amor mi mosse – il cammino della speranza in dante_edoardo_rialti

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A SSOCIAZIONE C ULTURALE “C ARA B ELTÀ - V ARIGOTTI 1 AMOR MI MOSSE IL CAMMINO DELLA SPERANZA IN DANTE Incontro con Edoardo Rialti, Varigotti 17 agosto 2007 Paolo Desalvo: L’anno scorso con alcuni amici abbiamo creato un’Associazione che si chiama Cara Beltà, che vuol dire “Cara Bellezza” e, come molti di voi sanno, è l’inizio di una poesia di Giacomo Leopardi – l’inno Alla sua donna – che don Giussani amava ripetere spesso. Lo scopo dell’Associazione è proprio quello di imparare a guardare ed amare la vera bellezza, saperla riconoscere, saperla amare, saperla abbracciare e poterla testimoniare a tutti. È con questo spirito che questa sera abbiamo invitato un nostro carissimo amico, il professore Edoardo Rialti, di Firenze. Edoardo è docente di Letteratura e Cristianesimo a Firenze ed Assisi ed è traduttore per diverse case editrici – da ultimo ci diceva che stava traducendo una serie di libri di Michael O’Brien, quello che ha scritto Il nemico –. Non credo che molti di voi lo conoscano, perché essendo di Firenze è un po’ fuori zona, ma credo che dopo stasera molti di voi non se lo dimenticheranno. L’incontro con Edoardo è stato un incontro per noi fortuito e casuale, ma di quelli molto significativi. L’anno scorso, proprio qui in questa casa a Varigotti, durante una serie di esercizi spirituali dei preti della San Carlo, con don Massimo Camisasca, lo hanno invitato, perché lo conoscevano, a fare una serata su due autori che lui ama molto: sono Lewis e Tolkien. Noi abbiamo assistito a questo incontro ed è stata una cosa veramente fantastica. In quell’occasione lui fece un accenno, se non ricordo male durante l’incontro, in cui parlando della Vita Nova di Dante, disse che è il grande libro della corrispondenza. Quella frase che lui disse durante l’incontro a me ha intrigato molto per due ragioni: primo perché anch’io sono appassionato di Dante. Secondo perché, la parola corrispondenza, per noi che abbiamo conosciuto don Giussani, ha un significato molto preciso e profondo: la corrispondenza è imbattersi in una realtà che in qualche modo corrisponde alle attese che ci sono dentro al nostro cuore. E allora quando abbiamo deciso cosa fare questa sera, abbiamo insistito che facesse una serata su Dante, perché ci sarebbe piaciuto approfondire questa questione. Poi è venuto il titolo dell’incontro: Amor mi mosse. Il cammino della speranza in Dante. Lui a tavola diceva una cosa che mi ha molto colpito; lui diceva che, in fondo, se guardiamo la vita di Dante Alighieri è stata una vita estremamente contraddittoria, perché in fondo tutte le cose in cui lui ha sperato gli sono state negate. Basti pensare che era un uomo che amava la sua patria, Firenze, e pur amando la sua patria è finito esule; è stato accusato di essere un barattiere – cioè di peculato in poche parole –, fu cacciato dalla città e morì esule nel 1321 a Ravenna. Amava una donna che morì giovanissima, a ventiquattro anni, Beatrice. Si considerava un grande figlio della

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A S S O C I A Z I O N E C U L T U R A L E “ C A R A B E L T À ” - V A R I G O T T I

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AMOR MI MOSSE – IL CAMMINO DELLA SPERANZA IN DANTE Incontro con Edoardo Rialti, Varigotti 17 agosto 2007

Paolo Desalvo:

L’anno scorso con alcuni amici abbiamo creato un’Associazione che si chiama Cara Beltà, che vuol dire “Cara Bellezza” e, come molti di voi sanno, è l’inizio di una poesia di Giacomo Leopardi – l’inno Alla sua donna – che don Giussani amava ripetere spesso. Lo scopo dell’Associazione è proprio quello di imparare a guardare ed amare la vera bellezza, saperla riconoscere, saperla amare, saperla abbracciare e poterla testimoniare a tutti. È con questo spirito che questa sera abbiamo invitato un nostro carissimo amico, il professore Edoardo Rialti, di Firenze.

Edoardo è docente di Letteratura e Cristianesimo a Firenze ed Assisi ed è traduttore per diverse case editrici – da ultimo ci diceva che stava traducendo una serie di libri di Michael O’Brien, quello che ha scritto Il nemico –. Non credo che molti di voi lo conoscano, perché essendo di Firenze è un po’ fuori zona, ma credo che dopo stasera molti di voi non se lo dimenticheranno.

L’incontro con Edoardo è stato un incontro per noi fortuito e casuale, ma di quelli molto significativi. L’anno scorso, proprio qui in questa casa a Varigotti, durante una serie di esercizi spirituali dei preti della San Carlo, con don Massimo Camisasca, lo hanno invitato, perché lo conoscevano, a fare una serata su due autori che lui ama molto: sono Lewis e Tolkien. Noi abbiamo assistito a questo incontro ed è stata una cosa veramente fantastica. In quell’occasione lui fece un accenno, se non ricordo male durante l’incontro, in cui parlando della Vita Nova di Dante, disse che è il grande libro della corrispondenza. Quella frase che lui disse durante l’incontro a me ha intrigato molto per due ragioni: primo perché anch’io sono appassionato di Dante. Secondo perché, la parola corrispondenza, per noi che abbiamo conosciuto don Giussani, ha un significato molto preciso e profondo: la corrispondenza è imbattersi in una realtà che in qualche modo corrisponde alle attese che ci sono dentro al nostro cuore. E allora quando abbiamo deciso cosa fare questa sera, abbiamo insistito che facesse una serata su Dante, perché ci sarebbe piaciuto approfondire questa questione.

Poi è venuto il titolo dell’incontro: Amor mi mosse. Il cammino della speranza in Dante. Lui a tavola diceva una cosa che mi ha molto colpito; lui diceva che, in fondo, se guardiamo la vita di Dante Alighieri è stata una vita estremamente contraddittoria, perché in fondo tutte le cose in cui lui ha sperato gli sono state negate. Basti pensare che era un uomo che amava la sua patria, Firenze, e pur amando la sua patria è finito esule; è stato accusato di essere un barattiere – cioè di peculato in poche parole –, fu cacciato dalla città e morì esule nel 1321 a Ravenna. Amava una donna che morì giovanissima, a ventiquattro anni, Beatrice. Si considerava un grande figlio della

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Chiesa, eppure si trovò a combattere il Papa di allora – che era Bonifacio VIII – che lui considerava il suo grande nemico. Durante la sua vita non ebbe mai onori, ne ricchezze, ne fama per la sua opera di poeta; i poeti famosi a quei tempi erano altri, non lui. Eppure quando, nella Cantica del Paradiso, si trova davanti a San Giacomo, dice di sé che è l’uomo più pieno di speranza che ci sia. Ora, questa frase sembra così contraddittoria, perché con una vita così costellata di fallimenti, come si fa a dire che era pieno di speranza. Speranza in che cosa? È una cosa che apparentemente sembra contraddittoria. E volevamo chiedere appunto ad Edoardo, come è possibile questo? Edoardo Rialti:

Dunque, innanzi tutto buonasera, sono molto contento di essere qua. Vorrei che stasera fosse veramente una chiacchierata tra gli amici.

C’era un grande scrittore, a cui si è già accennato prima, C.S. Lewis, che diceva che la cosa bella di due persone che sono amiche di una terza persona è che ciascuna delle due è in grado di trovare in quella persona degli aspetti diversi e consegnarsele a vicenda. Per cui io vi prego stasera di sentirvi insieme a me a fare l’incontro, cioè domande, curiosità, cose a cui voi tenete che magari sono suscitate da quello che io cercherò di dire, vi prego abbiate la carità, dopo – perché ci terrei ad un momento di domande insieme – di esplicitarle, perché chissà quanto voi farete scoprire a me, molto, di sicuro più, di quello che io possa fare scoprire a voi.

Io sono molto contento di parlare di Dante, come sono sempre tanto contento di

parlare dei miei amici, perché io dico sempre questo: io ho alcuni amici a Firenze, carissimi, di cui io vi posso dire il nome e il cognome: Pietro, Mattia, Maddalena, di cui ho il numero di telefono, ho l’indirizzo email, so dove stanno di casa. Io ho altri amici, uno dei quali si chiama Dante, anzi Durante Alighieri ed è morto nel 1321, ed è altrettanto mio amico, mio amico personale quanto lo sono Pietro, Mattia, Maddalena che oggi sono vivi insieme a me. Il fatto che Dante sia morto non significa assolutamente niente e spero nel dialogo di stasera di farvi capire perché.

Il tema che volevamo appunto trattare insieme è cosa, che cosa tiene su, che cosa fa continuare a camminare un uomo a cui apparentemente è stato strappato tutto, a cui è stato tolto tutto: identità – perché nel medioevo essere buttati fuori dalla propria città voleva dire – non come per noi oggi che non apparteniamo tanto a una comunità e quindi una città vale l’altra – era come se ti togliessero le impronte digitali, ti strappano i documenti, non sei più nessuno, non hai più nessun diritto, chiunque ti può ammazzare e la polizia non verrà certo a reclamare la tua morte. Non puoi più vedere tua moglie. I tuoi figli, incolpevoli – non eri colpevole nemmeno te, ma loro di sicuro incolpevoli – a quattordici anni, quando scattava la maggiore età, si troveranno

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esposti alla stessa condanna. Tutti nella tua città ti considerano un ladro. La Chiesa, a cui tanto tieni, apparentemente è in pezzi. L’imperatore, nel quale speri, è un ragazzino di diciotto anni che muore senza cominciare niente. Dove sta la speranza di Dante?

Per capire la speranza di Dante dobbiamo tornare molto indietro nel tempo, quando Dante aveva diciotto anni, o meglio torniamo ancora prima, quando aveva nove anni, e, ad una festa di bambini a Firenze, come ne organizzavano le famiglie nobili che si conoscevano nel periodo di ognissanti, vede una bambina di otto, nove anni e dice: “Non avevo mai visto niente di così bello in tutta la mia vita”. Passa del tempo: a diciotto anni Dante la rivede e di solito quando io dico questa cosa i ragazzi storcono il capo e dicono: “Una città di quarantamila abitanti, i nobili erano pochi, non si erano visti per nove anni?”, questo sa un po’ di impostato. Io dico: “Guardate, nella vostra vita, che invece è proprio così”; perché te puoi avere davanti una persona per nove anni e poi arriva il giorno in cui la vedi davvero, dici: “Ma che ti avevo vista prima? Ma eri qui davanti agli occhi? Sembra che mi sei comparsa adesso davanti”. Perché? Perché compare il valore di quella persona per te, e allora la vedi, la incontri; puoi averla avuta accanto per tanto tempo, ma non l’avevi mai vista, perché non ti eri domandato chi era, da dove viene e dove va.

Dante un giorno – dovete immaginarvi questa scena, un ragazzo di diciotto anni che passa per le strade della sua città, non sappiamo che cosa stesse pensando – incontra una ragazza, una bella ragazza del vicinato, Beatrice, che conosce di vista – da ragazzo l’aveva vista e si ricordava di questa bella ragazza -; i due si incrociano ed era buona usanza salutarsi. Gli uomini salutavano in questo modo, chinavano la testa, e si diceva che le donne “rendevano il saluto”: una circostanza formale, come può essere un bacio fra conoscenti. I due passano, si incrociano, e dopo un secondo niente è più come prima. La vita di Dante è cambiata da così a così, talmente tanto che Dante intitola il libro che racconta quello che è nato da quel secondo, Vita Nova; vuol dire che la vita vecchia muore, uccisa e risuscita ad una vita nuova.

Cosa è successo in quel secondo? Che Beatrice gli ha sorriso. Non solo, ma gli ha sorriso davvero, lo ha guardato e gli ha sorriso con una tale disarmante gratuità che una circostanza assolutamente formale diventa invece come un cuore che batte e che Dante non si può più a strappare di dosso. Quel sorriso cambia tutto. Io dico spesso ai ragazzi: “Guardate che Dante e Beatrice è molto probabile che non si siano quasi parlati per tutta la vita, si saranno scambiati dieci parole in tutto”. Io mi ricordo una volta un ragazzo a cui lo dissi che fece un passo indietro e bisbigliò: “È impossibile”, e io gli ho detto: “Guarda è vero, sembra impossibile, ma questa è una delle più grandi storie d’amore che la letteratura ci abbia riportato, ma una vera storia d’amore”; perché Dante quella donna l’ha incontrata davvero, anche se si sono detti apparentemente molto poco. Tutto era già avvenuto nel momento in cui quella ragazza l’ha abbracciato con un sorriso e Dante non può più essere lo stesso.

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La cosa impressionante, che dobbiamo capire bene, è che Dante non ha vissuto un’esperienza straordinaria, o meglio ha vissuto un’esperienza straordinaria come ciascuno di noi vive esperienze straordinarie, perché ciascuno di noi ha fatto l’esperienza di Dante, in un momento della vita è stato percosso come da un fulmine d’intensità straordinaria, attratto e colpito da qualcosa o qualcuno di bello e di amabile che ha incrociato, magari per un fuggevole istante, il nostro cammino. Tutti noi ci innamoriamo e tutti noi amiamo. Qual è la differenza? Che Dante non si è accontentato e ha fatto, alla cosa che gli era successa, le domande giuste. Si è fermato, ha voluto guardare bene a quello che gli stava succedendo.

La cultura medioevale era piena di persone e di poeti che parlavano dell’amore, l’amor cortese; c’era come, e questo è interessante, il presentimento che nel rapporto tra un uomo e una donna si giocasse qualcosa di decisivo, che non è affatto scontato perché se voi leggete la letteratura del mondo antico, del mondo greco romano, andateglielo a dire a un greco o a un romano che l’amore è qualcosa di costruttivo; vi dice: “Ma sei pazzo, l’amore è una passione che distrugge”. Si pregava la dea dell’amore per non farsi innamorare, ci sono le preghiere! Perché? Perché la passione distrugge, non ti fa camminare nella vita. Enea, nell’Eneide, quando si innamora di Didone non va più a fondare Roma, e Didone innamorandosi di Enea smette di costruire la città. C’era come un divario tra la passione e il compito nella vita. Invece, secoli di cristianesimo iniziano progressivamente a far capire all’uomo che le cose che più gli premono, come già gli premevano – l’amore, la famiglia, i bambini, il senso della vita – non sono da accantonare, sono invece il perno, il meglio della vita. Ed ecco che nel 1200 avviene quella che gli studiosi chiamano la “scoperta dell’amore”; si scopre come per una sorta di deflagrazione che nel rapporto dell’uomo con una donna, l’uomo cammina.

Pensate la cosa straordinaria, qual è l’ideale medioevale: il cavaliere. Il cavaliere che ammazza i draghi e sconfigge i tiranni non lo fa mica per amore dell’umanità, con una sorta di filantropia melensa e generica. Lo fa perché è stato guardato con amore da quella donna, lì lontana nel castello; e lo sguardo, la gentilezza, la grazia di quella donna hanno investito la sua vita talmente tanto che lui non può più vivere come prima, per cui se vede un torto, quel torto è una stortura rispetto alla bellezza che lui ha incontrato e lui deve combatterlo per sanarlo. Vedete, un principio di cambiamento personale; l’uomo cambia perché è stato guardato con amore. Tutta la cultura medioevale ruota inquietamente intorno a questo. Con intuizioni profonde, ma anche con molti errori, tanto che l’amor cortese aveva anche dei gravi errori, perché portava a trasformare la donna in un idolo, in un oggetto, in una sorta di dio alternativo.

Dante, come tutti noi in tutti i tempi, si innamora, e come nella cultura del suo tempo, sente l’amore come il punto decisivo della vita, e lui nella Vita Nova fa le domande giuste a quello che gli succede, non si ferma all’apparenza come fanno tutti gli altri. E quali sono queste domande?

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Perché – prima domanda – questa donna mi colpisce? E la prima risposta che si dà è che è bella. Ed è una buona risposta, nel senso che Beatrice era veramente bella; viene riportato da Dante che era nel numero delle “trenta”, era fra le trenta donne più belle di Firenze, era in hit parade si direbbe oggi. Era molto bella, ma a Dante non basta. Prima risposta vera, è come la prima superficie, la cosa immediatamente evidente. Ma non basta nemmeno dire che è bella, non basta dirlo. Dante, lo vedete se leggete la Vita Nova è inquieto, dice: “si, ma qual è la sorgente di questa bellezza?”. Seconda risposta. Beatrice è così bella perché è buona. È buona! Tanto che Dante dice che chi la guarda si vergogna delle cose sbagliate che ha fatto. Leopardi, tanti secoli dopo, intuirà la stessa cosa in maniera meno personale, quindi meno concreta quando diceva che quando uno legge una poesia, dopo si dovrebbe vergognare per mezzora delle cose brutte che ha fatto. Dice una cosa vera, cioè che una cosa bella ti fa desiderare di essere bello e di vivere una vita bella come la cosa che ti ha colpito. Solo che l’intuizione di Dante è più profonda, perché Dante capisce che quello ci colpisce nelle stelle o in un bel libro o in una musica è straordinario, ma non è paragonabile a incontrare una persona, qualcuno di concreto, di vivo, con degli occhi che ti guardano. Tra l’altro è impressionante come questo sia vero nella vita di tutti i giorni. Vi capita di dire, quando una persona aiuta un’altra a salire sull’autobus: “Che bella cosa che hai fatto!”. Non dite mica “Che buona cosa che hai fatto!”. Perché? Perché è splendida quella cosa, è luminosa, vi rendete conto che è al livello più grande che il cuore può desiderare, è come una luce. “Che bella idea che hai avuto!”, “Che bella cosa che hai fatto!”. Perché dire bello vuol dire buono, profondamente. Ma non basta nemmeno dire questo. Dante non è un moralista, non gli basta dire che Beatrice è buona e urge, il vederla, un cambiamento morale; non basterebbe. Ad un uomo così inquieto e profondo non basta, e Dante dice, e a mio giudizio compie quello che la cultura medioevale confusamente cercava, la parola che forse pochi altri hanno detto con tanta chiarezza sull’esperienza dell’amore. Beatrice è così bella ed è così buona perché è un miracolo, come dice nel sonetto: “E pare [cioè appare, si mostra] cosa scesa da cielo in terra a miracol mostrar [a mostrare, a far vedere un miracolo]”1.

Questa è la traduzione personale, concreta che Dante dà del Prologo di San Giovanni: “Il Verbo ha posto la sua tenda in mezzo a noi. Dio nessuno lo ha mai visto, solo il Figlio ce lo ha rivelato”.

Beatrice è, il sorriso di Beatrice è il luogo dove il mistero di Dio ha raggiunto per le strade di Firenze Dante e per un secondo lo ha guardato e gli ha detto: “Io ci tengo a te. Talmente tanto che io suscito il volto di questa ragazza dal niente, per dirti «Io ti amo» e te la mando come mia messaggera”. Questo è il culmine delle domande che Dante fa all’esperienza che sta vivendo.

1 Dante Alighieri, Vita Nova, Cap. XXVI, 6

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E, vedete, la cosa impressionante è che questo lo libera da due cose. La prima cosa, lo libera dalla coerenza sua e di Beatrice. Perché ad un certo punto Dante – per un meccanismo che poi gli studiosi oggi interpretano con tutta una serie di allegorie, per cui Dante fa finta di essere innamorato di un’altra, ma che è una cosa normalissima, non so voi, ma a me è capitato di vedere delle persone che fanno finta di non essere interessate ad una persona e parlano di un’altra, la “donna dello specchio”, che secondo me è una cosa molto concreta, molto umana – Dante fa finta che non sia innamorato di Beatrice, ma di un’altra. E Beatrice gli nega il saluto, un’altra volta che si incontrano non lo saluta, per ripicca, e Dante ne rimane feritissimo di questa cosa. Quella notte si addormenta e sogna una voce, che è la voce del Dio dell’amore – e per Dante il Dio dell’amore non era il cupido paffutello con la benda e la freccia, era la Carità amore, cioè Gesù – e gli dice: “Io sono il cerchio perfetto il cui centro è equidistante da tutti i punti, tu no”. Cioè gli dice “Io sono la perfezione assoluta, la verità. Tu no. Tu non sei così, tu non sei così”. E Dante la mattina dopo si sveglia che è libero e torna da Beatrice che è libero, perché gli è stato detto che cosa quella notte? “Quello che è capitato a te sono io, e io sono e resto nel sorriso di quella ragazza. Tu e, aperta parentesi, lei, no”. E questo rende liberi, perché la grandezza di una cosa che succede non è schiava della propria coerenza – perché Dante stesso è stato incoerente rispetto a Beatrice e anche, grazie al cielo a volte, chi ci porta questo messaggio. Quella cosa rimane. E questo ti fa amare ancora di più lei. Dante non ama Beatrice nonostante Beatrice non sia Dio, ma proprio perché non lo è. Perché, anche la ferita che a volte la sua incoerenza può avere avuto nella sua vita terrena, gli ha fatto ricordare quella perfezione che nella vita gli è capitata attraverso il sorriso di quella donna. Capite quello che sto cercando di dire? D’accordo? Se non è chiaro mi raccomando, ditemelo se vi risultasse vago o astratto. Dante non vuole bene a Beatrice anche se lo fa stare male, anche se a volte non è nobile e profonda come in quel giorno in cui lo ha colpito, ma proprio per quello che lei è, perché anche le incoerenze di lei gli parlano di quello che a Dante è successo il giorno che l’ha incontrata la prima volta e che niente può più distruggere. Primo aspetto quindi: Dante è libero dalla coerenza personale per la verità della cosa, per l’eternità della cosa.

Secondo: è libero dalla forma che immagina del rapporto. Perché poco tempo dopo che Dante arriva a intuire, a dire “Beatrice è un miracolo”, Beatrice muore. Muore e Dante vive un dolore lancinante, lancinante, perché è proprio sciocco pensare che chi ha riconosciuto vera ed eterna una cosa non soffra nel vedersela portare apparentemente via nel tempo. Dante piange, soffre, quasi fino al punto di morire, ma ancora una volta ha l’onestà e l’umiltà di lasciarsi interpellare da quello che gli è successo. Perché Dante si accorge che deve decidere, deve decidere: o quello che lui ha detto di Beatrice non è vero, cioè Beatrice non è un miracolo – e il fatto che sia morta segna definitivamente la fine del loro rapporto, inchiodata dentro la bara non c’è più speranza di rivederla, basta, come se si spengesse una luce per sempre -, oppure se

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quello che io ho giudicato, che Dante ha giudicato di quella ragazza è vero, questa verità, cioè il fatto che lei venga da Dio, non è schiava della prospettiva del tempo del limite e della morte. E allora questo, forse, chiede a lui di fare un passo. Dante dice: “Io mi accorgo che è la forma del rapporto che è cambiata, ma io allora devo stare attento a vedere se lei c’è ancora, perché io ho riconosciuto che lei mi è stata mandata da qualcuno e da qualcosa che è vero”. E il vero dura nell’eternità. E Dante guardando bene alla sua vita conclude la Vita Nova dicendo: “Io ancora, amici miei lettori, non vi riesco a dire bene come, ma vi posso soltanto dire che Beatrice non mi è stata tolta, è stata innalzata, è stata messa più in alto perché fosse ancora più presente nella mia vita e io devo trovare le parole per dire di lei ciò che non fu detto di nessun altra”2. Punto, fine della Vita Nova. Dante che cosa ci sta annunciando? La Divina Commedia. Dante dice: “Io non ho ancora le parole per dirvi quanto questa donna sia presente nella mia vita. Ho bisogno di tempo, di attenzione, di silenzio, di lavoro e di fatica per trovare le parole giuste per dirvelo”.

Passano gli anni e Dante si trova in quella situazione che era stata giustamente descritta all’inizio: ha trentacinque anni, è in esilio, è stato cacciato dalla sua città, è un uomo pieno di straordinari progetti culturali e passa quasi nell’anonimato, accusato di cose infamanti, in crisi… immaginate che cosa gli passa per la mente: “Io amo Beatrice e Beatrice è morta, io amo la letteratura ma non sono considerato, nessuno guarda le opere che sto facendo, sono fedele alla Chiesa e il Papa è una delle persone con le quali vivo il contrasto, sono fedele all’imperatore e l’imperatore è morto”. Tutti frammenti, come tanti cocci che non si riescono più a mettere insieme; tutte cose vere, ma che non hanno un ordine, non hanno una prospettiva. Questa è una situazione che Dante, con realismo limpido, già ammette nella prima terzina della Divina Commedia: “Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, chè la diritta via era smarrita.”3

Il problema non è che queste cose non fossero vere, ma che io non sapevo più camminarci dentro, io non sapevo più che passi fare, che cosa devo fare, che cammino ho davanti. Posso ancora camminare? C’è una prospettiva per me, un esito per la mia vita, per i miei amori, per le perdite, per le cicatrici che mi porto addosso? E lì Dante dice: “Io [e questo è veramente geniale] io lo vedo il bene [perché l’uomo intellettualmente lo sa quello che dovrebbe fare] io la vedo la collina della verità e ci potrei anche andare”, sennonché l’uomo si deve sempre scontrare con il male che è fuori di sé e che, ahimé, è anche dentro di sé. Dante dice: “Io ce la farei anche, forse, contro la lonza della lussuria”. Che cos’è la lussuria? È usare gli altri e anche le cose non per il valore che hanno, ma per l’immediata comodità che riscuotono in noi. Io ti uso, uso una persona come fosse un mobile, perché mi è più comodo. Qualche giorno fa ero in autobus è ho visto un ragazzo che camminava con una ragazza e le ha girato

2 Dante Alighieri, Vita Nova, Cap.XLII 3 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, Canto I, v. 1-3

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la testa, così, per baciarla. Io vi assicuro che mi si è gelato il sangue nelle vene. Non l’ha mica picchiata, ma io era tanto che non vedevo un gesto di così terrificante violenza, come se premo il telecomando e ora mi devi baciare, ti giro la testa. Io ero in autobus e vi assicuro che sono rimasto congelato quando ho visto questa cosa. Questa è la lussuria di cui Dante parla all’inizio della Divina Commedia. “Ce la farei, forse, contro di questo. Ce la farei anche, forse, contro il leone della superbia”, che è il sentirsi i padroni del mondo. E Dante dice che veniva avanti con “rabbiosa fame”4, come l’immagine di tutte le guerre. Si fa la guerra perché? Perché si pensa di dover imporre sulla realtà un proprio previo schema. Ce la farei anche contro questi due mali terribili. Ma contro la lupa dell’avidità, della sete di potere – e la sete di potere non ce l’hanno solo i politici, ce l’abbiamo tutti; è il dire “le cose sono mie, nel modo in cui voglio io”, “meglio dominare che amare”, perché amare mi mette in condizione di ascoltare, di servire, di essere a disposizione… no! Io voglio dominare, voglio ottenere tutto e non dare nulla – contro questa, dice Dante, nessun uomo da solo ce la fa, e “io perdei la speranza de l’altezza”5 e precipitai di nuovo là “dove il sole tace”6. La prima sinestesia della letteratura italiana, quando voi accostate due sfere sensoriali diverse. Il sole è un fenomeno visivo, il tacere è un fenomeno uditivo. Dante com’è che ti dice che precipita nel buio: il luogo dove il sole tace, dove non parla più. Altro che Boudulaire, che ne farà di sinestesie, ma secoli e secoli dopo. Il buio è il luogo dove il sole non parla, bellissimo.

E lì, Dante – e guardate che in un poeta le parole hanno un peso decisivo – che cosa succede? Dice “mi si fu offerto”, offerto, donato, “chi per lungo silenzio parea fioco”7. Dante dice: “Proprio nel momento di buio assoluto, di disperazione, io vedo una figura che mi viene offerta – cioè mi viene presentata, donata senza che io me lo aspettassi, una gratuità che precede addirittura la richiesta di aiuto -, che però sta zitta, per così tanto che sembrò non avere voce”. E subito c’è il primo discorso diretto della Divina Commedia. E qual è la prima parola che Dante dice nella Divina Commedia: “«Misere di me [abbi pietà di me!] gridai a lui, «qual che tu sii, od ombra od omo certo!»”8; o un uomo o un’ombra, qualsiasi cosa tu sia tu sei l’unica cosa che io vedo, aiutami! E perché quella figura non parla? Perché doveva parlare prima Dante. Perché uno non ti può aiutare se non riconosci di essere aiutato; se non dici “Aiutami!” io non ti posso aiutare. La domanda deve essere di Dante, Dante deve chiedere altrimenti nessun aiuto lo potrà raggiungere. E quella figura, a quel punto, fa un passo in avanti e si presenta ed è Virgilio, lo scrittore preferito di Dante, lo scrittore che Dante amava di più, perché era quello che più dialogava la sua vita, con la sua

4 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, Canto I, v. 47 5 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, Canto I, v. 54 6 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, Canto I, v. 60 7 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, Canto I, v. 62, 63 8 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, Canto I, v. 65, 66

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umanità. Dante che cos’era? Era un esule. E di che cosa parla l’Eneide di Virgilio se non di un uomo a cui bruciano la casa, a cui ammazzano la moglie e che deve andare da un’altra parte. La stessa storia di Dante. Virgilio aveva parlato a Dante gettando come un ponte nei secoli con la sua opera. Il suo scrittore preferito. E Dante si commuove e dice “Aiutami, aiutami!”. Quanto è vera questa cosa, nella mia vita lo è, non so nella vostra: quante volte io sono stato afferrato per i capelli da qualcuno che mi ha portato una parola bella. I miei scrittori preferiti, i compositori delle musiche che io più amo, il secondo concerto di Rachmaninov, Lewis, Tolkien, Michael O’Brien, quante volte nei momenti di assoluto buio, in cui potevo avere messo in dubbio tutto, loro sono tornati a riportarmi una parola che ha ridestato il mio cuore. E io mi sono aggrappato a quella tenue traccia di bellezza che ancora persisteva nella mia vita. E Dante dice “Aiutami!” e Virgilio gli dice “Vieni con me, tu devi fare un cammino, un cammino lungo in cui dovrai fronteggiare tanto orrore, ma in cui arriverai, raggiungerai la felicità che sembra essere ormai definitivamente perduta”9.

Si mettono in cammino, ma Dante dopo poco si blocca. Perché? Perché Virgilio gli dice: “Noi dobbiamo attraversare il regno dei morti, andremo all’Inferno, vedrai tutta la desolazione, l’orrore, le tenebre, il buio, poi salirai la montagna del purgatorio e poi dopo non so che cosa ti attenderà”. Dante si blocca, ha paura. Dante dice: “Ma io non sono mica degno di fare un viaggio del genere”; e questo guardate che è una scusa, è una grande scusa, è una scusa terribile. Apparentemente Dante fa l’umile, dice “in Paradiso, all’Inferno ci è andato san Paolo, ci è andato Enea, io figuriamoci sono un poverino non posso fare niente”10. Virgilio gli dice: “la tua anima è da viltade offesa”11; cioè tu stai presumendo da te meno del tuo cuore, perché tu invece questo cammino lo desideri perché è vero, e invece ti stai tirando fuori perché hai paura di fare fatica.

Però Virgilio per convincerlo non gli fa un rimbrotto, gli dice: «Lo sai che questo viaggio non è mica stato voluto perché te sei bravo, buono e bello, ma perché te sei amato. Perché nel momento in cui tu eri nel profondo del male, dell’abiezione, che ti faceva tanto male da fuori, ma in cui tu eri tanto complice dall’interno, [nella selva oscura in cui Dante si era smarrito, perché lui aveva abbandonato la via], in quel momento tu non sei stato lasciato solo. Dio ancora una volta si è commosso per te; la Madonna dal cielo ti ha visto, si è commossa, è andata da santa Lucia [la santa a cui Dante era devoto e che è la protettrice della vista, ma anche della vista spirituale, cioè del vedere nella vita] e gli ha detto “Lucia, aiutiamo Dante”, e Lucia è andata da Beatrice in Paradiso [c’è come questa staffetta di donne dal paradiso che si preoccupano, dalla nostra mamma celesta, dalla Madonna, che coinvolge tutta una serie di persone fino a Beatrice]»12. Beatrice va all’Inferno e va da Virgilio e gli dice vai

9 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, Canti I, v. 91 sgg 10 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, Canto II, vv. 31-36 11 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, Canto II, v. 45 12 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, Canto II, vv. 49-126

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“dall’amico mio, e non della ventura”13. Questa è la definizione che Beatrice dà di Dante: ventura vuol dire accidente, casuale. Il mio amico, è l’amico mio non per caso; io quel giorno quando l’ho incontrato non era per caso, quello che è successo fra noi non era per caso. E come si presenta Beatrice: “I’ son Beatrice [guardate] che ti faccio andare;(…) amor mi mosse, che mi fa parlare.”14 Amor mi mosse. “L’Amore, con la A maiuscola, cioè Dio, attraverso la Madonna e santa Lucia, mi ha mosso e mi fa parlare”. Come si chiamerà, alla fine della Divina Commedia, Dio? L’amor che muove15, un amore che muove, vedete. E Beatrice qui sta giudicando la sua funzione nella vita di Dante; certo nel momento peggiore, quando Dante ha 35 anni, ma sta giudicando anche prima: “l’Amore mi ha mosso”. Quando quel giorno Beatrice è uscita, quando aveva 18 anni, è ha incontrato per la prima volta Dante probabilmente stava andando al mercato, stava andando a comprare il pesce, io non lo so. Ma Beatrice dal Paradiso dice: “Quel giorno era Amore che mi ha fatto uscire di casa anche se io non lo sapevo. Gesù dal Paradiso si è affidato a quell’istante in cui io ho incontrato quel ragazzo per raggiungerlo e io in quel momento ho detto di si”. Vedete quanto conta anche un istante nella vita di un uomo, guardate quanto dobbiamo al sorriso e alla disponibilità di una ragazzina per cambiare la vita di un’altra persona. E dice: “Questo è ancora più vero e più limpido oggi, più esplicito oggi dal Paradiso; è Dio che mi muove, che mi fa parlare”. Questo fa muovere anche Dante, Dante a questo punto si muove, cammina, infatti come finisce il canto “Allor si mosse, e io li tenni retro”16.

Vedete, questo racconta tutta la dinamica della vita dell’uomo, di ogni uomo; il meglio della vita sta nel riconoscere un amore che ci raggiunge, che si fa strada – perché Beatrice dal Paradiso non si fa problema ad andare all’Inferno, cioè è come se noi fossimo ficcati dentro un cespuglio di rovi e chi ci ama non abbia paura di tuffarsi dentro i rovi che gli straziano le carni per tirarci fuori-. Un amore che ci raggiunge è la mossa, la prima cosa, il nostro compito è tentativamente andargli dietro, riamarlo come ci è possibile.

Ed ecco che lì nasce la Divina Commedia. La Divina Commedia che cos’è? È il giudizio della Vita Nova esteso alla storia dell’umanità. Dante nella Vita Nova aveva giudicato il suo amore; nella Divina Commedia giudica tutto il mondo, giudica tutto, tutto quello che già c’era, perché nella Divina Commedia di che cosa parla Dante, che cosa vede all’Inferno, nel purgatorio, nel paradiso? Vede le tre grandi possibilità, o meglio le uniche due possibilità della libertà umana, in tutti coloro che avevano attraversato il suo cammino. I suoi scrittori preferiti, i suoi amici, i politici del suo tempo, le figure della Chiesa – i grandi santi o i grandi peccatori – le figure della

13 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, Canto II, v. 61 14 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, Canto II, vv. 70-72 15 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Paradiso, Canto XXXIII, v.145 16 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, Canto I, v. 136

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letteratura che lo avevano affascinato – Ulisse, Enea, Diomede, eccetera. Tutto è giudicato e quindi è finalmente percorribile.

Vedete il problema dell’inizio non c’è più, Dante può finalmente camminare, e questo cammino, che è il cammino della vita dell’uomo, chiede – uno – di guardare in faccia a tutto il male che l’uomo può fare, e questo è l’Inferno, la possibilità che la libertà dell’uomo ha di distruggere, rovinare, corrompere. E Dante tutte le volte nei momenti peggiori dell’Inferno sviene. Perché sviene? Perché capisce che quel male orribile, che vede in un altro, è possibile anche in lui. Quando lui vede Francesca da Rimini17, che per amore ha tradito il marito ed è finita all’Inferno e continua ad odiare il marito, Dante sviene perché si accorge che tante volte lui ha guardato Beatrice così, tante volte lui ha amato e ha ucciso gli altri in nome dell’amore, ha ucciso l’amore in sé. Infatti c’è quella terzina famosa di Francesca da Rimini che dice “Amor condusse noi ad una morte”18 e Dante sviene e dice: “No questa è una menzogna, l’amore non fa morire, l’amore non fa morire, quello che voi dite è una menzogna” seppure con tanti aspetti veri e struggenti. O quando vede Brunetto Latini19, il suo grande maestro che è all’Inferno e che è ancora pieno di dignità – ma è solo pieno della dignità di un uomo di lettere – Dante lo guarda e gli fa: “Siete voi qui, ser Brunetto?”20, e Brunetto Latini gli chiede solo una cosa: “Si legge ancora il mio libro?”21. Mamma mia, che cosa terribile. Tanti intellettuali magnificano questa cosa, ma a voi non vi fa… pensate Dante che vede il suo maestro all’Inferno che gli chiede “Ma si vende ancora il mio libro?” è proprio una posizione da intellettuali. “Ma voi siete qua privato della felicità eterna e vi preoccupate delle vendite del vostro libro?”. “Siete voi qui, ser Brunetto?”.

La cosa impressionante è che poi dopo Dante intraprenderà anche tutto il cammino invece del purgatorio che è il luogo dove si torna all’amore, cioè dove l’amore si fa di nuovo strada in noi e ci raggiunge e questo attraverso il dolore, un dolore che fa spazio a ciò che veramente conta nella vita, perché brucia tutte le obiezioni che ancora restano in noi. E poi al luogo della gioia vera ed eterna, il paradiso.

La cosa impressionante è che in tutto questo viaggio gli viene continuamente profetizzato – perché Dante ambienta la Divina Commedia un anno prima dell’esilio, poco prima dell’esilio, poco tempo prima dell’esilio – continuamente gli viene detto che lui sarà cacciato dalla sua città e vivrà una vita dolorosa, ma è molto interessante la diversità di prospettiva nelle tre Cantiche.

All’Inferno tutti i dannati glielo dicono solo per ferirlo, perché le forze del male possono solo questo alla fine nella vita, da sempre, dal giardino dell’Eden: porre

17 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, Canto V 18 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, Canto V, v. 106 19 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, Canto XV 20 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, Canto XV, v. 30 21 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, Canto XV, vv 118-120

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sfiducia nei confronti di ciò che Dio ci propone. Che cos’è che fa il serpente nel giardino dell’Eden? A Eva gli fa una cosa che è il più perfetto trattato di retorica che sia mai stato fatto. Che cosa dice il versetto della Bibbia? Dio disse agli uomini: “Mangiate di tutti gli alberi tranne che dell’albero del bene e del male”, e il diavolo gli fa questa domanda: “È vero che Dio vi ha detto di non mangiare di nessun albero del giardino?”. E io la spiego sempre così ai miei ragazzi. Eva gli fa “No. Di tutti sì, tranne che di quello”; ma se io dico a un mio amico: “È vero che tua mamma non ti vuole fare mai vedere gli amici?” e lui mi dice “No, non vuole che io esca tutte le sere”, lui però capisce benissimo che io gli sto dicendo una cosa molto più profonda: “Non ti devi fidare di tua mamma. Guarda che tua mamma è una che non vuole quello che te veramente vuoi, ti è nemica”. E nell’Inferno continuamente i dannati, che non possono impedire il viaggio di Dante – tutte le volte che gli sbattono le porte in faccia un angelo arriva e gliele fa aprire o Virgilio stesso dicendo: “Vuolsi così colà dove si può ciò che si vuole” – ma tutte le volte, visto che non possono fare altro gli danno sempre un ultimo colpo negli stinchi. Farinata degli Uberti22 gli dirà a Dante: “Guarda che tu presto saprai quanto pesa tornare a casa, tu pensi di avere un bel viaggio davanti, ma così non è”23. Brunetto Latini, che gli dice apparentemente una cosa bella, perchè gli dice: “Guarda sarai cacciato, ma non ti preoccupare perché Firenze non ti merita”24, gli dice una cosa terribile, ancora una volta una frase da intellettuale, cioè gli dice: “Chi non ti vuole non ti merita”, ma invece Dante ci tiene a quel luogo. Brunetto Latini è lui che ha il problema di non appartenere a niente e a nessuno e quindi non ha il problema di andarsene dalla sua città. Più avanti ancora, il ladro terribile, empio, Vanni Fucci, gli dice: “tu sarai cacciato e detto l’ho perché doler ti debbia”25, perché ti faccia male. E Dante tutte le volte rimane colpito perché questi dannati gli dicono: “Guarda che Dio ha in serbo per te una grossa fregatura che sta arrivando, pian pianino, aspetta e vedrai”. E Virgilio, che è veramente un padre e un maestro, quando la prima volta Farinata gli dice quella cosa, Dante va lì e gli dice: “Ma lui mi ha detto questo” e lui gli dice “Quando vedrai Beatrice lei, lei ti dirà di tua vita il viaggio”26, aspetta non ti stanno dicendo tutto. E quando Brunetto Latini gli fa questo discorso: “Non ti preoccupare, vattene in esilio come un premio nobel che non è stato meritato”, Dante dice: “Quello che voi dite me lo annoto e lo chioserò [lo commenterò] con un altro testo”27 che è Beatrice, cioè lo paragonerò con quello che mi verrà detto da lei, perché anche questo non mi torna.

Quando poi arriva nel Purgatorio le profezie si fanno più esplicite, ma ancora sono abbastanza vaghe, cioè le anime del Purgatorio gli dicono: “Guarda tu soffrirai, però

22 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, Canto X 23 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, Canto X, vv. 79-81 24 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, Canto XV, vv. 70-73 25 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, Canto XXIV, v. 151 26 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, Canto X, vv. 124-132 27 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, Canto XV, vv. 88-90

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questo è un dolore che è legato al dolore che noi viviamo qui, è un dolore che ultimamente è per un bene, aspetta, aspetta, abbi fiducia”.

Dov’è l’ultima profezia che viene fatta, definitiva, esplicita, talmente tanto che gli viene detto date, nomi, i colpevoli, che cosa gli succederà, ed è una profezia di una crudezza terribile, perché gli viene detto: “Tu lascerai ogni cosa diletta più caramente; (…) Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e’l salir per le altrui scale”28 quanto pesa mangiare il pane che ti dà un altro che ti fa “tieni, tieni”, quanto pesa salire le scale delle case degli altri – con gli altri che ti guardano dicendo “quand’è che te ne vai”, magari non te lo dico, ma te lo faccio pesare – sempre fuori, mai a casa tua, mai con la tua famiglia. Questa profezia gli viene fatta da un suo avo in paradiso, nel cielo dei martiri davanti alla croce di Gesù. Quel suo avo, morto martire, arriva e gli dice: “Guarda le cose stanno così, succederà questo; te puoi decidere come vivere questa circostanza, la puoi subire, odiandola, o la puoi abbracciare come io ho abbracciato il martirio, e questa sarà la croce della tua vita e il luogo dove tu sarai raggiunto dall’amore di Gesù e dove il tuo cuore, proprio perché ferito, si spalancherà e porterà tanto bene agli altri, perché tu avrai parole che cambieranno la vita di tante persone”. Dante dice di sì. Vedete, è come le due possibilità dei due ladroni accanto a Gesù: tutti gli uomini, tutti noi abbiamo dei chiodi nelle mani, ognuno di noi ha delle ferite, ognuno di noi, possiamo solo decidere come viverle. Come il cattivo ladrone, che urla, sbava e si ribella inchiodato o come il buon ladrone che guarda che c’è già un altro che ti ama e che ha quelle stesse ferite e che soffre per te. Per te e con te. E Dante, davanti alla croce di Gesù, che visivamente gli dice: “Il tuo dolore lo abbraccio io, lo vivo io, e ti chiedo di fare questo cammino con me, amico mio”, dice di sì. Questa è la speranza di Dante, questo è ciò che mi fa chiudere gli occhi la sera con speranza. Per questo Dante ha scritto l’opera che ha scritto. Dante come la chiama: “Il poema sacro a cui hanno posto mano e cielo e terra”.

Quando Dante vede la Madonna alla fine, nel Paradiso, cosa dice: “Nel ventre tuo si riaccese l’amore per lo cui caldo nell’eterna pace, così è germinato questo fiore.”, il paradiso, il grande fiore. Dante qui sta dicendo la dinamica di tutta la storia del cristianesimo; la Madonna ha accolto l’amore di Dio, una proposta d’amore che le è costata molto, tantissimo, quanto ben sappiamo. L’ha tenuto al caldo, l’ha scaldato e quindi “guarda Madonna che fiore che è germinato, infinito”. Questa cosa la possiamo dire anche di Dante, nel suo piccolo. Dante ha accolto l’amore che l’ha raggiunto attraverso Beatrice, attraverso Virgilio, tutti testimoni e messaggeri di quell’ultimo vero amore che è Dio. E quando Dante vede Dio come lo chiama: “Il sorriso dell’universo”. Quel piccolo sorriso che lo aveva raggiunto, ora trionfa davanti a lui. Ed è una persona concreta e precisa.

28 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Paradiso, Canto XVII, vv. 55-60

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È interessante che quando Dante, dico le ultime due cose, arriva sulla soglia del paradiso terrestre29 c’è un muro di fuoco e Dante non lo vuole attraversare, perché fino a questo momento lui ha visto le pene degli altri, ma adesso tocca a lui, lui deve attraversare queste fiamme. E Dante si blocca, ha paura; Virgilio si mette dentro le fiamme e gli tende le braccia30 – che è una delle immagini più commoventi della paternità di tutta la mia vita. I miei padri, i miei papà, nell’anima, nel mio cuore, sono queste persone qui. Vi posso fare nomi e cognomi: Michael O’Brien, don Giussani, Thomas Howard, Lewis, Tolkien sono persone che per prime si sono messe nel fuoco della vita e mi tendono le braccia e mi fanno “Vieni, vieni ci sono già io qui”. Però Dante ancora non si muove. Virgilio gli dice tutta una serie di motivazioni: “Ma come, hai fatto tutto il viaggio, Dio ti sta aspettando”, ma Dante non si muove, non si muove, il corpo ha paura, quando si tratta di fare una fatica anche tutti i motivi giusti non bastano. Virgilio gli fa: “Figlio mio, tra Beatrice e te c’è solo questo muro”31 e Dante fa un passo immediatamente in avanti. Virgilio gli prende le mani e gli fa: “Coraggio, i suoi occhi, i suoi occhi, i suoi occhi…”32, ripetendoglielo, ripetendoglielo Dante cammina dentro il muro di fuoco. Ci si muove così nella vita, non ci si muove per un idea, ci si muove per un volto amato. Talmente tanto che Dante quando vede Dio in paradiso, dice che “il mio viso in lei tutto era messo”33, e lì viso vuol dire sguardo, cioè io continuavo a guardarlo, e a guardarlo, e a guardarlo, perché “dentro da sé, del suo colore stesso, mi parve pinta della nostra effige”34. Perché nel cuore di Dio c’è una faccia umana, c’è un uomo da guardare. Dante dice: “Dio ci interessa così tanto perché ha una faccia, perchè ha un volto amabile, il volto di Gesù”.

Quello che vi dicevo prima, Dante ha detto di sì a questo amore, lo ha tenuto al caldo, perché… sapete cosa ha voluto dire scrivere la Divina Commedia? Probabilmente perdere la vista o quasi, al fango, pensate il fatto che Dante non sapeva neanche che fine avrebbe fatto, l’ha scritta a penna, a lume di candela, immaginatevi in un carrozzone sotto la pioggia, magari andando a Ravenna, senza avere i libri – Dante cita quasi sempre a memoria decine di libri, gli aveva imparati a memoria – facendo fatica, le rime, il problema di dire “ma magari non la leggerà nessuno”, ma lui ha detto di sì, ha scaldato l’amore che gli è stato proposto tenendolo al caldo come un bambino a cui si dà da mangiare tutti i giorni, se si sveglia di notte lo culli; e guardate che fiore che è germinato: non solo la Divina Commedia come opera che dura nel tempo e che cambia la vita di tanti, ma il fatto che noi stasera siamo qui. E noi lo dobbiamo a quella ragazzina, che ha camminato per la strada e che ha sorriso a quel ragazzo e alla fatica che quell’uomo ha fatto e all’amore e alla disponibilità con cui ha ospitato

29 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Purgatorio, Canto XXVII 30 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Purgatorio, Canto XXVII, vv. 19-33 31 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Purgatorio, Canto XXVII, vv. 34-36 32 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Purgatorio, Canto XXVII, vv. 52-54 33 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Paradiso, Canto XXXIII, v. 132 34 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Paradiso, Canto XXXIII, vv. 130,131

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quella novità, quella vita nuova, raggiungendo anche noi. “Amor lo mosse”, lo ha fatto parlare e questo raggiunge noi. Anche noi, visto che lui sta camminando e tendendo le braccia dal fuoco, tentativamente cerchiamo di andargli dietro come lui ha fatto con Virgilio. Io sono legato a Dante perché Dante è un mio papà nell’anima, perché mi ha portato una parola come a lui è stata portata e io non posso sdebitarmi con un uomo che mi tende le braccia così. E quanto dobbiamo essere grati a chi ospita un amore grande nella vita e fa la fatica di esprimerlo. Grazie della vostra attenzione.

Paolo Desalvo

Come lui ha detto all’inizio c’è spazio per qualche domanda se vogliamo approfondire alcune questioni. D. Ma sei giovanissimo?

In realtà signora ho settant’anni ma li porto molto bene. Sembri così giovane, come fai ad avere una mente così…

Non è questione di mente, sono solo cose vere, ho solo avuto soltanto la fortuna di incontrarle, basta. Mi consola il fatto che Dio ama anche gli asini, come dice la Bibbia. Però non tutti hanno questa fortuna.

Bisogna guardare bene: perché Dante ha scritto la Divina Commedia? Lui dice: “Io la scrivo in italiano perché la leggano anche et muliercule”, le connette di strada, cioè quelle che facevano il bucato, che non conoscevano il latino. Perché Dante l’ha scritta in volgare? Per filantropia? No! Perché lui è consapevole che ogni vita umana ha la divina dignità della sua. Talmente tanto che Dante è il primo poeta epico che fa epica su di sé: Omero ha parlato di Ulisse o di Achille, Virgilio parla di Enea. Dante fa un poema epico parlando di una ragazza che non conosceva nessuno, di suo nonno, dei suoi scrittori preferiti, dei politici del suo tempo; voi avete mai più trovato uno che racconta di sé così? Ma è un uomo umile, non è vanaglorioso, che è consapevole che la vita di ogni uomo è un avventura con questa dignità, per cui ogni vita umana ha questo valore. D. Io ho un contraccolpo più che una domanda, che non so bene esprimere. Mentre raccontavi dicevo: “Possibile, un solo sorriso?”. A parte la genialità dell’uomo, la grandezza umana, a me servono tanti segni nella vita, come una permanenza di questo bene eppure delle volte lo tradisco, eppure non lo guardo, e a lui è bastato un sorriso. Come ha fatto a capire che quel sorriso, come ha fatto a sentire l’accompagnarsi nella vita, la compagnia della sua vita di questo sorriso. Come ha fatto a non rimanere un atto isolato?

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È una domanda difficile, nel senso che non c’è una previa teoria, non c’è una previa

formula. La questione era se Beatrice era davvero ancora presente. E Dante ce lo ha fatto vedere; ha fatto vedere come la presenza di lei, la memoria di tutto quello che era accaduto, la sua presenza costante nella sua vita, continuasse a giudicare le cose.

Per cui non è che Beatrice è un’invenzione di Dante, non è che Dante tutte le volte che gli succedeva una cosa faceva: “Ma allora io devo paragonarla con il sorriso che mi è capitato quando avevo diciotto anni”. Certo quello era l’inizio, ma di un rapporto; Beatrice – lui ha detto: “È ancora qui, c’è ed è presente” –. Talmente tanto che gli dice cose che lui non si aspetta. Ne parlavamo a tavola: quando Dante alle pendici del Paradiso Terrestre… – se uno fosse un letterato un romanziere, questo qua ha attraversato tutto l’Inferno, ha visto tutto l’orrore, l’abiezione, il cannibalismo, la perversione umana e diabolica, demoniaca, satanica; ha visto tutto il Purgatorio, cioè tutto il dolore, la purificazione, la speranza – arriva davanti alla persona amata in un bel prato fiorito; cosa uno si aspetterebbe da un’opera di letteratura? I due che al rallentatore, con la musica di Morricone, si trovano, si incontrano e si abbaracciano. Giusto? E invece lei si toglie il velo e gli fa una parte terribile. Lo chiama per la prima volta: “Dante” – la prima volta che viene nominato il nome nella Divina Commedia – “Fermo. Guardami in faccia. Guarda quante volte tu hai tradito il bene che ti aveva raggiunto”35. E Dante si mette a piangere, singhiozza e Beatrice dice: “Non basta, non basta”, e lo fa guardare fino in fondo e Dante lì si spezza, cioè si spezza tutto l’orgoglio, riconosce che quello che gli è stato dato è puro dono e che lui lo ha tradito.

Però è ancora lì presente nella sua vita. E queste non sono cose che si inventano, perché se voi leggete Petrarca, vedete che in Petrarca, Laura è spesso la proiezione che Petrarca ha di sé. Magari gli dice delle cose anche più dure di quelle che gli ha detto Beatrice, ma è il grillo parlante che c’ha in testa lui, non è una presenza concreta, non è una compagnia alla sua vita. È una sfida Però non esiste una previa teoria, ci sono cose che non si spiegano, non si sezionano. D. Qual è la natura dei dissapori tra Dante e il Papa?

È un ottima domanda, che fa capire una cosa importante. Allora Dante era un Guelfo – quindi era un sostenitore dei privilegi del papato, non era un Ghibellino, non era un difensore a oltranza dell’imperatore – però era un Guelfo – oggi si direbbe moderato – un Guelfo bianco. Lui diceva che la Chiesa ha un’autorità suprema per il cammino nella verità ultima dell’uomo, però ci deve essere una giusta separazione tra potere laico e potere spirituale, è una cosa che nella Chiesa è stata una riflessione che ha occorso del tempo.

35 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Purgatorio, Canto XXX, vv. 55 e sgg.

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Bonifacio VIII era una personalità molto forte e molto importante e che aveva invece una pretesa anche espansionistica, cioè lui voleva ampliare lo stato della Chiesa a Firenze, o almeno voleva avere una forma di tutela, non è che voleva avere un controllo diretto. Qui non c’è una controversia di tipo dottrinale, ma di tipo politico, su una questione politica.

Dante è durissimo con Bonifacio VIII, lo chiama con delle parole impressionanti: “Principe dei nuovi farisei”, “Caifa”, “Giuda”, “cloaca del sangue e della puzza”36, cioè latrina, piena di sangue di fango e di escrementi.

Però – guardate è incredibile, ancora una volta un uomo che va oltre le proprie… quanto poteva avercela? Bonifacio VIII era stata la causa del suo esilio, perché quando Dante andò a Roma per un’ambasciata dal Papa, Bonifacio VIII lo fece trattenere con una scusa e intanto Firenze fu invasa dagli alleati del Papa e Dante fu cacciato, quindi Dante si sentiva ingannato da questa persona. Quindi aveva tanto motivo di rancore. Quando Bonifacio VIII fu fatto prigioniero dai francesi e ci fu il famoso schiaffo di Anagni, per cui un funzionario del Re di Francia, con la mano guantata di ferro, dette uno schiaffo al Papa, che era un uomo anziano, che per lo shock morì due settimane dopo – che non esisteva, non è mai più successo credo nella storia della Chiesa che un Papa sia stato malmenato in maniera così sudicia e irrispettosa – Dante, che aveva tutti i motivi per esultare – giusto?... immaginatevelo! – scrive nel Purgatorio: “Io vedo Cristo di nuovo flagellato”37. Dice: “Io posso non essere d’accordo con il Papa, ma lui è il vicario di Cristo e non si tocca, non si tocca”. Vedete, Dante non era una persona che non aveva rancori o sentimenti personali o anche parziali, ma aveva l’umiltà di andare oltre per quello che gli era successo; lui aveva giudicato che il Papa era il vicario di Cristo, questo era una cosa più profonda del fatto che lui fosse in contrasto politico con il Papa. Quindi il Papa non si tocca. Jacopone da Todi non fu così grande, perché quando il Papa fu imprigionato esultò. D. Io volevo chiederti una cosa, ne parlavamo già anche prima a tavola, l’accenno che tu facevi dell’incontro tra Dante e Beatrice in cima al monte del Purgatorio, dove Beatrice chiama per nome Dante. È la prima volta in tutta la Divina Commedia in cui Beatrice chiama Dante per nome, quasi come a dargli l’identità. Pensavo che quell’incontro lì è verissimo, che non poteva essere stato pensato a tavolino perché era una cosa assolutamente reale e mi impressiona il fatto che se si deve pensare ad una verità di rapporto tra un uomo e una donna, come dicevi tu all’inizio, quell’incontro lì fa proprio capire cosa vuol dire veramente la profondità di un rapporto, perché non è lasciato fuori niente, cioè un amore che ha dentro un giudizio, tanto è vero che Dante piange per le cose che sente dire da lei. Mi impressiona questo, perché quando si parla appunto di una compagnia al destino anche tra uomo e donna o tra amici pensare ad

36 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Paradiso, Canto XXVII, vv. 22-27 37 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Purgatorio, Canto XX, vv. 85-93.

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un’amicizia così, ad un rapporto così è veramente una cosa grandissima. Non so se sei d’accordo?

Si, assolutamente. È un’esperienza, appunto, impressionante. La Divina Commedia, se ne parlava a tavola, è il più grande poema della cristianità. Siamo credo d’accordo tutti. È forse la più grande… ci sono a mio giudizio tre o quattro opere che tengono testa, cioè sono le opere più belle della narrativa mondiale, però la Divina Commedia è forse l’opera poetica più grande che sia mai stata scritta.

Eppure apparentemente Gesù non c’è mai. Tranne l’ultima terzina in cui si vede la faccia di Gesù, o la croce nel Cielo dei Martiri, Gesù dov’è nella Divina Commedia? C’è invece sempre, perché c’è Beatrice. Beatrice è la carne umana, la storia umana – cioè la Chiesa – che ha raggiunto Dante. È questo il punto: cioè Gesù non è un’entità astratta o relegata nel passato. È Lui ed è in Beatrice, è dentro una storia di rapporti umani… scusa se ti interrompo, puoi ripetere quella frase di von Balthasar che ci dicevi prima… …von Balthasar diceva una cosa bellissima. Von Balthasar diceva, per far capire la differenza di mentalità: a un teologo moderno, un intellettuale moderno, anche un intellettuale cristiano moderno, spiritualista, che obbiettasse a Dante che guardare troppo Beatrice gli avrebbe ostacolato la visione di Dio, Dante non lo avrebbe neanche degnato di un’occhiata di compatimento. Anche se è vero – ed è impressionante anche questo -, che chi è segno del Mistero ti aiuta ad andare sempre oltre a sé. Ad un certo punto Dante è un po’ imbambolato davanti a Beatrice e lei si mette a ridere e dice: “Ma guarda un po’ intorno, non è mica tutto qui il Paradiso”. E questa è una cosa di un amore e di una delicatezza infinita. Ed è vera. D. Io scusa faccio la rompiscatole: però lei l’avrà incontrata un paio di volte in vita sua…

È vero… … non c’ha vissuto insieme, sembra molto una figura idealizzata. Allora mi chiedo: questo distacco, questo strappo, anche il fatto che lui abbia creato questa situazione, faceva finta di essere innamorato di un’altra, è come se ci fosse una separazione, un distacco. Sembra quasi che per avere questa chiarezza di che cos’è questa ragazza lui non ci si sia compromesso… capisci cosa voglio dire? Parliamo di concretezza, comunque questa ragazza è un fatto, però poi di fatto lui ne l’ha sposata, ne ci ha vissuto insieme…

Certo, ma perché non ha proprio il problema; il problema non era sposarsi con lei, Dante forse non era innamorato, nel senso eroticamente attratto da Beatrice, era solo successa. È lui, infatti, è solo contento che lei ci sia, basta. Il bene nella sua vita già c’è, perché lei c’è; lui dice: “Io potrei morire perché l’ho visto”. Per cui è vero che l’ha vista

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due volte, ma l’ha vista due volte! E poi la questione è se quando uno muore non c’è più oppure no.

A priori uno può dire tutto e il contrario di tutto – e lì bisogna vedere se invece… io appunto quello che vi ho detto prima ve lo ridico: io Tolkien, Lewis, Dante, non li ho mica incontrati sulla terra, ma io li ho incontrati, perché loro ci sono -.

C’è una frase di un grande scrittore, Oliviér Clement, che diceva: “Gli uomini vivi si incontrano”. Si incontrano due persone vive: spesso noi non incontriamo i grandi perché siamo noi che siamo morti, perché loro, nell’eterno, nella profondità di tutte le cose, ci sono, il loro cuore batte. Siamo noi che siamo addormentati e con il naso tappato e tante volte non li guardiamo.

Poi nel Medioevo non c’era il problema dell’amore legato al matrimonio, nel senso che c’era di più: ci si sposava per carità. Per carità, una cosa che non era legata ai flutti del sentimento o del sentimentalismo. Poi nasceva anche sentimento, tenerezza. Non so se avete letto Cristin, figlia di Lavrans: quello è un romanzo che fa vedere questa cosa, fa vedere come due persone che apparentemente non si piacevano, invece, abbracciando il compito che gli viene dato nella vita, scoprono una tenerezza verso l’uno e l’altro, che dura molto di più delle tempestose passioni delle altre persone che hanno intorno. Poi ci potevano anche essere i casi, ma nel medioevo ci si sposava per ragioni molto concrete di alleanze tra famiglie, circostanze che uno aveva vicino nel paese, eccetera. Ma questo non era sentito come un di meno, questo non impediva che uno potesse vivere in maniera sana una preferenza affettiva per qualcun altro.

Qual era il rischio, che Dante infatti intravede nell’amor cortese? Quello di Paolo e Francesca. Paolo e Francesca fanno una cosa legittima, amandosi, volendosi bene. Quand’è che sbagliano? Quando diventano amanti, quando fanno diventare questo bene, che è la presenza dell’uno all’altra, invece, alternativo alle realtà storiche che stanno vivendo, cioè il matrimonio con il marito o l’essere l’altro il cognato. Del resto anche Dante era sposato…

Dante era sposato e Beatrice era già sposata, ma non c’era proprio problema in questo senso. D. Io vorrei chiedere una cosa. Si parlava della speranza, ma dov’è la speranza mentre Dante è in mezzo alla selva?

Mentre Dante è in mezzo? Mentre sta camminando lì, dove la trova la speranza se è senza speranza?

In quel momento infatti lo è. La speranza lo ha raggiunto lì e gli ha chiesto: “Facciamo un’altra strada”. Virgilio quindi è la speranza

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No. Dio, e in Dio tutti coloro che sono stati disponibili a fare camminare Dante. Dante era smarrito e la sua speranza non è una sua capacità, non è che lui è riuscito alla fine della vita a rimettere tutto a posto. È stato che proprio quando lui era desolato, abbandonato e capace di tanto male, qualcuno ancora una volta è tornato lì e gli ha fatto: “Amico mio, amore mio, vieni con me”. Questo gli ha fatto rigettare una luce diversa su tutto, questa è la speranza di Dante. Dante da quel momento non scappa più: fino a quel momento forse poteva avere il problema di trovare una situazione comoda. Da quel momento lui abbraccia l’esilio, cioè lui dice: “Io non subisco più questa circostanza”. Non continuerò tutta la vita a dire “E però se stavo a Firenze stavo meglio”, ma dico: “Sei tu che lo che me lo proponi? Io vengo dietro di te anche se mi fa male, perché io ci tengo al rapporto con te, perché come mi guardi te non mi guarda nessuno”. Questa è la sua speranza. Bettocchi, un grande poeta, diceva: “Ciò che occorre è un uomo, una mano, cioè qualcuno che ti raggiunga” Una compagnia

Una compagnia alla tua vita, con una proposta per te, come dice Virgilio: “A te convien [le parole in un poeta sono importanti] tenere altro viaggio”38. Facciamo un’altra strada: ti farà anche molta paura, ma io ci sono e non sono solo io, c’è tanti altri che stanno camminando con te. Questa è la cosa che, più Dante va avanti nella Divina Commedia, dal segno apparentemente fragile di Virgilio, si arriva alla grande compagnia, all’esercito di tutto il Paradiso, che è lì che fa il tifo per Dante. Ed erano già tutti lì a combattere invisibili per lui. D. Io volevo chiedere una cosa. A me ha colpito molto, è affascinante la figura di Dante, però la mia domanda è questa: perché Dante era così? Era un genio lui… cioè ultimamente mi interessa essere come lui. È possibile, secondo te, per noi essere come lui oggi? E come?

Certamente. Facendo quello che ha fatto lui, cioè ospitando l’amore che ci raggiunge e dandogli calore, come dice della Madonna, cioè ogni giorno vivendo un rapporto di amore e di disponibilità con ciò che di bello, di vero e di buono raggiunge la nostra vita. Poi Dante era un genio, ma io non ho il problema di essere un genio, ma di amare e di essere amato si. D. Dante ha accantonato le prove che ha subito nei suoi anni.

Non ha accantonato, lo ha abbracciato. Ha smesso di dire: “Non va bene”, ma ha detto “Io vengo dove vai te” al grande amore della sua vita. Non ha detto: “Lasciamo perdere”, ma ha detto “Questa cosa conta perché mi permette di fare un’esperienza che cambia il mio cuore, perché tu me lo proponi”.

38 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, Canto I, v.91.

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Quindi non era perdono alla fine di tutto quello che gli è successo nella vita. Lui perdona anche, prega anche per persone che gli anno fatto del male, abbraccia tante cose, certo. Ma soprattutto è una esperienza di perdono su di lui, cioè lui è perdonato, lui è voluto bene, lui è raggiunto. E questo gli permette di guardare con occhi diversi anche a tutto quello che gli sta intorno Paolo Desalvo

Se non ci sono altre domande io vorrei ancora ringraziare Edoardo per l’incontro di questa sera, anche perché la cosa che più mi ha colpito personalmente è questa infinita possibilità che c’è dentro ad ogni cosa, cioè di non subire le cose della vita ma come ogni cosa che accade, anche la più sgradevole, la più contraddittoria, può essere la possibilità per un nuovo inizio, incipit Vita Nova.

Grazie.

Pro-manuscripto Testo non rivisto dall’autore