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Il trattato di pace italianoLe iniziative politiche e diplomatiche dell’Italia
di Antonio Varsori
La questione del trattato di pace, siglato nel febbraio 1947, influenza ampiamente la politica estera di Roma e il ruolo internazionale dell’Italia tra la fase conclusiva della seconda guerra mondiale e i primi anni cinquanta.Col procedere della guerra, sia gli esiliati antifascisti che taluni ambienti conservatori (la monarchia, i capi delle Forze Armate, alcuni circoli vaticani) si resero conto ben presto che la pace imposta dalle potenze vincitrici avrebbe pesantemente influito non solo sulla posizione internazionale dell’Italia, ma anche sui suoi equilibri interni. La caduta di Mussolini e le trattative per l’armistizio furono anche la conseguenza delle speranze nutrite dalla monarchia di riuscire a evitare una pace punitiva grazie al rovesciamento delle alleanze.La fine del conflitto evidenzia le difficoltà della posizione internazionale dell’Italia, soprattutto per quanto riguarda le questioni territoriali. Le speranze di Roma parvero appuntarsi sugli Stati Uniti, mentre la Gran Bretagna fu sovente considerata ostile alle rivendicazioni italiane. Le clausole del trattato di pace parvero confermare i peggiori timori di Roma, e il governo e la pubblica opinione espressero forti risentimenti per l’atteggiamento dell’Unione Sovietica e, soprattutto, della Gran Bretagna.La firma del trattato di pace lasciava d’altro canto aperti tutta una serie di problemi gravi, dal futuro di Trieste alla sorte delle ex colonie, che sarebbero stati risolti solo tra la fine degli anni quaranta e l’inizio del decennio successivo. Facendo buon uso delle fonti archivistiche, l’autore appunta la sua attenzione sui rapporti tra Italia e Gran Bretagna, sottolineando il fatto che il trattato di pace provocò tra Londra e Roma una specie di piccola ‘guerra fredda’ che durò fino alla metà degli anni cinquanta.
The question o f the Peace Treaty, signed in February 1947, largely influenced Rome’s foreign policy and Italy’s international role between the last stage o f World War II and the early 1950s. As the war went on, both the anti-Fascist exiles and some conservative groups (the Monarchy, the leaders o f the Armed Forces, some Vatican circles) soon realised that the peace, which was likely to be imposed by the victorius powers, would have deeply influenced, not only Rome’s international position, but also the internal political balance. Mussolini’s overthrow and the armistice negotiations were also the consequences o f the hopes nurtured by the Monarchy to be able to avoid, through a reversal o f alliances, a punitive peace.The end o f the conflict stressed the difficulties o f Italy’s international position, in particular as far as territorial questions were concerned. Rome’s hopes seemed to focus on the United States, while Britain was often regarded as hostile to Italy’s claims. The clauses o f the peace treaty appeared to confirm Rome’s worst fears and the Italian government and public opinion deeply resented the attitude o f the Soviet Union and, in particular, o f Great Britain.The signature o f the peace treaty on the other hand left unsettled a series o f serious problems, from the future o f Trieste, to the fate o f the former colonies, which were destined to be solved only between the late 1940s and the early 1950s.Making good use o f archival sources, the author focuses his attention on the relations between Italy and Britain, stressing the fact that the Peace Treaty issue originated a sort o f minor ‘cold war’ between London and Rome, which lasted till the mid-1950s.
Italia contemporanea”, marzo 1991, n. 182
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Introduzione
Nel noto discorso, tenuto alla conferenza della pace di Parigi il 10 agosto 1946 di fronte ai rappresentanti delle nazioni vincitrici, il presidente del Consiglio e ministro degli Esteri italiano, Alcide De Gasperi, tra l’altro affermava: “dei 78 articoli del trattato [di pace italiano] la più parte corrisponde [...] alla guerra fascista e alla resa: nessuno [alla] cobelligeranza”. E il leader democristiano proseguendo dichiarava: “il carattere punitivo del trattato risulta anche dalle clausole territoriali”1. De Gasperi denunciava quindi la durezza della clausole economiche e, quanto agli aspetti militari del documento, sosteneva tra l’altro:Basti qui riaffermare che la flotta italiana, dopo essersi data tutta alla cobelligeranza e aver operato in favore della causa comune per tre anni e fino a tutt’oggi sotto propria bandiera agli ordini del Comando supremo del Mediterraneo, non può oggi, per ovvie ragioni morali e giuridiche, venir trattata come bottino di guerra2.
L’appello, ancora pieno di accenti di speranza, lanciato da De Gasperi al termine del suo discorso, non riusciva a celare la profonda delusione italiana nei confronti del documento che i vincitori, in particolare i quattro “grandi”, stavano per elaborare nella forma definitiva. Le parole del leader democristiano sintetizzavano al contempo alcune fra le caratteristiche della posizione assunta dalle autorità di Roma nei riguardi del trattato, nonché la centralità che esso rivestiva per la politica estera e per la definizione del ruolo internazionale della nuova democrazia italiana. Sulla questione del trattato di pace si concentravano non solo l’attenzione del governo e della diplomazia italiani, ma anche l’interesse e i sentimenti di larghi
settori dell’opinione pubblica, ai cui occhi la sorte delle colonie, della Venezia Giulia, o della flotta, apparivano spesso altrettanto importanti quanto la ricostruzione economica o il futuro politico della penisola. Il trattato di pace, firmato il 10 febbraio 1947 e ratificato dall’Assemblea costituente il 31 luglio dello stesso anno, lasciava d’altronde insolute alcune questioni, dalla sistemazione delle ex colonie a quella di Trieste, che avrebbero condizionato per lungo tempo l’azione internazionale di Roma.
Come queste brevi considerazioni lasciano facilmente intendere, il tema della posizione italiana nei riguardi del trattato di pace rappresenta argomento complesso, nel cui ambito interagirono numerosi ‘attori’ e variabili di ordine interno e internazionale in un arco di tempo particolarmente ampio. Nel contesto di questo contributo l’analisi non può dunque risultare che sintetica e in qualche modo incompleta. L’attenzione si è concentrata su una serie di eventi e di prese di posizione ritenuti particolarmente significativi, nel tentativo di dare risposta ad alcuni dei non pochi interrogativi di carattere storiografico che questo tema d’indagine sembra porre agli studiosi. Si è cercato in maniera specifica di individuare quale fu l’atteggiamento italiano verso le principali questioni poste dal trattato e come si sviluppò il rapporto tra le posizioni dei vincitori, fra loro spesso differenziate, e la politica estera formulata dall’Italia uscita dal ventennio fa scista. Non sono state infine trascurate, nei limiti del possibile, le conseguenze che l’elaborazione del trattato di pace italiano ebbe sulle relazioni bilaterali tra Roma e Londra.
Come è noto, solo di recente è apparso uno studio di carattere complessivo sul trat
1 II testo di questo discorso, ad esempio, in Giuseppe Brusasca, Un uomo solo in difesa dell’Italia, Roma, Movimento anziani della Democrazia cristiana, 1985, pp. 9-16.2 G. Brusasca, Un uomo solo, cit., p. 15.
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tato di pace italiano3. Negli ultimi anni, comunque, è apparsa una serie di significativi lavori su aspetti specifici della pace italiana: dai volumi di Diego De Castro, Giampaolo Valdevit e Antonio Giulio De Robertis sulla questione giuliana4, all’opera di Giovanni Bernardi sulla flotta5, a quelle di Gianluigi Rossi e di Angelo Del Boca sulle colonie6, ai contributi di Anthony E. Elcock e Enrico Serra7, per non citare il meno recente volume di Mario Toscano, sull’Alto Adige8, a
quelli dello stesso Serra sul contenzioso ita- io-francese9, alle valutazioni di Roberto Mo- rozzo della Rocca sulle riparazioni verso l’Urss10, alle ricerche ài Ilaria Poggiolini e di E. Timothy Smith sull’atteggiamento americano11, agli ormai numerosi contributi di natura più generale sulla politica estera italiana fra la caduta del fascismo e il dopoguerra, di studiosi quali, fra gli altri, Elena Aga Rossi, Ennio Di Nolfo, Brunello Vigezzi12. Tale produzione storiografica, nonché la disponi-
3 Cfr., ad ogni modo, Basilio Cialdea e Maria Vismara (a cura di), Documenti della pace italiana, Roma, Edizioni politica estera, 1947; Giuseppe Vedovato, Il trattato di pace con l ’Italia, Firenze, Leonardo, 1947, e B. Cialdea, L ’Italia e il trattato di pace, in Marco Bonanni (a cura di), La politica estera della repubblica italiana, vol. II, Milano, Comunità, 1968, pp. 349-418. Cfr. infine il recente volume di Ilaria Poggiolini, La diplomazia della transizione. Gli alleati e il problema del trattato di pace italiano, Firenze, Ponte delle Grazie, 1990.4 Antonio Giulio M. De Robertis, La frontiera orientale italiana nella diplomazia della II guerra mondiale, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1982; Id., Le grandi potenze e il confine giuliano 1941-1947, Bari, Fratelli Laterza, 1983; Diego De Castro, La questione di Trieste. L ’azione politica e diplomatica italiana dal 1943 al 1954, Trieste, Lint, 2 voli., 1981; Giampaolo Valdevit, La questione di Trieste 1941-1954. Politica internazionale e contesto locale, Milano, Angeli, 1986. Vanno ricordati inoltre i meno recenti: Jean-Baptiste Duroseile, Le conflit de Trieste 1943-1954, Bruxelles, Institut de Sociologie de TUniversité Libre de Bruxelles, 1966; Bogdan C. Novak, Trieste 1941-1954. The Ethnic, Political and Ideological Struggle, Chicago, The University of Chicago Press, 1970; nonché il recente contributo di Robert G. Rabel, Between East and West: Trieste, the Unitet States and the Cold War, 1943-1954, Durham, Duke University Press, 1988.5 Giovanni Bernardi, La Marina, gli armistizi e il trattalo di pace, Roma, Stato Maggiore della Marina, 1979. Circa le clausole militari in generale cfr. le interessanti pagine in Leopoldo Nuti, L ’esercito italiano nel secondo dopoguerra 1945-1950, Roma, Stato Maggiore Esercito - Ufficio Storico, 1989, pp. 83-110.6 Gianluigi Rossi, L ’Africa italiana verso l ’indipendenza (1941-1949), Milano, Giuffrè, 1980; Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa orientale, vol. IV, Roma-Bari, Laterza, 1984; Id., Gli italiani in Libia, vol. II, Bari-Roma, Laterza, 1988.7 Anthony E. Elcock, The History o f the South Tyrol Question, London, Michael Joseph, 1970; Enrico Serra (a cura di), L ’accordo De Gasperi-Gruber nei documenti diplomatici italiani ed austriaci, Trento, Regione autonoma Trentino Alto Adige, sd.8 Mario Toscano, Storia diplomatica della questione dell’Alto Adige, Bari, Laterza, 1968. In proposito andrebbero inoltre ricordati i recenti lavori in lingua tedesca di R. Steininger.9 Enrico Serra, La diplomazia italiana e la ripresa dei rapporti con la Francia (1943-1945), vol. II, in J.-B. Durosel- le e E. Serra (a cura di), Italia e Francia 1939-1945, Milano, Ispi-Angeli, 1984. Cfr. inoltre Pierre Guillen, Les ri- vendications territoriales françaises contre l ’Italie à la fin de la seconde guerre mondiale, in Aa.Vv., Enjeux et puissances. Pour une histoire des relations internationales au X X siècle, Paris, Publications de la Sorbonne, 1986, pp. 271-282.10 Roberto Morozzo Della Rocca, La politica estera italiana e l ’Unione Sovietica (1944-1948), Roma, La Goliardica, 1985, p. 175 sgg.; nonché Id., Le relazioni economiche italo-sovietiche nel dopoguerra (1945-1948), “Storia delle relazioni internazionali”, 1989, n. 1, pp. 79-96. Cfr. inoltre le osservazioni in Salvatore Sechi, Tra neutralismo ed equidistanza: la politica estera italiana verso l’Urss 1944-1948, “Storia contemporanea”, 1987, n. 4, pp. 665-712.11 Ilaria Poggiolini, Gli americani e la politica estera di De Gasperi. Quale pace per l ’Italia?, in Ennio Di Nolfo, Romain H. Rainero, Brunello Vigezzi (a cura di), L ’Italia e la politica di potenza in Europa (1945-1950), Milano, Marzorati, 1988, pp. 635-654; E. Timothy Smith, From Disarmament to Rearmament: The United States and the Revision o f the Italian Peace Treaty o f 1947, “Diplomatic History”, voi. 13 (1989) n. 3, pp. 359-382.12 Cfr., ad esempio, i contributi di questi autori in Josef Becker e Franz Knipping (a cura di), Power in Europe? Great Britain, France, Italy and Germany in a Postwar World 1945-1950, Berlin-New York, W. de Gruyter, 1986. Più in generale cfr. E. Di Nolfo, R.H. Rainero, B. Vigezzi (a cura di), L ’Italia, cit.; nonché H. Woller (a cura di), Italien und die Grofimachie 1943-1949, München, Oldenbourg, 1988.
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bilità di fonti documentarie inedite provenienti da vari archivi hanno rappresentato fondamentali punti di riferimento per la presente indagine.
Quale sorte per l’Italia?
Con il coinvolgimento nel secondo conflitto mondiale la posizione della penisola nel futuro assetto postbellico si pose in primo luogo all’attenzione delle autorità inglesi. Tra la fine del 1940 e gli inizi del 1941 le gravi sconfitte militari italiane (da Taranto, alla Grecia, all’Africa settentrionale) parvero convincere Londra della possibilità che l’Italia uscisse rapidamente dal conflitto attraverso una pace separata. In quei mesi alcuni organismi britannici, dal Foreign Office allo Special Operations Executive, si mostrarono interessati a individuare l’interlocutore italiano con cui negoziare la fine delle ostilità. Le stesse disfatte italiane, il protrarsi e l’inasprirsi della guerra, il sempre più stretto legame fra Roma e Berlino convinsero gli inglesi che l’Italia non era più un attore indipendente, bensì un semplice satellite del Terzo Reich. Non solo, Londra scopriva come l’Italia non fosse mai stata neppure “the least o f the great powers”, ma un elemento minore e ampiamente sopravvalutato del panorama internazionale. La penisola divenne così un mero oggetto della politica estera britannica, per quanto un oggetto importante per il
suo situarsi nel Mediterraneo, principale teatro di operazioni militari e tradizionale ambito di influenza politica per Londra. Se tale era la valutazione della posizione dell’Italia, risultò ovvio per gli inglesi considerare la penisola come elemento di scambio nei rapporti con gli stati e gli altri vari interlocutori politici in questa area, basti pensare alle promesse, seppur vaghe, di modifiche territoriali a favore della Jugoslavia o quelle di autonomia nei confronti dei senussi della Cirenaica. Risultava inoltre altrettanto ‘naturale’ ritenere di poter privare l’Italia di quegli elementi che Roma aveva considerato essenziali per il suo ruolo di grande potenza, in particolare l’impero coloniale, per ridurla a quella più modesta funzione che il paese aveva svolto subito dopo l’unificazione. Tale prospettiva andava a vantaggio diretto di Londra, la quale avrebbe potuto rafforzare le proprie posizioni nel Mediterraneo, nel Medio Oriente e in Africa13. Né va trascurata la spinta emotiva, largamente presente nell’opinione pubblica inglese, al ridimensionamento di una nazione che tanti fastidi aveva creato agli interessi imperiali britannici sin dagli anni trenta e che si era comportata slealmente aggredendo la Francia e la Gran Bretagna nel giugno del 194014. Londra si qualificava dunque come attore principale nell’elaborazione della futura pace con l’Italia15. Né l’ingresso in guerra deH’Unione Sovietica e degli Stati Uniti parvero modificare sensibilmente questo scenario, almeno sino allo sbarco in
13 Cfr. Antonio Varsori, L ’atteggiamento britannico verso l ’Italia (1940-1943): alle origini della politica punitiva, in Aa.Vv., 1944 Salerno capitale. Istituzioni e società, a cura di Augusto Placanica, Napoli, Esi, 1986, pp. 137-159.14 Cfr., ad esempio, l’osservazione nei diari di Sir Alexander Cadogan, sottosegretario permanente al Foreign Office, subito dopo la dichiarazione di guerra italiana, in David Dilks (a cura di), The Diaries o f Sir Alexander Cadogan 1938-1945, London, Cassell, 1971, p. 210. Gli umori ostili all’Italia e agli italiani trovano riflesso inoltre negli interventi di alcuni parlamentari alla Camera dei Comuni. Cfr., ad esempio, Parliamentary Debates o f the House o f Commons, Hansards, voi. 378, col. 1481 (interrogazione di Mr. Mander); vol 379, col. 61 (interrogazione di Mr. Adams), col. 597-598 (interrogazione di Miss E. Rathbone); voi. 382, col. 1187 (interrogazione di Sir A. Southly), voi. 389, col. 1081-1082 (interrogazione del cap. Gammons).15 Per l’evoluzione della posizione inglese cfr. anche Sir Llewellyn Woodward, British Foreign Policy in the Second World War, vol. II, London, H.M.S.O., 1971, pp. 461-468.
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Sicilia. Se i sovietici apparivano ancora lontani dall’ambito mediterraneo, le autorità americane, che pur nutrivano dubbi sull’emerge- re nella capitale inglese del concetto di pace punitiva, non sembrarono contestare seriamente le tesi britanniche e si limitarono a attenuare gli effetti di tale scelta sulla propaganda alleata verso la penisola16.
Il tipo di pace che i vincitori avrebbero imposto all’Italia e il ruolo centrale che Londra sembrava destinata ad avere furono due elementi che si presentarono ben presto all’attenzione degli italiani. I primi ad affrontare tale questione furono quegli antifascisti che, esuli negli Stati Uniti o in Gran Bretagna, potevano disporre di informazioni sull’evoluzione della politica alleata e erano in grado di far sentire liberamente la loro voce. Attive, in particolare in Nord America, furono personalità quali: Carlo Sforza, Alberto Tarchia- ni, Gaetano Salvemini, Randolfo Pacciardi, Luigi Sturzo. Loro obiettivo comune, seppur con ovvie e non marginali diversità di accenti, per ciò che concerneva l’ambito internazionale, era la restaurazione nel periodo postbellico dell’Italia come elemento non di secondo piano. Un’Italia che fosse stata liberata dal fascismo e che avesse riacquistato istituzioni democratiche non avrebbe dovuto, a loro giudizio, subire una pace punitiva; al contrario, avrebbe dovuto mantenere il ruolo di potenza regionale nei due tradizionali ambiti della politica estera del paese, l’Europa e il
Mediterraneo, rinunciando sì alle ambizioni mussoliniane, ma non certo alle funzioni conquistate prima del 1922 dall’Italia liberale. Queste valutazioni erano influenzate anche da significative considerazioni di carattere politico interno: un’Italia umiliata al tavolo della pace sarebbe stata facilmente preda di pericolosi contraccolpi di natura nazionalista o rivoluzionaria, né gli esuli antifascisti, che si proponevano quali leader dell’Italia liberata da Mussolini, potevano presentarsi all’opinione pubblica del paese condizionati, se non asserviti, agli interessi dei futuri vincitori17. Numerosi sintomi fecero ben presto ritenere agli esponenti dell’emigrazione antifascista che le intenzioni degli alleati, in particolare di Londra, verso la penisola non fossero benevole — Salvemini ad esempio parlò dell’intenzione inglese di trasformare l’Italia in una “colonia”18. A questo punto la strategia degli esuli si diversificò. Da una parte personalità, quali Salvemini e Pacciardi, persa ogni fiducia nelle autorità alleate, si dedicarono al tentativo di influenzare i settori liberals delle opinioni pubbliche americana e inglese al fine di sconfiggere quelle che venivano definite le mire imperialiste dei tories britannici19. Dall’altra, Sforza, Tarchiani e altri puntarono su una strategia più cauta, che si fondava sull’opportunità di convincere le autorità inglesi circa l’inutilità di ‘punire’ l’Italia e, soprattutto, sull’instaurazione di un rapporto privilegiato con i responsabili americani allo sco-
16 In proposito si rimanda, in particolare, a: David W. Ellwood, L ’alleato nemico. La politica dell’occupazione anglo-americana in Italia 1943-1946, Milano, Feltrinelli, 1977; Elena Aga Rossi, La politica degli Alleati verso l'Italia nel 1943, ora in Id., L ’Italia nella sconfitta: politica interna e situazione internazionale durante la seconda guerra mondiale, Napoli, Esi, 1985, pp. 67-124.17 Sull’azione degli esuli antifascisti negli Stati Uniti cfr., ad esempio, Aa.Vv., L ’antifascismo italiano negli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale, Roma, Archivio trimestrale, 1984; sugli emigrati in Gran Bretagna cfr. Nicola Oddati, Carlo Petrone: un cattolico in esilio 1939-1944, Roma, Cinque Lune, 1980.18 In una lettera a Ernesto Rossi del dicembre del 1944 Gaetano Salvemini scriveva: “L’Italia non è più che una sfera di influenza inglese, una colonia inglese, una seconda Irlanda”. Cit. in G. Salvemini, Lettere dall’America 1944- 1946, a cura di Alberto Merola, Bari, Laterza, 1967, p. 62. Salvemini aveva espresso opinioni simili sin dal 1941. Per la posizione dello storico di Harvard cfr. G. Salvemini, L ’Italia vista dall’America, a cura di Enzo Tagliacozzo, Milano, Feltrinelli, 1969.19 Cfr. in proposito Alessandra Baldini - Paolo Palma, Gli antifascisti italiani in America 1942-1944, Firenze, Le Monnier, 1990.
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po di opporre la politica ‘democratica’ e antifascista di Washington alle mire ‘tradizionali’ di Londra20.
In realtà l’influenza degli esuli sulle scelte alleate fu molto scarsa. Essi infatti non compresero che il futuro dell’Italia rappresentava per gli inglesi e gli americani solo un elemento in un più ampio e complesso contesto internazionale. E nemmeno risultò chiaro all’emigrazione antifascista come l’allargarsi del conflitto agli Stati Uniti e all’Unione Sovietica avesse situato la definizione della pace con Roma in un futuro ancora lontano, lasciando al momento ampio spazio a considerazioni di natura militare. Non si colse infine come lo spirito punitivo che animava Londra non rappresentasse la conseguenza delle ambizioni imperialiste di Churchill, dei conservatori o dei militari, bensì il risultato di una meditata scelta di politica estera, sostenuta da forti convinzioni psicologiche largamente diffuse tra l’opinione pubblica inglese21.
Se gli esuli antifascisti furono, fra gli italiani, i primi a preoccuparsi dell’assetto postbellico della penisola, essi furono seguiti, con la seconda metà del 1942, da quei gruppi sociali e politici, che, pur avendo collaborato con Mussolini e il fascismo, compresero rapidamente, dopo El Alamein e Stalingrado, che la vittoria finale sarebbe arrisa alla “grande alleanza”. Esponenti della famiglia reale, dei vertici delle forze armate, del mondo econo- mico-finanziario, della Santa Sede e dello stesso partito fascista, colsero l’esigenza di
far uscire la nazione dalla guerra22. Compiendo un’ennesima generalizzazione, si può sostenere che obiettivo di questi gruppi e di queste personalità era la negoziazione di una pace separata o persino di un rovesciamento di alleanze. A tal fine essi erano disposti a offrire l’allontanamento di Mussolini dal potere, l’abolizione degli aspetti più imbarazzanti del regime fascista, la fine dell’alleanza con la Germania e, in prospettiva, la collaborazione con gli alleati. In cambio contavano di ottenere termini di pace, che, nel contesto interno, preservassero precisi equilibri sociali e istituzionali, sul piano internazionale garantissero per l’Italia un ruolo di grande potenza. A questo proposito ci si spinse a ipotizzare il mantenimento di alcune delle conquiste territoriali conseguite dal fascismo23. Quanto all’interlocutore, i gruppi conservatori italiani ritennero di individuare nella Gran Bretagna la potenza più interessata alle questioni mediterranee e europee — quindi al futuro dell’Italia — nonché più sensibile ai richiami per la ricostituzione, da un lato, della ‘tradizionale’ amicizia fra Roma e Londra, dall’altro al rinnovarsi dei legami fra ambienti e personalità ostili a qualsiasi ipotesi di rivolgimenti radicali. Come dimenticare in proposito gli apprezzamenti espressi da Churchill negli anni venti e trenta verso i ‘meriti’ del fascismo? Tra l’autunno del 1942 e la tarda primavera del 1943 si susseguirono così sondaggi di pace italiani, più o meno cauti, più o meno autorevoli, in direzione della capitale britannica24. Il calcolo di per-
20 A. Varsori, Gli Alleati e l'emigrazione democratica antifascista (1940-1943), Firenze, Sansoni, 1982.21 Cfr. le fonti cit. alle note da 16 a 20.22 Cfr. in particolare Mario Toscano, Dal 25 luglio all’8 settembre, Firenze, Le Monnier, 1966, in particolare i capitoli I e III. Ora cfr. anche Renzo De Felice, Mussolini l ’alleato, I, L'Italia in guerra 1940-1943, Torino, Einaudi, 1990, in particolare tomo II, cap. V, nonché la documentazione in I documenti diplomatici italiani, Serie IX, voi. IV, Roma, 1990.23 Cfr., ad esempio l’anonimo messaggio pervenuto attraverso il consolato italiano di Tangeri. Cfr. la documentazione in Public Record Office (Pro), Foreign Office 371 (Fo 371), R 4302/168/22. Trascrizioni di documenti del Public Record Office, soggetti a “Crown Copyright” , appaiono con il consenso del Sovrintendente del Her Majesty’s Stationery Office (H.M.S.O.).24 Cfr. A. Varsori, Italy, Britain and the Problem o f a Separate Peace during the Second World War: 1940-1943, “The Journal of Italian History”, vol. 1 (1978) n. 3, pp. 455-491; nonché Richard Lamb, The Ghosts o f Peace 1935-1945, Salisbury, Michael Russell, 1987, pp. 147-190.
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sonaggi, quali Pietro Badoglio, la principessa Maria José, il duca Aimone d’Aosta, eccetera, si rivelò però errato. Non si comprese in primo luogo come Londra non potesse negoziare autonomamente da Washington e da Mosca e che, inoltre, all’interno della “grande alleanza” sembrava ormai prevalere la tendenza a rimandare alla conclusione delle ostilità, e a una trattativa globale, gli assetti postbellici, e quindi anche il futuro dell’Italia. Né si capì che nella capitale inglese non esisteva alcuna volontà di negoziare, in particolare alle condizioni così elevate e ben poco realistiche poste dagli italiani. Nella visione di Anthony Eden e del Foreign Office l’Italia non era che un paese, il quale doveva essere al più presto “knocked out” dalla guerra attraverso i bombardamenti e un attacco diretto, nonché, in una prospettiva di più lungo periodo, un oggetto della strategia imperiale britannica25. Nei riguardi dei gruppi conservatori italiani, come dell’emigrazione antifascista — i possibili interlocutori per una pace separata — non vi era a Londra che sospetto o disprezzo26, in ogni caso nessuna fiducia che tali gruppi o personalità potessero svolgere una reale funzione nell’Italia del dopoguerra27.
Come constatato, la sorte dell’Italia si intrecciava comunque strettamente ai contrasti fra Londra e Washington circa le scelte strategiche alleate, nonché al non facile evolversi dei rapporti fra angloamericani e sovietici. Non è scopo di questo saggio indagare su questi complessi aspetti, oggetto
d’altronde di altri studi28; basti qui ricordare come nel dibattito fra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, Londra riuscisse a imporre, ma solo in una prospettiva di breve periodo, la propria strategia ‘periferica’ e mediterranea, basata sulla rapida eliminazione dell’Italia dalla guerra attraverso lo sbarco in Sicilia (operazione “Husky”), mentre gli americani erano in grado di affermare il concetto della prevalenza delle esigenze militari — e della responsabilità del comandante di teatro — su quelle politiche29. Al contempo Londra e Washington non potevano trascurare le preoccupazioni sovietiche circa le intenzioni anglosassoni, favorendo così l’elaborazione della nota dichiarazione di Casablanca del gennaio 1943 sull’ “unconditional surrender”, dichiarazione dalla quale l’Italia non poteva essere esclusa. Da questa presa di posizione angloamericana, dalla scelta di rinviare qualsiasi decisione sul dopoguerra a un accordo generale tra i tre “grandi”, dalla prevalenza dei militari sui politici nella gestione dell’operazione “Husky” ebbe origine l’ipotesi della soluzione armistiziale, quale strumento atto a fronteggiare l’eventuale uscita dell’Italia dal conflitto, in particolare il cosiddetto armistizio “corto”, firmato a Cassibile il 3 settembre. Al contempo, però, sia allo scopo di restare fedeli al concetto di “resa incondizionata”, sia, per Londra, di preservare i mezzi con cui imporre in futuro all’Italia una pace punitiva, venne elaborato il cosiddetto armistizio “lungo”, siglato a Malta il 29 settem-
25 Cfr. L. Woodward, British Foreign Policy, cit., L’atteggiamento inglese trova piena espressione, ad esempio, in Pro, Fo 371, R 7549/3700/22, memorandum “Position of Italy”, 18 novembre 1942; nonché Prem 3, 242/19, minuta, A. Eden a W. Churchill, 17 febbraio 1943.26 Di fronte a uno dei numerosi sondaggi di pace italiani, un funzionario del Foreign Office commentava: “The Italians are showing remarkable persistence. In fact, all the rats are doing their best to get clear”. In Pro, Fo 371, R 8117/3700/22, minuta di D. Laskey, 30 novembre 1942.27 Cfr. le fonti citate alla nota 25.28 Cfr. le relazioni di Sir David Hunt e E. Aga Rossi tenute al colloquio di Londra su “Le relazioni anglo-italiane durante la seconda guerra mondiale” (25-27 settembre 1990), “Italia Contemporanea”, 1990, n. 181, p. 827.29 Su questi temi, oltre al già citato lavoro di D.W. Ellwood, cfr. l’importante contributo di Bruno Arcidiacono, Le “précédent italien” et les origines de la guerre froide. Les Alliés et l ’occupation de l ’Italie 1943-1944, Bruxelles, Bruylant, 1984, in particolare i capitoli I e II.
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bre30. Questi documenti, in particolare il secondo, non rispondevano certo alle speranze che avevano animato Vittorio Emanuele III e Badoglio nel rovesciare Mussolini e, in seguito, nelFavviare e nel condurre in porto le trattative con gli angloamericani tra il luglio e il settembre. Con tutta probabilità il re e il suo nuovo primo ministro avevano mirato, non solo a staccare l’Italia dall’alleanza con la Germania e a salvaguardare la monarchia e le altre tradizionali strutture della società italiana, ma anche a recuperare per il paese uno spazio di manovra in campo internazionale, che preludesse alla reintegrazione dell’Italia nel ruolo di potenza di primo rango31. A questo proposito essi per qualche tempo ritennero possibile avviare un negoziato con gli alleati offrendo un’eventuale partecipazione italiana allo sforzo bellico angloamericano anche in cambio di una pace non punitiva. La firma dell’armistizio e l’entrata in vigore del regime armistiziale rappresentarono dunque per i responsabili del Regno del Sud un profondo trauma. Nell’autunno del 1943 risultava evidente, a dispetto della dichiarazione di guerra italiana alla Germania e della conseguente cobelligeranza, non solo che la realizzazione della pace tra i vincitori e l’Italia si allontanava nel tempo, ma che tale pace, almeno a giudicare dal testo dell’armistizio “lungo” e dall’atteggiamento degli alleati, in particolare degli inglesi, sarebbe stata dura e ispirata a una volontà punitiva32.
La situazione derivante nella parte liberata della penisola dalla presenza del Governo
militare alleato e della Commissione alleata di controllo, gli eventi militari connessi alla campagna d’Italia, la ripresa del dibattito politico, sviluppantesi intorno a problemi di particolare rilievo (la questione istituzionale, i rapporti fra i partiti antifascisti, ecc.), l’incertezza degli equilibri interni parvero attenuare, ma solo per breve tempo, l’attenzione di parte italiana dalla questione del futuro trattato di pace. Riapparve rapidamente infatti sia fra le forze conservatrici, sia all’interno dei partiti antifascisti, la speranza che il paese potesse evitare, in tutto o in parte, la punizione che alcune fra le potenze alleate parevano voler imporre. La monarchia e i suoi sostenitori, nonché alcuni settori del corpo diplomatico, avevano alfine compreso che il futuro della penisola non sarebbe stato deciso solo da Londra, bensì attraverso un accordo fra i tre “grandi” . L’Italia poteva perciò sfruttare i caratteri ‘innaturali’ di un’alleanza che vedeva affiancate una potenza democratica e anticolonialista, quale gli Stati Uniti, a una grande democrazia, che era anche il più vasto e potente impero coloniale, come la Gran Bretagna, a una nazione, quale l’Unione Sovietica, che aveva da sempre per principale obiettivo la lotta al capitalismo e aH’imperialismo. Si cercò dunque di giocare le contraddizioni oggettive e le rivalità più o meno latenti fra i “grandi”, sia per rafforzare la posizione dei Savoia e per salvare quei gruppi o quelle personalità già complici del fascismo, sia per far riacquistare al paese un più ampio margine di manovra in campo internazionale, allonta-
30 Oltre agli studi di D.W. Ellwood, E. Aga Rossi e B. Arcidiacono cfr. Albert N. Garland e Howard M. Smyth, Sicily and the Surrender o f Italy, Washington, Office of the Chief of Military History, 1965. Importanti valutazioni anche in L. Woodward, British Foreign Policy, cit., pp. 468-500.31 Sull’uscita dell’Italia dal conflitto cfr., nell’ambito dell’ampia produzione esistente, l’ancora interessante Ruggero Zangrandi, L ’Italia tradita - 8 settembre 1943, Milano, Garzanti, 1974. Cfr. inoltre Aa.Vv., Otto settembre 1943. L ’armistizio italiano 40 anni dopo. A tti del convegno internazionale (Milano, 7-8 settembre 1983), Roma, S.M. Esercito - Ufficio Storico, 1985. Cfr. ora R. De Felice, Mussolini, cit.32 Per le prime reazioni di Badoglio cfr., ad esempio, le annotazioni in Harold Macmillan, The War Diaries. The Mediterranean 1943-1945, London, Macmillan, 1984, pp. 233-244.
Le iniziative politiche e diplomatiche dell’Italia 35
nando tra l’altro la prospettiva di una pace punitiva. Fu in tale ambito che si inserirono da un lato i contatti con le autorità americane, ritenute maggiormente ben disposte verso l’Italia e il popolo italiano33, dall’altro lato l’azione del segretario generale del ministero degli Esteri, Renato Prunas, azione che avrebbe favorito agli inizi della primavera del 1944 il riconoscimento diplomatico del governo Badoglio da parte dell’Unione Sovietica34. Né vanno trascurate le ripetute pressioni sui responsabili angloamericani per un ammorbidimento delle clausole armistiziali, quale primo passo verso una pace non punitiva35.
Anche le forze antifasciste, nella loro aspirazione ad assumere la guida della nazione alla fine del conflitto, non potevano trascurare la questione del futuro trattato di pace, ma parvero riporre gran parte delle loro speranze nel carattere antifascista e democratico della guerra condotta dagli alleati. Esse confidavano così nei meriti acquisiti agli occhi degli an- ' gloamericani attraverso la cobelligeranza, o meglio attraverso la lotta partigiana, nonché nella prospettiva di una radicale trasformazione politica e sociale della penisola: a un’Italia democratica e antifascista, che avesse almeno in parte conquistato la propria libertà, i vincitori, soprattutto i sovietici e gli americani, in apparenza portatori di nuovi ideali anche nel contesto delle relazioni internazionali, non avrebbero potuto imporre una pace punitiva36.
Ben pochi italiani parvero comprendere
che la stessa evoluzione politico-militare del conflitto condannava il paese a subire un duro trattamento alla conferenza della pace. In primo luogo va ricordato l’allargarsi e il rafforzarsi del fronte dei vincitori. Il rinato governo francese non poteva certo dimenticare il “poignard dans le dos” del giugno 1940 e la necessità di recuperare lo status di grande potenza induceva la Francia gollista a cercare ‘facili’ rivalse su un nemico apparentemente debole, quale l’Italia37. Il movimento partigiano di Tito coniugava la lotta al fascismo con le tradizionali aspirazioni jugoslave di revanche nei confronti della sistemazione territoriale derivante dagli accordi del 1920 e del 192438. Né mancavano di trovare espressione le ambizioni greche sul Dodecaneso39 e quelle etiopiche sull’Eritrea40. Quanto all’Unione Sovietica, dopo l’episodio del riconoscimento diplomatico del governo Badoglio, accettato per il momento il prevalere degli interessi angloamericani nella penisola, aveva scarso rilievo e ben poca utilità l’assumere un atteggiamento benevolo nei riguardi di Roma41. Restavano a questo punto la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, entrambi direttamente coinvolti nelle vicende italiane. Londra, soprattutto di fronte all’emergere di un forte partito comunista nella penisola, si era posta il problema di come conciliare la volontà punitiva con l’esigenza di rafforzare le posizioni delle personalità e dei gruppi moderati italiani, fossero essi rappresentati da Badoglio dapprima,
33 Sui rapporti tra le autorità americane e il Regno del Sud cfr. James E. Miller, The United States and Italy 1940- 1950. The Politics and Diplomacy o f Stabilization, Chapel Hill/London, The University of North Carolina Press, 1986, in particolare i capitoli II e III.34 E. Di Nolfo, La svolta di Salerno come problema internazionale, “Storia delle relazioni internazionali”, 1985, n. 1, pp. 5-28.35 In proposito si rimanda ai saggi già citati di D.W. Ellwood, B. Arcidiacono, J.E. Miller e E. Aga Rossi.36 Per la posizione degli antifascisti si rimanda alle considerazioni espresse ad esempio da Giovanni De Luna nei suoi lavori sul Partito d’azione, di Paolo Spriano, sul partito comunista, ecc.37 Cfr. E. Serra, La diplomazia italiana, cit., e P. Guillen, Les rivendications territoriales, cit., passim.38 In proposito si rimanda agli studi di D. De Castro, A.G. De Robertis e G. Valdevit.39 Un primo interessamento greco verso il Dodecaneso era stato mostrato fin dal 1941; cfr. Pro, Fo 371, R 8726/117/ 22, minuta di Sir A. Cadogan, 28 settembre 1941 intorno a una conversazione con il ministro di Grecia a Londra.40 G. Rossi, L ’Africa italiana, cit., pp. 7-9.41 R. Morozzo Della Rocca, La politica estera italiana, cit., pp. 51-55.
36 Antonio Varsori
da Bonomi in seguito. In tale ambito era stato anche preso in considerazione il progetto di concludere con l’Italia un trattato di pace anticipato rispetto alle altre nazioni dell’Asse, quale dimostrazione della benevolenza britannica verso l’Italia. Ma questo piano si scontrò con la necessità, in qualche modo ritenuta improrogabile, di mantenere i vantaggi concreti derivanti dalla prospettiva di ‘punire’ l’Italia42. Non solo, nella pianificazione britannica degli equilibri postbellici, in particolare per ciò che concerneva le questioni territoriali, venivano date per possibili alcune serie amputazioni: dai possedimenti africani al Dodecaneso, alla Venezia Giulia, al Sud Tirolo forse. L’ipotesi di pace con l’Italia, resa nota a Washington, venne quindi rapidamente abbandonata e quando, anzi, gli Stati Uniti parvero tornare, tra la fine del 1944 e gli inizi del 1945, su questo progetto, fu proprio Londra a opporsi a una sua realizzazione, perché, sulla base delle intenzioni inglesi, tale trattato sarebbe stato in ogni modo considerato punitivo dagli italiani43. Gli Stati Uniti, da parte loro, per gran parte del 1944 parvero disinteressarsi del problema del futuro trattato di pace con l’Italia, rinviando tale questione al dopoguerra nel contesto di una più generale sistemazione dei problemi mondiali fra i tre “grandi” . Washington preferì concentrare la propria attenzione sull’attenuazione di alcune clausole armistiziali e su interventi ad hoc a favore di Roma, in particolare
nel settore economico44. Il progetto per la rapida conclusione di un trattato di pace con l’Italia, ripreso dagli americani, come constatato, venne respinto dagli inglesi.
Con la primavera del 1945 si giungeva al termine delle ostilità in Europa, qualche mese più tardi il conflitto aveva fine anche in Estremo Oriente. Si apriva la non facile fase della determinazione degli equilibri postbellici, che, nell’opinione dei vincitori, avrebbero dovuto trovare espressione attraverso la redazione di una serie di trattati di pace.
L’Italia e il trattato di pace
Alcuni episodi verificatisi negli ultimi giorni del conflitto avrebbero dovuto rappresentare un campanello d’allarme per le autorità italiane circa le intenzioni dei vincitori al tavolo della pace. Tra l’aprile e il maggio del 1945, da un lato le truppe di Tito completavano l’occupazione della Venezia Giulia, dall’altro le forze golliste cercavano di occupare la Valle d’Aosta e alcune aree del Piemonte45. Di fronte alle ferme proteste del presidente del Consiglio Ivanoe Bonomi e del ministro degli Esteri De Gasperi46, gli angloamericani imponevano ai francesi lo sgombero dei territori nordoccidentali occupati, mentre, per ciò che concerneva il confine orientale, Tito veniva costretto ad abbandonare Trieste.
L’azione di Londra e di Washington dovet-
42 Cfr. l’interessante e documentato saggio di B. Arcidiacono, La Gran Bretagna e il “pericolo comunista" in Italia: gestazione, nascita e primo sviluppo di una percezione (1943-1944), “Storia delle relazioni internazionali” , 1985, n. 1, pp. 29-65, n. 2, pp. 239-266. Sulla politica britannica cfr. Giustino Filippone-Thaulero, La Gran Bretagna e l ’Italia dalla conferenza di Mosca a Potsdam (1943-1945), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1979.43 Sull’evoluzione della posizione inglese a proposito di un trattato di pace anticipato cfr. L. Woodward, British Foreign Policy, cit., vol. Ill, London, H.M.S.O., 1971, pp. 440-489. Sintomatiche dell’atteggiamento di Londra erano le affermazioni del vicesottosegretario permanente al Foreign Office, Sir O.G. Sargent, il quale nel maggio del 1945 scriveva: “ we want to show that aggression do not pay but once Italy has made just amendments we do not want to humiliate or weaken her unduly. We hope to restore her to the position o f a second class power”. Cfr. Pro, Fo 371, ZM 2838/1/22, minuta, Sir O.G. Sargent a A. Eden, 18 maggio 1945.44 Cfr. J.E. Miller, The United States and Italy, cit., pp. 96-187.45 In proposito si rimada ai lavori più volte citati di De Castro, Valdevit, Serra, Guillen, ecc.46 Per un esempio delle rimostranze italiane cfr., ad esempio, Archivio Storico Ministero Affari Esteri (Asmae), Ambasciata di Londra (AL), b. 1278, fase. 1: tel n. 2284/C, A. De Gasped (Mae) a Londra, 4 maggio 1945.
Le iniziative politiche e diplomatiche dell’Italia 37
te trarre in inganno le autorità di Roma, che con tutta probabilità ritennero di contare sulla benevolenza anglosassone47. In effetti la presa di posizione angloamericana nei confronti di Belgrado rispondeva solo in minima parte a preoccupazioni per il futuro territoriale dell’Italia e nasceva soprattutto dall’esigenza di confermare che significative variazioni di confine sarebbero state decise dai “grandi”, nonché dal desiderio occidentale di negare Trieste, porto e nodo strategico particolarmente importante, a un alleato sempre più inaffidabile e legato a Mosca48. Quanto all’atteggiamento negativo verso le pretese francesi, esso aveva prevalentemente origine nella scarsa simpatia di Washington nei riguardi di De Gaulle e delle sue ambizioni49.
Nelle settimane immediatamente successive la liberazione e la fine del conflitto i responsabili italiani parvero dedicare minore attenzione al problema del futuro della penisola anche perché il paese appariva ripiegato su se stesso, alle prese con gravi e complessi problemi interni: dalle difficoltà economiche alla smobilitazione delle forze partigiane, alla restaurazione dell’autorità dello Stato, al dibattito fra i partiti, al passaggio dei poteri da Bonomi a Ferruccio Parri50. Sintomo di questa fase di incertezza nell’azione internazionale dell’Italia era quanto affermato dal
rappresentante diplomatico a Londra, Nicolò Carandini, il quale, nel suo diario, alla data del 1° maggio, registrava:le mie informazioni, richieste, avvertimenti ecc. dove vanno a finire? A volte sono desolato per questa spaventosa mancanza di reazione, di sensibilità, di contatto. [...] Da Roma non ricevo né un soldo per mantenere l’ambasciata, né una linea direttiva, né una risposta tempestiva ed aderente alle mie comunicazioni. Finanziariamente vivo a credito di qualche amico locale, politicamente faccio credito a me stesso51.
La questione dei trattati di pace veniva affrontata al contrario dai vincitori in maniera diretta durante la conferenza di Potsdam. In tale occasione ci si limitò comunque a decidere l’istituzione di un Consiglio dei ministri degli Esteri, che si sarebbe occupato dell’elaborazione dei trattati con i satelliti della Germania: Finlandia, Ungheria, Bulgaria, Romania e Italia. L’Unione Sovietica avanzò inoltre la richiesta di riparazioni nei confronti di Roma. Nella dichiarazione conclusiva dell’incontro la penisola, ad ogni modo, non veniva posta sullo stesso piano delle altre quattro nazioni già alleate di Berlino. Si riconosceva infatti come l’Italia fosse stata il primo satellite del Reich a uscire dal conflitto, nonché come essa avesse contribuito allo sforzo di guerra alleato52. Questa presa di posizione, alcune dichiarazioni pubbliche fa-
47 Cfr., ad esempio, le valutazioni in Asmae, AL, b. 1278, fase. 1, lett. n. 2155, N. Carandini (Londra) a A. De Gasperi, 25 maggio 1945 e tei. n. 310/291, N. Carandini (Londra) a Mae, 8 giugno 1945.48 Pro, Fo 371, Zm 2872/1/22, minuta di F.R. Hoyer-Millar, 10 maggio 1945.49 Sulle posizioni americane cfr., ad esempio, Foreign Relations of the United States (Frus), 1945, IV, Europe, Washington, Us Government Printing Office, 1968, pp. 691-697, 698-699.50 Sull’evoluzione della situazione interna cfr., fra gli altri, Enzo Piscitelli, Da Parri e De Gasperi, Storia del dopoguerra, Milano, Feltrinelli, 1975; Antonio Gambino, Storia del dopoguerra dalla liberazione al potere DC, Roma- Bari, Laterza, 1975; E. Di Nolfo, Le paure e le speranze degli italiani (1943-1945), Milano, Mondadori, 1986.51 G. Filippone-Thaulero (a cura di), Diario aprile/giugno 1945 di Nicolò Carandini (III), “Nuova Antologia”, fase. 2146, aprile/giugno 1983, p. 179. Le precedenti parti dell’interessante diario di Carandini in “Nuova Antologia”, fase. 2144, ottobre/dicembre 1982 e fase. 2145, gennaio/marzo 1983.52 In proposito cfr. United States and Italy 1936-1946 Documentary Record, Washington, Us Government Printing Office, 1946, pp. 160-162. Su Potsdam si rimanda alla documentazione reperibile in Frus, 1945, The Conference o f Berlin (Potsdam), Washington, Us Government Printing Office, 1960; nonché Documents on British Policy Overseas, S.I., vol. I, The Conference at Potsdam. July-August 1945, London, H.M.S.O., 1986.
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vorevoli all’Italia rilasciate dal presidente americano Harry Truman, nonché l’avvicinarsi della prima riunione del Consiglio dei ministri degli Esteri, previsto per settembre a Londra, convinsero le autorità di Roma dell’opportunità di assumere una posizione precisa in merito al trattato di pace, in particolare agli aspetti di carattere territoriale, in apparenza i più gravi e pressanti. L’atteggiamento italiano trovò espressione non a caso in una comunicazione di De Gasperi al segretario di Stato americano, James F. Byrnes, confermando come a Roma gli Stati Uniti venissero ormai ritenuti gli interlocutori più sensibili alle esigenze e alle tesi italiane. In questo documento per prima cosa il leader democristiano ricordava il contributo italiano alla causa alleata, nonché i tradizionali legami fra Roma e Washington e la fiducia italiana nella politica americana. La cobelligeranza e la riacquistata democrazia erano dunque due elementi fondamentali delle argomentazioni italiane. Si passava poi all’esame di questioni concrete. Quanto al confine orientale, Roma suggeriva l’applicazione della cosiddetta “linea Wilson”, proposta dal presidente statunitense nel 1919. In proposito si ricordava come questa soluzione avrebbe lasciato alla Jugoslavia città ‘italiane’, quali Fiume e Zara, e si richiedevano quindi precise garanzie per gli italiani che sarebbero rimasti entro i confini jugoslavi. Per ciò che concerneva le frontiere settentrionali del paese e il futuro dell’Alto Adige, si sosteneva l’opportunità del mantenimento del confine esistente sulla base di considerazioni economiche (la presenza di importanti fonti di energia idroelettrica per l’industria della pianura Padana) e politiche (l’adesione di parte della popolazione sudtirolese al nazismo). Si esaminava poi il problema della frontiera con la Francia e in merito si accettava la prospettiva di alcune mi
nori rettifiche, per quanto si respingessero le pretese di Parigi su Tenda e su Briga. Per ciò che concerneva il Dodecaneso, Roma si dichiarava pronta a cedere le isole dell’Egeo alla Grecia, a condizione che venissero salvaguardati i diritti e le proprietà dei residenti italiani. Ben più complessa era la questione del futuro delle colonie. L’Italia, ovviamente, si riferiva solo ai possedimenti prefascisti: in tale ambito però De Gasperi rivendicava la piena sovranità sulla Libia e sull’Eritrea, dimostrandosi pronto ad accettare l’ipotesi di un’amministrazione fiduciaria sulla Somalia e a concedere ai vincitori garanzie di natura militare in Cirenaica. Era significativo come il ministro degli Esteri affermasse tra l’altro:Non ho seguito la tattica tradizionale di creare delle tesi massime, dalle quali arretrare poi su altre tesi possibile; ho preferito ammettere senz’altro francamente i sacrifici che il dovere ci detta di fare e accennare alle condizioni che ci sembrano necessarie per rendere possibile al popolo itaiano di divenire un efficace collaboratore del nuovo assetto mondiale secondo giustizia53.
In effetti le tesi di De Gasperi, assunte quale limite delle concessioni possibili, nonché la situazione esistente, rendevano la posizione italiana, almeno per quanto concerneva gli aspetti territoriali, estremamente debole. Roma rivendicava infatti la sovranità su territori, quali ad esempio i possedimenti africani o gran parte della Venezia Giulia, ormai sottratti al controllo italiano e che, per evidenti ragioni, i vincitori difficilmente avrebbero restituito. Il tema della cobelligeranza e della rinascita democratica non poteva inoltre cancellare del tutto l’aggressione mussoliniana e tre anni di guerra a fianco della Germania. Né andavano trascurati il riemergere di vecchie ambizioni nazionaliste e di mai sopite aspirazioni di ‘prestigio’, nonché l’evidente contrasto fra il desiderio
53 Il testo del documento in United States, cit., pp. 165-170.
Le iniziative politiche e diplomatiche dell’Italia 39
di applicare il criterio di nazionalità a proposito del confine giuliano e il proposito di negarlo nei confronti del Sud Tirolo.
La conferenza dei ministri degli Esteri di Londra del settembre 1945 si chiuse, come è noto, con un insuccesso. I contrasti fra gli occidentali, la Gran Bretagna in particolare, da un lato, e l’Unione Sovietica, dall’altro, si manifestarono in maniera aperta. Le questioni italiane furono affrontate in modo generico, ma lo spirito punitivo che animava alcune fra le grandi potenze vincitrici trovò espressione, ad esempio nella richiesta sovietica di un mandato sulla Libia, ipotesi fermamente respinta dai britannici, non certo sulla base delle tesi italiane, bensì degli interessi di Londra, la quale, a sua volta, dimostrava chiaramente le proprie ambizioni nei confronti dell’ex impero italiano in Africa54 55.
La sensazione che l’elaborazione di un trattato di pace fosse obiettivo di non facile realizzazione e la conferma circa le intenzioni ben poco benevole delle potenze vittoriose verso le aspirazioni di Roma rappresentarono una forte delusione per le autorità italiane. In proposito era significativo quanto affermato da Prunas alla fine di settembre in un colloquio con un funzionario dell’ambasciata inglese a Roma. Secondo quanto riferito a Londra dal diplomatico inglese:
[Prunas] was in a very depressed mood. [...] Signor Prunas said he had the feeling that Italy was without friends and that it was almost impossible for her to secure support for her case. Roumania, Bulgaria, and Hungary were strongly backed by Russia who on the other hand was showing herself to be actively hostile towards Italy. American statesmen made friendly speeches but appeared to give Italy no active support. He could not understand why it was not appreciated in Britain how useful the friendship o f a people o f 45 million in the geographical position o f Italy could be to her or how much Italy desired that friendship.
E si proseguiva:Signor Prunas said that persons in high political circles with whom he had spoken recently — he mentioned the names ofParri, Bonomi, and Sforza — were very discouraged. They all fear moral repercussions in Italy o f what they are now afraid will be a punitive peace?5.
Nelle settimane che seguirono la conferenza svoltasi nella capitale inglese le autorità italiane parvero ad ogni modo soprattutto preoccupate della possibilità che i contrasti tra i “grandi” conducessero a uno stallo nella situazione italiana, prolungando la condizione della penisola quale nazione nemica sconfitta, occupata da truppe straniere e sottoposta alle clausole armistiziali. Per qualche tempo dunque il governo di Roma, con tutta pro-
54 Su questo episodio cfr. Alan Bullock, Ernest Bevin Foreign Secretary 1945-1951, London, Heinemann, 1984, pp. 129-130. Sulla posizione britannica e sull’interesse nei confronti della Cirenaica e della Somalia cfr. Pro, Cab 129/1, memorandum C.P. (45)162, “Disposal o f the Italian Colonies and o f the Italian Mediterranean Islands”, 10 settembre 1945, secret. Per la diversa valutazione del Primo Ministro, che appariva scettico circa la validità delle aspirazioni inglesi cfr. memorandum C.P. (45)144 “Future o f the Italian Colonies” di Clement R. Attlee, 1 settembre 1945, secret.55 Pro, Fo 371, ZM 5565/1/22, tel. n. 1495, Mr. Hopkinson (Roma) al Foreign Office, 27 settembre 1945. [“(Prunas) si trovava in uno stato d’animo profondamente depresso (...) Il signor Prunas ha sostenuto di ritenere che l’Italia fosse senza alcun amico e che fosse quasi impossibile per questa ottenere un sostegno alla sua causa. La Romania, la Bulgaria e l’Ungheria erano fortemente appoggiate dalla Russia, la quale d’altro lato si stava mostrando attivamente ostile verso l’Italia. Gli statisti americani rilasciavano dichiarazioni amichevoli ma sembravano non offrire all’Italia alcun concreto sostegno. Egli non riusciva a comprendere perché in Gran Bretagna non si apprezzasse quanto potesse risultare utile per Londra l’amicizia di un popolo di 45 milioni di abitanti nella posizione geografica dell’Italia e quanto l’Italia desiderasse tale amicizia”. “Il Signor Prunas ha dichiarato che persone in importanti settori politici con le quali aveva parlato di recente — egli ha menzionato i nomi di Parri, Bonomi e Sforza — erano profondamente deluse. Tutti temono le conseguenze morali in Italia di quella che ora hanno paura sarà una pace punitiva” (T.d.a.).]
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habilité anche sotto la spinta dell’atteggiamento assunto dalle autorità americane, concentrò la propria attenzione sulla possibilità di giungere a una rapida e radicale revisione dell’armistizio, non trascurando inoltre l’ipotesi che Londra e Washington finissero con il concludere una qualche pace con l’Italia, indipendentemente dalla sorte riservata agli altri satelliti della Germania56. Per quanto in maniera più cauta e generica l’Italia non mancò di esercitare in questo stesso periodo pressioni anche sulle altre nazioni vittoriose, in particolare l’Unione Sovietica e la Francia, al fine di rendere note le propri tesi57.
Gli sforzi di Roma risultarono in gran parte vani, sia perché la diplomazia italiana si trovò ad agire quasi totalmente all’oscuro delle effettive intenzioni dei vincitori, sia perché la difficile situazione interna acuiva la già debole posizione del paese sul piano internazionale, sottolineandone la completa dipendenza dalla volontà degli alleati. Questi ultimi d’altronde continuavano a mostrare la loro intenzione di considerare e trattare l’Italia alla stregua di una nazione nemica sconfitta. I pur crescenti contrasti tra Est e Ovest non si erano ancora trasformati in aperta “guerra fredda” e prevaleva la convinzione che fosse opportuno giungere a una qualche soluzione di compromesso circa gli assetti del vecchio continente. Questa esigenza non era
assente a Washington — l’unica capitale che era parsa considerare con qualche attenzione le richieste italiane — e gran parte delle necessità di Roma risultavano perciò sacrificabili di fronte all’obiettivo del mantenimento di rapporti non conflittuali con l’Unione Sovietica58.
Nel dicembre del 1945 i ministri degli Esteri della Gran Bretagna, degli Stati Uniti e dell’Urss si riunivano a Mosca. Era, questa, una delle ultime occasioni di accordo fra i tre “grandi”59. Il principale elemento di compromesso fu appunto la decisione di convocare al più presto a Parigi una riunione della conferenza dei ministri degli Esteri allo scopo di redigere i trattati di pace con i cinque satelliti della Germania. Nel comunicato finale dell’incontro l’Italia veniva ora posta sullo stesso piano della Finlandia, della Romania, della Bulgaria e dell’Ungheria60. Il governo di Roma comprese come tale scelta fosse di cattivo auspicio e fece sentire la propria protesta, soprattutto a Washington e a Londra, raccogliendo comunque dai rappresentanti occidentali generiche dichiarazioni di buona volontà e di comprensione61.
Per quanto la prima metà del 1946 vedesse impegnata la classe politica italiana nella soluzione di gravi problemi interni, fra cui la questione istituzionale e l’inasprirsi della crisi economica62, De Gasperi, che da poco aveva sostituito Parri nella carica di presidente
56 Cfr. in proposito la documentazione in Frus, 1945, IV, p. 1057 sgg. , ad esempio la nota verbale dell’ambasciatore a Washington, Alberto Tarchiani, a James F. Byrnes, consegnata a Dean Acheson, 16 ottobre 1945 (pp. 1069- 1070). Cfr. I. Poggiolini Diplomazia, cit.57 Cfr. S. Sechi, Tra neutralismo ed equidistanza, cit., pp. 679-680; E. Serra, La diplomazia italiana, cit., pp. 227- 234.58 Sulla politica estera americana in questo periodo si rimanda a E. Aga Rossi (a cura di), Gli Stati Uniti e le origini della guerra fredda, Bologna, il Mulino, 1984, con la bibliografia ivi contenuta; nonché Daniel H. Yergin, Shattered Peace, London, Penguin Books, 1980; John L. Gaddis, Strategies o f Containment, Oxford, Oxford University Press, 1982; Id., The Long Peace, Oxford, Oxford University Press, 1987, in particolare i capitoli 2, 3 e 6.79 Su questa conferenza cfr., ad esempio, la documentazione in Documents on British Policy Overseas, S.I., vol. II, Conferences and Conversations 1945: London, Washington and Moscow, London, H.M.S.O., 1985.60 United States and Italy, cit., pp. 194-196.61 Pro, Fo 371, ZM 295/1/22, dispaccio n. 26, Sir Noel Charles (Roma) a Ernest Bevin, 10 gennaio 1946; nonché Frus, 1945, IV, pp. 1100-1102.62 Cfr. le fonti cit. alla nota 50.
Le iniziative politiche e diplomatiche dell’Italia 41
del Consiglio, mantenendo quella di ministro degli Esteri, nonché la diplomazia italiana si impegnarono con particolare vigore nei confronti della questione del trattato di pace sia prima, sia dopo l’apertura della conferenza di Parigi, avvenuta in aprile. L’azione di Roma, pur basandosi in larga parte sugli assunti espressi ad esempio nella lettera di De Gasperi a Byrnes dell’agosto precedente, parve diversificarsi a seconda degli interlocutori a cui essa era rivolta. Particolare attenzione fu dedicata alle posizioni degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, non solo perché si continuava a sperare in una maggiore sensibilità di queste due potenze, soprattutto la prima, verso le tesi italiane, ma anche perché la politica estera di Roma era ormai largamente nelle mani di personalità moderate, le quali contavano sull’ ‘ovvia’ propensione delle due maggiori nazioni dell’occidente a non trascurare gli appelli di coloro che, nella penisola, si qualificavano quali potenziali alleati di Washington e di Londra nel crescente contrasto con l’Unione Sovietica. Quanto all’amministrazione Truman, le autorità italiane si mossero in modo da sollecitare gli americani affinché dessero contenuto alla conclamata buona volontà degli Stati Uniti verso Roma. Va comunque notato come l’azione italiana risultasse sovente frustrata dall’apparente contraddittorietà della posizione statunitense. Se da un lato alcuni ambienti americani, ad esempio settori della stampa e la comunità di origine italiana, non mancavano di incoraggiare Roma nelle sue speranze, dall’altro Byrnes e il Dipartimento di Stato apparivano arrendevoli di fronte alle richieste delle altre nazioni vincitrici. Tale atteggiamento, che rispondeva al legame esistente tra il trattato di pace italiano e la più generale questione del
la politica di Washington verso l’Unione Sovietica, non poteva non creare disorientamento e frustrazione fra i responsabili di palazzo Chigi. Era significativo che Pietro Quaroni, allora ambasciatore a Mosca, scrivesse, alla vigilia della sessione di Parigi del Consiglio dei ministri degli Esteri, che: “ [L’Jesperienza fin qui fatta ha mostrato che essi [gli americani] sono leoni a Washington e pecore a[lla] conferenza”63.
Per ciò che concerneva l’atteggiamento di Londra, esso risultava più chiaro e lineare, per quanto meno favorevole alle aspirazioni di Roma. Nei rapporti con gli inglesi gli italiani non trascuravano di illustrare le proprie tesi su ciascuna delle questioni derivanti dalla redazione del trattato anche per l’influenza che, a giudizio delle autorità italiane, la Gran Bretagna esercitava rispetto agli altri vincitori. Roma non trascurava come truppe inglesi fossero presenti a Trieste, come l’impero africano dipendesse da un’amministrazione militare britannica e come Londra esercitasse un’importante funzione di controllo nei riguardi della flotta italiana. De Gasperi e palazzo Chigi comprendevano ormai chiaramente come gli inglesi appuntassero precise mire sui possedimenti coloniali italiani, mentre risultava evidente una qualche evoluzione nelle posizioni di Londra verso Tito, che trovava espressione in una crescente sfiducia nei riguardi di Belgrado. Da un lato gli italiani si mostravano dunque sensibili ad alcune delle esigenze strategiche e militari inglesi nel Mediterraneo e in Africa64, dall’altro, per ciò che concerneva il confine giuliano, sottolineavano l’espansionismo e l’inaffidabilità del nuovo regime jugoslavo65. Quanto alla sorte della marina da guerra italiana, Roma oscillava tra i richiami alla leale cooperazione con la Royal
63 Carte B. Migone (Genova), copia di tel. n. 6762/C, Pietro Quaroni (Mosca) a Mae, 20 aprile 1946.64 Cfr., ad esempio, la documentazione in Asmae, AL, b. 1300, fase. 1.65 Cfr., sempre ad esempio, la documentazione in Asmae, AL, b. 1298, fase. 1.
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Navy tra il 1943 e il 1945 e le larvate minacce circa la possibilità di un autoaffondamento delle unità italiane alla stregua della scelta compiuta dai tedeschi a Scapa Flow dopo il primo conflitto mondiale66. Una particolare attenzione fu infine prestata dalle autorità italiane nei confronti dell’atteggiamento inglese sulla questione altoatesina. A Londra infatti, soprattutto in alcuni settori dell’opinione pubblica, si manifestavano crescenti simpatie per le richieste del governo austriaco affinché il Sud Tiralo fosse restituito alla sovranità di Vienna67. In questo ambito gli italiani parvero sottolineare nei loro contatti con le autorità inglesi, oltre alle motivazioni economiche e politiche che avrebbero giustificato il mantenimento dello status quo, le simpatie mostrate dai sudtirolesi nei confronti del nazismo68.
Una caratteristica che accomunava l’atteggiamento di De Gasperi e dei diplomatici italiani verso Washington e Londra era il tentativo di giocare, in una logica da “guerra fredda”, la carta del “pericolo comunista”, fosse esso interno, fosse esso rappresentato dalle richieste dell’Unione Sovietica e della Jugoslavia69. Nei riguardi della Francia Roma concentrò l’attenzione sul contenzioso ri
guardante il confine nordoccidentale, attraverso il tentativo di convincere Parigi a rinunciare alle proprie rivendicazioni sulla base della loro sostanziale inutilità e dell’opportunità di riallacciare la ‘tradizionale’ amicizia fra le due nazioni ‘latine’70. Minore fu certo l’impegno profuso nei confronti dell’Unione Sovietica, ma anche in tale contesto le autorità italiane cercarono di evitare qualsiasi asprezza polemica, tentando al contrario di sottolineare come esse indirizzassero le proprie richieste, non solo alle potenze occidentali, bensì ai quattro “grandi” indistintamente, attendendo da ognuno di essi comprensione per le tesi esposte71.
L’azione italiana non si esaurì nelle attività di De Gasperi e dei diplomatici. Essa si avvalse anche dell’operato di varie personalità politiche e di organizzazioni esterne al governo; né si diresse solo verso i quattro “grandi” e le loro cancellerie. In proposito basti ricordare il viaggio compiuto nell’estate del 1946, su invito di De Gasperi, da Sforza in una serie di paesi dell’America latina allo scopo di ottenere il sostegno di questi ultimi alle ragioni italiane72; il tentativo di Paimiro Togliatti, nell’autunno dello stesso anno, di instaurare un
66 Sulle voci di un possibile autoaffondamento delle unità italiane cfr. la documentazione in Pro, Fo 371, ZM 1445/1286/22 e ZM 3615/1286/22.67 E. Serra (a cura di), L ’accordo De Gasperi-Gruber, cit., pp. 57-58, doc. A. Tarchiani (Washington) a Mae, 8 gennaio 1946. In effetti Londra appariva favorevole all’eventuale cessione della vai Pusteria all’Austria; cfr. Pro, Fo 371, ZM 1398/1286/22, tei. n. 25 U.K. Del. (Parigi) al Foreign Office, 1 maggio 1946., immediate.68 Cfr. E. Serra (a cura di), L ’accordo De Gasperi-Gruber, cit., pp. 55-56.69 Cfr., ad esempio, Pro, Fo 371, ZM 874/1/22, minuta di A.D.M. Ross. In essa si affermava tra l’altro: “Count Carandini has on several recent occasions hinted that the present Italian Government would be unable to sign a Peace Treaty o f the kind which they now imagine the Council o f Foreign Ministers to be preparing fo r Italy. Signor De Gasperi has taken the same line with Sir Noel Charles, adding that the only Party which would sign a ‘punitive’ Peace would be the Communists”.70 Questo atteggiamento parve dare qualche risultato con un ammorbidimento delle posizioni di Parigi, ad esempio, sulla questione coloniale e su quella altoatesina. In proposito cfr. P. Guillen, La France et la question du Haut-Adige (Tyrol du Sud) 1945-1946, “Revue d’histoire diplomatique”, 1986 n. 3/4, pp. 293-306; Id., Une menace pour l ’Afrique Française, Paris, Cnrs, 1986, pp. 69-81; Maurice Vaïsse, Georges Bidault ministre des Affaires Etrangères (1944-1948) et l ’Italie, in J.-B. Duroselle e E. Serra (a cura di), Italia e Francia 1946-1954, Milano Ispi- Angeli, 1988, pp. 302-303. Sulla questione del confine italo-francese in generale cfr. Gianluigi Ugo, // confine italo- francese. Storia di una frontiera, Milano, Xenia, 1989.
1 Cfr., ad esempio, il resoconto di un colloquio fra Nicolò Carandini e Andrej Vysinskij, in Asmae, AL, b. 1296, fase. 1, lett., N. Carandini (Londra) a P. Nenni, 7 febbraio 1946.2 Cfr. Livio Zeno, Ritratto di Carlo Sforza, Firenze, Le Monnier, 1976, pp. 462-466.
Le iniziative politiche e diplomatiche dell’Italia 43
rapporto diretto con Belgrado73; i ripetuti contatti, infine, di Pietro Nenni con ambienti laburisti inglesi74. Va infatti ricordato come, seppur con motivazioni e accenti diversi, tutto il mondo politico italiano e gran parte dell’opinione pubblica respingessero l’ipotesi di quella che veniva ormai considerata una pace punitiva. L’attenzione italiana si concentrava sulla sorte delle colonie e della Venezia Giulia. A proposito delle prime le residue ambizioni colonialiste si fondevano con la retorica dell’Africa quale sbocco per la manodopera italiana e con il mito della missione civilizzatrice di Roma. Quanto alla seconda, le memorie della “grande guerra” e dell’irredentismo si aggiungevano alla realtà della politica persecutoria della Jugoslavia nei confronti della comunità italiana. La possibilità di un’imposizione di riparazioni aggravava i timori per la ricostruzione economica, mentre il futuro della flotta preoccupava e indignava gli ambienti delle forze armate, i cui sentimenti non potevano essere certo trascurati dalle forze politiche in un momento particolarmente delicato dei rapporti con i vertici militari, soprattutto a causa dell’evoluzione della questione istituzionale. Un’eco minore sembravano avere le rivendicazioni francesi e la questione altoatesina, ma anche in questi due casi l’opinione pubblica italiana valutava come ingiusto l’eventuale accoglimento delle richieste di Parigi e di Vienna75.
A dispetto dell’intensa attività diplomatica e di lobbying condotta in patria e all’estero, nonché dei sentimenti espressi da larga parte della popolazione, i risultati degli sforzi italiani furono scarsi. La conferenza dei ministri degli Esteri delle quattro “grandi” potenze
(aprile/maggio e giugno/luglio 1946), nonché la conferenza allargata agli altri paesi vincitori o dei “ventuno” (luglio/ottobre 1946) giunsero a una definizione del trattato di pace italiano in senso sfavorevole rispetto alle speranze italiane. Per ciò che concerneva la frontiera orientale venne accolta una soluzione ben lontana dalla “linea Wilson”, mentre per Trieste si dovette ricorrere a un compromesso — l’istituzione del Territorio libero —, che, pur non concedendo la città alla Jugoslavia, continuava a negarla allTtalia. Quanto alle colonie, sebbene i “grandi” non riuscissero a elaborare un accordo sul futuro di questi territori, Roma era costretta a rinunciare ai propri diritti su tutti i possedimenti africani, mentre permanevano le ambizioni britanniche in tale ambito, non ostacolate dagli Stati Uniti. L’Italia doveva inoltre accettare alcune rettifiche territoriali a favore della Francia. Dure apparivano le clausole economiche, che prevedevano riparazioni a favore di alcuni paesi, fra cui l’Unione Sovietica, e altrettanto punitive sembravano le clausole militari, le quali, oltre alla limitazione della consistenza delle forze armate, a smantellamenti di infrastrutture militari, ecc., avevano quale punto di riferimento la sostanziale spartizione di gran parte della flotta fra le nazioni vincitrici. Unico punto su cui le tesi italiane trovarono soddisfazione fu la questione altoatesina per l’improvviso manifestarsi del favore sovietico al mantenimento della sovranità italiana sul Tirolo meridionale, una presa di posizione, questa, a cui certo Washington e Londra, soprattutto quest’ultima, non potevano opporsi senza incorrere in dure reazioni da parte di Roma76.
73 Sull’episodio cfr., ad esempio, A. Gambino, Storia del dopoguerra, cit., pp. 249-252.74 Pietro Nenni, Tempo di guerra fredda. Diari 1943-1956, a cura di Giuliana Nenni e Domenico Zucaro, Milano, Sugarco, 1981, pp. 173-177. Cfr. anche Pro, Fo 371, ZM 332/1/22, dispaccio n. 73, F.R. Hoyer Millar (Fo) a Sir N. Charles (Roma), 28 gennaio 1946.77 Sull’atteggiamento italiano cfr. le osservazioni in Charles Seton-Watson, Italy’s Imperial Hangover, “Journal of Contemporary History” , Vol. 15 (1980), pp. 169-179.76 Quanto alle decisioni prese alla conferenza di Parigi si rimanda alle fonti relative alle singole questioni del trattato, più volte citate.
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L’atteggiamento dell’opinione pubblica e della stampa italiana nell’estate del 1946 di fronte alle notizie provenienti da Parigi fu particolarmente negativo. Alla delusione per il trattamento subito dal paese e al mancato riconoscimento dei meriti derivanti dalla cobelligeranza e dai progressi lungo la strada della democrazia si affiancarono ben presto le recriminazioni e le accuse nei confronti dei vincitori. Se la stampa e i partiti di sinistra parvero attribuire la maggior responsabilità per quanto deciso nella capitale francese alle mire ‘imperialiste’ delle potenze anglosassoni, il resto dei giornali e dell’opinione pubblica individuò nell’Unione Sovietica e, in particolare, nella Gran Bretagna le artefici dei caratteri punitivi del futuro trattato, favorendo il riemergere di sentimenti nazionalisti e antinglesi77.
Le autorità politiche e diplomatiche, da parte loro, non nascosero la frustrazione e la delusione, soprattutto nei riguardi degli americani per le presunte mancate promesse78. Al di là di questa iniziale reazione ‘emotiva’, al governo di Roma si pose ben presto una questione fondamentale: accettare o respingere le decisioni dei vincitori? Per qualche tempo De Gasperi e palazzo Chigi sembrarono insistere sulla durezza del trattato e sulla difficoltà, se non sull’impossibilità, per le autorità italiane di firmare un simile documento. Le proteste italiane si indirizzarono prevalentemente a
Londra e a Washington; non solo, in misura maggiore di quanto non fosse stato fatto in precedenza si cercò di confondere esigenze interne e ragioni di politica internazionale, sostenendo che l’accettazione di una pace così dura sarebbe andata a esclusivo vantaggio delle forze di sinistra. Questa manovra parve sortire qualche effetto presso gli americani, ove si pensi all’atteggiamento di simpatia espresso da Byrnes a De Gasperi in occasione del discorso tenuto dal leader democristiano a Parigi il 10 agosto79. In effetti tale presa di posizione non andava al momento oltre i limiti dell’espressione di una generica buona volontà. Come ha notato James Miller:[con il trattato di pace] Byrnes had gained basic American policy objectives. Italy was freed from the impediments o f the armistice and from the possibility o f legal Soviet intervention. The bill for reparations was well within the Italian ability to pay and was so structured that the exactions had no appreciable effect on Italy’s economy. Italy lost its economically draining colonial empire and imperial pretensios. [...] Treaty limits on the size o f Italian defense forces and equipment kept the cost o f armaments from straining Italy’s economy [...]. Even the postponement o f a final decision on Trieste proved a blessing in disguise for the Italians80.
È dubbio che nel 1946 gli italiani potessero valutare in tale maniera l’azione di Byrnes,
77 Cfr. Pro, Fo 371, ZM 2421/1286/22, tei. n. 1066, Sir N. Charles (Roma) al Foreign Office, 11 luglio 1946, imp o r ta n tZM 2451/1286/22, tei. n. 1075, Sir N. Charles (Roma) al Foreign Office, 12 luglio 1946.78 Cfr. ad esempio le affermazioni di Carandini in Pro, Fo 371, ZM 2348/1/22, minuta di F.R. Hoyer Millar, 4 luglio 1946. In questo documento si affermava: “he (= Carandini) was particularly critical about the way in which the Americans had time and again promised to help the Italians and had then let them down. He was particulary rude about Mr. Byrnes".79 Rosaria Quartararo, Italia e Stati Uniti. Gli anni difficili (1945-1952), Napoli, Esi, 1986, pp. 114-117, circa due colloqui tra De Gasperi e Byrnes.80 J.E. Miller, The United States and Italy, cit., p. 204. [“(Con il trattato di pace) Byrnes aveva conseguito alcuni obiettivi fondamentali della politica americana. L’Italia era stata liberata dagli impedimenti dell’armistizio e dalla possibilità di una interferenza sovietica legale. Il ‘conto’ per le riparazioni si situava ben all’interno delle possibilità italiane di farvi fronte ed era strutturato in modo che le esazioni non avevano conseguenze rilevanti sull’economia italiana. L’Italia perdeva il suo costoso impero coloniale e le sue ambizioni imperiali (...) I limiti imposti dal trattato alla dimensione delle sue forze armate impediva che i costi degli armamenti provocassero problemi all’economia italiana (...) Persino il rinvio di una decisione definitiva su Trieste rappresentava una benedizione per quanto non apparente per gli italiani” (T.d.a.).]
Le iniziative politiche e diplomatiche dell’Italia 45
ma, al di là della delusione per l’atteggiamento di Washington, essi non potevano trascurare come gli Stati Uniti stessero già agendo in favore della penisola in altri settori, in particolare quello economico e, come indica lo stesso Miller, nel volgere di breve tempo, alla luce della guerra fredda, i risultati conseguiti da Byrnes nell’ambito dei trattati di pace sarebbero stati sottoposti a seria critica dall’opinione pubblica e dal mondo politico americani81.
L’attenzione per le posizioni americane non fece dimenticare agli italiani l’azione nei confronti di Londra, la quale — come già ricordato — si era mostrata ostile alle tesi di Roma verso le colonie e ben poco sensibile alla sorte della Venezia Giulia, del Sud Tirolo e della flotta. Significativo fu il colloquio che il 15 agosto De Gasperi e Carandini ebbero a Parigi con il segretario di Stato Ernest Bevin. Come ebbe modo di riferire a Whitehall il leader laburista:“Signor De Gasperi went on to say that the democratic forces in Italy were in a very difficult position. If he himself felt unable to sign the Peace Treaty he knew that Signor Togliatti would succeed. The ex-satellite states had the Soviet Union as their friend, but where were the friends of Italy? If he could not secure some amelioration of the Peace Treaty he very much feared that he might not be able to sign”82.
La replica di Bevin non fu particolarmente incoraggiante e d’altronde a Londra si riteneva che nel complesso l’Italia avesse ricevuto un trattamento equo e che gran parte delle rimostranze di Roma fossero infondate. Le larvate
minacce, espresse anche da De Gasperi nel colloquio con Bevin, circa la possibilità che l’Italia non siglasse il trattato rappresentavano con tutta probabilità meri artifici negoziali. Tra l’estate e il tardo autunno del 1946, in previsione anche di una nuova sessione del Consiglio dei ministri degli Esteri che si sarebbe tenuta a novembre a New York, le autorità italiane si industriarono allo scopo di attenuare la versione finale del trattato83. Il risultato più brillante di questa strategia fu, come è noto, l’accordo italo-austriaco di settembre, che sembrò risolvere in maniera definitiva e soddisfacente, soprattutto per l’Italia, la questione dell’Alto Adige84.
Nell’ottobre del 1946, a seguito di un preesistente accordo fra le forze politiche, il leader socialista Pietro Nenni sostituiva De Gasperi alla guida del ministero degli Affari esteri. Questo evento parve dover segnare un’evoluzione nell’atteggiamento di Roma verso il trattato di pace. Nenni sembrò infatti assumere la responsabilità i palazzo Chigi con la ferma intenzione di procedere rapidamente alla firma del documento elaborato dai vincitori, anche allo scopo di far uscire il paese dalla condizione di nazione nemica sconfitta. Una volta riacquistata, anche dal punto di vista formale, piena libertà d’azione, l’Italia avrebbe dovuto dar avvio a una ‘nuova’ politica estera, positiva, fondata sulla conclusione di una serie di accordi economici con i vincitori, su un negoziato diretto con Belgrado circa Trieste e su una posizione di equidistanza nei crescenti contrasti tra Est e Ovest85. A
81 J.E. Miller, The United States and Italy, cit., p. 193.82 Pro, Fo 371, ZM 2833/1286/22, tei. n. 15 saving, Uk Del. (Parigi) al Foreign Office, 15 agosto 1946. Un sintetico verbale italiano del colloquio in Asmae, AL, b. 1297, fase. 2. [“Il Signor De Gasperi prosegui affermando che le forze democratiche in Italia si trovavano in una posizione molto difficile. Se egli non fosse stato in grado di firmare il trattato di pace ben sapeva che l’avrebbe fatto Togliatti. Gli stati ex satelliti potevano contare sull’amicizia dell’Unione Sovietica, ma dove erano gli amici dell’Italia? Se non fosse stato in grado di ottenere qualche miglioramento del trattato di pace, egli temeva fortemente che non sarebbe stato in grado di firmare” (T.d.a.).]83 Sull’azione italiana cfr. l’ampia documentazione in Asmae.84 In proposito si rimanda ai saggi di M. Toscano e A.E. Elcock e alla documentazione raccolta da E. Serra.85 Per un’interpretazione dell’atteggiamento di Nenni cfr. A. Canavero, Nenni, i socialisti italiani e la politica estera, in E. Di Nolfo, R.H. Rainero, B. Vigezzi (a cura di), L ’Italia e la politica di potenza, cit., pp. 223-251.
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tal fine anche Nenni contava di far affidamento su un interlocutore privilegiato all’interno del gruppo dei “grandi” . Se in tale ambito De Gasperi aveva da tempo scelto gli Stati Uniti — e puntava sempre più sulla comprensione di Washington — il leader del Psiup (Partito socialista italiano di unità proletaria) indirizzò il suo interesse verso la Gran Bretagna laburista, nella convinzione che tale rapporto sarebbe stato favorito dai legami esistenti fra partiti socialisti ‘fratelli’ e nella speranza che Londra intendesse svolgere un ruolo di mediazione fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Nenni si pose dunque quale obiettivo immediato la realizzazione di una missione ufficiale nella capitale britannica, trovando parziale comprensione in Bevin e nel Foreign Office. Anche per l’esponente socialista risultava però difficile ignorare il trattato di pace, in particolare i riflessi di natura interna e la sua influenza sugli umori dell’opinione pubblica. Se Nenni era sì pronto a siglare il documento elaborato dai vincitori, egli era anche ‘costretto’ ad auspicarne e a favorirne una rapida revisione e, alla vigilia della progettata visita a Londra, il leader del Psiup fece pervenire alle autorità inglesi alcuni messaggi in tal senso, in particolare a proposito della sorte della quota di flotta italiana assegnata alla Gran Bretagna86 87. Nenni non comprendeva come per gli inglesi il trattato di pace rappresentasse una soluzione complessivamente soddisfacente. Era significativo che in quello stesso periodo il Foreign Office, in un documento in cui si tracciava un bilancio della pace con l’Italia, sostenesse:
On the credit side(1) We have recognized the two principles that
Italy should be restored as democratic country and that she should make retribution for her misdeeds.
(2) Trieste has not been given to Yugoslavia.(3) We remain in de facto possession o f the
Italian Colonies. We have secured agreement on the cession o f Dodecanese to Greece.
(4) We have similarly secured agreement on French guarantees on the adjusted Franco-Italian frontier, to military terms based on our original proposals, and on a number o f useful political and economic articles*1.
La crisi all’interno del partito socialista italiano e la scissione di palazzo Barberini del gennaio 1947 condussero alle dimissioni di Nenni dal governo e a un rimpasto ministeriale. Questi eventi determinarono anche l’accantonamento del progetto del leader socialista per un viaggio a Londra, nonché delle speranze in eventuali concessioni inglesi a proposito del trattato di pace, concessioni che d’altro canto Whitehall non si sentiva in grado, né in dovere di compiere. Nel formare un nuovo governo, De Gasperi poneva alla guida del ministero degli Esteri Carlo Sforza. Sino agli inizi degli anni cinquanta la politica estera italiana sarebbe stata largamente influenzata dalla collaborazione fra l’anziano ex diplomatico e il leader democristiano. Il primo problema che il presidente del Consiglio e il responsabile di palazzo Chigi si trovarono ad affrontare fu proprio la firma del trattato di pace, ormai redatto nella sua forma definitiva. A dispetto della perdurante incapacità italiana di ottenere una rapida revisione del documento appro-
86 Sull’episodio cfr. A. Varsori, Bevin e Nenni (ottobre 1946-gennaio 1947): una fase nei rapporti anglo-italiani del secondo dopoguerra, “Il Politico”, 1984, n. 2, pp. 241-275.87 Pro, Fo 371, ZM 3680/1286/22, memorandum, “Italian Peace Treaty”, sd. [“Dal lato dei ricavi: 1) Abbiamo visti riconosciuti i due principi, secondo cui l’Italia dovrebbe essere restaurata come nazione democratica e dovrebbe fare ammenda per le sue colpe; 2) Trieste non è stata assegnata alla Jugoslavia; 3) Restiamo in possesso de facto delle colonie italiane; Abbiamo ottenuto un accordo sulla cessione del Dodecaneso alla Grecia; 4) Similmente abbiamo conseguito garanzie sulle modifiche alla frontiera franco-italiana, sulle clausola militari basate sulle nostre proposte originali, e su un numero di utili articoli politici ed economici” (T.d.a.).]
Le iniziative politiche e diplomatiche dell’Italia 47
vato a Parigi e della forte opposizione di alcuni settori del mondo politico, De Gasperi e Sforza ritennero necessario procedere alla sigla del trattato. Solo in tal modo, a loro avviso, l’Italia avrebbe potuto riacquistare piena sovranità anche in campo internazionale. In effetti, nell’opinione delle autorità di Roma, lo stesso testo del trattato, che lasciava ad esempio insolute — e in qualche modo impregiudicate — la sorte di Trieste e quella delle colonie, il rapido acuirsi del contrasto Est-Ovest, nonché il manifestarsi di un preciso interesse occidentale, in particolare americano, per le sorti della penisola e dei suoi gruppi dirigenti moderati sembravano offrire a Roma la possibilità che alcune clausole della pace italiana venissero superate dall’evolvere degli eventi e quindi riviste. Il trattato di pace venne infatti firmato il 10 febbraio 1947, non solo con l’intenzione di chiudere definitivamente la parentesi della guerra fascista e della disfatta, ma anche con la non troppo celata speranza che il documento siglato avrebbe perso nel volgere di breve tempo gran parte del suo carattere punitivo. Non era un caso che, mentre il rappresentante italiano firmava a Parigi il trattato, Sforza presentasse ai vincitori un memorandum, nel quale si auspicava la revisione delle clausole della pace italiana88.
L’eredità del trattato di pace
Come indicato nelle brevi annotazioni introduttive, alcune questioni connesse all’esecuzione del trattato di pace avrebbero profondamente influenzato il ruolo internazionale dell’Italia ben oltre la firma e la ratifica di
tale documento. L’esame di tali vicende esula dagli scopi della presente indagine; essa risulterebbe comunque incompleta se non venissero compiuti alcuni sintetici cenni in proposito. Quanto alle riparazioni dovute all’Unione Sovietica, sebbene tale problema trovasse soluzione solo nel corso del 1948, esso parve sollevare un’attenzione e un interesse minori presso il mondo politico e l’opinione pubblica italiani89. Altrettanto scarso fu l’interesse mostrato dal paese nei confronti della richiesta di revisione delle clausole militari del trattato. Su questo obiettivo si concentrò ad ogni modo l’attenzione della diplomazia e degli ambienti militari, per quanto più per velleità di prestigio e per presunte esigenze di carattere economico che per un’effettiva volontà di riarmo. A dispetto dell’opposizione sovietica, queste clausole vennero cancellate alla fine del 1951, anche grazie all’interessamento di Washington e non a caso durante una delle fasi più difficili della “guerra fredda”90. Ben più complessi e sentiti si rivelarono gli altri problemi. Per ciò che concerneva il futuro della flotta — la prima questione a trovare soluzione — alcune nazioni, ad esempio l’Unione Sovietica e la Francia, non rinunciarono ad acquisire le unità loro spettanti; gli Stati Uniti, al contrario, nel corso del 1947, confermando il loro crescente interesse per gli equilibri politici italiani, rinunciarono alla propria quota di navi da guerra91. La Gran Bretagna, da parte sua, si allineò nell’autunno dello stesso anno, in occasione di una visita ufficiale di Sforza a Londra, alle posizioni americane, ma fra le evidenti resistenze di alcuni ambienti e tali ‘distinguo’, che questa decisione portò ben poco vantaggio sia all’Italia, sia
88 Per un’analisi della politica estera italiana nel periodo successivo al 1947 si rimanda ai numerosi contributi in E. Di Nolfo, R.H. Ramerò, B. Vigezzi (a cura di), L ’Italia e la politica di potenza, c i t passim. .89 Cfr. R. Morozzo Della Rocca, La politica estera, cit., pp. 374-384.90 Cfr. E.T. Smith, From Disarmement to Rearmement, cit., passim e L. Nuti, L ’esercito italiano, cit.91 G. Bernardi, La Marina, gii armistizi, cit., pp. 359-426.
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all’Inghilterra92. Per ciò che riguardava la sorte delle ex colonie prefasciste, dopo che i quattro “grandi” ebbero dimostrato la loro incapacità di individuare una soluzione in proposito, il problema venne demandato alla cura delle Nazioni Unite, che, nell’autunno del 1949, trovarono un compromesso, secondo il quale la Libia avrebbe rapidamente acquisito l’indipendenza, l’Eritrea sarebbe passata sotto la sovranità dell’Etiopia e la Somalia sarebbe stata posta per dieci anni sotto l’amministrazione fiduciaria del governo di Roma. La questione coloniale si trascinò dunque per più di due anni fra episodi drammatici, quali l’eccidio di Mogadiscio del gennaio 1948, tentativi di compromesso, quali l’accordo Sforza-Bevin del maggio 1949, e repentini ripensamenti su scelte politiche di fondo, come il passaggio del governo di Roma dal concetto del “ritorno in Africa” a prese di posizione anticolonialiste, impegnando profondamente De Gasperi, Sforza e palazzo Chigi e determinando nell’opinione pubblica sentimenti di disagio e di frustrazione, che trovarono sovente espressioni di aperta ostilità verso Londra93. Quanto a Trieste, infine, il manifestarsi della guerra fredda parve in un primo momento favorire le aspirazioni italiane e nel marzo del 1948, con la nota dichiarazione tripartita, Washington, Londra e Parigi si mostrarono favorevoli alle richieste di Roma per il ritorno di tutto il Territorio libero di Trieste (T1T) alla sovranità italiana. Lo stesso contrasto Est-Ovest e lo ‘scisma’ jugoslavo provocarono però un’evoluzione nell’atteggiamento occidentale nel contesto del contenzioso su Trieste, che si prolungò così sino al 1954, fra la crescente insofferenza di larghi settori dell’opinione pubblica e dei partiti
politici italiani nei riguardi degli angloamericani e del loro supposto favore verso le ambizioni di Tito94.
Le ragioni che spinsero la diplomazia, la leadership politica e l’opinione pubblica italiana a dedicare la propria attenzione e a profondere le proprie energie nei confronti dell’ ‘eredità’ del trattato di pace, in particolare a proposito delle ex colonie e di Trieste, sono molteplici e non tutte di agevole definizione. Nell’ambito del problema relativo agli ex possedimenti africani, De Gasperi e Sforza, principali artefici dell’azione italiana, non possono essere accusati di velleità colonialiste; altrettanto però non può dirsi di alcuni settori del ministero degli Esteri, del ministero dell’Africa italiana e della stampa. Come nel caso della flotta e della revisione delle altre clausole militari, il governo di Roma era comunque condizionato, non solo dall’atteggiamento di precisi settori dell’opinione pubblica, ma anche dalla convinzione che prestigio e opportunità in campo internazionale fossero elementi stretta- mente legati fra loro. Non va trascurato che i maggiori interlocutori europei dell’Italia, la Gran Bretagna e la Francia, erano ancora potenze coloniali. Era quindi ovvio, anche per uomini politici quali De Gasperi e Sforza, ritenere che la presenza italiana in Africa, per quanto attraverso l’istituto dell’amministrazione fiduciaria, rappresentasse un indispensabile corollario all’obiettivo del recupero per la penisola di uno status di parità rispetto a Londra e a Parigi. Né vanno trascurate le perduranti ambizioni per una politica medio-orientale, favorite in apparenza dalle difficoltà inglesi e francesi in questa area geografica. Sull’atteggiamento italiano esercitavano infine la loro influenza lunghi
9‘ Sull’episodio cfr. A. Varsori, L ’incerta rinascita di una ‘tradizionale amicizia’: i colloqui Bevin-Sforza dell’ottobre 1947, “Storia contemporanea”, 1984, n. 4, pp. 593-645.93 Cfr. G. Rossi, L ’Africa italiana, cit., p. 277 sgg.94 Cfr. D. De Castro, La questione di Trieste. L ’azione politica, cit.; G. Valdevit, La questione di Trieste 1941- 1954, cit., p. 206 sgg.
Le iniziative politiche e diplomatiche dell’Italia 49
anni di propaganda nazionalista, che non potevano essere cancellati all’improvviso. Quanto a Trieste, la sorte di questa città preoccupava effettivamente il popolo italiano e il suo ritorno alla sovranità di Roma non poteva non essere considerato un obiettivo di primario interesse per qualsiasi governo. Per la leadership politica moderata e per la diplomazia di palazzo Chigi la soluzione della questione del T1T divenne inoltre con il trascorrere del tempo l’indice più evidente della validità della ‘scelta occidentale’ compiuta dalle autorità di Roma con la guerra fredda.
Al di là delle soluzioni in seguito trovate, va notato come i problemi lasciati aperti dal trattato di pace, in particolare quello relativo al T1T e quello coloniale, finirono con il limitare lo spazio di manovra dell’Italia nell’ambito internazionale, distraendo ad esempio attenzione ed energie da ambiti e obiettivi ben più significativi, quali l’integrazione europea o il rafforzamento dei legami con i maggiori partner del paese. I tentativi di trovare soluzioni ritenute soddisfacenti alla sorte degli ex possedimenti africani o di Trieste costrinsero spesso le autorità di Roma a piegare la ‘scelta occidentale’ — la vera opzione di fondo della politica estera italiana postbellica — a superati interessi nazionalisti e alla ricerca di mere affermazioni di prestigio, in alcuni casi, quale quello coloniale, ormai vuoti di significato. Non mancarono inoltre gravi momenti di tensione con quegli alleati occidentali, rispetto ai quali l’Italia intendeva proporsi come un serio e affidabile interlocutore.
Con il memorandum d’intesa su Trieste dell’ottobre del 1954 anche l’ultima questione connessa al trattato di pace trovava una definitiva composizione. L’Italia sembrava a questo punto acquistare una maggiore libertà di manovra in campo internazionale, che avrebbe trovato espressione nel ruolo svolto da Roma nel ‘rilancio europeo’ e nell’aspirazione a una diversa presenza nel Me
diterraneo. Non era forse un caso che proprio tra il 1954 e il 1956 il raggiungimento di una stabilizzazione nel vecchio continente e raffermarsi di nuovi equilibri nell’area mediterranea e in Medio Oriente sancivano in qualche modo la fine del periodo postbellico, aprendo una nuova fase nelle relazioni internazionali. Anche per l’Italia, accantonati il trattato di pace e le sue eredità, il dopoguerra aveva termine.
Qualche ulteriore considerazione va fatta a proposito delle conseguenze del trattato di pace sui rapporti anglo italiani. Londra parve sovente non comprendere le ragioni del risentimento antibritannico nutrito da numerosi italiani a proposito delle decisioni prese dai vincitori. Per la Gran Bretagna d’altronde il trattato non rappresentava che l’ovvia conseguenza dell’aggressione musso- liniana del 1940, un atteggiamento, questo, condiviso da gran parte dell’opinione pubblica, influenzata dal ricordo di episodi, quali la volontà italiana di partecipare ai bombardamenti su Londra. Vi furono però anche altre ragioni che influenzarono le posizioni britanniche tra la fine degli anni quaranta e gli inizi degli anni cinquanta, in particolare a proposito delle ex colonie e di Trieste. Quanto al problema coloniale, per Londra si trattava di non rinunciare ad alcuni concreti vantaggi, acquisiti grazie alle costose e dure campagne militari in Nord Africa, nel Mediterraneo’ e nella stessa penisola. Tali vantaggi erano inoltre destinati a compensare il mutamento di equilibri in senso sfavorevole al ruolo imperiale britannico, evoluzione in qualche modo provocata anche dall’azione dell’Italia fascista. Per ciò che concerneva Trieste, Londra non poteva dimenticare di voler essere una grande potenza, i cui calcoli dovevano tener conto non solo del rapporto bilaterale con Roma, ma più in generale del conflitto Est-Ovest e dell’importante ruolo giocato dalla Jugoslavia di Tito in tale contesto. Va infine notato come forse per la Gran Bretagna la ‘punizione’
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dell’Italia e quindi l’esecuzione del trattato di pace rappresentasse uno dei modi per confermare la propria funzione di potenza vincitrice del secondo conflitto mondiale di fronte alla realtà dell’Unione Sovietica dominatrice su metà del vecchio continente grazie alla vittoria sul nazismo, e agli Stati Uniti, dominatori a loro volta sul Pacifico a seguito del trionfo sull’espansionismo nipponico e sull’altra metà del vecchio continente grazie alla supremazia economica.
Da parte italiana raramente si tenne conto delle ragioni inglesi e se, ad esempio, su Belgrado si concentrarono le recriminazioni a proposito della questione giuliana, o su Mosca per le riparazioni, Londra, per quanto
con toni e in tempi diversi, venne indicata nella penisola quale elemento ostile in relazione a gran parte dei problemi connessi al trattato di pace. Paradossalmente i sentimenti antinglesi, che la propaganda mussoli- niana non era riuscita a radicare fra gli italiani a partire dalla seconda metà degli anni trenta, trovarono favorevole terreno di coltura nel dopoguerra, provocando l’emergere di una sorta di ‘piccola’ guerra fredda fra Roma e Londra, che avrebbe trovato termine solo con la metà degli anni cinquanta. Questa incomprensione fu un’ulteriore conseguenza del trattato di pace e certo non fra le meno rilevanti95.
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95 Cfr. le interessanti valutazioni di Ashley Clarke in Pro, Fo 371, RT 1051/2, dispaccio n. 249, Sir A. Clarke (Roma) a A. Eden, 1 dicembre 1954, confidential; nonché il doc. “Anglo-Italian Relations”, risalente agli inizi del 1955 in RT 1051/23.
Antonio Varsori insegna all’università di Firenze presso la facoltà di Scienze politiche dove è docente supplente di Storia dell’Europa occidentale. Tra le sue opere: Il diverso declino di due potenze coloniali. Gli eventi di Mogadiscio del gennaio 1948 e i rapporti anglo-italiani, (1981); Gli alleati e l’emigrazione democratica antifascista 1940-1943, (1982); Patto dì Bruxelles (1948): tra integrazione europea e alleanza atlantica, (1988).
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