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RRIIVVIISSTTAA OONN--LLIINNEE
N.3 – Ottobre 2010
In Questo Numero:
Narni sotterranea: La Chiesa di S.Angelo e le celle dell’Inquisizione
(di Paolo Galiano)
Dietro la maschera, il Dio (di Domizia Lanzetta)
Selezione di articoli, commenti, riedizioni, estratti e segnalazioni relative alle attività di Simmetria.
La rivista on-line, agile e di poche pagine, si affianca alla rivista cartacea di Simmetria, ha lo stesso comitato direttivo ed
editoriale e sviluppa temi particolari, prescelti fra quelli di maggiore interesse fra i nostri lettori. Ha un carattere aperiodi-
co e viene inviata gratuitamente a tutti i soci e amici che ne facciano richiesta.
SIMMETRIA Associazione Culturale - Via Muggia 10 – 00195 Roma e-mail: info@simmetria.org
RIVISTA ON-LINE Numero 3 – Ottobre 2010
Associazione Culturale
Via Muggia 10 – 00195 Roma
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Rivista 3 - Ottobre 2010
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Carissimi lettori Proponiamo in questo numero una interessante
relazione di Paolo Galiano sulla visita ai sotterranei della
città di Narni e ad un sito particolare, scoperto e curato
dalla capacità di uno speleologo che da circa 30 anni ha
esteso le sue ricerche sotto il complesso di San Domenico.
Il secondo articolo (di Domizia Lanzetta) è estrat-
to dalla nostra rivista cartacea n° 6 (2005) e propone un
tema caro a molti dei nostri associati, quello dei culti mi-
sterici nella antica Roma.
Narni sotterranea:
La chiesa di S.Angelo e le celle
dell’Inquisizione di Paolo Galiano
(NOTA: le foto, tranne il monogramma di Bam-
berga e la ricostruzione grafica del monogram-
ma, sono tratte dal libro di Roberto Nini “Alla
ricerca della verità”, ed. Thyrus Terni 2009 – il
complesso di San Domenico, che consigliamo di
visitare per l’interessante struttura e per la sua
storia ma soprattutto per quanto è stato riporta-
to alla luce, è visitabile negli orari indicati nel
sito www.narnisotterranea.it o tramite prenota-
zione presso l’Associazione Culturale “Subter-
ranea” di Narni, tel. 0744722292 - 3391041645)
Il recupero della chiesa di San Domenico
e del Convento dei Domenicani a Narni, iniziato
nel 1979 grazie ad un gruppo di (allora) giovani
speleologi diretti da Roberto Nini e tuttora in
corso, ha portato alla luce ambienti di grande ri-
levanza sia storica che simbolica, su cui la ricer-
ca e il dibattito sono ancora aperti. Due di questi
ambienti, la Cappella di S. Angelo e la “cella dei
graffiti”, meritano di essere descritti particola-
reggiatamente, rinviando il lettore al testo di Ro-
berto Nini “Alla ricerca della verità”, resoconto
e racconto della scoperta e delle ricerche di ar-
chivio necessarie alla comprensione dei signifi-
cati e dei contenuti del complesso.
Il primo locale che ha suscitato il nostro
interesse è la chiesa sotterranea (sotterranea per-
ché scavata in parte nella roccia sottostante San
Domenico) che venne chiamata al momento del-
la sua riconsacrazione Santa Maria della Rupe,
ma di cui solo più tardi, nel 2000, grazie al ritro-
vamento di un documento del 1372, si scoprì il
vero titolo di “Cappella di S. Angelo”.
Essa consta di un ambiente con copertura
a botte affrescata con un cielo stellato e al centro
un tondo con l’Agnus Dei (i resti di questo e de-
gli altri affreschi che è stato possibile restaurare
non consentono di dire di più), il cui interno, più
volte rimaneggiato nel corso dei secoli, presenta
due sedili in muratura che corrono lungo le pare-
ti; il lato absidale è decorato sull’arco con cinque
tondi contenenti il Cristo ed i simboli dei quattro
Evangelisti e nel catino da un’Incoronazione del-
la Madonna, mentre i pilastri ai lati portano due
figure, l’una sicuramente Michele Arcangelo con
la lancia in pugno nell’atto di trafiggere il drago,
la seconda sempre San Michele con una bilancia
in mano, nel suo aspetto di psicopompo.
Ricordiamo che Narni era parte del Duca-
to longobardo di Spoleto e presso questo popolo,
al periodo della conversione al Cristianesimo, il
Dio supremo Odino, protettore particolare della
tribù longobarda fin dalle sue origini, era stato
identificato e sostituito da Michele: da qui le
numerose chiese, in genere in grotta, dedicate dai
Longobardi a Michele ad iniziare dalla più cele-
bre, quella del Gargano. Poiché Odino aveva
molteplici aspetti, divinità guerriera, sapiente
conoscitore del passato e del futuro e signore dei
guerrieri caduti in battaglia, alcune delle sue “at-
tività” passarono a Michele, il quale diventò così
sia un protettore dei guerrieri, ed in particolare
dei Cavalieri, sia l’accompagnatore delle anime
dei defunti.
Ciò che va rilevato nella cappella sotter-
ranea è proprio il fatto che essa sia stata in parte
scavata: la presenza delle Legioni nella Narnia
romana potrebbe far sospettare un iniziale uso
del luogo come tempio di Mithra, poi sostituito,
come a Sutri, da una chiesa cristiana dedicata a
Michele Arcangelo e alla Madre di Dio.
Il secondo oggetto del nostro interesse è
la serie di stanze ritrovate nel convento di San
Domenico, delle quali è stato attestato l’uso gra-
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zie ad una pianta del 1714 ritrovata da Nini
nell’archivio dell’ex Sant’Uffizio a Roma.
Abside della Cappella di S. Angelo
Una di esse risulta di particolare rilievo:
si tratta di una delle celle (indicata con F nella
pianta) in cui venivano rinchiusi gli imputati in
attesa di giudizio, le cui pareti sono completa-
mente ricoperte da graffiti che si sovrappongono
e si intersecano fra di loro rendendone non sem-
pre facile la lettura. Questi graffiti risalgono a
periodi diversi e sono opera di mani differenti,
ma la gran parte sembra attribuibile ad uno solo
dei carcerati di cui, grazie alla paziente e lunga
opera dello scopritore, durata molti anni, cono-
sciamo non solo l’identità ma anche la storia,
almeno in parte.
Accanto alle firme di un Giacomo Anto-
nio Pisani e di un Andrea Pasqualucci, questo
collegato al nome di Napoleone (per un certo pe-
riodo la chiesa di S. Angelo e le stanze del Con-
vento furono usate come depositi dalle truppe
napoleoniche) spicca il nome di Giuseppe An-
drea Lombardini, qui carcerato fra il 1759 e il
1760, al quale è possibile attribuire gran parte
delle incisioni murarie della cella. Egli stesso in-
cise il suo nome nel muro sud: “Giuseppe An-
drea Lombardini caporale carcerato in questo lo-
cale addì 4 dicembre 1759”.
Lombardini era stato sottoposto a proces-
so e condannato all’esilio per aver aiutato a fug-
gire dal carcere tale Pietro Milli, condannato per
bestemmie eretiche ed insulti al Vicario del vici-
no paese di Piediluco: ciò che accomunava i due
era il fatto, davvero curioso, che ambedue erano
guardie proprio della stessa Inquisizione che ora
li condannava.
Graffito della parete sud: “IHS (Domini?) MIO / Giu-
seppe Antrea Lobartini caporale /cargerato (parola can-
cellata: innocente?) in questo locale / ati 4 decebre
17(59?)”.
Anzi, ad essere precisi, Lombardini do-
veva essere un superiore di Milli, visto che sulle
mura del carcere si firma “caporale”, cioè sovra-
stante delle guardie, come conferma il decreto
del 1763 ritrovato da Nini con il quale egli rice-
veva la grazia.
Uomo sicuramente colto, buon conoscito-
re del Vecchio Testamento, se la serie di numeri
che incise tre volte, una per ciascuna parete, cor-
risponde, come suppone lo stesso Nini, ai numeri
di quattro Salmi, il 7, il 24, il 42 e il 70, tutti ac-
comunati dall’essere preghiere di invocazione a
Dio per essere protetti dal pericolo e
dall’ingiustizia dai nemici (Salmo 7: Salvami
Dio, in te mi rifugio: salvami da quanti
m’inseguono e liberami!; Salmo 24: Io pongo in
te, Signore, la mia speranza… che di me non
gioiscano i miei nemici; Salmo 42: Sii il mio
giudice, o Dio, e la mia causa difendi da gente
non santa; Salmo 70: In te mi rifugio, o Signore,
ch’io non sia confuso in eterno).
Di recente, a quanto ci ha riferito l’autore della
scoperta, sono state avanzate interpretazioni (a
nostro avviso non del tutto convincenti) su base
numerologica, secondo le quali si dovrebbe ve-
dere nei quattro numeri una serie numerica basa-
ta sul 7 (7 e 70=7x10) e sul 6 (2+4=6 e 4+2=6),
indicanti rispettivamente il divino e il diabolico.
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I quattro numeri incisi sulla parete est.
Egli inoltre è capace di scrivere sia con
lettere maiuscole che corsive (e nel XVIII secolo
non esisteva ancora la scuola dell’obbligo…) e
di creare monogrammi, quale quello che si trova
sulla parete sud della cella e che fa parte della
parola “MIO”, la quale va forse sciolta come
“Domini mio”; era anche affetto da una curiosa
particolarità: Lombardini non scrive mai la lette-
ra D, né nel suo nome né in tutte le altre scritte,
forse con la sola eccezione del monogramma di
cui è fatta la prima lettera di MIO, quasi fosse
una lettera sacra perché iniziale di Dio e quindi
non adoperabile (a somiglianza di quanto fanno
gli ebrei che non adoperano il nome Jahwhè per-
ché sacro ma lo sostituiscono con altri nomi di
Dio che si possono scrivere o pronunciare)
La parola “MIO” la cui lettera M appare composta di
diversi elementi come in un monogramma, del quale si
propone la lettura come “Domini”.
La mancanza della D dobbiamo interpre-
tarla come un fatto casuale o come la mancanza
di appropriate conoscenze di calligrafia? La ri-
sposta è per noi negativa, Lombardini come ab-
biamo detto è un uomo istruito, che non solo sa
usare il maiuscolo e il corsivo ma possiede anche
una buona conoscenza della Sacra Bibbia e dei
simboli cattolici, come testimonia l’uso dei mo-
nogramma IHS e AM dell’Ave Maria, che si ri-
trovano più volte graffiti sulle pareti della cella,
la presenza delle Stazioni della Via Crucis (pro-
prio in quegli anni questa pratica aveva raggiun-
to la massima diffusione nelle chiese ad opera
del francescano Leonardo da Porto Maurizio,
tanto da dover essere regolarizzata con disposi-
zioni particolari dal Papa Benedetto XIV nel
1741), cui fanno riferimento le croci numerate
sulle tre pareti della cella a partire dalla destra
della porta d’ingresso e disposte in senso orario;
inoltre molte di queste croci sono intrecciate con
una X al punto di congiunzione delle braccia o
con quelle che sembrano due lance (la lancia di
Longino e quella della spugna con aceto offerta
al Cristo prima della morte) e riportano in alto
una piccola sbarra trasversale, che non è il carti-
glio INRI, raffigurato alla sommità del braccio
verticale della croce, ma forse un’allusione alla
croce tridimensionale a sei braccia.
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L’IHS con i tre chiodi nella cattedrale di Bamberga.
Croce con sottostante
monogramma AM e i tre
chiodi
Croce con le due lance
Nini suppone infatti una sua possibile i-
struzione presso il Convento dei Gesuiti di Spo-
leto, città della quale era forse originario, per la
presenza tra i graffiti di numerose incisioni di
croci che hanno alla base i tre chiodi della pas-
sione, simbolo che si ritrova molto frequente-
mente nelle chiese dei Gesuiti. Rispetto a queste
“croci gesuitiche” Lombardini aggiunge a volte
tre triangoli alla base: si tratta di tre monti o
dobbiamo interpretarlo come il simbolo alchemi-
co del Fuoco triplicato ad intenderlo come “fuo-
co vigoroso” (propriamente il segno alchemico
di “fuoco vigoroso” è fatto con due e non tre
triangoli)?
Questo ci porta a considerare il problema
complessivo dei graffiti della cella: come vanno
interpretati? Vi è chi ritiene che essi siano da in-
terpretare come simboli massonici; per questa
ipotesi in verità non ci sono molti elementi per
sostenerla, in quanto gli unici argomenti sono
rappresentati dalla presenza di un gruppo di se-
gni sulla parete est (quella dove nella Loggia
siede il Maestro) tra i quali sembra di vedere un
martello, un compasso chiuso (perché i lavori di
Loggia non sono in corso) ed una squadra a
braccia irregolari (simbolo del Compagno), ma i
segni sono commisti ad altri che difficilmente
possono essere riportati alla simbologia masso-
nica, quale un triangolo che pare tagliato a metà
e una croce piantata su di un triangolo con una
specie di X o di stella a sei braccia al suo interno.
Cosiddetti “simboli massonici” graffiti sulla parete est.
A parte la difficoltà insita nel disegnare
simboli massonici all’interno di una cella
dell’Inquisizione (i frati Domenicani non erano
certo così ignoranti da non accorgersene), man-
cano altri segni sicuramente ed esclusivamente
riportabili a questa tradizione, quale potrebbe es-
sere ad esempio il G maiuscolo.
Invece vi sono altre immagini suggestive
per una interpretazione diversa: un albero simbo-
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lo dell’Axis Mundi con 4+4+1 nove rami ai quali
si affiancano uccelli, forse colombe (alla destra
sicuramente una colomba con il ramo d’olivo),
una scala connessa sui due lati tramite un segno
ricurvo a due monogrammi dell’Ave Maria e
contenente la parola SCALA scritta dal basso
verso l’alto, ad indicare che deve essere ascesa;
ambedue terminano con una punta triangolare il
che fa rassomigliare ambedue i disegni ad obeli-
schi (il triangolo è tagliato a metà nel secondo
caso: simbolo alchemico dell’Aria? un secondo
simile si trova nella scritta “Paratiso” sopra la
porta, con un punto nella metà superiore).
L’albero-obelisco con gli uccelli (colombe?)
Raffigurazioni del genere, specie se col-
legate al gran numero di croci intrecciate con se-
gni particolari, ai monogrammi IHS e AM, alla
presenza di scritte come “Il Paratiso santo” (per
la solita assenza della D nei graffiti di Lombar-
dini) o nomi di santi quali S. Nicola, S. Anselmo
e S. Antonio (scritto però “Andonio”, scritta però
non con la calligrafia di Lombardini), la costante
assenza della D quasi fosse una lettera sacra, so-
no tutti elementi che inducono a pensare che
Lombardini sia stato certamente cristiano e ne
voglia aver voluto lasciare testimonianza nella
cella con i suoi graffiti, sicuramente sentendosi
ingiustamente perseguitato dagli stessi Domeni-
cani che aveva fino allora servito (come dimo-
strano i Salmi a cui fanno riferimento i numeri
sulle pareti), ma non è da escludersi che egli pos-
sa aver fatto parte di una qualche società cristia-
na eretica che esprimeva la sua peculiarità me-
diante simboli affini ma non identici a quelli del-
la Chiesa ortodossa.
La scala-obelisco con la scritta SCALA rovesciata.
Ci sono infine due raffigurazioni com-
plesse che lasciano aperte molte possibilità circa
il loro significato: il cosiddetto “Falconiere” del-
la parete est e il San Nicola della parete sud si-
tuato immediatamente accanto.
Il “Falconiere” e San Nicola
La presenza di S. Nicola potrebbe spiegarsi in
due modi, perché la sua festività cade al 6 di-
cembre, quindi due giorni dopo la data di incar-
ceramento di Lombardini, e questi potrebbe ave-
re fatto ricorso al Santo per chiedere di salvarlo
come egli aveva fatto con i tre fanciulli uccisi e
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gettati a pezzi in una botte, ma il fatto che la bot-
te sia trasformata nel graffito in un rettangolo di
7x7 quadrati lascia adito al sospetto che il suo
autore volesse dire qualcosa di più: il 49 rappre-
sentava un numero speciale per Lombardini? Se
sette è numerologicamente il numero della com-
pletezza, perché fatto del 3 che è divino (la Trini-
tà) unito al 4 che è terreno (i quattro elementi),
moltiplicato per sé stesso ha il significato di
completezza assoluta, in questo caso ottenuta
tramite il sacrificio di sé stessi.
Così la figura del “Falconiere” si presenta
a sua volta ambigua: la figura umana tiene legato
per le zampe un uccello che sembra portare una
corona sul capo e alla sua sinistra ma rivolto in
senso opposto un animale che pare essere un uc-
cello ma con corna sulla testa ed una grossa coda
ritorta a spirale. Il primo personaggio potrebbe
essere figura di un carceriere che tiene imprigio-
nato un animale forse con significato di simbolo
dell’anima, come sembra alludere la corona sul
capo, mentre l’altro animale con caratteri più di
drago che di vero e proprio gallo potrebbe essere
a sua volta figura del Maligno, la cui connessio-
ne con la scena di San Nicola e dei fanciulli ren-
de difficile comprendere se il gallo-drago sia da
collegare a questa o alla scena precedente.
Indubbiamente nella sua apparente rustica
semplicità la cella graffita presenta significati e
segreti ancora da interpretare e che solo una ri-
cerca documentata sull’ambiente in cui si svolse-
ro i fatti e sulla cultura specifica dell’epoca a cui
essa risale potrà aiutare a risolvere.
Dietro la maschera, il Dio di Domizia Lanzetta
Il significato della maschera ed il suo rapporto
con i misteri del mondo greco e soprattutto ro-
mano. La liturgia come apparato scenico e tea-
trale per coprire la potenza e l’inaccessibilità
del Dio, che può essere avvicinato solo in quanto
la maschera ne simbolizza l’essenza ma non ne
svela il mistero folgorante. Un percorso incanta-
to, vissuto con entusiasmo magico dall’autrice,
attraverso la descrizione cantilenante delle mol-
teplici valenze di Dioniso, dio per eccellenza del-
le metamorfosi e del divenire.
Su una lastra di travertino di un museo
romano una giovane donna, vestita di un chitone,
fissa una maschera dionisiaca. La figura sembra
essere il compendio della scena iniziatica che
compare nel registro superiore. Da secoli questa
giovane donna è immersa nella contemplazione
della maschera di un dio. Da secoli essa cerca di
andare oltre il volto inquietante e beffardo di una
maschera dionisiaca. Tuttavia, continuando ad
osservarla, sorge il dubbio che la giovane donna,
fissando le orbite vuote della maschera, stia in
realtà contemplando il riflesso della propria im-
magine. Perché una maschera divina può essere
anche lo specchio della parte più profonda e in-
tima di noi stessi.
Ma chi può essere questa donna che, mentre nel-
la parte superiore della lastra si sta celebrando
una liturgia iniziatica, stando seduta su una roc-
cia è assorta nella contemplazione di una ma-
schera? Forse è essa stessa un’inizianda, forse è
una baccante o forse personifica l’anima umana
che cerca sé stessa nel volto straniante di una
maschera?
Ma cosa è una maschera? La parola stessa evoca
emozioni contrastanti. E subito in noi sorge un
intreccio di immagini che possono essere di gio-
condità e frivolezza ma che, al tempo stesso,
provocano una sensazione di smarrimento e di
minaccia. Perché la maschera, per propria natura,
ha in sé un ché di respingente e accattivante;
come fosse qualcosa sfuggita ad una dimensione
aliena che da sempre ci spaventa e ci affascina.
Una dimensione umbratile, circonfusa di una fo-
sforescenza che seduce ed intimorisce, quasi che
essa segni il confine del mondo con un territorio
stregato.
Il fatto è che lo stesso termine deriva da
“masca”; parola che, nel latino medievale signi-
fica proprio strega; quest’ultimo, a sua volta,
proviene da “strix” che vuol dire uccello nottur-
no. Infatti, un tempo si riteneva che le streghe
fossero in grado di mutarsi in gatti, in capre ma
soprattutto in quegli uccelli che viovono di notte.
Ce ne dà testimonianza Apuleio che, nell’Asino
d’Oro, si trova ad assistere alla trasformazione in
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uccello notturno di una di queste. E nei tempi an-
tichi tutte le feste mascherate venivano vissute
come uno dei momenti in cui potevano verificar-
si le metamorfosi più strane. Certamente, in ap-
parenza tutto era gioiosità festante ma, sotterra-
neamente, si avvertiva la vicinanza di una di-
mensione estranea all’uomo, che in qualche mo-
do faceva pensare al… Sabba.
Infatti, oltre al vero e proprio carnevale,
c’erano altre feste caratterizzate da fantastici ma-
scheramenti, come quella di S. Giovanni, quella
di Beltane e quella di Santa Walpurga. E poi le
dodici notti d’inverno del mondo anglosassone e
la strana festa dello Jager Wielder, in cui tutte le
popolazioni Germaniche celebravano l’arrivo del
cacciatore Selvaggio che percorreva la terra con
il suo corteo di spettri ed esseri stregati.
Infatti in quel tempo il carnevale e le altre
feste mascherate, conservavano la finalità di so-
lennizzare l’irrompere di un mondo segreto, pe-
ricoloso, seducente che, ordinariamente è tenuto
separato da noi da una cortina invalicabile. E ciò
concerneva anche la vigilia di Ognissanti ed il
primo Maggio.
Tutte festività queste, che erano condan-
nate dall’autorità ecclesiastica (come succedeva
per quella del primo giorno dell’anno in cui, co-
me ci tramanda il “Poenitentiale Valicelianum”,
solevano avvenire travestimenti “in similitudi-
nem ferarum vel bestiarum imagine falsa”). Fe-
stività quindi deprecate dalla chiesa in quanto
brandelli di rituali antichissimi di origine scia-
manica. Di questi, nella grotta di “Trois Freres”,
se ne conserva l’immagine: lo sciamano, ma-
scherato in parte da orso, in parte da cervo, sta
immobile con una specie di scettro in mano men-
tre, davanti a lui, giovani guerrieri eseguono una
danza estatica. Si tratta chiaramente di una danza
rituale, fatta in onore di colui che evoca, imitan-
dolo, qualche dio delle montagne e delle selve.
La medesima logica la si ritrova nei rituali delle
religioni meno remote. La ritroviamo nell’Egitto
antico, dove l’azione liturgica prende forma di
uno spettacolo e si fa teatro. Non c’è da scanda-
lizzarsi perché anticamente lo spettacolo teatrale
si fondeva col sacro.
E tale era il rito in cui si celebrava la re-
surrezione di Osiride. Il tempio stesso in cui ciò
avveniva era il riflesso di un dramma cosmico
che incessantemente si rinnovava. Non si trattava
di simulazione ma di verace presenza. Di qualco-
sa di eterno. Il dio giaceva su di una piattaforma
circondata dalle acque che, grazie alla forza del
rito, non era più un semplice scenario ma si
“transustanziava” e diveniva realmente il “Tu-
mulo primevo”; quel Tumulo che eternamente
sorge dalla equoreità del “Nun” primordiale. Su
questo il dio giace inerte e l’intero universo è in
attesa della sua resurrezione.
Iside e Osiride (pap. Ani)
Due donne divine lo vegliano e attendono
il falco solare “Carne del Sole” che discenda e
risvegli il “Grande Inerte”. E le due dee cercano
d’infondere in lui la forza che gli permetterà di
profferire “Ha-k-Ir-I” che è il cosmico richiamo,
solo dopo il quale potrà giungere fino a lui il suo
figlio Horus.
Le dee lo fanno con esortazioni e preghiere e con
il soffio vivificante che si sprigiona dal palpito
delle loro ali. Poi, finalmente, davanti agli occhi
attoniti degli abitanti di Abido, Horus raggiunge
Osiride; e lo fa passando per un tunnel sotterra-
neo grazie al quale si evocava un dio, imitandone
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l’aspetto e rivivendone la storia. Nel momento
stesso in cui il sacerdote si copriva il volto con la
maschera del Falco, cessava di essere se stesso,
si annullava, moriva e rinasceva come Horus,
come presenza di Horus. Cambiava realmente di
natura e di luogo e si faceva protagonista di un
dramma cosmico che fin dagli inizi del tempo,
incessantemente si rinnova. E la medesima cosa
accadeva alle due sacerdotesse, nel momento
stesso in cui, indossate le ali e la corona e postesi
al capezzale di Osiride proclamavano al mondo:
“Io sono Iside, Io sono Nefti”.
Mai, come in Egitto, la logica secondo la quale
l’evocazione avviene per imitazione, era tanto
vissuta e sentita. Questo lo si riscontra anche nel-
la letteratura sacra, dove l’intera dottrina è pre-
sentata in forma di dialogo e viene fatta propria,
rivivendo in forma scenica le vicende divine de-
gli dei che operano nel mondo. Perché, nella let-
teratura sacra degli egiziani, gli dei non vengono
né spiegati né raccontati, ma li si evoca trasfe-
rendosi in essi, grazie alla potenza sacrale di una
maschera.
Viene fatto di chiedersi se, su tali maschere cul-
tuali, si compissero particolari cerimonie, tenute
segrete e poi dimenticate, con le quali venisse ri-
chiamata la “presenza” del dio stesso. Qualcosa
di simile, forse avveniva nei riti teurgici, dove,
come si tramanda, i simulacri di entità sovruma-
ne sembra prendessero vita e si animassero, con
la pratica di misteriosi rituali che solamente gli
iniziati conoscevano.
Per quanto riguarda le raffigurazioni funebri, il
passaggio del defunto da una dimensione
all’altra era reso possibile dall’intervento di sa-
cerdoti mascherati.
L’azione liturgica la possiamo vedere con
i nostri occhi, dipinta e scolpita nelle pareti delle
tombe. In queste il sarcofago su cui è ritratta
l’effige del defunto, è sistemato in posizione ver-
ticale, di fronte al simulacro troneggiante di Osi-
ride. Tra il dio e il sarcofago, due figure masche-
rate procedono alla pesatura del cuore. Una ha
sul volto la maschera di ibis, l’altra quella di
sciacallo. Chi siano, individualmente i portatori
delle maschere non ha importanza; quel che con-
ta è che Toth e Anubis siano presenti nella co-
scienza di coloro che prendono parte al rito.
Jean Claude Wermont rimarca la diffe-
renza che c’è fra la maschera teatrale e quella di
culto. Nel primo caso si avrebbe il “suggello di
uno specifico carattere. Nel secondo caso invece
vi è la presenza ossessiva di un essere che non è
lì, dove dovrebbe essere, che è altrove e contem-
poraneamente in voi stessi”. In effetti, durante il
rito, il dio, mediante la sua maschera annulla la
“persona” uomo e si fa presenza. Il fatto è che il
termine “persona” è altrettanto ambiguo del ter-
mine “maschera”, perché entrambi indicano la
medesima cosa ed entrambi sono l’apparenza di
qualcosa che non può essere definita da nessun
ragionamento.
Per questo in molte delle religioni antiche, nel
culto reso a certe divinità delle quali la natura
più intrinseca è sfuggente, la presenza del dio
durante il rito è contrassegnata da una maschera.
Come succedeva a Figalia, in Arcadia, dove il
sacerdote di Demetra appariva con la maschera
della dea sul volto. Oppure nel santuario di Ar-
temide Ortia a Sparta, in cui il simulacro di Ar-
temide, ligneo e sinistro nella sua frontalità asso-
luta, aveva esso stesso l’aspetto di una maschera.
Ed infatti, nei penetrali di questo tempio fu tro-
vata dagli archeologi una profusione di maschere
rituali. Perché la natura di alcune divinità è a tal
punto ambigua e abissale che è necessario ricor-
rere a metafore o a immagini simboliche; a emo-
zioni poetiche oppure a qualcosa di indefinibile
quale è una maschera che, al tempo stesso, può
essere grottesca o minacciosa, terrifica e accatti-
vante e che, pur non svelando né celando il mi-
stero di un dio, ha però la facoltà d'indicarne l'in-
tima essenza.
Il fatto è che contemplare una maschera rituale
vuol dire entrare in contatto con l’aspetto più se-
greto della divinità stessa.
Questo ci suggerisce la giovane donna dei
Musei Capitolini che da secoli è ferma, pietrifi-
cata nell’atto d’interrogare la maschera divina. E
può essere anche un’allusione al fatto che, en-
trando in intima comunione con una di queste, si
arrivi a superare le scansioni del tempo e lo stes-
so divenire. Forse perché, volendo incontrare un
dio, è necessario prima perdersi in esso e seguir-
lo oltre i confini della vita, lasciandosi trascinare
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da lui, aldilà delle spirali del tempo. Ma per far
ciò è necessario servirsi di uno strumento tal-
mente potente, da mandare in frantumi sia la
propria individualità che la propria consapevo-
lezza.
Per questo si racconta che lo Xoanon di
Artemide Ortia avesse un aspetto così sconvol-
gente da far impazzire chiunque lo guardasse. Si
trattava forse della pazzia in cui incorre chi è tra-
scinato aldilà del tempo? Era forse questa la pie-
trificazione a cui conduceva la visione del volto
e dello sguardo della Gorgone Medusa? Infatti la
Gorgone Medusa è una maschera: anzi la ma-
schera delle maschere, che veniva apposta sui
sarcofagi di età romana, quale figura apotropai-
ca, per sancire il mistero di quel che c’è oltre la
vita. Nulla è più enigmatico di questa custode di
un universo senza tempo, il cui volto terribile
pietrifica chiunque lo guardi.
Il che può voler dire che, se si diviene
sterili come la pietra, si raggiunge l’immobilità
di ciò che è eterno. Ma per andare oltre Medusa
bisogna ucciderla, guardando la sua immagine
riflessa in uno specchio ed allora, solamente allo-
ra, dal suo collo mozzato balzeranno fuori Cri-
saore dalla spada d’oro e Pegaso, il cavallo alato
mediante il quale l’eroe potrà compiere le sue
imprese.
Forse perché tutte le maschere divine
vanno guardate riflesse in uno specchio e non
come vediamo fare alla giovane donna dei Capi-
tolini che da secoli è lì, pietrificata, sopra una la-
stra di travertino. Forse perché non è lecito cono-
scere in modo diretto quel che sta dietro la ma-
schera di un dio. O forse lo è, ma solo nell’acme
di una iniziazione misterica, cioè nell’attimo
fuggente che i greci denominavano Epopteya,
durante la quale il myste riceveva la “visione u-
nitaria dall’alto”, che era un qualcosa di irripeti-
bile, di assoluto.
Sembra che fosse un istante meraviglioso
e tremendo, forse simile a quello che incenerì
Semele quando costei volle vedere Zeus senza
che lo splendore del dio fosse velato da una delle
sue maschere. Tuttavia Semele non morì ma ge-
nerò colui che, a detta di Strabone, sarebbe stato
il dio più dolce e terribile. E nessun culto, più di
quello dedicato al figlio di Semele è legato alla
figura di una maschera.
Perché tutto ciò che al mondo esiste è un riflesso
di Dioniso, vale a dire, una sua maschera. E que-
sto perché, fin dagli inizi del tempo, Dioniso
contempla la sua immagine in uno specchio, la
fissa e la ama; la fissa e la segue; la fissa e muore
in essa, muore per essa. E questo è l’inizio di tut-
to quel che fu, di tutto quel che è e di tutto quel
che sarà. Perché quando Dioniso fissa la sua
immagine riflessa, da Creatore si fa forma creata.
Ed è forse questo che la giovane donna dei Capi-
tolini cerca, contemplando qualcosa di salvifico
ed accattivante ma anche straniante, sfuggente
come solo una maschera dionisiaca sa essere.
Perché fissando una di queste si può conoscere il
mistero di un dio che, seguendo la propria im-
magine riflessa, muore e risorge incessantemente
in questa e da questa.
Pater – S.Prisca
In epoca tarda, emblema e simbolo della “miste-
riosofia” era una divinità di origine egizia. Si
trattava di un dio protettore e salvifico che per-
sonificava l’iniziazione stessa e l’insieme dei mi-
steri. Questo è il dio Bes, un dio il cui simulacro
ha l’aspetto di una maschera grottesca e bizzarra,
dal sembiante a tal punto sconcertante da sem-
brare qualcosa al limite tra il mondo umano, il
mondo animale e il mondo vegetale e del quale
l’insieme trasmette l’idea di una sapienza arcana
e indicibile, perché troppo sacra.
Nel Mitraismo poi, la presenza di travestimenti e
maschere scandisce tutto il procedere dell’iter i-
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niziatico. Il Cumont, tentando di ricostruire la
dottrina e le forme rituali, vide nella ossessiva
presenza di maschere animali, il richiamo ad una
lontana origine totemica. Tuttavia, data la com-
plessità della misteriosofia mitraica, è pensabile
che ben altro e ben più complesso sia il significa-
to di questa profusione di maschere e travesti-
menti.
Nel mitreo di Capua vediamo raffigurato
un giovane “Nimphus” (vale a dire un iniziato al
secondo grado), travestito da giovane donna, con
indosso l’abito nuziale. Davanti a lui un fanciullo
travestito da Eros procede tenendo una fiaccola
accesa, stretta nella mano. Il massimo della sug-
gestione la si raggiunge però nel mitreo di Santa
Prisca a Roma dove, nella penombra della grotta
sacra, si scorge una processione d’iniziati che,
portando sul volto maschere leonine, offrono tu-
riboli d’incenso al Pater Patrum. Un commenta-
tore cristiano ci dice che gli iniziati al quarto
grado, durante le cerimonie, dopo aver indossato
le maschere leonine, prendevano ad emettere
grida rauche, simili a ruggiti, mentre i Nimphi,
travestiti da sposa, fungevano da “chierichetti”
della medesima cerimonia.
Da un mosaico del mitreo degli animali ad Ostia,
galli, scorpioni, corvi, corvi tori ed anche serpen-
ti, sembrano volerci comunicare qualcosa ma
purtroppo noi non ne comprendiamo il linguag-
gio. Perché per noi, il linguaggio di questa reli-
gione misterica ci attrae ed affascina ma, nel suo
complesso, resta un mistero anche se, utilizzando
brandelli di notizie che gli autori antichi ci tra-
mandano e meditando sull’iconografia di cui i
misteri sono profusi, possiamo, con
l’immaginazione, ricostruire alcuni riti e subirne
appieno la malia.
Con la fantasia possiamo entrare nella
penombra mistica dei loro templi, contemplare
gli strani giochi di luci che producono nella grot-
ta un chiarore fantastico ed ascoltare i richiami
rauchi e gutturali degli iniziati. Possiamo, assie-
me a loro, muoverci in quegli ambienti saturi di
profumi e contemplare le processioni degli ini-
ziati che avanzano, con i volti coperti da masche-
re ferine e velati dalla nebbia degli incensi. Non
potremo però mai cogliere l’essenza di questo
intreccio di simboli; non potremo mai arrivare al
cuore del loro misticismo; non potremo mai
giungere a conoscere veramente la religione di
Mitra.
Volendo parlare di maschere rituali, non si può
fare a meno di tornare a Dioniso. Perché è con
Dioniso e nella religione di Dioniso che la ma-
schera raggiunge la sacralità assoluta. Non per
niente la giovane donna dei Capitolini ci appare
immersa, perduta nella contemplazione di una
maschera dionisiaca. Forse si tratta di una Bac-
cante che, prima di entrare nella azione liturgica,
si sta facendo pervadere dalla potenza del dio.
Dioniso stesso, nel culto non era che una ma-
schera. Una maschera idolo con ai lati due sfere,
interpretate come il sole e la Luna. Perché la ma-
schera, così come fa Dioniso si nasconde e, die-
tro la sua apparenza vana, si intuisce la presenza
dell’inesplicabile. Perché è con l’immagine della
maschera che si evoca il meraviglioso mistero
della religione di questo dio. Come Dioniso in-
fatti, anche la maschera è contraddittoria e fuor-
viante.
Ma chi è Dioniso? Per saperlo forse è necessario
fare quel che da secoli sta facendo la giovane
donna dei Capitolini: interrogare la maschera
dionisiaca. Perché la maschera in sé stessa è
l’emblema di questo dio e anche perché Dioniso
è avvolto nell’enigma delle sue svariate e con-
traddittorie epifanie. Egli è il toro furente ma an-
che il timido cerbiatto e l’inerme capretto sacri-
ficale con la cui pelle si rivestono le Baccanti
quando sui monti celebrano i riti bacchici. Ma
egli può essere anche un fiero leone, simile a
quelli che si vedono tirare il suo carro, oppure un
serpente, come quelli che sbucano dalle rustiche
ceste, sempre presenti nei suoi thiasoi. Ed ognu-
na di queste epifanie è una maschera con la quel
il dio si manifesta e dietro la quale si cela. Ed
anche la natura, nel suo aspetto più selvaggio è
una maschera, perché Dioniso è fuoco ed acqua,
alberi e rocce e firmamento.
E le sue maschere sono anche i cortei fra-
gorosi, i cortei di posseduti che invocano Dioni-
so e danzano al suono sordo dei tamburi; e che lo
evocano danzando attorno ad una maschera issa-
ta su un rozzo palo o che pende dai rami di un
albero. Perché i veri templi di Dioniso, dove le
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Baccanti celebrano i suoi riti e le sue liturgie, so-
no le cime più impervie dei monti e l’ombra scu-
ra di boschi impenetrabili e le scogliere dove si
frangono le onde.
Ed era infatti dal mare che ad Atene, durante le
Antesterie, si attendeva la sua parusia. La si mi-
mava trascinando un carro a forma di nave
nell’Agorà, mentre i cittadini, mascherati da Sa-
tiri, Ninfe e Sileni, la seguivano inneggiando a
Dioniso, danzando per Dioniso, invocandolo al
grido di “triambos-dithirambos dhitirambos”.
Questo era il cursus navalis da cui avrebbe preso
il nome il nostro “Carnevale”. E mentre la Basi-
linna si recava al Boukoleion per celebrare la mi-
steriosa ierogamia col dio, maschere grottesche
dall’espressione gioiosa e trionfante, maschere
tragiche dal volto contratto, oppure terrifiche e
sogghignanti, erano appese ovunque e oscillava-
no alla brezza della incipiente primavera.
E fu attorno a una maschera che prese
avvio il dithirambo che in seguito si trasformò in
genere letterario. Si trattava di un tipo di danza a
ritmo ternario, che iniziava con un movimento
lento e circolare e che poi, gradualmente accele-
rava e via via diveniva sempre più incalzante fi-
no a trasformarsi in una sarabanda tragica e sfre-
nata. E i danzatori, oramai posseduti dal dio, si
muovevano al suono lacerante dei flauti, attorno
ad una maschera cultuale dal volto terrifico,
dall’espressione sinistra, sogghignante.
Una di queste maschere la possiamo vedere a
Pompei, dipinta su un a delle pareti della celebre
“Villa dei Misteri”. Qui una giovane donna è ri-
tratta mentre fissa l’interno di una coppa che un
anziano Sileno le tiene sollevata davanti. Costui
volge altrove il volto e ha negli occhi
un’espressione assente. Al disopra del suo capo
una Panisca alza una maschera che guarda con
occhi terribili il fondo del recipiente. Che cosa la
giovane donna e la maschera vedano al didentro
della coppa, non ci è dato saperlo; noi la coppa la
vediamo all’esterno e possiamo rilevare solo che
questa è tonda e argentea come la luna. E subito
dopo questo le sequenze della simbologia miste-
rica raggiungono il culmine nell’immagine di
Dioniso che, ebbro di mistica ebbrezza, si ab-
bandona sul grembo di una figura femminile tro-
neggiante e severa. .
Ma il momento in cui il dio è più temibile è
quando indossa una maschera umana, quando
cioè si presenta come uomo fra gli uomini. Ed è
in questa veste che Euripide ce lo fa conoscere
nelle “Baccanti”. Qui egli, che è potenza infinita
e travolgente, , si manifesta mediante coloro che
agiscono nella sua liturgia. Qui è il Thiasos che,
pervaso dal fremito dionisiaco, diviene una sua
maschera. E il Thiasos è il mezzo più terribile
con il quale il dio rivela sé stesso, perché il Thia-
sos è quella maschera di Dioniso dietro la quale
si cela il suo aspetto più tremendo: quella in cui è
Bromios, cioè “colui che infuria”. Perché qui la
sua maschera è la follia catartica delle baccanti
quando queste sono in preda all’ebbrezza della
intuizione divina.
Ed è questa la maschera con cui lui tra-
sforma gli uomini in dei e lui stesso si fa uomo e
capovolge la realtà del mondo. Perché la sua ma-
schera evoca due tipi di follia: una che uccide e
distrugge, l’altra che trasfigura l’uomo a tal pun-
to da renderlo identico al dio. Nessuno meglio di
Euripide riusì mai ad esprimere il mistero di que-
sta divinità che sembra essere ciò che non è ed è
ciò che non sembra essere. Perché Euripide rie-
sce a cogliere tutta la contraddittorietà
dell’universo dionisiaco e la focalizza e personi-
fica nelle figure di Penteo, re di Tebe, e del gio-
vane Lidio, sacerdote e guida del Thiasos dioni-
siaco. L’uno si contrappone all’altro, così come
si contrappongono il sole e la una al lato della
maschera cultuale del dio. L’uno è la consapevo-
lezza umana, l’altro invece è la follia dionisiaca
che dolcemente ma implacabilmente, la prima
distrugge. Nella finzione scenica questo viene
espresso tramite l’antitesi di due “persone” (vale
a dire di due maschere, tenendo conto dell’etimo
della parola).
A guidare il popolo di Tebe è un re che
agli occhi degli uomini appare saggio e potente;
egli è quindi il vertice di una comunità stanziale,
vale a dire ben definita e stabile. L’altro invece è
un giovane Lidio, che veste come Dioniso, che
ha lunghi capelli intrecciati come Dioniso e, co-
me Dioniso, è allo stesso tempo mite e terribile.
Costui, talvolta sembra essere proprio Dioniso
stesso ma poi ci si rende conto che ne è soltanto
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la maschera, una maschera dietro cui il dio si ce-
la e con la quel si confronta con chi gli si oppo-
ne. Comunque il giovane lidio è al vertice del
Thiasos, di qualcosa di mutevole che inarresta-
bilmente avanza e tutto travolge, come se fosse
un fiume in piena.
Perché la potenza del Thiasos è per
l’appunto mutevolezza, è fluidità trascinante e,
per ciò che gli si oppone, è devastante furore. Al
passaggio del Thiasos tutto cambia volto, la vita
stessa si trasforma perché assieme al thiasos
giunge anche il perenne rinnovarsi del mondo.
Ogni qualvolta il vortice di un cambiamento af-
ferra le cose ciò vuol dire che è passato il Thia-
sos di Dioniso. Infatti la maschera del dio è
l’impermanenza, è il divenire stesso.
Perché in lui tutto “è” e non “è”. Così
come il giovane lidio suo profeta che “è” e non
“è” Dioniso; perché anch’esso, come ogni ma-
schera, è e non è. Questo è il gioco sottile e stra-
niante del dio Evio, questo è il modo in cui si ri-
vela a chi non lo vuole accogliere. E questo è
gioco e al tempo stesso incubo, orrore, estasi. E
allora accadrà che Penteo si troverà davanti alla
più terribile delle maschere di Dioniso: quella
che concede all’uomo di scegliere fra le molte-
plici epifanie del dio. Penteo scelse quella del to-
ro furente: “Così io ti vedo”, dirà a colui che egli
credeva suo prigioniero. E la risposta, il com-
mento del sacerdote-maschera è implacabile e
lapidario: “Questo è il volto del dio che a te è da-
to vedere”.
Nelle nostre religioni antiche gli dei, tutti gli dei,
si presentano agli uomini coperti da una masche-
ra.
Ed è per questo che negli inni e nei poemi c’è
una frase che non manca mai: “….e allora il dio
prese l’aspetto di…e andò a loro,… o andò a
lui…”. E’ un assioma questo che veniva ossessi-
vamente reiterato, soprattutto negli atti cultuali
della religione dionisiaca.
Anche a Roma, durante le Liberalia, feste dedi-
cate a Dioniso e che cadevano il 17 Marzo, dai
tetti e dagli alberi, nei peristilii o negli atrii, nelle
palestre, nelle terme e nelle strade, pendevano gli
“Oscilla”, vale a dire “maschere dondolanti”. Per
rammentare, per celebrare, per evocare e cono-
scere il mistero del dio.
Ed è proprio questo che ci rammenta la
giovane donna dei Musei Capitolini, ritratta
mentre con espressione assorta, fissa il volto bef-
fardo ed inquietante di una maschera dionisiaca.
Osiride-Ptah-Sokar con Iside e Nekbhet (pap. Hanai)
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