american gothic - maschietto editore · e laura monaldi, massimo cavezzali ... mezzo litro dopo...
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Con la cultura
non si mangia
Giulio Tremonti
(apocrifo)
AmericanGothic nella versione
recentemente acquisitadai Musei Vaticani
Maschietto Editore
Numero
219 286
27 maggio 2017
dall’archivio di Maurizio Berlincioni
immagine
NY City, 1969
La prima
Siamo ancora
nella zona dei
“Projects” e queste
due donne, madre
e figlia di origine
portoricana,
stanno sedute
su una panchina
nell’insopportabile
calura umida
dell’estate
della Grande
Mela. Erano
rispettivamente
madre e nonna
di una mia cara
amica. Due donne
molto dolci e
gentili, come la
maggior parte
degli altri amici
e parenti che
ho conosciuto
frequentando
questa simpatica
famiglia.
Direttore
Simone SilianiRedazione
Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti
Progetto Grafico
Emiliano Bacci
www.culturacommestibile.com
www.facebook.com/cultura.commestibile
Editore
Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142
Firenze tel/fax +39 055 701111
Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
Numero
219 286
27 maggio 2017
In questo numeroFortini il chiaro e l’oscuro
di Severino Saccardi
Fortunata di nome, ma non di fatto
di Mariangela Arnavas
Ciao Cate
di Carlo Cuppini
Materia viva
di Alessandro Michelucci
Berkeley il teatro della rivolta
di Danilo Cecchi
Storia del by-pass del Galluzzo - 6
di John Stammer
ZonaFranca, cultura da indossare
di Monica Innocenti
Ritrovare Pasolini
di Gabriella Fiori
Ceramiche Déco a Faenza
di Cristina Pucci
Cannes mon amour
di Simonetta Zanuccoli
Dimore divine
di Ines Romitti
e Laura Monaldi, Massimo Cavezzali, Lido Contemori, Gianni Biagi, Roberto Barzanti, Roberto Mosi, Romolo Perrotta...
Dario, il trasformista
Le Sorelle Marx
Tutti francescani con il lupo degli altri
I Cugini EngelsWaiting for Obama
Lo Zio di Trotzky
Riunione di famiglia
L’anice stellato, il racconto vincitoreè a pagina 17PRIMA EDIZIONE 2017
premio letterario
427 MAGGIO 2017
«È molto triste il destino dell’orso / Tutti gli
tirano ghiande sul dorso / lui morde l’aria
con mezzo morso / Quattro zampe un lun-
go percorso / Quattro pensieri un lungo di-
scorso»: non sono versi di uno scrittore per
l’infanzia, ma, curiosamente, di un autore
importante e “impegnato”, quanto versa-
tile, come Franco Fortini (Piccolo zoo, in
Poesie inedite, ed. Einaudi, Torino 1997). È
un profilo complesso da definire quello del
poliedrico Franco Fortini (in realtà, Franco
Lattes; il cognome Fortini è ripreso dalla
madre). Poeta, scrittore, saggista, polemista
politico e letterario, il grande intellettuale
scomparve nel 1994, a causa di una grave
malattia, segnata da non poca sofferen-
za, di cui poeticamente è frutto il piccolo,
coraggioso e commovente libro di versi si-
gnificativamente intitolato Composita sol-
vantur («Si dissolva ciò che è composto»),
pubblicato da Einaudi proprio nell’ultimo
anno della sua intensa vita. Era nato, Fran-
co, nell’«anno spartiacque» 1917, quello
della rivoluzione sovietica e dell’inizio del
«secolo americano». Vero avvio del «seco-
lo breve», secondo una certa lettura della
storia. Quasi un segno del destino. Quel
secolo di passioni civili Fortini l’avrebbe
respirato fino in fondo con veemenza e con
un forte coinvolgimento ideale. Era un let-
terato fine, colto ed erudito, ma certo l’iso-
lamento nella torre d’avorio non faceva per
lui. Chi volesse farsi un’idea del suo profilo
(non semplice da delineare: era, infatti, de-
finito talora «Fortini, l’oscuro», notazione
tutt’altro che da intendere come demerito)
dovrebbe forse ripescare in qualche biblio-
teca il bellissimo libro-intervista realizzato
dall’allora giovane ricercatore Paolo Jachia
(P. Jachia- F. Fortini, Fortini- leggere e scri-
vere, Marco Nardi editore, Città di Castello
1993). C’è tutto: ricostruzione biografica,
rapporto fra studio e vita, dialettica fra me-
moria e avvenire, impegno sociale, «questio-
ne religiosa» in molte sue declinazioni (dal
protestantesimo di Barth alla visione filoso-
fica del cattolico Augusto Del Noce) e poi il
dialogo intimo e intellettuale con tanti au-
tori: Gramsci, Sartre, Lukács, Goldmann,
Adorno, Benjamin, Bloch, Koestler, Silone,
Merleau-Ponty. Perché questo era anzitutto
Franco Fortini, in un modo e con uno stile
che alle generazioni a noi più vicine sono
difficili anche solo da immaginare: un in-
tellettuale con una spaventosa capacità di
lavoro, con una grande voracità nel leggere
di Severino Saccardi Fortiniil chiaro
el’oscuro
e una invidiabile capacità produttiva e pro-
fondità nello scrivere. Una cultura vissuta
con divorante partecipazione e al di fuori di
ogni separatezza. La cultura, secondo con-
cezioni come quella di Fortini, o fa tutt’uno
con la vita o non è. Va messa a disposizione
degli altri. Ma senza facilonerie, senza far
sconti ed in modo serio e rigoroso. Fortini,
che passa anche per l’esperienza dell’Oli-
527 MAGGIO 2017
vetti, attribuirà sempre un grande rilievo al
tema della formazione. Ne conosceva, del
resto, l’importanza: per alcuni anni, aveva
fatto anche l’insegnante di scuola media
superiore. Uno dei suoi molti ruoli: da gior-
nalista e commentatore di vaglia (e collabo-
ratore di riviste il cui solo nome rappresenta
una sorta di contrassegno di un’epoca, come
i «Quaderni Piacentini») a scrittore e poeta,
a docente (stimato) dell’Università di Siena
(dove ora il Centro Studi «Franco Fortini»
ne coltiva intelligentemente la memoria).
Il sapere, in ogni caso, senza perdere nul-
la della propria complessità, va trasmesso,
condiviso, passato ad altri. Senza disprez-
zare anche gli strumenti della divulgazio-
ne «alta» e di buona qualità. È con questo
spirito che, nell’«anno della contestazione»,
Franco Fortini pubblica l’interessantissimo
Ventiquattro voci per un dizionario di lette-
re (Il Saggiatore, Milano 1968). Spigolando,
fra le «voci» troviamo: Antichi e moderni,
Articolo, Assoluto, autobiografia, Baudelai-
re, Bouvard e Pecuchet, Cardarelli, Crona-
ca, Decadentismo, Dialogo, Eluard…Molti
sono i motivi per cui si poteva voler bene
all’intrattabile Franco Fortini (famoso per il
carattere pessimo, tendente alla litigiosità).
Se posso fare un riferimento personale, la
scintilla da cui rimasi folgorato di stima e di
ammirazione per questo atipico, controver-
so, e geniale scrittore la trovai in un articolo
del quotidiano «il Manifesto». Si intitolava
Mezzo litro dopo sussurri e grida. L’artico-
lo era, se non vado errato, del 1972 (il testo
è comunque reperibile in: F. Fortini, Non
solo oggi, a cura P. Jachia, una raccolta pub-
blicata dagli Editori Riuniti nel 1991); Sus-
surri e grida era un film del grande Ingmar
Bergman, da cui Fortini prende spunto per
parlare di temi esistenziali (come il dolore,
la malattia e la morte) quasi innominabili, in
tempi ancora dominati da una visione ide-
ologica che, interpretando dogmaticamente
il marxismo, anteponeva il «collettivo» e
marginalizzava il «personale», accusando
di «cedimenti idealistici, mistici e irrazio-
nalisti, chiunque osasse guardare» oltre il
«limite oscuro» dell’esistenza umana. Per
l’immanentista Fortini, la risposta alle an-
gosce derivante per l’uomo dal «limite oscu-
ro» della vita non può essere di carattere
religioso; ma rispetto al tema religioso, egli
(nato personalmente da padre ebreo non
praticante e da madre cattolica, anch’essa
non praticante, convertitosi al cristianesi-
mo di confessione valdese, cui aderirà per
un periodo, per approdare, poi, per la vita
a posizioni marxiste) denuncerà sempre la
limitatezza dell’interpretazione fornitane
dalle visioni scientistiche e grezzamente
materialistiche.
Mostrerà sempre un grande interesse per
personalità e percorsi segnati dal fuoco del-
la fede. Come quelli di don Milani e della
grande Simone Weil (entrambi, peraltro,
come lui, di origine ebraica). Per quest’ul-
tima (che in Italia fu iniziata a conoscere
soprattutto per merito di Adriano Olivetti),
Fortini nutriva un «sentimento doppio di
ammirazione grandissima e di resistenza»
(Fortini- leggere e scrivere, cit.). Qualcosa
di un radicalismo à la Weil doveva pur es-
sere politicamente connaturato all’indole
dell’inquieto scrittore. Di provenienza so-
cialista, ma non riformista, approdato poi
ad una sorta di comunismo eretico, del tutto
non togliattiano e marcatamente antistali-
nista. Inequivoco nel denunciare le degene-
razioni del «socialismo reale» di marca so-
vietica. Come nella bellissima Lettera a una
rivista sovietica (F. Fortini, Dieci inverni,
Feltrinelli, Milano 1957). Di Fortini, dico
la verità, nell’ultimo arco della sua vita, era
difficile accogliere le posizioni via via più
intransigenti che nascevano dal timore che,
di fronte al cambiamento di paradigma che
eventi come il crollo del Muro imponevano,
prevalesse la tendenza rinunciataria all’o-
mologazione alla logica dell’esistente. Si
manifestava allora, in lui come in altri, una
reazione istintiva di arroccamento e di chiu-
sura. Ma sono posizioni che pure avevano
un robusto nocciolo di «verità interna», a cui
veniva comunque, anche nel disaccordo, da
guardare con rispetto. Permaneva, fin negli
ultimi giorni, in Fortini la curiosità e l’inte-
resse per il mondo e insieme si manifestava
il senso di impotenza di fronte agli eventi
sconvolgenti che vi si manifestavano. Come
viene evidenziato nelle Sette canzonette del
Golfo (in Composita solvantur), particolar-
mente in questi versi di Lontano lontano:
“Non posso giovare, non posso parlare, /
non posso partire per cielo o per mare. / E
se anche potessi, o genti indifese, / ho l’ara-
bo nullo! Ho scarso l’inglese! / Potrei sotto
il capo dei corpi riversi / porre un mio fitto
volume di versi? / Non credo. Cessiamo la
mesta ironia. / Mettiamo la maglia, che il
sole va via.”. Chi era dunque Franco For-
tini? Forse il tratto distintivo (e l’elemento
unificante del suo multiforme talento e im-
pegno) lo si trova nell’azzeccato titolo di una
sua raccolta di scritti: Questioni di frontiera
(Einaudi, Torino 1977). Era un uomo «di
frontiera», Franco Fortini e, anzi la sua nota
caratteristica stava proprio nel muoversi su
più terreni e più dimensioni «di frontiera».
Ha un grande significato ricordarne la le-
zione in un tempo in cui, non solo in senso
materiale, ma anche a livello mentale e cul-
turale, tendono a rinascere barriere e muri
alti come e più di quelli contro cui egli si era
battuto per tutta una vita.
627 MAGGIO 2017
Francesco e francescanesimo sono diven-
tati ormai due must della politica italiana.
Essere francescani è diventato cool, fa figo
e, presumibilmente, voti. Fa impressione
che questa filosofia di vita, questo modello
morale faccia presa su persone apparen-
temente così diverse dal frate di Assisi.
Ora, dovessimo pensare ad un emulo di
Francesco il nostro pensiero non andrebbe
certamente a Silvio Berlusconi, eppure lo
avete visto tutti, dolce e mansueto, allattare
agnellini, crogiolarsi fra i cani e fondare
partiti animalisti. Manca solo che parli con
gli uccelli e addomestichi il lupo Salvini e
il gioco sarà fatto.
Poi Beppe Grillo, sì quelle del Vaffa Day,
delle contumelie contro la casta e tutti
quelli che c’erano prima, della politica
urlata a squarciagola. Durante la perso-
nale marcia Perugia-Assisi, Beppe tutto
di giallo vestito ha dichiarato: “Noi siamo
i francescani d’oggi” perché il reddito
di cittadinanza “non è una questione di
povertà, ma di dignità”. Anche se per la
verità, il poverello d’Assisi da ricco si era
fatto povero, cosa che non risulta di Beppe
Grillo. Né di Berlusconi, per quanto debba
continuare a pagare alimenti stratosferici
alla sua ex moglie. Grillo ha poi fatto una
scoperta incredibile: “Ho visitato la tomba
di san Francesco, sopra hanno costruito
una speculazione edilizia... Credo sia stata
condonata. Se san Francesco vedesse...”
… il quale, se vedesse, forse avrebbe ben
altro di cui scandalizzarsi, compreso l’uso
strumentale e improprio che certuni fanno
del suo movimento. Non risulta, infatti,
che Grillo e Berlusconi abbiano sposato le
fondamenta del movimento francescano,
cioè ascetismo, vita mendicante (forse, di
consensi...), cura d’anime e voto di povertà.
Ma tanto sulla scena politica italiana di
miracoli se ne vedono ogni giorno e quindi
anche del neofrancescanesimo grillino e
berlusconiano ce ne faremo una ragione.
Le SorelleMarx
I CuginiEngels
Dario, il trasformistaNo, non sarà ricordato con l’eponimo di Dario
il Grande il nostro sindaco di Firenze Nardella,
piuttosto con quello del Trasformista. Per sua
stessa ammissione. In occasione dei mille giorni
del suo regno, ha inondato le caselle di posta
elettronica della città con la sua newsletter
nella quale ci annuncia di voler “condividere
con voi i piccoli passi avanti fatti insieme,
perché Firenze sta vivendo la più grande tra-
sformazione degli ultimi 150 anni”. A parte il
gusto infelice per la contraddizione in termini
(piccoli passi – grande trasformazione, nemme-
no fosse l’allunaggio di Armstrong nel 1969),
Dario potrebbe forse farsi dare una consulenza
dall’enciclopedico Giani circa i fatti e fatterelli
che sono avvenuti a Firenze, anche in termini
di trasformazioni urbanistiche, negli ultimi 150
anni e ne avrebbe giovamento quanto meno il
suo stile comunicativo (ma sarebbe uno scontro
fra titani!). Ma Dario, come il musiliano Uomo
senza qualità (“- E che cos’è? - chiese Clarisse
sorridendo. - Niente. Niente, per l’appunto!
- rispose Walter”), ha concepito questa sua
grande Azione Patriottica o Azione Parallela
che nessuno (tanto meno lui) sa veramente in
cosa consista. Certamente tenta di trasformare
le più grandi ovvietà in fatti straordinari: la sua
newsletter ci informa che ha “parlato davanti
a tutto il consiglio comunale” (ma pensa te che
cosa inusuale, un sindaco che parla davanti
al consiglio comunale!), “ho spiegato le mie
ragioni ed ho ascoltato le motivazioni di tutte le
opposizioni” (altro fatto straordinario! Caso mai
avrà ascoltato anche la maggioranza, qualora
avesse avuto qualcosa da dire?), ma “sia chiaro,
non ho fatto la lista della spesa”. Ma nella new-
sletter sì e da questa si capisce che la Grande
Trasformazione è fatta parimenti di rastrelliere
e tramvie, di “guerra alle buche” (questo è il leit
motiv nardelliano: guerra a tutti, dal compro
oro ai minimarket, senza mai combatterne
una!) al rifacimento dei marciapiedi. La raccol-
ta differenziata dei rifiuti al 60%: straordinario
risultato, davvero. Peccato le la legge indichi l’o-
biettivo minimo del 65% e che quindi Firenze
non rientri neppure nella classifica dei Comuni
Ricicloni fatta ogni anno da Legambiente che
vede diversi Comuni arrivare oltre il 90%. E
poi ci sono i giovani e la cultura. E cosa ti cita
Dario il Trasformista? Oltre all’Estate Fiorenti-
na (che si fa da quasi 20 anni), la riapertura del
Teatro della Compagnia (che è stata realizzata
con finanziamenti della Regione, che ne è
proprietaria ed è gestito da Fondazione Sistema
Toscana), del Teatro Niccolini (che è proprietà
di un privato, che ha pagato interamente la
ristrutturazione) e del Museo degli Innocenti
(altra opera di diversi soggetti, meno che del
Comune). Sono i miracoli della Grande Azione
Parallela di Nardella, di cui possiamo dire ciò
che Musil diceva descrivendo la situazione di
Cacania: “Nessuna sapeva bene che cosa stesse
nascendo... Perciò ognuno ne diceva quel che
voleva”, a partire dal suo sindaco.
Tutti francescani con il lupo degli altri
727 MAGGIO 2017
disegno di Lido Contemori
didascalia di Aldo Frangioni
Lo Zio diTrotzky
La coppia presidenziale più amata del
momento ha fatto tappa in Italia e, in parti-
colare, in Toscana. Non si tratta di Trump e
Melania, né di Renzi e Agnese, ma di Barack
e Michelle Obama. Siamo stati informati
dalla stampa di ogni loro passo durante la
breve vacanza, e siamo solidali con i due che
non possono godersi neppure un momento
di relax dopo le fatiche di 8 anni di governo
e soprattutto lo shock della successione di
Trump. Ma ci ha incuriosito il fatto che
Michelle e Barack abbiano acceso un cero
alla Madonna nella cattedrale di Santa
Maria Assunta a Siena. Noi siamo riusciti a
cogliere il seguente colloquio fra i due.
“Barack, accendiamo un cero alla Madonna
in questa bella chiesa?”
“Ma Michelle, perché mai? Ormai lo hanno
capito tutti che non sono musulmano e che
la mia fede è fragile e intima”
“Senti Barack, fidati di tua moglie: un bel
cero alla Madonna non fa male di sicuro”
“Dai Michelle, non insistere: non vedo il
motivo. Non lo abbiamo mai fatto...”
“Senti Barack, smettila di essere so doubtful
(trad. cacadubbi) che mi sembra ti sia costato
abbastanza quando eri presidente. Ti spiego
perché dobbiamo accendere questo cero.
Dove andiamo domani?”
“Ah, credo a Firenze”
“E a fare cosa, bel musino mio? A fare
shopping? No, perché tu sei anche tirchio.
A vedere un museo? No perché tu ti annoi.
Andiamo a Firenze perché ci ha rotto le
scatole fino allo spasimo quel tuo amichetto
di Matteo Renzi perché andassimo a Firenze
a incontrarlo! Ecco, andiamo da quel pom-
pous asshole (trad. pomposo buco di culo) di
Renzi per fargli fare un selfie, tre fotografie
per i giornali e un po’ di riprese televisive per
la sua stramaledetta carriera politica. Che
bella vacanza di merda che mi hai regalato
Barack! E quindi per la giornata di domani
e per salvare il nostro matrimonio, mettiamo
‘sto cero alla Madonna”.
Nel miglioredei Lidipossibili
Elezioni A-nticipate
Waiting for Obama
827 MAGGIO 2017
Grande affluenza ieri pomeriggio all’inau-
gurazione della mostra dedicata a Her-
mann Nitsch nei locali della Limonaia
dell’ex-Convento dei Frati Cappuccini,
gentilmente concessi dalla Fondazione
Opera Santa Rita: un omaggio tutto pratese
a uno dei massimi esponenti dell’Azionismo
Viennese che, dopo esser stato presentato
nel Duomo di Prato nel novembre del 2016
e in Palazzo Vescovile in occasione della Fe-
sta degli artisti nel febbraio di quest’anno, è
stato celebrato in un nascente spazio espo-
sitivo che si spera avrà una continuità nel
nome dell’Arte Contemporanea e dei gran-
di artisti di fama internazionale. Durante la
conferenza, con interventi e saluti del Pre-
sidente della Fondazione Opera Santa Rita
Roberto Macrì, dell’Assessore alla Cultura
di Prato Simone Mangani, del Presidente
della Fondazione delle Arti Contempora-
nea in Toscana ed Economo della Diocesi
di Prato Irene Sanesi, nonché di Giuseppe
Billi, grande stimatore e studioso del Mae-
stro, è stata messa in rilievo, alla presenza di
Rita Nitsch, moglie e compagna di avven-
ture estetiche di Hermann, l’importanza
della Collezione Palli e di tutto l’evento in
sé, in quanto fulcro di valorizzazione e di
una passione artistica da riscoprire, lontano
dai tabù istituzionali e dai preconcetti che il
mondo attuale sembra ancora porre.
La mostra, visitabile fino al 15 ottobre, è un
raro esempio di coraggio e vitalità archivisti-
ca e non fa altro che ribadire che leggere Ni-
tsch significa interfacciarsi con un universo
unico e totale, con un connubio di cultura e
scienza, con l’apogeo della storia dell’uomo
che nell’azione estetica trova concretezza e
dimostrazione, in virtù della sua personale
ricerca volta a ristabilire, attraverso l’arte, lo
stretto legame con lo stato di natura dell’u-
manità: solo regredendo a tale stadio e col-
pendo il subconscio degli attori si verifica
la catarsi e la presa di coscienza che il lin-
guaggio ha perso qualsiasi valore e qualsiasi
funzione. Per riuscire a vedere nuovamente
Dio e percepire la sacralità nella vita, l’uo-
mo deve immergersi nella propria crudeltà
artificiosamente ricreata e da quella rina-
scere, come essere intellegibile con un valo-
re aggiunto rispetto alla massa.
di Laura Monaldi
L’universounico di Nitsch
927 MAGGIO 2017
disegno di Massimo Cavezzali di Paolo della Bella
to raro, il Comune della città valdarnese ha
curato la pubblicazione di numerosi libri e
CD col prezioso materiale documentario
raccolto dallo studioso.
Rapsodia toscana propone sei brani stru-
mentali arrangiati da Odori.
I pezzi somigliano a delle matrioske: cia-
scuno ne racchiude altri. In “Cecilia” si ri-
trovano due canzoni note, quella omonima
e “Donna Lombarda”; nella parte finale di
“Promenade” emerge “Mamma mia dammi
cento lire”. La lunga “Rapsodia” è un calei-
doscopio di suoni dove si sentono fra l’altro
“La Tea fa il bucato”, “Bianca regina fulgi-
da” e “Le fabbrichine”. Famiglia e lavoro,
politica e vita quotidiana, religione e lavoro:
temi semplici ma imperituri, nel quale cia-
scuno può ritrovare un pezzetto della pro-
pria esperienza umana.
Il musicista valdarnese, che come sempre
suona il clarinetto, è affiancato da strumen-
tisti di ottimo livello. Fra questi spiccano
il figlio Sergio, impegnato alle percussioni;
Damiano Puliti, il violoncellista che ha con-
diviso con Odori l’entusiasmante percorso
di Harmonia Ensemble; l’arpista Diana Co-
losi, che ha suonato con numerose orchestre
italiane e straniere.
Accurata come sempre, la confezione inclu-
de un libretto con testi dei due autori (Odo-
ri e Priore), di Pietro Clemente e di Sergio
Chienni, sindaco di Terranuova Braccioli-
ni. La tradizione non è un curioso resto del
passato, ma un cuore che batte, una materia
viva che respira. Il musicista che l’ama vera-
mente è in grado di reinterpretarla e rinno-
varla. Orio Odori è uno di questi.
Era scritto nel grande libro del destino che
Orio Odori e Valter Colle avrebbero rea-
lizzato un progetto discografico comune.
Il primo, toscano, ha alle spalle un percor-
so che spazia dalla musica contempora-
nea (Harmonia Ensemble) alla rilettura in
chiave moderna della musica bandistica (la
Banda Improvvisa). Il secondo, friulano, è il
fondatore delle Edizioni Nota, un’etichetta
nata da una passione sincera e sostenuta da
solide base etnomusicologiche. Dalla Sar-
degna al Friuli, dalla Maremma all’impero
ottomano, il suo catalogo offre una grande
varietà di musiche tradizionali. Dischi fatti
con amore, curati fin nei minimi particolari.
Il frutto della loro collaborazione è Rap-
sodia toscana. Echi e suggestioni di canto
dall’Archivio di Dante Priore (Nota, 2016).
È stato appunto questo studioso l’anello di
congiunzione fra Odori e Colle. Nato nel
1928 a Montenero di Bisaccia (CB), Prio-
re vive da oltre mezzo secolo a Terranuova
Bracciolini. Qui ha raccolto una grande
quantità di musiche legate al mondo conta-
dino e tradizionale in genere. Caso alquan-
di Alessandro Michelucci
Materiaviva
MusicaMaestro
SCavezzacollo
Della Bella gente
1027 MAGGIO 2017
Franca Margherita Severini della Casa Editrice
“ZonaFranca”: sei nata come giornalista!
Ho studiato in Inghilterra, mi sono specializ-
zata in Storia dell’Arte e quando sono tornata
in Italia ho iniziato a lavorare come giornalista
d’arte, per riviste come “Ville e Casali” e “Il
giornale dell’Arte”. Poi fui inviata in Argentina
dove, a fronte di una complicata situazione po-
litica, la cultura univa la popolazione: conobbi
gli editori più in voga dell’epoca.
Rientrata in Italia, decisi di misurarmi con la
produzione editoriale italiana e, nel 2006, nac-
que “ZonaFranca”, dove raccogliamo quelle
che, a parer nostro, sono le voci più autorevoli
su argomenti come viaggio, arte antica, cucina,
filosofia, poesia.
Ad esempio Paolo Febbraro, che cura la pagina
di poesia del Sole 24 ore; Daniela Marcheschi,
premio Rockefeller per la critica letteraria;
Giovanni Sias; grande studioso di psicanalisi;
Ajazzi Mancini, il traduttore di Rilke e Kafka
per Mondadori; Nanni Delbecchi de “Il Fatto
Quotidiano”.
Quali sono i progetti futuri?
Uno di questi, per il quale la Casa Editrice ha
un accordo con la Fondazione Casa Pascoli e
con il Vittoriale degli Italiani, s’intitola “Magni-
fiche Presenze” ed è incentrato su due capisal-
di della nostra letteratura: Giovanni Pascoli e
Gabriele D’Annunzio, sui loro carteggi e la loro
vita. Ci saranno due mostre: dal 1 Giugno al
Vittoriale e dal 3 giugno a Castelvecchio Pasco-
li. Poi la pubblicazione di libri legati ai musei,
come “Inno all’Olivo” di Giovanni Pascoli, che
gli fu commissionato nel 1901, che inseriremo
anche nel progetto di “Magnifiche Presenze”;
cataloghi fotografici; nuovi progetti da indossa-
re per la città di Viareggio; mostre al Vittoriale
degli italiani.
ZonaFranca e la moda.
In generale, Zona Franca si occupa di bellezza:
sia bellezza che ci arriva attraverso le parole e
la cultura, sia bellezza da indossare, che è poi
il progetto che abbiamo realizzato. L’idea di
“indossare la cultura”, si concretizza in borse,
astucci e foulard, realizzati dai migliori artigia-
ni italiani; tutto è Made in Italy, in collaborazio-
ne con una nota azienda fiorentina e gli articoli
sono acquistabili dal sito di Zona Franca e pres-
so il nostro showroom a Barga, uno dei più bei
borghi italiani.
Parliamo delle copertine che utilizzi; carta rici-
clata, cartone: copertine ...tattili, diverse.
Costituiscono una parte del nostro modo di
fare editoria, usiamo materiali di recupero ed è
una scelta che molti apprezzano.
In collaborazione con la Prefettura di Lucca,
abbiamo affrontato il tema del disagio
giovanile proprio attraverso uno que-
sti volumi; la Questura, ha distribui-
to un questionario in tutte le scuole,
“S.O.S. Angeli” del Dott. Bertolucci.
Con le psicologhe ha elaborato le risposte
e la sintesi del tutto ha creato un’istantanea
del mondo giovanile: ho voluto seguire perso-
nalmente, come editor e casa editrice, l’intero
progetto, che è stato presentato dalla Prefettura
con la Regione Toscana.
Quali sono i tuoi focus? Le donne, la Città di
Lucca…?
L’imprenditoria femminile: sono vice presiden-
te del comitato per l’imprenditoria femminile
di Confindustria Toscana Nord. Mi occupo di
dare valore all’imprenditoria
femminile per la zona di Luc-
ca attraverso azioni dirette,
per dato culturale e non per
generalizzazioni: non parlia-
mo di quote rosa, ma di ricono-
scere la forza e la qualità del lavoro
femminile.
Con Confindustria abbiamo costituito un
gruppo, unico in Italia, che nasce dall’acroni-
mo “Frida” ovvero Formazione Relazione In-
formazione Donna, un protocollo che unisce le
donne e le Istituzioni: ne vado fierissima.
La casa Editrice ZonaFranca (www.zfzona-
franca.it) ha sede in Lucca, piazza S. Romano,
15.
di Monica Innocenti ZonaFrancaculturada indossare
Foto diPasqualeComegna
Mitoraj a Pompei
1127 MAGGIO 2017
ne comprenda il motivo, si trascina dietro,
anche nella vita privata , un paziente ragaz-
zino con la sindrome di Down, comparsa di
cui non si capisce affatto il significato. Per
il film, forse perché presentato a Cannes,
sono stati fatti paragoni illustri, a mio pa-
rere del tutto inappropriati, come Mamma
Roma di Pasolini; un bianco e nero essen-
ziale, asciutto che puntava come una frec-
cia alla tragedia finale, straziante, assoluta;
lontano dal film di Castellitto come un’altra
galassia. Ancora, lo stesso regista ha parlato
della sua protagonista come di una “Bovary
di periferia” enunciando di fatto una tau-
tologia perché Emma Bovary viveva, non a
caso, nella profonda provincia francese, da
sempre periferia di Parigi e proprio dalla
sua ansia di evasione e di fuga verso la capi-
tale era mossa nei suoi comportamenti.
Comunque Fortunata non ha proprio nes-
suna somiglianza con Emma; la parruc-
chiera del film non è una donna annoiata e
ambiziosa, narcisista, piena di fantasie, non
ne ha nemmeno il tempo, è sempre in corsa
come molte donne di questi tempi e il suo
sogno è solo quello di aprirsi un negozio di
parrucchiera , lasciando uno spazio all’ami-
co Chicano per i tatuaggi; è una donna, de-
privata nell’infanzia ,affannata e povera in
cerca di una felicità possibile.
Quel che viene in mente, guardando Fortu-
nata ovvero Jasmine Trinca nei suoi affanni
quotidiani e nei primi piani, spesso felici
e intensi, è la Giovanna Ralli di tanti epi-
sodi di film commedia all’italiana, vicino a
Gassman o a Manfredi, spontanea, schietta
e spesso disperata; per lei vale la pena di ve-
dere il film.
Fortunata di nome,ma non di fatto
Se volessimo usare un’espressione sintetica
per dare un’idea complessiva di Fortunata,
il film di Castellitto presentato a Cannes,
dovremmo usare la parola “troppo”, davve-
ro troppe, infatti, le tematiche che si affac-
ciano in questo film: la vita di una madre
separata con una bambina di 8 anni e un
lavoro al nero, il marito stalker, lo stupro, la
periferia romana, gli orfani, le problemati-
che dell’infanzia trascurata, l’ambivalenza
nel rapporto tra genitori e figli, gli immigra-
ti di seconda generazione, le banche che
danno soldi solo a chi li ha già, gli usurai
che strozzano la povera gente e poi la tos-
sicodipendenza, la malattia mentale, l’Al-
zheimer, l’eutanasia, la ludopatia, la cabala,
gli annegati e infine anche il teatro e Anti-
gone, passando per l’Acquario di Genova e i
suoi delfini. E non tutto si tiene anche se la
prima parte del film, grazie all’idea felice di
una protagonista, Fortunata, interpretata da
una Jasmine Trinca davvero brava, parruc-
chiera a domicilio, sempre di corsa, in mini-
gonna e canottiere colorate, che si trascina
un trolley con gli arnesi del mestiere e una
figlia piccola sempre arrabbiata per la man-
canza di attenzione, arrancando sulle zeppe
(pare si sia davvero slogata una caviglia) per
le strade sterrate fra Torpignattara, la via
Casilina e il Parco Sangalli si presenta viva-
ce e soprattutto vitale. Si passa da una casa
all’altra, tra la borgatara romana anziana e
verace, la bellissima usuraia cinese, le coat-
te con le extension a colori in terrazza con
le ascelle ossigenate; un universo femmini-
le brulicante, intervallato da passaggi per
l’Acquedotto Alessandrino e i locali dove si
gioca al lotto, dove traccheggiano gli amici
di Fortunata e il compagno della sua infan-
zia e di sogni, il Chicano, ben interpretato
da Alessandro Borghi con la madre malata
di Alzheimer, ex attrice di teatro, nel film
Hanna Schigulla. Ma quando, nella secon-
da parte del film, la narrazione, dall’affresco
concitato e caotico, vira verso la tragedia, il
film si spappola, perde di senso, addirittura
ci sono incongruenze: in particolare, ap-
pare del tutto incongruente la figura dello
psichiatra infantile che prende in cura la
piccola figlia di Fortunata (molto brava),
uno Stefano Accorsi poco convincente, for-
se perché giustamente poco convinto dal
personaggio, che abbandona la cura della
figlia per amoreggiare con la madre, salvo
scoprire di avere una deontologia quando
la nuova compagna diventa ingombrante e
imbarazzante e che, perdi più, senza che se
di Mariangela Arnavas
1227 MAGGIO 2017
continua ricerca di una identità. Dopo quattro
anni pubblica il suo libro, ma confessa che attra-
verso le sue immagini ha come l’impressione di
avere “preso qualcosa alle persone senza avergli
dato niente in cambio.” Come se, catturando le
immagini, avesse carpito loro qualcosa di inti-
mo, delle confessioni riservate solo a parenti
ed amici, tutte cose che lui mostra in pubblico,
attraverso i suoi libri e le numerose esposizioni.
“Molto tempo dopo avere scattato ed essermi
dimenticato delle persone, ritrovo i loro volti
sui miei negativi e sulle mie stampe. Come se
queste persone fossero entrate a far parte della
mia famiglia, suscitando per questo in me dei
sentimenti contrastanti”. A distanza di oltre
quarant’anni Nacio Jan Brown pubblica le sue
immagini di Telegraph Avenue su Internet, e
chiede alle persone che si riconoscono in esse
di contattarlo, per ricostruire in qualche modo
quel legame che si era stabilito, fugacemente, al
momento dello scatto. In questo senso la foto-
grafia, forse, ha davvero il potere di riportarci, in
qualche modo, indietro nel tempo.
Berkeley il teatro della rivolta
La fotografia, si dice, ha il potere di riportarci
indietro nel tempo. E forse in questa afferma-
zione c’è qualcosa di non completamente sba-
gliato. Sarà allora questo il motivo per cui si ri-
stampano con una frequenza sempre maggiore
le vecchie foto, e soprattutto i vecchi fotolibri,
per la maggior parte quelli che ci raccontano
le epoche ed i momenti non troppo lontani nel
tempo, magari solo pochi decenni. Epoche e
momenti che quelli della mia generazione an-
cora ricordano per averli vissuti, direttamente o
indirettamente. Il fotografo californiano Nacio
Jan Brown decide così di ristampare nel 2011
una versione ampliata di un suo famoso fotoli-
bro del 1975, dal titolo “Rag Theater - Berkeley
1969-1973”. Berkeley, come ognuno sa, è una
località nei pressi di San Francisco, ed è la sede
della più importante delle università pubbliche
degli USA. Come ricordano quelli della mia
età, Berkeley è stata anche, fino dai primi anni
Sessanta, il focolaio delle rivolte studentesche
e la culla di quell’idealismo radicale di sinistra
che poneva al centro della questione politica i
temi delle libertà personali, dell’alienazione, del
disagio e dell’autoritarismo, arrivando a teoriz-
zare, a sognare ed a pensare di vivere la rivolu-
zione. E’ soprattutto Telegraph Avenue che fa
da sfondo alle manifestazioni degli studenti di
Berkeley, ed è in questo contesto che Nacio Jan
Brown fotografa, non solo gli scontri con la po-
lizia, ma tutto il fiorire di una controcultura ba-
sata sulla ricerca della libertà individuale, da re-
alizzare attraverso l’uso indiscriminato di sesso,
droga, musica ed arte, ma soprattutto sul rifiuto
del sistema economico - militare posto alla base
della cultura americana. Il lavoro di Nacio Jan
Brown si polarizza attorno a Telegraph Avenue,
in particolare sul “blocco” 2400, un luogo che
all’epoca rappresenta la sintesi di tutto quanto
si muove attorno alla protesta, al rifiuto dell’a-
merican way of life, alla elaborazione di nuove
ideologie e di modelli di vita alternativi, raccon-
tando quel periodo storico che molti presero sul
serio per una vera e propria rivoluzione. Tele-
graph Avenue era lo specchio della Berkeley
non convenzionale, una sorta di enclave bohèm-
ien, frequentata da hippies e punk, bikers, an-
timilitaristi e gente comune, un luogo in cui si
potevano trovare giornali e libri in lingue stra-
niere, croissant e caffè espresso, sigarette turche
e Gouloises, in cui si poteva ascoltare musica
barocca e popolare, si potevano frequentare caf-
fé letterari, gallerie d’arte contemporanea, e ve-
dere film in lingua straniera. Nacio Jan Brown
lavora a stretto contatto con questo ambiente e
con questo tipo di umanità, estremamente varia
e differenziata, in continuo mutamento ed alla
di Danilo Cecchi
1327 MAGGIO 2017
per governare a Firenze. Ora che la nuova
strada è stata realizzata, e il Galluzzo sarà al-
leggerito di una quota significativa di traffico,
i cittadini potranno appropriarsi sempre di
più dei loro luoghi. Uno di questi è la piazza
Acciauoli, centro dell’abitato e luogo di in-
contro, di mercato, di giochi infantili passati
e recenti. Bene ha fatto la locale Misericordia
a organizzare la consueta cena annuale non,
come nel passato, lungo il viale dei Tanini
nella zona dei Giardini, ma proprio nella
piazza Acciauoli. Il 16 giugno centinaia di
abitanti del Galluzzo vivranno la loro piazza
finalmente più libera dal traffico e dall’inqui-
namento acustico e atmosferico. Il luogo che
nell’ottocento era stato pensato come fulcro
del nuovo paese in espansione potrà dimo-
strare di essere ancora la Piazza del Paese
stretta attorno al monumento ai suoi caduti.
(continua)
Lunedi 29 maggio sarà il gran giorno. Alla
presenza del Ministro delle Infrastrutture
e Trasporti Graziano Del Rio sarà aperto
al pubblico transito il By Pass del Galluzzo.
Un’opera attesa da oltre 50 anni sarà percor-
ribile da tutti, e anche dalle prime polemi-
che, che a dire il vero non sono mai mancate
in tutti questi anni. Ma si sa discutere, pole-
mizzare, arrabbiarsi, è parte di un modo tut-
to toscano, e più in particolare fiorentino, di
“apprendere”. Il processo di conoscenza, di
acquisizione di concetti, di appropriazione
di un’idea, di un’opera, di una parte di città
non può prescindere a Firenze da un’aspra,
ironica, dissacrante e spesso anche diverten-
te discussione. Ne abbiamo esempi illustri
anche su opere d’arte celeberrime a comin-
ciare dal David di Michelangelo. Quindi
perchè meravigliarsi se alcuni commercianti
del Galluzzo abbiano sentito il bisogno di ri-
marcare che la nuova strada sarà sicuramen-
te bella e utile, ma più funzionerà e peggio
sarà per il lorocommercio poichè distoglierà
quantità crescenti di possibili clienti dal pas-
sare davanti alle loro botteghe. Oppure come
non ricordare che alcuni abitanti del Galluz-
zo ebbero molto a lamentarsi quando, con
la prevista apertura del nuovo ponte Bailey,
tutto il traffico in direzione sud in uscita da
Firenze sarebbe passato, come poi è avve-
nuto, proprio davanti alle loro finestre nella
strettissima via Volterrana. Non avevano tor-
to quei cittadini come non hanno torto quei
commercianti dal loro specifico e particolare
punto di vista. Spetta al decisore pubblico
coniugare le diverse e contrapposte esigenze
degli utenti urbani (spesso una stessa perso-
na manifesta esigenze diverse da soddisfare
sullo scenario urbano in periodi diversi della
stessa giornata a seconda che in quel momen-
to sia un pedone, un automobilista, che cer-
chi un luogo dove mangiare, un luogo dove
sostare all’ombra, ecc.) cercando un minimo
comune denominatore che faccia prevale-
re l’interesse complessivo della comunità.
Con pazienza e anche con ironia. Quando
fu chiuso al traffico il tratto urbano di via
Senese nel tratto compreso fra la piazza e
l’accesso alla Certosa del Galluzzo, chiusura
necessaria per poter ricostruire il ponte della
Certosa, la “vox populi” disse che era stato
fatto proprio in quel periodo perchè un noto
esponente politico del partito di maggioran-
za aveva temporaneamente la propria dimo-
ra in quel tratto di strada. E il noto esponente
politico si guardò bene dallo smentire una
notazione palesemente falsa. Occorre ironia
di John Stammer
L’attesa sta per finire
Storiadel by-passdel Galluzzo
6
1427 MAGGIO 2017
Caterina Poggesi è scomparsa il 26 no-
vembre scorso, all’età di 42 anni, dopo una
lunga malattia che non le ha impedito fino
all’ultimo di portare avanti i suoi progetti e
le sue molteplici attività. Figura di grande
spessore artistico, intellettuale e sociale, ha
dato un impulso e un contributo straordi-
nario alla vita culturale fiorentina, toscana
e italiana.
Nel suo percorso ha proposto formati sem-
pre nuovi di esperienze artistiche e sociali,
unendo la sua formazione di psicologa, la
sua attività di teatrante (attrice, regista e
drammaturga), la sua vocazione di pedago-
ga, formatrice e ‘facilitatrice’.
Nel 1998 ha fondato, con Cristina Aba-
ti, Carlo Salvador e Tommaso Taddei, la
compagnia di ricerca teatrale Gogmagog.
Pochi anni dopo, con Giacomo Bernocchi,
ha dato vita al gruppo Anonima Scena. Nel
2006 ha fondato l’associazione Fosca insie-
me a Maria Pecchioli e a Paola Maritati, il
suo progetto più ampio e radicato, fucina di
incessanti sperimentazioni e contenitore di
originali progetti artistici, di formazione, di
intervento sociale, di promozione cultura-
le. Fosca, che in questi dieci anni ha visto
molte persone avvicendarsi alla direzione
accanto a Caterina, continua a esistere e a
crescere, grazie alle decine di soci attivi nei
diversi filoni della sua progettualità. Oltre
ai propri progetti, Caterina Poggesi ha col-
laborato con le principali realtà del con-
temporaneo, a Firenze e non solo, dando
contributi fondamentali per la creazione di
modalità di lavoro innovative: Virgilio Sieni
e Cango Cantieri Goldonetta (dove ha dato
un apporto fondamentale per la definizione
iniziale dei progetti tra formazione, trasmis-
sione e creazione dell’Accademia sull’Arte
del Gesto), Tempo Reale, Fabbrica Europa,
Teatro Studio di Scandicci, Novaradio, Vi-
vaio del Malcantone.
Ricordiamo qui Caterina Poggesi attraver-
so un estratto di una lettera scritta da Carlo
Cuppini all’indomani della scomparsa.
Ciao Cate,
tu non ci sei più, la tua casa è vuota, ma io
ti vorrei parlare. In questi ultimi tuoi giorni
– prima, durante e dopo la tua scomparsa –
hai riunito una grande comunità di persone
che ti volevano bene, che ti stimavano, che
si riconoscevano nelle tue tracce e visioni.
Una umanità varia e coesa, tenuta insieme
da invisibili ma potenti fili, che per quattro
giorni si è spostata da una parte all’altra del-
Ciao Cate,non ti abbiamo
dimenticato
di Carlo Cuppini
1527 MAGGIO 2017
la città, per cercarti, pensarti, guardarti, sgo-
mentarsi, applaudirti, ringraziarti, toccarti,
piangerti, trattenerti.
Per giorni e notti ci siamo spostati da Scan-
dicci a Careggi, da Cango ancora a Careggi,
alla chiesa dei Cappuccini. Qualcuno, già
prima, passando da casa tua vicino a piazza
Giorgini, con te ancora presente, anche se
incosciente; qualcuno accompagnandoti il
giorno dopo fino a Livorno e poi a Castiglion-
cello, per gli ultimissimi atti. Una geografia
di luoghi dell’anima a te cari. In ognuno di
questi luoghi cercavamo te, e trovavamo noi
stessi, gli uni con gli altri.
La grande festa per i dieci anni di Fosca al
Teatro Studio di Scandicci, organizzata da
tempo e accaduta proprio in contemporanea
con la tua dipartita, e che comunque si è
svolta, grazie alla forza dei tuoi amici e col-
laboratori: selvaggia, energica, rumorosa e
sensuale come l’avevi pensata. Musica, bal-
li, travestimenti e grida, fino a notte. E chissà
in quale baratro sprofondavi in quelle ore, o
in quale corridoio di luce ascendevi. (E come
non pensare che quel giorno –fatalità – era il
giorno di Santa Caterina.)
La notizia della tua morte, la sera seguente.
Dunque era vero. Era possibile. Ed era ac-
caduto. Ce l’avevano detto subito, una set-
timana prima, che era irreversibile, finale,
questione di giorni o di ore. Ma chi ci poteva
davvero credere? In miracolo si può sempre
sperare. Lo stesso miracolo che ci tiene in
vita ogni giorno: strutture così fragili come
noi siamo, in mezzo al caos, al caso, agli
incidenti della materia. Un miracolo deve
succedere, soprattutto in questi frangenti.
Il miracolo ti avrebbe ripresa per i capelli, ti
avrebbe svegliata – come il principe azzurro
la bella addormentata.
Il miracolo invece non era prolungare il tuo
calvario, concedendoti altre settimane. Il
miracolo è stato vederti nella bara, bellissi-
ma e intatta, la mattina dopo, domenica, pie-
na di fascino silenzioso, assorta, con il sorriso
che ti contraddistingueva, con i tuoi migliori
vestiti di scena, la spilla di Fosca sul petto.
Bella, riposata, come prima della malattia.
Come se questi sette anni fossero passati
senza ombra del male.
Poi il pomeriggio ai Cantieri Goldonetta, in
una bottega di falegnameria, per assistere
alla tua ultima regia: una poesia intensa, do-
lente, che richiamava l’assenza, la distanza,
le parole di Elisa Biagini veicolate attraverso
le voci disincarnate di tre donne non veden-
ti. Pubblico assorto e concentrato, appeso
ai movimenti di quelle labbra, aggrappato
all’apparire e sparire delle parole in mezzo
alla polvere di segatura sospesa. Seduti per
terra, tutti accalcati.
Un lunghissimo applauso, che ti chiamava,
ti richiamava tra noi, in mezzo al tuo lavoro,
all’energia che avevi evocato, una durata di
mani che ti voleva trattenere. Che si illudeva
di potere non finire mai.
Poi ancora a Careggi, alle Cappelle del Com-
miato, tra i tuoi parenti, tua madre – tua
madre – tuo padre, le tue sorelle, per vederti
ancora un’ultima volta. Così serena e rilas-
sata. Quasi con l’imbarazzo di rubarti un
momento di intimità estrema: il volto vero
– ma di una verità spaventosa – ancora più
che nel sonno, solo con se stesso, assorto, sen-
za espressione o tensione, senza protezione.
Il giorno dopo, lunedì, il funerale. La chiesa
dei Cappuccini strapiena, in una mattina
limpida e fredda, piena di sole, il vento che
spazzava via le foglie appena ingiallite dai
rami, che l’autunno mite aveva fino a quel
momento risparmiato. Tanta gente nel piaz-
zale che non riusciva ad entrare. La bara
sigillata. Dov’eri? Già volatilizzata? Noi
c’eravamo, tantissimi, un corpo solo, fragile
e potente nel lasciarsi andare, stentando a la-
sciarti andare. I discorsi vibranti di un frate.
Dopo tutti a mangiare dai Briganti, cos’al-
tro ti saresti aspettata? Gli spaghettini aglio
e pomodoro, un brindisi con un bicchiere di
vino, ancora lacrime, ricordi, qualche risata.
“La Cate ha detto se si va tutti a mangiare.”
Come dopo un incontro o uno spettacolo al
Frau, l’ex barbieria in piazza Giorgini ani-
mata da Fosca con innumerevoli e preziose
occasioni.
E noi tutti che adesso non sappiamo che
fare. Come continuare. Esattamente come
in “Tangeri”, quel tuo piccolo capolavoro:
tre minuti di pura immersione in un sogno,
e poi doversi all’improvviso svegliare, e an-
dare.
Hai sempre voluto mischiare l’arte e la vita,
la vita e l’arte, attraverso un preciso progetto
esistenziale. L’arte vissuta come vita, la vita
vissuta come arte, lo stesso sogno, lo stesso
desiderio a sostenere entrambe. La tensione
che, come nelle ore delle rivoluzioni, trasfor-
ma per un breve momento gli individui in
esseri solidali, mille braccia e un solo cuore
che batte, una sola intelligenza trasversale.
Qualcosa che somiglia all’alchimia, e all’a-
more.
Ecco. Adesso sei andata ben oltre. L’arte e la
vita. La morte. Un progetto molto ardito. Fa
male pensarlo, sembra una retorica roman-
tica e macabra. E so che se tu avessi potuto
scegliere tra questo grande spettacolo e al-
tre ore di vita, probabilmente avresti scelto
la vita. Ma è andata così. E non si può dire
altro che è stato tutto perfetto. Niente di im-
provvisato.
Dobbiamo esserti molto grati per questa pre-
cisione. Per quanto di potente e grandioso –
e fragile, ma perdurante, anche se difficile da
conservare – ci hai lasciato. Che è un compi-
to, un progetto, una direzione, una responsa-
bilità, un’energia, uno stare, una promessa,
un impegno, una sfida, un legame, un mi-
stero: una grande utopia che non possiamo
trascurare.
1627 MAGGIO 2017
La prima edizione del concorso “Raccon-
ti Commestibili”, organizzato da Cultura
Commestibile e Maschietto Editore, si è
conclusa domenica 21 maggio con la pre-
miazione dei sei finalisti e dei primi tre clas-
sificati, con due ex aequo per il terzo posto.
La cerimonia si è svolta presso il Ristorante
Caffetteria La Loggia al Piazzale Michelan-
gelo, che ha collaborato all’organizzazione
del concorso. I tre membri della Giuria tec-
nica, Marco Vichi, Sandra Salvato e Fran-
cesco Mencacci, hanno consegnato gli atte-
stati e letto le motivazioni. Hanno animato
l’incontro le letture di Lorenzo Degli Inno-
centi e la musica del M° Francesco Furlani-
ch del Maggio Musicale Fiorentino.
A questa prima edizione hanno partecipa-
to 50 autori (di cui pubblichiamo qui sotto
i nomi), di età, provenienza geografica ed
esperienze letterarie completamente di-
verse. Il tema assegnato, “il cibo”, è stato
declinato nelle forme più varie e originali,
raccogliendo con vigore la sfida lanciata:
nei racconti si trova la chiave dell’ironia, la
critica sociale, il cibo inteso come strumento
della memoria, come pretesto per innescare
meccanismi narrativi legati ai più vari gene-
ri, come oggetto del desiderio, come malat-
tia, aspirazione, riscatto, ricatto. Si trovano
anche ricette, accanto a parodie dei reality
show più in voga e a revisioni grottesche del
culto della personalità degli chef che carat-
terizza i nostri tempi. Naturalmente, non
è mancata l’accezione del cibo come nutri-
mento: del corpo, della mente e dell’anima.
Il livello è stato elevato e per entrambe le
giurie (quella di selezione, composta dai re-
dattori della rivista e della casa editrice, e
quella dei letterati, che ha decretato i vin-
citori) non è stato facile operare le scelte e
le inevitabili esclusioni. I dieci racconti ar-
rivati in finale saranno pubblicati su queste
pagine, a partire da questo numero con il
primo classificato.
Hanno partecipato:
Vincitori:
Giacomo Aloigi – primo classificato
Serena Barsottelli – seconda classificata
Francesca Mazzotta – terza classificata ex
aequo
Valentina Formisano - terza classificata ex
aequo
Finalisti:
Elena Mariottini
Fabrizio Vanni
Giacomo Miniussi
Paolo Cocchi
Paolo Marini
Vincenzo Striano
Gli altri partecipanti:
David Bargiacchi
Sonia Barsanti
Alessandro Bonanni
Alessandra Borsetti Venier
Bianca Cacioli
Ugo Caffaz
Andrea Caneschi
Sofia Chilleri
Francesca Ciraolo
Maurizio Corradini
Francesco Cusa
Angela D’amario
Leonardo D’aprile
Giampaolo Di Cocco
Lucia Evangelisti
Rosanna Farmeschi
Sergio Favilli
Federico Giachini
Roberto Giacinti
Cristina Giuntini
Antonella Imbriani
Rahma Kouki
Elena Lampugnani
Lida Lombardi Neri
Noemi Lombardi
Francesca Lorimer
Maria Grazia Lotti
Vanessa Lucarini
Nicoletta Manetti
Giada Matteucci
Valentino Moradei
Maria Cristina Nascosi
Riccardo Neri
Lucrezia Pei
David Ponti
Cristina Pucci
Tania Puglia
Alessandra Raddi
Angela Rosi
Laura Saba
Vincitorie premiatiPRIMA EDIZIONE 2017
premio letterario
1727 MAGGIO 2017
Raul Petrini era un uomo all’antica. Apparte-
neva a quella generazione che voleva i mariti
fuori a lavorare e le mogli a casa a occuparsi
dei figli e delle faccende. Però a Raul e alla
Ester i figli non erano venuti. Così aveva voluto
Dio. All’inizio c’erano stati male, erano anche
andati da un professore di quelli bravi che gli
aveva spiegato che la Ester aveva un problema
dalla nascita che non si poteva riparare. Erano
tornati a casa con le lacrime agli occhi. Poi si
erano abbracciati e avevano proseguito la vita
insieme.
Una vita lunga, quasi cinquantacinque anni di
matrimonio. Erano stati bene, lui e la Ester. La
gente li nominava sempre in coppia, Raul e la
Ester, come fossero una persona sola. Diceva-
no che col passare del tempo si assomigliassero
anche d’aspetto. La Ester – la chiamavano tutti
così, con l’articolo senza apostrofo – s’era dedi-
cata interamente a Raul, curandolo in tutto. La
mattina si alzava per prima e gli portava il caf-
fè a letto, poi andava a preparare la colazione.
Mentre lui mangiava gli stirava la camicia e gli
metteva gli abiti stesi sul letto. “Cosa ti preparo
oggi?” gli chiedeva ogni volta quando lui stava
per uscire e ogni volta lui rispondeva “Fai te”,
che tanto sapeva che la Ester era una cuoca ec-
cezionale. Poi però la Ester se n’era andata. In
pochi giorni, senza lamentarsi, come per non
disturbare. “Che faresti se rimanessi da solo,
non sei buono a niente!” gli diceva a volte per
prenderlo in giro. Ora Raul era rimasto solo per
davvero. Lui e la Ester non parlavano molto,
ma soltanto adesso la casa gli sembrava piena
di silenzio.
Erano passate due settimane dal funerale. Non
aveva ancora rifatto una volta il letto e man-
giava solo frutta e tagliatelle che comprava a
porzioni già pronte al negozio di alimentari del
paese. Quella mattina stava cercando un fil di
ferro nel cassetto della credenza, quello dove
ci si butta ogni ben di dio: spago, fermagli, na-
stro isolante, guarnizioni e via dicendo. Stava
tirando fuori tutto quanto a suon di sacramenti
e senza accorgersene urtò un vaso che era so-
pra la credenza, facendo cadere a terra l’Artusi
della Ester che era appoggiato proprio al vaso.
Il libro finì a terra e si aprì come un ventaglio,
facendo volar via un foglietto di carta. Lo rac-
colse e riconobbe subito la scrittura rotonda
della Ester. “Anniversario”, c’era scritto, “Torta
di mele all’anice stellato”. Lei gli faceva sempre
una torta in occasione del loro anniversario di
matrimonio, che per l’appunto sarebbe stato il
giorno successivo. La Ester, prima d’ammalarsi,
aveva già pensato che dolce preparargli.
Raul lesse la ricetta: farina, zucchero, uova,
burro latte, lievito, mele, anice stellato. Non
sembrava difficile, a parte per quell’anice stel-
lato che lui non sapeva cosa fosse.
Si mise la giacca e andò dall’Alda, all’alimen-
tari. Comprò tutto l’occorrente, a parte quell’a-
nice stellato che anche l’Alda non conosceva.
“Dev’esser roba esotica” gli disse “qui in paese
non ce l’abbiamo, devi andare in città”. Raul
salì in macchina e prese la provinciale, anche
se era un bel po’ che non guidava. Non si ri-
cordava che ci fossero così tante automobili in
città. Le guardava di qua e di là che gli passava-
no a pochi centimetri. E alla fine si dimenticò
di guardare davanti e tamponò un furgoncino
che lo precedeva. L’autista scese e cominciò a
urlargli contro che era un vecchio rimbambito
e che gli dovevano levare la patente. Raul era
mortificato, in fondo non gli aveva fatto quasi
niente al furgoncino. Rimase zitto e firmò un
foglio colorato che quell’altro gli mise sotto al
naso senza neanche capire che cosa fosse. Ri-
salì in macchina e lì per lì non si rammentava
nemmeno perché era sceso in città. Poi si ricor-
dò che era per via di quell’anice stellato.
Lì vicino c’era un supermercato. Entrò e co-
minciò a domandare un po’ a tutti i banchi
e ogni volta lo mandavano da un’altra parte.
Dopo vari tentativi trovò quello giusto e uscì
soddisfatto con la bustina di anice stellato in ta-
sca. Una volta a casa si mise a preparare la torta.
Versò in una ciotola farina, zucchero, lievito e
uova. Aggiunse latte e burro. Tagliò le mele e
le mise in una padella dove aveva sciolto zuc-
chero e burro e aggiunse quell’anice stellato.
Quando le mele furono caramellate le sistemò
nella teglia, ci versò sopra l’impasto e quindi in-
fornò. La ricetta diceva per 30 minuti. Si sedet-
te ad aspettare. E si addormentò. Fu svegliato
dall’odore di bruciato che aveva invaso la cuci-
na. Corse a tirare fuori la torta che era ormai
solo un disco nerastro. Buttò tutto nell’acquaio
e andò a letto. La mattina dopo si alzò presto.
Sulla tavola era rimasto un mucchietto di stelli-
ne di quell’anice. Se le mise in tasca e uscì. Nel
cimitero non c’era ancora nessuno. Sistemò le
stelline di anice intorno alla foto della Ester.
La carezzò con un dito. Forse era il vento, ma gli
sembrò di sentire una voce che gli diceva “Lo
vedi che non sei buono a niente?”.
L’anice stellatodi Giacomo Aloigi
Motivazione della giuria tecnica:
Una breve storia, dal sapore romanzesco, che
in poche righe riesce a creare un’atmosfera
magica, raccontando con delicatezza un pro-
fondo legame d’amore che la morte non può
interrompere.
Una scrittura di efficace semplicità, senza
inutili virtuosismi, al servizio della storia, ci
accompagna con leggerezza nel mondo dei
due protagonisti, in una corrispondenza di
amorosi sensi che si rivela attraverso un ingre-
diente dal nome suggestivo: l’anice stellato.
Marco Vichi
Nota biografica:
Giacomo Aloigi è nato e vive a Firenze. Ha
scritto di cinema sulle riviste “Amarcord-Il
lato oscuro del cinema” e “Selen”. Sua è la
sezione “Omicidi in prima serata-Il thrilling
nella fiction e nei film tv” nel libro Sotto gli
occhi dell’assassino (Edizioni Profondo Ros-
so, 2001). Ha collaborato al volume Sexy
Eroine-Erotic Heroins in Movies (Edizioni
Glittering Images, 2003). Nel 2005 pubbli-
ca il suo primo romanzo, il noir Buio, a cui fa
seguito, nel 2007, il thriller Sabbia in bocca
(Polistampa). Nel 2009 prende parte alla rac-
colta Delitti a regola d’arte con il racconto Sil-
via e il quadro (Del Bucchia). Nel 2014 esce
Gotico Fiorentino, giallo ambientato nella Fi-
renze “dark” dei primi anni Ottanta (Mauro
Pagliai). Da sempre si occupa di delitti e fatti
di cronaca nera, di cui ha pubblicato numero-
se schede e profili.
Primo classificatoPRIMA EDIZIONE 2017
premio letterario
1827 MAGGIO 2017
Vorrei dedicare qualche parola, ed immagi-
ne, alla mostra “Ceramiche Dèco, il gusto
di un’epoca”, presso il Museo Internazio-
nale delle Ceramiche di Faenza, che, come
in altre occasioni, collabora con i Musei di
San Domenico di Forlì dove è in corso la ma-
gnificente esposizione “L’Art Dèco,gli anni
ruggenti in Italia” di cui poi parlerò. Faen-
za approfondisce il tema che gli è proprio
esibendo manufatti della sua collezione in-
sieme ad altri presi in prestito per l’occasio-
ne. Si ammirano statuette, donne, volti, uno
piccolo e delizioso Lenci, damine, danzatori
e danzatrici, animali sinuosi, oggetti d’uso,
tipo serviti di piatti e da caffè, uno da bam-
bino, (se chi li possiede ne rompe un pezzo si
suicida direttamente), vasi bellissimi di ogni
forma e dalle più varie decorazioni, alcuni
di Giò Ponti e di Galileo Chini, acquerelli,
manifesti. Una intera e ricca sezione è dedi-
cata ad artisti che si sono formati alla scuola
di Faenza, un’altra agli italiani in genere ed
infine una anche agli stranieri, alcuni mai
visti e comunque da noi meno noti, oggetti
originali e molto belli, “la scultura di atleta”
di colore verde si muove con linee futuriste,
un ibis e una faraona hanno piume così re-
alistiche che sembrano morbide ed arrivano
da Copenhagen, vasi, altre teste di donna
ed altri pericolosi serviti di tazze. Fra tutti
scelgo di parlare e di mostrarvi le opere di
Francesco Nonni, artista a me del tutto igno-
to e davvero interessante. Impara giovanis-
simo l’arte dell’intaglio presso l’Ebanisteria
Casalini e la Scuola di Arti e Mestieri di Fa-
enza. Disegnatore ed incisore fino alla prima
guerra, si dedica alla ceramica fra il 1920 ed
il 1930, modella piccole plastiche che ven-
gono realizzate da Melandri, Zoli e soprat-
tutto Bucci. Le sue statuine rappresentano
raffinatissime ed eleganti damine, Pierrots
dalle larghe bavere bianche e i larghi costu-
mi rotodeggianti dalle delicate decorazioni,
danzatori in pose plastiche a cavallo di leo-
pardi, fanciulle in ceramica nera con splen-
didi riccioli d’oro in tono con i grandi fiori
gialli dei loro abiti. Deliziosa “la fanciulla
con levrieri”, l’abito della ragazza, bianco
con delicate roselline laterali svolazza, in-
torno a lei due levrieri neri, uno cammina
l’altro come se saltasse per farle le feste, un
di Cristina Pucci
Ceramiche Déco a Faenzaalbero frondoso si inchina intorno al gruppo
e insieme all’erba di un prato le fa da corni-
ce. Qui, a Faenza, si può ammirare un ine-
dito esemplare del suo “Corteo Orientale”
complessa e luccicante composizione in cui
sono rappresentati al meglio elementi esotici
ed orientali tipici del gusto Déco. Un grande
elefante ricoperto di drappi dalle ricche de-
corazioni dorate ed azzurre trasporta, seduta
su un cuscino appoggiato sulla sua groppa,
una donna, vestita solo con un copricapo a
ventaglio, un corteo di, immagino, schiavi
neri e schiave danzanti, con turbanti, fla-
belli ed anfore di profumo lo scortano , ten-
gono al guinzaglio flessuosi e sottili levrieri,
un ghepardo ed un leopardo, l’insieme è al
contempo chic e kitsch, mosso e fantasioso,
bellissimo. Domenico Rambelli, scultore
esimio di cui abbiamo da poco ammirato a
Brisighella l’imponente ed originale monu-
mento ai caduti che rappresenta un soldato
addormentato, espone alcuni vasi decorati
con fiori ed un elegante ciotolone a due strati
separati da sfere dorate in pendant con ana-
logo vaso. Due parole per il poliedrico archi-
tetto Giovanni Guerrini, di cui compaiono
bellissimi manifesti, coppe di vetro ed oggeti
d’uso fra cui geometriche scatole di radica ,
specchiere dorate dalle appuntite decorazio-
ni, e coppe da gelato in maiolica ed argento
così belle da esibire alla vista degli ospiti in
una apposita vetrina e mai e poi mai usare!
1927 MAGGIO 2017
di Simonetta Zanuccoli
Domenica 28 maggio finisce la grande kermes-
se del Festival del Cinema di Cannes 2017.
Quest’anno è stata un’edizione speciale perchè
si è festeggiato i 70 anni dalla sua nascita. L’i-
dea di creare un festival in opposizione a quello
di Venezia nacque a Philippe Erlanger, allora
direttore dell’ Association Francaise d’Action
Artistique. Secondo lui e a un gruppo d’in-
tellettuali francesi la manifestazione italiana
risentiva troppo dei legacci del regime fascista
che aveva imposto, ad esempio, nell’edizione
del 1938 la proiezione del documentario nazi-
sta Gli Dei dello stadio di Riefenstahl e Lucia-
no Serra pilota di Goffredo Alessandrini. Dopo
aver selezionato 10 città francesi che potessero,
almeno in parte, competere con il fascino di Ve-
nezia, fu scelta, in un primo momento, Biarritz
ma poi Cannes fu ritenuta la più adatta per le
sue spiagge e il clima incantevole. Il Festival
doveva iniziare i primi di settembre del 1939
ma il progetto fu drammaticamente interrotto
perchè proprio in quei giorni Hitler invaden-
do la Polonia faceva precipitare il mondo nel-
la Seconda Guerra Mondiale. Così il debutto
della manifestazione fu rinviato al 1946 con
49 film di 19 nazioni, la giuria composta di
personalità solo francesi (e rimarrà tale fino al
1954), la Croisette vestita a festa e una parata
di leggende del cinema, già affermate o pronte
ad esserlo, su quello che diverrà il mitico tappe-
to rosso. Il Festival è stato punteggiato di figure
simbolo di diversi tipi di femminilità che cam-
biavano con lo scorrere degli anni: dalla tragica
bellezza di Anna Magnani che con Roma città
aperta di Rossellini vincitore del Grand Prix
come miglior film (1946) divenne una delle
attrici italiane più famosa a livello internazio-
nale, all’ ingenuamente maliziosa Brigitte Bar-
dot, giovanissima, che nel 1953 sulla spiaggia
di Cannes faceva i primi passi da diva coperta
solo del suo famoso bikini. E poi Claudia Car-
dinale che, splendida Angelica nel Gattopardo
di Visconti del 1963, fece sognare la platea bal-
lando con il bellissimo Tancredi (scusate sono
della generazione per la quale Alain Delon era
l’uomo più affascinante nel mondo) nel salone
di palazzo Gangi a Palermo sotto gli occhi gelo-
si del principe di Salina (famoso divenne, a sua
insaputa, un ghepardo che nei giorni del Festi-
val passeggiava sulla Croisette tenuto a guinza-
glio. Tutti credevano che fosse la pubblicità del
film di Visconti e invece era del circo Franchi
appena arrivato in città). La bionda eleganza
di Catherine Deneuve che dopo il suo debutto
nel 1964 con Les parapluies de Cherbourg di
Demy, diventerà una presenza fissa a Cannes
(quest’anno è stata vice presidente nella giuria).
E ancora, nel 1992 la bionda Sharon Stone si
confermerà sex symbol con torbida scena cult
in Basic Instinct di Paul Verhoeven e la bruna,
mediterranea Monica Bellucci che nel 2000
fece il suo debutto a Cannes e quest’anno, per
la seconda volta dopo il 2003, è maitresse de
cérémonie del Festival. A l’oro di 18 carati del-
la Palma, che rappresenta il simbolo della città
impresso un po’ dovunque, e che non è stato
disegnato da Cocteau, come vuole la tradizio-
ne, ma da Suzanne Lazon, quest’anno saranno
aggiunti diamanti per un valore complessivo di
20.000 euro. Il prestigioso trofeo in edizione
lusso fatto da Chopard, gioielliere ufficiale del
Festival, sarà duplicato anche in versione più
piccola da 2.000 euro per i premi minori. Ogni
anno il Festival di Cannes è un incontro artisti-
co e mondano che attira molti produttori, attori,
registi e agenti da tutto il mondo. La spiaggia
viene letteralmente allestita per accogliere fe-
ste serali il cui costo per partecipare varia dai
5.000 agli 11.000 euro. I prezzi degli apparta-
menti e degli alberghi salgono a cifre da capo-
giro. Una suite di 1000 metri quadri sul tetto
del Martinez costa 38.000 euro a notte, men-
tre è sconosciuta la cifra di quella più costosa
di Cannes, al 7° piano del Hotel Majestic, con
piscina in terrazza e sala di proiezione privata.
I 60 metri di tappeto rosso, immortalato da mi-
gliaia di fotografi, viene cambiato 3 volte al gior-
no. La popolazione di Cannes triplica durante
il Festival. La Croisette è invasa da migliaia
di curiosi e ammiratori che cercano di vedere,
anche con l’aiuto di altissimi scalei, il passaggio
degli attori che dagli alberghi vanno al Palais
des Festivals et des Congres. Per la prepara-
zione e nei 12 giorni della durata del Festival
sono assunte più di 3000 persone adibite agli
allestimenti, alla ristorazione e all’ospitalità. Su
tutto quest’anno campeggiano da settimane i
manifesti del Festival che ritraggono la foto del
1959 di una giovanissima Claudia Cardinale
mentre balla in una terrazza sui tetti di Roma.
Un manifesto da collezione, ma nessuno, nem-
meno l’attrice, ricorda il nome del fotografo che
scattò l’istantanea.
Cannesmon amour
2027 MAGGIO 2017
28 aprile 2017: l’Affratellamento di Firenze,
luogo storico della città perché, nato come
Società di Mutuo Soccorso per i lavoratori
e le lavoratrici il 1° luglio 1876 in una casa
colonica secentesca, ha durato sempre allo
stesso posto dal 1888 nell’evolversi della
zona a ridosso del Viale dei Colli in rapporto
a Firenze capitale. Reso poi nel 1944 dopo la
Liberazione di Firenze ai suoi legittimi pro-
prietari, i soci, come Società Ricreativa,è oggi
teatro, sala di concerti in collaborazione con
il Conservatorio Cherubini,cine-forum,aula
di seminari, conferenze e presentazioni,e
accoglieva Esther Basile con il suo “Pasoli-
ni indomito corsaro”, Homo scrivens 2016,
pubblicato con l’egida dell’Istituto Italiano
per gli Studi Filosofici di Napoli. Facevano
gli onori di casa fiorentini il Presidente del-
la Società Luigi Mannelli, Gabriella Fiori e
Maria Ester Mastrogiovanni. Pier Paolo Pa-
solini, PPP (Bologna 1922-Ostia 1975):ogni
contatto con la sua opera polifonica (saggi,
poesie, romanzi, film, un’antologia unica nel
suo genere come il “Canzoniere italiano”
della poesia popolare) è stato per me bru-
ciante, una sfida all’emozione e alla rifles-
sione, un insegnamento sul piano espressivo
della mia lingua materna, l’italiano e i suoi
dialetti, sui luoghi d’Italia, dal Friuli alla
Sicilia, sui raccordi fra passato e presente(-
Giotto e Masaccio suoi pittori prediletti e
il cinema più ardito, “la lingua scritta della
realtà” come diceva) e sul piano profetico,
data l’attenzione della sua sensibilità, in tutti
i pori della pelle direi, alla mutazione in atto
nel mondo.
Il tono di questo libro che vedo come una
biografia-diario di Pasolini ci invita fin dalla
foto di copertina, (archivio privato del poeta
Elio Pecora, risale al Premio Viareggio 1957
da PPP ottenuto per il poemetto “Le cene-
ri di Gramsci”) al dialogo con questo arti-
sta-profeta, dalla radicalità dolorosa dipinta
nello sguardo nero interrogante.
Esther Basile ha familiarità con l’opera di
PPP dall’adolescenza, quando iniziò la sua
formazione filosofica con Gerardo Marotta,-
da poco scomparso, presidente del glorioso
Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di
Napoli,fondato nel 1975 da illustri membri
dell’Accademia dei Lincei fra i quali Elena
Croce, che chiamarono Marotta avvocato a
quel ruolo. Tale familiarità nutre i 6 capitoli
del suo saggio introduttivo dove ogni capito-
lo denso e sobrio si accosta a un lato di PPP
e per noi lo sigilla con una sua pagina. Ri-
spondono come echi in armonia gli altri sag-
di Gabriella Fiori RitrovarePasolinigi di analisi puntuale (PPP e Calvino; e la
Calabria; e Napoli; e l’arte; e lingua e dialet-
to; e teatro);testimonianze d’incontri, poesie
evocative e documenti inediti o mal reperi-
bili come articoli della Fallaci e l’intervista
di Dacia Maraini. Completa l’avventuroso
viaggio la visita con fotografie alla Torre di
Chia, rifugio nei boschi di Pasolini cercatore
di silenzio e di verde per scrivere e dipinge-
re, non più visitabile. Impossibile dirvi uno
per uno come vorrei gli apporti suggestivi di
quest’opera che è”corale” (Mastrogiovanni)
come lo esigeva la natura “corale” della Ba-
sile e la polifonia di PPP. Mi limiterò a due
citazioni da Esther Basile grazie alle quali
siamo portati nel cuore di questa vita inquie-
tissima e insieme pacificata dal proprio ide-
ale di liberazione della realtà, la prima sul
tema “scomparsa delle lucciole”(“Corriere
della Sera” 1.2.1975) : imprevisto “feno-
meno fulmineo e folgorante” opera dell’in-
quinamento dell’aria e dell’acqua, è in PPP
“allegoria per esprimere la sparizione della
bellezza dal mondo e della tendenziale tra-
sformazione di ogni esistenza vivente”. La
seconda ci offre la chiave della sua vita spiri-
tuale,con la poesia “Supplica a mia madre”(-
da “Poesia in forma di rosa”, Garzanti 1970,
p. 125). Qui
egli lamenta la sua solitudine e la sua “fame
d’amore” per “corpi senza anima” perché
“la mia anima è in te, sei tu, ma tu/sei mia
madre e il tuo amore è la mia schiavitù: ho
passato l’infanzia schiavo di questo senso/
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.”
L’impegno è quello , del pedagogo, cosa che
PPP è, “ mentre scrive, prima e più di uno
scrittore” ben dice la Basile. Lo confermano
questi pochi versi, che traggo da “La realtà”:
“Oh fine pratico della mia poesia!/Per esso
non so vincere l’ingenuità che mi toglie pre-
stigio,/per esso la mia lingua si crepa nell’an-
sietà [...] Cerco nel mio cuore solo ciò che
ha!” (Ivi, p. 126)
2127 MAGGIO 2017
di Ines Romitti
di Gianni Biagi
Il progetto espositivo “Dimore Sacre” non po-
teva partire che da qui, nella meravigliosa “pe-
riferia” toscana, dal Mugello, ricco di paesaggi
e percorsi, legato strettamente a Firenze quale
culla della casata dei Medici.
Non c’era luogo più adatto del Palazzo dei Vi-
cari, cittadella trecentesca di pietra e mattoni,
presenza imponente nel borgo di Scarperia,
dove installare l’interessante lavoro a quattro
mani della pittrice Chiara Crescioli e dello
scultore Carmelo Cutuli. La mostra è curata
dal professor Adriano Bimbi, docente di pit-
tura all’Accademia delle Arti e del Disegno di
Firenze, con cui i due artisti hanno da alcuni
anni intrapreso e sviluppato in questa realtà
territoriale un formativo percorso culturale.
Dislocate nel cortile possente le opere, sei
tabernacoli alti oltre due metri, come un con-
certo si articolano dal punto privilegiato da cui
sono percepibili tutte insieme - in una ricerca
della perfezione come avviene nelle compo-
sizioni delle pietre nei giardini zen – in uno
spazio armonico che induce ad un’esperienza
immersiva, alla ricerca della prospettiva in
movimento da più punti di vista e scorci pri-
vilegiati.
Le strutture in legno inglobate nella schiuma
poliuretanica, in cui la “misura” fisica ed intel-
lettuale è rappresentata dalla figura umana e
dalle sue proporzioni, nell’originale sperimen-
tazione materica di Carmelo che consolida e
definisce le sue creazioni con smalto bianco
riflettente, accolgono ed inglobano i disegni di
Chiara in una sintesi semantica e compositiva
perfettamente riuscita. Diventano “dimore”
con pieni e vuoti, pause e accenti, scabrosità e
luce per i volti, le figure antropomorfe, i segni
iconici, i simboli autobiografici che vi si raffor-
zano e insediano indissolubilmente. L’innesto
creativo della poetica intimistica dei graffiti
sfumati, che Chiara patina fino a rendere
traslucidi nei tabernacoli evocativi crea chia-
smi, incroci immaginari tra due entità, tra due
concetti speculari. L’importanza attrattiva nel
territorio mugellano della mostra ambientata
nello storico palazzo, raffigurato da Vasari sul
soffitto di Palazzo Vecchio, è stata sottolineata
dal Sindaco di Scarperia e San Piero Federi-
co Ingesti e dall’Assessore alla cultura Marco
Casati durante l’inaugurazione, occasione in
cui la storica dell’arte Valentina Filice ha evi-
denziato la chiarezza ed il valore del racconto
spazio-temporale delle opere, con cui gli artisti
“riflettono sul tema della costruzione, perdita e
reinterpretazione di codici iconografici e valo-
ri iconologici nell’arte del secondo millennio”
e lo scultore Bimbi, esaltando “l’idea della pu-
rezza nel candore delle opere” che si stagliano
in tutto il loro bianco accecante contro il rude
paramento murario della pietra forte, ha posto
l’accento sul percorso artistico spirituale che
ingloba la memoria collettiva dei luoghi.
La mostra è visitabile gratuitamente nell’a-
trio del Palazzo dei Vicari, sino a domenica
25 giugno, tutti i giorni nel seguente orario:
10:00/18:00.
Quello che fa più male non è la brutta rin-
ghiera apposta sul parapetto del più bel pon-
te della città, ma la resa alla stupidità. Barto-
lomeo Ammannati nel progettare il ponte a
Santa Trinità, distrutto dalla mine tedesche
nell’agosto del 1944 e ricostruito con passio-
ne e meticolosità dove era e come era da un
gruppo di tecnici guidato da Riccardo Gid-
zulich e Emilio Brizzi nel primo dopoguerra,
non aveva certo pensato alle possibili incon-
grue utilizzazioni di quelle pigne alte sul fiu-
me e raggiungibili dal ponte scavalcando il
parapetto. Perchè salire sul parapetto e scen-
dere a sedersi sulle pigne, senza protezione e
alti sul fiume di almeno una decina di metri,
è un atto di intrinseca pericolosità come è fa-
cilmente percepibile da chi abbia provato a
farlo. E la responsabilità delle conseguenze
di quel gesto non dovrebbe ricadere sulla col-
lettività, o sulle pubbliche autorità, ma solo
su coloro che lo compiono. Nei grandi parchi
e nelle riserve naturali australiane chi entra
trova sempre un cartello che ammonisce “La
vostra sicurezza è una nostra attenzione ma
una vostra responsabilità”. Ecco un paese
dove i cittadini sono trattati come tali, con di-
ritti e anche con doveri, e non come bambini
impauriti da portare per mano. La ringhiera
sul ponte a Santa Trinità racconta purtrop-
po una storia diversa; quella di un paese alla
continua ricerca di un responsabile altro da
se stesso.
Dimoresacre
Delle ringhiere e delle responsabilità
2227 MAGGIO 2017
Il libro che Duccio Balestracci, medievista
all’Ateneo senese, ha dedicato a “La battaglia
di Montaperti” (Laterza, Bari-Roma 2017) sta
riscuotendo un successo, almeno a Siena, da
un singolare attaccamento civico a quella che
una volta si sarebbe detta “storia patria”. E non
è un patrimonio da buttar via o irridere. Sem-
mai è essenziale chiamarlo ad una conoscenza
critica nuova di snodi e avvenimenti che hanno
costruito un’“identità” da ripensare e decostrui-
re. Identità – si sa ormai – è parola accidentata,
perché pretende di fissare atemporalmente una
serie di elementi utili a identificare una volta
per tutte realtà mobili e logiche tutt’altro che
univoche. Ed è concetto imparentato molto
con “ideologia”, con le deformazioni che questo
comporta. La problematica è stata al centro del
convegno su “Identità cittadine e uso della sto-
ria” organizzato dall’Accademia degli Intronati
svoltosi il 19 e 20 maggio . Che è stata una viva-
ce e partecipatissima occasione per approfon-
dire questioni con le quali, anche senza accor-
gersene, ci imbattiamo ogni giorno nel discorso
pubblico sulle perenni risse toscane.
Perché il nome stesso di Montaperti esercita
su molti tanta attrazione? Il fatto è che l’im-
prevista vittoria ghibellina di quel 4 settembre
1260 è stata percepita e tramandata nel popo-
lare sentire come fatale svolta, dalla quale son
derivati amari rimpianti, arrovellate ipotesi,
deprecazioni accorate e scherzose rivalità. Or-
goglio e delusione: quella battaglia non si è mai
conclusa. Il libro di Balestracci, che ha il piglio
d’una piacevole lezione, lo spiega bene. Il pa-
radosso è che della battaglia in quanto tale si sa
poco o nulla. Le testimonianze dirette e coeve
sono state distrutte per servilismo filofioren-
tino. Resta qualche frammento di lettera tra-
scritto assai più tardi, ma serve a ben poco. Ed
il “romanzo” di questo scontro immaginabile
a piacere, questa sorta di vuoto misterioso, ha
favorito l’amplificante mitizzazione e collocato
l’insperato trionfo del composito esercito fatto
da animosi senesi, fiorentini fuorusciti, esperte
truppe inviate da Manfredi e perfino dai sara-
ceni di Lucera, in una luce che rende indecifra-
bile il confine tra realtà e fantasticheria. Suscita
domande senza risposta, accende idee senza ri-
scontro. Nonostante questo incolmabile deficit
“si può cercare di capire – scrive l’autore – che
cosa abbia rappresentato la battaglia di Monta-
perti, a patto, però, di liberarla dalla ‘camicia di
forza’ localistica: la stessa che ha fatto di que-
sta giornata una tappa fondamentale della co-
struzione della memoria condivisa di una città
fino ai giorni nostri”. Il piano della narrazione
leggendaria e il grumo di passioni che lo sostie-
di Roberto Barzanti Lo snodo di Montaperti
ne s’intreccia di continuo con l’esplorazione
delle mosse strategiche e i documentati dise-
gni diplomatici che prepararono il sanguinoso
scontro. E quanto agli effetti il discorso resta
criticamente aperto, perché la storiografia non
ha il compito di chiarire tutto e di illuminare
per filo e per segno il passato, ma di sollecitarne
una consapevolezza interrogativa, non ostile a
arricchimenti e a revisioni. Che la battaglia sia
stata letta e vissuta come scontro tra le città –
Siena e Firenze – che capeggiavano le opposte
coalizioni è del tutto naturale ed il problema
vero per una reinterpretazione aggiornata – av-
viata da tempo – non è ridurre il peso avuto nel
quadro della lotta per l’egemonia in Toscana.
È, piuttosto, intendere il ruolo che la “guerra”
di Montaperti ebbe in un panorama europeo,
che coinvolse Papa e Impero, Regno della Sici-
lia, Francia e Castiglia. Le due dimensioni non
confliggono, sono semplicemente il risultato di
punti di vista diversi. Che, malgrado l’exploit
in riva d’Arbia, Siena non avesse alla lunga le
potenzialità per prevalere su Firenze è fuori
discussione. A Montaperti, però, si apre uno
spiraglio. Se l’offensiva contro Firenze fosse
proseguita più dura e decisa che sarebbe acca-
duto? La linea di Farinata degli Uberti, alimen-
tata da un indefesso amor patrio, concorse nel
frenare ambizioni troppo audaci. La morte nel
febbraio 1266 di Manfredi, re di Napoli, l’alle-
ato determinante, “grande amico – si legge in
una pagina di anonimo – di parte ghibellina” fa
tutt’uno col declino di un sogno che non fu solo
spezzato sui campi di battaglia di Benevento
(1266) Tagliacozzo (1268) e Colle (1269). Lo
stesso anonimo scrive che nel settembre del ’65
era comparsa in cielo una cometa con una lun-
ga coda che gli astrologhi decriptarono come
annuncio delle “morte di grande signore”. E
come un rapido transito di una cometa si eclis-
sò e scomparve la breve prevalenza ghibellina.
Se le terre del centro Italia fossero state unite a
quelle del sud chissà che corso avrebbe avuto la
storia della penisola. E la “questione meridio-
nale”? Si perdoni l’anacronismo. Montaperti
induce a inquietanti quesiti. Non è vero che
la storia non si fa con i se. La storiografia non
può ignorare le alternative possibili o meno. E
negli interstizi che permangono tra quanto ac-
cadde e quanto forse sarebbe potuto accadere
s’insinua una curiosità che non mette fine alle
diatribe. I miti – hanno teorizzato antropologi
illustri come Bruce Lincoln – tornano ad avere
più capacità mobilitante di una laica e fredda
storiografia. Il fenomeno merita una considera-
zione che va al di là di un colpo editoriale. Il li-
bro di Balestracci non si inserisce nella cultura
del post-moderno, che nega i fatti e lascia spa-
zio solo all’ interpretazione di quanto non si sa
bene sia avvenuto. Montaperti sopravvive pro-
prio per questo situarsi in bilico tra realpolitik
e immaginario, tra “verità” e probabilità. Non
hanno torto quanti argomentano che il trionfo
ghibellino, accelerando l’alleanza tra Chiesa e
Angiò, produsse conseguenze opposte a quan-
to ci si poteva attendere. L’effimero trionfo ghi-
bellino aprì davvero la strada all’estesa afferma-
zione guelfa. E qui conviene mettere punto per
non rischiar d’ingigantire (in negativo) il mito di
Montaperti più ancora di chi la considera (im-
propriamente) l’occasione perduta per assicu-
rare a un futuro di Siena assai diverso da quello
che le è toccato. Chissà se migliore.
2327 MAGGIO 2017
di Roberto Mosi
“Il Catalogo di Pittopoesia” riporta la rassegna
delle esperienze e dei lavori realizzati negli ul-
timi sette anni da Enrico Guerrini e Roberto
Mosi, nel corso di eventi e perfomances legati
a recital di poesia e alla pittura all’impronta,
con il supporto del cavalletto e dei gessetti co-
lorati. Sette un numero mitico, già richiamato
dal titolo dell’Antologia “Poesie 2009-2016”,
Giuliano Ladolfi Editore, che riprende rac-
colte di poesie e poemetti pubblicati da Mosi
nello stesso periodo di tempo; Antologia che la
Rivista “Cultura Commestibile” ha affidato al
commento critico di Mariangela Arnavas (n.
200/2017).
Il Catalogo presentato alla Gadarte richiama
il versante pittorico e poetico dell’Antologia,
come se la forma e il colore dei disegni esaltas-
sero la sonorità dei versi, non sono illustrazioni
delle poesie ma un completamento e un arric-
chimento delle stesse. Si compone di venti ca-
pitoli che non sono altro che la scansione degli
incontri per la presentazione nei caffè lette-
rari, nelle librerie e gallerie, di libri ed e-book
illustrati, video, opere uniche “d’artista” . Ogni
capitolo è, per così dire, di carattere multime-
diale, una materia viva con un rinvio costante
alla rete. Lo stesso Catalogo è disponibile nel
formato video youtube (si veda all’indirizzo:
https://youtu.be/Zx8T5j1sGbg) e può esse-
re richiesto agli autori nel formato pdf. Nella
premessa si rende omaggio alla poesia visiva
degli anni cinquanta e sessanta – ad iniziare
da Eugenio Miccini – fonte costante, e attuale,
di ispirazione. Nell’introduzione al Catalogo,
poi, che è, come si diceva, il diario di un lavo-
ro comune di Mosi e Guerrini, iniziato con la
presentazione nell’ottobre del 2009 della rac-
colta “Nonluoghi” alla Biblioteca del Palagio
di Parte Guelfa, ci si chiede quali sono le ra-
gioni di questa consonanza.
Riteniamo che sia rilevante l’interesse di
Enrico Guerrini per la narrazione mitica , la
passione del comporre per fumetti, la capacità
di approfondire e assimilare testi letterari (e
musicali), la curiosità naturale per nuove tec-
niche e materiali, gli studi all’accademia e la
preparazione nella scenografia, in particolare.
Contano, dall’altra parte, i caratteri della poe-
sia di Roberto Mosi, una poesia dal linguaggio
semplice e immediato, composta spesso da im-
magini, rivolta alla narrazione, dal quotidiano
agli episodi del mito, rivissuti come passaggio
per interpretare fatti della nostra contempora-
neità, una narrazione svolta con mano leggera,
senza mai prendersi troppo sul serio, con guiz-
zi sul versante dell’ironia.
Nel percorso fatto dagli autori, i caratteri ora
richiamati, dell’uno e dell’altro, si sono incon-
trati in vario modo, hanno, per così dire, co-
municato, in questa società liquida, secondo
l’espressione di Baumann, si sono fatti piccoli
ma concreti passi, sulla strada di un pensiero
creativo, legato alla pittopesia.
Pitto-poesia
2427 MAGGIO 2017
di Romolo Perrotta
Ognuno dà di un testo letterario l’interpreta-
zione che vuole.
Almeno così si illude.
Quando hai vissuto, per una ragione o per l’al-
tra, la dimensione dell’emigrato, allora leggi il
testo di Rino Garro con occhi diversi. Anzi,
con animo diverso.
Vi si parla di valigie perché la valigia è la sinte-
si iconografica del viaggio. L’autobiografia fa il
resto: Rino va a trovare un conterraneo, risto-
ratore, emigrato in Inghilterra. Lì, tra l’entusia-
smo dell’incontro – da una parte –, e il deside-
rio di raccontarsi reciprocamente – dall’altra
–, càpita un incidente di percorso (poiché si
è in automobile), ma non contro un’altra auto,
un muro o un passante; contro un poliziotto
che interpreta al massimo, anzi molto più del
dovuto, il suo ruolo di controllore e censore,
dell’istituzione che – quando non è espressio-
ne della libertà di ciascuno (come auspicavano
gli illuministi) – diventa limite e oppressione…
Anch’io ne ho riempito e svuotato, scaricato e
caricato di valigie: ma nell’uno o nell’altro caso
non sono mai riuscito a portarci ciò che resta-
va, da una parte e dall’altra, ogni volta, a una
nuova partenza.
Quello che resta: ecco cos’è l’“invaligiabile”,
l’incontenibile materiale che sfugge a ogni
controllo (dell’innocente, figurarsi del poli-
ziotto…). E puoi anche continuare a girare il
mondo da un capo all’altro, riempire e svuota-
re valigie e svaligiare della tua presenza luoghi
e appartamenti, auto o bistrò, il risultato non
cambia: c’è sempre qualcosa che resta lì da
dove sei partito, fino all’ultima volta.
Figurarsi poi quando l’esperienza del viaggio
migratorio la si vive almeno in due. Allora è
inevitabile riempire di senso i banali e fugaci
incontri della dimora stanziale, cortocircuitare
eventi e parole, provare a raccogliere nello spa-
zio breve di qualche ora o di una notte l’intero
vissuto della vita.
Non si può leggere questo breve racconto sen-
za provare un forte, nostalgico e ciononostante
esplosivo senso di grandezza e provvisorietà
nel contempo. Grandezza per la misura stessa
del viaggio, che implica coraggio, abbandono,
determinazione, voglia (espressa, ma soprat-
tutto interiore) di fuggire, incontrare l’altro e
l’altrove, il nuovo, l’entusiasmante, il decisivo:
incluso il potenzialmente più nuovo e decisivo
al massimo che è la morte. Provvisorietà per il
riflesso inderogabile che il viaggio rappresen-
ta della vita, perché imprevisti e incidenti di
percorso caratterizzano e danno senso all’uno
e all’altra, perché la vita stessa è un viaggio nel
tempo, nei giorni, nella quotidianità. Gran-
dezza e provvisorietà insieme perché anche la
stanzialità di una galera non può impedire di
viaggiare.
E poi, migrante o meno, sai che la valigia della
vita si riempie e si svuota anche quando non
vuoi: e sempreché in un momento di follia, di
ubriachezza o di paura, di rabbia o di dispera-
zione, tu non intenda darle fuoco, sai che hai
da portartela con te, comunque, dovunque;
tenuta forte con lo spago in aggiunta, quando
la forza delle cerniere predisposte non basta.
Per questa ragione, il breve racconto di Rino
non solo attrae per come è scritto, ma continua
a tenerti in sé, custodendo il tuo passato da mi-
gratore, grazie al quale hai compreso la vita, e
invitandoti a non arrestarti, anzi a proiettarti
verso nuove mète, affinché la vita continui a
essere vissuta (per parafrasare Kierkegaard).
Rino mi ha raccontato che la doppia versione
del testo trova una sua spiegazione nel fatto
che lì, a Hazel Grove, Stockport, nel ristorante
di Mario, gente di passaggio, consumatori fu-
gaci e frequentatori assidui, ne trovano sempre
a disposizione delle copie, che portano con sé,
prima d’essere presi a loro volta dal racconto…
L’invaligiabile & altre riflessioni