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Peter Adamson (ed.), In the Age of Aver-roes: Arabic Philosophy in theSixth/Twelfth Century, The Warburg In-stitute-Nino Aragno («Warburg InstituteColloquia», N. 16), London-Torino 2011,pp. 286, 2 ill., £ 60.00.

Il volume raccoglie tredici contributisulla filosofia araba del dodicesimo seco-lo, sganciando quest’epoca dall’ingom-brante figura di Averroè. Gli studi raccol-ti esaminano non solo filosofi, ma anchemistici, teologici, scienziati del periodocome al-Ghazali, Ibn Tufayl, ‘Abd al-La-tif al-Baghdadi, Abu l-Barakat al Bagh-dadi e al Suhrawardi.

Buona parte della storiografia filosofi-ca del Novecento ha considerato il dodi-cesimo secolo come un momento diprofondo declino della filosofia araba,una crisi dovuta principalmente all’attac-co contro la filosofia condotto da al-Gha-zali nella sua opera L’incoerenza dei filo-sofi. Il lascito della filosofia araba sareb-be così riconducibile solamente ai volu-minosi commentari di Averroè alle operedi Aristotele e null’altro più.

Oggi, anche grazie ai preziosi contri-buti di storici della filosofia italiani comeCristina D’Ancona, Amos Bertolacci, Ce-cilia Martini contenuti in Storia della filo-sofia nell’Islam medievale (Torino, 2005),questa tradizionale interpretazione della fi-

losofia araba è stata corretta: indubitabil-mente la filosofia nel mondo islamico con-tinuò a fiorire ben oltre le critiche di al-Ghazali, prendendo diverse strade e indi-rizzi di ricerca. Inoltre, come argomentacorrettamente Frank Griffel nel saggiopresente nel volume, si fa sempre più dif-fusa fra gli studiosi la convinzione che lostesso al-Ghazali non abbia avuto inten-zione di condannare la filosofia: il suo ob-biettivo sarebbe stato piuttosto quello diintegrare le idee filosofiche – in particola-re quelle di Avicenna – all’interno delcontesto culturale islamico.

Se Averroè non è più il difensore pereccellenza della filosofia e al-Ghazali ilsuo più acerrimo critico, rimane aperta laquestione di come determinare gli svilup-pi della filosofia nel mondo islamico neldodicesimo secolo. Peter Adamson, nel-l’Introduzione, ammette che questa partedella storia della filosofia araba possacoincidere in un certo senso con la storiadell’avicennismo, in particolare delle suecritiche e delle sue appropriazioni. Infat-ti, l’obiettivo esplicito delle ricerche delvolume è indagare il periodo formativosuccessivo alla filosofia di Avicenna peresplorare la nascita del misticismo e della“filosofia dell’illuminazione”, lo sviluppodella tradizione aristotelica e l’ereditàstessa dell’avicennismo soprattutto neisuoi rapporti con la teologia.

SCHEDE

Rivista di storia della filosofia, n. 3, 2012

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Così Dimitri Gutas e Peter Joose in-centrano i propri studi sull’analisi delpensiero di ‘Abd al-Latif al Baghdadi,non solo in campo filosofico, ma anchemedico, alchemico e fisico. Gli autorimostrano come ‘Abd al-Latif al Baghda-di abbracciò una prospettiva filosoficamolto complessa, figlia del suo tempo,che in generale si può definire aristoteli-ca. Tuttavia, l’aristotelismo di ‘Abd al-Latif al Baghdadi non è quello di Aver-roè a favore di un ritorno alla lettura di-retta delle opere di Aristotele, piuttosto èun aristotelismo neoplatonizzante deri-vante soprattutto dall’esegesi di al-Kindie in parte di Avicenna stesso.

Griffel nel suo intervento, invece,analizza le varie appropriazione della fi-losofia avicenniana nel dodicesimo seco-lo considerando la più fedele interpreta-zione di al-Lawakari, l’interpretazioneteologizzante di al-Ghazali, e lo sviluppodi una filosofia alternativa come quella diAbu l-Barakat al-Baghdadi che segnereb-be per l’autore una “svolta dialettica”nella filosofia araba. La filosofia naturaledi Abu l-Barakat al-Baghdadi è anche alcentro dell’articolo di Sylvie Nony.

L’articolo di Ayman Shihaded trattadella ricezione e del lavoro editoriale del-l’opera Le dottrine dei filosofi di al-Gha-zali, portando prove contrarie alla tesi diGriffel di come essa sarebbe stata un la-voro giovanile preparatorio alla più fa-mosa opera su L’incoerenza dei filosofi,inizialmente concepita senza la prefazio-ne e la conclusione che oggi noi cono-sciamo.

Heidrun Eichner nel suo contributoesamina l’appropriazione critica dell’epi-stemologia avicenniana in Fakhr al-Dinal-Razi e in al Suhrawardi. Entrambi que-sti autori adottano una prospettiva plato-nica che sembra opposta a quella avicen-nianna. Al-Razi nel suo al-Mulakhkhas fil-Hikma rifiuta il concetto avicenniannodi “esistenza mentale”, sebbene sviluppiun’ontologia del tutto simile a quella del-

l’autore di Bukhara. Al-Suhrawardi nelsuo Kitab al-Talwihat presenta la suateoria della conoscenza come completa-mente aristotelica e superiore a quellaavicenniana, anche se da quest’ultimaprenderebbe la teoria dei sensi interni.Al-Suhrawardi è oggetto di studi ancheda parte di Jari Kaukua che mostra il suoprofondo debito nei confronti di Avicen-na sui temi dell’autoconsapevolezza edell’individualità.

Deborah L. Black e Matteo Di Gio-vanni trattano invece di due pilastri fon-damentali per l’epistemologia e la metafi-sica averroistica, rispettivamente dell’in-tenzionalità della sensazione e della for-ma sostanziale.

Taneli Kukkonen conduce una serrataanalisi sulla psicologia di Abu Bakr IbnTufayl, la quale sarebbe una rielaborazio-ne della psicologia avicenniana con ele-menti aristotelici, neoplatonici e galenici.Kukkonen mostra che laddove Ibn Tufaylsi discosta da Avicenna, lo fa per ripren-dere temi escatologici provenienti da al-Farabi e al-Ghazali.

Resianne Fontaine e Steven Harveytrattano dell’appropriazione della scienzaavicenniana nella filosofia ebraica del do-dicesimo secolo, in particolare analizzan-do l’opera Ha-Emunah ha-Ramah diAbaraham ibn Daud, il primo libro del-l’aristotelismo ebraico, il quale risulta es-sere uno strumento essenziale per unacomprensione più approfondita dalla po-sizione aristotelica successivamente svi-luppata da Mosè Maimonide.

Gli ultimi due contributi del volume,quello di Anna Akasoy e di GregorSchwarb, mirano alla determinazione eclassificazione di due correnti filosofichefondamentali del dodicesimo secolo il“sufismo filosofico” e il mutazilismo.

I contributi sono tutti originali e mi-rano alla ridefinizione della filosofia nelmondo islamico in un periodo cruciale espesso trascurato dalla storiografia filoso-fica. Non c’è da stupirsi se questo volu-

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me diventerà ben presto un punto di rife-rimento per ricerche più dettagliate e ap-profondite su questi pensatori che sonotutt’altro che “trucioli” del pensiero.

Marco Sgarbi(marco.sgarbi@univr.it)

Klaus Düsing, Das Seiende und das göt-tliche Denken. Hegels Auseinanderset-zung mit der antiken Ersten Philosophie,Schöningh, Paderborn-München-Wien-Zürich 2009, pp. 36, s.i.p.

È qui riprodotta la comunicazione te-nuta da Klaus Düsing presso la «Nor-drhein-Westephälische Akademie derWissenschaften und der Künste» (sedutadel 15 luglio 2009, Düsseldorf), nellaquale ritorna su un tema che gli è statoparticolarmente caro nel corso delle sueriflessioni filosofiche, sul rapporto, cioè,tra la filosofia hegeliana e la metafisicaantica; indagine cui aveva dedicato il belsaggio Hegel und die Geschichte derPhilosophie. Ontologie und Dialektik inAntike und Neuzeit (1983).

Questo nuovo, prezioso libro è com-posto da tre capitoli: Erste Philosophieals universalistische Ontologie. Klassi-sche Antike und Hegel (pp. 9-18); ErstePhilosophie als philosophische Theolo-gie. Aristoteles und Hegel (pp. 19-24);Das Verhältnis von universalistischerOntologie und philosophischer Theolo-gie. Hegels Logik (pp. 25-31). Düsing viaffronta alcuni nodi dell’interpretazionehegeliana di Platone e di Aristotele, conil fine di giungere a una definizione dellametafisica hegeliana, così riassunta:«Essa è, nello stesso tempo […] ontolo-gia dialettica, ontologia idealistica costi-tutiva e, nella determinazione della rela-zione dell’essere come tale e del pensierodi Dio, ontologia paradigmatica» (p. 31).

In particolare, nel primo capitolo Dü-sing nota come Hegel riesca a coniugare

l’ontologia dialettica del Sofista con laposizione del concetto di Dio, intesocome soggettività infinita; questa inter-pretazione, che permette anche di recupe-rare il neoplatonismo di Plotino e, soprat-tutto, di Proclo, deve però fare i conti conl’ontologia aristotelica della sostanza.Hegel vuol dunque giungere a un concet-to di metafisica che spieghi l’unità fonda-mentale della realtà e la sua molteplicità.Anche se non è esplicitamente detto daDüsing, sullo sfondo si erge però il moni-to e l’esigenza kantiani della distinzionedei diversi ambiti d’esperienza dell’uomoe, nello stesso tempo, di una soggettivitàdotata di oggettività. Queste considera-zioni portano Hegel a mutare profonda-mente la definizione di essere platonico:esso perde infatti la sua assolutezza perdivenire autorelazione soggettiva.

Hegel risponde a due domande fon-damentali, argomento del secondo capi-tolo, le cui risposte debbono chiarirsi l’unl’altra: quale relazione possono avere ecome sono possibili un’ontologia univer-sale e una forma di teologia razionale?Come è possibile concepire Dio secondocategorie ontologiche pure? La deduzio-ne logica del pensiero di Dio, aristotelicopensiero di pensiero, avviene in mododuplice, appunto, nella purezza logica enell’esperienza storica e religiosa del-l’uomo: la teologia razionale non puòfare a meno di una filosofia della religio-ne, che dia contenuto al pensiero che Dioha di sé: con le parole di Düsing: «[La re-ligione] è infatti un progressivo conosce-re e riconoscere Dio […]. Tale conosceree riconoscere è possibile per noi […] per-ché, secondo la dottrina cristiana e specu-lativo-razionale lo spirito di Dio è in noi»(p. 32). Düsing riconduce così la questio-ne religiosa, secondo il vero intento he-geliano, a una definzione logico-metafisi-ca, che non può tuttavia non tener contodell’esperienza dell’uomo, logicamente estoricamente definita. In questa conclu-sione risuonano forse le parole di Feuer-

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bach, quando definiva Hegel il “Proclotedesco”, in grado di conciliare le attesedel platonismo e dell’aristotelismo: unProclo, però, che ha letto Kant ed è un ri-spettoso realista.

Enrico Colombo(enricoachillecolombo@libero.it)

Steven Nadler, A Book Forged in Hell.Spinoza’s Scandalous Treatise and theBirth of the Secular Age, Princeton Uni-versity Press, Princeton and Oxford,2011, $29,95, 279 pp.

Dopo Spinoza e l’Olanda del Seicen-to e l’Eresia di Spinoza (trad. it. Einaudi,Torino, 2002 e 2004), Steven Nadler tor-na a offrire il suo contributo alla divulga-zione e allo studio della filosofia di unodegli autori più discussi e scandalosi delSeicento. Tenendo conto dei due titoliprecedenti, il discorso di Nadler si con-centra qui, restringendo progressivamen-te il suo fuoco dalla vita di Spinoza allavicenda della sua scomunica, sul Trattatoteologico-politico – un libro forgiato al-l’inferno.

L’operazione di Nadler può esseredefinita divulgativa, nel senso che il suolavoro non ha tanto l’ambizione di offrireelementi innovativi nell’interpretazionespinoziana, quanto di renderne accessibilialcuni nuclei teorici a un più largo pub-blico. Ma proprio in questo aspetto risie-dono anche i punti di più notevole inte-resse del saggio.

Anzitutto, va notato – come Nadlerstesso rimarca nella prefazione (p. XIII-XIV) – che il pubblico anglofono, e so-prattutto quello statunitense, è stato alungo abituato a considerare a stento lafilosofia di Spinoza al di là delle primedue parti dell’Etica. In questo senso, sitratta di riportare al centro dell’attenzionequelle componenti politiche, religiose edermeneutiche che a non minor diritto del-le più celebrate dottrine metafisiche co-stituiscono il centro delle riflessioni del

filosofo olandese. L’importanza di un’o-pera divulgativa rivolta alla politica diSpinoza è allora di grande rilievo, giac-ché permette la ricostruzione di un’im-magine meno tronca e parziale di unadelle figure che proprio per questi aspettiera stata conosciuta, discussa e condan-nata già dai suoi contemporanei.

D’altro canto, quest’opera di divulga-zione avviene secondo criteri e compe-tenze storiografiche di ampio respiro, chefanno tesoro dei lavori accademici degliultimi anni volti a mettere in luce il ruoloe i profili delle molteplici figure che han-no costituito la cerchia di Spinoza. In talsenso, Nadler non si limita a ripercorrerein modo fedele alla struttura stessa deicapitoli del Trattato teologico-politico idiversi temi affrontati da Spinoza, masfrutta ciascuno di essi per metterne inrapporto le tesi cardine con quelle chepiù verosimilmente ne costituivano i pre-supposti. È così che spazio piuttosto am-pio viene dedicato alla figura di AdriaanKoerbagh, amico del filosofo e vittimadella censura proprio negli anni imme-diatamente precedenti la pubblicazionedel TTP. Ma grande importanza assumo-no anche Meyer, La Peyrère, i fratelli Dela Court e certamente Hobbes, tutte figu-re privilegiate per discutere la formazio-ne del pensiero teologico, ermeneutico epolitico di Spinoza. Posto d’eccezione ri-veste infine Maimonide, presenza costan-te nel TTP, che dalla ricostruzione diNadler emerge anche come il grande rab-bino e filosofo con cui il filosofo ebreoscomunicato ingaggia la sua gigantoma-chia.

Ciò permette di mettere in evidenzaun ulteriore pregio del lavoro. Come in-dica già il sottotitolo del libro, una dellequestioni cardini per cui interessarsi alTTP è quella del secolarismo. A tal pro-posito, Nadler dedica pagine piuttosto in-teressanti (cap. 7, pp. 143-175) a discute-re il problema dell’ebraismo di Spinoza,chiedendosi se quest’ultimo non avrebbeinfine potuto accettare una secolarizza-

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zione dell’ebraismo dove l’assoluto ri-spetto delle leggi prescritte dalla tradizio-ne fosse accantonato in nome di una piùsfumata appartenenza culturale e storica.La risposta di Nadler è tuttavia negativa:«per Spinoza, le leggi cerimoniali costi-tuiscono l’essenza dell’ebraismo. […].Se si toglie la legge di Mosè, si toglie l’e-braismo stesso. Per dirla diversamente:per Spinoza, essere ebreo è essere unebreo praticante. […]. Senza il contestolegale e liturgico, senza lo sfondo ogget-tivo e la continuità garantita dalla Torah,un ebraismo secolarizzato o culturale èun guscio vuoto, non è ebraismo» (p.168). Quello che può essere invece affer-mato è che Spinoza, al pari di molti deisuoi più stretti amici, favorisse una reli-giosità razionale e universale, svincolatada un’appartenenza di setta – ma questa,appunto, è ben altra cosa.

Sul piano politico, Nadler ammetteche è difficile stabilire se, secondo le at-tuali categorie, Spinoza possa essere con-siderato o meno un liberale – soprattuttotenendo conto delle sue affermazioni cir-ca i poteri decisionali delle autorità civiliin materia religiosa –, e che probabilmen-te apparterrebbe piuttosto allo schiera-mento repubblicano. Tuttavia, l’opzionerisulta poco adeguata a comprendere lareale portata del TTP che deve invece es-sere letto nel contesto del tempo e deiproblemi che tormentavano l’Olanda delSeicento. È in quest’ottica che si saldanoin un progetto unitario tanto le istanzedemocratiche e antimonarchiche, quantole rivendicazioni in campo di tolleranzareligiosa e di libertà di pensiero.

Proprio da questo punto di vista, allo-ra, si può concludere che «nella misura incui difendiamo l’ideale di una società se-colarizzata, libera dall’influenza ecclesia-stica e governata dalla tolleranza, dalla li-bertà, nonché una concezione di virtù ci-vile; e nella misura in cui pensiamo chela vera pietà religiosa consista nel trattaregli altri esseri umani con dignità e rispet-to, guardando alla Bibbia semplicemente

come una profonda opera letteraria uma-na contente un messaggio morale univer-sale, noi siamo gli eredi dello scandalosotrattato di Spinoza» (p. 240).

Andrea Sangiacomo (andrea.sangiacomo@libero.it)

The Correspondence of Samuel Clarkeand Anthony Collins, 1707-1708, editedby William L. Uzgalis, Broadview Edi-tions, Peterborough, Ontario 2011, pp.365, $ 24,95.

Nel 1707, anno di inizio della contro-versia, Samuel Clarke era già celebre inInghilterra per i suoi Sermoni scritti inoccasione delle Boyle Lectures, pubbli-che letture che si tenevano annualmentein onore del chimico Robert Boyle e dalui stesso finanziate con lascito testamen-tario, con lo scopo di difendere la veritàdella fede cristiana dall’attacco di ereticie libertini. Clarke, pur molto giovane, erastato per ben due anni autore dei Sermo-ni. Vicinissimo alle dottrine fisico-teolo-giche di Isaac Newton, si era battuto peruna visione razionale del Cristianesimo,fondato su pochi asserti perfettamentecoerenti con la ragione. I suoi avversarierano anzitutto Thomas Hobbes, BaruchSpinoza e i liberi pensatori che semprepiù popolavano la scena culturale ingle-se. Anthony Collins, appena più giovanedell’avversario, era assai meno noto allecronache letterarie; la sua formazioneuniversitaria si era interrotta prima digiungere a compimento (spesso gli verràimputata questa “lack of scholarship”),tuttavia i suoi studi erano proseguiti pri-vatamente con intensità e passione. Dive-nuto, negli ultimi anni della vita del gran-de filosofo, il più stretto amico di JohnLocke, aveva intrattenuto con lui unaproficua e fitta corrispondenza, nella qua-le non aveva mancato di discutere di temifilosofici, spesso tratti dal Saggio sull’In-telletto Umano. Locke gli tributava gran-di onori e gli riconosceva indubbie doti

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da filosofo, tanto da ritenerlo il suo mi-glior allievo o, almeno, colui che «me-glio aveva inteso il Saggio sull’intellettoumano». Dopo la morte di Locke, di Col-lins scompaiono le tracce per circa treanni, fino alla pubblicazione nel 1707dell’Essay concerning the Use of theReason, breve scritto che riprende le te-matiche del Cristianesimo non Misterio-so di Toland, sviluppando in specifico lanecessità della piena intelligibilità e ra-gionevolezza della testimonianza negliscritti Biblici.

William Uzgalis, professore di filoso-fia nell’Oregon State University, in TheCorrespondence of Samuel Clarke andAnthony Collins, 1707-1708 presenta laprima edizione moderna della controver-sia fra Collins e Clarke basandosi sullaedizione dei Works di Clarke del 1738,ristampato da Garland nel 1978; il testosettecentesco è modernizzato nella grafiaed è integrato da note esplicative, e altre-sì traduce in inglese le citazioni latine efrancesi presenti nel testo originale. L’i-dea di riunire nuovamente la controversiain un unico volume è sicuramente condi-visibile, dato che i testi singoli sono or-mai di difficile reperibilità e solo in for-mato anastatico; inoltre, come mostra ilcuratore nell’«Introduzione», il dibattitofra Clarke e Collins si rivela inaspettata-mente attuale nei suoi temi centrali.

Il casus belli che diede origine allacorrispondenza fra il teologo e il liberopensatore fu la pubblicazione, nel 1706,di An Epistolary Discourse proving fromthe Scripture and the first Fathers thatthe Soul is a principle naturally mortal,but immortalized by the pleasure of Goddel biblista Henry Dodwell, il quale so-steneva la materialità e la naturale morta-lità dell’anima, che sarebbe resa immor-tale unicamente per intervento divino.Questo testo suscitò la risposta di Clarkeche, vedendo in Dodwell un pericolosoavvicinamento alla eresia sociniana, scri-ve e rende pubblica, nello stesso anno,una Letter to Dodwell (che Uzgalis non

include nella raccolta), dove confuta letesi del biblista. Collins entra nella con-troversia l’anno dopo, con A Letter to theLearned Mr. Henry Dodwell dove, caval-cando le tesi di Dodwell e piegandole alproprio uso, attacca le controdeduzioni diClarke. Per Collins, che qui va oltreLocke, il pensiero può sorgere sponta-neamente dalla materia opportunamenteorganizzata. L’anima inoltre è mortale,poiché il ritenerla immortale condurrebbea palesi contraddizioni: tutti gli esserisenzienti, animali inclusi, dovrebbero es-sere immortali, dato che tutti possiedonouna qualche forma di pensiero, il che è incontrasto con la Scrittura. Clarke rispon-derà con una Defence, e così farà ancheCollins. Alla fine, escludendo la primalettera di Clarke a Dodwell, si conterannoquattro interventi per parte. L’originalitàdegli interventi si alterna ad andamentiretorici, nei quali i due contendenti cerca-no ogni espediente per screditare la teoriadell’avversario.

L’«Introduzione» di Uzgalis privile-gia un approccio comparato e problema-tico alla controversia, tralasciandone gliaspetti filologici e la precisa ricostruzionestorica degli interventi. Vengono intro-dotte alcune riflessioni sulla tematicaoperate da Henry More, in particolaresulla estensione dell’anima, che è ricono-sciuta da Clarke; così come viene trattatoil caso di Ralph Cudworth, in forte con-trasto coi materialisti, e il primo ad utiliz-zare in epoca moderna il termine “co-scienza”. Per ritrovare le radici della teo-ria collinsiana della materia pensante,Uzgalis ricorre a Locke, il quale avevateorizzato la possibilità che il pensierofosse «superadded» da Dio a una materiaorganizzata, che gli potesse fare da sup-porto. Viene altresì discussa una notadella voce Dicearco del Dizionario Stori-co Critico di Pierre Bayle, nella qualesono riportate alcune teorie a cui Collinsmolto si avvicina. Riconoscendo, a ragio-ne, una forte ascendenza di Bayle su Col-lins, Uzgalis ritiene che quest’ultimo te-

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nesse in gran considerazione la voce Di-cearco.

Nel volume, Uzgalis inserisce in cal-ce alla controversia utili passi di autoriche tratta nell’«Introduzione», in partico-lare di More, Cudworth, Bayle e Locke.Non fermandosi alle radici filosofichedalle quali scaturisce la corrispondenzafra Clarke e Collins, Uzgalis propone an-che il prosieguo di queste tematiche inHume, John Stuart Mill e Darwin. Humerovescia il principio di causalità, e conesso la difficoltà inerente al fatto che unasostanza immateriale, il pensiero, sia ef-fetto di un’altra sostanza immateriale, di-struggendo di fatto una delle maggioricontrodeduzioni di Clarke. Stuart Mill eDarwin attualizzano e codificano, inmodi diversi, la possibilità che esistanoproprietà emergenti.

L’originalità e la forza della interpre-tazione di Uzgalis, da lui parzialmentegià sviluppate in articoli pubblicati neglianni precedenti, sta proprio nella identifi-cazione in Collins del pensiero comeproprietà emergente: esso si eleva dallamateria quando questa si organizza o vie-ne organizzata, e così elementi di materiasemplici e privi, nella loro individualità,di pensiero, acquisiscono la capacità dipensare grazie alla struttura della loro or-ganizzazione. Come nota Uzgalis, la teo-ria di Collins è assai innovativa per l’e-poca; dimenticata per quasi due secoli,verrà recuperata solo alla fine dell’800 e,infine, pienamente sviluppata dalla filo-sofia della mente nel ‘900.

Un altro argomento di particolare in-teresse sul quale Uzgalis si soffermanell’«Introduzione» riguarda la tematicadella identità personale. Anche in questocaso la teoria sviluppata da Collins è as-sai innovativa, mentre la rocciosa difesadi Clarke lascia lo spazio a facili confuta-zioni. Per Collins, come del resto, perLocke, l’identità personale è in stretta re-lazione con la memoria. Un ruolo parti-colare lo svolge proprio la coscienza chegarantisce l’unità dell’individuo nei suoi

diversi stadi di crescita o, in altri termini,è il suo principio di individuazione. Lacoscienza-pensiero è per Collins qualco-sa di assai diverso da una sostanza imma-teriale di per sé esistente, configurandosiinvece come una proprietà che sorge dal-l’organizzazione della materia; materia,ritiene Collins, che è in perenne muta-mento, sicché il sostrato da cui emerge lacoscienza cambia nel tempo, fino a muta-re del tutto. Questo cambiamento si per-cepisce solo limitatamente all’internodella coscienza, dato che, secondo Col-lins, nella nostra mente avviene un pro-cesso continuo di rinnovamento dei ricor-di: quelli più importanti vengono riporta-ti a galla, rinvigoriti (dunque “trasposti”su materia fresca), mentre quelli che cipossiamo permettere di dimenticare, nonpiù ricordati cadono nell’oblio nel mo-mento della sostituzione della materiache li sorreggeva. L’identità personale èdunque data da questo bagaglio di ricordiche ci portiamo dietro nel corso nellavita, e che costituisce la coscienza di sé.Fra l’altro, riconoscere una base materia-le al pensiero consente di rendere contofacilmente delle amnesie e delle patolo-gie della memoria che affliggono moltepersone anziane. Come invecchia il cor-po, così invecchia anche la materia dallaquale emerge il pensiero.

Il lavoro di William Uzgalis è positi-vo, sia per l’edizione degli otto testi dellacontroversia, sia per l’«Introduzione»,esaustiva e ricca di riferimenti ad altri au-tori. La sua valutazione della controver-sia è che Clarke l’abbia vinta nell’imme-diato, e che Collins ne sia il “vincitorepostumo”, vista la ripresa nel tempo dialcune sue teorie. Uzgalis ha tuttavia ildemerito di non prendere in considera-zione i temi introdotti da Collins nell’ul-tima risposta a Clarke: che la materiapossa essere l’unica sostanza esistente,dal che conseguirebbe l’ateismo. Unabreve discussione di questa chiusura apo-retica della Answer to Mr. Clark’s ThirdDefence avrebbe sicuramente toccato ta-

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sti importanti nella discussione fra i due,dal momento che lo stesso Clarke si di-mostra ben conscio delle conseguenzeateistiche del pensiero di Collins.

Jacopo Agnesina(jacopo.agnesina@gmail.com)

Osvaldo Ottaviani, Esperienza e linguag-gio. Ermeneutica e ontologia in Hans-Georg Gadamer, Carocci, Roma 2010,pp. 142, € 14,80.

Osvaldo Ottaviani prende in esamedue snodi cruciali del pensiero di Hans-Georg Gadamer: il linguaggio, che perGadamer è il mezzo con il quale l’esseresi fa conoscere (“l’essere, che può esserecompreso, è il linguaggio”), e l’esperien-za. Dopo un’«Introduzione» (pp. 15-29),il libro si articola in tre capitoli («Il lin-guaggio dell’ermeneutica filosofica», pp.31-78, «L’esperienza ermeneutica traidentità e differenza», pp. 79-109, «Esitidell’ermeneutica», pp. 111-129) e in unaConclusione (pp. 131-136). Il libro sichiude poi con un’ampia bibliografia.

L’«Introduzione» guida il lettore nel-l’intricato dibattito intorno allo statutodella filosofia ermeneutica, della qualeHeidegger e Gadamer furono forse i piùautorevoli rappresentanti. Ottaviani di-stingue tra ermeneutica “classica”, che fuoggetto della riflessione di Schleierma-cher e s’interroga sulla tecnica per la cor-retta interpretazione di un documento an-tico, e ermeneutica “filosofica”, che poneinvece l’interpretare al centro della rifles-sione e considera ogni atto di compren-sione un atto di interpretazione; in questaseconda prospettiva, essa non si riducealla tecnica impiegata per la corretta ri-costruzione di un testo; tecnica che, inquanto utile per contestualizzare storica-mente un testo, è un mezzo ausiliario perla corretta comprensione di ciò che l’au-tore voleva comunicare. Per Gadamer,l’interpretazione non aspira al compitoimpossibile di far rivivere il passato, ma

opera una mediazione tra due posizionidistinte dal tempo che le separa (il pre-sente dell’interprete e il passato dellacomposizione del testo), ma non toglie laloro differenza. Così, sulla scorta di Gün-ter Figal, Ottaviani chiarisce che il pen-siero ermeneutico esclude il comprenderecome atto immediato, e spiega che in ciòrisiede la differenza principale tra la fe-nomenologia gadameriana e quella diHegel.

È bene tuttavia sottolineare che laconsapevolezza dell’esistenza di unoscarto alla base di ogni attività ermeneu-tica non deve condurre ad esiti scettici:proprio l’esistenza di una differenza chedeve essere mediata sollecita l’opera del-l’ermeneuta, che ha di mira la conoscen-za della verità (p. 23). Ciò, spiega Otta-viani, rende ingiustificate le interpreta-zioni relavistiche del pensiero di Gada-mer, come quella di Gianni Vattimo (cap.III): presentare il pensiero ermeneuticocome sostitutivo “debole” delle metafisi-che è storicamente inattendibile, poichél’ermeneutica rifugge sì dalla trattazione“oggettivistica” e parla di esperienze delvero che sfuggono alla replicabilità speri-mentale delle scienze, ma ciò non le to-glie di portare a una conoscenza del vero,che, pur conosciuto da un essere storico,trascende il divenire e la storia e, persino,le sue stesse espressioni storiche, dellequali il vero metastorico è il “senso”.

Nel I capitolo Ottaviani mostra il ruo-lo cruciale del linguaggio nei processi dicomprensione e di interpretazione del-l’atto ermeneutico. Ma cosa s’intende perlinguaggio? Secondo Vattimo (vd. IIIcap.), il linguaggio è la lingua con la qua-le ci esprimiamo quotidianamente; inve-ce secondo Gadamer, spiega Ottaviani, illinguaggio è ciò che fonda la nostra pos-sibilità di esprimerci con una lingua sto-rica: è la linguisticità originaria, il «lin-guaggio della ragione» (p. 42). Anche nellinguaggio così inteso rimane pur sempreuno scarto tra linguaggio ed esperienza,tra parole e cose, come mostra Gadamer

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richiamando il Cratilo: un nome risultacorretto se mostra di poter “appartenere”alla cosa. Ma è possibile formulare un“giudizio” in cui si stabilisca che una cer-ta parola esprime bene una certa cosa? Sisarebbe tentati di dire che la legittimità diun tale “giudizio” si abbia solo o se essoesprime una comprensione trasparente ri-spetto all’esperienza (come si proponevala metafisica “oggettivista”) o se l’espe-rienza si risolve immanentisticamentenella comprensione. Gadamer evita en-trambi questi esiti e s’interroga su unamediazione tra parola e cosa; mediazionedi cui il pensiero greco non sarebbe statocapace, e per la quale bisognerebbe farricorso al pensiero cristiano (pp. 52- 61),in particolare alla dottrina agostiniana delverbum mentis: Agostino distingue traparola esteriore, vocale, e parola interiore(verbum mentis), che permane sempreuguale a se stessa, e che nella comunica-zione si riveste della voce esteriore, sen-za cessare di essere quello che era. Allostesso modo l’esperienza si comunica nellinguaggio: l’essere che ci è dato di cono-scere è espresso nel linguaggio, ma rima-se trascendente rispetto alle parole nellequali viene comunicato.

Il II capitolo affronta i corollari chederivano dalla differenza tra essere e lin-guaggio. Dal concetto di “appartenenza”(Zusammengehörigkeit), che esprimere lacoappartenenza di interpretante e inter-pretato, è quasi naturale passare all’ap-partenenza alla storia che ci ha precedu-to, alla tradizione (Überlieferung). Sce-gliere la tradizione è implicito nell’attoermeneutico, che si confronta con un te-sto dal quale ci separa una distanza tem-porale, ma è anche una scelta, un liberoatto della ragione, così come libera è lacreatività innovativa. Il confronto con latradizione è il confronto con una autorità,che riconosciamo come tale perché sap-piamo che ne sa più di noi; questo rap-porto costituisce per Gadamer la cifra delfilosofare (p. 81) ed avviene nella formadel domandare e del dialogo. Ottaviani

spiega che ciò non deve indurre a credereche gli esiti della riflessione gadamerianasiano relativistici: non siamo cioè in pre-senza di una filosofia del dialogo comequella di Guido Calogero, dato che «dia-logare [...] non significa rinunciare adogni pretesa di verità» (p. 38). In sostan-za, la filosofia di Gadamer, secondo Otta-viani, è una filosofia della finitezza, chenon rinuncia alla ambizione di ricercareuna verità, che si ritiene (almeno in par-te) conoscibile.

Ottaviani pone Gadamer a confrontocon Hegel, che affermava la possibilità diconoscere il vero, ma rinunciava alla au-tonomia della finitezza, e con Kant, chericonosceva il limite e la finitezza, manon concedeva che fosse possibile alcunaconoscenza ulteriore rispetto a quella del-le scienze empiriche; questo confrontoche ci mostra un Gadamer in grado diconciliare le opposte istanze, presenti inquesti due grandi autori: «come in Kantla coscienza del limite (limitazione dellaconoscenza ai soli fenomeni) non implicail superamento del limite stesso (noi nonabbiamo conoscenza delle cose in sé),così in Gadamer la coscienza della deter-minazione storica non toglie la determi-nazione stessa, non si risolve mai in com-pleta autotrasparenza» (p. 89); quanto aHegel, Gadamer contesta il «passaggiohegeliano dalla coscienza del limite alsuo superamento. Indubbiamente, il limi-te è sempre in qualche modo oltrepassato(si pensi al linguaggio che è sempre ‘al dilà dei suoi limiti’), ma questo vale perquello che potremmo chiamare ‘limiteempirico’, non per la limitazione in sé[...], ossia per la finitezza, non solo delnostro conoscere, ma anche (e soprattut-to) del nostro essere” (p. 89).

Dopo avere sviluppato queste rifles-sioni, Ottaviani discute gli esiti ai quali lafilosofia gadameriana ha condotto. Unprimo esito è il nichilismo di Vattimo (ein parte di Donatella Di Cesare), che Ot-taviani reputa un fraintendimento delpensiero di Gadamer. Un secondo esito è

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la riscoperta della metafisica classica, inparticolare platonica: Gadamer rifiuta lapresa di distanza heideggeriana dall’inte-ra storia del pensiero occidentale, e con-sidera l’ermenuetica come una ontologia.Un terzo esito è un ripensamento teologi-co, e qui Ottaviani esamina l’interpreta-zione di Bruno Forte, che reinterpreta illinguaggio e la parola dal punto di vistadella tradizione e della dottrina cristiane.

Luca Gili(luca.gili.1987@gmail.com)

Emilio Renzi, Enzo Paci e Paul Ricoeurin un dialogo e dodici saggi, Atí editore,Brescia 2010, pp. 275, € 18,00.

Lo studioso raccoglie in questo volu-me i suoi scritti su Enzo Paci e Paul Ri-coeur, filosofi formatisi «a l’école de laphénoménologie» incontrando il pensierodi Husserl negli anni Trenta, con AntonioBanfi e Gabriel Marcel rispettivi media-tori. Nel 1948 Ricoeur completa la tradu-zione francese di Ideen I, condotta, dopol’invasione nazista della Francia nellaprimavera del 1940, perfino lungo i quasicinque anni passati nei Lager per ufficialidegli eserciti nemici. L’audacia di tale la-voro, svolto sui margini di pagina di unacopia procuratagli dalla Croce Rossa, èconfermata da Paci nel Diario fenomeno-logico – i due condivisero gli ultimi mesidi detenzione nell’Oflag di Wietzendorf.Paci, catturato in Grecia (’43), dove sitrovava con l’esercito italiano, vi era arri-vato dopo un anno abbondante passatotra gli Oflag di Beniaminowo e Sandbo-stel. Portava con sé una copia del suoPensiero, esistenza e valore, poi donataoltre i reticolati al collega francese. L’o-pera del 1941 inaugura un nuovo decen-nio e insieme l’esperienza esistenzialisti-ca, ma non senza aver chiuso i (primi)conti con la fenomenologia. Così i saggigiovanili su Husserl ivi ristampati, facen-ti capo al primo volume di Ideen, “ag-ganciano” Paci a Ricoeur. Si può dire che

nel momento della sua scoperta della fe-nomenologia, Paci la fissi in una momen-tanea sospensione, non riconoscendovisviluppi soddisfacenti del tema dell’inter-soggettività e dunque una ricaduta sull’Iodi quello che ebbe a definire «il disperatorazionalismo husserliano». Ciò accadevanonostante potesse già leggere le Medita-zioni cartesiane e in quelle la «Quinta»,comprendente la nota analisi dell’Einfüh-lung. In modo analogo, il Ricoeur quiconsiderato addebita a Husserl una sta-gnazione nel solipsismo trascendentale,nella riduzione alla sfera di appartenenzapropria operata dalla «nuova epoché»con cui la «Quinta meditazione» si apre.In estrema sintesi, l’accusa è di una rica-duta nell’idealismo, seppure metodologi-co (ciò sulla scorta delle letture di Lévi-nas, Sartre e Tran-Duc-Thao).

Si ha un netto allontanamento tra ledue posizioni con la riscoperta da parte diPaci della fenomenologia, a metà anniCinquanta. La «Quinta meditazione»,studiata ora alla luce degli inediti husser-liani (sul tempo e la storia), risolve ilvecchio nodo della intersoggettività, macon quello anche il nodo che legava inun’affinità la propria lettura a quellaidealistica di Ricoeur. La chiave di voltacoincide con una più profonda compren-sione dell’Einfühlung, l’entropatia, l’e-sperienza dell’altro, concetto che nonstrapperà invece Ricoeur dalla sua ideadella fenomenologia husserliana comeidealismo metodologico.

Oltre a queste prime appena esposte,altre due ragioni sono alla base del librodi Renzi, e riguardano, di nuovo duplice-mente, la storia intellettuale e la biografiadell’Autore. Allievo di Paci nella Milanodegli anni Cinquanta, Renzi si laurea nelluglio del 1961 con una tesi dal titoloPaul Ricoeur: dalla fenomenologia al-l’antropologia. In Italia è uno dei primisforzi di attenzione verso il filosofo fran-cese, come testimonia la magra biblio-grafia critica in calce alla dissertazione.Quattro le voci, di cui una (del 1958) rin-

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via a Carlo Sini, allievo di Emanuele Ba-rié e, nella Statale anni Cinquanta, vicinoa Paci. Paci scrisse su Ricoeur un “ricor-do” e due soli saggi (nel ’66 e ’67, intor-no a psicoanalisi e fenomenologia), e senon ne trattò esplicitamente nei suoi corsidi Filosofia teoretica dell’epoca (forse lofece tra le righe), sicuramente ne parlònel dialogo con gli studenti fuori dall’au-la. Al centro del pensiero stava la feno-menologia e la sua riscoperta, così chedella produzione ricoeuriana il giovaneRenzi fu spinto a studiare i saggi su Hus-serl (una costante del filosofo francese,dal 1949 almeno in poi). Si osservi la di-rezione degli insegnamenti paciani a ca-vallo tra anni Cinquanta e Sessanta, chia-rissima. A.A. 1959-60 – Il problema deltempo nella fenomenologia, ch’è il pro-blema dell’uomo. Prima durante e dopo,la lettura continuativa delle Meditazionicartesiane (sopra tutte, di nuovo, la«Quinta»). Nell’A.A. 1961-62 il corso suFenomenologia e antropologia, prepara-to dunque durante l’attività di relatoredell’omonima tesi su Ricoeur, della qualesembra suonare come conferma e promo-zione. A quella tesi fanno capo due deidodici saggi del libro di Renzi: Paul Ri-coeur, una fenomenologia della finitezzae del male (ristampa di un articolo del1960 su «Il pensiero»; precedente la tesi)e Per una antropologia fenomenologica(che segna nel 1962 l’inizio della colla-borazione con «aut aut»). Si smarcanodai saggi husserliani l’articolato Freud eRicoeur, scritto a margine della coevatraduzione per il Saggiatore – fatta su in-vito di Paci – del saggio su Freud Del-l’interpretazione (1967); ultimo Il lin-guaggio in festa, sui temi della metaforae della narratività, che trascrive una con-ferenza tenuta nel 2009 alla «FondazioneCorrente» di Milano.

Diversa storia hanno i sette saggi suPaci, che coprono gli ultimi ventisei anni(il più antico è del 1986) e in maggioran-za furono occasionati da volumi comme-morativi. Da ciò il carattere spesso più

documentaristico che critico del materia-le. Anticipa i saggi un lungo dialogo im-maginario tra i due filosofi, decisamentela parte più avvincente del libro; sorta dipièce filosofica, originariamente pubbli-cato, su invito di Gabriele Scaramuzza,come un «Quaderno di Materiali di Este-tica» a sé stante (Cuem, Milano 2006).Renzi lo struttura in cinque scene, collo-cate in spazi e tempi che furono realmen-te le coordinate degli incontri tra Paci eRicoeur, desunte, come anche gli argo-menti di discussione e molte battute, dal-le memorie e dalle opere degli stessi “at-tori”. La scena si apre in una stazione fer-roviaria, la Gare de Lyon, nel 1960; se-gue con un’analessi la rievocazione del-l’incontro nel campo di prigionia, duran-te i primi mesi del 1945; l’intermezzo èambientato in un convegno a Roma nel’60, mentre la quarta scena rappresentauno scambio nella sala professori diun’università americana, nel 1972. L’ul-tima sezione è senza data, ma porta uneloquente sottotitolo: «Nell’iperuranio enell’acronia». Ricoeur sopravvisse a Pacidi quasi trent’anni, e la quinta scena èl’espediente per un confronto diretto e unbilancio finale delle due esperienze dipensiero. L’operazione del dialogo è in-teressante dal punto di vista formale, eoltretutto in sintonia con l’attitudine chefu di Paci, capace di mantenere cittadi-nanza nel disciplinato contesto accademi-co pubblicando opere autenticamente fi-losofiche ma insieme “irregolari”, talvol-ta per lo stile (è il caso del Diario feno-menologico, 1961), talvolta per il metodo(si pensi alla Storia del pensiero preso-cratico del 1957, dove l’aspetto storio-grafico è sopravanzato dall’esigenza didialogare con i propri predecessori). Me-rito di Renzi è anche lo sforzo di portareluce su momenti inconsueti dell’opera edella figura del maestro, raramente consi-derati; come appunto l’attenzione per ipresocratici o l’interesse per l’industrialdesign. Meglio approfondito è il profiloextra-accademico di Paci, cui l’autore de-

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dica due saggi: l’incarico di consulente ecollaboratore de Il Saggiatore, a partiredalla fine degli anni Cinquanta (qui Ren-zi gli fu collega nella prima metà del1961, poi dal dicembre 1963 al luglio1969), e l’impegno per la promozioneculturale (ad es. la fondazione, nel 1951,di «aut aut»).

Un altro elemento di pregio del librodi Renzi è la ripubblicazione di una lette-ra di Paci del settembre 1965 sulla feno-menologia della religione; la lettera (edi-ta nel 2006) è significativa del fatto chePaci progettasse e incoraggiasse tale dire-zione della ricerca fenomenologica finoagli ultimi giorni. Fenomenologia dellareligione, dunque, e fenomenologia delnegativo, tenendo insieme Husserl e ilcristianesimo, sottraendo il problema re-ligioso all’ombra dell’ideologia («“ideo-logia” [...] nel senso di Marx») e tornan-do sempre di nuovo alle ipotesi del Par-menide. Intrigante l’analisi che in «Sem-pre di nuovo tra i fiori contro il cielo» IlRilke di Paci Renzi fa dei rapporti di Pacicon l’opera rilkiana. L’incursione nell’e-stetica non è occasionale, e viene ap-profondita nel saggio Mann Paci Ri-coeur, che chiude la sezione paciana e siaffaccia sul Ricoeur di Temps et Récit(1983-85). L’intervento coglie e illuminal’ennesimo incontro dei due, questa voltatra le pagine della Montagna incantata.A partire dalla comune predilezione peril capitolo «Neve» si scoprono due lettu-re esaustive del romanzo, un libro sul do-lore della frattura tra Geist e Leben, sullascelta e il potere dell’uomo (e di una na-zione, quella tedesca) davanti alla tenta-zione del male; ma anche una «favola sultempo» e sui rapporti tra tempo ed eter-nità, ovvero – di nuovo – tra Geist e Le-ben, «tra la vita e la morte. Castorp com-prende alla fine che “per riguardo allabontà e all’amore, l’uomo non deve con-cedere alla morte la signoria sui propripensieri”».

L’intento dichiarato dell’autore era difornire, coi saggi e col dialogo, una inter-

pretazione di Paci e una di Ricoeur. Piut-tosto chiara quella di Paci, restituito effi-cacemente nell’identità di scrittura e pen-siero, ch’è poi memore della combinazio-ne «io filosofico-io narratore» formulatada Fulvio Papi all’inizio degli anni No-vanta. Ma se pure, leggendo i tredici ca-pitoli, solo apparentemente slegati, si fa-ticasse a cogliere il quadro completo diqueste interpretazioni, emergerà comun-que la certezza che di Paci e di Ricoeur sisiano ripercorse, con felice suggestione,le vicende intellettuali.

Andrea Cirolla(andreacirolla@gmail.com)

Ariberto Acerbi (a cura di), Crisi e destinodella filosofia. Studi su Cornelio Fabro,EDUSC, Roma 2012, pp. 465, € 26,00.

Cornelio Fabro (1911-1995) fu un fi-losofo e teologo di indirizzo tomisticoche dalla propria posizione instaurò undialogo serrato con pressoché tutti i clas-sici del pensiero moderno e contempora-neo – come testimoniano i venti interven-ti raccolti in questo libro. Oltre che aTommaso, il suo nome è in primo luogolegato a Søren Kierkegaard, del quale tra-dusse in italiano numerose opere (a co-minciare dal Diario), favorendone a par-tire dagli anni Quaranta una prima, signi-ficativa (anche se certo non aliena da for-zature) diffusione in un paese nel quale ilpensiero del filosofo danese era noto informa alquanto approssimativa e indiret-ta. Questi, dunque, i «due maestri» – giu-dicati «altrettanto radicali nelle loroistanze di fondo ma posti agli antipodidello sviluppo della cultura occidentale»(cit. a p. 67) – da porre come punti di ri-ferimento per la comprensione dell’itine-rario di pensiero di Fabro.

Il tomismo di questo autore trova unasua prima espressione nel 1939 in La no-zione metafisica di partecipazione (se-condo San Tommaso d’Aquino), unoscritto che – viene spiegato da Tommaso

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Valentini nell’intervento Dal “tomismoessenziale” alla critica della modernità –«si colloca certamente nel grande alveodella rinascenza del tomismo promossadall’enciclica Aeterni Patris (1879) diLeone XIII e poi dall’enciclica Pascendi(1907) di Pio X» (p. 30). Fabro si distac-ca dalle letture antistoriche che fanno diTommaso una specie di Aristotele cristia-no, accentuando per contro gli elementidi assoluta novità presenti nel pensierodel filosofo medievale rispetto allo Stagi-rita. Spiega sempre Valentini: «Fabronega […] la sostanziale unità della filoso-fia cosiddetta aristotelico-tomista: Tom-maso non sarebbe un semplice continua-tore di Aristotele, senza cesure o diffe-renze rilevanti, ma un vero e proprio in-novatore» (p. 30). Un tomismo anomalo,dunque, per questo oggetto di critiche an-che in ambito neoscolastico, come quelleformulate dal gesuita Carlo Giacon, cherimproverava a Fabro (ma anche a Gilsone a Maritain) di aver abbandonato la me-tafisica classica per adagiarsi su una posi-zione sostanzialmente heideggeriana (p.30). In realtà, Fabro giustificava la pro-pria tesi non solo rimarcando l’assenza inAristotele del concetto ebraico-cristianodi creazione, ma anche valorizzando al-cuni aspetti neoplatonici del pensiero diTommaso (tale è la nozione centrale dipartecipazione quale fondamento in Diodegli esseri finiti e creati), in genere sot-tovalutati dagli interpreti (cfr. p. 32).

Da questa prospettiva Fabro ha intesofronteggiare la piega nichilistica o antro-pocentrica assunta dal pensiero contem-poraneo, cercando per contro di dare fon-damento assoluto al concetto di libertàdell’uomo. Centrale in questo senso è lapartecipazione al dibattito, vivace neglianni Sessanta in Italia, sulla genesi e lanatura dell’ateismo novecentesco. Nel1964 (lo stesso anno in cui esce Il pro-blema dell’ateismo di Augusto Del Noce)Fabro pubblica infatti i due volumi intito-lati Introduzione all’ateismo moderno,che interpretano la crisi della religiosità e

del sacro nel pensiero novecentescocome esito dell’atteggiamento assuntodalla filosofia a partire da Cartesio – sog-gettivistico, gnoseologistico, sostanzial-mente autoreferenziale e chiuso alla tra-scendenza e alla Rivelazione. Come spie-ga Marco Ivaldo nel suo intervento L’iocome libertà in Cornelio Fabro e la suacomprensione di Fichte: «Il principio diimmanenza, nelle diverse versioni cheesso ha assunto, è per Fabro quello inau-gurato dal cogito e fondato dal cogitostesso. Esso coincide con l’affermazioneradicale dell’io quale sostrato (od oriz-zonte) e quale principio di ogni afferma-zione e posizione di essere, sicché l’esse-re si risolverebbe senza residui nella suapresenza nella coscienza umana. Ora, lalogica interna al principio di immanenzaconduce secondo Fabro necessariamentealla negazione della trascendenza» (p.250).

Con Hamann e Jacobi, Kierkegaardfu tra i pochi pensatori della modernità apercorrere una strada alternativa rispettoalla linea che unisce Cartesio a Hegel e alnichilismo novecentesco. La scoperta diKierkegaard avvenne verso la fine deglianni Trenta grazie a due decisivi incontrinella vita di Fabro. Il primo fu quello conGiuseppe Gabetti, che allora dirigeva l’I-stituto di Studi Germanici di Roma e cheper primo spinse Fabro a studiare il dane-se per affrontare direttamente il pensierokierkegaardiano. Il secondo fu quello conun teologo e scrittore originario di Am-burgo, Erik Pedersen, che gli fece scopri-re i Papirer come guida e chiave di lettu-ra della complessa opera kierkegaardiana(cfr. a tal proposito quanto ricorda AnnaGiannatiempo Quinzio nel contributoProfilo esistenziale e l’incontro con ilDiario di Kierkegaard, pp. 64-65). Di quiiniziò una frequentazione ininterrotta conil filosofo danese: «come la metafisica diTommaso mi ha liberato per sempre daiformalismi e dalle vuotaggini delle con-troversie scolastiche, così l’esistenziali-smo cristiano di Kierkegaard mi ha libe-

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rato dal complesso di inferiorità verso ilpensiero o, più esattamente, verso la ba-raonda dei sistemi a getto continuo dellafilosofia moderna e contemporanea, rive-landomi il loro sottofondo antiumano eanticristiano» (cit. a p. 43). Si tratta di unKierkegaard consapevolmente distanzia-to dalle interpretazioni esistenzialistiche(Heidegger, Jaspers e, in Italia, Abbagna-no), ma anche sottratto alla pesante ipote-ca che su di lui esercitava ancora in que-gli anni l’interpretazione dell’Epistola aiRomani di Karl Barth. Affermata netta-mente la matrice religiosa e cristiana delpensiero di Kierkegaard, Fabro ritrovavaun’idea di libertà e di soggettività final-

mente sradicata dal cerchio magico dellacoscienza e del soggetto conoscente conil suo pensiero logico e dialettico. La Po-stilla conclusiva non scientifica alle Bri-ciole di filosofia viene perciò giudicata daFabro come «l’unico scritto moderno ingrado di tener testa – perché ne contesta ifondamenti – alla Scienza della logica diHegel» (cit. a p. 42), là dove Hegel è vi-sto dal pensatore italiano come uno deivertici dell’immanentismo soggettivisticomoderno, incapace di elevarsi ad unaconcezione realmente cristiana dellecose.

Giovanni Rota (giovanni.rota@ispf.cnr.it)

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