo allo Spadolini II.

L’emergenza economica era pressante, Andreatta e Formica continuavano a

litigare e i dissenzienti impedivano la realizzazione di un piano di governo coerente. I

socialisti si distinguevano per le loro inquietudini. La proposta di De Mita di un

accordo di legislatura fu duramente respinta dal PSI di Craxi. I gruppi di pressione,

sindacali o di altro genere, si richiamavano alla socialità per impedire il risanamento

pubblico. Si parlava di “sfarinamento” del quadro politico.

La crisi ebbe origini extraparlamentari ma Spadolini volle un dibattito alle Camere

che tuttavia si rivelò sterile.

Rammentiamo che il 10 novembre 1982 ci furono i funerali di Leonid Breznev,

leader dell’URSS, ai quali Pertini non intervenne forse per punire le colpe del despota

responsabile della repressione in Polonia e in Afghanistan, a suo posto ci andò

Amintore Fanfani.

Al suo ritorno da Mosca Fanfani riuscì a mettere in piedi un quadripartito (il PRI si

trasse fuori) con una nuova troika economica: Goria al Tesoro, Bodrato al Bilancio,

Forte alle Finanze. La durata di questo esecutivo di transizione fu breve a causa del

clima preelettorale e della convinzione dei socialisti che fossero maturi i tempi per un

governo Craxi. C’erano anche apprensioni per un possibile ritorno del compromesso

storico. I repubblicani attendevano invece con serenità la prova delle urne per

beneficiare dell’effetto Spadolini.

Il 22 aprile 1983 Craxi aprì ufficialmente la crisi del governo Fanfani con la

dichiarazioni di Formica sunteggiata dalla frase: “siamo tutti senza mandato”.

Si votò il 26 e il 27 giugno 1983 e il responso fu chiaro: uno sconfitto, Ciriaco De

Mita, e nessun vero vincitore. Il tecnocrate irpino non aveva convinto gli italiani e la

DC scese al minimo storico del 33%. I socialisti non ebbero il trionfo che si

aspettavano. I repubblicani invece fecero il pieno grazie alla popolarità acquisita da

Spadolini, ma non seppero far fruttare il successo in quanto erano un partito che non

era adatto a raccogliere la protesta.

De Mita non perse però la segreteria perché i suoi avversari non volevano essere a

capo di un partito battuto alle urne.

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In sintesi la DC divenne meno necessaria e il PCI meno pericoloso, nella

percezione degli elettori. I due partiti rimanevano però protagonisti con il PSI quale

terzo incomodo.

Nilde Iotti fu confermata alla Presidenza della Camera e Francesco Cossiga

divenne Presidente del Senato.

Per Craxi il momento era però propizio stante la flessione della DC e del PCI: fu

egli dunque che ricevette da Pertini il 21 luglio 1983 l’incarico ufficiale di formare un

nuovo governo.

Iniziava così una nuova storia.