andrea cavalletti - agamben, la vita è forma e si genera vivendo

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  Agamben, la vita è forma e si genera vivendo Chiudendo nel 2011 Altissima povertà (il volume IV, 1 della grande opera Homo sacer), Giorgio  Agamben evidenziava la grandezza e i limiti della regola francescana: una forma di esistenza che situandosi fuori dal diritto, rifiutando la proprietà in nome dell’uso, definiva tuttavia l’uso ancora rispetto al diritto, in maniera unicamente negativa. Era infatti mancata al francescanesimo «una definizione dell’uso in se stesso», che veniva infine concepito dai suoi difensori come una serie di atti di rinuncia. Agamben si congedava dunque dal lettore lasciando aperta la duplice domanda: «Come potrebbe davvero un uso tradursi in un ethos e in una forma di vita? E quale ontologia e quale etica corrisponderanno a una vita che, nell’uso, si costituisce come inseparabile dalla sua forma?». L’altro libro del 2011, Opus dei (Homo sacer, II, 5), un’indagine archeologica del paradigma oper- ativo, dell’ufficio e (nella loro intima connessione) della volontà e del comando – ossia di quell’apparato concettuale che da Aristotele a Kant ha informato l’intera cultura occidentale – accen- nava, nelle battute finali, al prossimo orizzonte di ricerca: «Il problema della filosofia che viene è quello di pensare un’ontologia al di là dell’operatività e del comando e un’etica e una politica del tutto liberate dai concetti di dovere e volontà». Le indicazioni dei due libri erano dunque rigoro- samente convergenti: l’ethos finalmente affrancato dalla volontà e dal dovere coincide con la forma di vita, e questa non è che uso, può essere cioè concepita solo elaborando un’ontologia della non operatività. Già in Homo sacer, I (1995), d’altra parte, Agamben usava i trattini per scrivere forma-di-vita, nominando così un «essere che è solo la sua nuda esistenza, una vita che è la sua forma e resta inseparabile da essa», e che si potrebbe pensare al di là della distinzione aristotelica fra potenza e atto, della partizione classica fra zoè e bios, o del bando sovrano che separa e detiene la nuda vita. La ricerca ventennale poteva ora giungere a compimento, coincidere cioè con la «defin- izione dell’uso in se stesso». L’uso dei corpi. Homo sacer, IV, 2 (Neri Pozza, pp. 366, euro 18,00) risponde alle attese con la forza dirimente del capolavoro. È, questo nono e ultimo volume, un libro con cui sarà d’ora in poi necess- ario – anche se non facile – misurarsi, non solo perché, per ricchezza, erudizione e chiarezza specu- lativa si impone nel panorama filosofico di questo tempo, ma perché davvero dischiude una nuova dimensione del pensiero mentre restituisce – con buona pace della «potenza costituente», cioè delle istituzioni e del governo – tutta la serietà dell’anarchia (intesa in senso filosofico e politico insieme).<TB> Quella vita che è solo la sua nuda esistenza, la vita che appunto il diritto esclude e cattura, la vita bandita e sacra (insacrificabile, spiegava già Agamben andando oltre Kerényi, nel senso che può essere uccisa senza commettere omicidio), si presenta all’inizio del nuovo lavoro in una frase di Guy Debord: «cette clandestinité de la vie privée sur laquelle on ne possède jamais que des documents dérisoires». È la vita corporea, separata da noi come lo è un clandestino e insieme inseparabile, pro- prio come non si separa da noi colui che «condivide nascostamente con noi l’esistenza». Certo, rispetto all’ultimo Foucault, che aveva pensato la sottrazione del corpo, in nome del piacere, ai mec- canismi di potere della sessualità, Agamben aveva espresso le proprie riserve osservando che il corpo è per noi «già sempre preso in un dispositivo … già sempre corpo biopolitico e nuda vita». Ma l’accento batte qui sull’uso, che si tratta di isolare, strappandolo alla sua assimilazione all’atto, alla produzione, all’opera. Ora, un puro uso del corpo era stato concepito dalla cultura classica nella figura e nell’attività dello schiavo che, spiega Agamben, non è interpretabile secondo una nozione di lavoro tanto implicita e ovvia per noi quanto ignota ai Greci. L’operaio potrà anche essere schiavi- zzato, ma lo schiavo non è un operaio. Il suo corpo, diceva Aristotele, è uno strumento, ma non pro- duce come il plettro o la spola un’opera separata dal suo uso; è piuttosto uno strumento pratico, simile cioè a una veste e a un letto, che soltanto si usano. Improduttivo, e pressoché privo di virtù, quest’uomo-suppellettile è così l’escluso dalla vita politica che rende possibile agli altri di essere liberi, interamente politici, veramente umani. Si riconosce lo schema tipico dell’esclusione includente, o dell’«eccezione» – nel senso che Agamben

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Articolo pubblicato su "il manifesto" del 28 dicembre 2014

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  • Agamben, la vita forma e si genera vivendoChiudendo nel 2011 Altissima povert (il volume IV, 1 della grande opera Homo sacer), GiorgioAgamben evidenziava la grandezza e i limiti della regola francescana: una forma di esistenza chesituandosi fuori dal diritto, rifiutando la propriet in nome delluso, definiva tuttavia luso ancorarispetto al diritto, in maniera unicamente negativa. Era infatti mancata al francescanesimo unadefinizione delluso in se stesso, che veniva infine concepito dai suoi difensori come una serie di attidi rinuncia. Agamben si congedava dunque dal lettore lasciando aperta la duplice domanda: Comepotrebbe davvero un uso tradursi in un ethos e in una forma di vita? E quale ontologia e quale eticacorrisponderanno a una vita che, nelluso, si costituisce come inseparabile dalla sua forma?.Laltro libro del 2011, Opus dei (Homo sacer, II, 5), unindagine archeologica del paradigma oper-ativo, dellufficio e (nella loro intima connessione) della volont e del comando ossia diquellapparato concettuale che da Aristotele a Kant ha informato lintera cultura occidentale accen-nava, nelle battute finali, al prossimo orizzonte di ricerca: Il problema della filosofia che viene quello di pensare unontologia al di l delloperativit e del comando e unetica e una politica deltutto liberate dai concetti di dovere e volont. Le indicazioni dei due libri erano dunque rigoro-samente convergenti: lethos finalmente affrancato dalla volont e dal dovere coincide con la formadi vita, e questa non che uso, pu essere cio concepita solo elaborando unontologia della nonoperativit. Gi in Homo sacer, I (1995), daltra parte, Agamben usava i trattini per scrivereforma-di-vita, nominando cos un essere che solo la sua nuda esistenza, una vita che la suaforma e resta inseparabile da essa, e che si potrebbe pensare al di l della distinzione aristotelicafra potenza e atto, della partizione classica fra zo e bios, o del bando sovrano che separa e detienela nuda vita. La ricerca ventennale poteva ora giungere a compimento, coincidere cio con la defin-izione delluso in se stesso.Luso dei corpi. Homo sacer, IV, 2 (Neri Pozza, pp. 366, euro 18,00) risponde alle attese con la forzadirimente del capolavoro. , questo nono e ultimo volume, un libro con cui sar dora in poi necess-ario anche se non facile misurarsi, non solo perch, per ricchezza, erudizione e chiarezza specu-lativa si impone nel panorama filosofico di questo tempo, ma perch davvero dischiude una nuovadimensione del pensiero mentre restituisce con buona pace della potenza costituente, cio delleistituzioni e del governo tutta la seriet dellanarchia (intesa in senso filosofico e politicoinsieme).Quella vita che solo la sua nuda esistenza, la vita che appunto il diritto esclude e cattura, la vitabandita e sacra (insacrificabile, spiegava gi Agamben andando oltre Kernyi, nel senso che puessere uccisa senza commettere omicidio), si presenta allinizio del nuovo lavoro in una frase di GuyDebord: cette clandestinit de la vie prive sur laquelle on ne possde jamais que des documentsdrisoires. la vita corporea, separata da noi come lo un clandestino e insieme inseparabile, pro-prio come non si separa da noi colui che condivide nascostamente con noi lesistenza. Certo,rispetto allultimo Foucault, che aveva pensato la sottrazione del corpo, in nome del piacere, ai mec-canismi di potere della sessualit, Agamben aveva espresso le proprie riserve osservando che ilcorpo per noi gi sempre preso in un dispositivo gi sempre corpo biopolitico e nuda vita.Ma laccento batte qui sulluso, che si tratta di isolare, strappandolo alla sua assimilazione allatto,alla produzione, allopera. Ora, un puro uso del corpo era stato concepito dalla cultura classica nellafigura e nellattivit dello schiavo che, spiega Agamben, non interpretabile secondo una nozione dilavoro tanto implicita e ovvia per noi quanto ignota ai Greci. Loperaio potr anche essere schiavi-zzato, ma lo schiavo non un operaio. Il suo corpo, diceva Aristotele, uno strumento, ma non pro-duce come il plettro o la spola unopera separata dal suo uso; piuttosto uno strumento pratico,simile cio a una veste e a un letto, che soltanto si usano. Improduttivo, e pressoch privo di virt,questuomo-suppellettile cos lescluso dalla vita politica che rende possibile agli altri di essereliberi, interamente politici, veramente umani.Si riconosce lo schema tipico dellesclusione includente, o delleccezione nel senso che Agamben

  • ha dato a questo termine. Ma proprio per questo, secondo un gesto teorico anchesso tipico e compl-ementare, lo schiavo rappresenta la cattura nel diritto di una figura dellagire umano che ci restaancora da delibare.Lindagine si stringe dunque sul verbo chresthai: usare (che infatti non pu reggere laccusativo)indica nel suo significato pi proprio (cio mediale) non una relazione di un soggetto con un oggettoesteriore ma la relazione che si ha con se stessi. La differenza da Foucault ora segnata sottilmente: vero infatti che in una lezione famosa del corso del 1982, Lermeneutica del soggetto, la nozioneplatonica, ma anche stoica, di chresis, veniva restituita al suo senso pi ampio e vario (compor-tamento, contegno, attitudine) e interpretata nel segno della cura di s e del soggetto: chi ha curadi s, insegnava Foucault, si occupa di se stesso come soggetto della chresis, cio di comportamenti,attitudini e cos via. Ma se gi la chresis, secondo la distinzione acuta di Agamben, un rapportocon s, essa comporta uno spostamento essenziale al di l della dimensione del soggetto.Non c pi un soggetto della chresis di cui occuparsi, ma solo uso, solo rapporto con s e nessun scome soggetto. Qui Agamben potrebbe sembrare vicino a Heidegger, secondo il quale lespressioneSelbstsorge (cura di s) che segna dallantichit la comprensione pre-ontologica del soggetto solo una tautologia, poich lEsserci gi sempre alle prese con se stesso (Essere e tempo, 40).Ma mai il suo confronto col maestro dei seminari di Le Thor stato cos critico e serrato come inquesto libro. Proprio il modo in cui Heidegger privilegia la cura e descrive luso, assimilandoloallenergeia, dimostra secondo Agamben che egli non uscito dalla cornice aristotelica. Definireluso in s stesso significa invece pensare un uso della potenza che non semplice passaggioallatto. Significa lavorare sulle nozioni di hexis, habitus, abitudine, distinguere, oltre la coppiapotenza/atto, un uso abituale: se Glenn Gould un pianista anche quando non suona, non lo inquanto titolare o padrone della potenza di suonare, che pu mettere o non mettere in opera, maperch non cessa mai di essere colui che ha luso del piano, vive abitualmente luso di s comepianista. Luso non unattivit, ma una forma-di-vita.Per questo la seconda, ricchissima parte del libro, muove nella direzione che Heidegger ha intravistosenza poter seguire: Agamben vi intraprende dapprima una accurata archeologia del dispositivoaristotelico, ontologico e insieme linguistico, che ogni volta isola il soggetto scindendo essenza edesistenza, per addentrarsi poi nel campo ancora inesplorato dellontologia modale. Se una volta ilpensiero moderno si spinto fino a questo territorio, stato nel carteggio tra Leibniz e Des Bossese con quel concetto a cui Leibniz ha dato il nome (inattendu et nigmatique dir Charles Blondel)di vinculum substantiale. Caduto con leccezione notevole di Maine de Biran in un cono dombraper tutto lOttocento, il vinculum, che per Leibniz unisce la molteplicit brulicante delle monadi inuna sola sostanza, stato riscoperto nel 1930 appunto da Blondel (in chiave antikantiana), poi dallostorico Alfred Boehm e in tempi pi vicini da Gilles Deleuze, che gli ha affidato un ruolo chiave nelpassaggio dallontologia classica alla sua filosofia dellavere.Loriginale strategia di Agamben punta invece sul termine esigenza: se il vincolo, come diceva giLeibniz, esige le monadi, proprio lesigenza devessere ora sostituita alla sostanza come concettocentrale dellontologia. Lessere non si appropria dei modi dessere, ma li esige, ossia si dispiega inessi, non altro che le sue modificazioni. La vita non che la sua forma e la forma secondo la bellaespressione di Vittorino si genera vivendo.

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