alimenti di origine animale e salute - dimevet · animale e salute a cura di pierlorenzo secchiari...

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FONDAZIONE INIZIATIVE ZOOPROFILATTICHE E ZOOTECNICHE BRESCIA ALIMENTI DI ORIGINE ANIMALE E SALUTE A cura di Pierlorenzo Secchiari 95 EDITO A CURA DELLA FONDAZIONE INIZIATIVE ZOOPROFILATTICHE E ZOOTECNICHE - BRESCIA

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FONDAZIONE INIZIATIVE ZOOPROFILATTICHE E ZOOTECNICHEBRESCIA

ALIMENTI DI ORIGINE ANIMALE E SALUTE

A cura di Pierlorenzo Secchiari

95EDITO A CURA DELLA FONDAZIONE INIZIATIVE ZOOPROFILATTICHE E ZOOTECNICHE - BRESCIA

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ALIMENTI DI ORIGINE ANIMALE E SALUTE

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l - 1979 Infezioni respiratorie del bovino 2 - 1980 L’oggi e il domani della

sulfamidoterapia veterinaria 3 - 1980 Ormoni della riproduzione e

Medicina Veterinaria 4 - 1980 Gli antibiotici nella pratica

veterinaria 5 - 1981 La leucosi bovina enzootica 6 - 1981 La «Scuola per la Ricerca

Scientifica» di Brescia 7 - 1982 Gli indicatori di Sanità Veterinaria

nel Servizio Sanitario Nazionale 8 - 1982 Le elmintiasi nell’allevamento

intensivo del bovino 9 - 1983 Zoonosi ed animali da compagnia 10 - 1983 Le infezioni da Escherichia coli

degli animali 11 - 1983 Immunogenetica animale e

immunopatologia veterinaria 12 - 1984 5° Congresso Nazionale Associazione

Scientifica di Produzione Animale 13 - 1984 Il controllo delle affezioni

respiratorie del cavallo 14 - 1984 1° Simposio Internazionale di

Medicina veterinaria sul cavallo da competizione

15 - 1985 La malattia di Aujeszky. Attualità e prospettive di profilassi nell’allevamento suino

16 - 1986 Immunologia comparata della malattia neoplastica

17 - 1986 6° Congresso Nazionale Associazione Scientifica di Produzione Animale

18 - 1987 Embryo transfer oggi: problemi biologici e tecnici aperti e prospettive

19 - 1987 Coniglicoltura: tecniche di gestione, ecopatologia e marketing

20 - 1988 Trentennale della Fondazione Iniziative Zooprofilattiche e Zootecniche di Brescia, 1956-1986

21 - 1989 Le infezioni erpetiche del bovino e del suino

22 - 1989 Nuove frontiere della diagnostica nelle scienze veterinarie

23 - 1989 La rabbia silvestre: risultati e prospettive della vaccinazione orale in Europa

24 - 1989 Chick Anemia ed infezioni enteriche virali nei volatili

25 - 1990 Mappaggio del genoma bovino 26 - 1990 Riproduzione nella specie suina 27 - 1990 La nube di Chernobyl sul territorio

bresciano 28 - 1991 Le immunodeficienze da retrovirus e

le encefalopatie spongiformi 29 - 1991 La sindrome chetosica nel bovino 30 - 1991 Atti del convegno annuale del

gruppo di lavoro delle regioni alpine per la profilassi delle mastiti

31 - 1991 Allevamento delle piccole specie 32 - 1992 Gestione e protezione del patrimonio

faunistico 33 - 1992 Allevamento e malattie del visone 34 - 1993 Atti del XIX Meeting annuale

della S.I.P.A.S., e del Convegno su Malattie dismetaboliche del suino

35 - 1993 Stato dell’arte delle ricerche italiane nel settore delle biotecnologie applicate alle scienze veterinarie e zootecniche - Atti 1a conferenza nazionale

36 - 1993 Argomenti di patologia veterinaria 37 - 1994 Stato dell’arte delle ricerche italiane

sul settore delle biotecnologie applicate alle scienze veterinarie e zootecniche

38 - 1995 Atti del XIX corso in patologia suina e tecnica dell’allevamento

39 - 1995 Quale bioetica in campo animale? Le frontiere dell’ingegneria genetica

40 - 1996 Principi e metodi di tossicologia in vitro

41 - 1996 Diagnostica istologica dei tumori degli animali

42 - 1998 Umanesimo ed animalismo 43 - 1998 Atti del Convegno scientifico sulle

enteropatie del coniglio 44 - 1998 Lezioni di citologia diagnostica

veterinaria 45 - 2000 Metodi di analisi microbiologica

degli alimenti 46 - 2000 Animali, terapia dell’anima 47 - 2001 Quarantacinquesimo della

Fondazione Iniziative Zooprofilattiche e Zootecniche di Brescia, 1955-2000

Nella stessa collana sono stati pubblicati i seguenti volumi:

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48 - 2001 Atti III Convegno Nazionale di Storia della Medicina Veterinaria

49 - 2001 Tipizzare le salmonelle 50 - 2002 Atti della giornata di studio in

cardiologia veterinaria 51 - 2002 La valutazione del benessere nella

specie bovina 52 - 2003 La ipofertilità della bovina da latte 53 - 2003 Il benessere dei suini e delle bovine

da latte: punti critici e valutazione in allevamento

54 - 2003 Proceedings of the 37th international congress of the ISAE

55 - 2004 Riproduzione e benessere in coniglicoltura: recenti acquisizioni scientifiche e trasferibilità in campo

56 - 2004 Guida alla diagnosi necroscopica in patologia suina

57 - 2004 Atti del XXVII corso in patologia suina e tecnica dell’allevamento

58 - 2005 Piccola storia della Medicina Veterinaria raccontata dai francobolli

59 - 2005 IV Congresso Italiano di Storia della Medicina Veterinaria

60 - 2005 Atti del XXVIII corso in patologia suina e tecnica dell’allevamento

61 - 2006 Atlante di patologia cardiovascolare degli animali da reddito

62 - 2006 50° Fondazione Iniziative Zooprofilattiche e Zootecniche di Brescia, 1955-2005

63 - 2006 Guida alla diagnosi necroscopica in patologia del coniglio

64 - 2006 Atti del XXIX corso in patologia suina e tecnica dell’allevamento

65 - 2006 Proceedings of the 2nd International Equitation Science Symposium

66 - 2007 Piccola storia della Medicina Veterinaria raccontata dai francobolli - II edizione

67 - 2007 Il benessere degli animali da reddito: quale e come valutarlo

68 - 2007 Proceedings of the 6th International Veterinary Behaviour Meeting

69 - 2007 Atti del XXX corso in patologia suina

70 - 2007 Microbi e alimenti

71 - 2008 V Convegno Nazionale di Storia della Medicina Veterinaria

72 - 2008 Proceedings of the 9th world rabbit congress

73 - 2008 Atti Corso Introduttivo alla Medicina non Convenzionale Veterinaria

74 - 2009 La biosicurezza in veterinaria 75 - 2009 Atlante di patologia suina I 76 - 2009 Escherichia Coli 77 - 2010 Attività di mediazione con l’asino 78 - 2010 Allevamento animale e riflessi

ambientali 79 - 2010 Atlante di patologia suina II Prima Parte

80 - 2010 Atlante di patologia suina II Seconda Parte

81 - 2011 Esercitazioni di microbiologia 82 - 2011 Latte di asina 83 - 2011 Animali d’affezione 84 - 2011 La salvaguardia della biodiversità

zootecnica 85 - 2011 Atti I Convegno Nazionale di Storia

della Medicina Veterinaria 86 - 2011 Atti II Convegno Nazionale di Storia

della Medicina Veterinaria 87 - 2011 Atlante di patologia suina III88 - 2012 Atti delle Giornate di Coniglicoltura

ASIC 201189 - 2012 Micobatteri atipici90 - 2012 Esperienze di monitoraggio sanitario

della fauna selvatica in Provincia di Brescia

91 - 2012 Atlante di patologia della fauna selvatica italiana

92 - 2013 Thermography: current status and advances in livestock animals and in veterinary medicine

93 - 2013 Medicina veterinaria (illustrato). Una lunga storia. Idee, personaggi, eventi

94 - 2014 La medicina veterinaria unitaria (1861-2011)

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EDITO A CURA DELLA FONDAZIONE INIZIATIVE ZOOPROFILATTICHE

E ZOOTECNICHE - BRESCIAVia Istria, 3/b - 25125 Brescia

FONDAZIONE INIZIATIVE ZOOPROFILATTICHE E ZOOTECNICHE- BRESCIA -

Direttore scientifico: Prof. E. LODETTI

ALIMENTI DI ORIGINE ANIMALE E SALUTE

a cura di Pier Lorenzo Secchiari

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ISBN 978-88-97562-09-2

© Fondazione Iniziative Zooprofilattiche e Zootecniche - Brescia, gennaio 2014Tipografia Camuna - Brescia 2014

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VII

INDICE

Presentazionedr. Stefano caPretti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . XIGiuSePPe Pulina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . XIII

Prefazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . XV

Capitolo 1 - Consumo di carne e saluteIntroduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3

Il ruolo della carne nell’evoluzione della specie umana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3L’evoluzione dell’uomo e la sua dieta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3

Caratteristiche delle carni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8Caratteristiche nutrizionali delle carni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 12

La componente proteica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 12La componente lipidica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15I glucidi della carne . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 23Le vitamine . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 23La componente minerale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 25

Effetto dell’alimentazione e della tecnica di allevamento sulla composizione dei lipidi intramuscolari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27

Effetto del pascolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27Effetto di fonti lipidiche nell’alimentazione di animali ruminanti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 30

Semi di piante oleaginose . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 30Gli oli vegetali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 31

Impiego di semi oleosi e oli nell’alimentazione dei monogastrici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 33Ruolo della carne nella salute umana. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 36

L’importanza della carne nell’alimentazione infantile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 36L’importanza della carne nell’alimentazione nell’età adulta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 37

Effetti sulla struttura ossea . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 37Immunità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 38Stato infiammatorio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39Effetto dell’assunzione di carne nell’età senile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 40Capacità cognitive . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 41Carne e malattie cardiovascolari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 41Lipidi e malattie cardiovascolari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 42Consumo di carni e cancro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 45Rapporto fra CRC e quantità di carni rosse ingerite . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 46Possibili meccanismi esplicativi della relazione fra consumo di carni rosse e incidenza di CRC . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 48Relazione fra consumo di carne e cancro in animali da laboratorio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 48Ingestione di lipidi e rischio di contrarre CRC . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 49Il ruolo delle Ammine eterocicliche (HCA) ed idrocarburi policiclici aromatici . . . . . . . . . . . . . . . . 50Contenuto in ferro “eme” della carne: perossidazione lipidica e via degli N-nitroso composti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 51Consumo di carni rosse e trasformate ed altre patologie tumorali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 52Prospettive di intervento nella filiera della carne trasformata . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 53

Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 54

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VIII

Capitolo 2 - Consumo di pesce e saluteIntroduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 61Composizione chimica del pesce . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 61

Proteine . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 62Lipidi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 62Carboidrati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 63Acqua . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 63Sapore e odore del pesce . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 63Tessitura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 65Colore dei filetti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 66Gli acidi grassi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 67Colesterolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 68Le proteine e gli altri nutrienti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 68

Composizione nutrizionale di specie ittiche allevate e pescate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 69Il consumo di pesce e la prevenzione delle malattie cardiovascolari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 74Il consumo di pesce e la prevenzione delle malattie neoplastiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 78Gli inquinanti ambientali nei prodotti della pesca e dell’acquacoltura. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 82

Diossine e PCB . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 84Qualità dei mangimi e trasferimento degli inquinanti al pesce. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 85Mercurio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 88

Capitolo 3 - Il latte e i prodotti lattiero-caseari: caratteristiche chimiche e nutrizionaliFattori che influenzano le caratteristiche chimiche e nutrizionali dei prodotti lattiero-caseari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 91

Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 91La componente lipidica del latte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 92

Effetto della dieta sulla percentuale di grasso nel latte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 92Effetto della dieta sul profilo in acidi grassi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 93Effetto della stagione e della specie animale sulla percentuale di grasso e sul profilo acidico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 99Effetto della razza sulla percentuale di grasso e sul profilo in acidi grassi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 100Effetto dello stadio di lattazione sulla percentuale di grasso e sul profilo in acidi grassi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 100Effetto dell’ordine di parto sulla percentuale di grasso e sul profilo acidico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 101Effetto del management e dell’ambiente sulla percentuale di grasso e sul profilo in acidi grassi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 101

La componente lipidica dei formaggi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 101Il contenuto di colesterolo nel latte e nel formaggio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 102

La componente proteica nel latte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 102Effetto della dieta sulla percentuale e sulla qualità della proteina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 102Effetto della specie sulla percentuale e sulla qualità della proteina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 104Effetto della razza sulla percentuale e sulla qualità della proteina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 104Effetto dello stadio di lattazione sulla percentuale e sulla qualità della proteina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 105Effetto dell’ordine di parto sulla percentuale e sulla qualità della proteina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 106Effetto del management e dell’ambiente sulla percentuale e sulla qualità della proteina . . . . . . . . . . 106

La componente proteica nei formaggi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 107I peptidi bioattivi del latte e del formaggio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 107

Page 11: ALIMENTI DI ORIGINE ANIMALE E SALUTE - DIMEVET · ANIMALE E SALUTE A cura di Pierlorenzo Secchiari EDITO A CURA DELLA 95 FONDAZIONE INIZIATIVE ZOOPROFILATTICHE E ZOOTECNICHE - BRESCIA

IX

La componente glucidica del latte e dei derivati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 107Il contenuto di minerali nel latte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 108

Effetto della dieta sul contenuto di minerali nel latte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 109Effetto della specie sul contenuto dei minerali nel latte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 109Effetto della razza sul contenuto di minerali nel latte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 111Effetto dello stadio di lattazione sul contenuto di minerali nel latte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 111Effetti genetici sul contenuto di minerali nel latte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 112Effetto del management e dell’ambiente sul contenuto di minerali nel latte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 113

Il contenuto di minerali nei formaggi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 113Il contenuto di vitamine nel latte e nei formaggi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 114Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 116

Capitolo 4 - Latte, prodotti lattiero-caseari e salutePresentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 121Prodotti lattiero caseari e salute . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 123Componenti dei prodotti lattiero caseari che hanno effetti sulla salute: acido linoleico coniugato (CLA) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 124

CLA e peso corporeo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 124CLA e aterosclerosi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 124CLA e cancro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 125

Cancro gastrointestinale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 125Cancro mammario. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 125Cancro alla prostata . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 128Angiogenesi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 128

CLA e insulino resistenza (IR) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 129CLA e risposta infiammatoria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 129Assunzione di CLA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 129Acidi grassi saturi e salute umana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 130

Ruolo fisiologico del fattore di crescita insulino-simile e degli estrogeni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 130Ruolo fisiologico del calcio e della vitamina D . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 131Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 131Ipertensione arteriosa e prodotti lattiero-caseari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 132

Ruolo dei prodotti lattiero-caseari nell’ipertensione arteriosa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 132Prodotti lattiero caseari e peso corporeo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 136

Prodotti lattiero-caseari e salute delle ossa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 138Effetti benefici di calcio e latticini sulla massa ossea: alcuni dati sperimentali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 138Sostanze bioattive in latte e derivati e metabolismo del calcio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 139Elementi confondenti e pareri discordanti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 140Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 140

Attività funzionali delle componenti bioattive del latte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 141Componenti antimicrobiche del latte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 141Supporto prebiotico della microflora intestinale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 142Componenti immunomodulatorie del latte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 143Peptidi bioattivi: i fatti e le aspettative . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 144Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 145

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X

Capitolo 5 - Consumo di uova e saluteAspetti nutrizionali dei componenti dell’uovo e loro variazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 149

Composizione e valore nutritivo dell’uovo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 149Proteine . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 150Lipidi e acidi grassi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 152Colesterolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 153Pigmenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 153Vitamine e minerali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 154

Effetto di sistema di allevamento, tipo genetico ed età della gallina sulle caratteristiche e sulla composizione dell’uovo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 156

Effetto del sistema di allevamento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 158Effetto del tipo genetico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 161Effetto dell’età della gallina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 161

Strategie di miglioramento della qualità dei prodotti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 162Arricchimento dell’uovo con molecole bioattive (PUFA n-3,acido linoleico coniugato, vitamine, minerali e pigmenti) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 162Arricchimento dell’uovo con acidi grassi polinsaturi n-3 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 162Arricchimento dell’uovo con vitamine . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 165Arricchimento dell’uovo con minerali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 169Arricchimento dell’uovo con pigmenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 170

Metodologie tradizionali ed innovative di decontaminazione delle uova . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 170Refrigerazione e lavaggio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 170Pastorizzazione con acqua e aria calda . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 171Confezionamento in atmosfera modificata . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 171Decontaminazione con gas plasma . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 172

Consumo di uova e salute umana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 172Le proteine dell’uovo: nuovi componenti bioattivi utili per la salute umana? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 173Uovo, colesterolemia e rischio cardiovascolare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 174Uova ed allergie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 175

Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 176

Bibliografie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 177

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XI

PRESENTAZIONE

La Fondazione Iniziative Zooprofilattiche e Zootecniche di Brescia ha accolto con entusia-smo la richiesta di pubblicare i lavori della Commissione ASPA “Alimenti e Salute”.

La rassegna del valore nutrizionale e nutraceutico dei vari alimenti di origine animale rap-presenta quanto di più aggiornato ci può essere sugli argomenti trattati.

Il “Quaderno” costituisce quindi,senza ombra di dubbio, uno strumento valido di consul-tazione per tutti i professionisti che si occupano di alimentazione,dietetica e nutraceutica.

Il Segretario Generaledr. Stefano Capretti

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XIII

PRESENTAZIONE

Alimenti e salute sono un binomio ormai inscindibile. Se la sicurezza alimentare, intesa sotto il profilo di assenza di sostanze nocive per la salute umana, rappresenta da oltre un de-cennio uno dei cardini delle azioni politiche dell’Unione Europea, la salubrità degli stessi, declinata nella forma della piena rispondenza dei cibi alle esigenze metaboliche e nutrizio-nali dell’uomo, è la frontiera su cui le scienze dell’alimentazione si stanno cimentando con lo scopo di contribuire sostanzialmente alle azioni di prevenzione di alcune importanti clas-si di patologie.

Da qualche tempo, tuttavia, gli alimenti di origine animale sono stati messi sotto accusa dal sistema dei media nella presunzione che siano coinvolte nell’eziologia di numerose pato-logie, fra le quali il cancro, l’obesità, l’ipertensione, l’arteriosclerosi e altri disturbi al siste-ma cardiovascolare. Purtroppo questa situazione di confusione informativa, unitamente alla diffusione di pregiudizi animalisti, vegetariani o vegani, ha comportato l’assunzione di ingiu-stificati atteggiamenti negativi da parte di un numero crescente di consumatori verso i pro-dotti animali e i loro derivati.

Questo volume collettivo nasce dalla consapevolezza che i pregiudizi possono essere ri-mossi soltanto con la ricerca scientifica e con la diffusione dei relativi risultati; in tal senso, l’ASPA ha promosso un commissione di studio finalizzata ad approfondire e divulgare le più recenti acquisizioni sperimentali sul tema della relazione fra salute umana e consumo di ali-menti di origine animale.

Ringrazio tutti gli Autori di questo pregevole libro, e in particolare il prof. Pier Lorenzo Secchiari, Presidente Emerito della nostra Associazione nonché uno dei massimi esperti ita-liani dell’argomento, per il risultato ottenuto e ringrazio parimenti il prof. Ezio Lodetti, Pre-sidente della Fondazione Iniziative Zooprofilattiche e Zootecniche di Brescia, per la rinno-vata sensibilità verso i temi delle Scienze e delle Produzioni Animali.

Sassari, 28.01.2013

Presidente ASPAGiuseppe Pulina

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XV

PREFAZIONE

Quasi al termine della mia attività accademica è giunto a compimento anche il volume che raccoglie i contributi che i componenti della Commissione ASPA “Alimenti e Salute” hanno preparato per la pubblicazione.

La rassegna del valore nutrizionale e nutraceutico dei vari alimenti di origine animale (latte, carne, uova, pesce) rappresenta quanto di più aggiornato ci può essere sugli argo-menti trattati.

Sono grato a tutti i membri della Commissione ASPA per il lavoro attento e preciso che hanno svolto a vantaggio degli addetti ai lavori (zootecnici, agronomi, medici e medici-vete-rinari), e in genere di chi desideri prendere visione di un aggiornato panorama sugli alimenti di origine animale e sulle loro problematiche.

La trattazione dei successivi capitoli riguarda tutti gli aspetti degli alimenti suddetti, senza timore di affrontare anche gli argomenti più scottanti, con l’intento di rispondere con dati oggettivi a chi accusa i prodotti animali e ne auspica addirittura il bando dalle mense.

Questo era in origine il nostro proposito e questo è quanto, grazie alla Fondazione Ini-ziative Zooprofilattiche e Zootecniche di Brescia e alla cortesia del suo direttore scientifico Prof. Ezio Lodetti, viene posto all’attenzione dei lettori, con umiltà, senza neanche lonta-namente pensare che il volume rappresenti una parola definitiva: mutamenti veloci delle scienze e delle conoscenze fanno presagire nuove acquisizioni che aggiorneranno quanto oggi a noi sembra una trattazione esauriente, mentre invece, rappresenta solo un passaggio verso la conoscenza definitiva che è di là da venire.

Pier Lorenzo Secchiari

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CAPITOLO 1Consumo di carne e salute

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CONSUMO DI CARNE E SALUTE

MARIANO PAUSELLI1, MARCELLO MELE2, ANNA NUDDA3, LAURA CASAROSA2, PIER LORENZO SECCHIARI2.

1 Dipartimento di Biologia Applicata, Sezione di Scienze Zootecniche, Università degli Studi di Perugia.2 Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali, Università di Pisa.

3 Dipartimento di Agraria, Università di Sassari.

INTRODUZIONE

Il ruolo della carne nell’evoluzione della specie umana

Gli alimenti di origine animale utilizzati da sempre dall’uomo sono rappresentati dalla car-ne degli animali selvatici e domestici e, talvolta, dal loro sangue, dal latte prodotto da alcu-ni mammiferi, per lo più ruminanti, dal pesce e dalle uova. Tutti questi alimenti, con la sola eccezione del sangue che, peraltro, viene utilizzato oggi solo da alcune popolazioni nomadi come i Masai, essendo stato messo al bando per motivi igienici nel resto del mondo, hanno una componente lipidica più o meno cospicua.

Fino a poche decine di anni or sono tale frazione lipidica era considerata una componen-te “ricca” e quindi, desiderabile dalle popolazioni anche del nostro continente: il maiale, per esempio, doveva essere grasso perché doveva fornire tagli giustamente grassi per la trasfor-mazione e prodotti usati per cucinare quali il lardo e lo strutto; il latte migliore era quello più cremoso, ovvero più ricco di panna. La tendenza a preferire alimenti di origine animale ricchi di grassi era anche dovuta al tipo di vita che i nostri antenati conducevano: il lavoro ed i tra-sporti non erano in gran parte affidati alle macchine come adesso, ma all’apparato muscolo-scheletrico ed era necessaria una dieta ad elevata concentrazione energetica, essendo il più delle volte quantitativamente scarsa. L’incidenza delle malattie cardiovascolari, conseguenza dell’ipercolesterolemia era sicuramente più bassa, soprattutto perché l’aspettativa media di vita era più breve.

Oggi la situazione è completamente rovesciata. La vita media più lunga fa sì che il sistema vascolare sia sottoposto più a lungo all’eventualità di aterogenesi e trombogenesi; l’attività fisica ridotta ed, in alcuni casi, quasi totalmente assente, associata ad una alimentazione iper-calorica, porta ad una diffusione sempre maggiore delle persone con problemi di obesità, con tutte le conseguenze del caso sullo stato di salute.

L’evoluzione dell’uomo e la sua dieta

I paleoantropologi sono concordi nel sostenere che gli ominini, termine che recentemente ha soppiantato quello di ominidi al fine di racchiudere tutte le specie estinte affini all’Homo (ad es. il Parantropus boisei), si sono evoluti da specie che si nutrivano quasi esclusivamente di foglie e bacche acerbe. I nostri progenitori, tuttavia, non avevano un solo comportamento alimentare, ma erano frugivori non specializzati: il rivestimento dentale, infatti, pur cambian-do nei vari stadi evolutivi, suggerisce che i nostri antenati non si trasformarono mai in car-nivori stretti, ma mantennero sempre un certo grado di vegetarianesimo, rimanendo pertanto sempre onnivori (Biondi et al., 2006). Questa versatilità nella dieta si tradusse nell’abilità de-gli ominini di abitare una grande varietà di nicchie alimentari differenti, pur possedendo un apparato digerente poco sviluppato, denti piccoli e mascelle deboli.

Il confronto fra le dentature di Homo sapiens e di Parantropus boisei (fig. 1) mostra che il secondo doveva spendere da 6 a 8 ore al giorno masticando gli alimenti vegetali ricchi di fi-bre (Ungar et al., 2008).

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Figura 1. Confronto fra la dentatura dell’Homo sapiens e del Parantropus boisei.

Parimenti, la cresta craniale di Parantropus boiesi era particolarmente sviluppata perché

ad essa si attaccavano i potenti muscoli mascellari, caratteristica completamente scomparsa nell’uomo moderno (figura 2).

Figura 2. Le creste craniali del Parantropus boisei, scomparse nell’uomo moderno, indica-no la presenza in questa specie di ominine di potenti muscoli masticatori per la frantuma-zione dei vegetali.

L’uomo moderno conserva la memoria di questa prevalenza di vegetali nell’alimentazione

con un tratto dell’intestino (il colon) che è deputato ad una parziale fermentazione della fibra dei vegetali, che non è digeribile dai succhi gastrici.

Ma se noi oggi tentassimo di nutrirci con gli alimenti selezionati in natura da un nostro lontano cugino, lo scimpanzé, scopriremmo che il tempo dedicato alla masticazione è enorme (6-8 ore), che i denti e i muscoli sono inadeguati e che i frutti sono troppo acerbi per piacerci (Wrangam, 2009). Tra l’altro, come sanno bene gli antropologi, proprio gli scimpanzé, sono cacciatori appassionati, trascorrendo circa il 10% del loro tempo cacciando piccoli mammi-feri, per lo più babbuini, altre specie di scimmie e porcospini (Teleki, 1981). Questo aspetto evidenzia, da un lato che la credenza che l’uomo sia l’unica “scimmia assassina” è assoluta-mente fuorviante e che, dall’altro, sia l’uomo sia i suoi parenti primati dedicano particolare

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attenzione ai cibi di origine animale perché presentano particolari caratteristiche che li ren-dono estremamente nutrienti.

L’introduzione della cottura dei cibi, dopo la scoperta del fuoco, circa 800.000 anni fa, è stata sicuramente un punto di svolta fondamentale per rendere sicuri e più digeribili un gran numero di alimenti tra cui la carne dei grossi animali, che l’uomo ha cominciato a cacciare organizzandosi in comunità e avviando quindi una fase fondamentale di evoluzione sociale (Biondi et al., 2006).

Perché l’uomo nella sua evoluzione ha spostato le proprie preferenze da una dieta sostan-zialmente vegetariana ad una più diversificata che prevede un sostanziale contributo da par-te degli alimenti di origine animale? Una delle ipotesi più accreditate è quella cosiddetta del “cervello affamato” avanzata da Robert Martin nel 1996 (Allen, 2009). L’uomo ha una massa celebrale, se raffrontata al peso corporeo, circa doppia di quella degli altri mammiferi. Ciò significa un grande cervello costantemente affamato che consuma circa il 25% dell’energia spesa giornalmente da un adulto (fino al 75% in un neonato) e che pertanto deve nutrirsi di alimenti ad alta digeribilità e di valore biologico superiore a quello delle foglie e dei frutti acerbi. Poiché lo sviluppo della massa intestinale è inversamente proporzionale alla qualità della dieta, la riduzione della dimensione degli intestini a favore dello sviluppo della mas-sa cerebrale è stata possibile solo grazie ad un miglioramento complessivo della qualità del-la dieta dovuta all’introduzione di alimenti ad alta concentrazione di nutrienti come la carne (Biondi et al., 2006). Così, pur non avendo una dentatura da carnivoro, l’uomo con la scoper-ta del fuoco è in condizioni di consumare animali di grossa taglia e, pertanto, divenuto cac-ciatore raggiunge un vantaggio evolutivo proprio dei gruppi meglio organizzati e in grado di trasmettere anche oralmente tale prerogativa.

Secondo i paleoantropologi, l’uomo del neolitico assumeva più del 35% delle calorie gior-naliere totali dalla carne e questo, tradotto in quantità, significa più di 800 g al giorno, va-le a dire circa 4 volte quanta ne assume mediamente la popolazione nord-americana ai gior-ni nostri (Eaton, 2006). Allo stesso tempo l’assunzione di colesterolo era doppia rispetto a quella attuale, ma la quantità di grassi totali era circa la metà. La carne degli animali cacciati dall’uomo del neolitico, infatti, si caratterizzava per un basso contenuto di grasso rispetto al-la massa corporea (meno del 5%) e una composizione del grasso molto ricca in acidi grassi polinsaturi (Cordain et al., 2002).

Queste pressioni selettive, ambientali prima e anche culturali in seguito, hanno fatto in mo-do che il genotipo dell’uomo, selezionatosi nell’arco di almeno 2-3 milioni di anni, è quello del “risparmiatore”, vale a dire un organismo abituato a nutrirsi con una dieta basata su pro-teine, grassi insaturi, fibre vegetali, fruttosio e una grande quantità di metaboliti secondari delle piante. Fino al neolitico, solo occasionalmente capitava agli uomini di disporre di gran-di quantità di carboidrati, i quali sono in grado di innescare il meccanismo della risposta in-sulinica per favorire la deposizione di lipidi di riserva. Questo meccanismo ha consentito di attivare anche un altro grande vantaggio selettivo che deriva proprio dalla capacità di accu-mulare grasso nei periodi di eccesso di energia per poi mobilizzarlo nei periodi di carenza. E’ noto infatti che la mobilizzazione dei lipidi nelle fasi di bilancio energetico negativo consente di mantenere il lavoro cognitivo anche in condizioni di disagi alimentare, proprio grazie alla capacità del cervello di utilizzare efficientemente a scopi energetici i corpi chetonici che si formano a seguito dell’ossidazione dei lipidi mobilizzati.

Il nostro adattamento evolutivo al consumo di carne ha avuto quale riscontro, oltre al-lo sviluppo cerebrale e fisico (dall’analisi dei reperti archeologici il fisico dell’uomo adulto nel neolitico era paragonabile a quello degli attuali atleti professionisti, (Ruff, 2000)), anche uno straordinario aumento della longevità della specie umana rispetto agli scimpanzé. Finch (2010) asserisce che la longevità è il risultato dell’adattamento del genotipo umano alla die-ta ricca di carne: i geni coinvolti, infatti, sono quelli della resistenza alle infiammazioni e ai

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parassiti, ma anche codificanti per la longevità, come dimostrato dalle curve della sopravvi-venza e della mortalità dell’uomo e dello scimpanzé (fig. 3).

Il risultato è stato che le popolazioni neolitiche attuali (con culture cioè allo stadio prea-gricolo) sono cacciatrici e includono nella loro dieta una quota >50% di proteine di origine animale. In vaste aree del pianeta l’unica pratica agricola è l’allevamento. Popolazioni quali gli Hinuit, i Masai, i Lapponi, gli Indios andini e gli indigeni Himalayani, sopravvivono ad un ambiente totalmente ostile grazie all’interfaccia degli animali, di solito erbivori ruminan-ti, che riescono a trarre nutrimenti da nicchie alimentari assolutamente non utili per l’uomo. Questi popoli ricavano più del 90% del loro fabbisogno giornaliero di energia dai prodotti ani-mali, senza mostrare il minimo segno delle malattie che affliggono noi occidentali. E’ stata la “modernizzazione” forzata della loro dieta, viceversa, che li ha portati a scompensi metabo-lici gravi e nei casi estremi (si pensi all’alcool, prodotto “vegetale”) alla totale disgregazione e alla perdita delle culture tradizionali (Buccioni et al., 2011).

Figura 3. Curve della sopravvivenza e della mortalità dell’uomo e dello scimpanzé (Finch, 2010).

Demographic comparisons of wild chimpanzees with human populations living under poor hygiene and with little access to medicine. (Copyright 2000, John Wiley & Sons).(A) Survival curves. (B) Age-specific mortality. At all ages after infancy, chimpanzees have higher mortality than the Ache and show acceleration of mortality at least 20 years earlier.

Pertanto possiamo dire che la dieta con cui l’uomo si è evoluto a partire dal paleolitico fino a 10.000 anni fa (neolitico), in cui si pone l’inizio dell’agricoltura, sia rimasta a grandi linee invariata fino all’epoca della rivoluzione industriale, dalla quale hanno avuto inizio i grandi mutamenti quanti-qualitativi della nutrizione umana quali l’ uso di farine e di zuccheri raffi-nati, di oli vegetali e di margarine, di alcool, il cambiamento delle caratteristiche della carne prodotta con bovini e suini ingrassati con cereali. In queste carni è più elevata la presenza del grasso della carcassa rispetto al peso corporeo dell’animale e dell’energia totale fornita dalla carne, rispetto a quanto si osserva per le carni di selvatici (antilopi, daini, cervi) che presen-tano un corretto rapporto (circa 2:1) di PUFA n-6/n-3, rispetto ai valori molto più elevati che si registrano attualmente per bovini e suini (Tabella 1).

Gli animali che alleviamo oggi potrebbero fornire carni simili a quelle degli animali che cacciavano o che allevavano i nostri antenati, se fosse più diffuso l’allevamento al pascolo con una minore somministrazione di mangimi a base di cerali. L’esito di questi mutamenti è rappresentato, in riferimento ai lipidi, dall’evoluzione storica della dieta umana in termini di grassi (Acidi Grassi Totali, SFA, Acidi Grassi Trans) e di cambiamento del rapporto n-6/n- 3 proposto da Simopoulos, la quale ha evidenziato che, mentre per millenni gli apporti di lipi-di e i parametri ad essi relativi non erano mutati, l’epoca moderna ha fatto registrare i cam-

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biamenti sopra descritti, che rappresentano i veri problemi che riguardano l’uso della carne nella nutrizione umana.

Per comprendere come in tempi più recenti la carne sia entrata nel costume alimentare, ba-sta ricordare che nella cultura greco-latina è proposta “l’immagine della terra che nutre, pri-ma spontaneamente (come nel biblico Eden), poi con il lavoro dell’uomo: ed ecco i miti del grano, del vino, dell’olio”, cui si affianca per importanza l’allevamento della pecora che pro-pizia la produzione di latticini (formaggio e ricotta). Su questo retaggio culturale si immette il modello barbarico con l’uso delle carni, soprattutto di maiale, che rivestono un ruolo cen-trale nelle abitudini alimentari dei popoli nordici. Tale fenomeno prese avvio tra V e VI se-colo (Montanari, 1993 ). Vi sono pertanto motivazioni storiche lontane e a noi più vicine che attestano l’importanza delle carni nella nostra dieta. Tuttavia, bisogna osservare che la mas-siccia denigrazione e la demonizzazione di tali derrate, accusate di essere causa di patologie metaboliche e neoplastiche, contrasta con il fatto che meno dell’1% della popolazione mon-diale si astiene volontariamente da qualsiasi cibo di origine animale e che meno della decima parte di questo 1% può considerarsi genuinamente e strettamente vegetariano (Harris, 1992). Inoltre, l’astinenza dalle carni molto più che per scelta, è diffusa nei popoli scarsamente svi-luppati; ciò si può constatare considerando il diverso rapporto che si instaura fra cibo di ori-gine animale e cibo di origine vegetale in relazione all’aumento del reddito pro-capite. Que-sto, senza ricorrere ai dati della letteratura scientifica, deriva dall’osservazione della storia recente, anche italiana. La generazione che ha vissuto la realtà dell’ultimo dopoguerra, nel secolo scorso, ha assistito al progresso che è avvenuto in Italia, superiore a quello verificato-si in ogni altro periodo storico e che è stato caratterizzato dall’ampliamento del consumo di carne, latte e uova, che in precedenza, soprattutto la carne, erano considerati cibi per “ricchi”, cioè il cui uso era ristretto alle classi sociali più abbienti. L’apporto di proteine animali, dopo le privazioni alimentari del periodo bellico, fu determinante, soprattutto per i giovani e per condizionare il loro accrescimento somatico, propiziato dall’arginina apportata dalla proteina delle carni, che è in grado di stimolare la secrezione dell’ormone della crescita. Tuttavia, per capire come sia penetrato a tutti i livelli il concetto della pericolosità delle carni, soprattutto rosse, mentre quelle bianche sarebbero più indicate per preservare le conseguenze terrificanti del consumo di tale derrata, occorre rifarci brevemente alla storia. La dieta in bianco e perciò anche le carni bianche, sono un topos della dietologia medica che ha una precisa qualifica-zione nel trattato in tre volumi (De vita sana, De vita longa e De vita celitus comparanda) che Marsilio Ficino pubblicò nel 1489. Egli partì dal presupposto che nel corpo umano ci sono quattro umori: sangue, bile nera, bile gialla e flegma, dal cui equilibrio, secondo la teoria ip-pocratica, deriverebbe un perfetto stato di salute. In particolare la bile nera o “atrabile”, come la definivano i latini, mentre i greci la chiamavano “melanconia”, si formerebbe, quasi come un deposito, dal sangue. Essa è fredda, secca, con una natura simile alla terra che è uno dei quattro elementi del cosmo insieme con l’acqua, l’aria e il fuoco. Per un buon stato di salu-te l’eccesso di bile nera deve essere eliminato e va contrastato con una adatta alimentazione. Questa indicazione ci rende ragione dei salassi dell’antichità, così frequentemente adottati dalla medicina del passato, e dei purganti “depurativi” ai cambi di stagione, abitudine diffusa fino a poco tempo fa e prevede soprattutto il “mangiar bianco”, indicazione salutistica som-ma per chi vuole saggiamente nutrirsi.

Da queste premesse storiche è derivata la dieta in bianco, con la quale legioni di malati di ulcera sono stati curati senza alcun risultato per anni, in attesa della scoperta dell’agente etio-logico vero di quella patologia, cioè l’Helicobacter pilori, responsabile del 100% dei casi di ulcera duodenale e del 70% di quella gastrica. Dai presupposti descritti riguardo la dieta in bianco derivano le affermazioni perentorie sui danni apportati dalle carni rosse cui si oppon-gono quelle bianche, quando le differenze chimico-nutrizionali non appaiono così evidenti, come documenta la tabella 1.

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Dall’analisi dei dati riportati in questa, appare con chiarezza che l’apporto proteico, lipidi-co, il contenuto calorico è molto simile fra le carni, salvo il valore energetico della carne sui-na e bovina; lo stesso vale per l’apporto di colesterolo, che in ogni caso è limitato. Sul quadro lipidico si può aggiungere che la somma di PUFA e MUFA supera sempre il valore degli SFA.

Un discorso a parte merita il rapporto n-6/n-3 che, salvo il caso degli agnelli da latte e svez-zati, supera ampiamente il limite di 4:1 comunemente indicato come valore da non oltrepas-sare. Questo aspetto sarà trattato più nel dettaglio nel paragrafo “Caratteristiche delle carni”.

Tabella 1. Caratteristiche chimico-nutrizionali dei principali tipi di carne.

Coniglio Pollo Tacchino Suino Bovino Vitello Agnellolatte

Agnellosvezzato

(g/100g carne)Sostanza

secca 27.1 26.2 26.0 26.2 27.5 25.5 26.5 27.2

Proteine 22.1 21.1 24.0 19.4 21 20.5 20 21.5Lipidi 4 4.2 1.2 5.95 5.45 4 4.55 4.42Kcal 124.2 122 106.8 130.95 133.05 118 120.95 125.78

(g/100g FA)SFA 37.5 33.3 39.0 37.6 39.5 38.9 46.0 39

MUFA 26.8 36.8 25.0 44.4 41.1 34.4 42.0 41PUFA 35.7 29.9 36.0 18.0 9.6 15.2 12.0 16n6/n3 10.5 17.5 21.9 22.3 9.5 36.6 1.10 2.7

(mg/100g carne)Colesterolo 60.0 81.0 35 61.0 70.0 66.0 52.0 48.9

SFA: Acidi grassi saturi; MUFA: Acidi grassi monoinsaturi; PUFA: Acidi grassi polinsaturi.

CARATTERISTICHE DELLE CARNI

Si definiscono carni le parti commestibili dei muscoli scheletrici degli animali da macello propriamente detti (bovini, bufalini, equini, ovini, caprini e suini), del pollame, dei conigli e della selvaggina, rese edibili al termine del periodo di maturazione, detta frollatura, necessari per tutte le carni fuorché per quella suina.

Nelle carni, oltre al tessuto muscolare, possono essere presenti, in proporzioni differenti, tessuto osseo, cartilagineo, connettivo e adiposo.

I tessuti osseo, cartilagineo e connettivo originano dal mesenchima da cui si differenziano gli osteoblasti, che daranno origine alle cellule ossee (osteociti), i fibroblasti, che formeranno i fibrociti, cioè le cellule del connettivo e i condroblasti, che, divenuti condrociti, formeran-no le cellule cartilaginee.

Il tessuto connettivo influenza la durezza della carne; esso è costituito da una parte cellula-re (i già ricordati fibrociti) e da una sostanza fondamentale formata da proteine fibrose, quali collagene ed elastina, immerse in una matrice di proteoglicano.

Nel muscolo bovino il collagene totale può variare dall’1 al 15%, mentre l’elastina dallo 0.6 al 3.7%.

Il tessuto connettivo, distinto in connettivo fibrillare denso e fibrillare lasso, forma le mem-brane che rivestono i muscoli (epimisio) e determina, soprattutto il primo, il loro inserimento sulle ossa. I fasci muscolari formati da insiemi di fibre muscolari e le singole fibre muscolari

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sono rivestite rispettivamente dal perimisio e dall’endomisio. L’età dell’animale determina un aumento del diametro delle fibre di collagene ed anche lo sviluppo di legami tra queste, che da “immaturi” covalenti divengono “maturi” e quindi più stabili, vale a dire che il nume-ro di legami maturi è positivamente relazionabile alla durezza della carne. È ormai accertato, infatti, che più legami maturi ci sono, più dura sarà la carne.

Il turnover del collagene è relativamente lento (circa 45 gg). Un ritmo di turnover più inten-so, diminuendo il tempo fra una generazione cellulare e la successiva, diminuirebbe il tempo anche per la formazione di legami tra le fibre più stabili e quindi determinerebbe un miglio-ramento della tenerezza della carne. L’esercizio fisico, ad esempio, è un fattore che controlla il turnover del collagene; aumentando il tempo tra una generazione cellulare e quella succes-siva, la carne diviene più dura.

La divisione del muscolo in fascicoli può essere percepibile anche ad occhio nudo, osser-vando, sulla superficie di taglio trasversale, la più o meno marcata evidenziazione dei medesi-mi, detta “grana”. La grana del muscolo aumenta in maniera importante con l’età e i muscoli a grana grossa generano carne più dura e stopposa. Con la cottura e con la masticazione della carne si ha una separazione del perimisio dall’endomisio e la rottura di quest’ultimo, feno-meni che rendono più agevole lo spezzettamento della carne.

Il grasso è formato da adipociti che, alla nascita, possono essere presenti in due forme: tes-suto adiposo bruno e bianco. Il tessuto adiposo bruno è caratterizzato da adipociti piccoli di colore bruno per via del maggiore contenuto di citocromo nei mitocondri. Ha funzioni ener-getiche per il neonato e scompare dopo poche settimane dal parto, oppure viene convertito in grasso bianco. Il tessuto adiposo bianco è caratterizzato da adipociti di diametro più grande. Nei giovani animali gli adipociti si accumulano intorno ai visceri, tra i muscoli, tra i fasci di fibre e tra le fibre muscolari (grasso di marezzatura). Successivamente nella fase d’ingras-so il tessuto lipidico aumenta nel sottocute. Questo tipo di grasso è detto grasso di deposi-to, come quello peritoneale (nell’omento), perirenale, che fascia e protegge i reni, el grasso periorbitale,che non diminuisce mai, neppure nei casi di magrezza estrema.

Nelle membrane delle fibre muscolari si trova, invece, il così detto grasso “funzionale”, costituito da fosfolipidi e da colesterolo.

Il tessuto muscolare è il tessuto maggiormente rappresentato. Si compone dì fibre musco-lari, che originano dal mesoderma embrionale.

Dopo la nascita, in seguito alla crescita e all’esercizio atletico, le fibre aumentano sia in lunghezza sia in larghezza, vanno perciò incontro a ipertrofia, dovuta ad un aumento della quantità di sarcoplasma, cioè del citoplasma delle fibre stesse. Ciascuna fibra è costituita a plasmodio e contiene centinaia di nuclei situati per la maggior parte proprio al di sotto del sarcolemma (membrana cellulare). Le fibre sono dotate di miofibrille che permettono la lo-ro contrazione.

Il muscolo contiene anche una grande quantità di sostanze azotate (creatina, fosfocreati-na, basi puriniche, carnosina e, negli uccelli, l’anserina) e, in minor misura, glicogeno (0.15-1.5%) e glucosio (da 0.02 a 0.04). L’elettrolita più importante è il Potassio (mg 400/100 g di carne); meno rappresentati si trovano Magnesio, Calcio e Fosforo.

Le proteine del muscolo sono l’actina (60%) e la miosina (12%), che compongono gli ele-menti contrattili delle fibre. Le altre proteine del sarcoplasma sono le globuline, il miogeno e la mioalbumina. Il pigmento contenente ossigeno, la mioglobina, è, nel muscolo rosso, cir-ca l’1%.

Dopo la macellazione dell’animale e la frollatura del muscolo, la carne si trova ad essere esposta all’azione dell’ossigeno; in questa circostanza alcuni mitocondri intatti possono com-petere con la mioglobina per la “cattura” dell’ossigeno disponibile.

I mitocondri sono infatti gli organuli citoplasmatici dai quali la cellula trae energia con la respirazione cellulare che, per il suo funzionamento, ha bisogno di ossigeno. In tal modo si

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riduce la profondità dello strato della ossimioglobina che, come noto, determina la colorazio-ne rossa delle carne.Poiché le fibre bianche sono dotate di un numero inferiore di mitocondri rispetto alle fibre rosse, le prime consumano meno ossigeno,che resta disponibile per la mio-globina e permette che questa formi ossimioglobina. Quindi, dal punto di vista della persi-stenza della colorazione, i muscoli a fibre bianche sono avvantaggiati rispetto a quelli a fibre rosse. Quindi, dal punto di vista della persistenza della colorazione, questi dati ci inducono ad affrontare le problematiche della fisica del colore della carne. Negli ultimi anni si è posta maggiore attenzione al colore come parametro di scelta della carne. I consumatori, infatti, as-sociano il colore e la luminosità della carne alla sua freschezza e orientano i loro acquisti in funzione di questa caratteristica.

Il colore si può anche determinare oggettivamente per mezzo del diagramma dei colori de-finendo, con il sistema CIE i parametri L*, a*, e b*. L* rappresenta la luminosità che esprime la quantità di luce riflessa dalla superficie di taglio; varia da 0 per il nero a 100 per il bianco e, di conseguenza, sono preferibili valori elevati; a* è l’indice del rosso e indica la tendenza del colore verso la banda del rosso (valori positivi) e del verde (valori negativi). Anche in questo caso sono preferibili valori più elevati di questo parametro; b* è l’indice del giallo e indica la tendenza del colore verso la banda del giallo (valori positivi) e del blu (valori negativi); al pari dell’indice del rosso tende a zero per colori vicino al grigio.

Il colore della carne, già descritto in precedenza, rappresenta il primo parametro che il consumatore apprezza.

La tenerezza è un altro dei parametri organolettici di grande importanza per il consumato-re ed è riportabile in larga misura al processo di maturazione della carne. I muscoli bianchi a contrazione veloce, come ad esempio il Longissimus dorsi, sono più teneri, rispetto ai muscoli rossi a contrazione lenta come lo Psoas maior. Ciò è dovuto al diverso equilibrio del livello di proteasi ed inibitori (sistema delle Calpaine e Calpastatina), alla sensitività delle proteine muscolari alla proteolisi e alla pressione osmotica.

Nel processo che rende la carne tenera il fattore più importante pare essere il sistema en-zimatico delle Calpaine. È stato dimostrato che i muscoli con prevalenza di fibre rosse a con-trazione lenta, che, come detto, mostrano la minore velocità di maturazione della carne, sono caratterizzati da un maggior contenuto di Calpastatina.

Un altro parametro fisico di rilevante importanza è rappresentato dal potere di ritenzione idrica delle carni. I muscoli di suini positivi al gene alotano mostrano alla macellazione un maggior numero di fibre αW e βR con scarso contenuto di glicogeno, una maggiore dimen-sione dell’area delle fibre, ed una minore densità capillare rispetto ai muscoli di animali non portatori dell’anomalia. Tali fibre hanno del resto un maggior contenuto in glicogeno e hanno un corredo enzimatico in grado di meglio utilizzare il glicogeno rispetto alle fibre β.

In generale poi, la glicolisi e l’inizio del rigor mortis sono più veloci nei muscoli bianchi che in quelli rossi. Tuttavia non si può non considerare che la variazione di temperatura in re-lazione alla profondità del muscolo, può nascondere la relazione riportata sopra. Il pH finale è positivamente correlato con la capacità ossidativa delle fibre e con le fibre rosse a contrazione lenta. Quello che è certo è che la variazione del potere di ritenzione idrica non dipende univo-camente dal tipo di fibra muscolare, ma anche da fattori premacellazione. Lo stress a cui sono sottoposti gli animali prima della macellazione è un fattore con importanti conseguenze sulla qualità della carne. La suscettibilità allo stress può variare in rapporto al tipo di fibra musco-lare: se l’animale viene sottoposto a stress si libera epinefrina, tanto più, quanto più l’animale è stressato. L’epinefrina è un ormone che determina la deplezione delle riserve di glicogeno muscolare che viene convertito in acido lattico. Se il fattore di stress per l’animale interviene sufficientemente prima della macellazione, per azione dell’epinefrina, si riducono le riserve di glicogeno e ciò determina un insufficiente abbassamento del pH post-mortem. Se invece il fat-tore di stress interviene a ridosso della macellazione, si assiste invece ad un repentino abbas-

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samento del pH. Sia un pH finale elevato che un abbassamento troppo repentino del pH sono fattori che influenzano negativamente la qualità della carne. Le fibre teoricamente più suscet-tibili allo stress dovrebbero essere le αW in quanto hanno un corredo enzimatico più “conso-no” all’utilizzazione del glicogeno, oltre ad avere più glicogeno. Tuttavia anche le αR, oltre ad una capacità ossidativa elevata, non mostrano una capacità gli colitica troppo dissimile da quella delle αW; in più, rispetto a queste, “ricevono” una maggiore quantità di sangue e quin-di di epinefrina. In effetti sono proprio le αR il tipo di fibra maggiormente suscettibile allo stress; in sostanza si può assumere che le fibre maggiormente sensibili allo stress sono quelle α (a contrazione rapida) indipendentemente dal tipo di metabolismo. Nelle razze a muscola-tura doppia è stato notato che vi sono un maggior numero di fibre e, tra queste, di quelle αW con un aumento, rispetto agli animali “normali” di circa il 46% del numero di fibre nei muscoli tricipite brachiale e semimembranoso. Questi animali sono risultati più suscettibili allo stress.

Rispetto alla qualità nutrizionale hanno molta importanza le dimensioni delle fibre e i li-pidi strutturali delle stesse (fosfolipidi e colesterolo). Le fibre rosse hanno una dimensione trasversale più piccola e pertanto i muscoli rossi mostrano maggiore numero di fibre e quin-di maggiore perimetro del sarcolemma per unità di volume. Il contenuto di lipidi strutturali è tanto più elevato quanto maggiore è la percentuale di fibre rosse che lo compongono, poiché questi sono presenti soprattutto a livello della membrana.

I fosfolipidi contengono molti acidi grassi insaturi e polinsaturi, che sono i principali sub-strati per l’ossidazione lipidica. I prodotti finali dell’ossidazione sono composti volatili che determinano lo sviluppo di odori sgradevoli nella carne, ma anche degli aromi nella carne cotta. Quindi i fosfolipidi possono influenzare positivamente e/o negativamente la qualità or-ganolettica e nutrizionale della carne e dei prodotti derivati. I muscoli “rossi” (a metabolismo ossidativo) sono pertanto caratterizzati da una maggiore quantità di fosfolipidi, quindi mo-strano una composizione acidica più suscettibile all’ossidazione rispetto a quelli “bianchi” (a metabolismo glicolitico).

Il contenuto in acqua della carne rappresenta uno degli aspetti più considerati dai consu-matori. Essa è presente in circa il 75% del muscolo nelle e tra le miofibrille, tra le mioflbrille e il sarcolemma (membrana cellulare della cellula muscolare), tra e nelle cellule muscolari. Per questo motivo si possono distinguere tre tipi di acqua: costituzionale, intrappolata, libera.

L’acqua costituzionale è intimamente legata alle proteine e rappresenta solo una minima parte dell’acqua totale: 0.5 g/g di proteine; se si considera che le proteine sono 200 mg/g di muscolo, l’acqua costituzionale si aggira intorno ai 100 mg contro i 750 mg/g di acqua tota-le del muscolo. L’acqua costituzionale non risente dell’azione della frollatura e non subisce l’azione del congelamento (non si trasforma in ghiaccio) e della cottura.

L’acqua intrappolata o immobilizzata è trattenuta nel muscolo sia per motivi “sterici”, sia per azione di legami con molecole cariche. Durante il periodo post mortem questa frazione non fluisce liberamente da un tessuto ad un altro e tuttavia è suscettibile al congelamento, e può essere facilmente eliminata con l’essiccazione. Questa frazione è sensibile alle modifi-cazioni del muscolo durante la frollatura; una troppo repentina caduta del pH determina una denaturazione delle proteine e una possibile perdita di acqua intrappolata.

L’acqua libera è rappresentata dalla frazione che fluisce libera tra i tessuti ed è mantenu-ta nel muscolo da forze di superficie. Nel pre-rigor l’acqua libera non è facilmente visibi-le, tuttavia si può liberare quando si creano le condizioni che portano l’acqua intrappolata a muoversi dalla sua posizione. La maggior parte dell’acqua del muscolo è sotto forma della frazione intrappolata.

È opportuno quindi conoscere e controllare i fattori che determinano il rilascio dal muscolo per ottenere un buon controllo di questo importante parametro qualitativo.

Tra i fattori che determinano l’essudazione della carne cruda (quindi del “weep” (trasuda-zione) e del “drip” (sgocciolamento)) vi è anzitutto, il pH. Al pH finale infatti, si raggiunge

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il punto isoelettrico di molte proteine del muscolo e in queste condizioni le cariche positive e negative delle molecole proteiche si equivalgono e quindi finiscono per attrarsi fra loro dimi-nuendo la possibilità di trattenere l’acqua. Inoltre, al punto isoelettrico, diminuendo la diffe-renza di carica, diminuisce la forza repulsiva tra le miofibrille che quindi divengono più vici-ne tra di loro. La denaturazione delle proteine sarcoplasmatiche aumenta parallelamente alla velocità di diminuzione del pH post mortem; le proteine denaturate trattengono meno i liquidi. Al momento della comparsa del rigor mortis: la capacità di trattenere l’acqua (WHC: Water-Holding Capacity) del complesso actimiosinico è minore di quella della miosina e dell’acti-na; oltre che da questi fattori, la stessa WHC è influenzata anche dalla specie, dall’età, e dalla funzione espletata dai muscoli.

Sulla capacità di trattenere l’acqua della carne cotta influiscono gli stessi fattori che agi-scono sulla carne cruda; tuttavia per la carne cotta, gli effetti saranno maggiori in quanto le elevate temperature che si registrano durante la cottura sono causa di una denaturazione pro-teica, che determina una notevole diminuzione del potere di ritenzione idrico.

Il processo di maturazione rappresenta una serie di eventi a carico delle carcasse consi-stenti in: modificazioni fìsico-chimiche, caratterizzate da una fase iniziale (pre-rigor) che si instaura da pochi minuti a mezz’ora dalla macellazione. Durante questo periodo inizia la gli-colisi a carico del glicogeno muscolare. Successivamente subentra il rigor mortis, da 3 a 6 ore fino a 24 ore dalla macellazione, dovuto ad un arresto della regolazione neuro-ormonale del muscolo; la caduta del tenore di ossigeno che comporta un arresto dei processi di respi-razione cellulare e il calo della temperatura; una diminuzione della presenza di vitamine e di sostanze antiossidanti e una alterazione profonda dell’equilibrio osmotico. Finché sussiste la disponibilità di creatininfosfato (CP) continua la produzione di ATP; quando CP si esaurisce si blocca la sintesi di ATP e si instaura la glicolisi anaerobia. Questi fenomeni sono predomi-nanti durante le prime 24 ore, nel corso delle quali si assiste ad una diminuzione del pH da valori di 6.8 a valori di 5.4-5.5. A questo stadio si ha la formazione di un legame irreversibile fra actina e miosina fibrillari, che provocano un accorciamento del muscolo che si irrigidisce, divenendo molto duro.

Esaurita questa fase si ha poi la risoluzione dello stato di rigor, dovuta alla proteolisi enzi-matica delle proteine sarcoplasmatiche che inducono una modificazione profonda della strut-tura chimico-fisica del muscolo, con denaturazione delle proteine, formazione dei composti aromatici e rottura dei legami crociati tra le fibre di collagene cioè della frazione insolubile del connettivo. La carne ritorna morbida e diviene commestibile, nel frattempo il pH aumen-ta gradualmente fino a valori prossimi alla neutralità.

È importante che il pH delle carni non raggiunga l’alcalinità in quanto questa è una condi-zione che favorisce i processi di putrefazione.

Durante la frollatura si ha anche un calo ponderale della carcassa per evaporazione, la cui entità dipende dalla maturità, dalla temperatura e dalla ventilazione. La velocità della frol-latura dipende soprattutto dal tipo di muscolo, dall’età dell’animale macellato, dallo stato di ingrassamento e dalla temperatura di refrigerazione.

La carne può essere consumata fresca (entro 5-6 giorni) purché conservata ad una tempe-ratura di 5-6°C, refrigerata, alla temperatura di 1-4°C, entro 15-20 giorni, congelata, entro 6 mesi, purché conservata alla temperatura di -18°C e surgelata (congelamento rapido in poche ore), oltreché essiccata, insaccata, affumicata, salata, inscatolata (Brandano P.,2008)

Caratteristiche nutrizionali delle carni

La componente proteica

La carne fresca contiene mediamente dal 19 al 24% di proteine (Tabella 1) che possono essere suddivise in proteine di tipo strutturale (collagene del tessuto connettivo), contrattili

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(actina e miosina) ed enzimi. Tra le sostanze proteiche si trovano inoltre ormoni, anticorpi, molecole con funzioni di trasporto dell’ossigeno (emoglobina del sangue e mioglobina del muscolo), o funzioni osmotiche (albumina del plasma) e infine lipoproteine e glicoproteine. Molte delle proteine della carne sono denaturabili a temperature relativamente basse (<60°C) o in ambiente acido. La loro denaturazione comporta cambiamenti nella loro solubilità e nel-le loro proprietà funzionali, con effetti su alcune caratteristiche qualitative della carne come, ad esempio, la capacità di trattenere acqua. Tali caratteristiche assumono un ruolo importante nel processo di trasformazione, quando la carne viene macinata e miscelata con altri compo-nenti a formare gel ed emulsioni.

Le proteine della carne sono ricche in aminoacidi definiti “essenziali”, assunto che fa ri-ferimento ai fabbisogni in termini di crescita, mantenimento e bilancio azotato positivo e la capacità o meno dell’organismo umano di sintetizzarli (Daly et al., 1990). Originariamente gli aminoacidi essenziali erano considerati istidina, isoleucina, leucina, lisina, metionina, fe-nilalanina, treonina, triptofano e valina. Attualmente la valutazione qualitativa delle proteine si basa sul bilancio degli aminoacidi essenziali e considera come tali lisina, treonina, valina, isoleucina, leucina metionina, fenilalanina, triptofano ed istidina. Nei bambini, sono ritenuti aminoacidi semi-essenziali anche cisteina, taurina, tirosina, istidina ed arginina, in quanto i meccanismi di sintesi non sono ancora completamente sviluppati.

Rispetto alle proteine dell’uovo, che sono prese come riferimento al fine di comparare la qualità di quelle di altri alimenti (si veda il capitolo dedicato a questo alimento), le carni bo-vine magre rispondono ai fabbisogni ad eccezione di una leggera carenza in triptofano, men-tre le carni suine, di agnello, di pollo e di tacchino (petto), di tonno e di salmone raggiungono la giusta proporzione di aminoacidi essenziali.

Tra gli aminoacidi essenziali, la metionina riveste un ruolo fondamentale per la crescita dell’individuo ed è un intermedio nella biosintesi di carnitina, taurina e lecitina. La metionina può essere convertita in cisteina, mentre l’omocisteina, con la vitamina B12 come cofattore, e per azione dell’enzima L-metilmalonil-CoA mutasi, può essere convertita in metionina. Le proteine dei vegetali sono in generale povere in aminoacidi solforati come la metionina (me-diamente 0,6 g/100 g di proteine), mentre le carni contengono fra 1 ed 1,26 g di aminoacidi solforati/100 g di proteine. In particolare esiste un rapporto ottimale tra cisteina e metionina necessario per l’accrescimento (da 1 a 2-2,5) con una percentuale negli aminoacidi solforati pari a 30-40% di cisteina e 60-70% di metionina. Rispetto a tale rapporto, nella soia, nei fa-gioli, nei piselli e nelle lenticchie si ha una maggiore percentuale di cisteina (60%) rispetto alla metionina (40%) (Massey, 2003). Pertanto, le proteine di origine vegetale, oltre ad avere un minor contenuto di aminoacidi solforati, si caratterizzano anche per un equilibrio sbilan-ciato fra cisteina e metionina.

comPonenti bioattive di oriGine Proteica

Con il termine di bioattivo si intende qualsiasi alimento o sue componenti in grado di dare benefici in termini salutistici inclusa la prevenzione da particolari patologie (Lee e Ho, 2002) Nella componente proteica della carne i composti che possono essere conside-rati bioattivi sono la taurina, la carnosina, il coenzima Q10 e la creatina. Il loro contenuto varia a seconda della specie, del tessuto e del muscolo considerato (Purchas et al., 2004) (Tabella 1 e 2).

La taurina

La taurina (acido 2-amino-etano-sulfonico) è un aminoacido solforato sintetizzato dalla metionina nel fegato e che si ritrova in molti tessuti animali, ritrovandosi sia come acido libero che come costituente delle proteine (Huxtable, 1992). Ad essa sono attribuite nu-

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merose attività biologiche (34 sono state elencate da Huxtable, 1992) sebbene una azione basilare non sia stata identificata. L’aggiunta della taurina nella alimentazione infantile e degli anziani sembra avere effetti benefici. Studi su ratti sottoposti ad intensa attività fi-sica hanno inoltre evidenziato che essa riduce lo stress ossidativo a livello muscolare e, pertanto, il danneggiamento delle cellule muscolari (Dawson et al., 2002). I suoi effetti, tuttavia, non si esercitano in individui adulti sani. I livelli di taurina nei tessuti animali variano a seconda del tipo di tessuto ed a seconda della specie considerata (Tabella 2 e 3) (Purchas et al., 2004).

La carnosina

La carnosina è un dipeptide (N-balanil-I-istidina) che si ritrova sia nel tessuto musco-lare sia in altre tipologie di tessuti dei mammiferi, è presente in alte concentrazioni nelle fibre muscolari bianche dove si può avere accumulo di acido lattico e dove svolge la sua azione tampone. Ad essa è attribuita una forte attività antiossidante ed antigenotossica, di-mostrata in colture linfocitarie umane ed anche proprietà anti-invecchiamento delle cellu-le. In studi su topi alimentati con diete integrate da carnosina è stata osservata una minore progressione ossidativa e infiammatoria di malattie neurodegenerative indotte, da cui se ne deduce un possibile ruolo nella prevenzione di patologie come il morbo di Parkinson (Tsai et al., 2010).

iL coenzima Q10

Detto anche ubichinone (2,3-dimetil-ossi-5-metil-6-decaprenil-1.4-benzochinone) è com-ponente della catena di trasporto degli elettroni a livello mitocondriale, anche ad esso sono attribuite proprietà antiossidanti (Overvad et al., 1999). La carne è una importante fonte di coenzima Q10 ed il suo contenuto è strettamente correlato al numero di mitocondri presenti nelle cellule muscolari.

La creatina

La creatina ed il suo derivato creatina-fosfato fosforilato creatinina, gioca un ruolo impor-tante nel metabolismo energetico del muscolo tanto che l’aggiunta, in certe circostanze, di creatina alla dieta favorisce le performance muscolari. La creatina muscolare è lentamente convertita in creatinina mediante la rimozione di acqua con la formazione di una struttura ad anello, tale fenomeno è accelerato durante la cottura della carne. Il contenuto in creatina e dei suoi derivati nella carne cotta sembra essere strettamente legato alla formazione di amine ete-rocicliche (HCA) durante la cottura in particolar modo ad alte temperature.

Tabella 2 – Contenuto medio di alcuni composti bioattivi di origine proteica nella carne bovina (Purchas et al., 2004, mod.)

ComponenteTipo ditessutoCuore Fegato Muscolo Semitendinoso

Taurina mg/100 g 182,48 22,3 45,8Carnosina “ 12,6 77,6 452,6Cornzima Q10 “ 6,05 4,60 2,18Creatina “ 298 16 401Creatinina “ 2,16 0,54 5,82

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Tabella. 3 - Concentrazione di principi bioattivi nella carne di agnello (Purchas e col., 2004)

Sesso MuscoloM F LL ST TB

Taurina mg/100g 79,1 83,7 31,0 108,7 104,5Carnosina “ 333,5 399,1 491,1 356,7 251,1Coenzima Q10 1,21 1,73 1,71 1,07 1,64Creatina “ 307 333 346 335 278Creatinina “ 4,69 5,25 5,90 4,69 4,31

LL: Longissimus lumborum ST: Semitendinosus, TB: Triceps brachii

La coLina

La colina quale precursore dell’acetilcolina è coinvolta nella regolazione del sonno, nel controllo dell’attività muscolare, regolazione di stati di ansia, apprendimento e memoria. La colina è sintetizzata in quantità molto ridotte dall’uomo mediante la conversione della fo-sfatidiletanolammina a fosfatiditicolinache a sua volta è trasformata in colina. Una adeguata ingestione di colina è legata a migliori performance neurofisiologiche mettendo in evidenza come una corretta assunzione può essere collegata ad un rallentamento della perdita delle ca-pacità cognitive negli anziani.

L’acido Lipoico

L’acido lipoico è una molecola antiossidante solubile sia in acqua sia nei lipidi, e quindi può agire sia a livello del citoplasma sia a livello delle membrane cellulari; è presente nei mitocondri delle cellule animali come cofattore degli enzimi della decarbossilazione ossi-dativa. Si trova soprattutto nei muscoli rossi e, particolarmente, negli animali che praticano intensa attività fisica. Anche nell’uomo si ritrova a livello muscolare anche se in quantità non sufficiente a poter esplicare il suo benefico effetto antiossidante. L’acido lipoico è fa-cilmente assorbito e, una volta inglobato nelle cellule, può essere ridotto a acido diidroli-poico Le sue proprietà antiossidanti si esplicano sia nella sua forma originale ossidata sia sotto quella ridotta.

La Vitamina e, La Vitamina a e i b- caroteni

La vitamina E, è rilevabile nelle carni solo con diete opportunamente integrate mentre la Vitamina A e i b-caroteni possono essere presenti in concentrazione più o meno elevata in funzione della quantità di foraggio fresco della razione.

La componente lipidica

I lipidi, presenti nella carne in concentrazione variabile del 2-8%, sono rappresentati da trigliceridi, di-gliceridi e mono-gliceridi ed, in concentrazione minore, da fosfolipidi. Il grasso nella carne può essere situato tra i muscoli, tra i fasci di fibre e tra le fibre musco-lari, in questo caso detto anche grasso intramuscolare o di marezzatura. Il grasso intramu-scolare è caratterizzato principalmente da trigliceridi e fosfolipidi, mentre i primi sono de-positati negli adipociti, i secondi vanno a costituire le membrane cellulari. Il suo contenuto dipende a sua volta dal contenuto medio di grasso della carcassa e dalla quantità di grasso sottocutaneo, dal tipo di taglio (nella specie bovina in particolare) e dalla razza considera-ta. I lipidi della carne contengono mediamente meno del 50% di acidi grassi saturi di cui

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circa il 25-35% sono a media catena (meno di 16 atomi di carbonio) ed oltre il 50% di aci-di grassi insaturi (Tabella 3).

Per quanto riguarda le carni, uno degli aspetti più temuti è l’apporto di alcuni acidi grassi e di colesterolo e l’effetto dei primi sulla concentrazione ematica di quest’ultimo nell’uomo.

Gli acidi grassi saturi (SFA), con catena carboniosa < 10 atomi di carbonio e l’acido stea-rico (C 18:0) non influenzano il tasso ematico di colesterolo. A proposito del Cl8:0 infatti, è noto che il nostro organismo è in grado di desaturarlo, per effetto dell’enzima SCD o Δ9 de-saturasi, in posizione 9, trasformandolo in acido oleico (C18:1 cis9).

Gli acidi laurico (C 12:0), miristico (C14:0), e palmitico (C16:0), invece, aumentano il tasso ematico di LDL colesterolo, cioè del così detto colesterolo “cattivo” e la colesterolemia tota-le. In particolare il C14:0 ha un potenziale di innalzamento del colesterolo serico, pari a 4 vol-te quello del Cl6:0. Per questo motivo le raccomandazioni della FAO e delle OMS indicano un contributo massimo (da parte degli SFA), del 7-10% del contenuto calorico totale della dieta, mentre l’apporto totale di lipidi non deve essere superiore al 30% dell’energia della dieta stessa.

Gli acidi grassi monoinsaturi (MUFA) sono rappresentati soprattutto dall’acido oleico (Cl8: cis 9). Questi permettono la diminuzione del colesterolo LDL, senza far diminuire il colesterolo HDL, migliorando quindi il rapporto LDL/HDL e abbassando, di conseguenza, la colesterolemia totale. Per quanto riguarda gli acidi grassi monoinsaturi, tuttavia, nella carne sono presenti anche gli isomeri trans, per i quali l’effetto negativo nei confronti della salute umana è ritenuto analogo o addirittura superiore a quello esercitato dagli acidi grassi saturi (Pedersen, 2001). Essi, infatti, oltre ad agire negativamente sulla colesterolemia totale, innal-zando il colesterolo LDL e facendo diminuire il colesterolo HDL (Hunter 2006), possono, soprattutto alcuni, come l’acido elaidico (C18.-1 t9), e il C18:1 tl0, essere correlati con pato-logie coronariche; inoltre, possono avere anche azione citossica.

Nell’alimentazione umana, tuttavia, la maggiore fonte di acidi grassi trans è rappresen-tata da oli e grassi idrogenati durante i processi industriali per rendere concreti gli oli ve-getali, come avviene per la produzione di margarine. Gli acidi grassi trans che si ritrovano nella carne dei ruminanti derivano dai processi di bioidrogenazione che si verificano nel rumine a carico degli acidi grassi polinsaturi naturalmente presenti nella dieta di questi animali. Tali processi tendono ad eliminare i doppi legami degli acidi grassi polinsaturi e a trasformare questi ultimi in acido stearico. Durante tale processo, tuttavia, si formano acidi grassi trans, che rappresentano degli intermedi di reazione, in quantità variabile in funzione della dieta, del tipo di animale e del suo stato fisiologico (Mele, 2009). L’isome-ro trans quantitativamente più importante è nella maggior parte dei casi l’acido vaccenico (C18:1 t11). Per questo isomero non sono dimostrati effetti negativi specifici nei confron-ti della salute umana, ma recenti sperimentazioni hanno messo in luce un ruolo potenzial-mente positivo legato alla sua metabolizzazione a Cl8:2 C9, t11, per azione dell’enzima SCD o Δ-9 desaturasi, formando cioè l’acido rumenico, il più importante fra gli isomeri dell’acido linoleico coniugato (CLA).

L’argomento relativo agli acidi grassi trans è di grande rilievo, viste anche le indicazioni emanate negli USA dalla Food and Drug Administration in merito agli alimenti che conten-gono tali sostanze e, conseguentemente ai pesanti adempimenti che sono necessari per l’im-portazione negli USA medesimi di alcuni di questi prodotti di origine animale. In base a ciò, è molto probabile che presto si pronunci ufficialmente sugli acidi grassi trans anche l’UE, che per ora ha solo espresso la raccomandazione di limitarne il più possibile il consumo.

Gli acidi grassi polinsaturi più importanti sono l’acido linoleico (LA) (C18:2 n-6) e l’aci-do linolenico (LNA) (C18:3 n-3), detti acidi grassi essenziali per l’impossibilità dell’organi-smo umano di sintetizzarli.

Le vie sintetiche delle serie n-6 e n-3 utilizzano gli stessi enzimi, con una maggiore affi-nità per desaturasi ed elongasi da parte dei PUFA n-3 rispetto ai PUFA n-6; gli effetti più im-

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portanti sono legati, nella serie n-6, all’acido arachidonico, (AA; C20:4 n-6) e in quella n-3, agli acidi Eicosapentaenoico o EPA (C20:5 n-3) e Docosoesaenoico o DHA (C22:6 n-3). Tali acidi grassi sono tipici, come già detto, del grasso dei pesci, ma si trovano in varie quantità nella componente lipidica del latte e delle carni di tutte le specie.

I lipidi intramuscolari delle carni dei ruminanti si caratterizzano anche per la presenza di una categoria di acidi grassi molto particolare: gli isomeri dell’acido linoleico coniugato (CLA). Ai CLA sono attribuite numerose attività nutraceutiche quali l’inibizione della carci-nogenesi, la riduzione della deposizione lipidica, la riduzione dei trigliceridi ematici, un’atti-vità antidiabetica ed antiaterogenica. Molti ricercatori hanno focalizzato l’attenzione su due isomeri particolari: il CLA cis-9, trans-11, e il CLA trans-10, cis-12 la cui attività biologica differisce. Il CLA cis-9 trans11, detto acido rumenico (RA) è quello in assoluto più rappre-sentato nella carne e nel latte dei ruminanti, in particolare nei lipidi neutri dove viene prefe-renzialmente esterificato (Dannenberger et al., 2004). L’acido rumenico si forma durante il processo di bioidrogenazione della acido linoleico nel rumine. Tuttavia la gran parte dell’a-cido rumenico presente nel grasso della carne dei ruminanti deriva dalla sintesi endogena a partire dall’acido vaccenico, attraverso l’azione dell’enzima Stearoil-Coenzima A-desaturasi a livello tissutale secondo una relazione lineare.

Gli acidi grassi ramificati (AGR) sono acidi la cui struttura presenta una particolarità: la ca-tena carboniosa invece di essere lineare, presenta delle “ramificazioni”, vale a dire dei gruppi metile laterali. A seconda che tali gruppi siano posti in corrispondenza del secondo o del ter-zo atomo di carbonio, vengono definiti rispettivamente acidi grassi ramificati iso ed anteiso. La sintesi degli AGR metil sostituiti avviene nel rumine per azione dei batteri che metaboliz-zano gli aminoacidi isoleucina e leucina.

C’è un crescente interesse riguardo gli AGR, quali potenziali strumenti diagnostici della funzione ruminale (es. l’andamento delle fermentazioni ruminali e dei batteri nitrogeni). Al-tri motivi dell’interesse degli AGR sono il loro effetto anticarcinogeno sulle cellule cancero-se, la loro influenza sulla temperatura di fusione del grasso del latte e il loro potenziale come indicatori dell’assunzione di latte e dei suoi derivati da parte dell’uomo.

Rispetto alla già citata attività anticancerogena, in uno studio sulle cellule della musco-latura liscia vascolare è stato rilevato che gli AGR attuano un meccanismo di induzione dell’apoptosi delle cellule cancerogene umane, di ratto e di maiale. Gli AGR favoriscono ta-le processo inducendo l’attivazione e la secrezione dei fattori di necrosi tumorale a (TNF-a), che neutralizzano, quasi completamente, gli anticorpi responsabili del blocco dell’apoptosi (Wongtangtintharn et al., 2004).

II colesterolo è un importante lipide che svolge un ruolo fondamentale quale componente, insieme con i fosfolipidi e con alcune proteine, della membrana cellulare; ai fini del mante-nimento della loro integrità strutturale e, di conseguenza, funzionale.

Il colesterolo inoltre, appartiene alla stessa catena metabolica che porta alla sintesi della vitamina D, degli ormoni steroidei e degli acidi biliari. Le sue funzioni sono pertanto estre-mamente rilevanti.

Il colesterolo rappresenta circa lo 0.2% del peso corporeo: il 75% si ritrova nel cervello, nel sistema nervoso periferico, nel tessuto connettivo, nei muscoli e nella pelle; solo il 7-8% è presente nel sangue. Il tasso ematico del colesterolo nell’uomo è legato in larga misura alla predisposizione genetica del singolo individuo e agli interventi sulla dieta; con la restrizione dell’apporto di componenti ricchi di colesterolo non dà molto giovamento, portando ad una riduzione della colesterolemia soltanto del 5- 10%. Al contrario, in caso di ipercolesterole-mia, l’errore dietetico, cioè il consumo di diete squilibrate, con elevati apporti di colesterolo, può peggiorare la condizione.La concentrazione ematica del Colesterolo che, in condizioni normali non deve superare i 200 mg/ml, rappresenta un pool importante per il trasporto verso e dai diversi tessuti, tramite le lipoproteine, rispettivamente LDL e HDL. L’organismo rica-

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va il colesterolo da due fonti: circa1-2 g/d viene sintetizzato da diversi tessuti, in particolare dal fegato, a partire dall’Acetil Coenzima-A, che deriva dal metabolismo di glucidi, lipidi e protidi (colesterolo endogeno); mentre una seconda parte viene assorbita dall’intestino, dove è presente il colesterolo proveniente dalla bile e dagli alimenti (da 0,1 a 0,3 g/d) questo sarà denominato colesterolo esogeno. Nell’intestino passano giornalmente g 1,3-1,7 di colestero-lo (circa g 0.3 di origine alimentare,considerato il valore massimo di assunzione previsto) e da g 0,6 a 1,7 di origine biliare. Di tutto questo, il 95% viene assorbito a livello intestinale e inglobato nei chilomicroni, mentre il resto viene escreto con le feci.

La sintesi del colesterolo nell’organismo parte dall’Acetil-Coenzima A; si genera poi Ace-toacetil CoA e poi, da questo Idrossimetiglutaril-CoA (HMG-CoA) che, per azione dell’en-zima HMG- reduttasi, è trasformato in acido mevalonico, da cui, passa successivamente a squalene, e lanosterolo e, infine, a colesterolo. L’HMG-reduttasi è l’enzima chiave della bio-sintesi del colesterolo ed è proprio a questo livello che si esercita la regolazione della produ-zione endogena del colesterolo stesso.

Il trasporto del colesterolo nell’organismo evidenzia la funzione esercitata dalle proteine a bassa densità (LDL, Low Density Lipoproteins, o “ colesterolo cattivo”) che veicolano il co-lesterolo dal fegato (sede di accumulo, cui giunge trasportato dai chilomicroni) agli organi e agli apparati periferici. Dalla periferia al fegato la funzione di trasporto è assolta invece, dal-le lipoproteine ad alta densità (HDL, High Density Lipoproteins) o “colesterolo buono” così detto perché allontana il lipide dalla periferia riportandolo nella sede di accumulo.

Un fattore importante nel determinismo della colesterolemia è costituito dall’assenza o dal cattivo funzionamento dei recettori cellulari delle LDL, che normalmente assicurano un’ade-guata eliminazione dal sangue di particelle ricche di colesterolo.

Recentemente, a proposito dell’aumento del colesterolo-LDL, è stata segnalata un ‘ulte-riore acquisizione, consistente in un processo di glicazione del colesterolo-LDL stesso, con formazione, in presenza di zuccheri come il glucosio e il fruttosio, di Metilgliossale-LDL, cioè di una molecola più adesiva che, per questa sua caratteristica, possiede una capacità di attaccarsi alle pareti arteriose, favorendo così la formazione di ateromi.

Questo processo metabolico è da temersi soprattutto per soggetti che soffrono di patologie coronariche e che siano contemporaneamente iperglicemici, come coloro che sono affetti da Diabete di Tipo II. L’abbondante e contemporanea presenza di glucosio e di colesterolo LDL nel torrente circolatorio, rende più probabile l’attivazione degli eventi che portano alla forma-zione di Metilgliossale-LDL, che è più pericoloso dello stesso colesterolo-LDL.

In base a quanto sopra detto, il ruolo del colesterolo degli alimenti, è molto più conosciuto rispetto al passato e, pertanto, la sua pericolosità è assai più circoscritta. Esso più che un pe-ricolo costituisce un problema per la sua natura di lipide insaturo e perciò facilmente ossida-bile. I prodotti di tale processo di ossidazione sono detti COPs, cioè Prodotti di Ossidazione del Colesterolo, e rivestono un ruolo molto insidioso, perché sono inodori, mentre i prodotti di ossidazione degli acidi grassi, denunciano alterazioni olfattive e di sapore (irrancidimento) e rivelano facilmente la loro presenza nell’alimento.

In generale gli acidi grassi saturi (SFA), soprattutto l’acido miristico, sono associati ad un incremento del livello di colesterolo LDL nel plasma umano, parametro che, a sua volta, è associato ad un incremento del rischio di malattie cardiovascolari, mentre gli acidi grassi po-linsaturi (PUFA) avrebbero un effetto opposto.

Nei fosfolipidi della membrana cellulare la percentuale di PUFA risulta essere più alta ri-spetto a quella dei trigliceridi: essi non solo contengono gli acidi grassi essenziali acido lino-leico (LA, C18:2 n-6) e alfa-linolenico (ALA, C18:3 n-3), ma anche i loro prodotti di elon-gazione e desaturazione come l’acido arachidonico (ARA, C20:4 n-6) per gli omega-6 ed eicosapentanoico (EPA, C20:5 n-3) e docosaesanoico (DHA, C22:6 n-3) per gli omega-3. I fosfolipidi giocano un ruolo fondamentale nelle funzioni delle membrane cellulari ed il loro

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contenuto in PUFA è strettamente controllato da un complesso sistema enzimatico respon-sabile della conversione di LA e ALA nei metaboliti di lunghezza maggiore. Gli acidi grassi che costituiscono i fosfolipidi di membrana sono meno influenzati dalla dieta rispetto ai tri-gliceridi, sebbene si possano osservare delle differenze nel contenuto in LA e ALA in funzio-ne di diversi regimi alimentari.

Dal confronto dei diversi tipi di carne (Tabella 1), si può osservare come le carni di pol-lo, coniglio e suino abbiano mediamente un contenuto di acidi grassi polinsaturi superiore a quello delle carni dei ruminanti, tuttavia, il rapporto n6/n3 è molto più elevato, soprattut-to nella carne di suino e nella carne di pollo rispetto a quello della carne di agnello ed in particolare degli agnelli da latte. Il più elevato contenuto di SFA nella carne dei ruminanti è legato sostanzialmente ai processi di bioidrogenazione ruminale che si verificano a carico della frazione di acidi grassi insaturi della dieta. Da ciò ne consegue il più basso rapporto PUFA/SFA che si riscontra in tali carni ed in particolare di quelle di bovino adulto, fatta eccezione per la carne di bovini appartenenti a razze ipertrofiche nelle quali tale rapporto oscilla fra 0,5 e 0,7.

Il rapporto n-6/n-3 è considerato un parametro molto importante per la valutazione del regime alimentare. Secondo la FAO/WHO il rapporto n-6:n-3 dovrebbe essere pari a 4:1, sebbene il valore ottimale è spesso funzione della condizione fisiologica considerata (Si-mopoulos, 2002). Secondo (McAfee et al, 2010), tuttavia, più del rapporto n-6/n-3 sarebbe importante considerare la quantità assoluta di PUFA n-3 ingeriti giornalmente. Attualmente il rapporto n-6:n-3 della dieta, soprattutto nelle popolazioni dei Paesi Occidentali, ha rag-giunto valori molto elevati rispetto a circa un secolo fa, principalmente a causa dell’evo-luzione dei sistemi di produzione agricola. Questi, infatti, nel tempo hanno portato ad una riduzione sostanziale della complessità nutrizionale con cui l’uomo si è co-evoluto. Delle circa 300.000 generazioni che hanno preceduto l’uomo di oggi, soltanto 400 hanno cono-sciuto l’agricoltura, troppo poche per una adattamento complessivo del genoma umano a questa nicchia alimentare artificiale. Da ancor meno tempo, circa 150 anni, le popolazio-ni dei paesi sviluppati hanno fatto la conoscenza con tipologie di alimenti, tra cui la stessa carne, precedentemente sconosciuti o caratterizzati da una composizione assai differente. È con la rivoluzione industriale, infatti, che inizia la fase dell’intensivizzazione delle pro-duzioni agricole, ivi compresi gli allevamenti animali, che hanno portato ad una modifica-zione dei sistemi di alimentazione degli erbivori, introducendo nella loro dieta quantità cre-scenti di cereali, per migliorarne la produttività. Questo processo, se da un lato ha portato ad un netto miglioramento della sicurezza alimentare in termini di possibilità di accesso al cibo da parte della popolazione, dall’altro ha modificato profondamente le caratteristiche nutrizionali della componente lipidica delle carni rendendole più ricche in grasso e con un maggior contenuto di acidi grassi saturi e di acidi grassi polinsaturi omega-6. Il risultato è che, rispetto alle carni con cui la specie umana si è co-evoluta, le carni attuali apporta-no una maggior quantità di grasso e hanno i rapporti acidi grassi saturi/polinsaturi e acidi grassi omega-6/omega-3 più elevati (Fig. 1). Questi cambiamenti, assieme all’introduzione nella dieta dell’uomo moderno di elevate quantità di oli di semi, grassi idrogenati, zuccheri semplici raffinati, farine raffinate, sono considerati tra i maggiori fattori dietetici che pre-dispongono allo sviluppo di alcune patologie come diabete, obesità e disturbi dell’apparato cardio-circolatorio che affliggono le società sviluppate (Buccioni et al., 2011).

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Figura 1. Confronto tra le caratteristiche nutrizionali della carne di animali selvatici e di ani-mali allevati con metodi intensivi (Buccioni et al., 2011).

Oltre ad influenzare il contenuto in acidi grassi insaturi delle serie n-3 ed n-6, l’alimen-tazione animale, in particolare dei poligastrici, ricca in concentrati, ha modificato anche il contenuto in isomeri trans del grasso intramuscolare degli stessi. Il grasso intramuscolare dei bovini e dei ruminanti in genere contiene dal 2,8 al 3,3% di isomeri C18:1 trans. Quando il regime alimentare è costituito prevalentemente da foraggi, freschi o conservati, l’isomero predominante è il C18:1 trans-11 o acido vaccenico (VA). Nel caso di diete ad alto contenu-to di granelle di cereali, tipiche dei regimi alimentari adottati per l’ingrasso dei ruminanti, la proporzione dei singoli isomeri trans varia considerevolmente sia in quantità sia in qualità, caratterizzandosi per un aumento di C18:1 trans-10 e trans-9, due isomeri associati con au-menti della colesterolemia nell’uomo.

Tabella 3 – Contenuto medio di CLA nelle carni di diverse specie

Riferimento Agnello Bovino adulto Vitello Suino Pollo Tacchino EquinoIn mg/g lipidi

Chin et al. (1992) 5,6 2,9-4,3 2,7 0,6 0,9 2,5Shanta et al. (1994) 5,8-6,8Duley (1997) 11,0 3,6-6,2 0,7 0,6Ma et al. (1999) 1,2-3,0Raes et al. (2003) 4,0-10,0

Mg/ g FAMEFritsche e Steinhardt (1998) 12,0 6,5 1,2/1,5 1,5 2,0Rule et al. (2002) 2,7–5,6 0,7Wachira et al. (2002) 8,8-10,8Knight et al. (2004) 19,0

Sebbene la biosintesi di CLA a livello tissutale si abbia anche nei monogastrici la dispo-nibilità di acido vaccenico è maggiore nei ruminanti a causa della bioidrogenazione ruminale ed è proprio dalla desaturazione dell’acido vaccenico che si ottiene gran parte dell’acido ru-menico a livello del tessuto muscolare. Ciò, di fatto, giustifica il maggior contenuto in CLA nel tessuto muscolare dei ruminanti rispetto ai monogastrici. Il più alto contenuto in CLA si ritrova nella carne di agnello (Tabella 3), leggermente minore è il contenuto riscontrato nelle

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carni bovine, mentre il contenuto nelle carni suine, equine ed avicole, fatta eccezione per la carne di tacchino, è inferiore ad 1 mg/g di grasso. Variazioni notevoli nel contenuto in CLA non solo si riscontrano fra specie, ma anche all’interno della specie in funzione della tecnica di allevamento adottata e dei costituenti della razione stessa. L’acido rumenico costituisce un percentuale dei CLA totali che oscilla da un minimo di un 59% a più dell’80%.

Fra gli erbivori monogastrici il coniglio presenta senza dubbio una carne estremamente interessante dal punto di vista nutrizionale con una composizione acidica caratterizzata da circa il 60% di acidi grassi insaturi (Tabella 1), di cui circa la metà rappresentata dai PUFA. Fra i PUFA, l’acido linoleico rappresenta circa il 22±4,7% degli acidi grassi totali, mentre il contenuto in acido alfa-linolenico risulta essere pari al 3,3±1,5% (Hernandez & Dalle Zotte, 2010). Nel complesso i PUFA n-3 sono presenti in quantità più elevata rispetto ad altri tipi di carne grazie al largo impiego di erba medica disidratata nei mangimi impiegati nell’alimen-tazione di questa specie.

I lipidi intramuscolari della carne di suino presentano un minore contenuto in acidi gras-si saturi rispetto a quelli dei ruminanti (Tabella 1) con un maggiore contenuto anche in acidi grassi monoinsaturi ed un contenuto in polinsaturi inferiore soltanto a quello della carne di agnello e della carne avicola (Tabella 1). Fra i PUFA, l’acido linoleico, così come nella car-ne avicola, è quello presente in maggiori quantità, sia nel grasso intramuscolare sia in quello sottocutaneo (Teye et al., 2006). Rispetto alla carne dei ruminanti la carne suina contiene un maggior contenuto in PUFA a lunga catena della serie omega-6, mentre relativamente ai de-rivati dell’acido alfa-linolenico (EPA e DHA) i valori sono molto simili a quelli riscontrabili nella specie bovina e ovina.

A prescindere dalla specie di provenienza, la composizione degli acidi grassi della carne è fortemente influenzata dalla tecnica di allevamento e dal regime alimentare applicato nella fase di allevamento.

Sostanze bioattive di natura lipidica

Trattando della carne è importante accennare al ruolo di alcune sostanze che svolgono una funzione nutraceutica.

A questo proposito fra i lipidi sono da ricordarsi alcuni acidi grassi quali l’acido oleico (C18:l, cis9), della cui azione ipocolesterolemizzante è stato accennato in precedenza, così come sono già state ricordate le più recenti acquisizioni sull’effetto anticancerogeno degli acidi grassi ramificati.

Tra i PUFA, gli n-3 e gli n-6 hanno un ruolo nutraceutico di considerevole importanza. Es-si derivano dall’acido linoleico (n-6) e linolenico (n-3). Mentre i metaboliti degli n-3 hanno sempre una funzione positiva sia sulla CHD, sia sui disturbi del ritmo cardiaco, sia di tipo an-titumorale, più discusso è il ruolo degli acidi grassi n-6.

Se si considerano gli effetti di uno tra i più importanti tra gli acidi n-6, cioè l’acido arachi-donico (AA), è giusto riconoscergli un’attività positiva, durante lo sviluppo fetale, nel pro-cesso di sviluppo del sistema nervoso. In generale, invece, nell’età adulta l’eccesso di PUFA n-6 può sviluppare effetti ipercolesterolemizzanti e pro-infiammatori, quali precursori delle prostaglandine, dei trombossani e delle prostacicline di tipo 1 e 2, molecole coinvolte anche nei processi di aterogenesi e di cancerogenesi.

Questa ultima attività è legata al ruolo dell’acido arachidonico che, contrariamente alla funzione prima descritta durante lo sviluppo fetale, nell’individuo adulto esplica il ruolo di produttore di eicosanoidi, importanti fattori di cancerogenesi. In generale gli eicosanoidi deri-vanti dall’AA sono pro-infiammatori, mentre quelli derivati dall’EPA hanno effetti antinfiam-matori. I primi, prodotti dall’AA (PGE2, LTB4, TBX2 e acido idrossitetranoico o 12-HETE), sono correlati positivamente con la cancerogenesi. In particolare, la PGE2 favorisce la so-

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pravvivenza delle cellule tumorali, inibendo l’apoptosi e stimolando la produzione cellulare e l’angiogenesi tumorale. II 12-HETE esplica attività antiapoptoica, angiogenetica e promuove l’adesione tra le cellule tumorali che migrano attraverso il torrente circolatorio, favorendo la formazione di metastasi. In definitiva, l’effetto cancerogeno fondamentale degli eicosanoidi derivanti dall’AA,si esplica attraverso l’azione dell’enzima Citocromo P450 monossigenasi (acido 14-15 epossieicotetranoico), che determina l’inibizione della apoptosi e la stimolazio-ne della proliferazione cellulare.

Gli acidi grassi n-3 inducono invece la diminuzione del colesterolo e delle VLDL, hanno attività antinfiammatoria e pertanto premuniscono dalle lesioni delle pareti dei vasi sangui-gni, svolgono un ruolo di antiaggreganti piastrinici, riducono l’adesività dei neutrofili alle cellule dell’endotelio basale, regolano la pressione arteriosa e modulano il ritmo cardiaco. Quest’ultima proprietà antiaritmica è una dette caratteristiche più interessanti cui attualmente viene attribuito un ruolo ragguardevole. La somma di questi effetti è attribuibile in particolare all’EPA e al DHA. Il primo, infatti, riduce i lipidi ematici, esplica effetto antinfiammatorio, antiaritmico e antitrombotico, riducendo i trombossani pro-aggreganti (TXA2) e aumenta le prostacicline vasodilatatorie (PG13). Ciò comporta in particolare la riduzione della coagula-bilità del sangue e, come già prima ricordato, la prevenzione delle aritmie e la stabilizzazione del battito cardiaco. L’attività antinfiammatoria si esplica attraverso la produzione di eicosa-noidi (PGE3, PG13, TXA3), che riducono gli effetti degli agenti pro- infiammatori. Favori-sce, infine, la diminuzione della microalbuminuria.

Il DHA riduce anch’esso i lipidi ematici, esercita effetti antinfiammatorio e anti-iperten-sivo, protegge e migliora la funzionalità del tessuto retinico, riduce i fenomeni di apoptosi cellulare nella retinopatia diabetica e induce la diminuzione della microalbuminuria. Pertan-to ha anch’esso un effetto positivo sulla riduzione dei trigliceridi e sull’aumento delle HDL; agisce in senso anti-ipertensivo ed è attivo nella prima fase dell’infiammazione. Il DHA ha infine la proprietà di fissarsi nelle membrane della retina, dei nervi e del cervello, divenendo componente essenziale del sistema nervoso e favorendone la maturazione durante lo svilup-po embrionale e post embrionale.

La presenza di PUFA, in assenza di antiossidanti, può indurre stress ossidativo, con dan-ni al DNA delle cellule. Si può poi avere l’interazione degli acidi grassi con le vie di trasdu-zione e con probabili alterazioni dell’espressione genica; sono possibili modificazioni della concentrazione degli estrogeni e effetti sull’attività di enzimi legati ai lipidi di membrana, co-me il citocromo P450 che regola il metabolismo degli estrogeni e degli xenobiotici. Infine, si possono avere modificazioni a carico delle membrane cellulari, con alterazione dei recettori per gli ormoni e per i fattori di crescita.

II meccanismo attraverso il quale i PUFA n-3 agiscono è legato all’inibizione della sin-tesi di eicosanoidi derivati dall’AA. Ciò avviene secondo vie di azione diverse, fra le qua-li sono fondamentali alcuni aspetti che ricordiamoin dettaglio. Anzitutto l’assunzione con la dieta di elevate quantità di PUFA n-3, comporta la loro incorporazione nei fosfolipidi di membrana, con parziale sostituzione di quelli derivati dall’AA, con quelli originati dell’E-PA (prostaglandine della serie 3 e leucotrieni della serie 5). Inoltre, i PUFA n-3 sono un substrato per desaturasi ed elongasi con maggiore affinità per tali enzimi rispetto ai PUFA n-6; in tal modo si riduce la produzione di AA a partire dall’acido linoleico e di conseguen-za la produzione di eicosanoidi di AA-derivati. Infine i PUFA n-3 inibiscono l’attività della COX-2 e competono con gli n-6 per la ciclossigenasi con la produzione di prostaglandine e trombossani della serie 3.

Anche nei confronti delle lipossigenasi l’EPA ha maggiore affinità dell’AA e ciò comporta la formazione di prodotti EPA-derivati a discapito di quelli AA derivati.

Continuando nella trattazione delle componenti bioattive delle carni, bisogna ricordare che Pariza et al. (1979) osservarono nella carne di hamburger una sostanza in grado di inibire alcu-

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ne forme di tumore chiaramente indotte. Furono identificati una serie di isomeri posizionali e geometrici dell’acido linoleico contenenti due doppi legami; queste sostanze furono chiamate per semplicità CLA, cioè isomeri dell’acido linoleico a dieni coniugati (Pariza et al., 1979).

L’interesse della comunità scientifica verso questi composti è legato alla loro attività bio-logica e la National Academy of Science ha definito CLA “l’unico acido grasso che mostra in maniera inequivocabile attività anticarcinogena in esperimenti condotti su animali”.

Queste molecole, inoltre sono attive contro altre patologie come l’aterosclerosi, il diabe-te e l’obesità, svolgendo un’azione anticolesterolemica e di protezione dalle coronaropatie; mostrano effetti antidiabetici nel diabete di tipo II (legato agli eccessi di alimentazione e al-la condizione dì obesità), sono immunomodulanti e favoriscono la riduzione dell’obesità. Quest’ultimo effetto è attribuito al C18:2 trans 10 cis 12, uno dei CLA sul cui ruolo metabo-lico si avanzano ora alcune riserve. Riguardo l’attività anticarcinogena, solo gli isomeri cis9, trans 11 e trans 10, cis 12 si sono rilevati attivi.

Al fine di spiegare i benefici effetti dei CLA sono stati proposti alcuni meccanismi attivi nell’attenuazione o nell’inibizione dell’inizio e/o della progressione dei vari tipi di tumore. Questi includono: l’inibizione dell’angiogenesi; l’attenuazione dell’espressione dell’attività delle citochine infiammatorie; l’inibizione delle fosfolipasi COX e LOX (FLAP), da cui de-riva l’attività in grado di modulare la produzione di eicosanoidi; la regolazione di vari mec-canismi che determinano stress cellulare e i fattori di trascrizione coinvolti nella risposta allo stress infiammatorio, così come la regolazione degli oncogeni pro o antiapoptoici, responsa-bili dell’andamento del ciclo cellulare e della sopravvivenza o, al contrario, della morte del-le cellule. Inoltre in seguito alle acquisizioni sulla possibilità da parte dei CLA di aumentare l’efficacia di agenti antitumorali (Doxoletal e Doxorubicin) sull’inibizione del gene Bcl-2 per la sopravvivenza delle cellule e dell’induzione del gene P53 dell’apoptosi in linee di cellule umane cancerose, si profila una possibile utilizzazione dei CLA associati a farmaci nella te-rapia dei tumori.

Il grasso dei tessuti degli animali appartenenti al sub-genere dei ruminanti è caratterizzato da un contenuto più elevato di RA rispetto ai monogastrici.

Questa categoria di acidi grassi è costituita da un numero considerevole di molecole che differiscono sia per la disposizione dei doppi legami lungo la catena acilica (posizione 8,9,10,11 ecc.), sia per la conformazione geometrica (cis-cist cis-trans, trans-trans). Nel latte e nella carne dei ruminanti sono presenti molti isomeri CLA, tuttavia il 90% è rappresenta-to dal C18:2 cis9-trans11, al quale sono attribuite alcune delle proprietà nutraceutiche sopra riportate.

I glucidi della carne

I glucidi sono presenti in ragione del 2% e lo zucchero che li rappresenta è il glicogeno che si trova nei muscoli degli animali e che durante la macellazione ed il periodo di frollatura viene completamente trasformato in acido lattico.

Le Vitamine

Le vitamine sono una componente molto importante nella carne e quelle presenti in con-centrazioni maggiori sono la vitamina A, la vitamina D, presenti nelle interiora, la B2 ,B6, B12, PP, l’acido folico, la vitamina K ed i tocoferoli (Tab. 4).

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Tabella 4 - Contenuto vitaminico in alcune carni (mg/100 g di parte edibile) (Dalle Zot-te & Szendro, 2011)

Suino Vitellone Vitello Pollo ConiglioVitamina B1 0,38-1,12 0,07-0,10 0,06-0,15 0,06-0,12 0,18Vitamina B2 0,10-0,18 0,11-0,24 0,14-0,26 0,12-0,22 0,09-0,12Vitamina PP 4,0-4,8 4,3-5,3 5,0-6,3 4,7-13,0 3,0-4,0

Vitamina B12 1,0 2,5 1,6 <1,0 8,7-11,9Folati mg 1 5-24 14-23 8-14 10

α-tocoferolo 0-0,11 0,09-0,20 0,12 0,26 0,16Vitamina D mg 0,5-0,9 0,5-0,8 1,2-1,3 0,2-0,6 tracce

Vitamina a ed e

Come tutte le vitamine liposolubili esse si vanno a concentrare in particolar modo nel tessuto adiposo, il fegato è particolarmente ricco in retinolo sebbene il suo contenuto sia fortemente influenzato dalla dieta dell’animale. La carne può essere considerata una im-portante fonte di vitamina E sebbene le moderne tecniche di allevamento prevedano una alimentazione basata su foraggi conservati ed elevate quote di concentrati comunque re-lativamente poveri di tocoferoli naturali con una conseguente riduzione nel contenuto ri-spetto ad esempio alle carni di animali allevati al pascolo, tanto che nelle moderne prati-che l’integrazione della dieta, soprattutto nella fase di finissaggio, con vitamina E è pratica ormai consolidata.

Vitamina d

La vitamina D è essenziale per lo sviluppo e la salute dell’apparato scheletrico. La carne è uno dei pochi alimenti in grado di fornirne dosi adeguate: è possibile trovarla nella forma del suo metabolita 2,5-idrossicolicalciferolo (2,5(OH)D5) che si ritrova in quantità significative nei muscoli, ma anche nel fegato e che si caratterizza per la sua elevata attività biologica ri-spetto ad altre forme. Va inoltre considerato che la componente proteica della carne può mi-gliorare l’assorbimento della vitamina D, specialmente in quei soggetti che presentano una scarsa esposizione alla luce solare. Secondo alcuni autori la carne contribuisce tra il 22% ed il 26% del fabbisogno giornaliero di vitamina D.

Vitamina b12

Il suo ruolo è nella formazione di globuli rossi, nel metabolismo degli acidi grassi e nella formazione della guaina mielinica delle cellule nervose La carne dei ruminanti è un’impor-tante fonte di Vitamina B12, infatti essa deriva principalmente dalla sintesi ad opera dei mi-crorganismi ruminali ed è stoccata per circa il 60% nel fegato e per il 20-30% nei muscoli ed il suo contenuto si aggira intorno a 20 ng/g rispetto ai 7 ng/g che è possibile ritrovare nella carne suina e 4 ng/g della carne avicola presentandosi nella sua forma bioattiva a differenza di quella presenza nelle carni di pesce. Nel bovino il suo contenuto è risultato essere più ele-vato nei tagli del quarto anteriore come il “reale” (20 ng/g) rispetto alla lombata (9 ng/g) o al girello (11 ng/g) mettendo in evidenza come essa si vada a concentrare in tagli ricchi di mu-scoli ad attività ossidativa rispetto a quelli nei quali prevale l’attività glicolitica o dove l’atti-vità ossidativa è più ridotta come la lombata.

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L’acido FoLico

La carne è una importante fonte di donatori di gruppi metilici quali i folati e la vitamina B12 e fattori di trasferimento quali metionina e colina. I folati e la metionina quali donatori di gruppi metilici ne influenzano la disponibilità e possono essere associati all’incidenza del tumore al colon. Infatti poiché molte patologie tumorali sono associate ad un basso consu-mo di frutta e verdure lo sono anche in termini di bassa ingestione di acido folico, di cui so-no ricchi sia vegetali che la frutta per cui la carne nei consumatori di quantità ridotte di tali componenti della dieta può essere considerata un apportatrice alternativa di tali componenti in considerazione del fatto che una bassa ingestione di folati è stata messa in relazione con un aumento del rischio di adenoma al colon (Giovannucci et al., 1994).

La componente minerale

Ferro

Il ferro è presente in un’ampia gamma di alimenti e si ritrova nella dieta in due forme cia-scuna delle quali presenta un diverso livello e modalità di assorbimento: ferro in forma inor-ganica, presente in alimenti di origine vegetale e latticini e ferro in forma organica o ferro “eme” presente nei tessuti animali e quindi nelle carni e derivati quale componente della mio-globina anche se è possibile trovarlo in quantità variabili in forma inorganica. La biodisponi-bilità di ferro organico ed inorganico è sostanzialmente diversa con una maggiore possibilità di assorbimento nel lume intestinale del ferro “eme” (>15%) che viene assorbito a livello di enterociti come molecola intatta, mentre l’assorbimento del ferro inorganico è legato ad altri componenti della dieta che ne possono incrementare o ridurne l’assorbimento che è stimato intorno al 5%. Un esempio è dato dal ruolo delle proteine della carne che contribuiscono ad aumentare l’assorbimento di ferro e zinco da altre fonti alimentari. Negli anziani l’assunzio-ne di ferro sembra incrementare le capacità cognitive, mentre in età scolare carenze di ferro sono state messe in relazione con inferiori punteggi standardizzati in matematica (Halterman et al., 2001). In tabella 8 sono riportati i quantitativi di ferro totale e ferro “eme” nelle car-ni di alcune specie allevate (Lombardi-Boccia et al., 2002), mettendo in evidenza come ad esempio la carne suina contenga la stessa quantità o addirittura meno ferro del coscio di pollo o di tacchino pur rientrano nel gruppo delle cosiddette “carni rosse”. Dall’esame della stessa tabella si deduce, inoltre, come in realtà ci siano differenze anche fra differenti parti o tagli nell’ambito della stessa specie dovuti sostanzialmente all’attività più o meno intensa dei mu-scoli costituenti il taglio considerato.

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Tabella 5 – Contenuto in ferro totale e ferro eme in carni crude e cotte (mg/100 g) (Lom-bradi-Boccia et al., 2002)

Carne cruda Carne cottaFerro totale Ferro eme Ferro totale Ferro eme

Pollo Petto 0,40 0,12 0,58 0,16 Coscio 0,70 0,20 1,34 0,30Tacchino Petto 0,50 0,14 0,70 0,21 Coscio 0,99 0,49 1,46 0,57Bovino adulto Controfiletto 2,07 1,72 3,59 2,64 Filetto 2,35 2,11 3,36 2,86 Roastbeef 2,04 1,77 3,74 3,14 Fesa 1,93 1,68 2,88 1,89Vitello Filetto 0,85 0,71 1,58 1,33Agnello Cotoletta 2,23 1,68 3,20 2,25Cavallo Filetto 2,21 1,75 3,03 2,16Struzzo Filetto 2,43 1,76 3,78 2,85Coniglio 0,45 0,25 0,60 0,31Suino Lombo 0,36 0,20 0,46 0,21 Bistecca 0,49 0,32 0,79 0,56

Zinco

Lo zinco é presente nel tessuto cerebrale e contribuisce sia alla sua struttura che alle sue funzioni. Sebbene i meccanismi legati al ruolo dello zinco nello sviluppo delle capacità co-gnitive non siano chiare,sembra che esso interferisca con le funzioni neurofisiologiche ed in definitiva con le capacità cognitive stesse (Black, 2003).

Lo zinco è componente fondamentale di enzimi che giocano un ruolo molto importante nel sistema immunitario, sebbene i fabbisogni siano relativamente bassi. Le fonti maggiori di zinco risultano essere le ostriche, il fegato, la carne bovina e granchi. Circa il 43% dello zinco si ritie-ne sia assunto con le carni e con il pesce ed il 25% circa con il latte, formaggio, gelati e uova.

La carne ed i suoi derivati contengono inoltre interessanti quantità di magnesio, rame, cobal-to, fosforo, cromo e nichel. Le carni rosse, in particolare, possono contenere interessanti livelli di selenio, sebbene le concentrazioni siano fortemente influenzate dalla concentrazione nel suolo e di conseguenza nei foraggi. Il selenio è da considerare un minerale di enorme importanza a cau-sa del ruolo che gioca nella regolazione di alcune funzioni fisiologiche e come parte integrante di selenio proteine, alcune delle quali, come la glutatione perossidasi (GSHPx) e tioredossina-riduttasi fanno parte del sistema antiossidante. Fra le carni, quelle bovine (17g/100g) e di agnello

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(14g/100g) possono essere considerate delle buone fonti di selenio, mentre fra le carni bianche il pollo ne contiene quantità apprezzabili (14,8g/100g) sebbene si ricorda che i valori variano in funzione della presenza negli alimenti e la eventuale integrazione.

EFFETTO DELL’ALIMENTAZIONE E DELLA TECNICA DI ALLEVAMENTO SULLA COMPOSIZIONE DEI LIPIDI INTRAMUSCOLARI

Effetto del pascolo

Le piante risultano essere la fonte primaria di PUFA della serie n3 sia negli ecosistemi ma-rini che in quelli terrestri, in quanto hanno la capacità di sintetizzare de novo l’acido linole-nico dalla cui elongazione e desaturazione traggono origine EPA e DHA. La formazione di questi ultimi a livello di alghe marine ed il loro trasferimento lungo la catena alimentare co-stituiscono la spiegazione per la quale tali acidi grassi si accumulano nei tessuto adiposo dei pesci. I foraggi verdi in generale presentano un’elevata quantità (50-70%) di acido linolenico per cui possono essere considerati delle alternative alle fonti marine di PUFA-n3 ed inoltre essere in grado di rendere molto più simile la composizione acidica della frazione lipidica delle carni a quella che potevano ritrovare i nostri antenati nella carne degli animali cacciati. Il trasferimento dei PUFA n-3 dal foraggio alla carne dipende da due processi fondamentali:• aumento del livello di C18:3n3 nel foraggio;• riduzione delle bioidrogenaizoni a livello ruminale.

L’erba del pascolo, o l’erba fresca o l’insilato d’erba rispetto ai concentrati comunemente im-piegati nell’alimentazione dei ruminanti presentano un maggior contenuto in acido α-linolenico e ciò si traduce in una più alta concentrazione in acidi grassi PUFA-n3 nei lipidi intramuscolari (trigliceridi e fosfolipidi), sia in termini di ALA che di EPA e DHA. Inoltre, la maggiore concen-trazione di acidi grassi della serie n-3 riscontrati nella carne di animali sottoposti nel finissaggio ad una dieta ricca di foraggi può essere sostanzialmente dovuta al minore contenuto in grasso intramuscolare riscontrabile rispetto ai soggetti sottoposti a diete molto ricche di concentrati ed i PUFA n-3 vanno a caratterizzare le membrane fosfolipidi che presenti proporzionalmente in maggiore quantità nelle carni magre. Per contro la carne di animali finissati con concentrati, ric-chi in LA, presenta nella frazione lipidica sia un maggior contenuto di LA stesso che del suo de-rivato ARA. Sia la percentuale di foraggio verde nella dieta somministrato o direttamente pasco-lato dall’animale, sia la durata della somministrazione, influenzano il contenuto in acidi grassi dei lipidi intramuscolari. L’alimentazione al pascolo o con foraggi freschi ricchi di leguminose, in particolare di trifoglio, nella fase di finissaggio determinano una riduzione significativa del contenuto in SFA sia in termini di minore apporto di C16:0 che in C18:0, con un aumento del rapporto PUFA/SFA, che di riduzione di quello n6/n3 determinato da un aumento della quota di PUFA n-3 ed un aumento del contenuto in CLA rispetto a quanto osservato in animali alimentati con foraggi e concentrati o insilato di mais e concentrati. L’incremento della quantità di PUFA nel grasso intramuscolare di animali alimentati con diete ricche di trifoglio verde sembra essere causato dalla riduzione nella bioidrogenazione ruminale dei PUFA che potrebbe essere determi-nata dall’attività delle polifenossidasi (PPO) che agirebbero da agenti protettori dei lipidi (Lee et al., 2004). In una indagine effettuata su carni del circuito commerciale statunitense provenienti da diversi stati del paese e da diversi allevamenti con metodi differenti di finissaggio (al pascolo o in feedlot) Kraft et al. (2008) oltre a rilevare un minore contenuto in lipidi nella carne degli ani-mali allevati al pascolo rispetto a quelli finissati in feedlot (2,8% vs 4,4%) hanno messo in evi-denza una maggiore concentrazione nella stessa di CLA (0,66 vs 0,38 g/100 g grasso) come pure un maggior contenuto in n3 (1,07 vs 0,19 g/100 g di grasso) con una conseguente riduzione del rapporto n6/n3 (2,78 vs 13,6). Circa il ruolo che ha il finissaggio al pascolo nell’influenzare la

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composizione acidica della frazione lipidica delle carni bovine può risultare interessante quanto osservato da Garcia et al. (2008) i quali nel grasso intramuscolare di manzi di razza Angus ed F1 Angus x Charolais e Angus x Holstein finissati al pascolo hanno rilevato un maggior contenuto in PUFA n-3 (84 vs 32 mg/100 g di acidi grassi intramuscolari) ALA (44 vs 11 mg/100 g di aci-di grassi intramuscolari), e CLA (20 vs 12 mg) e minori concentrazioni di SFA (1081 vs 1372), MUFA (1078 vs 1574), PUFA-n6 (318 vs 143) e minor rapporto n6/n3 (10,38 vs 1,72) rispetto agli animali allevati in feedlot. Dhiman et al., (2001) e Poulson et al. (2001) hanno osservato un aumento nel contenuto in RA nel muscolo di incroci finissati al pascolo senza alcuna integrazio-ne in concentrati. In maniera similare Steen e Porter (2003) hanno osservato livelli 3 volte supe-riori di RA nel grasso sottocutaneo rispetto a quanto osservato in manzi finissati con concentrati. Nuernberg et al. (2005) hanno osservato un aumento significativo di RA dal 0,50 a 0,75% nella frazione lipidica del muscolo di tori delle razze Holstein e Simmenthal finissati al pascolo rispetto a quelli alimentati con diete ricche di concentrati. Anche l’impiego di soli foraggi nella razione di finissaggio rispetto all’impiego di razioni basate su concentrati determina un aumento del conte-nuto di PUFA n3 e CLA nel grasso intramuscolare di manzi (Poulson et al., 2004) ed anche manzi alimentati con una dieta di finissaggio basata su concentrati dopo alimentazione verde nella fase di accrescimento presentano maggiori contenuti di CLA rispetto a manzi allevati in feedlot (8,0 vs 2,0 mg/g FAME). Se il finissaggio al pascolo sembra essere, in tal senso, il mezzo migliore per aumentare il livello di CLA rispetto al finissaggio basato su concentrati (5,3 vs 2,5 mg/g FAME: Realini et al., 2004) o di acido rumenico (Nuernberg et al., 2005); anche il finissaggio per circa 60 d basato su concentrato dopo almeno 200 d di allevamento al pascolo determina un aumento del contenuto in CLA (Sonon et al., 2004). Il pascolo su medica nella fase di finissaggio con una integrazione a base di orzo (1,8 kg/d) determina un aumento del contenuto in ALA e PUFA n-3 nel grasso degli animali così alimentati rispetto a quelli riceventi diete di finissaggio con una ele-vata dose di concentrati o alimentati con concentrati dopo una fase di pascolo su medica, senza però determinare un aumento del contenuto in CLA che risultavano essere addirittura superiori nella carne degli animali alimentati con concentrati (Blanco et al., 2010).

La conseguenza è che a condizionare il contenuto in CLA nella carne sia il contenuto di acido LA e ALA nelle diete della fase di finissaggio, di cui ad esempio è ricca l’erba fresca o insilata. Bauchart et al. (2005) e De La Torre et al. (2006) hanno osservato come ad influen-zare il livello di CLA non é soltanto l’integrazione lipidica, ma anche la dieta base, la razza, l’età ed il sesso degli animali. In alcune razze che presentano la tendenza a depositare alte quantità di grasso intramuscolare (Wagyu e suoi incroci) è possibile ritrovare elevati livelli di CLA cis9, t 11 (Mir et al., 2004) (Tab. 5).

Tabella 6 - Concentrazione di CLA cis-9, trans-11 (mg/100 g di carne fresca) nel L. dorsi di diverse razze (Scollan et al., 2006).

Razza Dieta CLA cis-9, trans-11 RiferimentoManzi Wagyu Olio di girasole 134 Mir r coll. (2003)

Manzi Wagyu x Limousine Olio di girasole 76 Mir et al. (2004)Manzi Limousine Olio di girasole 59 Mir et al. (2004)Manzi Charolaise Silo-erba+lino integrale 36 Enser et al. (1999)

Manzi incroci Silo-erba 35 Steen e Porter (2003)Tori Holstein tedeschi Pascolo 17 Dannemberger et al. (2005)

Tori Simmenthal tedesca Pascolo 12 Dannemberger et al. (2005)Tori Bianca Blu del Belgio Lino laminato 4,3 Raes et al. /(2004)Tori Bianca Blu del Belgio Lino estruso 4,2 Raes et al. /(2004)

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Risultati analoghi sono stati riscontrati anche nella specie ovina ma interessante appare quanto legato alla variabilità determinata dalla diversa composizione floristica e stadio fe-nologico dei pascoli naturali. Infatti, maggiori quantità di PUFA si ritrovano nella carne di agnelli ingrassati in pascoli di montagna rispetto a quelli ingrassati in pascoli di pianura, tale effetto è stato definito da Scollan “Alpine factor” (Scollan, 2006), sebbene ciò dipen-da dalle essenze e dal loro grado di maturazione durante la stagione di pascolamento. In ambiente mediterraneo la composizione acidica della frazione lipidica di carni di agnelli alimentati prevalentemente con latte materno risentono in maniera evidente della compo-sizione della dieta delle madri: in particolare la carne di agnelli allattati da pecore allevate al pascolo presentano una più elevata quota di PUFA n3 (5,56 vs 3,34 g/100 g grasso) ed in particolare di ALA (2,57 vs 1,21 g/100 g grasso), un minore rapporto n6/n3 (2,60 vs 3,98) come un maggior contenuto in acido rumenico (1,10 vs 0,56 g/100 g grasso) rispetto a quel-la di agnelli allattati da madri alimentate con foraggi conservati e concentrati (Mazzone et al., 2010). Analoghi risultati sono stati osservati in agnelli da latte da Scerra et al. (2007) a causa del maggior contenuto di acidi grassi polinsaturi e CLA nel latte delle pecore che hanno accesso al pascolo (Serra et al., 2009).

Anche nella carne suina l’allevamento estensivo determina una modificazione della compo-sizione acidica della frazione lipidica, sebbene in questo caso bisogna distinguere fra la realtà mediterranea nella quale l’allevamento all’aperto prevede anche l’utilizzazione da parte degli animali prevalentemente dei frutti del bosco quali ghiande e castagne o la realtà del nordeu-ropea nella quale l’allevamento all’aperto prevede una disponibilità di erba, ma soprattutto possibilità di movimento all’animale e maggiori standard di benessere rispetto all’allevamen-to intensivo. Le ghiande, ricche in acido oleico, determinano un maggior contenuto di acido oleico nelle carni (59,7 vs 56,2 g/100 g lipidi) (Cava et al., 2000; Narvaez Rivas, 2008), men-tre la possibilità di avere a disposizione sia ghiande che castagne permette di avere nel gras-so sottocutaneo un maggior contenuto sia in MUFA che PUFA (Pugliese et al., 2005) come pure la combinazione ghiande ed erba (Rey et al., 2006). L’allevamento all’aperto determina in ogni caso una minore deposizione lipidica rispetto all’allevamento indoor a causa del mag-gior consumo di energia necessario al movimento, ciò determina un minore contenuto di aci-di grassi saturi ed un maggiore contenuto di PUFA nella carne degli animali allevati outdoor (Bee et al., 2004), ma anche, quando disponibile erba verde, un maggior contenuto di PUFA della serie n3 rispetto agli animali allevati indoor. (Nilzèn et al. 2001). Anche la composizio-ne acidica della frazione lipidica della carne di coniglio risulta essere influenzata dalla tecnica di allevamento (estensivo o intensivo) e quindi dalla possibilità di assumere direttamente er-ba dal pascolo o meno. L’allevamento a terra con possibilità di movimento, infatti, determina un incremento del contenuto in SFA, PUFA n-6 e n-3 a discapito dei MUFA. Così come per i poligastrici, anche nel coniglio la disponibilità di accedere al pascolo determina un incre-mento del contenuto di PUFA n-3 ed -tocoferolo con una riduzione del contenuto in MUFA nei lipidi intramuscolari (Dalle Zotte et al., 2011).

Nelle specie avicole ed in particolare nel pollo bassi livelli di ingestione di erba al pasco-lo (<5% di sostanza secca) in allevamento free-range non sembrano influenzare in maniera significativa il contenuto in acidi grassi della frazione lipidica della carne fatta eccezione per l’EPA durante il pascolamento primaverile, benché Castellini et al. (2002) abbiano osservato nella carne di polli aventi a disposizione circa 4m2/capo di pascolo, oltre un minor contenuto in lipidi a livello di petto (0,74 vs 2,37% ad 81 d di età) un maggior contenuto di acidi grassi n-3 (5,12% FAME vs 4,01%) ed in particolare di EPA (0,56% vs 0,42%), così come poi ri-scontrato da Ponte et al. (2006), e DHA (1,91% vs 0,79%).

Il finissaggio degli animali con foraggi sembra inoltre incrementare la shelf-life della carne (O’Sullivan et al., 2002; Gatellier et al., 2005) rispetto a quanto osservato in manzi finissati con concentrati. Il finissaggio basato su elevate quote di concentrati determina un aumento di

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monoinsaturi riducendo la quantità di acido stearico rispetto al finissaggio con elevate quote di foraggi. Daniel et al. (2004) in agnelli alimentati con diete con un basso rapporto foraggi/concentrati hanno osservato un elevata concentrazione di insulina a livello plasmatico rispet-to a quanto osservato in agnelli alimentati con una dieta a prevalente contenuto di foraggi, in-sulina che, secondo Ward et al., (1998) sembra incrementare significativamente l’espressione dell’enzima 9-desaturasi nello stesso modello animale.

EFFETTO DI FONTI LIPIDICHE NELL’ALIMENTAZIONE DEGLI ANIMALI RUMINANTI

Semi di piante oleaginose

L’impiego di fonti di PUFA sembra essere nell’ambito dell’allevamento intensivo un me-todo efficiente per aumentare il contenuto di acidi grassi polinsaturi e CLA nella frazione lipidica muscolare, benché non tutti abbiano lo stesso effetto. Fra le fonti di acidi grassi in-saturi, il seme di girasole sembra essere quello che più di altri, quali lino e colza, determini un aumento del contenuto in CLA nella carne di vitelloni (Casutt, 2000) (7,8 mg/g FAME girasole, 5,5 mg/g FAME lino, colza 4,6 mg/g FAME e controllo 5,6 mg/g FAME), ma an-che nella carne di agnelli (Santos-Silva, 2003; 4,1 mg/g acidi grassi controllo 7,0 mg/g aci-di grassi, girasole). Risultati simili sono stati rilevati da Bolte et al. (2002) somministrando semi di cartamo alto linoleico (9,2 mg/g FAME) e alto oleico (5,7 mg/g FAME) rispetto al controllo (3,7 mg/g FAME).

Il seme di lino (19% sul concentrato) non sembra, invece, determinare un incremento im-portante dei CLA (Stasiniewicz et al., 2000: 1,7 vs 3,7 mg/g grasso; Strzetelski et al., 2001: 2,1 vs 2,9 mg/g grasso; Corazzin et al., 2012), mentre il confronto fra la stessa fonte e fonti lipidiche rumino-protette ricche in acido palmitico ha messo in evidenza come essa determini un significativo aumento del contenuto in CLA nella frazione lipidica della carne bovina (8,0 vs 3,2 mg/g FAME; Enser et al., 1999), come pure in quella si agnello (Wachira et al., 2002 16 vs 10 mg/g acidi grassi; Demirel et al., 2004: 20,7 vs 12,3 mg/100 g carne). In ogni caso, rispetto al seme di colza, il seme di lino, quando impiegate in elevate concentrazioni (18% sul concentrato) in diete caratterizzate da un basso rapporto foraggi/concentrati determina una riduzione del rapporto n6/n3 nella carne (10 vs 26) con un leggero aumento del contenuto in CLA (62,9 vs 49,2 mg/kg LM) (Mach et al., 2006). Il seme di lino estruso quando impiegato in ragione dell’11% sulla sostanza secca somministrata determina un incremento significativo sia del contenuto in ALA (0,78 vs 0,39 g 100 g acidi grassi) che di EPA (0,21 vs 0,15 g 100 g acidi grassi) e più in generale di PUFA n3 (1,49 vs 0,95 g 100 g acidi grassi) e CLA (0,49 vs 0,38 g 100 g acidi grassi) con una riduzione del contenuto in ARA (0,08 vs 0,13 g 100 g acidi grassi) e del rapporto n6/n3 (3,07 vs 5,12) (Barton et al., 2007). La somministrazione di concentrato arricchito con lino estruso in animali finissati al pascolo permette di avere carni molto simili a quelle degli animali finissati esclusivamente al pascolo (Razminowicz et al. 2008) in termini di contenuto in EPA (12,9 e 12,1 vs 10,8 mg/100 g di carne rispettivamen-te per finissaggio con pascolo, pascolo più concentrato arricchito con lino e concentrato non arricchito con lino) e rapporto n6/n3 (1,25 e 1,33 vs 1,41 rispettivamente per finissaggio con pascolo, pascolo più concentrato arricchito con lino e concentrato non arricchito con lino). L’aggiunta, inoltre, di -tocoferolo in diete arricchite con il 10% di lino macinato permette di avere un maggior contenuto di ALA (1,60 vs 1,35 % acidi grassi) nella carne rispetto al solo impiego di lino (Juarez et al. 2011).

Il seme di soia estruso determina anch’esso un aumento del contenuto in CLA nella frazio-ne lipidica della carne di manzi meticci Angus somministrata in ragione del 25,6% (7,7 mg/g

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FAME) e mentre se somministrata in ragione del 12,7% il livello era appena del 6,9, mentre il controllo 6,6 mg/g di FAME (Madron et al., 2002).

Ad influenzare l’effetto dell’impiego di fonti lipidiche non rumino-protette sulle caratte-ristiche della frazione lipidica della carne dei ruminanti è il rapporto foraggi/concentrati del-la razione: infatti l’impiego di semi soia e lino laminati hanno determinato un incremento dei CLA (2.8 vs. 4.7 e 3.3 vs. 6.3 mg/g FAME in diete rispettivamente a basso ed elevato rapporto foraggi/concentrati (Aharoni et al., 2004). L’effetto si riduce in diete con un basso apporto di foraggi (4,6 vs 5,3 mg/g FAME) mentre più importante è l’effetto quando il seme di lino lami-nato è aggiunto in diete ricche di foraggi (4,0 vs 6,7 mg/g) (Aharoni et al., 2004), mettendo in evidenza come si può ipotizzare un effetto sinergico fra diete ricche di foraggi e somministra-zione di PUFA. Inoltre, ad influenzare l’efficacia del trattamento alimentare con lino contribu-isce anche la tipologia di foraggio: in particolare il fieno di graminacee garantisce una miglio-re risposta in termini di sintesi di CLA rispetto agli insilati di cereali in diete caratterizzate da un rapporto foraggi/concentrati 50/50 (Nassu et al., 2011), mentre relativamente al trattamen-to tecnologico, il lino macinato o laminato determina un maggior apporto di PUFA n3 rispetto al lino tal quale (0,62 vs 0,58 e 0,51 nmol/100 nmol degli acidi grassi totali della frazione lipidica apola-re, rispettivamente per lino macinato, laminato o tal quale) (Maddock et al., 2006).

Inoltre non si ha un rapporto dose/effetto fra quantità di fonte lipidica somministrata e contenu-to negli acidi grassi che si intende modificare nel-la frazione lipidica della carne; in merito Dawson et al. (2010) hanno osservato come al crescere della quantità di seme di lino estruso la quantità di ALA e di n-3 totali cresceva fino ad un livello di sommini-strazione di 800 g/capo/d per poi ridursi con livelli 1200g/capo/d (figura 2).

In maniera analoga anche l’impiego di semi di una proteaginosa come il cece somministrato a vari levelli nella dieta determina un aumento dei CLA (in mg/g FAME: controllo: 4,9, 20% cece: 8,5; 42% ce-ce 8,9) (Priolo et al., 2003) nella specie ovina.

Gli oli vegetali

Così come i semi, anche gli oli delle piante prima citate determinano effetti simili sul con-tenuto in CLA nella carne. Nei bovini l’aggiunta dal 3% al 6% sulla sostanza secca di olio di girasole ad una dieta costituita da orzo ha determinato un significativo aumento del contenuto di CLA (2,0 vs 2,6 e 3,5 mg/g/ grasso; Mir et al. 2003). Risultati maggiori si sono riscontrati somministrando olio di girasole sia nella fase di accrescimento che nella fase di finissaggio, in diete a base di orzo e fieno l’aggiunta di olio di girasole alla dieta ha determinato un contenuto di 12,3 mg/g di FAME rispetto ai 2,8 del gruppo controllo (Mir et al. 2003). Noci et al. (2005) hanno osservato un contenuto di CLA pari a 4,3, 6,3 e 9,1 mg CLA/g FAME nel L. dorsi di manze alimentate con una dieta arricchita rispettivamente di 0, 55 e 110 g di olio di girasole/kg di dieta per 142 d prima della macellazione. Diete a base di orzo integrate con olio di girasole (6% della sostanza secca) hanno ugualmente determinato un aumento del contenuto di CLA (3,9 vs 5,2 mg/g grasso) nella carne di agnelli (Ivan et al., 2001). Sempre nella specie ovina buoni risultati sono stati ottenuti anche con l’impiego di olio di cartamo (6% di olio sulla dieta) sia da Mir et al. (2000a) che ha determinato nella frazione lipidica della carne un contenuto di

Figura 2 - Effetto della quantità di lino estru-so somministrato sul contenuto in LNA e n3 totali della carne di vitelli Holstein (Dawson e coll. 2010)

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CLA pari a 8,41 vs 3,13 mg/g grasso che da Kott et al., 2003 i quali hanno riscontrato valori pari a 9,0 vs 4,1 mg/g FAME ed un incremento del contenuto in acido linoleico (8,11 vs 5,49%) con una riduzione del contenuto in ALA (0,56 vs 0,82%). I semi di colza così come l’olio di colza (6% della sostanza secca) non sembrano determinare effetti significativi sul contenuto in CLA nel L. dorsi (Stasiniewics et al., 2000; Strzetelski et al., 2001; Szumacher-Strabel et al., 2001). Altrettanto inconsistenti risultano essere gli effetti dell’integrazione con olio di soia sul contenu-to in CLA del L. dorsi (Beaulieu et al., 2002), addirittura Griswold et al. (2003) integrando una dieta sperimentale caratterizzata da un rapporto foraggi/concentrati 20/80 con il 4% di olio di soia hanno osservato una riduzione del contenuto in CLA nella carne del gruppo trattato rispet-to al gruppo controllo (2,5 vs 3,1 mg/g FAME). D’altro canto gli stessi autori hanno osservato come l’aggiunta dell’8% di olio di soia ad una dieta sperimentale caratterizzata da un rapporto foraggi concentrati 40/60 determinasse un aumento del contenuto in CLA (3,1 vs 2,8 mg/g FA-ME). Un aumento più consistente di CLA (23,7 vs 5,5 mg/g FAME) a livello di L. dorsi è stato, invece riscontrato da Santos-Silva et al. (2011) nella carne di agnelli ai quali era stato sommi-nistrato olio di soia in ragione dell’8% in una dieta a base di fieno di medica.

In definitiva sia i semi di oleaginose o proteoleaginose e gli oli da esse derivati influenzano il contenuto in CLA della carne grazie all’apporto di PUFA che fungono da substrati per i processi di isomerizzazione batterica e/o bioidrogenazione a livello ruminale. Se i lipidi risultano essere in qualche maniera rumino-protetti, i CLA non possono essere prodotti a causa della indisponi-bilità dei precursori come evidenziato da Scollan et al. (2003) in manzi Charolaise alimentati con diete sperimentali a base di insilato d’erba e concentrati alle quali erano aggiunti una miscela di olio di soia, di lino o girasole rumino protetti o saponi di calcio dell’olio di palma. L’aggiunta di fonti di acidi grassi insaturi nella dieta, oltre a modificare il contenuto di CLA, nella frazio-ne lipidica della carne ne modifica anche il contenuto in acidi grassi insaturi (Bolte et al., 2002; Casutt et al., 2000; Enser et al., 1999; Kott et al., 2003; Mir et al., 2000b; Mir et al., 2003; Sta-siniewicz et al., 2000; Strzetelski et al., 2001; Wachira e coll, 2002). Sebbene l’isomerizzazione e/o la bioidrogenazione di acidi grassi insaturi non rumino-protetti a livello ruminale determini comunque un incremento di acidi grassi saturi nel tessuto adiposo rispetto al profilo acidico della frazione lipidica della dieta, una certa quota degli stessi sfugge a tali processi e ciò giustifica la modificazione che comunque si ha nella composizione acidica del grasso intramuscolare (Casutt e coll, 2000; Raes et al., 2004). Sia i semi oleosi che gli oli influenzano in maniera molto simile il contenuto in CLA della carne, tuttavia gli oli vegetali ricchi in PUFA non sono inclusi in quo-te elevate nella diete per ruminanti a causa degli effetti negativi che svolgono a livello di micro-flora ruminale (Lawson e coll, 2001; Raes et al., 2004), inoltre un limite al loro impiego è dato dall’elevato costo e dalla loro suscettibilità all’ossidazione rispetto ai semi integrali (Ahroni et al., 2005). Inoltre la soia estrusa risulta avere un efficienza maggiore del 20% rispetto all’olio di soia nel determinare un aumento della concentrazione di CLA nel grasso intramuscolare deter-minando anche una riduzione del contenuto in acidi grassi saturi (SFA) e acidi grassi monoinsa-turi MUFA rispetto all’olio di soia. L’estrusione del seme determina, infatti, un’azione protetti-va sugli acidi grassi insaturi nei confronti delle bioidrogenazioni ruminali determinandone una maggiore azione by-pass (Casutt e coll, 2000; Scheeder, 2004), per cui sembra essere preferi-bile l’impiego di semi oleosi piuttosto che i rispettivi oli. Rispetto a quanto avviene per il latte, tuttavia, l’aggiunta alla dieta di fonti di PUFA nei ruminanti determina un minore accumulo di CLA nella frazione lipidica delle carni. Questo effetto può essere spiegato da un minore tasso di trasferimento dei CLA nel grasso intramuscolare rispetto al grasso del latte. In genere i livelli di acido rumenico risultano essere inferiori nella carne bovina ed ovina se comparati con il latte delle due specie (Raes et al., 2004) e l’incremento del contenuto in CLA ottenibile nella carne, a parità di livello di integrazione, è minore rispetto a quanto conseguibile nel latte (Ahroni et al., 2004). L’inclusione di fonti lipidiche ricche in acido linoleico come il cartamo o il girasole sem-brano essere quelle che determinano un aumento del contenuto in CLA nella carne.

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IMPIEGO DI SEMI OLEOSI E OLI NELL’ALIMENTAZIONE DEI MONOGASTRICI

Rispetto ai ruminanti, nei monogastrici, i lipidi della dieta risultano essere non modifica-ti prima della loro digestione ed assorbimento, inoltre la somministrazione di diete ricche in PUFA n-3 non hanno solo conseguenze dirette sulla composizione acidica della frazione li-pidica della carne ma possono indirettamente modulare l’espressione di enzimi lipogenici (Massotten et al., 2009). Se la somministrazione di olio di pesce è da considerare la via più rapida per incrementare il contenuto nelle carni di EPA e DHA (Kouba et al. 2006), essa è anche quella più controversa dal punto di vista della sostenibilità ambientale (Botsford et al., 1997), ma anche dei problemi legati all’accettabilità organolettica dei prodotti: infatti la som-ministrazione di olio di pesce anche a livelli pari 10 e 30 mg/kg di dieta determina off-fla-vours nei prodotti (Hargis et al., 1993; Kouba et al., 2008; Sheard et al., 2000), per cui anche nell’alimentazione dei monogastrici. il seme di lino quale fonte di acido linolenico, precur-sore di EPA e DHA, è stato considerato da numerosi autori. Esso presenta, tuttavia, dei limiti di impiego come seme tal quale a causa della difficoltà di penetrazione degli enzimi digesti-vi all’interno del seme dovuta alla durezza della cuticola esterna e la presenza di linamarina, fattore antinutrizionale che rendono indispensabili trattamenti tecnologici quali l’estrusione o la laminatura del seme stesso. Inoltre se l’impiego di lino estruso porta risultati importan-ti circa l’aumento del contenuto dei PUFAn-3 e conseguentemente la riduzione del rapporto n6/n3 a livello di grasso intramuscolare e di grasso di deposito, nella carne suina (Huang et al., 2008; Juarez et al., 2010) all’aumentare delle quantità somministrate di seme di lino non si registra un conseguente aumento del contenuto in DHA nel grasso intramuscolare (Ahan et al., 1996; Raes et al., 2004; Juarez et al., 2010) così come si osserva somministrando olio di pesce (Haak et al. 2008) (Tab. 6), imputabile alla competizione a livello dell’attività della 6-desaturasi fra i diversi acidi grassi.

Tabella 7 – Effetto dell’integrazione della dieta con lino laminato o olio di pesce sulla composizione acidica del L. thoracis di suini (g/100 g FAME) (Haak et al., 2008).

acido grassoDieta

SEMControllo Lino laminato 3% Olio di pesce 6%C18:2n6 11,2 10,4 8,84 2,35C20:4n6 2,9 2,38 1,65 0,77C22:4n6 0,19 0,29 0,15 0,16

n6 15,1 13,7 11,1 3,24C18:3n3 0,55 1,24 0,47 0,40C20:n3 0,22 0,54 1,37 0,45

C22:6n3 0,14 0,18 1,02 0,37n3 1,38 2,72 3,68 0,99

SFA 34,5 34,0 35,5 2,06MUFA 44,5 44,6 45,6 3,00PUFA 16,8 16,7 15,1 3,67n6/n3 11,0 5,23 3,03 2,64P/S 0,35 0,35 0,27 0,09

Circa i tempi necessari a determinare una variazione significativa sul contenuto in PUFA nella carne suina, Kouba et al. (2003) hanno osservato come, con diete contenenti il 6% di li-no laminato, il rapporto n6/n3 della frazione lipidica del L. dorsi passi da 7,6 del gruppo con-

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trollo a 3,9 del gruppo trattato in 20 d di trattamento per raggiungere i valori di 3 dopo 60d di somministrazione e 3,1 dopo 100d. Anche la somministrazione di lino crea, comunque, pro-blemi legati alla ossidabilità degli acidi grassi polinsaturi che determina la produzione di off-flavours (Wood et al., 2004) soprattutto nel caso di carni macinate e miscelate con grasso di deposito, tale problema si ha anche con somministrazioni pari a 100g o 150g/kg di alimento, di lino per 25d prima della macellazione (Romans et al., 1995). Tali effetti possono essere ri-dotti dall’estrusione contemporanea del seme di lino con altre fonti proteiche come il pisello proteico (Juarez et al., 2011). La riduzione delle quantità somministrate (4,2%) non sembrano determinare problemi di off-flavours (Guillevic et al. 2009). Inoltre l’impiego di sovradosag-gi di -tocoferolo permette di garantire buoni risultati anche in termini di accettabilità dei pro-dotti trasformati (prosciutto) mettendo in evidenza come sia possibile comunque intervenire attraverso l’alimentazione per incrementare la quantità di n3 nella carne suina e nei prodotti trasformati senza pregiudicarne l’accettabilità organolettica e la stabilità ossidativa della fra-zione lipidica stessa (Santos et al., 2008).

Nell’allevamento avicolo l’impiego dell’olio di pesce nella dieta, determina nella frazione lipidica della carne di boiler un incremento del tenore in PUFA n-3 rispettivamente del 2,09, 5,10 e 8,14% FAME rispettivamente per inclusioni pari a 0, 2 e 4% nelle diete impiegate ed in particolare di EPA, DPA e DHA, con una conseguente riduzione del rapporto n6/n3 da 6,11 a 2,50 ed 1,73 (Lopez Ferrer, 2001a; Rymer e Givens 2005); la sostituzione per una o due settimane dell’olio di pesce con olio di lino (3%) oltre a determinare un ulteriore incremento degli n-3 totali (12,17 e 14,48% % FAME) determina comunque una riduzione del contenu-to in DHA (2,42 vs 1,72 e 1,72) ed un aumento dell’EPA (1,53 vs 1,88 ed 1,52) e non sem-bra determinare effetti negativi sulle caratteristiche qualitative della carne rispetto al gruppo controllo. L’impiego esclusivo di olio di lino in ragione dello 0, 2 o 4% oltre all’8% di sego bovino per un periodo di 38d ha determinato analogamente all’olio di pesce valori di PUFA n-3 nella carne rispettivamente pari a 2,09, 9,45 e 15,02% del totale dei FAME con livelli di EPA e DHA rispettivamente pari a 0,20, 0,22 e 0,39% e DHA pari a 0,10, 0,17 e 0,25; rispet-to all’impiego dell’olio di pesce si riscontra un significativo aumento di ALA con valori pari rispettivamente a 1,63, 8,77 e 13,93 (Lopez-Ferrer et al., 2001). L’impiego di seme di lino in ragione del 10% per 24d sulla dieta somministrata migliora in maniera sostanziale la compo-sizione acidica a livello di petto in termini di contenuti in n-3 totali e di EPA e DHA (Zhuidof et al., 2009). Così come per la carne suina, l’inclusione nella dieta di fonti di PUFA determi-na, tuttavia, un peggioramento della stabilità ossidativa della carne (O’Keefe et al., 1995;), e poiché alcune alghe marine hanno la capacità di sintetizzare n-3 (Guschina e Harwood, 2006) il loro impiego quali fonti di n-3 nell’alimentazione dei broiler è stato testato da diversi autori (Kralik et al., 2004; Jeong e coll, 2008; Mooney et al., 1999; Sirri, 2003) determinando effetti molto simili a quelli dell’impiego di olio di pesce garantendo comunque maggiore stabilità ossidativa rispetto a questo (Fig. 3) (Rymer et al., 2010).

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Fig. 3 - Effetto dell’impiego di alghe in ragione dell’1,1%, 2,2% e 4,4% della dieta (LAG, MAG e HAG) e olio di pesce fresco (FFO) o incapsulato (EFO) sui PUFA della carne di broi-ler (Rymer e coll., 2010)

L’impiego di α-tocoferolo permette anche nell’ambito della produzione di carni avicole di migliorare la stabilità ossidativa della carne di animali alimentati con dosi elevate di PUFA, tenendo conto anche del fatto che la stessa stabilità ossidativa si riduce all’aumentare della quantità di PUFA somministrati ed è minore nella carne cotta rispetto alla carne fresca (Cor-tinas et al., 2005)

Relativamente alle strategie alimentari volte ad incrementare il livello di CLA nella carne dei monogastrici, la dieta stessa deve contenere una certa concentrazione di acido vaccenico come substrato per la sintesi endogena di CLA o di CLA stessi ed in genere sono impiegate miscele di c9,t11 e t10,c12-18:1. Glaser et al. (2002) somministrando una miscela di acidi li-noleici coniugati a suini di razza Large White da 30 a 103 kg ed alimentati con una dieta ca-ratterizzata da orzo, frumento e farina d’estrazione di soia arricchita con il 6% di seme di gi-rasole alto-oleico o con quantità variabili (1,85%, 3,70%, 5,55%) di olio di colza parzialmente idrogenato, ricco in acidi grassi trans, osservarono un incremento del contenuto in CLA nel grasso intramuscolare degli animali che avevano assunto l’olio di colza parzialmente idroge-nato (3,8, 6,4 e 8,5 mg CLA/g di FAME) e 0,8 mg/g di FAME nel gruppo controllo che aveva assunto seme di girasole. La somministrazione di olio arricchito con CLA (2%) in suini dal peso di 70 kg fino a 105 kg ha analogamente portato il livello di CLA a 14,9 mg/g acidi gras-si rispetto ai livelli prossimi a 0 della dieta controllo arricchita con olio alto-linoleico o lardo. Analogo risultato è stato osservato arricchendo la dieta di scrofe con l’1% di olio arricchito in CLA rispetto ad un’altra dieta arricchita con l’1% di olio di girasole (5,5 vs 0,9 mg/g acidi grassi) (Eggert et al., 2000); risultati analoghi (4,4 vs 0,8 mg/g FAME) sono stati osservati da Lauridsen et al. (2005) in suini alimentati con diete arricchite con lo 0,5% di CLA rispetto a diete arricchite con lo 0,5% di olio di girasole dai 40 ai 130 kg. Trattamenti di breve periodo (4 settimane) con dosi crescenti di CLA nella dieta (0%, 1,0%, 2,5% o 5%) hanno analogamen-te incrementato la concentrazione di CLA (rispettivamente 0,1, 3,7,10,1 e 11,6 mg/g di acidi grassi in scrofette del peso di 105 kg (Joo et al., 2002). Altri studi avevano messo in evidenza un incremento del contenuto in CLA nei lipidi intramuscolari e di deposito incrementando da 0 al 2% la somministrazione di CLA in maniera dose-effetto (Ramsay et al., 2001; Thiel

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et al.,, 2001). Il livello di CLA può essere altresì aumentata quando all’aggiunta di CLA nel-la dieta si va a combinare anche l’aggiunta di fonti lipidiche aggiuntive (Gatlin et al., 2002).

Anche nella specie avicola l’integrazione della dieta con CLA ha determinato un incremento degli stessi a livello della frazione lipidica. L’aggiunta nella dieta per broiler dai 22 ai 47 d di vita con il 2 e 4% di CLA ha determinato una più alta concentrazione degli stessi su tutta la frazione lipidica dei vari tessuti considerati (petto, coscio, pelle e grasso addominale) (Sirri et al., 2003). Risultati simili sono stati conseguiti da Aletor et al. (2003) in polli Ross, mentre Szymczyk et al. (2001) con dosi crescenti di CLA 0%, 0,5%, 1,0% e 1,5% in diete starter e di accrescimento per polli da 7 ai 42 d osservarono un incremento lineare del contenuto di CLA con valori a li-vello di grasso addominale pari a 0, 29,3, 66,6 e 102,0 mg/g di acidi grassi, nel petto di 0, 28,9, 52,5 e 93,5 mg/g di acidi grassi rispettivamente per 0, 0,5, 1,0 e 1,5% di integrazione, mentre l’aggiunta con 0%, 2% o 3% di CLA per oltre 5 settimane a partire da 21giorni di età nei pul-cini ha determinato rispettivamente una concentrazione di 0, 105,1 e 177,5 mg CLA/g di lipi-di (Du e Ahn, 2002). L’aggiunta di CLA nella dieta determina in ogni caso una riduzione del quantitativo di acidi grassi saturi (C14:0, C16:0 e C18:0) e determina una riduzione dei MUFA (in particolare C18:1) nei tessuti di suini dovuta ad un probabile riduzione della attività della 9-desaturasi (Bee, 2001; Eggert et al., 2001; Gatlin et al., 2002; Joo et al., 2002; Lauridsen et al., 2005; O’Quinn et al., 2000; Ramsay et al., 2001; Smith et al., 2002; Thiel-Cooper et al., 2001; Wlegand et al. 2002). Una più alta saturazione degli acidi grassi costituenti la frazione lipidica di pancette e lombate e minori problemi per la trasformazione, sebbene determini peggiori ca-ratteristiche in termini di aspetti nutrizionali. Gli stessi cambiamenti nella composizione acidica sono stati osservati in broilers la cui dieta era stata integrata con CLA (Aletor et al., 2003; Du ed Ahn, 2002; Sirri et al., 2003; Szymczyk et al., 2001).

RUOLO DELLA CARNE NELLA SALUTE UMANA

L’importanza della carne nell’alimentazione infantile

Il periodo di transizione dall’alimentazione esclusivamente lattea ad una dieta diversifi-cata o complementare, è essenziale per soddisfare le esigenze nutrizionali dei neonati e rap-presenta uno dei momenti più critici nell’alimentazione infantile. L’OMS (WHO, 2003) ha pubblicato le linee guida per l’alimentazione complementare che raccomanda l’assunzione giornaliera di alimenti di origine animale, a partire dai sei mesi di età, evidenziando come le diete a base di vegetali non siano in grado di soddisfare i fabbisogni nutrizionali del bambino (in particolare per gli apporti di Fe, Zn e vit. B12) a meno che non si ricorra all’impiego di integratori o prodotti fortificati.

Tabella 8. Contenuto in Sali minerali della carne (mg/100g parte edibile)

Ferro Calcio Fosforo Magnesio Potassio Sodio Cloro Zolfo2.3 11 166 32 354 74 56 221

Tra gli alimenti di origine animale, la carne in particolare ha un ruolo fon-damentale nell’alimentazione infanti-le per soddisfare le esigenze in micro-nutrienti. Ad esempio, le esigenze di ferro durante il periodo di svezzamen-to sono i più alti per unità di peso cor-poreo durante la vita umana. Tuttavia

Tabella 9. Fabbisogni giornalieri di ferro (mg)

FAO/OMS FNB/USAUomo adulto 59 10Donna adulta 14-28 18Donna grav. 14-28 18Donna latt. 14-28 18

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gli apporti che possono derivare dal consumo di carne non sono state considerate in maniera sistematica (Krebs et al. 2011). La carenza di Fe è fortemente associata a diete di tipo vegeta-riano sia nei neonati che in adolescenti (Chiron et al., 2001). Recenti lavori hanno evidenzia-to una forte relazione tra la carenza di ferro e ritardo nello sviluppo neuropsichico, motorio e cognitivo dei bambini (Lozoff e Georgieff, 2006; Beard, 2007). Per lo Zinco viene sottoline-ato il ruolo del minerale nella sintesi proteica e nella formazione dell’insulina.

Tabella 10. Contenuto in Vitamine della carne (mg/100g parte edibile).

B1 B2 PP C A B12 B6 H

0.07 0.17 4.15 0 0.01 0.002 0.32 0.0046

La carne rappresenta la più impor-tante fonte di vitamina B12 che non è invece presente nei prodotti vegeta-li (USDA, 2010; IOM, 2002). La ca-renza da vitamina B12 si verifica ra-ramente nei neonati prima di 4 mesi di età. I bambini alimentati con quantità limitate di prodotti di origine animale,

possono manifestare carenze di vitamina B12 tra i 6 ei 12 mesi di età. Tale carenza può comportare sintomi neurologici (Garewal et al., 1988), anemia mega-

loblastica e iperpigmentazione cutanea (Higginbottom et al., 1978), ipotonia, ingrossamen-to del fegato e della milza, capelli radi, rifiuto del cibo, anoressia, ritardo di crescita e diar-rea (Black, 2008) fino a gravi casi di danni cerebrali (Wighton et al., 1979; Graham et al., 1992; von Schenck et al., 1997). I casi che riferiscono fenomeni di carenza di vitamina B12 nei bambini riguardano quelli allattati esclusivamente al seno da madri vegane, vegetariane, o diete vegetariane con latte e uova ma prive di carne (Higginbottom et al., 1978; Garewal et al., 1988; Wighton et al., 1979; Stollhoff e Sculte, 1987; von Schenck et al., 1997) o bambini alimentati direttamente con diete macrobiotiche (Dagnelie et al., 1991). Sfortunatamente, la terapia con vitamina B12 determina una grande variabilità nella risposta per cui alcuni bambi-ni hanno manifestato in maniera permanente i ritardi nello sviluppo cerebrale (von Schenck et al., 1997). Il ruolo importante della carne nell’alimentazione infantile per un corretto svilup-po psicomotorio è stato evidenziato da Morgan et al. (2004). L’effetto positivo dei prodotti di origine animale nella dieta infantile è stato confermato in numerosi studi condotti in paesi in via di sviluppo (vedi review di Neumann et al., 2003) dove il limitato consumo di proteine di origine animali è la causa principale di ritardi nell’accrescimento lineare dei bambini soprat-tutto nel primo anno di vita. La carenza di carne nella dieta comporta anche altre importanti carenze nutrizionali, ed in particolare in Fe e Zn.

L’importanza della carne nell’alimentazione nell’età adulta

Effetti sulla struttura ossea

Il mantenimento della normale struttura delle ossa è influenzato dall’assorbimento del cal-cio e dalla sua escrezione urinaria, entrambe influenzate da vari fattori. La proteine di origi-ne animale sembra inducano acidosi metabolica cronica con un aumento del livello di calcio nelle urine e con una accelerata dissoluzione minerale (fragilità ossea). Il catabolismo delle proteine della dieta genera ioni ammonio e solfati dagli aminoacidi solforati, per cui il citrato ed il carbonato sono mobilizzati dalle ossa per neutralizzare tali acidi (Massey, 2003) e poi-ché alcune proteine contenute nei vegetali (soia, mais, frumento e riso) hanno simili livelli

Tabella 11. Fabbisogni di vit B12 mg

FAO/OMS FNB/USAUomo adulto 2 3Donna adulta 2 3Donna grav. 3 4Donna latt. 2.5 4

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di zolfo/g di proteina così come quelle di origine animale (uova, latte, carne, pesce, pollame) il livello di calcio urinario aumenterebbe comunque. Tuttavia il livello di calcio urinario e il metabolismo osseo possono essere e sono modificati da altri nutrienti che si ritrovano in altri alimenti, quali ad esempio, il calcio presente nel latte, che va a compensare le perdite dello stesso a livello osseo e a tamponare l’acidità dovuta all’ingestione di proteine; allo stesso mo-do del potassio contenuto nelle fonti proteiche vegetali. L’aumento del calcio nelle urine in risposta all’aumento dell’ingestione proteica, sia animale sia vegetale, è almeno parzialmente compensata dall’assorbimento del calcio a livello intestinale. Se, quindi l’eccessiva ingestione di proteine, sia da fonti di origine animale che fonti di origine vegetale, può ritenersi negativa per il benessere osseo, il suo effetto è ugualmente modificato da altri nutrienti presenti nella dieta (Bonjour, 2005). Inoltre, anche se alcuni studi avevano messo in relazione un aumento del rischio della frattura dell’anca in soggetti che assumevano diete molto ricche di proteine, in quanto iperacide, (Abelow et al., 1992; Barzel e Massey, 1998), altri studi hanno evidenzia-to che diete ricche in proteine sono associate and una maggiore densità delle ossa (Hannan et al., 2003) o, come più recentemente osservato da Misra et al. (2011) una riduzione del rischio di frattura dell’anca in pazienti anziani con una ingestione media di proteine pari a 68g/d.

Immunità

Carenze nutrizionali in generale ed in particolare carenze proteiche risultano essere comu-nemente associate ad una riduzione della risposta immunitaria ed in modo particolare dell’im-munità cellulo-mediata, della funzione fagocitaria, della produzione di citochine, della rispo-sta anticorpale, della affinità anticorpale, e del sistema del complemento (Chandra, 1996; Castaneda et al., 1995; Fielding, 1995). La riduzione del tenore totale di proteine dell’organi-smo dovuta and una malnutrizione proteico-calorica o dovuta al processo di invecchiamento può compromettere il processo di cicatrizzazione di eventuali ferite o la formazione di callo osseo nel caso di fratture, ma anche ridurre la capacità di combattere infezioni e mantenere l’integrità dei tessuti (Castaneda et al., 1995; Fielding, 1999). In generale le proteine di origi-ne animale risultano essere più efficienti rispetto a quelle di origine vegetale nel sostenere la crescita e mantenere l’immunità (Bloom et al., 1996), tuttavia tali sintomatologie si possono verificare anche in concomitanza di altre carenze quali quelle di micronutrienti o cattivo as-sorbimento di altri nutrienti comunque coinvolti nel sistema immunitario. Daly et al. (1999) hanno messo in evidenza come l’arginina migliori i meccanismi cellulari immunitari ed in particolare le funzioni dei linfociti T e abbia anche un effetto immunoconsevativo durante im-munosoppressione indotta da cattiva nutrizione proteica; inoltre Castaneda et al. (1995) hanno messo in evidenza come alimentando donne anziane con diete a basso livello proteico (0,45 g/kg di peso/d) si aveva un bilancio azotato negativo accompagnato da riduzione della massa magra e di alcune funzioni muscolari ed una depressione della risposta immunitaria, se com-parata con quanto avveniva in donne della stessa età alimentate con diete adeguate dal punto di vista della concentrazione proteica (0,82g/kg peso/d che presentavano un adeguato bilancio azotato e mantenevano un adeguato livello immunitario. Coeffier e Déchelotte (2005) hanno evidenziato come l’integrazione alimentare con glutammina migliori le condizioni di pazien-ti operati o critici giustificando ciò con l’influenza della stessa sulla risposta immunitaria, lo stress ossidativo, la protezione cellulare e la barriera intestinale. La glutammina che si ritrova principalmente nel tessuto muscolare ed in quello polmonare, è l’aminoacido più abbondan-te presente nell’organismo e sebbene possa essere dallo stesso sintetizzato, è considerato un aminoacido condizionalmente essenziale in quanto quando l’organismo è sottoposto ad un forte stress (durante un’infezione o una infiammazione) il fabbisogno in glutammina aumen-ta ma non ne aumenta contemporaneamente la produzione. Carenze di glutammina possono compromettere la risposta immunitaria: essa risulta essere, inoltre, la prima fonte di energia

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degli enterociti, dei linfociti, dei macrofagi e dei fibroblasti a livello di intestino tenue (An-drews e Griffiths, 2002; Newsholme, 2001). Le carni rosse e le carni avicole contengono in media acido glutammico per un valore anche superiore a 4 mg/100g, mentre gli alimenti di origine vegetale ne contengono livelli decisamente più bassi (<2mg/100g).

Stato infiammatorio

La dieta in generale contiene fattori pro-infiammatori e può contribuire così alla patogene-si dell’aterosclerosi, del CHD e all’instaurarsi di patologie croniche. Una varietà di indicato-ri non specifici di infiammazione, come conta leucocitaria del sangue, la proteina C-reattiva ad alta sensibilità, la proteina amiloide serica e la concentrazione del fibrinogeno plasmati-co è stata utilizzata per valutare i componenti della dieta legati alle reazioni infiammatorie.

Il Ferro quale costituente della mioglobina nelle carni rosse è stato considerato un elemen-to pro-infiammatorio in quanto favorisce la produzione di radicali liberi, per cui una elevata ingestione di carne rossa può ridurre la conta leucocitaria (correlata con la ferritina serica). Tuttavia, non è chiaro se questa associazione sia casuale o legata alle proteine contenute nelle carni rosse o alla presenza di Ferro. In merito Fung et al. (2004) e Lopez-Garcia (2004) met-tendo a confronto due tipologia di comportamenti alimentari: uno caratterizzato dal consumo elevato di frutta, verdure, carni avicole, pesce e cereali integrali e l’altro caratterizzato da un elevato consumo di latticini, carni rosse e trasformate e cereali raffinati, rispettivamente in uno studio di coorte su 69.664 individui ed uno studio descrittivo su 732 donne, osservarono negli individui con il secondo comportamento alimentare maggiori concentrazioni plasmati-che di insulina, proteina C-reattiva, leptina, omocisteina, CRP interleukina 6 ed E-selectina, molecola vascolare solubile di adesione intercellulare e minori contenuti in Folati rispetto a coloro che consumavano la prima tipologia di dieta con un aumento del rischio di incorrere nel diabete di tipo II. Tuttavia, Jonathan et al. (2007) hanno evidenziato come la sostituzione parziale di fonti di carboidrati in diete bilanciate con circa 200 g/d di carne non determinava un aumento dello stress ossidativo o dei parametri legati all’infiammazione, che si debba par-lare di legame fra stress ossidativo e tipologia di dieta piuttosto che di maggiore stress ossida-tivo legato alla assunzione di carne. A conferma che l’assunzione di carne rossa in sè non sia un fattore così predisponente all’infiammazione Mahon et al. (2007), mettendo a confronto gli effetti di diete con contenuto proteico pari al 24% dell’energia, ma caratterizzate da due diverse fonti (pollo e carne bovina) ed una dieta latto-ovo vegetariana (17% dell’energia), su alcuni parametri dell’infiammazione e su parametri descrittivi della sindrome metabolica (indice di massa corporea, profilo lipoproteico, proteina C-reattiva (CRP), glucosio, insulina, leptina ed adiponectina in donne in post menopausa ed in sovrappeso o mediamente obese), hanno messo in evidenza come tutti e tre i gruppi abbiano perso peso, diminuendo l’Indice di Massa Corporeo, abbassato i livelli di colesterolo totale e di colesterolo LDL del 12%, senza variazioni, tuttavia del livello di CRP. Tuttavia Azadbakht e Esmaillzadeh (2009) in uno stu-dio descrittivo hanno evidenziato un maggior rischio di sindrome metabolica nelle donne che assumevano maggiori quantità giornaliere di carni rosse.

Glutatione, Taurina, Omocisteina, quali prodotti degli aminoacidi solforati influenzano sia aspetti infiammatori che la risposta immunitaria sia in vivo che in vitro (Grinble, 2006). L’os-sidazione dei lipidi e la glicazione delle proteine determina la produzione di prodotti terminali della glicosidazione (AGE) che sono generati sia a livello endogeno che esogeno. Il Gluta-tione è tripeptide composto da Acido -glutammico, Cisteina e Glicina nel quale il residuo di selenio-cisteina presente svolge una fondamentale attività antiossidante degli epiteli durante la risposta immunitaria. Esso è sintetizzato a livello epatico ed è l’enzima maggiormente pre-sente a livello di epitelio intestinale (Kelly et al., 1993).

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Effetto dell’assunzione di carne nell’età senile

Gli individui con l’avanzamento dell’età cambiano la loro costituzione corporea. Di gran-de interesse è la riduzione nelle proteine corporee più conosciuta come una diminuzione di massa muscolare. Secondo Lopez ed Jimenez (2007) la Sarcopenia in soggetti non obesi, nella popolazione anziana è la conseguenza e manifestazione di un cronico deficit energe-tico e di malnutrizione associato ad una diminuzione dell’attività fisica. Infatti tra i 30 e 60 anni di età, la massa muscolare subisce una diminuzione che va dallo 0,3% allo 0,8% per anno, tale riduzione subisce una drammatica accelerazione dopo i 60 anni. (Lopez e Jimenez 2007). Il cambiamento negativo nella composizione corporea è associato ad un incremen-to del rischio in CVD, insulino-resistenza e incremento del rischio di insorgenza di diabete di tipo 2. Effettuando una valutazione basata sul sesso e l’età dei soggetti in esame Melton (2000) ha evidenziato come la la sarcopenia vari dal 6 al 15% dopo i 65 anni, con una perdita di massa muscolare, che può arrivare ad un valore,a 80 anni, che va dal 25 al 40%. Questo può condurre ad un decremento della costituzione portante del corpo, ad una diminuzione dell’attività fisica con riduzione del dispendio energetico, incrementando il rischio di oste-oporosi, di cadute, fratture e ricovero. Il meccanismo principale che porta ad avere la sar-copenia resta ancora non chiaro, ma sembra essere provocato da uno sbilanciamento tra la quantità di proteine sintetizzate e la loro degradazione. Anche altre proteine possono subire una diminuzione (proteine che costituiscono i tessuti degli organi, le proteine del sangue e quelle che costituiscono le riserve immunitarie dell’organismo) (Chernoff, 2004). La perdita di massa muscolare è associata ad un incremento della quota di massa grassa; quest’ultima diminuisce l’indice metabolico basale ed il quotidiano fabbisogno energetico (Evans, 2004). L’attuale Dietary Guidelines for Americans afferma che il 10-35 % di calorie deve provenire dalle proteine. Gli adulti sani sono incoraggiati a consumare 0,8 g/d/per kg di peso corporeo di proteine. Molti studi affermano che la popolazione più invecchia più richiede un maggio-re apporto di proteine (fino a 1,6 g/kg/d) rispetto ai giovani, per mantenere positivo il bilan-cio dell’azoto nell’organismo (Evans, 2004). A causa della riduzione del fabbisogno ener-getico e della riduzione delle calorie ingerite, gli anziani, rispetto ai giovani, beneficiano di un aumento dell’ingestione di proteine di alto valore biologico (uova, carne e pesce magro, proteine del siero e caseine) ed uno scarso apporto lipidico (Evans 2004). Un apporto pro-teico superiore a 0,8 g/kg peso corporeo potrebbe migliorare la sintesi di proteine muscola-ri, riducendone la perdita progressiva che si ha con l’avanzare dell’età (Paddon-Jones et al. , 2008; Symons et al., 2007). In tal senso consumare almeno 15 g di aminoacidi essenziali ad ogni pasto può aiutare a mantenere la massa muscolare e la potenza muscolare (Wolfe, 2006). L’aggiunta nella dieta giornaliera di circa 113g di carne magra, sembra determinare un aumento del 51% della sintesi frazionaria del muscolo, sia in anziani sia in giovani, met-tendo in evidenza come il processo di invecchiamento non riduce la capacità di sintetizzare proteine muscolari (Symons et al., 2007). Paddon-Jones e Rasmussen (2009) affermano che si ha una sintesi più elevata di proteine nel muscolo sia nei giovani sia negli anziani consu-mando 25-30 g di proteine a pasto. Tuttavia, negli anziani, la sintesi di proteine muscolari è indebolita quando proteine e carboidrati sono consumati nello stesso pasto o quando il con-sumo di proteine è minore di 20g per pasto. Comparando gli effetti di una dieta con consu-mo di carne libera, una dieta con latticini e uova, e una dieta vegetariana, quella contenente carne ha un effetto favorevole sulla grandezza del muscolo e sulla resistenza agli esercizi (Campbell et al. 1999). Alterando la fonte di proteine nella dieta generalmente si va ad al-terare la proporzione di altri macro e micro nutrienti (grassi, carboidrati e colesterolo) che possono anche avere effetti sull’anabolismo e catabolismo del muscolo. Haub et al. (2005) mettendo a confronto gli effetti di diete basate sulle proteine della soia con quelle basate sulle proteine della carne (0,6 g/kg) in uomini di 65 anni allenati, hanno messo in eviden-

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za come la potenza del muscolo già aumentata dall’allenamento, incrementi in entrambe i gruppi, con differenze sostanziali a livello di profilo plasmatico. Infatti, nel gruppo ricevente diete a base di carne aumentava il colesterolo HDL, il colesterolo LDL ma non i trigliceridi. L’integrazione giornaliera della dieta con arginina e lisina e β-idrossi-β-metilbutirrato ral-lenta la rottura delle catene proteiche, la graduale perdita di muscolo, la perdita della fun-zionalità e della potenza muscolare e la diminuzione di massa magra in donne con più di 75 anni (Flakoll, 2004). L’apporto di carne nella dieta è positivamente correlato con la massa muscolare senza che ci sia un legame con altri metodi di valutazione della massa corporea (Asp et al., 2007); inoltre, c’è un aumento di ricerche che indicano che apporti superiori ai fabbisogni giornalieri raccomandati (RDA) aiutano a mantenere la funzionalità e mobilità muscolare (Layman 2009).

Capacità cognitive

La cognizione è l’abilità di percepire, pensare, e ricordare. La carenza di specifici nu-trienti come ferro e zinco in modo particolare e in modo secondario anche una malnutrizio-ne proteica-calorica possono danneggiare le funzioni cognitive (Black, 2003). Nel bambino l’integrazione della dieta con carne rispetto a fonti proteiche vegetali migliora le capacità cognitive sia a scuola sia durante le ore di gioco (Neumann et al. 2007). Molti studi clinici, vengono effettuati su popolazioni di anziani per i quali, le capacità cognitive risultano esse-re un problema significativo, questo perché essi spesso consumano alimenti con una bassa concentrazione energetica proprio quando le richieste energetiche sono maggiori come nel caso di malattie acute o croniche in tal modo si determina uno stato di malnutrizione (Seiler 2009). I più importanti deficit in questa popolazione sono quelli relativi a proteine, Ferro, Zinco, Selenio e vitamine (B12, B1, B6 e D). Una dieta ipocalorica mancante in energia, proteine, grassi, carboidrati, Calcio, Fosforo, Ferro, vitamina A, Tiamina, Riboflavina, e Niacina è stata collegata ad un impoverimento delle funzioni cognitive nella popolazione anziana. Kaplan et al. (2001) osservarono come in pazienti anziani con sintomi di diminu-zione delle capacità cognitive, l’apporto di grassi, carboidrati e proteine incrementavano le funzioni in pochissimo tempo (15 min), mentre l’apporto di sole proteine rallentavano la memoria in 60 minuti. In uno studio volto a verificare l’effetto di singoli alimenti compo-nenti la dieta, Berberger-Gateau (2002) non trovarono, in un campione di oltre 1400 anzia-ni, una relazione fra consumo di carne e rischio dell’insorgenza di demenza senile, Mor-ris et al. (2004), invece, pur osservando una stretta relazione fra consumo di grassi saturi e acidi grassi trans e riduzione delle capacità cognitive, non trovarono relazioni fra la stessa e la quantità totale di grassi e colesterolo ingeriti.

Carne e malattie cardiovascolari

Il consumo di carne, soprattutto la cosiddetta carne rossa, è spesso posto in relazione al ri-schio di malattie cardio-vascolari (CVD), intese come l’insieme di patologie cardio-corona-riche, ictus ed infarto del miocardio. Tale relazione è motivata dal fatto che molti tipi di car-ni trasformate e alcune tipologie di carni fresche sono alimenti che apportano un’eccessiva quantità di grasso e che la composizione del grasso, soprattutto per le carni derivanti dai rumi-nanti, può essere ricca di acidi grassi saturi e di colesterolo. Tenendo conto di quanto detto in precedenza su questo argomento e al fine di ridimensionare la portata di queste affermazioni bisogna invece considerare il ruolo rivestito dal largo uso di cereali per la fase di finissaggio di molte specie di animali che induce uno squilibrio nel rapporto tra acidi grassi polinsaturi n-6 e n-3, a favore dei primi, provocandone un innalzamento che, come già ricordato, supera abbondantemente il valore di 4, indicato come ottimale.

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Lipidi e malattie cardiovascolari

In molti paesi sviluppati la quota di grasso assunta con la dieta che origina da alimenti car-nei oscilla fra il 17 e il 22%, indicando quindi come questi alimenti apportino un contributo importante all’ingestione totale di grasso. Per molti anni questo aspetto ha indotto molti stu-diosi, soprattutto in seguito alla formulazione della cosiddetta “Teoria dei lipidi”, a ritene-re la carne come uno dei principali fattori di rischio per l’insorgenza di CVD. Questa teoria postula che l’assunzione di una dieta ricca in grasso di origine animale e di colesterolo com-porta l’aumento della colesterolemia, che a sua volta conduce ad aterosclerosi e, infine ad un aumento del rischio di attacchi cardiaci (Gordon, 1988). La teoria è stata supportata da alcu-ni studi che hanno dimostrato un’associazione tra il consumo di carne rossa e l’aumento del rischio di CVD (Fraser, 1999; Kelemen et al., 2005; Kontogianni et al., 2008). Negli ultimi dieci anni, tuttavia, l’aumento delle conoscenze sulla genesi del fenomeno dell’aterosclerosi e di alcune CVD, sul ruolo delle singole frazioni del colesterolo ematico e sull’effetto di sin-goli acidi grassi nella modulazione della colesterolemia, ha indotto a modificare considere-volmente il giudizio di molti ricercatori sugli effetti del consumo di carne e, più in generale, a rivedere la teoria dei lipidi in riferimento alle CVD (Schmid, 2011). In realtà, già nel 2001, Hooper et al. dimostrarono, mediante una meta-analisi relativa a 27 studi clinici, che la ridu-zione di ingestione di grasso non era significativamente correlata con la mortalità per CVD, confermando quanto era emerso da un precedente studio epidemiologico (Health professional follow-up study, Ascherio et al., 1996) e anticipando quanto riportato in seguito da un altro studio epidemiologico molto esteso (The Nurses Health Study, Ho et al., 2005). Per quanto riguarda il ruolo del colesterolo alimentare nel modulare la quantità di colesterolo ematico, la quasi totalità degli studi epidemiologici sviluppati negli ultimi 30 anni e molti studi di in-tervento hanno inequivocabilmente dimostrato che l’assunzione di colesterolo con la dieta, come in precedenza ripirtato, ha un effetto molto lieve sul contenuto di colesterolo totale nel plasma e non ha alcuna relazione con il rischio di CVD (Garcia_palmieri et al., 1980; Kushi et al., 1985; Esrey et al., 1996; Hu et al., 1997; McNamara, 2000; Lee and Griffin, 2006).

Le attuali conoscenze nell’ambito della nutrizione, pertanto, hanno ridimensionato mol-to il ruolo del grasso di per sé nella dieta e hanno dato molta più enfasi all’effetto di singole componenti lipidiche degli alimenti sulle frazioni del colesterolo ematico. E’ opinione con-divisa, infatti, che il reale fattore di rischio per le CVD non sia il colesterolo ematico totale, ma piuttosto il rapporto fra le singole frazioni (in particolare quello fra colesterolo totale e HDL, Mensink et al., 2003, Astrup et al., 2010) e che, pertanto, sia importante studiare quel-le componenti della dieta in grado di modificare in senso positivo o negativo tale rapporto. In particolare, alcuni classi di acidi grassi (come quelli a catena satura) sono responsabili di un innalzamento di entrambe le frazioni del colesterolo (LDL e HDL), lasciando inalterato il rapporto tra colesterolo totale e quello HDL. Altre categorie di acidi grassi, quali gli acidi grassi monoinsaturi, come l’Ac. Oleico, sono in grado di abbassare al frazione LDL senza modificare la frazione HDL e alcuni PUFA, come gli n-3 possono abbassare le LDL e innal-zare le HDL con un beneficio per il rapporto Colesterolo totale:HDL (Mensink et al., 2003). Per molti anni la capacità degli acidi grassi saturi di innalzare il colesterolo totale ha indotto gli esperti di nutrizione a formulare consigli che prevedevano la riduzione dell’ingestione di acidi grassi saturi con la dieta. Questo approccio assieme a quello derivante dalla teoria dei grassi ha costituito e, per certi versi costituisce ancora, il cosiddetto paradigma tradizionale dieta-malattie cardiache: il consumo di grasso e di acidi grassi saturi fa innalzare il colesterolo totale e le LDL, questo causa l’insorgenza di CVD (Mozaffarian, 2011). In realtà questo pa-radigma è stato progressivamente rivisto prima relativamente al consumo totale di grassi (co-me evidenziato in precedenza) e, proprio in questi ultimi anni, anche in merito al consumo di acidi grassi saturi. Diversi studi (di intervento, epidemiologici, metabolici) hanno dimostrato

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che non ci sono evidenze che supportino la tesi di un’associazione significativa tra grassi sa-turi e CVD (Siri-tarino et al., 2010; Mozaffarian, 2011). Ciò deriva da più cause: innanzitut-to gli effetti fisiologici dei singoli acidi grassi saturi sono molto differenti. Gli acidi grassi a corta catena non hanno alcun effetto né sulle frazioni del colesterolo né sul rischio di CVD, l’acido stearico ha un effetto neutro sulle frazioni del colesterolo e tra gli acidi grassi a catena media il C14 (acido miristico) è quello che dimostra un’azione più forte sull’innalzamento di LDL e HDL (Hunter et al., 2010). Tuttavia in termini di raccomandazioni nutrizionali non è praticamente possibile separare i singoli acidi grassi a livello di scelte alimentari e, pertanto, ciò che si osserva negli studi è l’effetto di interazione fra le varie categorie contenute negli alimenti (tra i quali le carni dei ruminanti sono quelli che assieme al latte e ai formaggi ne contengono di più). Un altro aspetto che ha concorso ha modificare molte delle convinzioni legate al paradigma tradizionale è la valutazione dell’effetto di sostituzione dei grassi satu-ri nella dieta. Se da un lato, infatti, tutti gli studi hanno confermato che sostituendo i grassi saturi con una pari quantità di grassi polinsaturi si ottiene un sicuro beneficio in termini di riduzione del rischio di CVD, dall’altro, è altrettanto evidente che ogni qual volta si è tenta-to di ridurre il consumo di acidi grassi saturi sotto la soglia raccomandata del 10% del totale dell’energia ingerita, ciò ha richiesto cambiamenti nel pattern dietetico che hanno portato a significativi incrementi nel consumo di carboidrati, con la conseguenza di non ottenere alcun beneficio in termini di riduzioni del rischio di CVD o, in alcuni casi, addirittura aumentarlo (Astrup et al., 2010; Jakobsen et al., 2010).

Inoltre bisogna ricordare che la digestione dei lipidi introdotti con gli alimenti nel nostro organismo inizia, contrariamente a quanto avviene per i carboidrati e per le proteine, nel pri-mo tratto dell’intestino tenue (duodeno) dopo che questi hanno passato sostanzialmente inal-terati la bocca e lo stomaco.

La difficoltà con la quale avviene la digestione dei lipidi è dovuta alla loro struttura; i tri-gliceridi ad esempio, che costituiscono la parte più importante dei lipidi degli alimenti, sono sostanze apolari e per questo idrofobe e, in considerazione del fatto che gli enzimi digestivi sono dispersi in un mezzo acquoso, si pone il problema di rendere possibile la loro azione. Ciò è dovuto all’effetto della bile, che è prodotta dalla cistifellea e giunge al duodeno trami-te il coledoco; essa non contiene enzimi digestivi , ma piuttosto, tra le altre sostanze, gli aci-di biliari, che, una volta nel duodeno, vengono immediatamente convertiti nei rispettivi sali.

I sali biliari assolvono all’importante funzione dell’emulsione dei lipidi riducendoli in micelle di dimensioni più piccole e quindi maggiormente attaccabili degli enzimi digestivi.

Essi sono sintetizzati dal fegato a partire dal colesterolo, a differenza del quale, sono mo-lecole anfililiche, cioè formate da una componente liposolubile e una idrosolubile.

Nel duodeno, i sali biliari vanno a inserirsi nelle gocce lipidiche con la loro porzione li-posolubile. In questo modo riducono la coesione tra i vari trigliceridi, al fine di facilitare , mediante la formazione di agglomerati di dimensioni minori , l’attività digestiva della lipasi pancreatica. Infatti , con la riduzione delle dimensioni delle gocce lipidiche, la superficie di contatto delle lipasi con i substrati lipidici aumenta,rendendo più efficace la loro digestione .

Contemporaneamente il continuo rimescolamento del contenuto intestinale, contribui-sce alla scissione delle gocce lipidiche in molecole molto più piccole. In questo consiste l’emulsione dei trigliceridi, che è un processo irreversibile , grazie alla carica elettrica del-la componente idrosolubile dei sali biliari che respinge le varie molecole lipidiche e che è indispensabile per permettere l’azione digestiva della lipasi pancreatica. Inoltre i sali biliari contribuiscono a neutralizzare l’acidità gastrica ed a creare il pH ottimale per l’azione degli enzimi che operano la vera e propria digestione dei lipidi. Questi enzimi sono prodotti dal pancreas, sottoforma di prolipasi, e giungono nel duodeno tramite i dotti pancreatici. La pro-lipasi viene attivata a lipasi dai sali biliari e da una proteina specifica la colipasi, che aumenta l’adesione delle lipasi alle goccioline lipidiche, vincendo l’ostacolo dello strato di acidi biliari

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che le circonda. La lipasi pancreatica così prodotta, idrolizza i legami estere tra il glicerolo e gli acidi grassi nelle posizioni 1 e 3, dando origine a un 2-monogliceride e ai sali sodici de-gli acidi grassi idrolizzati, che pertanto, chimicamente, si devono considerare dei saponi de-gli acidi grassi. I 2-monogliceridi per la maggior parte sono assorbiti direttamente attraverso la mucosa dell’intestino e, ma solo in minima parte, subiscono l’azione di una isomerasi che li converte in 1-monogliceridi per essere attaccati dalla lipasi pancreatica. I Sali degli acidi grassi così liberati e i 2-monogliceridi possono così essere assorbiti attraverso le cellule della mucosa intestinale; l’assorbimento avviene per semplice diffusione e quasi esclusivamente nel tratto dell’intestino tenue chiamato digiuno. A livello delle cellule della mucosa di questo tratto intestinale gli acidi grassi vengono riassemblati a trigliceridi in complessi lipoproteici, detti chilomicroni, costituiti, oltre che dai trigliceridi, da fosfolipidi, da colesterolo e da pro-teine. L’assorbimento degli acidi grassi mediante la formazione di trigliceridi e il loro incor-poramento nei chilomicroni, è un processo anabolico e quindi necessita di energia. Viceversa il 2-monogliceride, grazie alla sua struttura chimica, adesso polare e quindi idrofilica, come accennato in precedenza può passare liberamente la mucosa; l’acido grasso presente in posi-zione sn-2 viene pertanto assorbito in maniera preferenziale rispetto a quelli esterificati nelle posizioni sn-1 ed sn-3. La posizione sn-2 assume quindi un ruolo di particolare rilevanza dal punto di vista nutrizionale.

I chilomicroni rappresentano il mezzo mediante il quale i trigliceridi riescono a muoversi in un mezzo acquoso come la linfa. I trigliceridi neo-sintetizzati nella cellule della mucosa intestinale ed inglobati nei chilomicroni, non vengono infatti veicolati dal sangue come i car-boidrati e gli amminoacidi, ma sono assorbiti dai vasi linfatici e, tramite la linfa che assume un aspetto lattiginoso (chilo), giunge al fegato attraverso le vene succlavie.

Invece i trigliceridi che contengono acidi grassi a media e corta catena (con catena carbo-niosa da 6 a 12 atomi) non giungono al fegato mediante la linfa, ma attraverso i vasi mesen-terici e la vena porta, dopo aver subito la completa idrolisi da parte della lipasi pancreatica.

Infine un dato molto importante, dal punto di vista nutrizionale, risiede nel fatto che la na-tura degli acidi grassi che compongono i trigliceridi può influenzare la velocità e la modalità di assorbimento. Gli acidi grassi in conformazione cis, ad esempio, sono assorbiti molto più facilmente degli acidi grassi in conformazione trans.

Esiste però una categoria di acidi grassi, gli acidi grassi trans, per la quale crescono sem-pre più le evidenze di un loro impatto negativo sui marker metabolici relativi alle CVD, in quanto inducono un aumento del colesterolo LDL e un contemporanea diminuzione di quel-lo HDL (Mensink et al., 2003). In particolare, è opinione condivisa che l’assunzione di acidi grassi trans sia positivamente correlata con il rischio di insorgenza di CVD, probabilmente per l’associazione degli effetti derivanti dall’alterazione del rapporto colesterolo totale:HDL e dall’azione pro-infiammatoria indotta dagli stessi acidi grassi trans sull’endotelio vascolare (Mozzafarian, 2006). E’ importante sottolineare che sebbene inizialmente si pensasse che tali effetti negativi degli acidi grassi trans fossero comuni alle due fonti alimentari principali di queste sostanze (oli vegetali parzialmente idrogenati e prodotti che originano dai ruminanti), studi recenti stanno fornendo nuove evidenze sulla mancanza di associazioni significative fra il consumo di acidi grassi trans derivanti dai ruminanti e rischio di insorgenza di CVD (Ben-dsen et al., 2011). Inoltre, in un recente studio, la somministrazione di acido vaccenico (il principale acido grasso trans presente nei prodotti dei ruminanti) a ratti affetti da dislipidemia ha consentito di evidenziare effetti positivi di questo acido grasso sui principali parametri li-pidici (Jacome-Sosa et al., 2010). D’altra parte gli effetti negativi sulle CVD documentati per gli acidi grassi trans si riscontrano a livelli di concentrazione nella dieta elevati (più del 4-5% dell’energia totale ingerita), incompatibili con le limitate percentuali di questi acidi grassi ri-scontrate nel grasso delle carni, che consentono di assumerne, al massimo, 1-1,5% del totale dell’energia ingerita (Motard-Belanger et al., 2008).

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Spostando l’attenzione dalla quantità alla qualità del grasso, è evidente che diventa impor-tante valutare la composizione del grasso di ogni singolo alimento e come essa varia, anche se non bisogna dimenticare che l’effetto di uno specifico alimento sul rischio di CVD non può essere determinato semplicemente sulla base del profilo degli acidi grassi dell’alimento stesso. L’esatta conoscenza della composizione del grasso di ogni alimento che compone la dieta, tuttavia, può fornire utili indicazioni su quello che può essere l’effetto complessivo sui marker delle CVD (Astrup et al., 2011).

A questo proposito, si ricorda che, come illustrato in un capitolo a parte di questa trattazio-ne, la variabilità del contenuto di grasso e della composizione dello stesso nell’ambito della carne degli animali domestici è elevatissima, dipendendo, oltre che dalla specie e dalla razza considerata, anche da numerosi altri fattori individuali ed ambientali che, nell’insieme concor-rono a definire un quadro estremamente variegato e difficilmente inquadrabile in uno schema classificatorio rigido come quello applicato nell’ambito di molti studi epidemiologici e/o di intervento. Nella maggior parte degli studi, infatti, il consumo di carne prevede una suddivi-sione tra carne rossa e carne bianca, ignorando le molteplici differenze infra e inter-specie che esistono tra le carni che vengono racchiuse nei due gruppi. Ad ogni modo, pur tenendo conto dell’ampia variabilità osservabile per la composizione degli acidi grassi nelle diverse tipolo-gie di carne, è importante sottolineare che il grasso in essa contenuto è composto da un mix di sostanze, alcune potenzialmente collegate con effetti negativi sui marker delle CVD (acidi grassi saturi, acidi grassi trans, colesterolo) altre con un effetto potenzialmente benefico sui medesimi parametri (acidi grassi mono e polinsaturi, acido linoleico coniugato, acido vacce-nico). Diventa pertanto molto difficile isolare nell’ambito dei singoli studi l’effetto di un solo alimento e disgiungerlo da quello dovuto all’interazione con gli altri componenti della dieta. A questo si aggiunge che molto spesso, soprattutto nel caso di studi epidemiologici, si ten-de a raggruppare nella categoria carni anche i prodotti di trasformazione delle stesse, com-piendo pertanto un errore sistematico che si ripercuote sui risultati dello studio. E’ il caso, ad esempio, di uno studio prospettico su donne in post-menopausa (Kelemen et al., 2005) che ha messo in evidenza un’associazione positiva tra consumo di carne rossa e rischio di morta-lità da CVD, ma classificando come carni rosse anche diverse tipologie di carni trasformate. Questo errore è stato commesso anche in altri studi (Hu et al., 1999; Steffen et al., 2005) che hanno riscontrato un’associazione tra consumo di carne e CVD. Di contro, una recente estesa meta-analisi realizzata considerando 20 studi differenti (17 studi prospettici di coorte e 3 studi caso-controllo), che riguardavano più di un milione e duecentomila soggetti, ha messo in evi-denza che il consumo di carne rossa non è in alcun modo associato con le CVD, mentre l’as-sociazione è risultata significativamente positiva per le carni trasformate (Micha et al., 2010).

Se si tiene in considerazione, pertanto, la grande eterogeneità dei dati disponibili in lettera-tura relativamente al tipo di studio messo in atto (epidemiologico, osservazionale, caso-studio, di intervento), alla dimensione e alla tipologia del campione (spesso gli studi epidemiologici hanno riguardato segmenti specifici della popolazione), alla omogeneità della composizione degli alimenti considerati (nel caso della carne si è visto che tale omogeneità manca ed è una caratteristica tipica di molti prodotti di origine animale) e, infine, ai possibili fattori di con-fondimento legati a stili di vita, abitudini e caratteristiche genetiche della popolazione consi-derata, non sorprende che recentemente, McAfee et al. (2010) abbiano messo in evidenza che i risultati di molti studi inerenti le relazioni tra consumo di carne e CVD sono contrastanti e difficilmente confrontabili fra loro.

Consumo di carni e cancro

Il ruolo giocato dalla carne nell’evoluzione della specie umana è ben documentato (Mann, 2000) come del resto è ben documentata la relazione esistente fra evoluzione della dieta e de-

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gli stili di vita nella specie umana e la comparsa di patologie ad essa legata (Cordain et al., 2005). Infatti, ormai, è forte la consapevolezza che i profondi cambiamenti in termini di abitu-dini alimentari e stili di vita, iniziati con la l’agricoltura e l’allevamento circa 10.000 anni fa, siano stati molto più rapidi della capacità del genoma umano di adattarsi ad essi (Boaz, 2002; Eaton, 2005), da ciò ne consegue che da questa discrasia possano trarre origine molte delle pa-tologie attuali (Boaz., 2002; Frassetto et al., 2001). Molti studi di tipo epidemiologico hanno messo in relazione il consumo delle cosidette carni rosse fresche (derivanti da bovini, ovini, caprini e suini) e trasformate a due delle patologie più attuali della civiltà moderna: il cancro, in particolare quello del colon-retto (CRC), e le patologie cardiovascolari (Cross et al., 2007; Giovannucci et al., 1994; Kelemen et al., 2005; Kontogianni et al., 2008; Wei et al., 2004). Il consumo di carni rosse è ritenuto essere un convincente fattore di rischio per quanto riguarda CRC dal World Cancer Research Fund American Institute for Cancer Research (2007) con un aumento del rischio stimato pari al 20% (Huxley et al., 2009) per i forti consumatori di carni rosse. Tale convincimento ha portato il World Cancer Research Fund American Institute for Cancer Research ad indicare in 500 g/settimana il limite massimo di ingestione di carni rosse fresche mentre andrebbe evitato il consumo delle carni conservate al fine di ridurre il rischio, indicazione rafforzata successivamente (WCRF-AICR, 2009) dalla stessa istituzione. Tutta-via, in merito, la comunità scientifica medica si è posta dubbi, infatti non sembrerebbe così scontata la relazione fra alcune patologie tumorali e consumo di carne (Boyle et al., 2008), in quanto trattasi sostanzialmente di patologie multifattoriali. Infatti si pone la difficoltà di com-parare fra loro i risultati delle diverse sperimentazioni effettuate sull’argomento a causa dei di-versi disegni sperimentali adottati, le diverse metodologie di raccolta dei dati e dei campioni, nonché delle differenti diete testate (Robertson e coll, 2005). Corpet et al. (2011), dopo aver evidenziato la criticità circa gli studi effettuati al fine di mettere in relazione stili alimentari e CRC, mettono in evidenza come molti degli studi si basino su informazioni di tipo retrospet-tivo (caso-controllo) a loro volta basate sostanzialmente su questionari alimentari, mentre altri studi, sono effettuati su coorti di individui per periodi di studio piuttosto lunghi. Tuttavia uno studio caso-controllo su tre ed uno studio di coorte su cinque hanno messo in luce una stretta relazione fra consumo di carni rosse o trasformate e rischio di contrarre CRC (Norat e Riboli, 2001). Corpet (2011) mette, inoltre, in evidenza i risultati ottenuti dalle meta-analisi effettua-te da Norat et al. (2002), da Larsson & Wolk (2006) e dal WCRF-AICR (2007). Queste tre meta-analisi portano conclusioni diverse a seconda del tipo di carne considerato: carne rossa e/o carne trasformata, ma anche in relazione alla quantità totale ingerita, ed alla presenza nel-la dieta giornaliera di carne avicola. Tuttavia, “red meat” e”processed meat” risultano essere punti critici in quanto non sempre hanno lo stesso significato negli studi considerati. In mol-te pubblicazioni, infatti, con il termine “red meat” si intende carne bovina, di vitello, ovina o suina o frattaglie, mentre con il termine “processed meat” si intende carne cotta, essiccata, affumicata o comunque conservata, o frattaglie conservate di qualsiasi specie, mentre in altri sudi si fa una distinzione più netta fra “fresh” e “processed” meat.

Rapporto fra CRC e quantità di carni rosse ingerite

La relazione fra quantità ingerita di carni rosse e trasformate e rischio di contrarre CRC può essere sintetizzata in tre meta-analisi (Sandhu e McPherson, 2001; Norat et al., 2002; Larsson e Wolk, 2002). Shandu et al. (2001) concludono affermando che l’aumento del ri-schio di contrarre CRC è pari al 12-17% con un incremento giornaliero del consumo di car-ne rossa pari a 100 g ed un aumento del rischio pari al 49% con un aumento dell’ingestione di 25g/d per quanto riguarda la carne trasformata. Simili le conclusioni tratte da Norat et al. (2002) che hanno stimato un aumento pari a 1,35 volte del rischio di contrarre cancro per gli individui collocati nel più alto quartile dei consumatori di carni rosse e trasformate, mentre

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quelli nel più alto fra i consumatori di carni trasformate il rischio era pari a 1,31 volte, quando comparati con l’ultimo quartile. Anche Larsson et al. (2006) sono giunti alle stesse conclu-sioni con un aumento del rischio pari a 1,28 volte nei consumatori di elevate quantità di carni rosse rispetto ai soggetti con in consumi più bassi e pari a 1,20 volte per i grandi consumatori di carni trasformate. Il report del WRCF del 2007 riportava un aumento del rischio del 29% per consumi di 100g/d di carne rossa, e del 21% per una ingestione di 50 g/d di carni trasfor-mate, frutto dell’elaborazione dei risultati scaturiti da tre pubblicazioni originali (World Can-cer Research Fund, & American Institute for Cancer Research, 2007). Per grammo di carne ingerita, quella trasformata appare dieci volte più carcinogena rispetto alla carne fresca nel lavoro di Norat et al. (2002) e due volte in quello di Larsson et al. (2006).

Uno studio effettuato dall’European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition (EPIC) (Norat et al., 2005) su un campione di 478.040 tra uomini e donne sani di 10 diversi Paesi europei ai quali erano stati forniti questionari circa le abitudini alimentari e lo stile di vi-ta, dopo 5 anni dal primo rilievo, mise in evidenza un incremento statisticamente significativo del rischio di contrarre CRC associato al consumo di carne rossa e trasformata. Nell’indagi-ne, risultava essere elevato un consumo di carne e derivati >160 g/d, mentre era considerato basso un consumo <20g/d. Il gruppo ad alto consumo presentò un rischio maggiore di 1,35 volte rispetto al gruppo a basso consumo, sebbene l’intervallo di confidenza non escludesse l’ipotesi nulla. Dopo 10 anni, il rischio di contrarre il cancro nei soggetti con oltre 50 anni ri-sultò essere pari a 1,71 nel gruppo ad alto consumo rispetto all’1,28 riscontrato nel gruppo a basso consumo evidenziando, tra l’altro, come più forte sia la relazione fra consumo di carni trasformate e rischio di contrarre CRC rispetto al consumo di carne di per sé. Tuttavia, Boyle (2008) si pone il dubbio relativamente alla possibilità di misurare accuratamente l’effetto dei singoli alimenti, quando inseriti in una dieta. Mentre il consumo di carni bianche, principal-mente pollo, non sembra essere associato al rischio, un elevato consumo di pesce sembra ap-portare una protezione significativa in merito (-15%) nelle categorie di maggiori consumatori. In conclusione i risultati delle meta-analisi riportate e dei vari studi evidenziano una significa-tiva associazione fra consumo di carne e carne trasformata e “moderato” rischio di contrarre CRC. A tali conclusioni si è arrivati anche mediante studi prospettici pubblicati dopo il 2006, e fra essi interessante appare quanto osservato da Cross et al. (2007 e 2010) nell’ambito dello studio della coorte AARP costituita da 500.000 individui il quale mette in evidenza come il rischio differenziale e gli “hazard ratios” per i consumatori di carni rosse, risultavano essere 1,16-1,20 e 1,24 rispettivamente per il quinto e primo quintile del campione. La frazione di rischio attribuibile agli attuali livelli di ingestione di carne in vari Paesi è stata stimata da No-rat et al. (2005) sotto l’ipotesi di un legame casuale fra carne e cancro; il calcolo suggerisce che il 25% di patologie sono attribuibili ad un ingestione media giornaliera di 168 g di carne, consumo che si ritrova in Argentina. In accordo con quanto riportato da tali autori il rischio è pari a circa zero quando la popolazione consuma meno di 70 g di carne rossa per settimana. Riboli ha proposto una stima della capacità di prevenzione del CRC (World Cancer Research Fund, W., 2010) ed in accordo con la sua stima, se i cittadini americani mangiassero carne rossa e carne trasformata meno di una volta per settimana, il rischio di contrarre CRC si ri-durrebbe rispettivamente del 5 e del 12% (World Cancer Research Fund, & America Institute for Cancer Research, 2009). Le raccomandazioni del WRCRF e dell’AICR sono di limitare l’ingestione di carne fresca a meno di 500 g/settimana nei consumatori di carne, e di evitare la carne trasformata (0 g/settimana). Tuttavia tale limite non è chiaramente motivato nel report (World Cancer Research Fund & American Institute for Cancer, 2007). Non è sorprendente che molti studi pubblicati prima del 2006 non abbiano evidenziato rischi significativi, infatti, a causa della piccole dimensioni dei campioni i risultati non risultavano significativi, con va-lori del rischio relativo vicino ad uno, anche se tali studi “negativi” non vanno a contraddire il riferimento generale. Secondo il World Cancer Research Fund, & American Institute for

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Cancer Research non é soltanto il consumo di carni rosse ad accrescere il rischio di contrarre CRC, ma anche altri componenti dello stile di vita, in grado di ridurre o accrescere il rischio: fra i primi vi sono l’attività fisica, l’assunzione di diete ricche di fibra, il consumo di aglio, il consumo di fonti di calcio quali il latte ed i suoi derivati, mentre fra i fattori predisponenti risultano essere il fumo e l’obesità (World Cancer Research Fund, & American Institute for Cancer Research, 2007

Le proteine in eccesso sono trasformate a livello di intestino crasso con un aumento di ammine, fenoli inducendo la produzione di radicali liberi ad azione genotossica a livello del colon (Nelson, 2001) e la produzione di composti azotati ad azione carcinogenica come le N-nitrosamine (Bingham, 1996).

Possibili meccanismi esplicativi della relazione fra consumo di carni rosse e incidenza di CRC

Fra i possibili meccanismi per cui il consumo di carne può aumentare il rischio di contrarre CRC sono da considerare l’ingestione di alti livelli di grassi, l’assunzione di amine eterocicli-che e/o di idrocarburi aromatici policiclici prodotti durante la cottura, l’assunzione di N-nitro-so-composti derivanti dalle sostanze impiegate per la conservazione della carne e soprattutto l’assunzione del ferro “eme” che caratterizza proprio le carni rosse (Santarelli et al., 2008; World Cancer Research Fund, & American Institute for Cancer Research, 2007). La carne, inoltre, quale alimento ad elevata densità energetica, può essere considerate un fattore di ri-schio secondario in quanto fattore di incremento dell’obesità ritenuta il principale fattore di rischio delle patologie tumorali (World Cancer Research Fund/American Institute for Cancer Research, 2007). Al di là di quella che può essere la descrizione dei principali risultati in studi epidemiologici, appare interessante andare a verificare i risultati ottenuti da diversi ricercato-ri utilizzando modelli murini e la carne quale fattore di variabilità della dieta somministrata.

Relazione fra consumo di carne e cancro in animali da laboratorio

Prima del 2004 dodici studi avevano valutato l’effetto di diete a base di carne su modelli murini, ma nessuno di essi evidenziava un incremento della carcinogenesi nel ratto o nel topo (Corpet et al., 2011). In contrasto le diete a base di carne sembravano addirittura proteggere gli animali dalla carcinogenesi indotta per via chimica. Tali lavori (Parnaud & Corpet, 1997), mettevano in evidenza come un elevato contenuto in grasso o proteine nella dieta promuoves-sero la carcinogenesi nei ratti, qualunque fosse la fonte di grassi e proteine mentre la carne non si dimostrava essere peggiore di diete a base di soia e caseine (Reddy et al., 1976). Infatti ratti alimentati con diete caratterizzate da un elevato livello di carne (50%) e povere di lipidi presentavano lo stesso numero di tumori di animali alimentati con diete caratterizzate da ca-seine (Lai et al., 1997). Diete arricchite con il 20% di carne cruda o grigliata non determina-vano un incremento dell’incidenza di tumori nei ratti rispetto a diete a base di soia (Clinton et al., 1979). Messe in comparazione con diete a base di caseine, diete caratterizzate da carne molto cotta (60% della dieta) con il 35% di umidità e un elevato carico di amine eterocicliche riduceva il rischio di CRC nei ratti, anche in diete molto ricche di lipidi. In contrasto in diete a basso livello lipidico la carne ben cotta ha incrementato il rischio (Pence et al., 1998). Topi alimentati con diete a base di carne (46% della dieta) hanno evidenziato una minore inciden-za di tumori rispetto a topi alimentati con diete a base di caseine (Nutter et al., 1983). Diete caratterizzate dal 30% di carne grigliata o dal 60% di pancetta non aumentano il numero o la grandezza delle lesioni pre-neoplastiche (Aberrant Crypt Foci: ACF) nei ratti, ma addirit-tura le diete a base di pancetta ne riducono le dimensioni (Parnaud, 1998). Femmine di topi Min (Multiple Intestinal Neoplasia), mutati per il gene APC e che sviluppano molti tumori intestinali, alimentate con carne bovina, hanno sviluppato meno tumori rispetto agli animali del gruppo controllo (Kettunen et al., 2003). Tre studi sono risultati essere in contrasto con

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quelli prima citati, ma un’attenta osservazione sui metodi ha rilevato come la carne non fos-se responsabile della promozione del tumore. Ratti ai quali era stata somministrata una dieta umanizzata (25% di carne bovina) presentarono una maggiore incidenza di tumori al colon rispetto a soggetti che si nutrivano di una dieta specifica per roditori più ricca di fibra e con un minore contenuto di lipidi (Alink et al., 1993). Un modesto incremento di polipi intestinali a livello del tratto digiunale è stato ritrovato in topi “Min” alimentati con il 24% di carne bo-vina, ma gli effetti non risultarono essere significativi sebbene la stessa dieta contenesse ben cinque volte più grasso rispetto al controllo (Mutanen et al., 2000).

La discrepanza fra risultati epidemiologici e studi sugli animali hanno indotto numerosi ricercatori a dare delle spiegazioni circa i meccanismi che possono in qualche misura spiega-re la relazione fra consumo di carni rosse (fresche e trasformate) e rischio di contrarre CRC al fine di risolvere il paradosso (Corpet et al. 2011; Ferguson et al., 2010; Santarelli et al., 2008). Circa il ruolo giocati nell’induzione delle patologie tumorali dai singoli costituenti delle carni (fresche o trasformate) o dei fattori legati alle modalità di cottura si considerano sostanzialmente : • Contenuto lipidico e composizione acidica della frazione lipidica delle carni.• Contenuto di ferro “eme”.• Contenuto in Composti N-Nitroso (NOC). • Livello di Amine eterocicliche e di idrocarburi policiclici aromatici derivanti dalle moda-

lità di cottura o di conservazione

Ingestione di lipidi e rischio di contrarre CRC

In generale diete ricche di lipidi favoriscono l’obesità determinando insulino-resistenza a livello tissutale associata a cambiamenti a livello ematico come l’innalzamento del livello di glucosio, di insulina, di IGF1 e determinando la presenza di acidi grassi liberi, fattori, que-sti, che aumentano la proliferazione e riducono l’apoptosi delle cellule pre-cancerogene, pro-muovendo di fatto la proliferazione di cellule tumorali (Calle & Kaaka, 2004; Santarelli et al., 2008). Inoltre, elevate concentrazioni lipidiche della dieta aumentano la secrezione di acidi biliari che, comportandosi come potenti tensioattivi a carico della mucosa intestinale, deter-minano un forte ricambio cellulare (Bruce, 1987). Tuttavia studi effettuati su modelli animali murini hanno dato risultati contrastanti: infatti, mentre Reddy et al., (1976) evidenziavano una relazione diretta fra alto contenuto lipidico della dieta e CRC nel ratto, Bull et al. (1979) in ratti alimentati, a partire dall’inizio del trattamento tumorale, con diete arricchite di sego bo-vino non evidenziarono un significativo aumento della patologia rispetto al controllo, mentre, indipendentemente dalla fonte lipidica o proteica, in ratti alimentati con diete arricchite con il 20% di lipidi, Pence et al. (1995) non hanno osservato effetti significativi sull’incidenza di tumori al colon. Altri studi non hanno evidenziato alcun effetto del trattamento alimentare sia con fonti di acidi grassi saturi (Nauss et al., 1983; Nutter et al., 1983) sia insaturi (Clinton et al., 1992) sulla carcinogenesi nel ratto e nel topo così come arricchendo le diete con dosi cre-scenti di sego (Sesink et al., 2000). Addirittura Khil et al. (2004), hanno osservato una aumen-to dell’apoptosi delle cellule epiteliali con la riduzione del numero di cellule pre-neoplastiche (ACF) di ratti alimentati con diete caratterizzate dal 14% di sego bovino. Per quanto riguarda il ruolo degli acidi biliari nella carcinognesi, l’aggiunta di acido colico nella dieta determina un incremento della proliferazione cellulare aumentando il numero di cellule tumorali in to-pi precedentemente trattati con sostanze carcinogene (Bruce, 1987). Relativamente al ruolo giocato dagli acidi grassi saturi nell’incrementare la quantità di acidi biliari escreti, i risulta-ti, sia su modelli murini sia su volontari, risultano essere contrastanti con una loro riduzione in animali alimentati con sego bovino sia se comparate con diete arricchite con oli vegetali (Khil et al., 2004), sia se comparate con diete più ricche di fibra (Gallaher et al., 1995), men-

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tre gli studi effettuati su volontari hanno messo in evidenza come diete molto ricche di lipidi non determinavano un aumento della concentrazione di acidi biliari a livello fecale, sebbene aumentino le aberrazioni nucleari a livello delle cellule del colon (Suzuki et al., 1992). Be-resford et al. (2006) non hanno evidenziato alcuna differenza di incidenza di CRC rispetto al resto del campione, in volontari che assumevano diete con un basso contenuto di lipidi evi-denziando come di fatto, i lipidi della dieta non siano da considerare promotori di CRC. A dare chiarezza sull’argomento possono essere i risultati conseguiti da Alexander et al. (2009) in una meta-analisi che prendeva in considerazione 6 studi prospettici di coorte che avevano coinvolto 1.500.000 soggetti e che alla fine si conclude affermando che di per sé l’ingestione di grassi animali non può essere considerato un fattore di rischio. La cancerogenicità dei lipi-di della carne, può essere quindi, più probabilmente attribuibile quale cofattore di un elevato apporto calorico giornaliero, di per sé, fattore di rischio.

Il ruolo delle Ammine eterocicliche (HCA) ed idrocarburi policiclici aromatici

Le alte temperature di cottura determinano la reazione fra aminoacidi e creatina a formare una grande varietà di amine eterocicliche (HCA) (Felton e Knize, 2006; Ni et al., 2008; Su-gimura et al., 2004) riscontrate, tuttavia anche in campioni di carne cotta secondo le pratiche comuni. Le ammine eterocicliche maggiormente presenti nella carne cotta sono: 2-ammino-3,8-dimetilimidazo[4,5-f ]chinoxalina (meIOx), 2-ammino-3,4,9-trimetilimidazo[4,5-f ] chi-noxalina (DiMeIOx), e 2-ammno-1-metil-6-fenilmidazo[4,5-b] piridina (PhIP) (Sinha et al., 1998). Koutros et al. (2008), hanno esaminato il rapporto fra tipo di carne, tipologia di cottu-ra, mutageni nella carne ed il rischio del tumore alla prostata in circa 200.000 soggetti senza, tuttavia, riscontrare associazioni ben specifiche fra probabili fattori e rischio di contrarre la patologia. Tali autori non hanno riportato legami fra il tipo di carne o metodi di cottura speci-fici e rischio di contrarre il tumore, tuttavia il consumo di carne molto cotta è risultato essere associato ad un incremento del rischio pari a 1,26. Anche nel caso delle HCA alcuni autori (Alaejos et al., 2008) ritengono che attualmente manchino delle evidenze scientifiche suffi-cienti a supportare l’ipotesi che il legame fra consumo di carne e rischio di contrarre patologie tumorali sia legato di fatto alla loro ingestione, sebbene gli stessi autori non diano sufficienti spiegazioni su altri possibili fattori di rischio o di prevenzione. Il metodo di cottura e la su-scettibilità genetica individuale non sono stati mai presi in considerazione negli studi citati, sebbene alcuni di essi pongano questo problema. Tuttavia sostanze cancerogene vengono pro-dotte dalla carne quando le temperature di cottura superano i 100 °C o quando cotta a fiamma viva; tali sostanze sono metabolizzate rapidamente o lentamente a seconda della presenza o meno nel corredo genetico dell’individuo di geni capaci di codificare due enzimi: citocromo-P450 e N-acetiltransferasi, enzimi chiave nella detossificazione da sostanze ad azione carci-nogenica (LeMarchand et al., 2002). Va, tuttavia, considerato come la dose con azione car-cinogenica in modelli murini risulti essere 10.000 volte superiore ai quantitativi ritrovati nei cibi destinati all’alimentazione umana. Il pollo alla griglia o fritto contiene molte più ammine eterocicliche rispetto a quelle riscontrate nella carne bovina: tuttavia l’ingestione di carne avi-cola non è collegata all’aumento di rischio di contrarre CRC (Heddie et al. 2001). E’ tuttavia, vero, che non tutte le ammine eterocicliche hanno lo stesso potenziale carcinogenico (quelle ritrovate nella carne bovina sembrano avere un’azione più forte nell’uomo rispetto a quelle ritrovate nella carne avicola), e che comunque vi è, in merito, una forte componente di pre-disposizione genetica o di differente componente microbiologica intestinale nel determinare la minore o maggiore suscettibilità di un individuo. Ad esempio i fumatori appartenenti al fenotipo con N-acetiltransferasi rapida sono molto più suscettibili a contrarre cancro quando ingeriscono carne ben cotta rispetto a quelli appartenenti al fenotipo con N-acetiltransferasi lenta (Le Marchand et al., 2002).

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Gli idrocarburi policiclici aromatici (PAHs) sono prodotti dalla combustione incompleta di composti organici e risultano essere importanti componenti dell’inquinamento ambienta-le, di essi, il benzo[a]pirene (BaP) è considerato un mutageno. I PAHs si ritrovano in carni e pesce ben cotti così come in alimenti non ben preparati prima della cottura o in salumi o pe-sci affumicati, (Garcia-Closas et al., 2005; Kazerouni et al., 2001; Phillips, 1999; Santarelli et al., 2008). L’associazione fra carne cotta utilizzando un barbecue, ma non carne grigliata o assunzione di HCA, è risultata essere fortemente legata alla formazione di adenomi (Sinha et al., 2005; Gunter et al., 2005). Nell’uomo il benzopirene sembra determinare modificazioni del DNA a livello delle cellule della mucosa intestinale (Alexandrov et al., 1996).

Contenuto in ferro “eme” della carne: perossidazione lipidica e via degli N-nitroso composti

Al fine di dare una spiegazione sul ruolo giocato dalle carni rosse e dalle carni trasformate sul CRC, Corpet et al. (2011) ipotizzano che le carni rosse contengano un fattore predispo-nente al cancro rispetto alle carni bianche. Sulla base dei risultati ottenuti su modelli animali murini, l’idea sembra essere quella che tali composti siano per essi inattivi o inibiti da altri fattori specifici della diete sperimentali adottate. Basandosi sui lavori di Sesink (Sesink et al., 1999) e Sawa (Sawa et al., 1998) gli autori ipotizzano che il ferro “eme” abbia un ruolo molto importante nella promozione del cancro, spiegando il perché una delle cause sia at-tribuibile alla carne rossa. Tale ipotesi è supportata da una meta-analisi di studi epidemiolo-gici effettuata da Bastide et al. (2011), i quali hanno osservato una suggestiva associazione fra eme della dieta e rischio di CRC. Corpet in merito ritiene però che il calcio possa legare il ferro eme e annullarne la tossicità. Questo potrebbe spiegare perché nessuna sperimen-tazione effettuata sugli animali pubblicata prima del 2004, che utilizzava la dieta standard AIN76 ricca di calcio, evidenziasse effetti sull’aumento del rischio di contrarre CRC una volta arricchita con carne rossa (American, 1977). Lo stesso gruppo di lavoro di Corpet ha dimostrato come ratti ai quali era stato chimicamente indotto il cancro ed ai quali era stata aggiunta, in una dieta povera di calcio, carne bovina sviluppassero poi il tumore. Gli stessi autori hanno evidenziato una risposta dose-effetto mettendo in relazione il ferro “eme” e lo sviluppo tumorale. Inoltre alimentando i ratti con salsicce di sangue il numero di soggetti colpiti è risultato essere maggiore rispetto a quelli alimentati con carne bovina ed alimentati con emoglobina, ma non superiore a quello riscontrato nel gruppo alimentato con citrato di ferro. Per contro la carne di pollo non sembrerebbe indurre tumore per il suo basso contenu-to in ferro “eme” (Pierre et al., 2004).

Secondo Corpet due sarebbero le vie attraverso le quali il ferro promuoverebbe il cancro:• Via della perossidazione lipidica• Via della produzione di composti N-nitroso (Bastide et al., 2011).

La via della perossidazione lipidica sembra spiegare la relazione fra CRC e consumo di carne fresca, infatti gli studi effettuati hanno messo in evidenza che la carcinogenesi indot-ta dal ferro “eme” è associata all’escrezione urinaria di un biomarker della perossidazione lipidica chiamato acido 1,4-diidrossinonano mercapturico (DHN-MA) (Pierre et al., 2004). L’escrezione di DHN-MA aumentava anche in volontari che avevano consumato salsicce di sangue (Pierre et al., 2006), inoltre, diete molto ricche di ferro “eme” aumentavano in maniera consistente nelle feci il livello di TBARs, una misura complessiva delle molecole aldeidiche scaturite dall’ossidazione lipidica. In ratti alimentati con diete caratterizzate da olio di girasole raffinato e emoglobina, si riscontrava un aumento significativo dell’incidenza di CRC rispetto al gruppo alimentato con solo olio, mettendo in evidenza come la perossidazione lipidica do-vuta alla produzione di radicali perossilici possa avere attività mutagena (Sawa et al., 1998). Le principali molecole aldeidiche risultano essere la malodialdeide (MDA) e il 4-idrossino-nenale (4-HNE) (Marnett, 2004): l’MDA é tossica e lega il DNA formando addotti mutageni.

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Il 4-HNE induce apoptosi nelle cellule normali ma non in quelle precancerose mutate a livel-lo di gene APC tumorale in quanto resistenti all’induzione apoptosica (Pierre c oll., 2007).

Relativamente alle carni conservate, il sale ed il nitrito di sodio impiegati, non sembrano promuovere la carcinogenesi a livello del colon nei roditori, e l’ingestione di sale non sem-bra essere associata al rischio di contrarre CRC (ma con il rischio di cancro allo stomaco). Tuttavia, il cloruro di sodio può determinare l’ossidazione del grasso, innalzando il livello di TBARs e riducendo il pool di enzimi antiossidanti (Gheisari & Motamedi, 2010).

Il ruolo giocato dai composti N-nitrosi (NOCs) nell’induzione tumorale giustifica per-ché carni stagionate alle quali sono aggiunti conservanti quali i nitriti siano considerate fat-tori di rischio. Infatti le feci di ratti o topi alimentati con diete a base di pancetta o hot-dog contenevano dalle 5 alle 20 volte più NOCs rispetto a soggetti alimentati con diete a base di caseina (Mirvish et al., 2003; Parnaud et al., 2000); alti livelli di NOCs apparenti nel-le carni sono associati all’induzione tumorale nei ratti (Santarelli et al., 2010). Questa via non sembra limitarsi alla carne conservata dal momento che una dieta caratterizzata da alti contenuti di carne fresca (600 g/d rispetto a 60 g/d ) induce un incremento pari a 3 volte del contenuto in NOCs a livello fecale (Bingham et al., 1996). Tale produzione di NOCs sem-bra essere specificatamente causata dall’ingestione di ferro “eme” che si ritrova nella carne bovina fresca (Cross et al., 2003). In merito la carne suina contiene meno ferro “eme”, ma i nitriti aggiunti per la conservazione favoriscono nell’uomo la produzione di NOCs (Joosen et al., 2009). La natura degli stessi a livello di apparato digerente non è ancora pienamente conosciuta (Zhou et al., 2006): la maggior parte dei test infatti mette insieme il Fe-nitrosil-eme e gli S-nitrosotioli con i NOCs, ed il valore risultante è chiamato ATNC per “Compo-sti nitroso totali apparenti “(Kuhnle et al.., 2007). Il componente principale degli ATNC in volontari consumatori di carne rossa sembra essere il Fe-nitrosil-eme, ma nei consumatori di carne conservata il livello di NOCs era 2, 3 volte superiore rispetto a quanto riscontrato nei consumatori di carni rosse fresche. (Joosen et al., 2009). Alcuni dei NOCs hanno azione carcinogenica in modelli murini, in quanto possono alchilare il DNA. In volontari, sottoposti ad una dieta ricca di carne rossa i NOC di formazione endogena rilevati, sono stati correla-ti con la formazione di uno specifico N-nitroso addotto del DNA: O6-carbossimetilguanina (O6-CMG) (Lewin et al., 2006).

Un terzo percorso può spiegare l’effetto diretto dell’eme contenuto nella carne rossa sulle cellule del colon. Questo meccanismo ha avuto un supporto limitato da studi su cellule tu-morali in vitro. Si è osservato, comunque che l’emina (molecola che presenta l’anello porfi-rinico libero ed è stabilizzata dal cloro) induce un danno a livello del DNA in cellule umane di origine intestinale (Glei et al., 2006), mediante il perossido d’idrogeno prodotto dall’eme-ossigenasi che può essere inibita in vitro dalla Zn-protoporfirina (Ishikawa et al., 2010), ma non si hanno evidenze dirette per quanto riguarda l’emoglobina.

Consumo di carni rosse e trasformate ed altre patologie tumorali

Alcuni studi di coorte hanno messo in evidenza come in particolare il consumo di carni trasformate sia legato in qualche misura al tumore allo stomaco, probabilmente a causa delle elevate concentrazioni di sale e alla presenza di nitriti. Minori rispetto al rischio di contrar-re tumore allo stomaco risultano essere le probabilità di contrarre tumore alla prostata (Ale-xander et al., 2010) ed al seno (Mignone et al., 2009) così come ai polmoni (Linseinen et al., 2011). In uno studio caso-controllo condotto in Australia su due gruppi di individui ed una meta-analisi, Kolahdooz et al. (2010), hanno osservato che sebbene non ci fosse associazione fra consumo totale di carne o consumo di carni rosse e rischio di contrarre cancro alle ovaie, le donne con consumo più elevato di carni trasformate presentavano un maggior rischio (Odd Risk pari a 1,18 e Rischio Relativo pari a 1,20). Il consumo frequente di carni avicole era as-

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sociato ad una limitata diminuzione del rischio, mentre tale riduzione risultava evidente nel-le forti consumatrici di pesce (OR: 0,83). Bandera et al. (2007) hanno messo in evidenza un incremento del rischio di contrarre tumore all’endometrio pari all’1,26, per 100 g/d di carne totale, 1,51 per 100g/d di carne rossa e 1,03 per 100 g/d di carne bianca, concludendo che il tumore all’endometrio era strettamente legato al consumo di carne rossa. In merito Lee et al. (2008) andando a studiare le relazioni fra abitudini alimentari e rischio di contrarre tumore ai reni hanno osservato come mettendo in relazione fra loro consumo di proteine animali, gras-si, grassi saturi, l’indice di massa corporea, il consumo di frutta e verdura, consumo di alcol e rischio di contrarre il tumore l’associazione fra consumo di proteine e lipidi di origine ani-male e rischio di contrarre il cancro non risultava essere significativa.

Prospettive di intervento nella filiera della carne trasformata

Sulla base degli studi condotti da Sesink et al. (2001) la molecola del ferro eme, una mo-lecola planare idrofobica con catene polari (come la bilirubina non coniugata e i sali bilia-ri), si andrebbe a legare con gli ioni calcio incorporati in un sale mediante allineamento fra i gruppi anionici e il calcio stesso (Sesink et al., 2001, van der Veere et al., 1995). Secondo gli stessi autori sia la clorofilla che l’eme, essendo profirine idrofobiche planari possono im-pilarsi insieme nella fase idrofobica del contenuto luminale (de Vogel et al., 2005). In una sperimentazione condotta su ratti ai quali era stata indotta carcinogenesi del colon mediante emina clorinata, una forma chimica del ferro eme, libero, la stessa carcinogenesi fu soppres-sa da calcio alimentare (Pierre et al., 2003). Il carbonato di calcio sopprime la promozione del tumore ed è più efficiente del fosfato di calcio (Pierre, 2008; Allam et al., 2011). Tuttavia, sebbene esso non sia tossico e dia una forte protezione ha due svantaggi: modifica la struttura della carne riducendone la tenerezza e la succosità e, inoltre lega il ferro “eme” riducendone l’assorbimento. Senza bloccare il ferro “eme”, è possibile evitare la perossidazione dei lipidi o la via del N-Nitroso. Infatti, la perossidazione e la nitrosazione possono essere ridotte me-diante l’aggiunta di antiossidanti o antinitrosanti nella carne. L’ossidazione può essere evita-ta, inoltre, mediante l’allontanamento dell’ossigeno, mentre la nitrosazione può essere preve-nuta mediante la rimozione dei nitriti dalla carne o dal tratto gastrointestinale. In uno studio in ratti ai quali era stato indotto chimicamente il cancro, la somministrazione di carne suina conservata senza nitrito di sodio, o confezionata in modo da prevenire l’ossidazione, non an-dava a promuovere la carcinogenesi, al contrario di carne conservata mediante l’impiego di nitriti o di carne esposta all’aria per 5 giorni in frigorifero (Santarelli et al., 2010). Anche il prosciutto cotto liofilizzato somministrato ai ratti induceva il tumore (Pierre et al.,2010), in quanto la liofilizzazione sembra incrementare l’ossidazione (Gasc et al., 2007). L’aggiunta di idrossianisolo butilato (BHA) con rutina o olio di oliva resistenti all’ossidazione, in diete cariche di emina previene l’effetto pro-ossidante dell’emina stessa (Pierre et al., 2003) Nei ratti la carne stagionata ha aumentato il numero di lesioni pre-cancerose nel tratto intestinale e la lipoperossidazione fecale. Quando all’alimento era aggiunta vitamina E le lesioni si nor-malizzavano così come si riduceva il livello di TBARs nelle feci di ratti alimentati con car-ne stagionata arricchita. Di fatto, quindi, Corpet (2011) propone alcune soluzioni quale ad esempio l’abbinamento di fonti di calcio, quali i latticini, con la carni rosse oppure cambia-menti di processo mediante la prevenzione dell’ossidazione dei lipidi durante la stagionatura e lo stoccaggio della carne fresca in ambiente anaerobico riducendo lo sviluppo di sostanze pro-ossidanti ed, inoltre, evitando l’impiego di nitriti nelle soluzioni per la stagionatura dei prodotti. Anche l’aggiunta di antiossidanti come -tocoferolo aggiunto alla soluzione di sta-gionatura potrebbe esser considerata una soluzione. L’autore evidenzia come in merito inte-ressante debba essere in tal senso l’impiego di antiossidanti naturali o antinitrosanti naturali. come le sostanze polifenoliche.

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CONCLUSIONI

L’ampia attenzione dedicata alle problematiche del ruolo delle carni nella salute umana e, soprattutto, al rapporto tra l’assunzione delle carni cosidette rosse e il cancro, permette di trarre alcune conclusioni.

Dal punto di vista della composizione chimica, le differenze basate sul colore sono poco informative. D’altra parte il colore della carne è anzitutto legato al contenuto in mioglobina, la proteina contenente ferro, presente nella carne nella misura dell’1% delle sue proteine to-tali e abbastanza simile all’emoglobina che si ritrova nei globuli rossi. Negli animali giovani essa si ritrova in scarsa quantità nel muscolo e quindi le carni si presentano di colore roseo o bianco. Il colore rosso vivo è dovuto al legame della proteina con l’ossigeno, che determina la formazione di ossiemoglobina; la manifestazione di questa caratteristica si evidenzia quando non meno del 50% della mioglobina è ossidata. Al contrario lunghe esposizioni all’ossigeno portano alla formazione di metaemoglobina, che, a partire da livelli di ossidazione superiori al 60% della mioglobina, determinano il colore bruno scuro della carne. Inoltre, concorrono a definire il colore delle carni le caratteristiche delle fibre, che, in base al loro metabolismo energetico si suddividono in due tipi: fibre a metabolismo ossidativo o a metabolismo glico-litico. Un’altra caratteristica della carne, legata al colore, è la sta bilità della colorazione. Il consumo di ossigeno a livello del muscolo che si trasforma in carne è inversamente correlato alla stabilità del colore della carne stes sa. La specie è un fattore che può influenzare il consu-mo di ossige no. Tra bovino, ovino e suino, la specie bovina, ad esempio, è quella che mostra il più basso consumo di ossigeno e la maggiore stabilità della colorazione della carne; vice-versa quella ovina è quella che mo stra il maggior consumo di ossige no e la minore stabili-tà della colo razione. Anche il tipo di muscolo influenza il consumo di ossigeno: il muscolo Longissimus dorsi (muscolo parzial mente attivo, “bianco”, glicolitico) è quello che mostra la migliore stabilità della colorazione mentre lo Psoas major (muscolo attivo, “rosso”, ossidati-vo) è quello che perde più facilmente la colorazio ne. I fattori che influenzano la colorazione e la de colorazione della carne, sono co stituiti, come sopra riportato a proposito della ossida-zione delle mioglobina, dal tasso di diffusione e consumo di ossigeno e dall’autossidazione dei pigmenti in presenza dell’ossigeno stesso.

Ora, costruire su queste basi una teoria che afferma perentoriamente l’esistenza di una re-lazione tra consumo di carni rosse e patologie neoplastiche, significa affrontare il problema prendendo in considerazione una caratterizzazione nutrizionale dell’alimento molto appros-simativa.

Queste convinzioni si fondano su un modo di pensare che fa riferimento a indagini epide-miologiche sul ruolo delle carni rosse nell’alimentazione, a partire da quelle ormai storiche, come il poster Hawaii e lo studio EPIC. La prima ha evidenziato un rischio superiore del 50% di sviluppare neoplasie pancreatiche tra coloro che mangiano carne rossa, rispetto a quelli che ne consumano poca. Questa comunicazione, tuttavia, comparsa sotto forma di poster, ben-ché molto clamorosamente diffusa, non è mai stata pubblicata su alcuna rivista scientifica, né è mai passata al vaglio di una peer review da parte di un comitato scientifico indipenden-te. Peraltro questa notizia è stata altrettanto clamorosamente smentita da studi successivi che negano qualsiasi associazione tra consumo di carne e tumore del pancreas (Ballarini , 2006).

Lo studio europeo EPIC (European Prospective Investigation into Cancer and nutrition) (66) indica oltre al sovrappeso, l’aumento di peso e la mancanza di attività fisica, nell’incre-mento del rischio di vari tumori (mammella, colonretto, endometrio, rene). La stessa fonte riporta poi che la fibra, i cereali integrali, i vegetali e la frutta, diminuiscono il rischio del tu-more del tratto digerente, ma non di quelli ormono-dipendenti (prostata, mammella, ovaie) e che le carni rosse e conservate aumentano il rischio di tumore colon-rettale.

In effetti, per quest’ultimo aspetto, il rischio per chi consuma in maniera eccessiva le carni

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suddette, è pari a 1.35. Considerando che il rischio generico ha valore 1, è bene ricordare che i grandi bevitori di bevande alcoliche hanno un rischio 3. Inoltre, al fine di valutare i dati sopra riportati occorre tener presente che il rischio relativo al di sotto di 1.71 è ritenuto accettabile con scetticismo (Bradfor Hill Criteria), mentre un altro studio (Michaud, D.S., et al., 2005) riporta che valori al di sotto di 3 sono molto sospetti (Ballarini , 2006).

Infine, a parte le riserve generali sulle indagini epidemiologiche, per quanto riguarda il tumore del colon il principale fattore di rischio è l’ereditarietà. Si deve poi ricordare che il consumo giornaliero di carne degli italiani (intorno ai 100 g/d) è inferiore ai 160 g al giorno, posto come limite per coloro che eccedono nel consumo di carne secondo lo studio EPIC e , soprattutto, è inserito in una dieta equilibrata in cui sono presenti verdura e frutta, cereali, pe-sce, latte e formaggi e sono minoritari alimenti come wurstel, salsicce, paté e carni conservate.

Su queste problematiche in tempi recenti (2010), l’Associazione per la Scienza e le Pro-duzioni Animali (ASPA), ha puntualizzato il proprio punto di vista sulla relazione fra consu-mo di carne e rischio di contrarre cancro al colon al retto e alla prostata. L’ASPA ha ricordato anzitutto che una posizione scientifica deve essere basata su riscontri sperimentali. Per fare una corretta analisi del problema è necessario presentare un’analisi attenta della letteratura disponibile. Alcune premesse sono necessarie.

Primo: in base ai dati del Ministero per la Salute, il cancro al colon retto è la quarta neo-plasia per gli uomini e la terza per le donne in ordine di importanza in Italia, con un caso su 20 uomini e 1 su 32 donne fino all’età di 70 anni. Il rischio di morte per questa neoplasia è valutato nell’1,7% nei maschi e nell’1% nelle donne . Questa notazione è importante perchè, come si vedrà in seguito, i pochi studi che trovano una correlazione fra consumo di carne e cancro all’intestino affermano che il rischio è trascurabile.

Secondo: Luzzatto, nel suo libro Capire il Cancro ci avverte della difficoltà dello studio delle relazioni fra dieta e cancro soprattutto a causa del fatto che i dati sulla dieta delle popo-lazioni controllate sono approssimativi.

Terzo: le indagini su vaste popolazioni portano a risultati che contraddicono le ipotesi, co-me nel caso dello studio EPIC condotto su oltre 500.000 persone, recentemente pubblicato sulla rivista Journal of the National Cancer Institute (Moffetta et al., 2010 e Willet, 2010), in cui gli autori dimostrano che vi è una associazione molto bassa e non significativa fra consu-mo di frutta e verdura e riduzione di rischio di contrarre tumori. Con buona pace della cam-pagna martellante che consiglia l’aumento del consumo di questi alimenti quali panacea di tutti i mali. Una recente indagine condotta sui vegetariani britannici ha dimostrato che costo-ro hanno una probabilità (sebbene statisticamente non significativa) di ammalarsi di cancro al colon e al retto addirittura superiore del 12% in media rispetto ai coloro che consumano abitualmente carne, ma per le donne significativamente del doppio di contrarre cancro alla cervice (Key et al., 2009).

Gli effetti del consumo di carne sulla salute umana sono ben raccolti nella rassegna di McAfee et al. (2010). Le evidenze più importanti sono legate al cancro al colon e supporta-te essenzialmente da studi epidemiologici (Cross et al., 2007; Norat et al., 2005). Tali evi-denze sono servite al World Cancer Research Fund/American Institute for Cancer Research per esprimere un parere nel 2007 secondo il quale ci sono evidenze sufficienti nell’ambito della letteratura scientifica per concludere che l’associazione fra assunzione di carne ros-sa e di carne trasformata con il cancro del colon è convincente. Questa sentenza contiene già il nocciolo del problema: da una parte affidarsi esclusivamente a studi epidemiologici e, dall’altra non distinguere tra carne e carne trasformata. In realtà già prima dell’espres-sione di questo parere e alla pubblicazione degli studi epidemiologici che ne fornivano il supporto scientifico, numerosi studiosi avevano espresso le loro perplessità in merito al rapporto tra cancro al colon e assunzione di carne. Ad esempio Truswell et al. (2002) mi-sero in evidenza che su 30 studi caso-controllo, 20 non trovavano alcuna associazione tra i

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due aspetti sopra citati. Inoltre come messo in evidenza da McAfee et al. (2010) nella loro rassegna, è difficile comparare studi molto differenti fra loro in termini di numerosità del campione, metodo di definizione della dieta e variazione della misurazione dell’endpoint. Va poi evidenziato che trovare un’associazione positiva fra due fenomeni non vuol dire sta-bilire un rapporto di causa ed effetto: alta percentuale di successo nei tiri liberi e altezza dei tiratori sono altamente correlati, ma soltanto perché i “lunghi” giocano nei tornei ufficiali di basket. Ad oggi i tentativi di trovare e dimostrare quale sia il meccanismo biologico che legherebbe l’assunzione di carne e il cancro al colon non hanno ancora dato risultati con-vincenti (Ferguson, 2010).

Le critiche più serie che vengono fatte a questi studi epidemiologici, tuttavia, sono rac-chiuse nello scambio di corrispondenza che è sorto fra gli autori dello studio “Meat , Fish , and Colorectal Cancer Risk : The European Prospective Investigation into Cancer and Nu-trition”, apparso sulla rivista International Journal of Cancer, nel 2005 (Norat et al., 2005) e alcuni studiosi inglesi e tedeschi. L’analisi dei dati che provengono dallo studio EPIC in primo luogo non peserebbe in maniera adeguata gli effetti della posizione socio-economico dei soggetti coinvolti sui risultati ottenuti. E’ evidente che una malattia multifattoriale co-me il cancro al colon risente dell’azione di molti possibili agenti tra i quali il fumo, l’abu-so di alcool, la limitata attività fisica, spesso a loro volta associati con la posizione socio-economica dei soggetti coinvolti. A riprova del fatto che sia improbabile che l’eliminazione della sola carne dalla dieta possa far diminuire l’incidenza del cancro al colon, uno studio epidemiologico condotto in Giappone dal 1992 al 2000, su circa 14.000 uomini e 16.000 donne, non ha rilevato alcun aumento di rischio di tumore al colon in seguito al consumo di carne cosiddetta “rossa” (Oba et al., 2006). Queste conclusioni sono state recentemente ampiamente confermate da articolo pubblicato sulla prestigiosa rivista American Journal of Clinical Nutrition, riprendendo i risultato di 6 grandi studi epidemiologici condotti com-plessivamente su 1,5 milioni di persone attraverso la meta-analisi dei risultati e del follow up (periodo successivo allo studio), ha rilevato che le evidenze epidemiologiche disponi-bili non sembrano supportare un’associazione tra assunzione di grassi e proteine animali e cancro al colon (Alexander et al., 2009).

Un’altra critica che è possibile muovere a questi studi epidemiologici, che è ricordata nello scambio di corrispondenza sopra citato e in numerosi altri studi che valutano l’effetto dell’assunzione di carne sulla salute dell’uomo, riguarda la mancata distinzione fra la carne e la carne trasformata. Come zootecnici ed esperti di alimenti di origine animale naturalmen-te noi abbiamo ben chiaro quali enormi differenze in termini di concentrazione di nutrienti, presenza di conservanti e variazioni delle proprietà chimico fisiche esistano tra l’alimento carne (inteso come porzione dell’apparato muscolo-scheletrico animale sottoposto a proces-so di frollatura per ottenere la risoluzione del rigor-mortis) e l’alimento carne trasformata e additivata con aggiunta di sostanze conservati come nitrati, nitriti, polifosfati, antiossidanti ecc. In particolare, basta ricordare il peso che possono avere i composti N-Nitrosi (NOCs) in rapporto con il Fe-heme delle fibre muscolari nelle carni conservate o trasformate,le Ammi-ne eterocicliche (HCAs) e il ruolo degli idrocarburi aromatici policiclici (benzopirene)per le carni cotte direttamente sulla brace o su piastre metalliche roventi.

Per quanto concerne i NOCs, l’Agenzia Internazionale per la ricerca sul Cancro afferma che le conseguenze dell’ingestione, soprattutto di nitriti o, in minor misura ,di nitrati, determi-nano una nitrosazione endogena legata al Fe-heme della mioglobina della carne,probabilmente carcinogena per l’uomo, in riferimento,principalmente, ai tumori del tratto esofago-stomaco (Santarelli R.L et al.,2008)

Riguardo al ruolo che in questo processo gioca il Fe-heme, si sa che la sua azione può es-sere inattivata dalla Clorofilla (verdure fresche) e dal Calcio; questo conferma l’importanza della complementarietà dei cibi che compongono le diete.

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Il Benzopirene si forma durante la cottura alle alte temperature della griglia o della frittura. Allo stesso modo le modalità della cottura determinano la formazione di Nitroso Ammine(HCAs),partendo dalla Creatina.

Bisogna notare che queste sostanze possono originare dallo stesso tipo di cottura delle carni,cosidette bianche, del pesce e alle HCAs sono più sensibili gli individui che le metabo-lizzano più velocemente; sarebbe pertanto da chimarsi in causa una particolare base genetica che predisponga a questi effetti.

Un quadro altrettanto chiaro, purtroppo, pare che manchi nel mondo medico che si occu-pa di studiare le relazioni tra carne e prodotti di trasformazione della carne e salute umana. Nel già citato articolo di Norat et al. (2005), come messo in evidenza dalla corrispondenza a corredo dello stesso, gli autori non hanno evidenziato che gli effetti associativi riscontrati erano significativi solo nel caso della carne trasformata e non per la carne di per sé. Il fatto che sia la carne trasformata, con il suo bagaglio di sostanze aggiunte, ad essere correlata con alcune patologie e non la carne di per sé, è stato riportato anche in altri studi che hanno preso in considerazione l’effetto di tali alimenti sulle malattie cardio-vascolari (Micha et al., 2010) o sul cancro ai polmoni (Tasevska et al. 2009). L’insieme di queste evidenze ha fatto sì che Ferguson (2010) in un recente articolo concludesse che le evidenze più convincenti in merito alle relazioni tra cancro e assunzione di carne siano legate alla carne additivata e si chiedeva quanto gli studi epidemiologici siano in grado di distinguere nel campione gli effetti tra carne e carne trasformata tramite l’uso dei questionari alimentari.

Un caso significativo di come l’aggiustamento per alcuni fattori di correzione può far va-riare i risultati di una ricerca è dato dal lavoro di Lee et al. (2008) in cui è stato investigato il rapporto fra assunzione di carne e cancro al rene su un campione di diverse centinaia di mi-gliaia di persone fra uomini e donne. I risultati aggiustati per indice di condizione corporea, quantità di frutta e verdura ingerita e uso di alcool non mostravano alcuna correlazione signi-ficativa tra ingestione di carne e cancro al rene, ma senza l’aggiustamento la correlazione era altamente significativa.

Per quanto riguarda, infine, l’associazione fra consumo di carne e altri prodotti di origine animale e cancro al seno, uno studio EPIC condotto per oltre 10 anni su circa 300.000 donne e pubblicato recentemente (Pala et al., 2009) ha concluso che il consumo di questi prodotti non rappresenta un rischio per questo tipo di carcinoma.

In definitiva, si potrebbe concludere con le parole di Gonder e Worm nella loro lettera di risposta al lavoro di Norat et al. (2005) citato anche, su un articolo dell’Espresso di Riccardo Bocca, dal collega Berrino (per altro coautore di questo lavoro): “lo studio EPIC, così come gli altri grandi studi epidemiologici su questo argomento, offre un’importante opportunità per comprendere meglio le relazioni tra dieta e cancro, ma i risultati che si ottengono dovrebbe-ro essere comunicati in maniera chiara e circostanziando bene il campo di alimenti di cui si sta parlando, altrimenti si rischia di ingenerare una confusione ancora maggiore di quella attuale nell’ambito dei consumatori”.

Parlare di associazioni positive tra consumo di carne e cancro al colon, senza specifi-care di quali alimenti in realtà stiamo parlando, del fatto che nessuno studio ha ancora di-mostrato l’associazione tra questo alimento e la malattia, del fatto che molte indagini siano slegate dagli effetti delle altre componenti della dieta e dello stile di vita, della possibili-tà che la contemporanea assunzione di frutta e verdura potrebbe annullare le associazioni positive riscontrate (così come ammesso anche dagli autori della sopra citata ricerca dopo essere stati chiamati in causa su questo aspetto da Gonder e Worm), vuol dire fare della cattiva comunicazione.

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CAPITOLO 2Consumo di pesce e salute

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Quaderno sulla Biosicurezzain Veterinaria

CONSUMO DI PESCE E SALUTE

VITTORIO MARIA MORETTI1, GIULIANA PARISI2, ALESSANDRO DAL BOSCO3

1 Dipartimento di Scienze Veterinarie per la Salute, la Produzione Animale e la Sicurezza AlimentareUniversità degli Studi di Milano, Via Trentacoste 2 – 20134 Milano

2 Dipartimento di Scienze Animali, Università degli Studi di Firenze, Via delle Cascine 5 – 50144 Firenze

3 Dipartimento di Biologia Applicata - Sezione di Scienze Zootecniche, Università degli Studi di Perugia, Borgo XX Giugno, 74 – 06121 Perugia

INTRODUZIONE

È oggigiorno universalmente riconosciuto che, in virtù del suo elevato valore nutrizionale, il consumo di pesce assume un ruolo fondamentale nella dieta dell’uomo. Il pesce è infatti un alimento facilmente digeribile, apportatore di proteine ad elevato valore biologico, di minera-li, vitamine e soprattutto di acidi grassi polinsaturi, specie della serie -3. Al consumo di questi ultimi è attribuita una grande importanza nella prevenzione delle malattie cardiovascolari e di altre numerose patologie dell’uomo. Tra le regole alimentari per la prevenzione di queste ma-lattie, prestigiose istituzioni a carattere scientifico, primo tra tutte il National Institutes of He-alth statunitense (NIH), raccomandano infatti il consumo di pesce almeno 2 volte alla settimana.

Le specie ittiche maggiormente presenti sulle nostre tavole sono rappresentate soprattutto da pesci di mare, di cattura o di allevamento; meno invece da quelli d’acqua dolce di cui si conosce anche meno circa le loro caratteristiche composizionali e nutrizionali (ad eccezione della trota allevata). La produzione mondiale di pesci, crostacei e molluschi si attesta, secon-do i dati della FAO, intorno a 142,3 milioni di tonnellate nel 2008 (FAO, 2010). Di questi, circa il 63% (89,7 milioni t) deriva dalle attività di pesca, mentre il 37% (52,5 milioni t) dal-le attività di acquacoltura. Il consumo alimentare di organismi acquatici ha raggiunto nello stesso anno circa 115 milioni di tonnellate, rappresentando oltre il 16% dell’assunzione me-dia annuale di proteine animali per circa 6,6 miliardi di persone.

In Italia l’acquacoltura, con i suoi 800 impianti e circa 15.000 addetti, contribuisce a cir-ca il 49% della produzione ittica nazionale con una quantità di 232.000 t di prodotto. Si al-levano principalmente molluschi (116.000 t di mitili e 42.000 t di vongole), trote (41.000 t), branzini e orate (rispettivamente 9.800 e 9.600 t), anguille (1.400 t), storioni (1.350 t), carpe e altri ciprinidi (750 t), pesci gatto (550 t) e altre specie (sarago, tonno, cefalo, luccio, sal-merino, 7.000 t in totale) (API, 2009). Il tasso di autoapprovvigionamento del settore ittico è però tra i più bassi nel comparto delle produzioni animali, attestandosi intorno al 38% nel 2010 (ISMEA, 2010). Infatti, a fronte di una produzione ittica nazionale (allevato e pescato) di 475.000 t, nel 2008 l’Italia ha importato 913.000 t di prodotti ittici freschi, congelati e va-riamente conservati, per un valore di oltre 3,5 miliardi di euro.

COMPOSIZIONE CHIMICA DEL PESCE

Il filetto del pesce è costituito mediamente da: acqua 66-81%, proteine 16-21%, lipidi 0,2-25%, carboidrati inferiori allo 0,5%, sostanze minerali 0,8-2% e vitamine.

Nel caso dei prodotti della pesca, la composizio-ne chimica dei tessuti è condizionata dall’ambiente

Tabella 1. Composizione chimica del pesce (g/100 g di parte edibile).

Acqua 66 – 81 Proteine 16 – 21Lipidi 0,2 – 25Carboidrati < 0,5Minerali 1 – 2

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nel quale l’animale vive e dai suoi cicli vitali naturali nonché da fattori genetici, morfologici e fisiologici. Per quanto riguarda l’influenza dell’ambiente, una stessa specie proveniente da differenti aree di pesca o commercializzata in differenti periodi dell’anno può presentare ca-ratteristiche nutrizionali diverse e anche attributi sensoriali dissimili per quanto riguarda con-sistenza, aspetto e sapidità delle carni. L’aspetto e la composizione del filetto del pesce infatti possono essere modificati dai cambiamenti stagionali, presentandosi a volte più magro del normale, con carni che contengono più acqua e meno lipidi. Questo aspetto si evidenzia so-prattutto subito dopo il periodo riproduttivo, in quanto poco prima e durante la riproduzione le riserve alimentari accumulate nel muscolo e nel fegato dei pesci vengono utilizzate per lo sviluppo delle gonadi maschili e femminili. Inoltre durante la fase riproduttiva ed anche per un certo periodo successivo, la maggior parte dei pesci non si alimenta. Tuttavia, una volta che i pesci riprendono ad alimentarsi, sono in grado di recuperare le loro condizioni ottimali (Arcangeli et al., 2003).

Tabella 2. Fattori che influenzano la composizione chimica del pesce pescato.

Morfologia, fisiologia e genetica Periodo riproduttivoRegime alimentare Stagione

Proteine

Le proteine, catene complesse di aminoacidi, sono la componente fondamentale dei musco-li dell’animale. Hanno una funzione plastica e di sostegno e possono essere classificate come:- proteine di sostegno (collagene, il cosiddetto tessuto connettivo). Sono presenti nei muscoli

dei pesci ossei per il 3%;- proteine fibrillari (actina, miosina, actomiosina, tropomiosina), il maggior patrimonio delle

proteine intracellulari. Rappresentano il 65% delle proteine totali del pesce;- proteine globulari (miogeno, mioglobina, ecc.), molto importanti dal punto di vista fisiolo-

gico in quanto comprendono proteine a funzione enzimatica. Queste rappresentano il 26-30% delle proteine totali del pesce.Il contenuto in aminoacidi dei pesci è soggetto a controllo genetico diretto, pertanto è poco

soggetto a variazioni di tipo ambientale, stagionale o alimentare.

Lipidi

I lipidi comprendono numerose sostanze con caratteristiche e proprietà diverse, insolu-bili in acqua e solubili invece nei solventi apolari. Dal punto di vista della funzione svolta nell’organismo dei pesci, possono essere classificati in lipidi di deposito o trigliceridi, che fungono da riserva energetica, e lipidi cellulari (fosfolipidi, glicolipidi e colesterolo), che hanno invece una funzione strutturale. Accanto a queste due fondamentali categorie se ne può inserire una terza: quella dei lipidi con specifiche attività biologiche, un gruppo etero-geneo di composti, presenti in tracce nell’organismo, che si identificano in gran parte con la frazione insaponificabile dei grassi e rivestono ruoli di grande importanza fisiologica (ormoni, pigmenti).

In base al diverso contenuto lipidico del filetto, i pesci si distinguono in pesci magrissimi, con un contenuto di grasso inferiore all’1%; magri con un contenuto di grassi compreso tra l’1 ed il 3%; semigrassi con contenuto di grasso compreso tra il 3 e il 10% ed infine quelli grassi, con contenuto superiore al 10%. I pesci magri utilizzano principalmente il fegato come deposito energetico, mentre quelli grassi immagazzinano i lipidi nelle cellule adipose presen-ti lungo tutto il corpo. In questi ultimi pesci, le cellule adipose sono solitamente localizzate nel tessuto sottocutaneo, nei muscoli addominali e nella muscolatura che muove la coda e le

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pinne e, soprattutto, nella cavità addominale. La classificazione merceologica delle specie ac-quatiche è presentata in tabella 3, tenuto conto, come già detto, che il contenuto lipidico dei pesci è soggetto ad ampie variazioni.

Tabella 3. Classificazione merceologica delle specie acquatiche.

Categoria Lipidi Allevati PescatiMagrissimi < 1% Crostacei Tinca, Merluzzo, Razza, PolpoMagri 1 – 3% Storione, Rombo Spigola, Orata, Sogliola, Luccio,

Calamaro, AcciugaSemigrassi 3 – 10% Spigola, Orata, Trota, Carpa Triglia, Tonno, Pesce SpadaGrassi > 10% Anguilla, Salmone Aringa, Sgombro

I lipidi del pesce differiscono da quelli dei mammiferi in virtù della presenza significativa di acidi grassi polinsaturi. Gli acidi grassi rappresentano la parte principale di cui sono costi-tuiti i trigliceridi degli alimenti e sono molecole con importanti funzioni strutturali, energeti-che e metaboliche. Tra questi si distinguono gli acidi grassi saturi, i monoinsaturi ed i polin-saturi la cui presenza nel pesce, come in altri alimenti, condiziona le proprietà nutrizionali, fisiche e organolettiche (sapore e odore) dell’alimento stesso. Tra gli acidi grassi insaturi si distinguono principalmente tre classi. La distinzione tra queste classi di acidi grassi è fatta sulla base della loro struttura chimica ed in particolare sulla base della posizione del primo doppio legame a partire dall’estremità metilica della catena carboniosa. E’ importante sotto-lineare che gli acidi grassi -6 e -3 sono anche chiamati essenziali perché l’uomo, così come gli altri mammiferi, non è in grado di sintetizzarli nel proprio organismo e ha la necessità di introdurli attraverso la dieta.

Carboidrati

I carboidrati, e principalmente il glicogeno, nei pesci sono presenti in percentuali nor-malmente inferiori all’1%. Questo determina al momento della morte del pesce un abbassa-mento del pH muscolare assai poco rilevante. A 24 ore dalla morte il pH delle carni di pesce raggiunge valori solitamente non inferiori a 6,0-6,2; anche per questo motivo il pesce è un alimento così facilmente deteriorabile. I pesci che vivono in buone condizioni fisiologiche hanno tuttavia una discreta riserva di glicogeno nel muscolo, e di lipidi e glicogeno nel fega-to (Love et al., 1988).

Acqua

L’acqua è il principale costituente della carne del pesce. Il quantitativo di acqua influisce sulla qualità del pesce nei processi di lavorazione. Normalmente l’acqua contenuta nei pesci magri si aggira intorno all’80% mentre nei pesci grassi la percentuale è inferiore. Numerosi fattori possono influenzare il contenuto di acqua nei muscoli, in particolar modo lo stato ali-mentare, la maturità sessuale e le condizioni ambientali. L’impoverimento di nutrienti duran-te la fase di maturazione sessuale o un periodo di digiuno possono determinare un aumento del contenuto di acqua nel muscolo.

Sapore e odore nel pesce

L’odore e il sapore sono due parametri importanti nella valutazione della qualità organoletti-ca del prodotto pesce. Nei prodotti ittici le caratteristiche organolettiche “odore” e “sapore” di-pendono da un considerevole numero di fattori. Si ritiene che i pesci d’acqua dolce abbiano un

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odore generalmente più tenue rispetto a quelli marini, appena apprezzabile (Caracciolo, 1988). Tra individui appartenenti alla stessa specie inoltre variazioni dell’odore ed in particolare del sapore possono rendersi apprezzabili in dipendenza dal differente momento stagionale e del di-verso ambiente (alimentazione, temperatura, carica batterica, ecc.) dal quale essi provengono. Ad esempio non è raro che pesci pescati in località specifiche o con determinate abitudini ali-mentari possano riportare certi odori sgradevoli (i cosiddetti “off-flavours”) dovuti alla presen-za di molecole quali la geosmina ed il metil-isoborneolo, metaboliti di alcune alghe Cianoficee (alghe blu), Streptomiceti ed Actinomiceti comunemente presenti in ambienti d’acqua dolce. Tali composti vengono assunti dal pesce attraverso le branchie e attraverso la via alimentare. Altri composti responsabili di “off-flavours” sono legati alla presenza di organismi planctonici o forme larvali che, entrando nella catena alimentare, possono conferire al pesce il tipico odore di petrolio. Inoltre c’è da considerare come esistano odori tipici di alcune specie: ad esempio il coregone (Coregonus sp.), soprattutto se fresco, ha un caratteristico profumo di cetriolo (Malan-dra, 1991). Tale profumo è dovuto alla presenza nella pelle e nel filetto di un composto, il no-nadienale, contenuto in quantità elevata in questa specie. Il nonadienale rappresenta un sublime esempio di come un semplice e innocuo composto aromatico possa rappresentare un elemento caratterizzante per una specie ittica, e forse anche per le sue abitudini alimentari ed il suo habitat.

La parola flavour non trova diretta traduzione nella lingua italiana: è un’impressione sen-soriale determinata sia da composti volatili, percepiti a livello di mucosa olfattiva che da com-posti non volatili, percepiti dalle papille gustative della lingua. Nella percezione del flavour gioca un ruolo iniziale la vista, organo di senso grazie al quale il cervello riceve una prima informazione circa l’aspetto dell’alimento e l’idea di palatabilità ad esso correlato. Successi-vamente interviene l’olfatto, che permette di riconoscere l’odore di un cibo. Le sostanze re-sponsabili dell’odore sono costituite da molecole di piccole dimensioni, abbastanza leggere da essere inalate e sufficientemente pesanti da essere riconosciute dai recettori olfattivi presenti nelle cavità nasali. Il numero di tali molecole è di solito di diverse centinaia; il cervello umano è capace di percepirne probabilmente più di 10.000. Le molecole odorose possono giungere alla mucosa olfattiva non solo attraverso le cavità nasali ma anche per via retronasale, cioè dal fondo della cavità orale verso l’alto, durante la masticazione. Per tale motivo si distinguono due tipologie di percezioni olfattive: quelle legate all’odore, derivanti dall’inspirazione nasale e quelle invece legate al cosiddetto aroma, percepite per via retronasale. Il tatto permette poi di valutare la consistenza (texture) di un alimento, attraverso le mani o attraverso la sensibili-tà tattile delle labbra e della mucosa buccale. Le papille gustative infine percepiscono i quat-tro sapori fondamentali (dolce, salato, amaro e acido) o le loro combinazioni. I costituenti di un alimento possiedono sapori diversi: i carboidrati hanno un gusto dolce, i grassi un sapore delicato mentre gli aminoacidi presentano una più ampia varietà di sapori. Generalmente a questi ultimi componenti sono attribuite tre tipologie di sapori: quello dolce, quello amaro e infine quello agrodolce e di “umami” (sapore di glutammato monosodico, per intenderci, il dado da cucina). L’arginina, per esempio, ha un sapore amaro e leggermente dolce, l’alanina dolce e leggermente di “umami”. Soltanto alcuni aminoacidi contribuiscono a dare sapore ad un alimento, gli altri invece ad accentuarlo. Rispetto agli aminoacidi, i peptidi hanno un sa-pore meno forte. La soglia di percezione del sapore sembra essere soggettiva e influenzata da fattori sia di natura fisiologica che psicologica quali età, sesso, e personalità.

Il flavour del pesce è legato soprattutto alla presenza di composti volatili. I composti as-sociati al flavour del pesce fresco sono soprattutto aldeidi, chetoni e alcoli derivanti dall’os-sidazione degli acidi grassi insaturi, che si rinvengono anche in alcuni vegetali acquatici. Ad esempio, composti quali l’esanale conferiscono al pesce d’acqua dolce un forte aroma di ve-getale, il nonadienale invece di cetriolo. A differenza dei pesci d’acqua marina, quelli d’ac-qua dolce contengono scarse quantità di bromofenoli, composti responsabili del tipico aroma marino. L’odore di pesce fresco si manifesta prevalentemente durante i primi giorni dopo la

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cattura; in seguito, a causa di reazioni enzimatiche e microbiche, i composti responsabili del flavour del pesce fresco vanno incontro ad alterazione con la conseguenza che il tipico aro-ma scompare (Aslaug, 1999).

Tabella 4. Alcuni composti volatili responsabili dell’aroma dei pesci (Serot et al., 2002).

Composto Aromaesanale metallico, di vegetale,

2-esanale di vegetale1-otten-3-olo di crudo, di fungo

1,5-ottadien-3-olo metallico, di vegetale, di fungo, di terra1-otten-3-one di fungo cotto

2,6-nonadienale di cetriolo2-pentanale di vegetale 2-esanale di muschio, di fungoottanale di arancia, di agrumi

2-pentene-1-olo di fungo6-metil-5-epten-3-one di frutta

2-eptanale di arrostoetil-pirazina di nocciolametionale patata bollitadecanale di vegetale

2-nonanolo di muschio, di fresco2-nonanale di marcio, di terra

ottanolo di vegetale, di fiori1-nonanolo di frutta, di agrumi

Tessitura

Il filetto nei pesci è costituito dalla muscolatura assiale, che si sviluppa dal capo alla co-da, lungo i lati del pesce, e che è formata da segmenti muscolari paralleli chiamati miomeri, solitamente uno per ogni vertebra. Le fibre muscolari dei miomeri sono separate tra loro dai cosiddetti miosetti, di tessuto connettivo, che formano una specie di trama di sostegno per il muscolo. A differenza dei mammiferi terrestri, il pesce possiede una quantità esigua di tes-suto connettivo (3%), distribuito molto uniformemente nel muscolo. Il suo contenuto varia comunque in funzione della porzione muscolare che si considera. Secondo alcuni autori, ad una minore quantità di grasso e acqua nel pesce è associata una minore resistenza da parte del muscolo e quindi una carne più delicata. Fattori quali il contenuto in grassi, il profilo de-gli acidi grassi e la distribuzione del grasso nel muscolo influenzano la tessitura della carne, quella che gli anglosassoni chiamano “texture”. Alcuni autori, confrontando fra loro diverse specie ittiche, hanno rilevato come questo carattere differisca in funzione anche del conte-nuto di proteine sarcoplasmatiche e della taglia del muscolo stesso, concludendo che la du-rezza della carne è tanto più elevata quanto maggiore è il numero di fibre muscolari piccole. I fenomeni autolitici inoltre che intervengono in seguito alla morte del pesce comportano un intenerimento del muscolo, probabilmente legato alla degradazione del collagene. Esistono diverse metodologie per valutare la texture del muscolo del pesce, tra cui la misurazione, con appositi strumenti, della resistenza opposta dalle carni alla pressione o al taglio.

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Colore dei filetti

La maggior parte degli alimenti sia di origine vegetale che animale deve la sua colorazio-ne alla presenza di alcuni pigmenti, i carotenoidi, i quali si dividono a loro volta in due classi: i caroteni e le xantofille. Dal punto di vista chimico le xantofille si distinguono dai caroteni per la presenza, all’interno della loro molecola, dell’ossigeno. I più importanti caroteni sono il β-carotene, il licopene, l’α-carotene ed il g-carotene. Le più importanti xantofille sono la zeaxantina, la luteina, la capsantina, l’astaxantina, la cantaxantina e la violaxantina. I carote-noidi sono pigmenti ampiamente diffusi in natura: si rinvengono infatti nei batteri, nei funghi, nelle alghe, nelle piante e in molti animali, compresi i pesci. In questi ultimi i carotenoidi si accumulano a livello di cute, muscolo (filetto), uova, gonadi, fegato e occhi. La maggior par-te dei pigmenti che si rinvengono nella cute e nel muscolo dei pesci sono xantofille. I crosta-cei quali le aragoste, i granchi e i gamberi presentano un carapace di colore rosso, marrone, blu o verde proprio in relazione alla presenza di carotenoidi, tra cui soprattutto l’astaxantina, pigmento di natura principalmente marina. Nelle specie ittiche di mare, il pigmento più am-piamente diffuso è rappresentato dalla tunaxantina, mentre nelle specie di acqua dolce predo-mina la luteina, la quale normalmente conferisce una colorazione meno significativa rispetto ai carotenoidi che si rinvengono soprattutto in habitat marino (Bragadóttir, 2001).

La presenza dei carotenoidi nei tessuti è legata alla loro assunzione con la dieta, in quan-to gli animali non sono capaci di sintetizzarli (Bjerkeng, 2004). I livelli con cui i carotenoidi si depositano negli organi e nel muscolo dipendono dall’assorbimento selettivo attraverso la parete intestinale, dal loro utilizzo ed escrezione. Gli animali infatti sono diversamente se-lettivi nei confronti dei carotenoidi: i mammiferi, ad esempio, hanno una maggiore capacità di assorbire il β-carotene, i pesci invece assorbono molto meglio le xantofille (Schiedt et al., 1985). L’astaxantina è il pigmento che conferisce il caratteristico color rosso-rosa alle carni del salmone; rappresenta il 90% del contenuto di carotenoidi totali che si rinvengono nelle carni dei salmonidi selvatici (salmone e trota). I salmonidi assumono questo pigmento attra-verso la dieta, nutrendosi di crostacei; attraverso il circolo sanguigno, viene poi trasportato e depositato nei muscoli e a livello cutaneo.

Negli altri pesci, si rinvengono altri carotenoidi quali responsabili di colori brillanti. La tu-naxantina è un pigmento comunemente ritrovato nelle carni di pesci d’acqua salata. Questo carotenoide è particolarmente abbondante nei pesci pigmentati di giallo (ad esempio, la ric-ciola). I carotenoidi maggiormente rinvenuti nei pesci di acqua dolce sono: la Luteina, pig-mento che conferisce un colore verdastro-giallo; la Tunaxantina, che conferisce colore giallo; il Beta-carotene, di colore arancio; la Zeaxantina, di colore giallo-arancio; la Doradexanti-na, di colore giallo.

Il contenuto nelle carni di carotenoidi è variabile e dipendente da diversi fattori quali la dieta, la taglia e il sesso del pesce. La maturazione sessuale inoltre, in alcune specie, può in-fluenzare la concentrazione di carotenoidi nelle carni in quanto nel periodo riproduttivo ven-gono concentrati nella cute e nelle gonadi. Oltre a svolgere un ruolo di pigmentanti, i caro-tenoidi assolvono a diverse funzioni fisiologiche tra cui quella più importante di agire quali precursori della vitamina A. Non tutti i carotenoidi comunque possiedono questa peculiarità, ma soltanto alcuni. Ad eccezione di quelli che fungono da precursori della vitamina A, il ruolo biologico dei carotenoidi negli animali non è del tutto chiaro. Una volta assunti con la dieta, questi pigmenti possono seguire diverse vie: alcuni sono eliminati per via fecale, senza esse-re prima trasformati, altri vengono assorbiti e accumulati in forma immodificata, altri ancora vengono assorbiti e trasformati prima di essere stoccati; infine vi sono quei carotenoidi che vengono assimilati e completamente catabolizzati. Nei muscoli animali i carotenoidi possono giocare due ruoli importanti: quello di contribuire al colore delle carni e quello di prevenire l’ossidazione dei lipidi, grazie ad un’azione di tipo antiossidante. La capacità di questi pig-

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menti radicali liberi è correlata alle loro caratteristiche intrinseche, alla reattività chimica che possiedono nei confronti dei radicali, al sito in cui si formano i radicali, e così via. Secondo alcuni studi, tra i carotenoidi la cantaxantina e l’astaxantina hanno una capacità antiossidante maggiore rispetto al beta-carotene. Questi ultimi due composti sono autorizzati come additi-vi nella preparazione dei mangimi destinati all’alimentazione dei salmonidi nell’ultima fase di allevamento, fase definita di salmonatura.

Gli acidi grassi

Come già anticipato, gli acidi grassi si possono classificare in saturi, monoinsaturi e polin-saturi. I principali acidi grassi saturi che si conoscono sono l’acido laurico, l’acido miristico e l’acido palmitico, presenti in significative quantità nei prodotti lattiero-caseari (latte e for-maggi) ed in alcuni oli vegetali, come l’olio di palma, l’olio di cocco e il burro di cacao. Un altro acido grasso saturo degno di nota è l’acido stearico, tipico del grasso di copertura del suino (lardo) e del bovino (sego).

Il più importante acido grasso monoinsaturo è l’acido oleico, principale costituente dell’olio di oliva; questo acido può essere sintetizzato dall’organismo di tutti i mammiferi, incluso l’uomo, e per questo motivo non è considerato un acido grasso essenziale.

Tra i polinsaturi, i due principali acidi grassi di tipo -6 sono l’acido linoleico, presente in molti oli vegetali come l’olio di semi di mais, l’olio di soia, l’olio di semi di girasole, e par-zialmente anche nelle carni di suino e di pollo, e l’acido arachidonico, presente soprattutto nei grassi animali, e quindi nelle carni di tutti gli animali da macello. Gli acidi grassi -6 sono quindi caratteristici soprattutto dei cereali, dei semi di oleaginose e delle carni di quegli ani-mali da macello che con queste fonti vegetali vengono solitamente alimentati.

I principali acidi grassi della serie -3 sono l’acido alfa-linolenico, di cui sono ricchi i vege-tali a foglia verde e l’olio di semi di lino, ed altri due acidi grassi conosciuti con le sigle EPA (EicosaPentaenoic Acid, acido eicosapentaenoico) e DHA (DocosaHexaenoic Acid, acido docosaesaenoico). Questi ultimi sono acidi grassi polinsaturi a lunga catena e sono presenti in quantità significativa solamente nelle carni di pesce, in quanto sono caratteristici delle ca-tene trofiche acquatiche – fitoplancton e zooplancton – di cui si nutrono molte specie di ac-qua dolce e marina. Numerosi studi epidemiologici hanno dimostrato come diete ad alto con-tenuto in acidi grassi saturi comportino nell’uomo un aumento della concentrazione ematica di lipoproteine a bassa densità (LDL) e quindi del tasso di colesterolo circolante cosiddetto “cattivo” (Mc Namara, 2000), con la conseguenza che l’incidenza dei fenomeni aterosclero-tici a carico delle arterie coronarie è molto elevata (Ulbricht e Southgate, 1991). Non tutti gli acidi grassi saturi sono comunque causa predisponente all’aumento delle LDL nel sangue e quindi all’aterosclerosi: ad esempio, mentre gli acidi laurico, miristico e palmitico sono per eccellenza responsabili dell’aumento del colesterolo plasmatico (Bonanorme Grundy, 1988), l’acido stearico non risulta per nulla implicato nella comparsa di questa patologia.

Per quanto concerne il ruolo di alcuni acidi grassi monoinsaturi è stato universalmente ri-conosciuto come questi acidi grassi riducano la concentrazione di lipoproteine a bassa den-sità presenti nel torrente circolatorio (Lairon, 1997), rallentino l’ossidazione del colesterolo espletata dai radicali liberi circolanti ed inibiscano l’aggregazione piastrinica, quindi la con-seguente formazione di trombi.

Tra gli acidi grassi polinsaturi, indagini scientifiche hanno messo in evidenza come il con-sumo di acidi della serie omega-3, in particolar modo l’EPA e il DHA, contenuti in modo si-gnificativo nel pesce, contribuisca a ridurre il rischio di numerose malattie nell’uomo, quali disturbi di sviluppo cerebrale e della retina, disfunzioni neurologiche, processi infiammato-ri, disordini auto-immunitari e malattie cardio-vascolari (Pike, 1999). In quest’ultimo caso, svolgono un ruolo importante nella prevenzione delle più temibili patologie a carico dei va-

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si coronarici. Tali acidi grassi, infatti, contrastano l’aggregazione piastrinica ed impediscono pertanto la conseguente occlusione dei canali arteriosi.

Colesterolo

Il colesterolo appartiene a quella classe di lipidi chiamata steroli, ed è una sostanza molto importante per il funzionamento degli organismi viventi. Costituente essenziale delle mem-brane cellulari e del tessuto cerebrale, permette nell’uomo la sintesi degli ormoni steroidei da parte delle ghiandole, compresi gli ormoni sessuali e la produzione di bile da parte del fegato, fondamentale per la digestione dei grassi (Komprda et al., 2003). Il colesterolo viag-gia nel sangue associato a particolari proteine chiamate lipoproteine, utili non solo per il suo trasporto verso i tessuti dell’organismo ma anche per rimuoverlo da certi siti. Si distinguono le lipoproteine a bassa densità (LDL), definite “colesterolo cattivo” poiché pare giochino un ruolo fondamentale nel determinare la deposizione del colesterolo all’interno delle arterie, e le lipoproteine ad alta densità (HDL), definite “colesterolo buono” poiché sembra che pro-muovano la rimozione del colesterolo dai vasi arteriosi, trasportandolo poi al fegato per essere escreto. Bassi livelli di “colesterolo buono” sono spesso associati al rischio di malattie coro-nariche mentre, al contrario, alti livelli pare proteggano da queste patologie. Le malattie coro-nariche infatti derivano dalla deposizione del colesterolo all’interno delle pareti delle arterie coronarie, con conseguente deplezione dell’ossigeno nei tessuti cardiaci. Diversi studi hanno evidenziato una correlazione esistente fra i livelli sierici di colesterolo e i tassi di mortalità nell’uomo legati a patologie cardiovascolari, derivanti nello specifico da un’assunzione poco moderata di alimenti ad elevato contenuto in colesterolo. Diete ad elevato contenuto di grassi e colesterolo contribuiscono infatti ad innalzare i livelli di colesterolo nel sangue. A riguardo, studi scientifici hanno dimostrato come sia possibile indurre nei primati l’ipercolesterolemia attraverso il solo utilizzo di diete ad elevato contenuto in colesterolo. Questo implica che i li-velli plasmatici di colesterolo dipendono anche dalla quantità dello stesso assunto con la die-ta. Attualmente i nutrizionisti raccomandano di non assumere con la dieta più di 300 mg di colesterolo al giorno. Da qui l’importanza di conoscere l’esatto contenuto in colesterolo degli alimenti, soprattutto dei pesci, dal momento che poco si conosce a riguardo (Isaacsohn, 1992).

Il contenuto in colesterolo dei pesci varia approssimativamente da 40 e 80 mg per 100 grammi di parte edibile. Questa quantità è comparabile a quella che si rinviene in alcune ma-trici alimentari di natura animale, quale carne bovina, carne di maiale e di pollo, invece mino-re rispetto ad altre matrici quali, ad esempio, uova e formaggi. Il contenuto in colesterolo dei pesci è determinato geneticamente e non correlato, perciò, al contenuto in grasso (Piironeni et al., 2002), come spesso si è indotti a pensare. Nei crostacei la quantità di steroli presente nella parte edibile è decisamente superiore rispetto ai pesci, ed è compresa tra 100 e 200 mg/100 g di parte edibile (Tsape et al., 2010).

Le proteine e gli altri nutrienti

I pesci, oltre ad apportare acidi grassi polinsaturi della serie -3, rappresentano anche una fonte di proteine ad elevato valore biologico. Il valore biologico di una proteina dipende dalla sua composizione in aminoacidi e si misura anche attraverso il rapporto tra l’azoto trattenuto e l’azoto assorbito. Quasi la metà degli aminoacidi di cui le proteine sono costituite sono ele-menti essenziali nella dieta. Le proteine del pesce sono caratterizzate da una concentrazione elevata di alcuni aminoacidi essenziali particolarmente importanti per la dieta dell’uomo, in particolare la lisina e la metionina.

Gli aminoacidi si possono distinguere in due categorie: gli aminoacidi utilizzati dall’orga-nismo per la sintesi delle proteine e quelli aventi altre funzioni. Gli aminoacidi costituenti le proteine possono essere suddivisi in aminoacidi essenziali e aminoacidi non essenziali. Nel

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pesce, come negli altri animali, gli aminoacidi sono utilizzati per sintetizzare le proteine, per produrre altri composti o per produrre energia dopo essere stati degradati. Molti aminoacidi sono sintetizzati soltanto dalle piante e dai microrganismi. Questo implica che gli animali han-no bisogno di assumere con la dieta gli aminoacidi essenziali per la sintesi delle proteine. Gli aminoacidi per i quali non è necessaria la loro ingestione attraverso la dieta, in quanto sono sintetizzati dall’animale stesso, vengono definiti aminoacidi non-essenziali. In alcuni casi, gli aminoacidi essenziali introdotti nell’organismo con la dieta possono essere convertiti in non essenziali nel caso ci sia una carenza di questi ultimi. Il fabbisogno dietetico di aminoacidi essenziali, perciò, a volte rispecchia non solo questo specifico fabbisogno ma anche quello degli aminoacidi non essenziali. Un esempio classico è dato dalla metionina e dalla cisteina: l’utilizzo del primo aminoacido infatti comporta la produzione del secondo e quindi, quando si considera il fabbisogno della metionina andrà considerato anche quello della cisteina (Lu-cas e Southgate, 2003).

I pesci possiedono una muscolatura rossa e una muscolatura bianca. In molte specie, la mu-scolatura rossa rappresenta soltanto il 6% del peso totale del muscolo, risultando quindi poco significativa; la muscolatura bianca, al contrario, costituisce la parte predominante dell’appa-rato muscolare e quella in cui si rinviene il più alto contenuto in aminoacidi liberi. A differen-za di altri organi, il muscolo è in grado di depositare un quantitativo elevato di proteine sinte-tizzate. Il muscolo rosso deposita circa il 30 % delle proteine sintetizzate, il muscolo bianco non meno dell’80%, rispetto ad esempio al 5% ed all’11% del fegato e del tratto intestinale. Nel pesce, perciò, il muscolo presenta il maggior contenuto di aminoacidi, soprattutto il mu-scolo bianco (Hochachka and Mommsen, 1995).

I prodotti della pesca contengono anche elementi minerali tra cui il selenio (fondamentale per l’attività degli enzimi che proteggono le cellule dall’invecchiamento), lo zinco, il fosfo-ro, il ferro ed altri.

Tutte le vitamine liposolubili (A, D, E, K) e quelle idrosolubili (vitamine del gruppo B e vitamina C) sono presenti nel pesce in concentrazioni variabili da specie a specie. Tale varia-bilità può sussistere anche fra i diversi individui di una stessa specie e fra le diverse parti del corpo di un singolo esemplare. Il pesce quindi può fornire anche un significativo contributo al fabbisogno vitaminico totale dell’uomo. In virtù delle sue caratteristiche perciò il pesce rappresenta un alimento di fondamentale importanza per il mantenimento di un soddisfacente stato di salute di ciascun essere umano (Arts et al., 2001).

COMPOSIZIONE NUTRIZIONALE DI SPECIE ITTICHE ALLEVATE E PESCATE

Nel secolo scorso, con l’avvento della massiccia lavorazione industriale degli alimenti e dell’aumentata disponibilità di cereali e di oli vegetali ricchi in acidi grassi -6 (olio di mais, olio di soia), c’è stato un considerevole incremento del consumo nella dieta umana degli -6, a scapito degli -3. Si stima che nella dieta il rapporto -6/-3, che in epoca preindustriale era di circa 1:1, si attesti nelle moderne società occidentali intorno a 8:1, mentre per una dieta bi-lanciata i nutrizionisti raccomandano un valore di 4:1 (Simopoulos, 1991). Per mantenere un rapporto intorno a questo valore infatti occorrerebbe introdurre nella dieta settimanale alme-no 2 piatti a base di pesce.

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Tabella 5. Contenuto in lipidi (g/100g filetto) e principali acidi grassi (% sul totale degli acidi grassi) di specie ittiche allevate.

Specie Dieta EPA DHA Ac. linoleico Ac. arachidonico n3 n6 n3/n6 Lipidi Autore

Trota iridea (O. mykiss)

- 4,54 13,4 10,8 0,80 20,4 12,0 1,70 5,11 Fallah et al. (2011)- 2,21 9,40 15,81 4,31 15,64 25,44 0,61 - Stancheva et al. (2010)- 7,3 18,7 6,2 0,9 32,2 8,5 3,79 5,6 Blanchet et al. (2005)Controllo 4,99 14,55 12,28 0,79 21,57 13,42 1,61 3,8

Sener e Yıldız (2003)Fish oil 5,19 18,32 6,44 0,89 24,84 7,55 3,29 6,10Sunflower oil 1,98 8,76 32,68 0,54 12,68 33,96 0,37 5,30Soybean oil 1,96 8,79 29,97 0,41 14,36 30,82 0,47 5,50- 3,07 19,17 11,22 2,16 22,41 14,47 1,55 - Haliloglu e Aras (2002)

Salmone (Salmo salar)- 8,27 20,20 2,16 2,49 31,83 5,36 5,94 9,92 Ho e Paul (2009)- 7,9 15,2 7,4 0,9 31,1 9,8 3,17 7,4 Blanchet et al. (2005)- 10,79 15,69 6,47 0,91 33,73 8,80 3,83 16,59 Hamilton et al. (2005)

Pangasio

- 0,4 2,7 8,9 3 4,2 14,4 0,29 1,4 Busetto et al. (2011)- 0,31 4,74 8,43 1,03 7,41 10,28 0,72 2,55 Ho e Paul (2009)- 0,58 2,67 7,87 2,11 4,43 11,11 0,40 1,84 Orban et al. (2008)Controllo 3,9 13,1 6,7 2,4 18,5 10,4 1,78 -

Asdari et al. (2011)- 3,4 10,7 3,7 1,1 18,0 5,4 3,33 -- 0,5 3,1 23,4 1,7 7,0 27,2 0,26 -Crude palm oil 0,6 4,1 5,9 1,7 6,4 9,0 0,71 -Linseed oil 1,2 3,0 8,6 0,4 24,4 9,6 2,54 -

Persico (Perca fluviatilis)- 7,24 16,82 4,9 0,78 27,13 5,95 4,56 - Jankowska et al. (2010)- 10,9 33,0 5,9 1,9 47,2 8,5 5,55 1,48 Mairesse et al. (2006)

Orata (Sparus aurata)- 4,49 9,19 11,15 0,66 19,89 12,20 1,63 8,85 Lenas et al. (2011)- 7,68 23,01 4,92 1,63 32,52 7,75 4,20 - Mnari et al. (2007)- 5,71 12,67 9,00 0,59 22,84 11,86 1,93 8,9 Grigorakis et al. (2002)

Spigola (Dicentrarchus labrax)- 8,68 22,98 6,86 2,13 33,34 10 3,33 2,7 Mnari Bhouri et al. (2010)- 7,81 8,33 13,56 0,33 17,29 15,87 1,09 4,38 Fuentes et al. (2010)

Rombo (Psetta maxima)- 11,14 21,28 8,96 1,81 39,04 11,79 3,31 1,36 Busetto et al. (2008)- 8,2 24,5 5,9 1,9 38,5 8,8 4,38 1,06 Serot et al. (1998)

NoteEPA: 20:5n-3, acido eicosapentaenoicoDHA: 22:6n-3, acido docosaesaenoicoAcido linoleico: 18:2n-6Acido arachidonico: 20:4n-6n-3: (EPA + DHA+ 18:3n-3 + 22:5n-3)n-6: (18:2n-6+20:4n-6+18:3n-6+20:3n-6).

Il consumo di pesce in Italia, sia di acqua dolce che marina, è andato aumentando nel corso degli ultimi anni attestandosi attorno ai kg pro-capite annui. I fattori che hanno deter-minato tale aumento sono molteplici, tra cui i crescenti quantitativi disponibili di prodotti

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Tabella 5. Contenuto in lipidi (g/100g filetto) e principali acidi grassi (% sul totale degli acidi grassi) di specie ittiche allevate.

Specie Dieta EPA DHA Ac. linoleico Ac. arachidonico n3 n6 n3/n6 Lipidi Autore

Trota iridea (O. mykiss)

- 4,54 13,4 10,8 0,80 20,4 12,0 1,70 5,11 Fallah et al. (2011)- 2,21 9,40 15,81 4,31 15,64 25,44 0,61 - Stancheva et al. (2010)- 7,3 18,7 6,2 0,9 32,2 8,5 3,79 5,6 Blanchet et al. (2005)Controllo 4,99 14,55 12,28 0,79 21,57 13,42 1,61 3,8

Sener e Yıldız (2003)Fish oil 5,19 18,32 6,44 0,89 24,84 7,55 3,29 6,10Sunflower oil 1,98 8,76 32,68 0,54 12,68 33,96 0,37 5,30Soybean oil 1,96 8,79 29,97 0,41 14,36 30,82 0,47 5,50- 3,07 19,17 11,22 2,16 22,41 14,47 1,55 - Haliloglu e Aras (2002)

Salmone (Salmo salar)- 8,27 20,20 2,16 2,49 31,83 5,36 5,94 9,92 Ho e Paul (2009)- 7,9 15,2 7,4 0,9 31,1 9,8 3,17 7,4 Blanchet et al. (2005)- 10,79 15,69 6,47 0,91 33,73 8,80 3,83 16,59 Hamilton et al. (2005)

Pangasio

- 0,4 2,7 8,9 3 4,2 14,4 0,29 1,4 Busetto et al. (2011)- 0,31 4,74 8,43 1,03 7,41 10,28 0,72 2,55 Ho e Paul (2009)- 0,58 2,67 7,87 2,11 4,43 11,11 0,40 1,84 Orban et al. (2008)Controllo 3,9 13,1 6,7 2,4 18,5 10,4 1,78 -

Asdari et al. (2011)- 3,4 10,7 3,7 1,1 18,0 5,4 3,33 -- 0,5 3,1 23,4 1,7 7,0 27,2 0,26 -Crude palm oil 0,6 4,1 5,9 1,7 6,4 9,0 0,71 -Linseed oil 1,2 3,0 8,6 0,4 24,4 9,6 2,54 -

Persico (Perca fluviatilis)- 7,24 16,82 4,9 0,78 27,13 5,95 4,56 - Jankowska et al. (2010)- 10,9 33,0 5,9 1,9 47,2 8,5 5,55 1,48 Mairesse et al. (2006)

Orata (Sparus aurata)- 4,49 9,19 11,15 0,66 19,89 12,20 1,63 8,85 Lenas et al. (2011)- 7,68 23,01 4,92 1,63 32,52 7,75 4,20 - Mnari et al. (2007)- 5,71 12,67 9,00 0,59 22,84 11,86 1,93 8,9 Grigorakis et al. (2002)

Spigola (Dicentrarchus labrax)- 8,68 22,98 6,86 2,13 33,34 10 3,33 2,7 Mnari Bhouri et al. (2010)- 7,81 8,33 13,56 0,33 17,29 15,87 1,09 4,38 Fuentes et al. (2010)

Rombo (Psetta maxima)- 11,14 21,28 8,96 1,81 39,04 11,79 3,31 1,36 Busetto et al. (2008)- 8,2 24,5 5,9 1,9 38,5 8,8 4,38 1,06 Serot et al. (1998)

NoteEPA: 20:5n-3, acido eicosapentaenoicoDHA: 22:6n-3, acido docosaesaenoicoAcido linoleico: 18:2n-6Acido arachidonico: 20:4n-6n-3: (EPA + DHA+ 18:3n-3 + 22:5n-3)n-6: (18:2n-6+20:4n-6+18:3n-6+20:3n-6).

ittici, una migliore valorizzazione degli stessi ed una maggiore attenzione da parte del con-sumatore alle caratteristiche nutrizionali ed alla salubrità degli alimenti. Fonte di proteine ad elevato valore biologico, sali minerali e vitamine, i prodotti ittici infatti costituiscono una valida alternativa ad altri alimenti proteici di origine animale da cui differiscono in partico-lar modo per la componente lipidica, caratterizzata da quantità significative di acidi grassi polinsaturi, specie della serie -3. Diverse ricerche cliniche ed epidemiologiche realizzate negli ultimi decenni da ricercatori di vari paesi hanno dimostrato come alla costante assun-zione di prodotti di origine acquatica – e quindi di alimenti ricchi in acidi grassi polinsa-turi della serie -3 – faccia seguito una considerevole diminuzione dell’incidenza delle più importanti malattie cardiovascolari tra le principali cause di mortalità. Questo tema verrà approfondito in un paragrafo successivo.

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Tabella 6. Contenuto in lipidi (g/100g filetto) e principali acidi grassi (% sul totale degli acidi grassi) di specie ittiche pescate.

Specie EPA DHA Ac. linoleico Ac. arachidonico n-3 n-6 n-3/n-6 Lipidi Autore

Trota iridea8,19 21,8 3,63 4,68 33,9 8,0 4,24 1,12 Fallah et Al. (2011)8,1 32,2 4,2 5,4 46,2 12,5 3,70 1,0 Blanchet et al. (2005)7,18 5,39 3,25 0,21 15,64 7,45 2,10 4,43 Celik et al. (2007)

Salmone (Salmo salar) 6,6 13,1 1,2 0,4 25 2,3 10,87 7,0 Blanchet et al. (2005)

Persico (Perca fluviatilis)7,29 16,71 3,75 7,27 29,18 13,13 2,22 - Jankowska et al. (2010)5,85 19,95 3,08 7,10 30,29 11,53 2,63 0,92 Orban et al. (2007)

Orata (Sparus aurata)0,28 9,54 2,66 3,55 15,87 7,21 2,20 2,50 Lenas et al. (2011)7,56 9,19 3,00 11,82 19,40 19,27 1,01 - Mnari et al. (2007)6,96 17,61 1,03 5,85 28,68 9,3 3,08 1,0 Grigorakis et al. (2002)

Spigola (D. labrax)7,79 24,35 1,64 7,82 34,44 10,5 3,28 1,43 Mnari Bhouri et al. (2010)

12,17 16,62 2,73 5,37 29,92 9,16 3,27 1,04 Fuentes et al. (2010)5,01 12,45 3,18 - 17,37 5,07 3,43 - Erdem et al. (2009)

Rombo (Psetta maxima)9,74 26,83 1,59 4,34 43,85 6,70 6,54 0,60 Busetto et al. (2008)9,3 28,3 0,4 3,4 44,3 5,0 8,86 0,64 Serot et al. (1998)

Cefalo (Mugil cephalus)13,3 11,7 2,7 3,1* 29,9 8,4 3,56 - Takanol et al. (1999)10,5 7,69 1,79 0,14 21,7 2,64 8,22 2,09

Pagello fragolino (Pagellus erythrinus)

6,8 21,5 1,6 7,9* 31,2 11,5 2,71 - Takanol et al. (1999)5,27 21,9 0,99 0,11 30,3 1,33 22,78 1,67

Sugarello (Trachurus mediterraneous) 5,39 36,2 1,40 0,12 43,7 1,87 23,37 1,37Sogliola (Solea solea) 7,69 18,7 1,37 0,10 31,1 1,9 16,37 0,74Sgombro (Scomber scombrus) 5,9 25,3 2,1 2,8* 33,3 5,7 5,84 - Takanol et al. (1999)

Note*20:4n-6 + 22:1EPA: 20:5n.3, acido eicosapentaenoicoDHA: 22:6n-3, acido docosaesaenoicoAcido linoleico: 18:2n-6Acido arachidonico: 20:4n-6n-3 = (EPA + DHA+ 18:3n-3 + 22:5n-3)n-6 = (18:2n-6+20:4n-6+18:3n-6+20:3n-6)

Se confrontati con i pesci di cattura, le specie allevate generalmente presentano contenuti percentuali inferiori di acidi grassi polinsaturi della serie -3, soprattutto di EPA e DHA, e su-periori di acidi grassi -6. Tale evidenza è dovuta principalmente al fatto che nella formulazio-ne dei mangimi commerciali per le specie ittiche allevate vengono utilizzati farine ed oli di origine vegetale che, come già menzionato, contengono un’elevata percentuale di acidi grassi -6. Queste differenze vengono però abbondantemente bilanciate dal fatto che i pesci allevati della medesima specie sono tendenzialmente più grassi, per cui garantiscono maggiore appor-to quantitativo di PUFAs -3. I pesci marini di cattura contengono solitamente una percentuale di -3 superiore rispetto ai pesci d’acqua dolce: questo perché le catene trofiche marine sono più ricche in n-3 rispetto a quelle dulciacquicole.

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Tabella 6. Contenuto in lipidi (g/100g filetto) e principali acidi grassi (% sul totale degli acidi grassi) di specie ittiche pescate.

Specie EPA DHA Ac. linoleico Ac. arachidonico n-3 n-6 n-3/n-6 Lipidi Autore

Trota iridea8,19 21,8 3,63 4,68 33,9 8,0 4,24 1,12 Fallah et Al. (2011)8,1 32,2 4,2 5,4 46,2 12,5 3,70 1,0 Blanchet et al. (2005)7,18 5,39 3,25 0,21 15,64 7,45 2,10 4,43 Celik et al. (2007)

Salmone (Salmo salar) 6,6 13,1 1,2 0,4 25 2,3 10,87 7,0 Blanchet et al. (2005)

Persico (Perca fluviatilis)7,29 16,71 3,75 7,27 29,18 13,13 2,22 - Jankowska et al. (2010)5,85 19,95 3,08 7,10 30,29 11,53 2,63 0,92 Orban et al. (2007)

Orata (Sparus aurata)0,28 9,54 2,66 3,55 15,87 7,21 2,20 2,50 Lenas et al. (2011)7,56 9,19 3,00 11,82 19,40 19,27 1,01 - Mnari et al. (2007)6,96 17,61 1,03 5,85 28,68 9,3 3,08 1,0 Grigorakis et al. (2002)

Spigola (D. labrax)7,79 24,35 1,64 7,82 34,44 10,5 3,28 1,43 Mnari Bhouri et al. (2010)12,17 16,62 2,73 5,37 29,92 9,16 3,27 1,04 Fuentes et al. (2010)5,01 12,45 3,18 - 17,37 5,07 3,43 - Erdem et al. (2009)

Rombo (Psetta maxima)9,74 26,83 1,59 4,34 43,85 6,70 6,54 0,60 Busetto et al. (2008)9,3 28,3 0,4 3,4 44,3 5,0 8,86 0,64 Serot et al. (1998)

Cefalo (Mugil cephalus)13,3 11,7 2,7 3,1* 29,9 8,4 3,56 - Takanol et al. (1999)10,5 7,69 1,79 0,14 21,7 2,64 8,22 2,09

Pagello fragolino (Pagellus erythrinus)

6,8 21,5 1,6 7,9* 31,2 11,5 2,71 - Takanol et al. (1999)5,27 21,9 0,99 0,11 30,3 1,33 22,78 1,67

Sugarello (Trachurus mediterraneous) 5,39 36,2 1,40 0,12 43,7 1,87 23,37 1,37Sogliola (Solea solea) 7,69 18,7 1,37 0,10 31,1 1,9 16,37 0,74Sgombro (Scomber scombrus) 5,9 25,3 2,1 2,8* 33,3 5,7 5,84 - Takanol et al. (1999)

Note*20:4n-6 + 22:1EPA: 20:5n.3, acido eicosapentaenoicoDHA: 22:6n-3, acido docosaesaenoicoAcido linoleico: 18:2n-6Acido arachidonico: 20:4n-6n-3 = (EPA + DHA+ 18:3n-3 + 22:5n-3)n-6 = (18:2n-6+20:4n-6+18:3n-6+20:3n-6)

Gli acidi grassi polinsaturi, in particolare quelli della serie n-3 sono ben noti per i loro effetti benefici sulla salute umana. La loro assunzione con la dieta, infatti, contribuisce a prevenire l’in-sorgenza delle più comuni malattie cardio-vascolari, a ritardare o impedire lo sviluppo di tumori e a migliorare lo sviluppo funzionale di retina e cervello. La raccomandazione generale è quella di assumere una quantità di DHA/EPA (acidi grassi della serie n-3) pari 0.5 grammi per i neonati e circa 1 grammo al giorno negli adulti e nei pazienti affetti da malattie coronariche (Kris-Ether-ton et al., 2001). I prodotti ittici rappresentano la fonte principale di PUFA n-3, essendo essi stes-si ricchi in questi acidi grassi. Tuttavia, sussistono delle grosse variazioni nel contenuto in questi acidi grassi, in relazione a diversi fattori tra cui la specie ittica, soprattutto se di origine marina o di acqua dolce, il metodo di produzione (allevato o pescato) e quindi la dieta, nonché la stagione nel caso di specie ittiche selvatiche. In generale, i pesci marini contengono quantitativi maggio-ri di acidi grassi della serie n-3, in quanto ne sono ricche le catene trofiche marine che fungono da substrato alimentare per i pesci stessi. Di conseguenza, il rapporto fra acidi grassi n-3/n-6 è di solito più elevato nei pesci marini rispetto a quelli di acqua dolce. Considerando il metodo di produzione, i pesci allevati si caratterizzano di solito per un contenuto inferiore di EPA e DHA rispetto alla stessa specie proveniente dal comparto della pesca. Diversi sono gli studi che hanno analizzato la composizione in acidi grassi delle più comuni specie ittiche, sia allevate che pescate. Nelle tabelle 5 e 6 sono indicati i contenuti in EPA, DHA, acido linoleico, arachidonico, somma-toria degli n-3 e degli n-6, rapporto fra n-3/n-6 , contenuto lipidico caratterizzanti le specie ittiche, rispettivamente di allevamento e selvatiche, come riportato dai singoli autori nelle loro ricerche.

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IL CONSUMO DI PESCE E LA PREVENZIONE DELLE MALATTIE CARDIOVASCOLARI

All’inizio degli anni ’50 del secolo scorso il fisiologo inglese Hugh Sinclair ipotizzò che la carenza in alcuni acidi grassi essenziali potesse essere responsabile di alcune malattie dell’uomo, incluse le CHD (Coronary Heart Desease) (Sinclair, 1956). Tale ipotesi venne pienamente supportata dalle osservazioni condotte sulle popolazioni Inuit della Groenlan-dia, che manifestavano un modesto tasso di mortalità dovuta a CHD, nonostante la note-vole presenza di grassi nella loro dieta (circa il 40% delle calorie consumate) (Dyerberg et al., 1975; Bjerregaard et al., 1997; Bjerregaard e Dyerberg, 1988). La qualità dei grassi consumati si caratterizzava però per la modesta presenza di acidi grassi saturi, che rappre-sentavano circa il 10% delle calorie consumate, mentre elevata era la presenza di grassi derivati dal consumo di pesci e di mammiferi (come foche e balene) che si alimentano di pesce (Bang et al., 1980). A partire dagli studi pionieristici condotti sugli Inuit della Gro-enlandia, i prodotti ittici (termine comprensivo delle varie categorie sistematiche di pesci, molluschi e crostacei) sono stati considerati un alimento salutistico, in virtù del loro con-tenuto in PUFA della serie -3. Gli effetti positivi prodotti dagli acidi grassi a lunga catena -3, e in particolare dal DHA e dall’EPA, sulle patologie cardiovascolari sono stati eviden-ziati da migliaia di studi epidemiologici, osservazionali, sperimentali e da prove controllate randomizzate condotte nel corso degli ultimi 3 decenni. I benefici sono da mettere in rela-zione con l’arricchimento in DHA e in EPA delle membrane dei fosfolipidi, che è respon-sabile dei seguenti effetti: miglioramento della funzione arteriosa ed endoteliale, riduzione dell’aggregazione piastrinica, miglioramento, incremento della soglia aritmica, riduzione della pressione sanguigna.

Dai risultati di numerose meta-analisi è emersa una stretta correlazione tra livelli di aci-di grassi -3 in vivo e il rischio cardio-coronarico. Tra queste, quella di Harris et al. (2007) che ha considerato i risultati di 25 prove, mettendo in evidenza una stretta associazione ne-gativa tra eventi CHD e livello di DHA nei fosfolipidi. Sono stati realizzati vari studi clini-ci finalizzati alla definizione del ruolo che gli acidi grassi polinsaturi a lunga catena della serie -3 (in particolare EPA e DHA) svolgono nel controllo delle patologie cardiovascolari, che hanno coinvolto un numero elevato di persone affette da patologie a livello dell’appa-rato cardiovascolare.

Il DART (Diet and Reinfarction Trial) ha considerato l’effetto dell’aumento del consumo di pesce grasso fino a 2 porzioni a settimana (circa 900 mg/d di EPA+DHA, di cui l’EPA rap-presentava il 40%) su 2033 uomini, che avevano subito il primo infarto del miocardio media-mente 42 giorni prima. Dopo due anni di follow-up, il gruppo che aveva consumato pesce ha presentato una riduzione della mortalità totale pari al 29% e una riduzione del 32% dell’inci-denza del reinfarto fatale del miocardio (Burr et al., 1989).

Il Gruppo Italiano per lo Studio della Sopravvivenza nell’Infarto miocardico (GISSI; The GISSI Prevenzione Group, 2001; Marchioli et al., 2002) ha considerato 11323 persone che avevano subito infarto del miocardio nei 3 mesi precedenti, alle quali sono stati somministra-ti 850 mg/d di DHA e EPA e 300 mg/d di vitamina E. Il rischio relativo di morte è diminuito del 21% e il rischio relativo di morte cardiaca improvvisa del 45%.

Il DART-2 (Burr et al., 2003; Ness et al., 2004), valutando gli effetti prodotti dal consu-mo di pesce o dall’assunzione di capsule a base di olio di pesce in 2 gruppi di uomini affet-ti da sintomi di angina, ha ottenuto risultati non coerenti con quelli ottenuti in precedenti prove di intervento. Anche se Burr et al. (2003) e Ness et al. (2004) forniscono comunque delle giustificazioni per i risultati ottenuti, questi vengono invece giudicati aberranti da von Schacky e Harris (2007), che li attribuiscono ad alcuni difetti dell’impostazione sperimen-tale dello studio.

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La più rilevante prova che ha considerato la supplementazione con -3 è stata quella indi-cata con l’acronimo “JELIS” (Japan EPA Lipid Intervention Study), che ha coinvolto 18645 pazienti ipercolesterolemici, divisi in due gruppi differentemente trattati (trattamento con so-la statina o con statina + EPA alla dose di 600 mg, tre volte al giorno). Nel corso di 5 anni nel gruppo trattato con EPA è stata riscontrata una riduzione del 19% del rischio relativo di eventi cardiovascolari avversi (Yokoyama et al., 2007). È stato dimostrato che elevati livelli di EPA e di DHA nel sangue e nei globuli rossi sono associati ad una consistente riduzione (70-80%) del rischio per morte cardiaca improvvisa in uomini apparentemente sani (Albert et al., 2002; Siscovick et al., 1995), così come è stata rilevata una relazione inversa tra CHD e assunzione di pesce, in considerazione del fatto che pesce e prodotti ittici rappresentano la fonte più im-portante di acidi grassi polinsaturi a lunga catena della serie -3.

Le più importanti organizzazioni internazionali (AHA, ACC, European Society of Cardio-logy) considerano sufficientemente forti le prove dei benefici derivanti dall’assunzione di que-sta categoria di acidi grassi, così da raccomandare un incremento dell’assunzione di -3 per la prevenzione primaria e secondaria delle malattie cardiovascolari. Gli -3 influenzano differen-ti fattori di rischio cardiovascolare, manifestando però una certa eterogeneità di effetti sui di-versi fattori di rischio, attribuibile alle dosi impiegate e ai tempi di risposta (Mozaffarian e Rimm, 2006). Alle assunzioni tipiche, sono prevalenti gli effetti antiaritmici, riducendo il ri-schio di morte improvvisa e di morte per CHD già entro settimane dall’assunzione. A più al-ti dosaggi sono stati ottenuti i massimi effetti antiaritmici, mentre gli effetti su altri quadri clinici sono decisamente più modesti, richiedendo forse anni di trattamento per evidenziarsi. E’ il caso dell’infarto miocardico non fatale, che non sembra risentire del trattamento in caso di bassi dosaggi o di trattamenti di breve durata.

Su pazienti affetti da CHD, l’AHA (American Heart Association) raccomanda il consu-mo di 1g/d di DHA e EPA, preferibilmente assunto da pesci grassi, ma considera accettabile anche l’assunzione in forma di olio di pesce (in capsule o in forma liquida). Mozaffarian e Rimm (2006), attraverso una meta-analisi condotta su dati estratti da vari documenti (report di organizzazioni istituzionali, reviews sistematiche, meta-analisi; n. 207 referenze), hanno evidenziato che il consumo di EPA e DHA (~250-500 mg/d) riduce del 25% o più il rischio relativo di morte dovuta a CHD e il rischio di morte improvvisa rispetto al consumo modesto o nullo. Assunzioni maggiori non porterebbero invece a nessuna riduzione del rischio di mor-talità dovuta a CHD, suggerendo l’esistenza di un effetto soglia (Figura 1).

Livelli di assunzione fino a 250 mg/d determinano una ridu-zione del rischio relativo di mor-te per CHD pari al 14,6%, per ogni 100 mg/d di EPA e DHA as-sunti, fino a una riduzione totale del rischio pari al 36%. A più elevate assunzioni la riduzione del rischio sarebbe modesta (dal-lo 0 allo 0,8% ogni 100 mg/d). L’esistenza della soglia spieghe-rebbe le risultanze delle speri-mentazioni condotte sulla popo-lazione giapponese, abituata a elevati consumi di pesce (900 mg/d di EPA e DHA, come me-diana) e caratterizzata da un bas-

Figura 1. Relazione tra assunzione di pesce o di olio di pesce e rischio relativo di morte per CHD in studi pro-spettici e in prove cliniche randomizzate.

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sissimo tasso di mortalità per CHD (l’87% più basso rispetto a comparabili popolazioni oc-cidentali; Yokoyama et al., 2005), sulla quale l’ulteriore assunzione di PUFA n-3 produce modesti benefici in termini di ulteriore riduzione del rischio (Iso et al., 2006). Gli effetti pro-dotti da dosaggi crescenti di EPA+DHA su altre patologie sensibili al trattamento con -3 sono illustrati in Figura 2.

È stato dimostrato, al di là di ogni ragionevole dubbio, che l’EPA e il DHA abbassano il li-vello di trigliceridi nell’uomo, ma a tutt’oggi non è chiaro se il primo acido grasso risulti più ef-ficace del secondo (von Scha-cky, 2006). Quindi, anche se EPA e DHA manifestano una di-versa azione biologica (Tabella 7), non ci sono attualmente vali-di motivi per ritenere biologica-mente meno attivo uno dei due. Se è vero che il consumo di pe-sce può influenzare altre patolo-gie cardiovascolari, le evidenze delle numerose prove condotte non risultano così robuste come nel caso della riduzione del ri-schio di morte per CHD (Tabella 8). E’ da rilevare comunque che i risultati di alcune sperimenta-zioni attribuiscono agli omega-3 assunti direttamente dal pesce un ruolo funzionale superiore ri-spetto a quello svolto dagli stes-

si acidi grassi assunti in forma di olio di pesce o di capsule. Queste ultime possono presentare un contenuto variabile di EPA e DHA (200-800 mg g-1) e, relativamente al contenuto in sostanze contaminanti, con-tengono mercurio in quantità modeste o nulle, nonché livelli variabili di PCB e diossine, con un possibile rischio di espo-sizione in relazione alle quantità consuma-te (1-3 g/d) (Bourdon et al., 2010).

Anche se i rischi legati all’eventuale presenza di sostanze contaminanti (metil-mercurio, PCBs, diossine) possono gene-rare confusione relativamente al rapporto rischio/beneficio sul consumo del pesce, ri-spetto ai supplementi (capsule e oli) il pe-sce fornisce, oltre ai PUFA omega-3, anche altre sostanze potenzialmente benefiche, quali proteine (di qualità più elevata rispet-

Figura 2. Schema delle potenziali risposte dose/effetto dell’assunzione del pesce o dell’olio di pesce (Mozaffa-rian e Rimm, 2006).

Tabella 7. Effetti prodotti sull’uomo dagli acidi eicosapentaenoico e docosaesaenoico. Le frecce riflettono i risultati della lettera-tura (von Schacky, 2006).

EPA DHATrigliceridi Colesterolo LDL HDL Aggregabilità delle piastrine () Volume piastrinico medio Pressione sanguigna Frequenza cardiaca Funzione endoteliale Metabolismo del glucosio

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to a quella di altri prodotti di origine animale) e aminoacidi (tra i quali la taurina), vitamina D e selenio (Elvevoll et al., 2006; He, 2009). Quest’ultimo microelemento, presente nel pesce in quantità variabili, manifesta proprietà antiossidanti e produce benefici a livello cardiova-scolare, attenuando anche gli effetti avversi del metilmercurio eventualmente presente. L’a-minoacido taurina ha dimostrato effetti benefici, nei confronti del rischio CVD, negli animali e nell’uomo (Militante e Lombardini, 2002; Yamori et al., 2001), e anche gli aminoacidi ar-ginina e glutamina, presenti nel pesce, sono noti come regolatori della funzione cardiovasco-lare (He, 2009).

Tabella 8. Sintesi delle evidenze per gli effetti del consumo di pesce o di olio di pesce sul-le patologie cardiovascolari (da: Mozaffarian e Rimm, 2006; mod.).

Effetto clinico Forza dell’evidenza CommentoMortalità da CHD morte CHD morte improvvisa

decremento del ~35%decremento del ~50%

forteforte

probabilesoglia dell’effetto

Infarto ischemico decremento del ~30% moderato robusta evidenza da studi prospettici

CHD non fatale IM non fatale

beneficio modesto? equivoco possibili benefici a dosi molto elevate (~2g/d di PUFAn-3)

Progressione dell’arteriosclerosi

beneficio modesto? equivoco risultati misti in studi prospettici

Restenosi postangioplastica

beneficio modesto? equivoco possibili benefici in una meta-analisi di RCT

Tachiaritmia ricorrente ventricolare

beneficio modesto? equivoco risultati misti in 3 RCT

Fibrillazione atriale decremento del ~30% e più

limitato risultati misti in 2 studi prospettici, benefici in 1 RCT

Insufficienza cardiaca congestizia

decremento del ~30% limitato benefici in 1 studio prospettico

RCT: Randomized Clinical Trial (prova clinica randomizzata).

Interazioni tra PUFA -3 e altri nutrienti presenti nel pesce sono ritenute altamente plausibili e in grado di svolgere un’azione sinergica nei confronti della limitazione del rischio cardiova-scolare. E’ opinione condivisa che gli effetti positivi esercitati dal pesce sulla salute del cuore prevalgano sugli effetti negativi dovuti all’eventuale presenza di contaminanti (Wennberg et al., 2011; Ruxton, 2011), eccetto nel caso di alcune specie (squalo, pesce spada) per le quali la maggiore probabilità del rischio della contaminazione da metilmercurio impone il divieto di consumo nel caso delle donne in età fertile e durante l’allattamento e per i bambini (Mo-zaffarian e Rimm, 2006). Per le stesse categorie di persone l’US Environmental Protection Agency (2006) consiglia una limitazione del consumo di altre specie, con più basso rischio di contaminazione, come il tonno a pinne gialle (Thunnus albacares). Evitare il consumo di pe-sce per gli eventuali rischi associati potrebbe tradursi in un incremento delle morti per CHD e in un neurosviluppo subottimale nei ragazzi (Mozaffarian e Rimm, 2006).

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Elvevoll et al. (2006), in una prova condotta su 71 volontari divisi in 5 gruppi trattati in modo diverso per 8 settimane (a 3 gruppi erano stati somministrati 400g di (a) salmone af-fumicato o di (b) salmone cucinato o di (c) merluzzo cucinato; a 1 gruppo era stato dato co-me supplemento olio di fegato di merluzzo in quantità di 15 mL/d e un quinto gruppo è stato utilizzato come controllo), hanno riscontrato che il consumo di pesce ha consentito di accre-scere il livello di EPA e di DHA serico in maniera più efficiente rispetto all’olio di pesce. Gli autori attribuiscono il diverso comportamento alle differenze nella struttura fisico-chimica dei lipidi contenuti nel pesce o nell’olio. Visioli et al. (2003) hanno rilevato la necessità di una quantità di DHA nove volte più elevata quando somministrato in forma di capsule ri-spetto a quando consumato come salmone fresco. La minore efficienza dell’assorbimento del DHA in capsule potrebbe essere la conseguenza della forma chimica in cui questo acido grasso è presente nelle capsule (estere etilico del DHA), considerando che è maggiore l’ef-ficienza di utilizzazione dei PUFA -3 quando presenti nei trigliceridi. In particolare sembra che l’assorbimento di EPA e di DHA sia più elevato quando questi acidi grassi si trovano in posizione sn-2 piuttosto che quando sono distribuiti casualmente in una delle posizioni del-la molecola del trigliceride (Christensen et al., 1995). Gli esteri etilici dell’EPA e del DHA, che costituiscono la forma prevalente in cui si ritrovano questi -3 nei concentrati di olio di pesce, si caratterizzano dunque per la scarsa biodisponibilità dovuta alla loro maggiore re-sistenza all’azione degli enzimi digestivi a livello intestinale. Il legame acido grasso-etanolo è fino a 50 volte più resistente all’azione della lipasi pancreatica rispetto all’idrolisi dei tri-gliceridi (Yang et al., 1990a e b). L’efficienza dell’assorbimento dipende inoltre anche dal rapporto tra EPA e DHA. Dal momento che l’EPA viene assorbito più facilmente rispetto al DHA, la sua assunzione viene facilitata quando l’alimento o il supplemento si caratteriz-zano per un basso rapporto EPA/DHA. E’ probabile che l’assorbimento degli acidi grassi -3 sia favorita anche dalla maggiore diluizione dell’emulsione, quando sono consumati in forma di filetto di pesce rispetto a quando sono assunti in forma di bolo lipidico, come av-viene nel caso dell’olio di pesce. Elvevoll et al. (2006) hanno riscontrato una tendenziale maggiore incorporazione degli acidi grassi -3 contenuti nel filetto di salmone cotto, rispetto a quelli contenuti nel salmone affumicato, probabilmente per la maggiore biodisponibilità e digeribilità conseguente al trattamento termico (Finley et al., 2006). Il ruolo della cottura sulle caratteristiche nutrizionali del pesce è controverso e dibattuto. E’ certo che i benefici associati al consumo di pesce potrebbero venire compromessi dal metodo di preparazione, che potrebbe modificare in maniera sostanziale le caratteristiche del filetto (considerato un nutrient package), come nel caso della frittura, responsabile di un decremento del valore del rapporto tra acidi grassi -3 e -6 (Echarte et al., 2001). Questa modalità di cottura potreb-be inoltre indurre la formazione di acidi grassi trans e di prodotti di ossidazione dei lipidi, determinando così un aumento del rischio CVD e annullando i positivi effetti del pesce nei confronti delle patologie vascolari.

I complessi rapporti e le interazioni ancora non completamente definite tra i nutrienti con-tenuti nei prodotti ittici portano alla seguente conclusione, sulla quale molti ricercatori con-cordano: “… it is likely that consumption of whole fish would have greater benefits than fish oil supplements, and that caution should be taken in the recommendation of taking fish oil supplements instead of consuming whole fish.” (He, 2009).

IL CONSUMO DI PESCE E LA PREVENZIONE DELLE MALATTIE NEOPLASTICHE

Nei paesi occidentali i fattori ambientali, compresi quelli di natura alimentare, possono contribuire in misura significativa all’eziologia di molte forme di malattie neoplastiche. I crescenti tassi di incidenza di tumori in diversi paesi dove prima erano pressoché inesisten-

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ti sembrano coincidere con l’adozione di uno stile di vita caratterizzato da bassi livelli di at-tività fisica, elevati pesi corporei ed eccessive assunzioni di grassi alimentari. Quest’ultimo fattore è tra i più studiati e negli ultimi anni sempre maggiore attenzione è stata dedicata alle relazioni esistenti tra assunzione di specifici acidi grassi a lunga catena della serie n-3 (EPA, 20:5n-3 e DHA, 22:6n-3) e proliferazione tumorale.

Vari meccanismi biologici sono state proposti per spiegare le correlazioni riscontrate, ma tuttora permangono molti dubbi circa la reale efficacia di un elevato apporto alimentare di acidi grassi di origine marina sulla riduzione dei rischi tumorali nelle diverse popolazioni umane (Pace-Asciak e Wolfe, 1968). Un’attenzione particolare è stata riservata all’inibizio-ne da parte dei PUFA della serie n-3 della biosintesi degli eicosanoidi derivanti dall’acido arachidonico (AA, 20:4n-6) e soprattutto di quelli convertiti dall’enzima cicloossigenasi-2 (COX-2). Si tratta di una classe di composti, con possibile azione ormono-simile, compren-denti prostaglandine e leucotrieni, alcuni dei quali (prostaglandina E2 - PGE2), sono stati col-legati alla cancerogenesi.

La COX è un enzima appartenente alla classe delle ossido reduttasi, differenziato in due isoenzimi: la COX-1, la cui concentrazione subisce un incremento in seguito a stimolazioni umorali, e la COX-2 la cui presenza è legata a fenomeni infiammatori e può aumentare fino a 18 volte sotto la stimolazione di fattori di crescita, promotori tumorali, citochine, sostanze batteriche.

In diversi studi sono state evidenziate relazioni tra assunzione di olio di pesce, tassi di pro-liferazione di cellule epiteliali e biosintesi di PGE2, riconoscendo agli acidi grassi della serie n-3 un’azione protettiva nei confronti di diverse forme tumorali che si concretizza nell’inibi-zione dell’attività dell’enzima COX-2, con conseguente riduzione della produzione dei de-rivati dell’acido arachidonico (Figura 3). Questi ultimi presentano una forte azione pro-in-fiammatoria, in contrapposizione a quella anti-infiammatoria esercitata dai prodotti dagli n-3 (Larsson et al., 2004; Calder, 2008).

Figura 3. Biosintesi degli eicosanoidi dall’acido linoleico. PG. prostaglandine; TX, trombo-xani; HPETE (modificato da Rose, 1997).

Poiché, come è noto, gli acidi grassi delle serie n-3 e n-6 sono in competizione per gli stessi enzimi che convertono i precursori nei loro derivati (Gerster, 1998), così come per l’enzima COX-2 (Culp et al., 1979; Corey et al., 1983; Marshall and Johnston,, 1982), è evidente che

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una maggiore assunzione di acidi grassi n-3 può determinare una riduzione della produzione di eicosanoidi pro-infiammatori e quindi contrastare l’insorgenza di diverse forme tumorali.

È stato inoltre osservato che gli acidi grassi della serie n-6 possono favorire la formazione di nuovi vasi sanguigni (angiogenesi) e l’invasione mediata dalle cellule tumorali, facilitando così le metastasi, senza necessariamente influenzare le prime fasi della carcinogenesi. Al con-trario, gli acidi grassi della serie n-3 ridurrebbero lo sviluppo tumorale, migliorando il proces-so di apoptosi cellulare (Williams, 1991), piuttosto che inibendo la proliferazione cellulare. In questo ambito è necessario fare una distinzione tra il processo di trasformazione neopla-stica che, almeno in modelli animali, è stimolato dagli acidi grassi n-6, e la progressione del tumore dopo l’emergere delle cellule tumorali. Gabor e Abraham (1986) hanno evidenziato che un’alimentazione a base di olio di pesce incrementa nel topo la distruzione delle cellule tumorali, piuttosto che inibirne la proliferazione, sostenendo al contempo che tale riscontro deriva dalla biosintesi di prostaglandine alterate. Alcuni studi suggeriscono che la modulazio-ne della biosintesi degli eicosanoidi dipende più dal rapporto n-6/n-3 che dalle concentrazioni assolute di queste due classi (Rose Connolly, 1999).

In generale, comunque, i potenziali benefici di una maggiore assunzione di acidi grassi n-3 derivanti da consumo di pesce sulla prevenzione delle malattie neoplastiche sono ancora da definire in maniera chiara ed inequivocabile. Le principali forme neoplastiche indagate in questa breve rassegna sono le seguenti: tumore al seno, alla prostata, allo stomaco, al colon e retto, al polmone, altri tumori dipendenti da ormoni sessuali.

In relazione al primo tipo di neoplasia, alcuni studi hanno evidenziato che gli acidi grassi della serie n-6 sono associati all’accentuazione della carcinogenesi mammaria (Carroll, 1975; Cohen et al., 1986), mentre quelli a lunga catena della serie n-3 sembrano esercitare effetti inibitori (Jurkowski e Cave, 1985; Cohen et al., 1993). Buckman et al. (1991) hanno riscon-trato che l’acido linoleico stimola la proliferazione delle cellule del carcinoma mammario del topo, mentre Rose e Connolly (1990) hanno visto che gli effetti negativi di tale acido sulle cellule umane in vitro si estrinsecano attraverso un meccanismo che coinvolge la già descritta biosintesi di prodotti della lipossigenasi.

Gli acidi grassi monoinsaturi hanno ricevuto meno attenzione rispetto agli n-3 ed n-6, ma è stato dimostrato che una dieta ricca di olio d’oliva riduce lo sviluppo del carcinoma mamma-rio indotto chimicamente nel ratto (Cohen et al., 1986). L’acido oleico esplicherebbe un’azio-ne stimolante a basse concentrazioni e inibente a concentrazioni relativamente alte.

Terry et al. (2003) hanno analizzato i risultati di sette studi prospettici sull’associazione tra consumo di pesce o di acidi grassi marini e rischio di cancro al seno. Quattro di queste ri-cerche sono state svolte negli Stati Uniti, ove il consumo di acidi grassi n-3 è relativamente basso (Hursting et al., 1990; Gertig et al., 1999; Stampfer et al., 1987; Toniolo et al., 1994); dalle medesime è emerso che non esiste alcuna associazione tra consumo di pesce e rischio di cancro al seno. Al contrario, uno studio effettuato in Giappone (Key et al., 1999) ha rilevato una riduzione del 10-20% del rischio in donne che avevano consumato più di cinque porzioni di pesce alla settimana, rispetto ad altre che si erano nutrite di pesce solo una volta o nessu-na. Analogamente, in uno studio norvegese (Vatten et al., 1990) è stato osservato che, consu-mando più di cinque 5 porzioni di pesce alla settimana, il rischio diminuiva del 30% rispetto a quanto si verificava quando si scendeva al disotto di due. Infine, sempre in Norvegia (Lund e Bonaa, 1993), è stato visto che la mortalità per cancro al seno nelle mogli di pescatori era in-feriore del 30% rispetto alle mogli di non-pescatori. Il dato interessante di questa meta-analisi è comunque quello relativo al fatto che la correlazione negativa tra consumo di pesce e can-cro al seno è stata osservata in Giappone ed in Norvegia, paesi con un consumo relativamente alto di acidi grassi n 3 (Hursting et al., 1990), ma non negli Stati Uniti.

Sempre Terry et al. (2003) riportano i risultati di 19 casi-studio, condotti in diverse aree geografiche, dai quali non è emersa alcuna significatività: negli Stati Uniti (Ambrosone et al.,

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1998), in Italia (Fernandez et al., 1999; Toniolo et al., 1989), in Uruguay (De Stefani et al., 1997), in Cina (Shu et al., 2001) e a Singapore (Lee et al., 1991; 1992).

Per quanto riguarda il tumore alla prostata l’analisi della bibliografia disponibile evidenzia risultati contraddittori, così come verificato nel caso del tumore al seno (Rose et al., 1986); tuttavia esistono, anche in questo caso, delle indicazioni che dimostrano come gli acidi grassi della dieta influenzino il comportamento delle cellule neoplastiche ed in particolare del pro-cesso di trasformazione neoplastica. In uno studio prospettico (Giovannucci et al., 1993), è stato infatti dimostrato che una dieta ad alto apporto di acido linolenico ha ridotto i rischi di tumore avanzato della prostata. Il meccanismo di azione sarebbe chiaramente legato al fat-to che l’acido α-linolenico è il precursore dell’EPA, responsabile di tale riduzione (Mishina et al., 1985; Prentice Sheppard, 1990). Va peraltro sottolineato che la capacità di conversio-ne dell’acido α-linolenico nei derivati a lunga catena nell’uomo è molto limitata (5–10% per l’EPA e dal 2 al 5% per il DHA; Davis Etherton, 2003).

In una recente indagine (Szymanzy et al., 2010) non è stata osservata alcuna associazione tra consumo di pesce e riduzione dell’incidenza del cancro alla prostata (12 studi caso-con-trollo e 12 studi prospettici), mentre si è riscontrata una riduzione pari al 63% della mortalità specifica per il carcinoma della prostata.

Per ciò che concerne altri tumori ormono-dipendenti, come quelli all’endometrio e all’ova-ia, esistono al momento pochi studi che dimostrino l’effetto positivo del consumo di pesce; inoltre i risultati sono poco chiari così da rendere difficile la formulazione di raccomandazio-ni per prevenirli. In uno studio condotto in Svezia sulle correlazioni tra consumo di pesce e rischio di tumore all’endometrio (Terry et al., 2002) è stata osservata una correlazione nega-tiva (CI: 0,5, 0,8; P per il trend = 0,0002), mentre in altri studi effettuati in paesi con basso consumo di pesce la significatività del modello è risultata inferiore (CI: 0,8, 1,3; P per il trend = 0,72). Cinque studi caso-controllo (Bosetti et al., 2001; La Vecchia et al., 1987; Shu et al., 1989; Zhang et al., 2002; Mori et al., 1988) hanno esaminato l’associazione tra consumo di pesce e insorgenza del rischio di tumore ovarico. Tre di queste indagini sono state condotte in paesi (Cina e Giappone) con relativamente elevati livelli di assunzione pro-capite di acidi grassi n-3 di origine marina, ma non è stata osservata una significativa riduzione del rischio; al contrario, i due studi condotti in Italia, hanno evidenziato correlazioni inverse tra consumo di pesce e tumore ovarico. Infatti Bosetti et al. (2001) hanno constatato in donne con maggior consumo di pesce una riduzione significativa (40%) del rischio di cancro ovarico.

Il terzo tumore più comune a livello mondiale, con maggior diffusione nei paesi occiden-tali (945.000 nuovi casi e 492.000 morti ogni anno; Weitz et al., 2005) dove alcuni fattori di rischio, come sovrappeso ed alimentazione non equilibrata, rappresentano un rischio con-creto. Tale constatazione suggerisce che la dieta rappresenta un importante mezzo di pre-venzione. Il consumo di pesce, ricco di acidi grassi della serie n-3, sembrerebbe ridurre il rischio di sviluppo della malattia attraverso la modulazione del metabolismo dell’acido ara-chidonico, coinvolto nel processo infiammatorio. Si ricorda al riguardo che anche in que-sto caso il meccanismo di azione coinvolge l’inibizione dell’enzima ciclossigenasi-2 con conseguente riduzione della produzione di eicosanoidi ad azione pro-infiammatoria (men-tre quelli prodotti a partire dagli acidi grassi n-3 hanno azione anti-infiammatoria). Poiché, come già detto, gli acidi grassi n-3 ed n-6 competono per gli stessi complessi enzimatici, è evidente che una maggiore assunzione di n-3 può diminuire la produzione di composti eico-sanoidi pro-infiammatori, il cui ruolo è fondamentale nello sviluppo del tumore colorettale. Nel 1997 tuttavia, il World Cancer Research Fund e l’American Institute for Cancer Rese-arch hanno pubblicato una rassegna inerente gli studi sulle relazioni tra nutrizione e tumo-ri, concludendo che le diete ricche di pesce non possono essere associate alla riduzione dei rischi del cancro. Al contrario, una metanalisi pubblicata successivamente sull’American Journal of Epidemiology (Geelen et al., 2007) è giunta alla conclusione che il consumo di

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n-3 aiuterebbe a ridurre il rischio di sviluppo del tumore colon-rettale. Infatti, analizzando i dati relativi a 14 studi è emerso che un consumo più elevato di pesce sarebbe associato ad una riduzione del 12% di incidenza di tumore al colon-retto. In particolare, sembrerebbe che ogni 100 g consumati in più per settimana ridurrebbero del 3% il rischio di sviluppare la neoplasia; inoltre, la protezione sarebbe più marcata nelle donne. Per quanto riguarda la mortalità, invece, il consumo di pesce e/o di 3 non esplicherebbe alcun effetto protettivo. Gli Autori concludono quindi affermando che gli studi disponibili non permettono al momento di trarre conclusioni definitive. All’opposto hanno pubblicato nell’anno successivo i risul-tati di uno studio prospettico durato 22 anni, dal quale è emersa una correlazione inversa tra consumo di pesce e cancro colorettale.

Il tumore allo stomaco è il quarto tipo di più frequente e la seconda causa più comune di morte da cancro in tutto il mondo; è stato stimato che ogni anno a circa un milione di pa-zienti viene diagnosticata questa malattia e che per la stessa ne muoiono circa 700.000 l’an-no (Parkin et al., 2005). I risultati reperibili in bibliografia, ed in particolare la review di Wu et al. (2011), indicano che l’associazione tra consumo di pesce e riduzione di tumore allo stomaco non si può ritenere statisticamente significativa e che, seppur notando dei riscon-tri positivi, i dati a disposizione non permettono al momento di trarre conclusioni definitive sull’argomento.

Il tumore al polmone è attualmente la più comune causa di mortalità tumorale al mondo e il principale fattore predisponente è rappresentato dal fumo; tuttavia alcuni studi hanno evi-denziato alcune correlazioni anche con il regime alimentare. In bibliografia sono reperibili molti studi riguardanti gli effetti di un’alimentazione ricca di frutta e verdure sulla riduzione del rischio di tumore al polmone, mentre minore attenzione è stata riservata agli alimenti di origine animale (Linseisen et al., 2011). In generale, comunque, tutti i risultati reperibili in bibliografia non supportano l’ipotesi che un elevato apporto di acidi grassi marini possa ave-re influenze positive sullo sviluppo di tale tipo di neoplasia.

In generale, si può concludere affermando che, malgrado i numerosi studi epidemiologici pubblicati, la reale efficacia dell’assunzione di acidi grassi n-3 derivanti da pesce sulla ridu-zione dei rischi di contrarre le diverse forme tumorali è ancora da dimostrare; per giungere a conclusioni più definitive sono quindi necessari ulteriori studi epidemiologici sull’associa-zione tra dieta e cancro. Tali studi dovrebbero concentrarsi sull’incidenza dei tumori in rela-zione alle diverse categorie di alimenti, ai diversi livelli di consumo di pesce e al tipo di pe-sce. L’esigenza immediata per questo tipo di studi è anche quella di determinare se gli effetti dell’acido oleico sulle carcinogenesi sono dovuti a specifiche proprietà biochimiche degli acidi grassi della serie n-9 o semplicemente alla conseguente più ridotta ingestione di acidi grassi della serie n-6.

GLI INQUINANTI AMBIENTALI NEI PRODOTTI DELLA PESCA E DELL’ACQUACOLTURA

La contaminazione chimica dell’ambiente è un effetto pervasivo ed insidioso dell’inces-sante crescita demografica e dello sviluppo industriale e tecnologico delle società moderne. In particolare, la grande espansione dell’industria chimica dopo la seconda guerra mondiale ha portato alla sintesi di uno sterminato numero di nuove molecole, soprattutto organiche: si calcola circa 10 milioni. I sistemi enzimatici degli organismi decompositori non sono sempre in grado di metabolizzare queste molecole, che possono quindi persistere a lungo negli ecosi-stemi e danneggiare gravemente la componente biotica in cui permangono. A volte le mole-cole sono assorbite e metabolizzate, ma i prodotti del metabolismo possono essere a loro vol-ta nuove molecole che talvolta risultano altrettanto o più pericolose dei composti di partenza.

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Gli inquinanti ambientali sono un gruppo di sostanze con struttura chimica molto diversa, ma che esibiscono in ambiente un comportamento comune. Queste sostanze tendono ad esse-re stabili e nell’ambiente e tendono a bioaccumularsi negli organismi viventi e/o a biomagni-ficarsi nelle catene trofiche. Il Programma Ambientale delle Nazioni Unite (UNEP – United Nations Environmental Program) identifica come contaminanti organici persistenti (POPs – Persistent Organic Pollulants) le sostanze con le seguenti caratteristiche:- sono composti molto stabili e possono persistere nell’ambiente per decenni;- possono circolare sul globo attraverso un fenomeno chiamato effetto cavalletta, una sorta

di processo di distillazione globale: i POPs rilasciati in una qualche parte del mondo, at-traverso un ripetuto e spesso stagionale processo di evaporazione e precipitazione, vanno ad accumularsi in aree anche molto distanti dai luoghi dove sono stati rilasciati;

- si bioaccumulano negli organismi e si biomagnificano nelle piramidi alimentari: si con-centrano negli organismi viventi depositandosi nei lipidi, dove la loro concentrazione può essere molto elevata;

- sono composti altamente tossici e causano tutta una serie di effetti nocivi tra cui malattie ne-oplastiche, danni al sistema nervoso, disordini riproduttivi, danni al sistema immunitario.Clarkson (1995) ha bene descritto i tre requisiti necessari affinché un inquinante si accu-

muli nelle catene trofiche acquatiche, che sono sintetizzati nella tabella 9.

Tabella 9. Fattori che influiscono sull’accumulo di contaminanti ambientali nelle cate-ne alimentari (Clarkson, 1995).

Inquinante log Kow – Coeff. di ripartizione n-ottanolo/acqua Stabilità Interrompono

la catena troficaAlta biomagnificazioneClordano alto alta noPCBs alto alta noDDT alto alta noDiossine alto alta no

Bassa biomagnificazionePAHs - bassa -Ftalati - bassa -Tricloroetilene basso media -Idrocarburi alifatici basso bassa -Metossiclor - media si

Tra i composti indicati in tabella il DDT, i PCBs e le diossine hanno le tre proprietà in co-mune. In primo luogo hanno un elevato coefficiente di ripartizione tra acqua e n-ottanolo. In-fatti molto spesso il fattore di bioconcentrazione di una composto, cioè il rapporto tra la con-centrazione nell’organismo e quella nel mezzo circostante, cresce al crescere del coefficiente di ripartizione tra acqua e n-ottanolo (che con la sua lunga catena idrocarburica e la funzione terminale alcolica è assimilabile ai lipidi). In secondo luogo essi sono stabili nell’acqua ed in altri compartimenti dei sistemi acquatici. In terzo luogo la loro tossicità alle concentrazio-ni presenti nell’ambiente è relativamente bassa, nel senso che essi non determinano la morte delle specie intermedie e quindi “scalano” la piramide alimentare.

Fortunatamente, tra le decine di migliaia di composti sintetizzati dall’industria chimica, solo pochi soddisfano tutti e tre i requisiti. Per esempio gli idrocarburi policiclici aromatici (PAHs)

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e gli ftalati sono lipofili ma non si bioccumulano perché sono instabili in acqua e vengono me-tabolizzati. Il tricloroetilene ha un basso coefficiente di ripartizione ottanolo-acqua. Il metossi-clor è l’esempio di inquinante che per la sua elevata tossicità “interrompe” la catena alimentare.

Diossine e PCB

Il termine diossine si riferisce ad un gruppo di composti aromatici clorurati che includono 75 policlorodibenzo-p-diossine (PCDDs) e 135 policlorodibenzofurani (PCDFs). Di circa 210 congeneri conosciuti, 17 esibiscono un simile ed importante profilo tossicologico. Accanto a queste sostanze altre di natura simile, i policlorobifenili (PCBs), hanno rilevanza tossicologi-ca, in particolare quelli mono-orto e non-orto sostituiti, che mostrano proprietà tossicologiche simili alle diossine e sono per questo definiti diossino-simili (dioxin like PCBs).

Sono contaminanti largamente diffusi sul globo terracqueo che si formano come prodotti indesiderati in un grande numero di attività antropogeniche. Tali attività includono la produ-zione di composti chimici, attività di incenerimento di rifiuti, sbiancamento del legno o della carta. Le diossine sono molto resistenti alla degradazione chimica e microbiologica e quindi molto stabili nell’ambiente.

I 209 possibili congeneri dei PCBs possono essere divisi in due gruppi in base alle loro carat-teristiche chimiche e tossicologiche: i mono-orto e non-orto sostituiti che, come già detto, mo-strano proprietà tossicologiche simili alle diossine e gli altri, che sono molto meno tossici delle diossine e vengono definiti PCBs non diossino simili (NDL-PCBs). La produzione e l’uso dei PCBs è stata interrotta in molti paesi a partire dal 1985, anno in cui sono stati banditi in Euro-pa, ma grandi quantità di questi composti ancora permangono in materiali plastici ed elettrici.

La tossicità delle diossine e dei DL-PCBs è principalmente mediata dal recettore per gli idrocarburi arilici (Ah), che fu identificato nel 1976 proprio grazie alla sua capacità di legare il composto 2,3,7,8-tetraclorodibenzo-p-diossina (TCDD), capostipite delle diossine. Tuttavia, la tossicità dei vari congeneri varia notevolmente da composto a composto. Dei 210 possibili congeneri di diossine e furani, solo quelli sostituiti nelle posizioni 2,3,7,8 degli anelli aromatici hanno tossicità rilevanti. Questi 17 congeneri mostrano un profilo tossicologico imponente e la 2,3,7,8-tetraclorodibenzo-p-diossina è il più tossico (Ahlborg et al., 1990). Dei 209 possibili congeneri dei PCBs solo 12 posseggono tossicità diossino simile, poiché possono assumere una struttura planare e possono legarsi al recettore Ah (Poland et al., 1985; Safe et al., 1985). La maggior parte delle diossine sono molto più tossiche dei PCBs, ma la quantità di PCBs rilascia-ti in ambiente è parecchio più elevata e il loro livello negli alimenti è decisamente superiore. Le diossine sono ritenute essere tra i composti organici più tossici esistenti. L’esposizione cro-nica a tali composti induce numerose tipologie di neoplasie. Sulla base sia di sperimentazioni animali che di studi epidemiologici, l’IARC (International Agency for Research on Cancer) ha classificato la 2,3,7,8-tetraclorodibenzo-p-diossina come un carcinogeno di tipo 1.

Le diossine ed i DL-PCBs sono idrofobici e tendono a bioaccumularsi nei lipidi corporei, sia negli animali che nell’uomo, e mostrano una forte biomagnificazione nella catena alimen-tare. Solitamente non sono assorbiti dalle piante, con l’eccezione di alcune specie apparte-nenti alla famiglia delle cucurbitacee (zucchine) (White et al., 2005), ma possono depositarsi sulle foglie dei vegetali, e quindi possono entrare nella catena alimentare attraverso i foraggi.

Gli organismi acquatici possono abbondantemente assorbire diossine e PCBs. Numerosi studi hanno appurato che il 95% dell’esposizione umana a tali sostanze avviene attraverso il consumo di prodotti di origine animale, essendo il pesce, le carni ed i prodotti lattiero-caseari la principale fonte (Gilman et al., 1991). Altre fonti di contaminazione per l’uomo sono l’ina-lazione di aria contaminata ed il fumo di sigaretta.

Le diossine ed i PCBs in genere sono costituiti da miscele complesse di differenti conge-neri di PCDD, PCDF e PCBs. Per una corretta valutazione del rischio tossicologico è stato

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sviluppato il concetto di tossico equivalente (TEQ), allo scopo di descrivere la tossicità cu-mulativa di complesse miscele di tali composti (Ahlborg et al., 1992). In sostanza è stato as-segnato un fattore di tossicità equivalente (TEF) a ciascuno dei congeneri di diossine e PCBs in relazione alla tossicità del capostipite (2,3,7,8-tetraclorodibenzo-p-diossina), il cui fatto-re di tossicità è posto uguale a 1. Il tossico equivalente di una miscela di diossine è calcolato moltiplicando ciascun congenere per il rispettivo fattore di tossicità, e poi sommando i singoli tossici equivalenti in modo da ottenere un unico TEQ per l’intera miscela. L’ultima rivaluta-zione dei TEFs è stata fatta dall’OMS nel 2005; solitamente si utilizzano i TEFs decisi nella riunione degli esperti OMS tenutasi a Stoccolma nel 1997 (van den Berg et al., 1998). Con il Regolamento 1881/2006 la Commissione ha definito i tenori massimi di TOQs ammessi in alcuni prodotti alimentari, ivi incluso i prodotti ittici. In particolare per i prodotti ittici il teno-re massimo ammesso di diossine nel muscolo di pesce, prodotti della pesca e derivati (esclu-sa l’anguilla) è di 4,0 pg TEQ g-1 di peso fresco, mentre per la somma di diossine e DL-PCBs tale limite è di 8,0 pg TEQ g-1 di peso fresco.

L’OMS nel 2000 ha fissato per le diossine una dose giornaliera accettabile (DGA), che è la quantità di diossine che possono essere ingerite dall’uomo quotidianamente per tutto il corso della vita senza che si manifestino effetti nocivi. Tale DGA per le PCDD, PCDF e DL-PCB è compresa tra 1 e 4 pg TEQ per kg di peso vivo. Nel 2001 il Comitato Scientifico sugli Ali-menti della Commissione Europea (SFC), sulla base della precedente decisione dell’OMS, ha fissato la dose settimanale accettabile nell’uomo in 14 pg TEQ per kg di peso vivo.

Qualità dei mangimi e trasferimento degli inquinanti al pesce

La produzione mondiale di mangimi per acquacoltura nel 2006 è stata di circa 22 milioni di tonnellate, e ha utilizzato approssimativamente 3,7 milioni t di farine di pesce e 835 mila t di olio di pesce, derivanti dalla lavorazione di circa 16,6 milioni di t di piccoli pesci pelagici (Tacon and Metian, 2008). Approssimativamente un quarto del volume del pescato annuale viene destinato alla produzione di farine ed oli di pesce, con una produzione annuale di fari-ne di pesce che si aggira intorno ai 6-7 milioni di tonnellate.

La dieta, sia essa artificiale che naturale, è la principale fonte di contaminazione di POPs per il pesce, sebbene l’accumulo di inquinanti possa avvenire anche attraverso le branchie. Nella tabella successiva sono presentati alcuni dati relativi al grado di contaminazione di al-cuni ingredienti utilizzati nella formulazione delle diete per i pesci di allevamento.

Come si evince dalla tabella 10, la concentrazione di PCDDs, PCDFs e DL-PCBs in in-gredienti utilizzati per la formulazione di mangimi per acquacoltura è altamente variabile, in dipendenza della tipologia e dell’origine della materia prima utilizzata per la produzio-ne. Una valutazione dello SCAN (2000) (Scientific Committee on Animal Nutrition) indica che le farine di pesce e gli oli di pesce di produzione Europea contengono più elevati livelli di PCDD/F e DL-PCBs ripetto a quelli di origine peruviana e cilena. Il contributo quanti-tativo dei vari ingredienti alla formulazione dei mangimi per acquacoltura può variare for-temente in dipendenza della specie ittica, della fase di crescita ed anche del costo e della disponibilità delle materie prime, e di conseguenza influenza il grado di contaminazione finale. Nelle diete per i pesci onnivori il contributo di farine ed oli di pesce alla contami-nazione totale con PCDD/F e DL-PCBs è superiore al 55% e può raggiungere il 98% nelle diete per le specie carnivore (EC SCAN, 2000). Il limite massimo di diossine ammesso nel mangime è di 2,25 pg TEQ g-1, mentre per le farine di pesce e gli oli di pesce i limiti mas-simi ammessi sono rispettivamente di 1,25 e 6,0 pg g-1 (Direttiva 2006/13/EC). Per quanto riguarda la somma di diossine e PCBs, il limite massimo ammesso nel mangime è di 7,0 pg TEQ g-1, mentre per le farine di pesce e gli oli di pesce i limiti massimi ammessi sono rispettivamente di 4,5 e 24,0 pg g-1.

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Tabella 10. Contenuto in diossine, furani e policlorobifenini diossino-simili in ingredien-ti utilizzati per la formulazione di mangimi per pesci (Gallani et al., 2004). Dati espressi in pg TEQWHO98g-1 di prodotto al 12% di umidità.

INGREDIENTI N. campioniDIOSSINE + FURANI DL-PCBs TEQ totali

5°%ile mediana 97,5°%ile 5°%ile mediana 97,5°%ile 5°%ile mediana 97,5°%ileIngredienti di origine vegetale 169 0,03 0,12 0,72 0,02 0,07 0,35 0,06 0,22 0,95Oli vegetali 17 0,12 0,20 0,35 0,08 0,17 0,81 0,30 0,39 1,03Premix 28 0,03 0,11 0,58 0,02 0,03 0,81 0,06 0,23 1,07Grassi animali, inclusi di latte e uova 42 0,08 0,22 0,81 0,03 0,18 0,81 0,12 0,41 1,62Oli di pesce 222 0,87 3,17 6,48 2,10 6,75 16,84 3,2 9,95 22,56Farine di pesce 104 0,10 0,46 1,98 0,13 1,01 4,23 0,33 1,48 5,85Mangimi per pesci 188 0,1 0,63 2,01 0,04 1,34 3,30 0,16 2,01 5,09

Tabella 11. Contenuto in diossine, furani e policlorobifenini diossino-simili in specie itti-che di cattura e di allevamento (Gallani et al., 2004). Dati espressi in pg TEQWHO98g-1 di tessuto fresco.

FOOD N. CampioniPCDDs + PCDFs DL-PCBs TEQs totali

Media Mediana 90°%ile 95°%ile Media Mediana 90°%ile 95°%ile Media Mediana 90°%ile 95°%ile 99°%ile

Pesce totale (allevato e pescato, escluso pesce di origine baltica) (426) 0,55 0,34 1,12 1,76 1,39 0,91 3,20 3,81 1,93 1,23 4,37 5,16 12,09

Pescato (215) 0,59 0,18 1,63 2,19 1,41 0,47 3,16 5,58 2,00 0,70 4,67 7,31 19,09Allevato (211) 0,50 0,40 0,89 1,06 1,36 1,01 3,18 3,61 1,87 1,44 4,03 4,60 6,15Aringhe (53) 1,29 1,06 2,29 2,64 1,90 1,70 3,01 3,74 3,20 2,83 5,29 5,91 9,17Altre specie ittiche (373) 0,44 0,29 0,88 1,11 1,31 0,82 3,21 3,81 1,76 1,10 4,03 4,71 14,10Pesce del Baltico (totale) (340) 5,44 3,1 14,53 18,14 3,48 2,3 7,52 10,01 8,92 5,39 22,58 27,28 33,73Aringhe (173) 7,67 4,76 17,70 20,46 3,79 2,85 7,77 9,79 11,46 7,71 25,95 29,80 35,60Aringhe trasformate (14) 10,75 11,26 16,28 18,25 5,20 5,28 7,70 8,65 15,96 16,54 23,98 26,89 29,00Lucioperca (39) 1,09 0,72 2,38 3,55 1,24 0,91 2,52 3,15 2,34 1,62 4,90 6,68 9,58Salmone (22) 7,23 6,27 14,17 15,61 9,24 7,8 14,29 15,25 16,47 13,55 27,38 29,85 32,35Altre specie (89) 1,67 1,20 3,60 3,88 2,10 1,76 4,18 5,72 3,77 3,2 7,72 8,86 10,74

In una prova sperimentale sulla trota iridea (Oncorhynchus mykiss) durata 19 mesi, in cui i pesci sono stati portati da un peso di 10 g fino a 2 kg, Karl et al (2003) hanno valutato il gra-do di trasferimento di PCDD e PCDF dal mangime al filetto. Nel tessuto muscolare il conte-nuto di diossine è costantemente aumentato passando dalla concentrazione di 0,054 all’inizio della prova a 0,914 TEQ pg g-1 alla fine dell’esperimento. L’accumulo medio di contaminan-ti nel tessuto è stato dell’11,1% al sesto mese di prova e del 30,7% al diciannovesimo mese. Gli autori hanno osservato una diretta correlazione tra il contenuto in diossine nei lipidi del mangime ed il contenuto in diossine del tessuto muscolare (r2=0,98). Nel salmone atlantico (Salmo salar) (Isosaari et al., 2004; Lundebye et al., 2004; Berntssen et al., 2005) e nella tro-ta iridea (Isosaari et al., 2002) i PCBs mostrano una percentuale di trasferimento maggiore

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Tabella 10. Contenuto in diossine, furani e policlorobifenini diossino-simili in ingredien-ti utilizzati per la formulazione di mangimi per pesci (Gallani et al., 2004). Dati espressi in pg TEQWHO98g-1 di prodotto al 12% di umidità.

INGREDIENTI N. campioniDIOSSINE + FURANI DL-PCBs TEQ totali

5°%ile mediana 97,5°%ile 5°%ile mediana 97,5°%ile 5°%ile mediana 97,5°%ileIngredienti di origine vegetale 169 0,03 0,12 0,72 0,02 0,07 0,35 0,06 0,22 0,95Oli vegetali 17 0,12 0,20 0,35 0,08 0,17 0,81 0,30 0,39 1,03Premix 28 0,03 0,11 0,58 0,02 0,03 0,81 0,06 0,23 1,07Grassi animali, inclusi di latte e uova 42 0,08 0,22 0,81 0,03 0,18 0,81 0,12 0,41 1,62Oli di pesce 222 0,87 3,17 6,48 2,10 6,75 16,84 3,2 9,95 22,56Farine di pesce 104 0,10 0,46 1,98 0,13 1,01 4,23 0,33 1,48 5,85Mangimi per pesci 188 0,1 0,63 2,01 0,04 1,34 3,30 0,16 2,01 5,09

Tabella 11. Contenuto in diossine, furani e policlorobifenini diossino-simili in specie itti-che di cattura e di allevamento (Gallani et al., 2004). Dati espressi in pg TEQWHO98g-1 di tessuto fresco.

FOOD N. CampioniPCDDs + PCDFs DL-PCBs TEQs totali

Media Mediana 90°%ile 95°%ile Media Mediana 90°%ile 95°%ile Media Mediana 90°%ile 95°%ile 99°%ile

Pesce totale (allevato e pescato, escluso pesce di origine baltica) (426) 0,55 0,34 1,12 1,76 1,39 0,91 3,20 3,81 1,93 1,23 4,37 5,16 12,09

Pescato (215) 0,59 0,18 1,63 2,19 1,41 0,47 3,16 5,58 2,00 0,70 4,67 7,31 19,09Allevato (211) 0,50 0,40 0,89 1,06 1,36 1,01 3,18 3,61 1,87 1,44 4,03 4,60 6,15Aringhe (53) 1,29 1,06 2,29 2,64 1,90 1,70 3,01 3,74 3,20 2,83 5,29 5,91 9,17Altre specie ittiche (373) 0,44 0,29 0,88 1,11 1,31 0,82 3,21 3,81 1,76 1,10 4,03 4,71 14,10Pesce del Baltico (totale) (340) 5,44 3,1 14,53 18,14 3,48 2,3 7,52 10,01 8,92 5,39 22,58 27,28 33,73Aringhe (173) 7,67 4,76 17,70 20,46 3,79 2,85 7,77 9,79 11,46 7,71 25,95 29,80 35,60Aringhe trasformate (14) 10,75 11,26 16,28 18,25 5,20 5,28 7,70 8,65 15,96 16,54 23,98 26,89 29,00Lucioperca (39) 1,09 0,72 2,38 3,55 1,24 0,91 2,52 3,15 2,34 1,62 4,90 6,68 9,58Salmone (22) 7,23 6,27 14,17 15,61 9,24 7,8 14,29 15,25 16,47 13,55 27,38 29,85 32,35Altre specie (89) 1,67 1,20 3,60 3,88 2,10 1,76 4,18 5,72 3,77 3,2 7,72 8,86 10,74

In una prova sperimentale sulla trota iridea (Oncorhynchus mykiss) durata 19 mesi, in cui i pesci sono stati portati da un peso di 10 g fino a 2 kg, Karl et al (2003) hanno valutato il gra-do di trasferimento di PCDD e PCDF dal mangime al filetto. Nel tessuto muscolare il conte-nuto di diossine è costantemente aumentato passando dalla concentrazione di 0,054 all’inizio della prova a 0,914 TEQ pg g-1 alla fine dell’esperimento. L’accumulo medio di contaminan-ti nel tessuto è stato dell’11,1% al sesto mese di prova e del 30,7% al diciannovesimo mese. Gli autori hanno osservato una diretta correlazione tra il contenuto in diossine nei lipidi del mangime ed il contenuto in diossine del tessuto muscolare (r2=0,98). Nel salmone atlantico (Salmo salar) (Isosaari et al., 2004; Lundebye et al., 2004; Berntssen et al., 2005) e nella tro-ta iridea (Isosaari et al., 2002) i PCBs mostrano una percentuale di trasferimento maggiore

dal mangime al tessuto del pesce rispetto alle diossine; tale accumulo varia dal 40 al 65% per PCDD e PCDF e dal 78 al 93% per i DL-PCBs, per un intero ciclo produttivo. Utilizzando un modello basato sulle differenti percentuali di accumulo dei contaminanti nel filetto del pesce, si può stimare, sulla base degli attuali dati di contaminazione di farine ed oli di pesce (anche utilizzando un grado di trasferimento dell’80%), che la quantità accumulata nei filetti sia ben al di sotto dei limiti massimi imposti dalle norme comunitarie (Reg. 1881/2006). Sicuramen-te la sostituzione parziale, nelle diete per carnivori, di oli e farine di pesce con ingredienti vegetali è un ottimo mezzo per diminuire la contaminazione del pesce allevato, data la bassa presenza di diossine e PCBs nei vegetali, quando tale sostituzione non causa una diminuzione eccessiva del contenuto in PUFA n-3-dei filetti (Berntssen et al., 2005; Turchini et al., 2009).

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Una grande discussione sui rischi dell’ingestione di pesce allevato dovuta alla presenza di inquinanti si è aperta nel 2004, quando Hites e collaboratori pubblicano sulla prestigiosa ri-vista Science i risultati di un’approfondita indagine sulla presenza di 14 diversi contaminanti organici in 700 campioni di salmone di varia origine geografica e di varia tipologia, pescato e allevato (Hites et al., 2004). Essi evidenziano che, per quanto riguarda diossine e PCBs, il salmone allevato è più contaminato rispetto al pescato, e l’allevato nel nord Europa risulta più contaminato rispetto a quello allevato nel nord e sud America. Da allora una ricca e va-stissima letteratura su questo argomento, con risultati a volte contrastanti, ha occupato le ri-viste del settore. Nella tabella sono presentati i dati di un’indagine del 2004 sul contenuto in PCDD, PCDF e DL-PCBs in varie tipologie di pesce allevato e pescato.

Mercurio

La presenza del mercurio nell’ambiente è dovuta all’imponente utilizzazione industriale che di questo elemento si è fatto nel corso degli anni, dall’industria chimica a quella elettrica, farmaceutica ed agro-zootecnica. E’ presente in ambiente sia sotto forma di composti inorga-nici che di composti organici. Infatti l’elemento inorganico si deposita nei sedimenti acquatici e per azione dei microorganismi bentonici è trasformato in composti organici (soprattutto me-tilmercurio e dimetil mercurio). In tale forma il mercurio viene trasferito nella catena alimen-tare acquatica secondo la sequenza fitoplancton-zooplancton-pesci-pesci predatori. Nella pi-ramide alimentare è stato calcolato che il mercurio possa biomagnificarsi fino a 10.000 volte. Il metilmercurio è una potente neurotossina, supera la barriera emato-encefalica e causa gra-vi lesioni al sistema nervoso centrale, specialmente nel feto, per cui una categoria a rischio è rappresentata dalle donne in gravidanza. Gli effetti cronici possono includere la carcinogene-si, come dimostrato dalla classificazione IARC, che lo ha posto tra le sostanze del gruppo 2B.

L’ingestione di mercurio attraverso la dieta nella popolazione europea varia da paese a pa-ese, in relazione alle specie ittiche abitualmente consumate ed alle quantità consumate. I pe-sci più a rischio di contaminazione sono i grandi predatori pelagici, tra i quali gli squaliformi ed il pesce spada. I limiti massimi ammessi dalla legislazione europea (Reg. 1881/2006) nel tessuto muscolare di pesce e nei prodotti ittici è di 0,5 kg-1. Per una serie dettagliata di spe-cie più contaminate, tra le quali appunto tonno, pesce spada, halibut, squaliformi, tale limite massimo è fissato in 1,0 kg-1.

La maggiore via di contaminazione da mercurio nell’uomo avviene attraverso l’ingestione di prodotti ittici. Sulla base di numerosi studi epidemiologici nelle popolazioni che abitual-mente consumano pesce, il Joint FAO/WHO Expert Committe on Food Additives (JECFA, 2003) ha stabilito una dose settimanale accettabile provvisoria nell’uomo di 1,6 µg kg-1 di pe-so vivo, mentre il National Research Council statunitense ha stabilito un limite massimo di 0,7 µg kg-1 di peso vivo. In un rapporto del 2004 l’EFSA (EFSA, 2004), sulla base delle stime di ingestione di prodotti ittici dei vari paesi europei, conclude che l’esposizione dell’uomo al mercurio è molto vicina al limite massimo indicato dal JECFA, e che tale esposizione potreb-be superare il limite indicato dall’NRC (Kuballa et al., 2011).

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CAPITOLO 3Il latte e i prodotti lattiero-caseari:

caratteristiche chimiche e nutrizionali

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IL LATTE E I PRODOTTI LATTIERO-CASEARI:CARATTERISTICHE CHIMICHE E NUTRIZIONALI

L. BAILONI1, A. BUCCIONI2

1 Dipartimento di Biomedicina Comparata e Alimentazione, Università degli studi di Padova 2 Dipartimento di Biotecnologie Agrarie, Università degli studi di Firenze

FATTORI CHE INFLUENZANO LE CARATTERISTICHE CHIMICHE E NUTRIZIONALI DEI PRODOTTI LATTIERO-CASEARI

Premessa

Il latte contiene, oltre all’acqua, glucidi, lipidi, proteine, vitamine e minerali. La concen-trazione e le caratteristiche chimiche di queste componenti dipendono da numerosi fattori sia di ordine manageriale, fra i quali l’alimentazione gioca un ruolo fondamentale (Walker et al., 2004; Bertoni, 1996) che legati al corredo genetico dell’animale (Secchiari et al., 2009). Le modificazioni quanti-qualitative della razione somministrata agli animali in produzione pos-sono indurre, anche nel breve periodo, significative variazioni delle caratteristiche nutrizio-nali del latte e dei suoi derivati, specialmente nei ruminanti dove esiste una più ampia varia-bilità nelle diete. In generale, gli alimenti destinati all’alimentazione umana, ottenuti dai ruminanti, possiedono caratteristiche peculiari che derivano dalle diverse attività svolte dai microrganismi presenti nel rumine, che sono in grado di modificare sostanzialmente i nutrien-ti durante i processi di fermentazione, di sintetizzare nuove molecole e, in alcuni casi, di inat-tivare alcuni composti nocivi pericolosi per la salute.

Ampio spazio sarà dato in questo lavoro alla componente lipidica del latte che da sempre è oggetto di attenzione (e di preoccupazione per la salute umana) da parte di molti nutrizionisti (vedi altro capitolo del libro). Recentemente però, accanto agli effetti sfavorevoli attribuiti ad alcune sostanze presenti nella frazione lipidica, sono state evidenziate diverse azioni positive sull’organismo di molti composti bioattivi (Antongiovanni et al., 2003); fra questi meritano di essere ricordati gli isomeri dell’acido linoleico (CLA), oggetto di numerosi stu-di negli ultimi anni.

Nel nostro Paese l’importanza dei de-rivati del latte (Manzi et al., 2007) è in-discutibile; quasi l’80% del latte viene destinato alla caseificazione e il 55% è utilizzato per la produzione di formaggi a denominazione di origine (DOP): ad og-gi i formaggi DOP in Italia sono 44 (Mi-nistero delle Politiche Agricole Alimen-tari e Forestali, 2013). Dalla letteratura scientifica si evince che i processi di ca-seificazione sono caratterizzati da un tra-sferimento molto elevato e non selettivo dei nutrienti del latte al formaggio; per-tanto la qualità nutrizionale del latte in-fluenza fortemente la qualità del formag-gio (Buccioni et al., 2010; Nudda et al., 2005). Considerata la numerosità di deri-

Abbreviazioni utilizzate nel testo

BA = acido butirrico (C4:0)CLA = acido linoleico coniugato (C18:2 coniugato)DHA = acido docosaesaenoico (C22:6 n3)EPA = acido eicosapentaenoico (C20:5 n3)LA = acido linoleico (C18:2 n6)LNA = acido α-linolenico (C18:3 n3)MFD = milk fat depressionMUFA = acidi grassi monoinsaturiOA = acido oleico (C18:1 cis 9)PA = acido palmitico (C16:0)PUFA = acidi grassi polinsaturiRA = acido rumenico (C18:2 cis9 trans11)SA = acido stearico (C18:0)VNA = acido vaccelenico (C18:2 trans11 cis15)VA = acido vaccenico (C18:1 trans11)UFA = acidi grassi insaturi (MUFA + PUFA)

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vati del latte attualmente prodotti, saranno riportate in questo lavoro solo alcune considera-zioni sulla composizione chimica e nutrizionale di formaggi DOP italiani, di cui sono dispo-nibili dati in letteratura.

LA COMPONENTE LIPIDICA DEL LATTE

I lipidi nel latte rappresentano la componente più variabile, sia dal punto di vista quantita-tivo che qualitativo. I diversi fattori che influenzano la percentuale di grasso del latte e il pro-filo in acidi grassi sono discussi in questo ordine: fattori alimentari, specie, razza, stadio di lattazione e ordine di parto degli animali, condizioni manageriali e ambientali.

Effetto della dieta sulla percentuale di grasso nel latte

A parità di altri fattori, la percentuale di grasso nel latte è strettamente legata alla dieta somministrata agli animali. Fra i diversi aspetti che possono modificare questo parametro, sicuramente il rapporto foraggi:concentrati (e quindi l’equilibrio fra carboidrati strutturali e non strutturali) risulta quello più importante. Quando l’inclusione di foraggi nella razione de-gli animali da latte supera il 60-70%, normalmente non si osservano variazioni significative sulla percentuale di grasso nel latte; livelli di inclusione inferiori (razioni ad alto contenuto di concentrati) determinano invece condizioni sfavorevoli alla crescita e allo sviluppo di bat-teri cellulosolitici a vantaggio di altri microrganismi che attaccano la componente proteica e l’amido. In questo caso, la quota di acidi grassi di origine microbica si impoverisce di acidi grassi iso-ramificati e di quelli a catena dispari a favore di quelli ante-iso che invece sono pre-ferenzialmente sintetizzati da batteri amilolitici (Vlaeminck et al., 2006). L’abbassamento del pH ruminale, determinato dalla maggior presenza di carboidrati velocemente fermentescibili, provoca uno shift dei processi ruminali di bioidrogenazione dell’acido linoeico (LA) e dell’a-cido α-linolenico (LNA) verso la formazione di acidi grassi nella cui struttura è presente un doppio legame di tipo trans10. Tali acidi grassi inducono a livello del tessuto mammario una limitazione nell’espressione genica di quegli enzimi che sintetizzano il grasso e, come conse-guenza, si ottiene sia una riduzione della percentuale di lipidi nel latte (definita come “milk fat depression”, MFD) e una maggiore presenza di acidi grassi trans che, fatta eccezione per l’acido vaccenico (VA) e rumenico (RA), risultano nocivi alla salute (Loor et al., 2004) La vacca da latte sembra essere piuttosto sensibile al fenomeno di depressione del grasso del lat-te, seguita dalla pecora. Per la capra, invece, non è un evento raro che, somministrando razio-ni con livelli elevati di concentrati, si verifichino situazioni in cui la percentuale di proteina del latte supera quella del grasso (“inversione delle due curve”).

Fino a pochi anni fa si pensava che la riduzione della sintesi del grasso del latte fosse strettamente correlata all’aumento degli acidi grassi trans C18:1, mentre indagini più recen-ti, realizzate mediante infusioni abomasali dei singoli isomeri appartenenti a questa famiglia di monoeni, hanno rivelato che il responsabile di questo fenomeno è l’acido trans10 C18:1 (Bauman e Griinari, 2001). Successivamente, osservando la stretta correlazione fra ingestione di isomeri dell’acido linoleico (CLA) e MFD, è stato ipotizzato che la diminuzione di gras-so nel latte possa essere attribuita sostanzialmente alla presenza dell’isomero trans10, cis12 C18:2, precursore del trans10 C18:1 nella sintesi ruminale di questo acido; l’effetto del cis8, trans10 C18:2 può invece ritenersi trascurabile considerata la sua concentrazione molto bas-sa nel latte. Dati sperimentali, ottenuti da infusioni abomasali dei singoli isomeri del CLA in vacche in lattazione, hanno mostrato che il trans10, cis12 può ridurre il grasso nel latte fino al 44%. Quanto sopra descritto evidenzia che il fenomeno della MFD si verifica quando nella struttura della molecola è presente un legame doppio trans10 (Baumgard et al., 2001; Choui-

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nard et al., 1999b). Il meccanismo con il quale questi composti agiscono non è ancora noto; è certo, però, che viene inibita la sintesi ex novo degli acidi grassi nella ghiandola mammaria. Anche l’attività della Δ9 desaturasi subisce un rallentamento come dimostra la diminuzione del rapporto fra C14:0/C14:1, C16:0/C16:1 e C18:0/C18:1 quando il trans10, cis12 C18:2 viene addizionato alla razione della vacca (Bauman e Griinari, 1998). E’stato dimostrato che questo isomero del CLA limiterebbe l’espressione del gene che codifica per la stearoilCoA desaturasi (Shingfield et al., 2007). Il doppio legame in posizione cis12, specialmente se co-niugato ad un trans10, sembrerebbe la chiave per spiegare tale comportamento (Park et al., 2000; Baumgard et al., 2001; Bauman e Griinari, 1998). Questo fenomeno è stato osservato anche in umana; l’assunzione di isomeri trans10 da parte di donne, durante l’allattamento, in-duce una diminuzione del contenuto di grasso nel latte materno; in questo meccanismo sem-bra coinvolta la “lipoprotein-lipasi” (McGuire, 2001).

Esiste però un paradosso che al momento rimane difficile da spiegare; il trans10, cis12 C18:2 viene prodotto dai batteri ruminali in maniera preferenziale rispetto al RA quando l’alimenta-zione delle bovine presenta un elevato contenuto di concentrati oppure quando è integrata con supplementi lipidici ad alto contenuto di acidi grassi polinsaturi (PUFA). Questo isomero, infat-ti, non è naturalmente prodotto dai microrganismi ruminali se le fermentazioni procedono per le vie tradizionali: la sua sintesi si attiva solo se vengono alterate le normali condizioni dell’eco-sistema ruminale. E’ stato osservato, ad esempio, che l’integrazione della razione con oli di pe-sce, con o senza supplementazione di vitamina E, potrebbe impedire la formazione dell’isome-ro indesiderato sfavorendo l’attività della trans C18:1 reduttasi e, nelle condizioni sopra citate, limiterebbe l’isomerizzazione del doppio legame trans11 a trans10. Quindi si potrebbe verifi-care un maggior accumulo di acido vaccenico che non solo non presenta gli effetti negativi del trans10, ma è il precursore del CLA nella sintesi della ghiandola mammaria (Griinari, 2001). Considerati gli effetti sulla sintesi del grasso che questo isomero produce (si fa riferimento an-che agli effetti del trans10, cis12 sulla composizione corporea), appare contraddittorio, ad esem-pio, che durante il periodo di finissaggio dei bovini da carne si verifichi l’aumento della massa muscolare e del grasso intramuscolare. Probabilmente la quantità di CLA necessaria per inibire la sintesi del grasso del latte è molto inferiore a quella che occorre per ridurre lo sviluppo cor-poreo dell’animale a causa della elevata sensibilità del tessuto mammario (Pariza et al., 2001).

Effetto della dieta sul profilo in acidi grassi

Le caratteristiche della razione influenzano sostanzialmente il profilo in acidi grassi del latte (Antongiovanni et al., 2003; Chilliard et al., 2007; 2003; 2001). Le razioni per gli anima-li da latte, con particolare riferimento alle bovine ad elevata produzione, sono caratterizzate dall’impiego di elevati apporti di concentrati energetici, soprattutto cereali. Queste materie prime determinano un arricchimento nel latte degli acidi grassi della serie n6, peggiorando il rapporto n6:n3, che in una corretta alimentazione dovrebbe variare da un minimo di 5:1 ad un massimo di 10:1. Il latte ottenuto da animali allevati al pascolo è caratterizzato da un rap-porto fra queste due famiglie di acidi grassi molto più equilibrato (Bailoni et al., 2005). L’uso del pascolo implica inoltre un miglior rapporto SFA/UFA, con una riduzione della quota di acidi grassi saturi a favore della frazione di polinsaturi, favorevole alla salute del consumato-re (Bugand et al., 2001; EFSA 2008).

Per quanto riguarda il contenuto di CLA nel grasso del latte, le due principali vie metabo-liche di sintesi sono, a livello ruminale, la produzione di questi isomeri a partire dall’LA di origine alimentare e, a livello mammario, l’attività della Δ9 desaturasi. L’alimentazione gioca un ruolo essenziale nel favorire o meno i processi di sintesi di CLA che avvengono nel rumine e, di conseguenza, gli alimenti per i ruminanti possono essere suddivisi in diverse categorie a seconda della modalità con le quali favoriscono l’incremento di queste sostanze nel rumi-

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ne. Il primo gruppo include tutti quei fattori dietetici che contribuiscono alla produzione del CLA e del trans11 C18:1 nel rumine; il secondo, invece, raggruppa quelli che alterano l’am-biente ruminale e quindi interferiscono con la flora batterica; infine, il terzo è costituito dagli alimenti che, combinati con altri, per ottenere una dieta bilanciata, offrono un pool di lipidi tali da modificare la popolazione batterica (Bauman et al.,1999).

Il foraggio fresco contiene una percentuale molto bassa (1-3%) di lipidi grezzi, sottoforma di glicolipidi e fosfolipidi, e di questi solo una parte, peraltro molto variabile (dal 20 al 60%), è rappresentata dagli acidi grassi. Alcuni studi in vitro hanno mostrato che i glicolipidi ven-gono idrolizzati e ridotti dai batteri ruminali in maniera analoga ai trigliceridi (Bauman et al., 1999; Kelly et al., 1998). Una dieta basata prevalentemente sul pascolamento, e quindi sull’as-sunzione di erba fresca, modifica sostanzialmente il profilo in acidi grassi del latte rispetto ad una dieta unifeed, che prevede l’assunzione di elevate quantità di concentrati (Cabiddu et al., 2005). Un elevato (o esclusivo) consumo di foraggi favorisce la crescita microbica ruminale dei batteri cellulosolitici, che provvedono, con una velocità dipendente dallo stato di lignifi-cazione della fibra, ad attaccare la componente lipidica e favorire l’idrogenazione degli acidi grassi insaturi presenti. Il latte proveniente da bovine alimentate con foraggio fresco è carat-terizzato da un abbassamento della percentuale di acidi grassi saturi a media-lunga catena (dal C12 al C16) e da un aumento della frazione insatura (UFA) (Kelly et al., 1998). Il principale acido grasso presente nel foraggio fresco è l’acido alfa-linolenico (αLNA, cis9 cis12 cis15 C18:3) che nel rumine viene idrogenato ad acido stearico (SA, C18:0). Dal momento che la bioidrogenazione non è mai completa, nel latte si trasferisce una quota di αLNA, di acido vaccelenico (VNA, trans11 cis15 C18:2) e di acido vaccenico (VA, trans11 C18:1) che sono intermedi del processo di bioidrogenazione dell’αLNA stesso, ed aumenta l’acido oleico per effetto della desaturazione dell’SA nel tessuto mammario. Il contenuto di CLA aumenta no-tevolmente, quando le vacche sono alimentate al pascolo, come è stato dimostrato dai risul-tati del confronto fra diete contenenti foraggio fresco o fieno con la stessa quantità di grasso (Chilliard et al., 2003; Kelly et al., 1998; Lee et al., 2002).

Anche lo stadio vegetativo del foraggio sembra influenzare la concentrazione di CLA; con foraggi tagliati precocemente e appartenenti ai primi tagli la quantità di questi acidi gras-si nel latte aumenta rispetto a quando nell’alimentazione delle bovine da latte si includono foraggi più maturi o di tagli successivi (Chouinard et al., 1998). Inoltre, il tasso di CLA nel latte è più elevato in primavera ed in autunno e più basso durante le altre stagioni (Mele e Banni, 2010); anche gli altri acidi grassi presentano variazioni stagionali nel latte di pecora (Mele, 2009). Va comunque sottolineato che la composizione quali-quantitativa della frazio-ne lipidica del foraggio fresco non sembra spiegare completamente l’effetto esercitato sulla concentrazione di isomeri dell’acido linoleico coniugato. Probabilmente esistono degli effet-ti sinergici fra il substrato lipidico ed altre componenti presenti nell’alimento in esame che possono interagire con le fermentazioni ruminali.

In letteratura sono riportati alcuni lavori (Lucas et al,. 2006) che dimostrano che pascoli più maturi favoriscono meno l’incremento della quota di acidi grassi polinsaturi, probabilmen-te a causa del minor contenuto in αLNA (Cabiddu et al., 2010). Collomb et al. (2002) hanno messo in evidenza come le specie floristiche presenti nel pascolo e l’altitudine a cui esso si trova, possono influenzare la presenza di PUFA nel latte. Questi autori individuano ben 7 spe-cie botaniche (Veronica chamaedrys, Festuca pratensis, Poa trivialis, Phleum pratense, Hol-cus lanatus Ranunculus acris friesianus e Ranunculus ficaria) correlabili positivamente alla presenza di acidi grassi saturi mentre altre tre specie (Leodontus hispidus, Lotus corniculatus, Trifolium pratense) favoriscono la produzione di CLA e di PUFA. Altri autori riportano che la Sulla (Haedisarium c.) e il Crisantemo (Chrisantemum c.) incentivano la sintesi di LNA e VA rispettivamente (Cabiddu et al., 2009; Mele, 2009).

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Anche la presenza di sostanze polifenoliche come i tannini, di cui sono ricche legumino-se come la sulla, interferendo con le bioidrogenazioni ruminali da un lato e complessando la proteina alimentare a livello ruminale dall’altro, sono in grado di modificare la qualità della frazione lipidica che arriva all’intestino per essere assorbita.

Rispetto a quello fresco, il foraggio essiccato contiene una minor quota di PUFA a causa dei fenomeni ossidativi (circa il 70% in meno sul totale in acidi grassi), che iniziano imme-diatamente dopo il taglio in campo e procedono intensamente durante la fase di essiccazione. Inoltre, durante l’affienamento si può perdere una quota di foglie che rappresentano la parte botanica della pianta più ricca in acidi grassi.

La quota di PUFA diminuisce ulteriormente se il foraggio viene sottoposto all’insilamen-to, processo durante il quale i fenomeni ossidativi sono più intensi. In letteratura è riportato che il tasso di trasferimento di LNA e di LA dalla dieta al latte diminuisce quando le bovi-ne sono alimentate con foraggio insilato rispetto a quelle che ricevono il medesimo foraggio essiccato (Chilliard et al., 2007). Questo andamento si riflette anche sulle altre componen-ti in acidi grassi ad alto valore nutraceutico come l’RA ed il VA. Risultati più favorevoli ri-guardo al profilo acidico del latte si possono ottenere se l’insilato è ottenuto da leguminose, probabilmente a causa del maggior contenuto in LNA o per l’attività delle polifenolossidasi che riducono il processo lipolitico ruminale, pre-requisito della successiva bioidrogenazione. L’insilato di mais, invece, con una bassa concentrazione di LNA, poiché la granella è partico-larmente ricca in LA, non arricchisce particolarmente la quota nutraceutica degli acidi grassi nel latte, contribuendo al contrario a quella frazione di isomeri del CLA che si forma prefe-ribilmente con la diminuzione del rapporto foraggio/concentrato. La sostituzione dell’insila-to d’erba con quello di mais porta ad un aumento della frazione di acidi grassi saturi a media catena, del trans10 C18:1 e dell’RA e ad una diminuzione del C18:0, dell’acido oleico (OA), trans15 C18:1 qualora questa base foraggiera sia integrata con olio di girasole, mentre se l’olio è di colza l’OA aumenta unitamente al trans10 C18:1 con conseguente abbassamento del tenore in grasso del latte.

Variazioni sul contenuto di VA possono essere correlate alla diminuzione del pH rumina-le (e quindi ad una modificazione della popolazione batterica) che si verifica quando la dieta è caratterizzata da un elevato tenore di concentrati e un basso livello di fibra “strutturata”; l’aggiunta di tamponi, che contribuiscono a mantenere il pH entro valori normali, provoca una diminuzione della sintesi dei trans10 C18:1 (Griinari et al., 1998). In realtà, non è facile riu-scire a distinguere l’effetto dell’abbassamento del pH da quello offerto dalla variazione qua-litativa del substrato lipidico. In letteratura ci sono, infatti, esempi contraddittori in cui diete sbilanciate verso un maggior contenuto di concentrato hanno indotto sia un aumento che una diminuzione di trans11 C18:1 (Griinari et al., 1998, Chouinard et al., 1998). Confrontando diete con uguale composizione lipidica è stato dimostrato che l’abbassamento del pH rumina-le non induce alcuna variazione quantitativa degli acidi trans-ottadecenoici, ma all’interno di questo gruppo di isomeri si ha un’importante variazione che consiste nella diminuzione della sintesi del vaccenico a favore del trans10 C18:1 che diventa l’acido predominante (Griinari 2001; Griinari e Bauman, 1999; Griinari et al., 1998).

Per soddisfare i fabbisogni energetici degli animali in lattazione, specialmente nel pe-riodo in cui vi è la fisiologica mobilizzazione delle riserve endogene a causa del deficit energetico che si viene a creare durante la fase iniziale della lattazione, è possibile utiliz-zare nella razione dei supplementi lipidici, che oltre a fornire energia all’animale, posso-no modificare il profilo in acidi grassi del latte in funzione della qualità del supplemento utilizzato (tabella 1).

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Tabella 1. Principali alimenti o supplementi lipidici utilizzati per modificare la frazio-ne lipidica.

Alimento/supplemento Acido grassoolio di soia, soia integrale (cruda>micronizzata>estrusa), semi estrusi di girasole e di colza LA

foraggio fresco, olio di soia, olio di lino, saponi di calcio di olio di soia o di colza, olio di pesce CLA

foraggio fresco di leguminose, olio di lino, semi di lino estruso LNAolio di soia, olio di lino VAsego bovino, olio di soia o di lino SAolio di lino, olio di colza, olio di girasole ad alto oleico, saponi di calcio dell’olio di oliva, semi di colza, semi di lino, semi di girasole ad alto oleico OA

olio di palma, sego bovino PAolio di pesce EPA, DHA

Un aumento della quota di PUFA nella razione, con particolare riferimento all’LA, induce un arricchimento nel latte di questa frazione lipidica, non solo per effetto del by-pass rumina-le, ma anche perché alcuni di essi provocano un rallentamento delle neosintesi mammarie del grasso del latte, con conseguente riduzione della quota di acidi grassi saturi a media catena (C10:0-C16:0). Il profilo acidico e la forma con la quale si somministra il supplemento lipi-dico gioca quindi un ruolo importante sul profilo acidico del latte; l’integrazione delle razio-ni con oli, semi oleaginosi integrali, saponi di calcio ed altre forme di lipidi rumino-protetti può determinare un diverso profilo acidico nel latte. Ad esempio, alcuni lavori hanno messo in evidenza che l’introduzione di soia estrusa determina un minor incremento della concen-trazione di LA nel latte rispetto a quella cruda o micronizzata, probabilmente perché il pro-cesso di estrusione favorisce il rilascio dell’olio dalla matrice vegetale e, di conseguenza, la bioidrogenazione dell’LA non viene impedita a livello ruminale (Chouinard et al., 1997a; b). Risultati opposti vengono ottenuti con i semi di girasole o di colza per i quali l’estrusione au-menta il LA nel latte.

Studi effettuati su vacche in lattazione hanno mostrato che la percentuale di CLA nel latte è proporzionale alla presenza di CLA nella razione (tabella 2).

Diete contenenti integratori a base di CLA, sotto forma di isomeri cis, trans 8/10, 9/11, 10/12 e 11/13, hanno evidenziato una notevole efficienza di trasferimento nel latte dell’intero pool di questi acidi grassi (Chouinard et al., 1999a; b). Come nel caso dei PUFA, anche per il trasferimento dei CLA nel latte, la barriera da superare è rappresentata dal rumine; mediante infusioni abomasali con integratori di CLA al 60% è stato ottenuto il trasferimento di circa il 50% di questo acido nel latte (Chin et al., 1992). Un’ottima resa nel trasferimento di questo acido grasso nel latte è stata ottenuta mediante l’incapsulamento in una matrice proteica che, come noto, protegge gli acidi polinsaturi dalle eventuali riduzioni (Gulati et al., 2000). I sup-plementi lipidici particolarmente ricchi in LA favoriscono la sintesi del CLA, perché questo acido grasso, quando è presente in quantità elevata nell’ambiente ruminale, inibisce la ridu-zione del VA, che in ghiandola mammaria viene nuovamente desaturato.

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Tabella 2. Relazione fra acidi grassi ingeriti con la dieta ed isomeri del C18:1 e CLA del latte.

Acido grassodella dieta

Isomeri C18:1 del latte

Isomeri del C18:2 del latte

Fonte bibliografica

C18:1 cis9 t6, t7, t8 t7 c9 Secchiari et al., 2003;Collomb et al., 2004

C18:2 n6 t6, t7, t8, t9, t10, t12 t10 t12, t9t11, t8t10, t7t9, t10c12, t9c11, t8c10, t7c9,

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Shingfield et al., 2008;Loor et al., 2005b;Roy et al., 2006;Collomb et al., 2004

EPA-DHA c11, t6, t7, t8, t9, t10, t12, t13, t14

t11c15 Shingfield et al., 2003;Loor et al., 2005a;Loor et al., 2005c

Prove in vivo hanno dimostrato che la risposta è dose dipendente. Esperimenti in vitro, invece, sono serviti a chiarire il meccanismo di azione; sembrerebbe che il LA agisca sui batteri che sono preposti a ridurre il VA, come inibitore di competizione nella bioidroge-nazione del monoene. L’integrazione delle diete con piante oleaginose come il girasole, la soia, il colza ed il lino favorirebbero l’aumento di CLA nel grasso del latte; la granella e l’insilato di mais, ottenuti da varietà ad alto contenuto in olio, hanno invece un effetto po-co significativo (Harfoot et al., 1973). Alimentando vacche da latte con razioni contenenti olio di lino (4.4% s.s.) o olio di soia (4% s.s.) si osserva un aumento del CLA rispetto al controllo di 12.4 e 15.8 mg/g di grasso rispettivamente. L’olio di lino o il lino estruso favo-riscono, inoltre, l’incremento di LNA. Una supplementazione con 300 g/d di olio di gira-sole, invece, contribuisce ad un innalzamento dello 0.3% di questo acido (Shingfield et al., 2005); effetti maggiori si hanno quando, unitamente a questo supplemento, viene aggiun-to del tampone carbonato, oppure il supplemento è sotto forma di sali di calcio (Jahreis et al., 1999b). Un sostanziale incremento si verifica, invece, quando vengono utilizzati semi trattati con processi di estrusione, micronizzati o tostati (Secchiari et al., 2001; Choinard et al., 2001). I semi integrali non modificano la concentrazione di CLA, perché gli acidi grassi contenuti all’interno non sono accessibili ai batteri, che quindi non possono attuare alcuna trasformazione. Prove di alimentazione condotte su vacche alimentate con semi estrusi di soia o cotone (12% s.s.) mostrano un aumento del CLA dal 3.4% del gruppo controllo al 6.9% e 6.0% rispettivamente per il gruppo soia e cotone (Dhiman et al., 1998). Collomb et al. (2004) mette in evidenza come il profilo degli isomeri del CLA varia sostanzialmente in funzione del tipo di seme di oleaginosa che viene utilizzato nella razione per bovine in lattazione (tabella 3).

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Tabella 3. Integrazioni nella dieta e distribuzione dei CLA nel latte (Collomb et al. 2004, adattata).

mg/100 g acidi grassi Controllo Semi di colza Semi di girasole Semi di linocis-9, trans-11 459 617 842 547cis-11, trans-13 1 1 1 2cis-12, trans-14 2 4 3 14trans-7, cis-9 18 74 63 37trans-8, cis-10 9 12 25 14trans-10, cis-12 2 4 7 3trans-11, cis-13 10 12 14 26trans-6, trans-8 2 2 1 1trans-7, trans-9 7 7 7 7trans-8, trans-10 3 3 5 2trans-9, trans-11 6 8 10 9trans-10, trans-12 6 6 10 6trans-11, trans-13 6 10 8 26trans-12, trans-14 3 5 3 15

L’impiego dell’olio di pesce, ricco in PUFA, nelle razioni destinate alle bovine aumenta la concentrazione di CLA nel latte a causa del suo effetto inibitore sulla bioidrogenazione ruminale, del tutto analogo a quello esercitato dal LA con conseguente accumulo di VA. Il medesimo comportamento non si osserva, però, in prove sperimentali in cui l’olio di pesce è sostituito con l’EPA ed il DHA puri, e questo porta all’ipotesi che nell’olio di pesce ci può essere qualche altro fattore che contribuisce a inibire la bioidrogenazione (Shingfield et al., 2003). Quindi è da presupporre che, nel caso dell’utilizzo di questo integratore lipidico, i CLA sintetizzati provengano per la maggior parte dalla desaturazione dell’acido trans11 ottadecenoico nel tessuto mammario (Chilliard et al., 1999). La supplementazione con olio di pesce comporta un aumento della quota dei trans C18:1, specialmente del trans11, con conseguente incremento del RA e del trans10, che indurrebbe, secondo alcuni autori, una riduzione della sintesi del grasso del latte (Chilliard et al., 2001; Bauman e Griinari, 2001; Shingfield et al., 2005; 2006). Gli effetti dell’integrazione con olio di pesce in razioni per animali in produzione zootecnica, in generale provoca un’alterazione della componente aro-matica che nel latte diventa particolarmente sgradevole. Pertanto l’impiego di questo sup-plemento lipidico non è molto consigliabile. Per le bovine da latte esiste anche una risposta legata non solo al rapporto foraggio/concentrato ed alla qualità del supplemento lipidico in quanto tali, ma anche alla combinazione di questi due fattori che incidono sulla persistenza nella produzione del RA.

Un altro fattore che può indurre delle variazioni nel profilo acido del latte è costituito dall’uso in alimentazione animale degli ionofori, che inibiscono la crescita dei batteri gram-positivi coinvolti nelle bioidrogenazioni, come il Butirivibrio fibrisolvens. L’aggiunta di que-sti composti alla dieta di bovine da latte sembrerebbe inibire la riduzione del LA favorendo l’accumulo di VA. Su questo argomento, però, i dati riportati in letteratura sono abbastanza contraddittori. L’ipotesi più probabile è che tale comportamento sia correlabile alla capaci-tà che i batteri ionoforo-resistenti hanno nel sostituire quelli sensibili (Bauman et al., 1999).

Non vi sono effetti della dieta, invece, sul contenuto di acido butirrico (BA, C4:0) perché la presenza di questa molecola nel latte non è legata alla sintesi endomammaria per elongazione dell’acetil-CoA, ma dalla degradazione del malonil-CoA e dal β-idrossibutirrato.

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Effetto della stagione e della specie animale sulla percentuale di grasso e sul profilo acidico

Altri fattori di variazione del contenuto di grasso del latte e della sua composizione qua-litativa sono la stagione e la specie animale. Riguardo al primo aspetto, è stato osservato che il latte ottenuto da vacche allevate in stalla con una dieta a base di foraggi affienati è carat-terizzato da un contenuto di CLA inferiore di circa la metà rispetto a quello proveniente da vacche che fanno largo uso del pascolo durante l’anno, come frequentemente avviene nelle aziende biologiche (0.34 e lo 0.80 degli acidi grassi totali rispettivamente; Jahreis et al., 1997).

Studi analoghi condotti invece sulle capre da latte hanno evidenziato che in questa specie le variazioni di CLA sono poco significative al variare della stagione e che il quantitativo di questi acidi grassi nel latte è inferiore rispetto alle vacche. Probabilmente questo compor-tamento potrebbe essere spiegato dalla differente capacità di sintesi del grasso del latte che contraddistingue le due specie ruminanti. Il latte di pecora, invece, è quello che mostra la più elevata concentrazione di CLA, come dimostrano alcune prove di alimentazione condotte con-temporaneamente su vacche, capre e pecore alimentate con gli stessi foraggi e concentrati nel rispetto del fabbisogno di ciascuna specie (Jahreis et al., 1999b). In figura 1 sono riportate le oscillazioni del contenuto in CLA per le tre specie di ruminanti.

Questi risultati potrebbero essere spiegati considerando un migliore adattamento del bat-terio Butirivibrio fibrisolvens nel liquido ruminale ovino (Jahreis et al., 1999a;b). In tutti i mammiferi, sia ruminanti che monogastrici, l’andamento del VA e dell’RA segue lo stesso trend vista la forte correlazione che esiste fra questi due acidi grassi.

Figura 1. Variazione stagionale di CLA nel latte ottenuto da specie diverse (Jahreis et al., 1999b)

Nei monogastrici i CLA, principalmente il RA, variano dallo 0.07 allo 0.71% degli acidi grassi totali; nel latte umano la percentuale è contenuta fra lo 0.29% ed lo 0.71% e la concen-trazione massima viene raggiunta nel caso delle donne consumatrici di quantità elevate di latte vaccino. Il latte di cavalla è quello che presenta la più bassa concentrazione di CLA (fra 0.07 e 0.10) dimostrando, così, che i batteri presenti nell’intestino cieco dei cavalli danno un contri-buto assai limitato alla sintesi. In ultimo, nel latte di scrofa il contenuto di CLA, pur rimanendo inferiore a quello dei ruminanti (fra lo 0.15% e lo 0.31%), è superiore a quello di cavalla forse a causa delle differenze nella dieta dei suini rispetto a quella degli equini (Jahreis et al., 1999a).

Oltre a variazioni di tipo quantitativo, le differenti specie di ruminanti mostrano anche va-riazioni nella composizione dei diversi isomeri di acido linoleico (tabella 4).

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Tabella 4. Distribuzione degli isomeri di CLA (g/100g di CLA) nel latte di tre specie (adattata da Shingfield et al., 2008).

Isomero Bovini Caprini Ovinicis-8, trans-10 <0.01-1.70 <0.01 NRcis-9, trans-11 65.6-88.9 62.1-75.1 80.0-80.9cis-11, trans-13 <0.01-0.23 0.16-0.69 NRcis-12, trans-14 <0.01-1.06 0.00-0.13 1.69-1.83trans-7, cis-9 2.63-9.49 4.57-11.7 5.96-6.08trans-8, cis-10 <0.01-2.33 1.85-3.48 NRtrans-9, cis-11 <0.01-3.93 <0.01-4.21 NRtrans-10, cis-12 <0.01-1.61 <0.01-0.90 0.55-0.57trans-11, cis-13 0.06-9.33 0.22-0.48 2.14-2.38 trans-6, trans-8 <0.01-1.40 0.12-1.91 <0.01trans-7, trans-9 0.02-2.80 0.42-1.08 0.40-0.42trans-8, trans-10 0.19-0.67 0.36-1.47 0.34-0.42trans-9, trans-11 1.31-3.23 2.99-5.77 1.40-1.60trans-10, trans-12 0.31-1.40 0.76-4.16 0.53-0.85trans-11, trans-13 0.89-6.00 0.58-1.14 3.04-3.18trans-12, trans-14 0.35-3.55 0.72-1.90 1.90-2.20trans-13, trans-15 <0.01-0.16 <0.01 NR

È importante sottolineare come in queste valutazioni giochi un ruolo fondamentale la varia-zione individuale, la razza dell’animale, l’età e l’ordine di lattazione. Bovine di età più avan-zata ed oltre il quarto ordine di lattazione producono più CLA nel latte rispetto a soggetti più giovani (Jahreis et al., 1999b).

Effetto della razza sulla percentuale di grasso e sul profilo in acidi grassi

In letteratura è riportato un effetto della razza sul contenuto di CLA nel latte sia per le vac-che che per le pecore. Lavori di Lawless et al. (1999) e White et al. (2001) confermano che esistono delle differenze nella composizione del grasso del latte fra bovine di razza Frisona e Jersey, e fra Frisona e Montbelliard. Anche per gli ovini da latte è possibile osservare delle differenze fra razze, anche se i lavori pubblicati sono molto meno numerosi: la Garfagnina e la Massese sembrano essere migliori produttrici di RA rispetto alla Sarda, probabilmente a causa di una maggiore efficienza della Δ9 desaturasi nella conversione del VA ad RA nel tes-suto mammario (Secchiari et al., 2002).

Effetto dello stadio di lattazione sulla percentuale di grasso e sul profilo in acidi grassi

Il tenore in grasso del latte non è costante nel corso della lattazione, ma mostra valori più bassi in corrispondenza del picco (ad es. a 2-3 mesi dal parto per le bovine), per poi aumen-tare in modo progressivo e costante con il procedere della lattazione.

Anche il profilo in acidi grassi è influenzato dallo stadio di lattazione. Durante il primo pe-riodo della lattazione la bovina è in deficit energetico e mobilita le riserve endogene liberan-do nel flusso ematico acidi grassi a catena lunga (prevalentemente C18:0 e cis9 C18:1) che arrivano nel tessuto mammario. In questo modo il latte si arricchisce di acidi grassi a catena

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lunga e si impoverisce di quelli a catena media. Nella capra, invece, si osserva nella prima fa-se della lattazione un arricchimento in PA.

Effetto dell’ordine di parto sulla percentuale di grasso e sul profilo acidico

Anche l’età degli animali (numero di lattazioni) può influenzare il contenuto lipidico con una tendenza ad aumentare sino ad una determinata età dell’animale (3a e 4 a lattazione), per poi diminuire progressivamente ; un andamento simile è seguito dalla percentuale di CLA nel latte (Jahreis et al., 1999b).

Effetto del management e dell’ambiente sulla percentuale di grasso e sul profilo in acidi grassi

La frequenza e le distanze fra le diverse mungiture giornaliere possono avere degli effet-ti sulla percentuale di grasso del latte. Una mungitura incompleta ed un intervallo irregolare tra le mungiture influenzano negativamente il tenore lipidico. Tutti i fattori di ordine mana-geriale che possono essere ridurre le condizioni di benessere degli animali (ad es. condizioni ambientali non ottimali, cuccette non idonee ecc.) causano una significativa contrazione della produzione di grasso (Jahreis et al., 1997; Alais, 1988).

LA COMPONENTE LIPIDICA DEI FORMAGGI

Il profilo in acidi grassi del formaggio rispecchia fondamentalmente quello del latte con il quale esso è prodotto (Bucccioni et al., 2010; Nudda et al., 2005). In tabella 5 vengono ripor-tati i dati di contenuto di grasso e di colesterolo di alcuni formaggi DOP italiani (Manzi et al., 2007): come si può vedere, anche considerando esclusivamente i formaggi DOP, la variabilità di questi parametri è notevole. In tabella 6 invece si riporta la percentuale di lipidi e il tenore di acidi grassi saturi di alcuni formaggi italiani (Ronzani, 2011).

Tabella 5. Quantità e qualità della frazione lipidica nei formaggi DOP italiani.

N. formaggi Media Minimo Massimo DSGrasso (g/100 g) 33 30.98 13.2 39.9 5.11Colesterolo (mg/100 g) 33 91.07 49.4 109.9 12.82

Tabella 6. Contenuto di lipidi e acidi grassi saturi in alcuni derivati del latte (Ronzani, 2011).

Lipidi (mg/100 g) Acidi grassi saturi (mg/100 g)Certosino 22.0 13.6Emmenthal 30.6 18.4Fontina 26.9 14.7Gorgonzola 27.1 13.1Grana Padano 28.5 17.5Latteria 36.4 22.5Mozzarella 19.5 10.1Parmigiano Reggiano 28.1 18.5Ricotta 10.9 6.82Stracchino 25.1 15.5

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Il formaggio pecorino assume una particolare importanza nel panorama dei formaggi italiani non solo per il maggior contenuto in grasso (e conseguentemente di acidi grassi) ma anche per gli effetti che la flora microbica ha sul profilo lipidico durante la stagionatura. Infatti nel formag-gio di pecora prodotto da latte pastorizzato, dove la flora microbica è sotto controllo qualitati-vo, l’RA aumenta del 10% entro i primi 60 giorni di maturazione a scapito del contenuto degli altri isomeri (Buccioni et al., 2010). Un andamento completamente opposto viene osservato se si parte da latte crudo, dove la flora microbica tende a provocare la bioidrogenazione dei CLA con conseguente aumento di SA nel formaggio (Buccioni et al., dati non pubblicati).

Il contenuto di colesterolo nel latte e nel formaggio

Il colesterolo nel latte rappresenta circa il 99,7% degli steroli ma è sempre accompagna-to da fitosteroli che provengono dall’alimentazione animale. La sua concentrazione si aggi-ra sugli 11 mg per 100 g di latte intero pari a 300 mg/100 g di grasso del latte, di cui circa il 90% è legato agli acidi grassi ed il rimanente 10% in forma libera. Più che all’alimentazione degli animali in lattazione, la presenza del colesterolo nel latte è legata alla quantità di grasso presente nel latte stesso. I processi di caseificazione influenzano molto poco la presenza di colesterolo nella frazione lipidica del formaggio. Fa eccezione la ricotta perché è ottenuta dal siero, ricco in globuli di grasso dove il colesterolo, assieme ai fosfolipidi, è adeso alla mem-brana che riveste il globulo medesimo; per questo, la ricotta è particolarmente ricca di cole-sterolo (può arrivare a concentrazioni anche doppie rispetto a quelle del latte) (INRAN, 2011).

LA COMPONENTE PROTEICA NEL LATTE

Uno dei principali obiettivi delle sperimentazioni effettuate sulla qualità del latte, ottenuto dalle specie di interesse zootecnico, riguarda l’aumento del tenore proteico del latte alimenta-re e della resa casearia, per quello destinato alla produzione di formaggi. Oltre ad influenzare il prezzo del latte “alla stalla”, il tenore proteico del latte è oggetto di continuo monitorag-gio da parte degli alimentaristi, in quanto una marcata riduzione della componente proteica può essere associata a squilibri tra carboidrati fermentescibili e composti azotati nella dieta e a fenomeni di ipofertilità e di altre dismetabolie nelle bovine (Dell’Orto e Savoini, 2005).

È ampiamente risaputo che il tenore proteico e il profilo caseinico del latte sono influenzati sia da aspetti alimentari (anche se in misura minore rispetto alla componente lipidica) che da fattori non nutrizionali, quali ad esempio la specie animale, la razza, lo stadio di lattazione, l’ordine di parto/lattazione e diversi fattori manageriali e ambientali (Rook, 1961; DePeters e Cant, 1992; Kennelly et al., 2005).

Effetto della dieta sulla percentuale e sulla qualità della proteina

La componente del latte che è possibile modificare molto più efficacemente attraverso la dieta è sicuramente la frazione lipidica, come ampiamente riportato in questa review; tuttavia anche il tenore proteico viene influenzato dalla razione somministrata (Kesler e Spahr, 1964; McCrae et al., 1987; Sutton, 1989; DePeters e Cant, 1992). Dell’Orto e Savoini (2005) indicano che la razione può indurre variazioni del tenore proteico del latte bovino di alcuni punti decimali (da 0.1 a 0.4%).

In tutte le specie di interesse zootecnico il contenuto proteico del latte tende ad essere cor-relato positivamente con il tenore energetico della razione e, conseguentemente, con l’inciden-za dei concentrati nella dieta (Emery, 1978; Thomas, 1983; Alais, 1988; Sutton, 1989; Boc-quier e Caja, 2001). In particolare la somministrazione di diete altamente energetiche (15:85 come rapporto tra foraggio e concentrato) a ovini da latte ha favorito un aumento del tenore proteico del latte, correlato probabilmente ad un migliore equilibrio tra fonti di glucidi fer-

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mentescibili e di azoto a livello ruminale, che ha consentito un miglioramento della sintesi di proteina batterica (Susin et al., 1995). Tuttavia non sempre i risultati riportati in bibliografia sono concordi: alcuni autori (Gordon e Forbes, 1970; Sutton et al., 1987) non hanno osser-vato effetti significativi sul tenore proteico del latte derivanti dall’aggiunta di concentrati alla razione, mentre altri (Grant e Patel, 1980) riportano addirittura un effetto negativo, con ridu-zioni significative del tenore proteico e caseinico del latte.

L’inclusione di grassi nella razione sembra comportare invece una riduzione del tenore proteico e caseinico del latte (Emery, 1978; Sporndly, 1989), indipendentemente dal fatto che i lipidi siano rumino-protetti o non (Bines et al., 1978; DePeters et al., 1989; DePeters and Palmquist, 1990). Dell’Orto e Savoini (2005) indicano tuttavia che i lipidi non protetti posso-no comportare effetti negativi più evidenti poiché possono esercitare un’azione sfavorevole sull’attività di molti batteri ruminali, riducendo sensibilmente le sintesi proteiche. È invece riconosciuto che l’aggiunta di fonti lipidiche alla dieta comporta generalmente un incremen-to della produzione di latte, con un effetto positivo sulla quantità di proteina del latte sintetiz-zata a livello ruminale ed endogeno (DePeters e Cant, 1992). La variazione è probabilmente legata al tipo di grassatura introdotta nella dieta e alla specie animale. Nelle pecore si osserva una diminuzione del contenuto proteico quando vengono introdotte grassature nella razione, anche se rumino protette (Antongiovanni et al., 2002).

Viceversa, l’inclusione di fonti proteiche nella razione non sembra modificare significa-tivamente il tenore proteico del latte di diverse specie (Thomas, 1980, 1983; Cannas et al., 1998; Bocquier e Caja, 2001), sebbene siano state osservate differenze in relazione al tipo di fonte proteica utilizzata (Pulina et al., 2006). Infatti, un ruolo importante sulla sintesi di pro-teina nel latte è giocato dal profilo aminoacidico della proteina somministrata con la razione, dalla quale dipende fortemente la quantità e la qualità degli aminoacidi disponibili per l’as-sorbimento a livello duodenale e potenzialmente utilizzabili dalla ghiandola mammaria per la sintesi della proteina del latte. Diverse fonti bibliografiche (Rulquin et al., 1993; NRC, 2001) riportano che, ai fini di massimizzare la sintesi proteica nel latte, la quota ottimale di aminoa-cidi limitanti (lisina e metionina) deve essere pari rispettivamente al 7.2-7.3% ed al 2.4-2.5% del totale delle proteine assorbibili a livello duodenale.

In conclusione, le principali strategie alimentari che possono essere adottate al fine di mi-gliorare la quantità e la qualità della proteina disponibile a livello duodenale, quindi poten-zialmente assorbibile dalla ghiandola mammaria ed utilizzabile per la sintesi di proteina nel latte, sono le seguenti: i) un aumento della concentrazione energetica della razione (maggiore disponibilità di carboidrati fermentescibili), in modo da stimolare la sintesi di proteina batte-rica da parte dei microorganismi ruminali; ii) un adeguato apporto di proteina nella dieta, in particolare del rapporto fra quella degradabile e by-pass a livello ruminale (ottimale 65:35); iii) utilizzo di fonti proteiche caratterizzate da un elevato valore biologico oppure impiego di aminoacidi rumino-protetti (principalmente lisina e metionina).

Un altro importante aspetto da considerare per quanto riguarda il tenore proteico del latte è che la tipologia di razione somministrata agli animali è strettamente correlata alla forma di allevamento (intensiva, semi-intensiva, estensiva, biologica, ecc.) e al tipo di stabulazione (fis-sa, libera,uso del pascolo, ecc.). Ad esempio, l’effetto del pascolo sul contenuto proteico del latte risulta poco chiaro: alcuni autori (Brun-Bellut et al., 1985) riportano che il pascolamento favorisce un aumento del tenore proteico del latte, mentre altri (Zemp et al., 1989; Bovolenta et al., 1998; Berry et al., 2001) sostengono che la monticazione abbia un effetto negativo sul contenuto proteico e caseinico del latte e sulla sua resa casearia. Questi autori attribuiscono tale effetto ad un possibile stato di carenza energetica della bovina, che si ripercuote negati-vamente sulla quantità di nutrienti trasferiti nel latte. Una review bibliografica su questo argo-mento (Bargo et al., 2003) conclude che il pascolo è in grado di migliorare il tenore proteico del latte se la razione a base di erba fresca è opportunamente integrata con concentrati, per

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evitare un bilancio energetico negativo e un ridotto trasferimento di nutrienti nel latte. Anche la forma di allevamento può condizionare significativamente il tenore proteico del latte. A questo riguardo Lund (1991) ha osservato un superiore tenore proteico e caseinico del latte in campioni prelevati da allevamenti biologici rispetto a quelli ottenuti in aziende convenzionali.

Effetto della specie sulla percentuale e sulla qualità della proteina

Il tenore proteico del latte varia in modo molto ampio in funzione della specie animale (Alais, 1988). Tra le specie di interesse zootecnico, il latte più proteico risulta essere quello di coniglia (circa 13.5%), ma se si considerano esclusivamente le specie animali che produ-cono latte destinato all’alimentazione umana, il latte bovino e quello di capra presentano un contenuto medio di proteina nel latte pari in media rispettivamente al 3.5 e 4.0%. Contenuti di proteina sensibilmente inferiori sono riportati per il latte di cavalla (mediamente 2.2%) men-tre il latte di pecora e quello di bufala si collocano su valori decisamente superiori (in media rispettivamente 6.0 e 4.8%) (Alais, 1988).

Negli ultimi anni sta suscitando un crescente interesse il latte d’asina, come alimento alter-nativo per coloro che presentano intolleranze al latte bovino, ovino e caprino, e per i neonati, considerata la sua composizione chimica molto simile a quella del latte umano (Dello Iacono e Limongelli, 2010). Recenti studi (Salimei et al., 2004) condotti su asine di razza Ragusana e Martina Franca hanno evidenziato un contenuto di proteina nel latte d’asina pari a 1.72%.

Effetto della razza sulla percentuale e sulla qualità della proteina

Il tenore proteico del latte varia notevolmente in funzione della razza (tabella 7). Le bovi-ne Frisone producono un latte mediamente meno proteico (3.31%) rispetto ad altre razze spe-cializzate da latte, come ad esempio la Bruna (3.54%) o a duplice attitudine come la Pezzata Rossa (in media 3.43%), come risulta dai dati nazionali AIA relativi all’anno 2013.

Tabella 7. Composizione chimica del latte di specie e razze diverse (AIA, 2013).

Specie Capi controllati Latte (kg/capo) Grasso (%) Proteina (%)Bovina

Frisona 1130270 9072 3,66 3,31Bruna 91729 6976 3,97 3,54Pezzata Rossa 62160 6530 3,86 3,43Valdostana 13281 3739 3,49 3,33Rendena 4093 5115 3,43 3,30

Bufalina 56075 2218 8,30 4,70Ovina

Sarda 228853 204 6,0* 5,3*Comisana 33355 164 6,5* 5,2*Massese 6873 129 6,2* 5,3*Pecora delle Langhe 2627 144 6,5* 5,5*Altamurana 86 60 7,5* 6,5*

CaprinaSaanen 11528 509 3,21 3,18Camosciata delle Alpi 11418 479 3,37 3,22

*Fonte: ASSONAPA (2013)

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In generale, le razze cosmopolite specializzate per la produzione di latte (Holstein-Friesian, Brown-Swiss, Guernsey, Ayrshyre, ecc.) presentano un latte con titolo proteico mediamente inferiore rispetto alle razze locali (tabella 8), conseguentemente al miglioramento genetico che per molti anni ha avuto come principale obiettivo di selezione l’aumento del livello pro-duttivo, e, solo in misura secondaria e più recentemente, il miglioramento della composizione chimica e della qualità del latte. Parimenti in queste razze risulta mediamente inferiore la fra-zione caseinica, la più importante ai fini del processo di caseificazione. L’effetto della razza sul tenore in caseina del latte, sul polimorfismo delle frazioni proteiche e sulla conseguente resa casearia del latte è stato ampiamente studiato ed è riconosciuto (Pecorari et al., 1987).

Le principali razze ovine da latte del nostro Paese (Pecora delle Langhe, Massese, Leccese, Sarda, Comisana, ecc.) presentano un latte con tenore proteico molto variabile (compreso tra il 5,2 e il 6,5%; ASSONAPA, 2013). Considerazioni analoghe possono essere fatte per le razze caprine (Camosciata delle Alpi, Saanen, Garganica, Girgentana, Sarda, Maltese, ecc.), il cui latte presenta un tenore proteico mediamente compreso tra il 3,21 (Saanen) e il 4,5% (Sarda).

Tabella 8. Composizione chimica del latte di alcune razze negli Stati Uniti (Varga e Ishler, 2007).

Razza Grasso (%) Proteina (%)Ayrshire 3,85 3,15Brown Swiss 4,04 3,37Guernsey 4,51 3,37Holstein-Friesian 3,64 3,05Jersey 4,60 3,57

Fonte: USDA-AIPL (2005)

Effetto dello stadio di lattazione sulla percentuale e sulla qualità della proteina

Il tenore proteico del latte subisce importanti variazioni nell’arco della lattazione. È ampia-mente documentato in bibliografia che il contenuto proteico del latte è correlato negativamen-te con il livello produttivo dell’animale, indipendentemente dalla specie considerata (Thomas, 1983; Emery, 1988). Pertanto, il tenore proteico del latte, così come la frazione caseinica, ten-dono a decrescere dal parto fino al raggiungimento del picco di lattazione, per poi aumentare nel-le fasi successive, in corrispon-denza della diminuzione giorna-liera di latte prodotto (Waite et al., 1956; Rook, 1961; Ng-Kwai-Hang et al., 1984; 1985).

Nel latte ovino, la percentua-le di proteina e di caseine tota-li presentano andamenti mol-to simili con valori molto bassi all’inizio in corrispondenza del picco di lattazione, che aumen-tano fino a raggiungere i valori massimi nella fase di lattazione avanzata (figura 2).

Figura 2. Andamento della percentuale di proteina nel corso della lattazione di pecore di razza Massese (Pu-gliese et al., 1997)

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Effetto dell’ordine di parto sulla percentuale e sulla qualità della proteina

L’effetto dell’ordine di parto (o del numero di lattazione) sul tenore proteico del latte non è ancora molto chiaro. Robinson (2000) indica che il tenore proteico del latte bovino tende a ridursi nelle prime tre lattazioni, per poi stabilizzarsi intorno alla quarta/quinta lattazione. In accordo con questi risultati, Succi e Hoffmann (1997) osservano che gli animali giovani tendono a produrre un latte maggiormente proteico rispetto a quelli con più lattazioni, e che quindi una bassa età media della mandria può influire positivamente sul tenore proteico del latte prodotto. Più recentemente, Bailoni et al. (2005) riportano che, similmente a quanto ac-cade per il tenore proteico, anche la frazione caseinica del latte tende a diminuire dal punto di vista quantitativo con il procedere delle lattazioni.

Gli studi condotti sugli ovini evidenziano risultati contrastanti. Alcuni autori (Casoli et al., 1989; Dell’Aquila et al., 1993) hanno osservato un incremento del contenuto proteico all’au-mentare del numero di lattazioni, mentre altri hanno evidenziato un trend negativo (Ubertalle et al., 1990) oppure invariato (Wohlt et al., 1981). Nudda et al. (2003), in uno studio condotto su pecore di razza Sarda, hanno osservato un aumento significativo del contenuto proteico e caseinico del latte passando dalla prima alle lattazioni successive (tabella 9).

Tabella 9. Effetto dell’ordine di parto sulla quantità e sulla composizione chimica del latte di pecore di razza Sarda (Nudda et al., 2003).

Ordine di parto2 3 4 5

Latte (g/d) 1164a 1129a 1042b 975b

Grasso (g/l) 62.68A 68.50B 69.75B 67.40B

Lattosio (g/l) 44.70A 43.14B 44.21AB 44.08AB

Proteina (g/l) 52.20a 54.22b 55.31b 54.01b

Caseina (g/l) 41.75a 42.92ab 43.88b 43.21b

Proteine del siero (g/l) 10.45a 11.38ab 11.44b 10.72ab

a,b: P<0.05; A,B: P<0.01

Effetto del management e dell’ambiente sulla percentuale e sulla qualità della proteina

Molteplici studi dimostrano che la presenza di patologie della mammella (in particolare le mastiti) determina un peggioramento della qualità del latte, e, riguardo al tenore proteico, una diminuzione della frazione caseinica, un aumento delle proteine del siero ed una conse-guente minore resa casearia (Urech et al., 1999; Bugaud et al., 2001; Seegers et al., 2003). In uno studio condotto sul latte bovino, Harmon (1994) ha osservato una diminuzione del teno-re in caseina, associato ad un corrispondente aumento della quota di proteine del siero, in un latte mastitico (> 500000 cellule somatiche/ml) rispetto ad un latte prodotto da bovine sane (tabella 10). Tale effetto negativo è stato attributo alla possibile azione della plasmina, un en-zima in grado di idrolizzare la α- e la β-caseina (Fegan, 1979; Munro et al., 1984; Bugaud et al., 2001). Va precisato che il latte prodotto da bovine affette da mastite clinica evidente non viene destinato alla commercializzazione né come latte alimentare né per essere destinato al-la caseificazione.

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Tabella 10. Composizione chimica di un latte bovino normale e ottenuto da vacche con mastite (> 500000 cellule somatiche/ml; Harmon, 1994).

Componente Latte normale Latte mastiticoGrasso (%) 3.5 3.2Lattosio (%) 4.9 4.4Proteina (%) 3.61 3.56Caseina (%) 2.8 2.3Proteine del siero (%) 0.8 1.3

LA COMPONENTE PROTEICA NEI FORMAGGI

Il contenuto di proteina dei formaggi dipende molto dal contenuto di proteina, e in parti-colare dalla frazione caseinica (quantità e caratteristiche chimiche) presente nel latte. Dall’in-dagine effettuata da Manzi et al. (2007) sui formaggi DOP italiani emerge un contenuto di proteina pari a 25.45 g/100 g di prodotto (con una deviazione standard pari a 5.43 g/100 g).

I peptidi bioattivi del latte e del formaggio

Le potenzialità biologiche della frazione proteica del latte e del formaggio sono elevate e non dipendono solo dalla qualità della proteina come tale ma anche dalla presenza di pepti-di che si originano dalla proteolisi. Infatti, il contributo endogeno al contenuto di queste mo-lecole è molto limitato. Molto importanti sono i peptidi fosforilati che servono al trasporto ed all’assorbimento dei minerali contenuti nel latte, con particolare affinità allo Zn e al Ca.

In tabella 11 sono riportati i principali peptidi bioattivi in relazione alla proteina precur-sore e alla loro attività.

Tabella 11. Peptidi bioattivi presenti nel latte

Peptidi bioattivi Proteina precursore BioattivitàCasomorfine α,β caseina Agonisti di oppioidiCasochinine α,β caseina Anti ipertensiviCasoxine k caseina Antagonisti di oppioidiCasopiastrine k caseina, transferrina Antitromboticiα-lattorfine α lattoalbumina Agonisti di oppioidiβ-lattorfine β lattoalbumina Agonisti di oppioidiLattoferroxine lattoferrina Antagonisti di oppioidiImmunopeptidi α,βcaseina ImmunoregolatoriFosfopeptidi α,βcaseina Carriers di minerali

LA COMPONENTE GLUCIDICA DEL LATTE E DEI DERIVATI

Con le proteine ed i lipidi, i glucidi sono la terza componente per importanza nel latte e la loro concentrazione si aggira mediamente intorno a 4-10 g/100 g fra le varie specie animali. Il glucide principale del latte è il lattosio, un disaccaride costituito da una mole di glucosio legata ad una di galattosio. La concentrazione di lattosio nel latte è direttamente legata alla

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produzione di latte conseguita dall’animale: un calo della secrezione del disaccaride, anche per carenze energetiche, ha come conseguenza la diminuzione della quantità di latte prodotto (Succi, 1997). Nel latte di vacca e di capra il contenuto di lattosio è circa 4,8 g/100 g mentre in quello di bufala e pecora è di circa 5,2 g/100 g. L’impossibilità di digerire il lattosio è alla base della così detta “intolleranza al lattosio” che di fatto impedisce il consumo di latte. Essa consiste essenzialmente in una carenza di lattasi intestinale che limita l’idrolisi e, quindi, la digeribilità di questo carboidrato.

Oltre al lattosio nel latte ritroviamo altri oligosaccaridi che vengono sintetizzati dall’ani-male per glicosilazione del lattosio a opera di glicosil transferasi specifiche. I residui mono-saccarici presenti nella molecola derivano essenzialmente dal glucosio, dal galattosio, fucosio, acido sialico e N-acetil glucosamina. Nel latte di capra la frazione oligosaccarica è maggior-mente presente rispetto al latte vaccino. I principali oligosaccaridi neutri ed acidi presenti nel latte sono: 3-galattosil-lattosio, 6-galattosil-lattosio, 3-fucosil N-acetil- lattosammina, N-ace-til- lattosaminil glucosio, 3-sialil-lattosio, 6-sialil-lattosio (Beccati et al., 1999).

Nei formaggi (tabella 12) possiamo trovare oltre al lattosio, anche se in quantità meno ele-vate, galattosio e glucosio (Manzi et al., 2007).

Tabella 12. Presenza di lattosio, glucosio e galattosio in formaggi DOP italiani.

N. formaggi Media Minimo Massimo DSLattosio (mg/100 g) 6 414.1 14.8 2012 786Glucosio (mg/100 g) 2 13.38 12.7 14.1 0.95Galattosio (mg/100 g) 18 151.6 3.55 865 224

IL CONTENUTO DI MINERALI NEL LATTE

Una delle ragioni per le quali il latte è considerato un alimento interessante dal punto di vi-sta nutrizionale è il suo elevato contenuto in minerali (in particolare di calcio) e il favorevole rapporto calcio:fosforo (Sanz Ceballos et al., 2009).

La percentuale di sali minerali presenti nel latte rappresenta circa l’1% della sostanza sec-ca totale. Essi si presentano sotto forma di cationi (calcio, sodio, potassio, magnesio) e anioni (fosforo inorganico, citrato, cloruro) e la loro forma molecolare influenza il livello di assor-bibilità da parte dell’organismo. Il lattosio presente nel latte aumenta l’assorbimento di cal-cio mantenendolo in forma solubile. Il latte rappresenta dunque un’eccellente fonte di calcio per la quantità che contiene e per la concomitante presenza di lattosio. Anche la presenza di un notevole contenuto proteico ne favorisce l’assorbimento a livello intestinale. Gli ioni nel latte giocano un ruolo fondamentale nella struttura e nella stabilità delle micelle di caseina (Gaucheron, 2005).

La variabilità del contenuto di minerali nel latte prodotto dalle diverse specie animali da reddito è piuttosto ridotta poiché i minerali sono presenti nel latte sotto forma di soluti e la pressione osmotica del latte, che è determinata soprattutto da questi composti, è in equilibrio con quella del sangue e quest’ultima è abbastanza costante nelle varie specie animali. Tutta-via esistono alcuni fattori che, entro certi limiti, possono influenzare il contenuto e i rapporti delle diverse componenti minerali del latte. In generale la composizione del latte è strettamen-te correlata alla specie, alla razza, allo stadio di lattazione, a fattori individuali, a patologie dell’apparato mammario, ad alcuni fattori alimentari e a fattori ambientali.

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Effetto della dieta sul contenuto di minerali nel latte

Dalle limitate evidenze scientifiche presenti in letteratura emerge che la dieta non sembra influenzare significativamente il tenore dei macro-elementi del latte (Ca, P, Mg, K, Na, Cl, S). Infatti, eventuali carenze di questi minerali nella razione, tendono nel tempo ad avere effetti negativi sulla produzione quantitativa di latte, ma la composizione minerale tende a rimanere costante, a scapito delle riserve corporee minerali dell’animale (Pulina et al., 2007). Carroll et al. (2006) recentemente hanno segnalato un sensibile aumento del Mg nel latte legato ad un incremento dei grassi nella dieta ma nessuna variazione sensibile degli altri macro-elementi.

Più influenzabili dall’alimentazione sembrano invece le concentrazioni dei micro-elementi. Il loro assorbimento può dipendere non solo dalla quantità totale presente nella dieta ma an-che dalla forma chimica nella quale l’elemento si trova (Coni et al., 1995).

Non bisogna però dimenticare che l’opportunità di incrementare le concentrazioni di alcuni micro-elementi nel latte è forzata dai complessi meccanismi biochimici dell’omeostasi degli animali (Knowles et al., 2006). Ad esempio i cationi come Cu, Mn e Zn hanno concentrazioni nel sangue, tessuti e latte largamente indipendenti dall’assunzione, poiché sono collegati alla regolazione dell’assorbimento nell’intestino (Windisch, 2002). Al contrario gli anioni come Se e I sono facilmente trasportati attraverso le membrane del tratto digestivo. Le concentra-zioni della maggior parte dei micronutrienti (eccetto che per Se e I) possono essere alterati solo da un intervento massiccio nella dieta, poiché le integrazioni all’interno dei normali ran-ge nutritivi hanno un effetto irrilevante (Flynn e Power, 1985).

Ad esempio la valutazione della concentrazione di Se nel latte è negli ultimi tempi di gran-de interesse, grazie al suo importante ruolo per la salute umana, essendo fra l’altro coinvolto nel corretto funzionamento della tiroide. In linea di massima la sua concentrazione nel latte bovino varia a seconda del contenuto di Se nel foraggio e nel suolo (Moschini et al., 2010). A questo proposito sono stati condotti diversi lavori per incrementare la concentrazione di Se nel latte aumentando la concentrazione di questo minerale, sotto varie forme, nella dieta dell’animale (Givens et al., 2004; Phipps et al., 2008). È stato dimostrato che:i. il carry-over nel latte (% di selenio che si trasferisce dall’alimento al latte) risulta positiva-

mente correlato col livello produttivo dell’animale, ma tende a diminuire a concentrazioni crescenti di selenio nella dieta (Moschini et al., 2010);

ii. il selenio organico (sotto forma di lievito) è preferibile a quello inorganico (sotto forma di sale, ad esempio sodio selenito e sodio selenato), in quanto risulta essere maggiormente trasferibile nel latte (carry-over più elevato) (Givens et al., 2004; Juniper et al., 2006).La bibliografia inerente il carry-over del selenio dall’alimento ai formaggi risulta piuttosto

limitata (Knowles et al., 1999; Moschini et al., 2010).Dal momento che il latte non è considerato una grande risorsa di Fe, alcuni studi sono sta-

ti condotti per tentare di incrementare il tenore di di questo elemento nel latte. Il solo lavo-ro che ne riporta un aumento è correlato a iniezioni sottocutanee di tale minerale nella capra (Knowles et al., 2006). Sfortunatamente tale procedura richiede inaccettabili concentrazio-ni di Fe nel plasma (saturazione della transferrina > 85%) per superare la bassa efficienza di estrazione della ghiandola mammaria (Knowles et al., 2006). Ciò enfatizza una mancata cor-relazione tra l’assunzione di Fe con la dieta e il carry over nel latte.

Effetto della specie sul contenuto di minerali nel latte

È risaputo che a livello di specie il contenuto di minerali è in media più elevato nel latte di pecora e di capra rispetto al latte di vacca (Park et al., 2007). In particolare i livelli di Ca, P, Mg, Zn e Cl si attestano su valori più elevati nel latte di pecora rispetto al latte vaccino, men-tre l’opposto accade per quanto riguarda K, Na, S, Mn e Cu (Park et al., 2007) (tabella 13). Le concentrazioni di Se, Fe e I rimangono pressoché simili in entrambe le specie. In generale il

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contenuto minerale del latte di pecora sembra variare molto di più rispetto a quello di vacca a causa delle differenti tipologie di alimentazione delle due specie animali e ai mesi dell’anno.

Diversi autori concordano nel sostenere una maggiore presenza di Ca, P, K, Mg, Cl nel latte di capra rispetto al latte vaccino (Haenlein, 2001; Park et al, 2007; Sanz Ceballos et al., 2009) e minore di Na e S (Haenlein e Caccese, 1984; Park and Chukwu, 1988; Chandan et al., 1992) (tabella 13). Una spiegazione potrebbe risiedere nel fatto che nella capra il fabbisogno di Ca e P sono elevati a causa della intrinseca maggiore prolificità dell’animale rispetto alla vacca (Pulina et al., 2007). Per quanto riguarda i microelementi, il latte di capra possiede tenori più elevati di Se, Mn e Zn (tabella 13).

Riguardo alla composizione minerale del latte di bufala, il calcio rappresenta l’elemento quantitativamente più rappresentativo così come avviene per le altre specie. Il latte di questa specie si attesta su valori più elevati rispetto al latte di vacca per quanto concerne i valori di Ca e Mg, mentre risulta più povera in K, Na (Sahai, 1996) (tabella 13).

Comparando il latte bovino, che è maggiormente diffuso nell’alimentazione dell’uomo, con il latte di donna appare evidente come quest’ultimo sia globalmente più povero in con-tenuto salino, fatta eccezione per il Se ed il Fe (tabella 13). Il Fe, infatti, si attesta su concen-trazioni più che raddoppiate nel latte umano (0.8 vs. 2 mg/kg). Questa differenza potrebbe essere dovuta al fatto che la lattoferrina, proteina che lega il ferro presente nel siero, è pre-sente in concentrazioni molto inferiori nel latte vaccino rispetto al latte umano (Fransson e Lönnerdal, 1983).

Tabella 13. Contenuto di minerali nel latte di diverse specie.

Macroelementi(mg/kg)

Vacca1 Capra1 Pecora1 Bufala2 Asina3 Donna1

Ca 1220 1340 1930 1840 676 330P 1190 1210 1580 887* 487 430K 1520 1810 1360 1016 497 550Mg 120 160 180 190 37 40Na 580 410 440 447 218 150Cl 1000 1500 1600 638* 336 600S 320 280 290 236 140

Microelementi(µg/100g)

Vacca1 Capra1 Pecora1 Bufala2 Asina3 Donna1

Se 0.96 1.33 1.00 1.52Mn 0.20 0.32 0.07 0.52 Tracce4 0.70Zn 5.30 5.60 5.70 4.38 1.994 3.80Fe 0.80 0.70 0.80 0.97 1.154 2.00Cu 0.60 0.50 0.40 0.14 0.164 0.60I 0.21 0.22 0.20 0.07

1 Park et al., 2007; 2 Sahai, 1996; 3 Salimei et al., 2004; 4 Fantuz et al., 2009.*P: sottoforma di fosfato, Cl: sottoforma di cloruri

Il crescente interesse per il latte di asina, già rilevato nei precedenti paragrafi, ha aumentato la conoscenza del profilo minerale del latte di questa specie. La concentrazione dei macroe-lementi è sicuramente inferiore al latte vaccino, ma molto simile alle concentrazioni minerali rilevate in letteratura per il latte equino (Salimei et al., 2004). Sebbene in linea di massima il

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profilo minerale del latte di asina sia molto simile a quello umano, sono state segnalate con-centrazioni più elevate di Ca e P (Salimei et al., 2004). Inoltre, il rapporto Ca/P, che può va-riare nel latte d’asina tra un minimo di 0.93 mg/kg e un massimo di 2.37 mg/kg (1.48 mg/kg media) risulta intermedio tra il più basso valore del latte bovino e il più alto rilevato per il latte umano (Pagliarini et al., 1993). Il contenuto di Mg appare tra i più bassi in un confron-to tra specie (37 mg/kg), risultando anche 3-4 volte inferiore rispetto al latte di vacca, capra e pecora.

Effetto della razza sul contenuto di minerali nel latte

Contrariamente a quanto si ritiene, la razza gioca un ruolo fondamentale nella determina-zione delle concentrazioni dei minerali nel latte. Considerando le sole razze italiane, il lat-te delle razze Bruna, Reggiana e Modenese contiene circa il 7% di Ca in più rispetto al latte della razza Frisona (tabella 14). Tra le razze sopracitate è la razza Modenese ad avere il latte più ricco in P. Anche il contenuto di Cl varia in maniera significativa da razza a razza: i va-lori più elevati (tecnologicamente sfavorevoli) sono posseduti dalla razza Frisona (Mariani et al., 2002).

Uno studio più recente (Carroll et al., 2006) sul confronto tra le concentrazioni di Ca, Na, K, Mg, P non ha tuttavia evidenziato differenze significative per quanto riguarda i macro-elementi tra latte prodotto da bovine di razza Holstein, Brown Swiss e Jersey (tabella 14).

Tabella 14. Contenuto di minerali nel latte di bovine appartenenti a diverse razze

Minerali Frisona1 Bruna1 Reggiana1 Modenese1 Holstein2 Brown Swiss2 Jersey2

Ca 1153 1225 1234 1215 1030 1150 1135P 916 967 975 990 990 1048 1018K 1601 1536 1560

Mg 101 97 101Na 317 294 358Cl- 1014 957 876 821

1Valori espressi in mg/kg (Mariani et al., 2002); 2 Valori espressi in mg/L (Carroll et al., 2006).

Effetto dello stadio di lattazione sul contenuto di minerali nel latte

Il contenuto di minerali è influenzato anche dallo stadio di lattazione e le variazioni più evidenti si riscontrano in concomitanza con il parto (Gaucheron, 2005). Il colostro infatti è ricco in componenti minerali, che decrescono gradualmente fino a portarsi alle concentrazio-ni normali del latte (Mapekula et al., 2011).

Nel corso della lattazione, escludendo il periodo post-parto, si notano alcune alterazioni nel tenore delle diverse componenti minerali. Molti autori concordano nel sostenere un decre-mento di K e un aumento di Na negli ultimi periodi della lattazione (Rook e Campling, 1965; Fisher et al., 1970; Gaucheron, 2005) (figura 3).

Risultati discordanti sono riportati in bibliografia riguardo agli andamenti delle concentra-zioni di Ca e Mg. Auriol e Mocquot (1962) e Kamal et al. (1961) riportano una diminuzione nel primo stadio di lattazione e un aumento nell’ultima fase. Al contrario, i dati di Fisher et al. (1970) e Gaucheron (2005) hanno evidenziato concentrazioni costanti dei due minerali nel cor-so della lattazione (tabella 15).

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Figura 3. Effetto dello stadio di lattazione sul contenuto minerale del latte vaccino (Fisher et al., 1970).

Tabella 15. Concentrazione dei sali minerali (mmol/kg) nel latte durante le fasi della lat-tazione (adattata da Gaucheron, 2005 e Fisher et al., 1970).

Minerale Precoce Media AvanzataGaucheron,

2005Fisher et al., 1970

Gaucheron, 2005

Fisher et al., 1970

Gaucheron, 2005

Fisher et al., 1970

Ca 33.2 28.8 29.4 29.2 32.1 28.6

Mg 5.7 5.5 5.0 5.7 5.4 5.7

K 41.8 42.7 40.3 39.7 26.9 33.4

Na 29.7 22.0 24.8 27.8 48.8 37.0

Effetti genetici sul contenuto di minerali nel latte

Le informazioni disponibili sulla variabilità genetica tra individui relativamente al contenu-to minerale del latte sono assai limitate. Nel 1974, Renner e Kosmack riportarono variazioni genetiche nel contenuto di Ca, correlate ad un’elevata ereditabilità nel contenuto in caseina.

Davis et al. (2001) evidenziarono che vacche con un alto o con un basso tenore di Ca nel latte tendevano a mantenere costanti queste caratteristiche all’interno e tra le stagioni. Tali ri-sultati suggeriscono la presenza di una base genetica regolatrice del contenuto di Ca.

L’esistenza di una variabilità genetica nel contenuto minerale del latte potrebbe offrire, secondo recenti indicazioni, l’opportunità per nuove strategie di riproduzione (migliora-mento genetico), che mirano a produrre latte arricchito in particolari minerali (Van Hulzen et al., 2009).

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Effetto del management e dell’ambiente sul contenuto di minerali nel latte

Modificazioni a carico della componente minerale possono verificarsi anche in corso di pa-tologie della mammella (mastiti). In particolar modo ad aumentare significativamente nel latte mastitico sono le concentrazioni di Na e Cl (Gaucheron, 2005). Questo accade dal momento che le mastiti provocano modificazioni dell’epitelio mammario con alterazioni del flusso e dell’equilibrio degli ioni (Van Hulzen et al., 2009).

La stagione e il clima rappresentano altre cause di variazione della componente minerale. Il contenuto di Se, Zn e Mg, ad esempio, risulta essere significativamente più elevato duran-te l’inverno (Rodrìguez Rodriguez et al., 2001; Frøslie et al., 1985; Koops et al., 1989; Ol-son e Palmer, 1984). Non sembrano al contrario essere influenzate dall’andamento del clima le concentrazioni di Na, K e Ca che tendono a restare costanti nel corso delle stagioni (Ro-drìguez Rodrìguez et al., 2001). Non mancano tuttavia dati contrastanti, specialmente a ca-rico dell’andamento del Ca. Piccioli Cappelli et al. (1999), in seguito ad uno studio durato 3 anni, riportano una riduzione della concentrazione del Ca nel latte durante i mesi più caldi, in concomitanza con l’incremento della fibra nella dieta. Al contrario, Paulinyi et al. (1995) rilevano concentrazioni più elevate di Ca e Mg durante la stagione estiva.

Anche i livelli di altri microelementi, quali Ba, Cd, Co, Cr, Pb, Sr, Al, Mn, subiscono va-riazioni stagionali nelle loro concentrazioni. Coni et al. (1995) evidenziano una stretta corre-lazione tra queste fluttuazioni e l’apporto dei minerali fornito con le diete.

IL CONTENUTO DI MINERALI NEI FORMAGGI

La distribuzione della componente minerale nel formaggio è molto eterogenea. Per quan-to riguarda il tenore di calcio nei formaggi si può evidenziare in tabella 16 che accanto a for-maggi (Manzi et al., 2007) molto ricchi di questo elemento minerale (1328 e 1159 mg/100 g di prodotto rispettivamente per il Grana Padano e il Parmigiano Reggiano) ne possiamo tro-vare altri con tenori molto ridotti (9 mg/100 g per la Robiola).

Il contenuto di sodio è molto variabile nei formaggi (tabella 17) e dipende da molti fatto-ri tra i quali le modalità di salatura delle forme (la salamoia ad esempio consente un più ele-vato assorbimento di cloruro di sodio all’interno della forma rispetto alla salatura a secco).

Tabella 16. Contenuto di calcio e fosforo nei formaggi DOP italiani

N. formaggi Media Minimo Massimo DSCalcio (mg/100 g) 33 751.6 9 1328 274.9Fosforo (mg/100 g) 33 545.4 105.7 752.4 152.9Ca/P 33 1.104 0.03 1.6 0.243

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Tabella 17. Contenuto di sodio in alcuni derivati del latte (Ronzani, 2011).

Formaggio Sodio (mg/100 g)Certosino 430Emmenthal 459Fontina 686Gorgonzola 600Grana Padano 700Latteria 670Mozzarella 200Parmigiano Reggiano 600Ricotta 78Stracchino --

Un lavoro piuttosto ampio effettuato da Gambelli et al. (1999) conferma l’elevata variabilità di sodio nei formaggi e classifica i formaggi in diverse categorie a seconda del contenuto di alcuni oligoelementi (Se, Zn, Fe, Co) interessanti dal punto di vista nutrizionale per la salute dell’uomo.

IL CONTENUTO DI VITAMINE NEL LATTE E NEI FORMAGGI

Nel latte bovino le vitamine A, E, B1, B2, B6 e C sono quelle maggiormente rappresentate (tabella 18). Anche il contento di vitamina D è apprezzabile.

Tabella 18. Contenuto in vitamine del latte di vacca.

Vitamine mg/100ml A 10-90D 0.01-0.20E 20-200K 17B1 20-80B2 80-260B6 17-190B12 0.2-0.7

ACIDO FOLICO 1-10ACIDO PANTOTENICO 260-490

C 500-3000COLINA 5000-45000

H 1-7PP 30-200

Adattata da Salvatori Del Prato, 1998.

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Il principale fattore di variazione della vitamina A nel latte è l’alimentazione delle bo-vine. In particolare l’uso del pascolo favorisce la presenza del retinolo specialmente di ti-po trans, grazie ai caroteni presenti nel foraggio fresco (Calderon et al., 2007). Se invece la dieta è basata su fieno, i fenomeni di ossidazione che avvengono durante l’essiccazione e la conservazione del foraggio concorrono a ridurre di circa il 70% tutte le componenti polinsature ivi compresi i carotenoidi (Yu et al, 1998; Agabriel et al., 2007). In un lavoro pubblicato da Pizzoferrato e Manzi (1999) sono state rilevate differenza significative fra il contenuto di vitamina A e di vitamina E in formaggi ottenuti da capre allevate in pianura e in montagna (figura 4).

Figura 4: Contenuto di vitamina A e di vitamina E in formaggi ottenuti da capre allevate in pianura e in montagna (Pizzoferrato e Manzi, 1999).

L’inclusione nella dieta di semi di lino integrali può favorire l’aumento di questa vitamina nel latte la quale varia nel corso della lattazione con lo stesso andamento del grasso del latte essendo positivamente correlata con questo parametro.

L’arricchimento di vitamina D nel latte attraverso strategie di tipo alimentare risulta più difficile rispetto ad altre vitamine poiché il trasferimento di questa vitamina liposolubile dal plasma al latte non risulta molto efficiente. L’uso di supplementi vitaminici nella razione può migliorarne il contenuto nel latte (McDermott et al., 1985).

La vitamina E, detta tocoferolo, è presente nel latte prevalentemente come α-tocoferolo: la sua concentrazione è elevata nel colostro e va a diminuire poi nel latte. Analogamente alla vitamina A, anche la concentrazione di vitamina E nel latte aumenta con l’integrazione diret-ta di supplementi vitaminici nella razione e con l’assunzione di foraggio fresco; esiste, inol-tre, una relazione molto stretta e positiva fra quantità di foraggio fresco o silo erba ingerito e contenuto di vitamina E nel latte, anche se con notevoli differenze fra estate ed inverno (Al-Mabruk et al., 2004).

La vitamina K ed in particolare la K2 (menachinone) è presente nel latte e nei suoi deriva-ti in concentrazione molto variabile e fortemente connessa con l’alimentazione dell’anima-le; essa è l’unica vitamina liposolubile che può essere sintetizzata della microflora ruminale.

In tabella 19 sono riportati i contenuti di alcune vitamine liposolubili in formaggi DOP italiani (Manzi et al., 2007).

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Tabella 19. Contenuto di alcune vitamine liposolubili in formaggi DOP italiani.

N. formaggi Media Minimo Massimo DSβ-carotene (mg/100 g) 24 76.8 24.1 226.1 54.29α-tocoferolo (mg/100 g) 33 674.1 207.6 1613 312Trans-retinolo (mg/100 g) 33 380 184.8 579.4 94.7313 Cis-retinolo (mg/100 g) 33 47.12 14.1 85.6 18.62

Le vitamine idrosolubili possono essere sintetizzate da parte dei microrganismi ruminali se le condizioni sono favorevoli. La vitamina B2 (o riboflavina) è presente nel latte in con-centrazioni apprezzabili mentre la vitamina PP (o vitamina B3) è presente in buone quantità sottoforma di nicotinammide. Il latte è particolarmente ricco di acido pantotenico (o vita-mina B5) così come la biotina (Vit B8) che è caratterizzata da una buona biodisponibilità. La vitamina B6 è presente nel latte prevalentemente come piridossamina fosforilato in buo-na quantità e la sua concentrazione nel latte aumenta con l’inclusione nella dieta di forag-gio fresco o con razioni contenenti un buon tenore in carboidrati non strutturali (Schwab et al., 2006). L’acido folico (vitamina B9) nel latte si trova legato principalmente alla compo-nente proteica (folic acid binding protein) che lo rende assorbibile; la sua concentrazione in questo alimento è relativamente bassa e variabile in funzione delle caratteristiche della dieta. Con diete arricchite in antiossidanti, la concentrazione di acido folico nel latte tende ad aumentare così come in presenza di foraggio fresco. Il latte non è molto ricco in vita-mina B12 e la sua concentrazione è influenzata dall’alimentazione degli animali: la sintesi microbica dipende dalle condizioni dell’ambiente ruminale e, in particolare, dalla disponi-bilità di cobalto assorbibile.

Il latte contiene vitamina C in quantità piuttosto limitata rispetto ad altri alimenti vegetali e la sua concentrazione nel latte varia in relazione alla dieta. Il latte è una buona fonte di colina.

La luce, i trattamenti termici e la presenza di ossigeno rendono la vitamina A facilmente degradabile per cui il tipo di conservazione del latte può incidere sul contenuto di questa sostanza. Anche la vitamina C è molto suscettibile a questi fattori. Al contrario, un buon te-nore di vitamina B2 si può trovare anche nel latte sottoposto a trattamenti termici (es. UHT) grazie alla sua termostabilità. Anche la vitamina PP (B3) è resistente alle alte temperature ma idrosolubile. L’acido pantotenico è sensibile al calore, all’azione delle basi e degli acidi ed è solubile in acqua. L’acido folico è resistente alla pastorizzazione e con la fermentazio-ne i livelli di folati aumentano nel latte in funzione dei microrganismi impiegati. Le perdi-te di acido folico ammontano a circa il 20% dopo il processo di pastorizzazione e il tratta-mento UHT (Andersson et al., 1992; de Jong et al., 2005). Adottando opportune tecniche di degassazione (sottraendo l’O2) si può aumentare la concentrazione nel latte di folati in forma biologicamente attiva.

CONCLUSIONI

Il latte e i prodotti derivati presentano una composizione chimica e un valore nutrizio-nale molto variabili. Per il latte giocano un ruolo fondamentale le tecniche di allevamento degli animali e, in particolare, l’alimentazione (soprattutto per gli effetti sulla quantità e sulla qualità della componente lipidica), le caratteristiche degli animali in termini di specie, razza, stadio di lattazione e ordine di parto, le condizioni manageriali (legate ad esempio alle modalità di mungitura) ma anche quelle ambientali. Nel caso del formaggio, è eviden-te che le caratteristiche del latte di partenza determinano poi la qualità del prodotto fina-

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le (basti pensare ai disciplinari per la produzione di alcune DOP come il Parmigiano Reg-giano e il Grana Padano) ma, in questo caso, le tecnologie di caseificazione e lo stadio di maturazione del formaggio sono determinanti nell’influenzare la composizione chimica e nutrizionale del prodotto finito.

Riguardo alla componente lipidica del latte, l’analisi della letteratura ha messo in evidenza come sia possibile attraverso alcune strategie nutrizionali (ad esempio l’inclusione di partico-lari alimenti e/o supplementi) modificare il profilo acidico del grasso del latte favorendo un arricchimento di alcune componenti interessanti dal punto di vista nutrizionale (ad esempio i CLA, gli acidi grassi omega 3 ecc.) senza stravolgere sostanzialmente le caratteristiche pe-culiari del prodotto. Tecniche di allevamento che fanno ampio uso del pascolo (sistemi esten-sivi, biologici, la monticazione estiva ecc.) consentono di ottenere, in linea generale, un latte con rapporti più favorevoli fra acidi grassi saturi e insaturi (soprattutto PUFA) e un maggior contenuto di CLA. La componente proteica risulta più difficilmente modificabile attraverso tecniche alimentari ed è fortemente legata alle caratteristiche genetiche dell’animale, soprat-tutto per quanto riguarda alcune frazioni caseiniche (fondamentali per la resa in formaggio). Il contenuto di calcio nel latte è particolarmente elevato in tutte le specie (con valori sensi-bilmente superiori nel latte ovino e di bufala) e non risente in modo significativo delle varia-zioni legate alle condizioni di allevamento. È possibile determinare un incremento nel latte di alcuni minerali (ad esempio di selenio) somministrando agli animali idonei supplementi: le forme di integrazione organica sono in grado generalmente di garantire un maggior trasferi-mento di elementi minerali al latte rispetto all’inclusione dei tradizionali sali inorganici. An-che per alcune vitamine (ed esempio la vitamina D) si può ottenere un arricchimento nel latte attraverso l’uso di opportuni integratori.

Riguardo invece ai derivati del latte è evidente che l’ampia gamma di prodotti disponibili sul mercato determina anche una larga variabilità delle loro caratteristiche chimiche e nutri-zionali. Quasi tutte le componenti bioattive presenti nel latte si possono ritrovare anche nel formaggio, dove generalmente tendono a concentrarsi (come succede per alcuni acidi gras-si) e questo effetto aumenta con il procedere della maturazione. La presenza di colesterolo varia in modo molto ampio nei formaggi così come la presenza di sodio (che è molto legata anche alle modalità con cui avviene la salatura delle forme). Va ricordato che nei formaggi a lunga stagionatura si possono liberare aminoacidi e peptidi bioattivi, interessanti dal punto di vista nutrizionale.

In conclusione si può affermare che il latte e i prodotti lattiero-caseari rappresentano nell’alimentazione umana una fonte importante di nutrienti e il loro consumo routinario (spe-cialmente del latte in alcune fasi fisiologiche) contribuisce in modo significativo al raggiun-gimento dei fabbisogni giornalieri (RDA) per alcuni di essi (basti pensare al calcio). Attra-verso l’affinamento delle tecniche di allevamento (in particolare dell’alimentazione) degli animali da latte e le innovazioni nel settore delle tecnologie alimentari è possibile migliorare ulteriormente le caratteristiche chimiche e nutrizionali di questi prodotti senza tuttavia stra-volgerne le peculiarità.

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CAPITOLO 4Latte, prodotti lattiero-caseari e salute

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LATTE, PRODOTTI LATTIERO-CASEARI E SALUTE

G. BERTONI1, F. M. CICOGNINI2, F. ROSSI2, A. CAROLI3, D. COCCHI3, A. BALDI4, C. PECORINI4

1 Istituto di Zootecnica, Facoltà di Agraria, Università Cattolica del Sacro Cuore, Piacenza2 Istituto di Scienze degli Alimenti e della Nutrizione, Facoltà di Agraria,

Università Cattolica del Sacro Cuore, Piacenza3 Dipartimento di Scienze Biomediche e Biotecnologie - Facoltà di Medicina e Chirurgia

Università degli Studi di Brescia4 Dipartimento di Scienze e Tecnologie veterinarie per la Sicurezza Alimentare

Università degli Studi di Milano

PRESENTAZIONE

Quale premessa al tentativo di precisare il ruolo del latte e deri-vati nella alimentazione umana, non ci si può esimere dal conte-stualizzarlo all’interno della dieta mediterranea. Il capitolo 3 (Derni-ni e coll., 2012) del volume “Me-diterra 2012. The mediterranean diet for sustainable regional de-velopment” (CIHEAM – Sciences Po. Les Presses) è da questo pun-to di vista molto istruttivo poiché nel definire questa dieta riporta ciò che il 16 novembre 2010 l’UNESCO ha riconosciuto “… consisting mainly of olive oil, cereals, fresh or dried fruit and vegetables, a moderate amount of fish, dairy and meat, and many condiments and spices, all accompanied by wine or infu-sions, always respecting the beliefs of each community”. A parte il fatto che viene codificata la presenza dei prodotti di origine animale, a differenza di molte altre interpretazioni, per lat-te e derivati in particolare, se ne suggerisce una presenza quotidiana (sia pure con preferenza per i prodotti a basso apporto lipidico (Dernini e coll., 2012).

Tale circostanza positiva è confermata da un complesso di lavori scientifici raccolti da Pu-fulete (2008) e dal suggerimento di usare questi prodotti (specie a basso apporto di grassi) in pazienti post-cancro (Tramm e coll., 2011). Viceversa, l’utilità del latte è posta in discussione da una serie di dubbi avanzati da alcuni autori, che fanno capo soprattutto a Melnik (2009), secondo i quali gran parte delle malattie degenerative dei paesi occidentali – ivi compresa l’osteoporosi – troverebbero origine nel latte e suoi derivati.

Pur riconoscendo che anch’essi, come tutti gli alimenti, hanno pregi e difetti che ne sugge-riscono un uso corretto all’interno di diete equilibrate, non v’è dubbio che l’elevata disponi-bilità di proteine “nobili”, di calcio e di alcuni micronutrienti essenziali, rende questi prodotti decisamente utili (e spesso indispensabili).

Interessante il fatto che, secondo Kuipers e coll. (2012), si dovrebbe tornare ad una dieta più simile a quella dei nostri progenitori del paleolitico: cacciatori-pescatori e raccoglitori di vegetali commestibili. In essa il latte non avrebbe posto oltre la prima infanzia, poiché non vi erano produzioni “agricole” di alcun tipo, ma osservando le prerogative più verosimili della suddetta dieta: proteine oltre il 20%, carboidrati 40% e lipidi 35-40% dell’energia, an-che il latte (od ancor più i latticini con poco-nulla lattosio) potrebbe avere un ruolo impor-tante, specie se ottenuto in condizioni relativamente naturali (pascolo) e quindi più ricco di PUFA quali ω3 e CLA.

Abbreviazioni utilizzate nel testoCLA = acido linoleico coniugatoIGF-I = fattore di crescita insulino-simile IIGF-II = fattore di crescita insulino-simile IIPPAR = recettore attivato della proliferazione perossisomaleDMBA = dimetilbenzantracene NMU = N-nitroso-N-metilureaBAT = tessuto adiposo brunoWAT = tessuto adiposo biancoSRBP = proteina legante sterolo regolatriceVEGF = fattore di crescita vascolare endoteliale

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Se quindi questi alimenti di origine animale hanno un ruolo nella dieta umana, soprattutto laddove la povertà ed il basso livello tecnologico non consentono una adeguata varietà di ci-bi e la necessaria cura nella loro preparazione (PVS), non pare tuttavia inutile rinnovare tali convinzioni tornando su come il latte viene prodotto e trasformato, nonchè sui fattori assai complessi che ne modificano composizione e quindi valore nutritivo, anche in relazione agli effetti di questi alimenti sulla salute umana. Sul primo aspetto sono intervenuti L. Bailoni e A. Buccioni con “Fattori che influenzano le caratteristiche chimiche e nutrizionali dei pro-dotti lattiero-caseari”. Infatti, sulla composizione del latte, giocano un ruolo fondamentale le tecniche di allevamento degli animali e, in particolare, l’alimentazione (soprattutto per gli effetti sulla quantità e sulla qualità della componente lipidica), ma anche le caratteristi-che degli animali in termini di specie, razza, stadio di lattazione e ordine di parto, le condi-zioni manageriali (legate ad esempio alle modalità di mungitura), nonchè quelle ambientali. Nel caso del formaggio, oltre alle caratteristiche del latte di partenza, le tecnologie di ca-seificazione e lo stadio di maturazione del formaggio sono determinanti nell’influenzare la composizione chimica e nutrizionale del prodotto finito. Il latte e i prodotti lattiero-caseari rappresentano nell’alimentazione umana una fonte importante di nutrienti (proteine, lipidi essenziali, macro e microelementi minerali e vitamine) e il loro consumo routinario (spe-cialmente del latte in alcune fasi fisiologiche) contribuisce in modo significativo al raggiun-gimento dei fabbisogni giornalieri (RDA) per alcuni di essi (basti pensare al calcio). Attra-verso l’affinamento delle tecniche di allevamento (in particolare dell’alimentazione) degli animali da latte e le innovazioni nel settore delle tecnologie alimentari è possibile miglio-rare ulteriormente le caratteristiche chimiche e nutrizionali di questi prodotti senza tuttavia stravolgerne le peculiarità naturali.

Circa gli effetti di tali alimenti sulla salute dell’uomo, si è ritenuto suddividerli in più contributi:- Prodotti lattiero-caseari e salute (F. Rossi e F.M. Cicognini) che hanno evidenziato

come al di là dei consueti nutrienti, dal latte e derivati possono venire composti pecu-liari quali i CLA (acido linoleico coniugato) che ha effetti positivi (calo del peso, della aterosclerosi e dei tumori). In particolare ciò sarebbe dovuto al fatto che inibisce l’an-giogenesi, riduce l’insulino-resistenza ed ha azione antiinfiammatoria. Oltre ai CLA (e talora i PUFA ω3), non va trascurato il fatto che gli acidi grassi saturi, non sono sempre e comunque nocivi (ad esempio l’acido stearico non lo è; infatti dalla meta-analisi di Alexander e coll. (2010), emerge che il cancro (almeno al seno) non è associato ai grassi animali, mentre secondo Pufulete (2008) vi sarebbero effetti positivi per il tipo di lipidi presenti, oltre che per la buona disponibilità di calcio e vitamina D;

- Ipertensione arteriosa, dimagrimento e prodotti lattiero-caseari (F. Rossi e F.M. Cicognini). È ormai accertato che durante la digestione del latte si liberano peptidi con effetto anti-ACE (enzima convertitore dell’angiotensina) riducendo così l’azione vaso-costrittrice dell’angiotensina cui fa seguito innalzamento della pressione. Questi peptidi si sono visti presenti anche nei formaggi stagionati, inoltre anche il calcio agisce in tal senso (anti-ipertensivo). Circa l’effetto sul peso corporeo il latte avrebbe effetti positivi soprattutto per la presenza del Ca-vitamina D in grado di ridurre l’appetito e di aumen-tare la lipolisi;

- Prodotti lattiero-caseari e salute delle ossa (A. Caroli – D. Cocchi). Calcio e vitami-na D sono notoriamente implicati con il metabolismo osseo (in particolare, se è corretto anche l’apporto di proteine, lo sviluppo osseo è pure adeguato e si riducono le fratture). Vi sono molte ricerche che lo dimostrano e vengono ampiamente illustrate. Nel latte vi sono anche sostanze bioattive che migliorano l’utilizzazione del calcio e l’attività delle cellule del t. osseo. Naturalmente vi sono molti altri fattori che incidono sul t. osseo e ciò può spiegare dati contrastanti (anche per le notevoli differenze fra i latticini). Ricordia-mo fra questi gli enfatizzati rischi di acidosi, da eccesso di proteine, da cui osteoporosi

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o nessun effetto positivo del latte. Tuttavia, le autrici concludono essere più numerosi gli effetti positivi, sottolineando che, secondo Pampaloni e coll. (2011), il Parmigiano Reggiano può ritenersi un “functional food” per i riflessi favorevoli sulla salute, specie dello scheletro.

- Attività funzionali delle componenti bioattive del latte (A. Baldi - C. Pecorini). Oltre le componenti nutrizionali, nel latte vi sono numerosi composti bioattivi già presenti come tali o che si liberano per idrolisi di molecole originarie. Si tratta di:• componenti antimicrobiche costituite da numerose proteine-enzimi, ma anche da alcuni

lipidi (CLA), glicoconiugati, oligosaccaridi;• una azione pre-biotica sul microbioma intestinale (lattoferrina, oligosaccaridi);• componenti immunomodulatrici, cioè in grado di attenuare od accentuare la risposta in

rapporto alle circostanze (ridurre reazioni di tipo allergico, ma accentuare la difesa dai patogeni). Vi sono al riguardo peptidi originari o frutto di idrolisi da caseine, così alcu-ni lipidi comi i CLA;

• peptidi bioattivi in particolare con effetto anti-ipertensivo e anti-trombotico. Anche in questo caso sono peptidi originari del latte o frutto di idrolisi delle proteine del latte;

• azione anti-osteoporotica per calcio e componenti del latte che ne facilitano l’assorbimento.

Da questi importanti contributi emerge pertanto che i prodotti lattiero-caseari hanno un ruolo fondamentale nella dieta umana post-allattamento, quanto più le condizioni alimentari sono precarie: elevata presenza di alimenti vegetali, trattamenti preparatori grossolani, ridotta disponibilità e varietà di cibi ecc..

Va da sé che, come tutti gli alimenti, essi hanno pregi (a.a. essenziali, calcio, taluni oli-goelementi e vitamine, acidi grassi polinsaturi ecc.) e qualche difetto (eccesso lipidico e di alcuni acidi grassi saturi). Tuttavia è pure emerso che esiste la possibilità di accrescere i pri-mi e di limitare i secondi e ciò costituisce una importante sfida per il mondo scientifico e per quello produttivo.

Appare infine utile ricordare che la Commissione ASPA “Sicurezza e Tracciabilità nei Si-stemi di Produzione del latte” ha recentemente elaborato un documento che rappresenta il presupposto irrinunciabile ai lavori della presente Commissione, in particolare per quanto ri-guarda la produzione di latte e derivati (Cassandro et al., 2010). Le proprietà nutrizionali e nutraceutiche di un alimento, infatti, non possono prescindere dalla sua sicurezza e dalla pos-sibilità di tracciare e rintracciare il prodotto in tutta la filiera. A questo complesso documento ci richiamiamo, quindi, per tutti gli aspetti connessi alla tracciabilità della filiera latte, ai rischi della produzione del latte, al quadro normativo, al sistema di tracciabilità nella legislazione italiana, nonché alla tracciabilità geografica e genetica nel settore latte.

PRODOTTI LATTIERO CASEARI E SALUTE

La definizione di prodotti lattiero-caseari si riferisce al latte e ai suoi derivati come il bur-ro, il formaggio, yoghurt e prodotti fermentati, creme.

I prodotti lattiero-caseari sono alcuni dei principali componenti della dieta mediterranea, che è stata riconosciuta Patrimonio dell’Unesco dall’inizio del 2010.

Questi prodotti sono un’importante fonte di proteine ad alto valore biologico e di varie ti-pologie di grassi.

Nell’ultimo decennio sono stati sviluppati molti studi sull’effetto dei costituenti dei pro-dotti lattiero-caseari sulla salute umana: questo articolo si propone di raccogliere alcune con-clusioni globali riguardo al consumo di tali alimenti.

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COMPONENTI DEI PRODOTTI LATTIERO CASEARI CHE HANNO EFFETTI SULLA SALUTE: ACIDO LINOLEICO CONIUGATO (CLA)

CLA e peso corporeo

È stato dimostrato che il CLA può ridurre la massa grassa e aumentare la massa magra. Sono stati ipotizzati alcuni meccanismi per la riduzione dei grassi: aumento dell’energia con-sumata e riduzione dell’energia introdotta; aumento dell’ossidazione dei grassi; diminuzio-ne della dimensione degli adipociti e inibizione degli enzimi coinvolti nel metabolismo degli acidi grassi e nella lipogenesi (Bhattacharya et al., 2006).

Alcuni studi con isomeri purificati hanno reso chiaro che l’isomero C18:2 trans-10,cis12 CLA è legato alle ultime tre funzioni citate, mentre il C18:2 cis-9,trans-11 CLA non è coin-volto ed è meno efficace nell’aumentare il consumo di ossigeno e di energia.

Le proteine uncoupling sono regolatori fondamentali del dispendio energetico ed è stato ipotizzato che l’espressione della regolazione positiva della UCP-2 è mediata dal CLA nel tessuto adiposo.

Un altro potenziale meccanismo che può spiegare la crescita del dispendio energetico ad opera dei CLA è l’aumento in catecolamine (Bhattacharya et al., 2006).

Tutti questi studi sono stati effettuati su modelli animali, mentre gli studi clinici hanno mo-strato un effetto positivo dei CLA sulla riduzione della massa grassa, anche se l’effetto non era altrettanto vistoso come nei modelli animali (Bhattacharya et al., 2006).

CLA e aterosclerosi

Un’altra funzione dei CLA positiva per la salute è correlate al sistema cardiovascolare: si è infatti ipotizzato che i CLA proteggano tale sistema contro l’aterosclerosi.

L’accumulo di lipidi induce un’infiammazione cronica stimolando l’ingresso di macrofagi e la loro attivazione (Stachowska et al., 2010).

Durante lo stato infiammatorio i macrofagi si accumulano nell’intima dell’arteria e in que-sto modo si creano le basi per la formazione della placca aterosclerotica.

1ma fase: comparsa di cellule endoteliali non funzionanti correttamente, le cui molecole adese attivate e chemochine espresse richiamano nell’intima i monociti e i linfociti circolanti;

2nda fase: accumulo di LDL nella parete dell’arteria, dove si verificano delle modifiche a causa dei macrofagi. Tali modifiche fanno aumentare l’inglobamento di LDL da parte dei ma-crofagi attraverso una sovra-espressione di CD36 e SRA.

CD36 e SRA sono recettori sulla superficie dei macrofagi la cui stimolazione aumenta la captazione di colesterolo da parte dei macrofagi (Stachowska et al., 2010).

La placca aterogenica può essere ridotta con l’attivazione dei PPARs (recettori attivati del-la proliferazione perossisomiale) in particolare il PPARg che aumenta la sintesi di adiponec-tina e di conseguenza provoca dow- regolazione negativa dei geni pro-infiammatori (Zhang et al., 2011; Kadoglou et al., 2008; Delerive et al., 1999).

I meccanismi di azione del CLA suggeriti si basano sui PPARs, sulla Desaturasi Stearoil-COA (SCD) e sulle proteine leganti i regolatori degli steroli (SREBPs).

I PPARs sono recettori nucleari che agiscono come fattori di trascrizione regolando l’e-spressione dei geni che controllano l’omeostasi lipidica e glucidica.

Ci sono due principali tipi di PPAR coinvolti in questi meccanismi: PPAR α, che ha un ruolo basilare nella regolazione dell’espressione dei geni per l’ossidazione degli acidi grassi e per l’omeostasi dell’energia, e PPARg che aumenta l’espressione dei geni che promuovo-no l’accumulo di grasso e che controllano l’espressione dei CD36, a loro volta coinvolti nella promozione dell’endocitosi delle LDL ossidate da parte dei macrofagi.

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La regolazione negativa dei PPAR g da parte dell’isomero t10,c12 riduce l’espressione del recettore macrofagico CD 36 e la deposizione di grasso nei macrofagi riducendo così la for-mazione di foam cells (Stachowska et al., 2010). La riduzione dei processi aterosclerotici ad opera di c9,t11 CLA è invece legata ad un’azione di down-regolazione dei geni pro-infiam-matori (Ringseis e Eder, 2009).

L’isomero c9,t11 è più efficace nella modulazione dei PPAR, mentre entrambi c9,t11 e t10,c12 sono legandi di PPAR α.

Le SREBP regolano la sintesi degli acidi grassi e dei trigliceridi. È stato ipotizzato, riguardo a queste ipotesi, che una riduzione nella sintesi e nella sepa-

razione cleavage delle SRBP-1 epatiche ad opera dell’isomero c9,t11, influenzano positiva-mente il metabolismo lipidico (Bhattacharya et al., 2006).

Un’altra ipotesi è basata sull’inibizione dell’attività del SCD ad opera di entrambi gli iso-meri, con la conseguente riduzione della sintesi lipidica (Bhattacharya et al., 2006).

Queste ipotesi sono basate sostanzialmente su studi condotti in vitro o su modelli animali, gli studi clinici hanno invece dato risultati contrastanti.

Gli studi iniziali effettuati sui conigli hanno mostrato che a seguito del consumo di una dieta al 14% di grassi e 0.1% di colesterolo, i conigli alimentati con CLA presentavano una minore aterosclerosi dell’aorta. Successivi studi hanno suggerito che solo l’isomero t10.c12 sia attivo contro tale patologia.

CLA e cancro

Cancro gastrointestinale

Gli studi sugli effetti di inibizione del cancro gastrointestinale da parte dei CLA sono so-prattutto basati su modelli animali ed in vitro.

Gli studi clinici hanno riportato che il CLA induce l’apoptosi delle cellule cancerogene del colon HT-29. In particolare l’isomero t10,c12 CLA si è mostrato come l’unico agente in grado di inibire IGF-II.

È stato inoltre dimostrato che il CLA riduce le metastasi di tumori gastrici e del colon in-dotte in topi; livelli dell’1% di CLA sull’alimento ingerito, può ridurre il cancro al colon gra-zie all’abbattimento dei livelli delle prostaglandine PGE2 (Bhattacharya et al., 2006).

Uno studio scandinavo (Larsson et al., 2005) ha osservato come per un aumento di due por-zioni di latticini ad alto tenore in grasso si avesse una riduzione dell’incidenza tumorale pari al 13% nel distretto colon-rettale e del 3-4% nel solo colon distale. Gli Autori attribuiscono solo parzialmente tale effetto protettivo al CLA. La relazione inversa tra consumo di lattici-ni e tumori intestinali è comunque documentata anche da altri studi epidemiologici ed attri-buita ad una pluralità di fattori (calo pH, apporto di lattobacilli probiotici, apporto di peptidi immuno-modulatori, Ca) (Elwood et al., 2004).

Cancro mammario

I CLA hanno una doppia funzione: agiscono come agenti preventivi e terapeutici in diver-si modelli di tumori umani e murini.

I CLA possono inibire la cancerogenesi mammaria agendo su cellule epiteliali già avviate verso la cancerogenesi o normali, per inibire la loro crescita, modificare la loro differenzia-zione e/o per stimolare la apoptosi.

Questi effetti possono essere diretti, via trasporto del CLA attraverso il flusso sanguigno, o indiretti attraverso il rilascio del CLA dagli adipociti della mammella e/o con l’alterazione del tessuto mammario (Banni et al., 2001; Palombo et al., 2002; Ip et al., 2003).

In particolare, si è dimostrato che i CLA possono inibire la cancerogenesi mammaria

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dei topi indotta da dimetilbenzantracene (DMBA) e N-nitroso-N-metilurea (NMU): i CLA sono stati trovati efficaci quando somministrati in concomitanza con il carcinogeno, sug-gerendo che un’azione del CLA può essere l’inibizione dell’attivazione del carcinogeno (Ip et al., 2003).

Il CLA fornito con la dieta riduce il numero delle cellule epiteliali bersaglio nella ghiando-la mammaria e stimola l’apoptosi in cellule pre-neoplastiche (Banni et al., 2001).

Alcuni studi hanno indicato che un livello dello 0.1% di CLA nella dieta è sufficiente per produrre una inibizione significativa dei tumori mammari dei topi indotti con un carcinoge-no (Ip et al., 1991).

In uno degli studi fatti sul cancro mammario nei topi, si è usata una miscela degli isomeri del CLA (approssimativamente 1:1 c9,t11 e t10,c12 e una piccola parte degli altri isomeri). L’effetto si è rivelato essere dose-dipendente: allo 0.05% (p/p) è corrisposto un basso effetto, mentre ad un livello dello 1% si è riscontrato l’effetto massimo (indipendentemente dal tipo o dal livello del grasso nella dieta). Il CLA è efficace allo stesso modo somministrato sia in forma di trigliceride che di acido grasso libero.

Gli isomeri c9,t11 e t10,c12 si sono rivelati ugualmente efficaci nell’inibizione dello svi-luppo di tumori della ghiandola mammaria indotti con NMU, e la stessa efficacia è stata con-fermata anche nello studio delle metastasi a livello mammario (Ip et al., 2003).

I risultati degli articoli sono qui riportati nella Tabella 1. Si è cercato di confrontare i dif-ferenti esperimenti in via quantitativa.

Tabella 1. Effetto della dose di CLA (g/100 g di mangime) sull’incidenza (%) di tumori mammari in ratti. I valori sulla stessa riga derivano da diversi esperimenti con la me-desima concentrazione di CLA.

Concentrazione CLA nella dieta % Incidenza Corretta (%)

0 100 0,05 103,57a 0,1 75a 128,57b 91,43c

0,25 60,71a 114,29b 85,71c 0,5 75,03a 64,29a 65a 53,57b 57,14c

0,8 53,57d 57,14e 60,71f 1 53,59a 43,75a

1,5 50,05a 37,5a a c9,t11+ t10,c12: 42% del primo e il 46% del secondo Hubbard et al., (2003)b c9,t11: solo c9,t11c t10,c12: solo t10,c12d CLA-burro: c9,t11 per il 92% (Ip et al., 1992)e Matreya CLA: c9,t11 e c9,c11 (Ip et al., 1992) f Nu-Check: c11,t13; c9,t11; t10,c12; t8,c10 (Ip et al., 1992)

La relazione tra l’introduzione di CLA e l’incidenza del cancro mammario si può vedere chiaramente nel grafico sottostante (Figura 1) che riassume i dati presenti nella tabella 1. L’in-cidenza è in relazione inversa con il livello di CLA introdotti con la dieta fino allo 0.25% di CLA. Per quantità maggiori di questo valore non è incrementata l’attività anti-tumora-le del CLA.

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Fig 1. Relazione tra CLA e incidenza del tumore mammario in ratti.

Uno studio recente ha mostrato che una miscela di isomeri del CLA può cambiare forte-mente la composizione del grasso della ghiandola mammaria, esclusivamente grazie all’iso-mero t10,c12 (Masso-Welch et al., dati non pubblicati citati, cit in Ip e tal., 2003). In questo studio topi di ceppo CD2F1 sono stati nutriti addizionando la dieta con livelli da 0,5 a 1,0% di t10,c12 CLA e il risultato è stato la completa eliminazione del tessuto adiposo scuro (BAT) e una riduzione significativa di quello chiaro (WAT) .

Ciò è stato supposto essere il risultato di una forte riduzione della vascolarizzazione el tessuto adiposo indotta dal t10,c12 CLA Non si è verificato un aumento dell’apoptosi de-gli adipociti mammari, né dei capillari dello stroma negli animali alimentati con l’isomero c9,t11 CLA.

Al contrario, l’integrazione alimentare all’1%, con questo l’isomero c9,t11 CLA ha au-mentato la porzione di tessuto BAT, probabilmente per l’effetto stimolante del CLA sulla dif-ferenziazione in senso adipogenetico delle cellule stromali totipotenti, presenti nella ghian-dola mammaria (Ip et al., 2003).

I due principali isomeri del CLA hanno meccanismi differenti per inibire la proliferazione cellulare (Chujo et al., 2003; Hubbard et al., 2003).

Il meccanismo con cui i CLA inibiscono la cancerogenesi mammaria include l’azione sul fattore di crescita vascolare dell’endotelio VEGF-A.

VEGF è una citochina nota per lo stimolo della permeabilità e migrazione vascolare, del-la proliferazione e apoptosi delle cellule endoteliali: può determinare l’aumento e l’attitudine invasiva del cancro alla mammella.

Una miscela degli isomeri del CLA può ridurre il livello di VEGF nel siero e agisce contro uno dei recettori per i VEGF, colpendo direttamente la carcinogenesi mammaria nell’epitelio oppure indirettamente agendo sull’angiogenesi [12,(Masso-Welch et al., 2002; Ip et al., 2003).

Alcuni studi in vitro hanno dimostrato come il CLA sia citotossico e induca la perossida-zione dei lipidi in colture di cancro mammario umano della linea MCF-7.

Una concentrazione di CLA pari a 3.5 × 10−5 M inibisce in modo significativo (tra il 65 e l’80%) la proliferazione di cellule MCF-7 estrogeno-sensibile se confrontate con le cellu-le MDA-MB-231 estrogeno negative. Studi sul ciclo di crescita cellulare hanno indicato che un’alta percentuale delle cellule MCF-7 trattate con CLA rimangono nella fase G0/G1 se con-

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frontate con il controllo e con quelle trattate con acido linoleico (LA). Molte molecole con azione anti-estrogenica hanno tale proprietà e sono in grado di bloccare il ciclo cellulare al-la fase G0/G1.

Questa inibizione è reversibile, infatti cellule MCF-7 cresciute in terreno di coltura inte-grato con CLA per 4 giorni, se trasferite in terreno colturale privo di CLA rincominciano a proliferare (Durgam e Fernandes, 1997)

L’isomero t10,c12 CLA inibisce la proliferazione cellulare indotta da insulina ed estroge-ni riducendo la sintesi del recettore estrogenico α come anche il suo legame con proteine nu-cleari (NFkB) che determinano uno stimolo alla proliferazione cellulare (Bhattacharya et al., 2006).Inoltre questo isomero aumenta la sintesi delle caspasi pro-apoptottiche. Il c9,t11 CLA determina invece una minor sintesi di PGE2, molecola sintetizzata dalla ciclo-ossigenasi 2 e in grado di stimolare la crescita cellulare. In assenza del CLA o in caso di valori inferiori ri-spetto alla media, il normale sviluppo mitogenico continua senza arresto determinando una forte proliferazione cellulare.

Basandosi su questi risultati sperimentali si può ipotizzare che i CLA inibiscano la cresci-ta delle cellule MCF-7 interferendo con la via mitogenica regolata dagli ormoni (Durgam e Fernandes, 1997) .

Gli studi clinici hanno dato risultati contrastanti.In alcuni casi è stato riportato che un aumento nell’intake del CLA attraverso il latte

intero riduce il rischio di cancro mammario nelle donne, ed è stato mostrato inoltre che il CLA assunto con la dieta è anche efficace nella prevenzione dei tumori mammari indot-ti da DMBA (Aro et al., 2000; Knekt et al., 1996); in altri casi il contenuto di CLA nel-la dieta non è stato associato con una riduzione del rischio di questo tipo di cancro (Vo-orips et al., 2000).

Cancro alla prostata

È stato dimostrato un effetto antiproliferativo del CLA sia in vitro che in vivo. Alcuni stu-di in vitro hanno mostrato che l’isomero t10,c12 CLA è più efficace del c9,t11 nei confron-ti del cancro alla prostata.

Gli esperimenti in vivo sono pochi, ma è generalizzata l’osservazione di una riduzione nelle metastasi tumorali in animali alimentati con CLA in cui sono state iniettate localmente cellu-le cancerogene, mentre non si è riscontrata negli animali alimentati con la dieta di controllo.

Si è ipotizzato che il meccanismo con cui il CLA inibisca il cancro alla prostata consista soprattutto nella modulazione dell’apoptosi e del ciclo cellulare, come già riportato nel caso del cancro mammario e del cancro gastrointestinale.

Anche in questo caso la modalità di azione degli isomeri del CLA è differente. L’isomero t10,c12 CLA può modulare i geni coinvolti nell’apoptosi e nel ciclo cellulare, mentre il c9,t11 CLA può regolare alcuni geni coinvolti nel metabolismo dell’acido arachidonico, così da at-tenuare la sintesi degli eicosanoidi.

Questo isomero può ridurre l’espressione dei geni COX e LOX, correlati al metabolismo dell’acido arachidonico e da cui derivano PG con effetto di stimolo della proliferazione cel-lulare. Entrambi gli isomeri possono ridurre l’espressione del Bcl-2 e indurre apoptosi nelle cellule PC3, regolando anche il ciclo cellulare (Ochoa et al., 2004).

Angiogenesi

Un’azione fondamentale di entrambi gli isomeri del CLA contro la cancerogenesi si basa sul controllo dell’angiogenesi.

Alcuni studi in vivo hanno riportato che entrambi gli isomeri possono ridurre i livelli nel

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siero di VEGF e della proteina Flk-1 nella ghiandola mammaria ottenendo così il controllo dell’angiogenesi.

È stato anche dimostrato che a livelli di integrazione alimentare con CLA dall’1% al 2% della dieta (sul tal quale), si riduce in modo significativo l’angiogenesi, senza una sostanziale differenza tra i due isomeri, non solo agendo sul VEGF, ma anche inibendo la formazione di vasi sanguigni funzionali alla cancerogenesi (Masso-Welch et al., 2002).

Sono stati ipotizzati alcuni meccanismi per spiegare l’inizio dell’angiogenesi da parte del CLA: 1) riduzione delle alterazioni negative cellulari iniziali e dei vasi sanguigni funzionali all’an-

giogenesi; 2) riduzione della rete di collegamento cellulare; 3) inibizione dei collegamenti micro-capillari in vitro; 4) regolazione del VEGF locale e si-

stemico.Alcuni studi sottolineano anche la presenza di un altro potenziale mediatore degli effetti

del CLA sull’angiogenesi: si è infatti dimostrato che la Leptina, un ormone proangiogenico, si riduce nel plasma con la somministrazione dell’isomero t10,c12 del CLA.

CLA e insulino resistenza (IR)

Il CLA riduce i livelli di glucosio e di insulina nel plasma e previene l’iperinsulinemia au-mentando i livelli di adiponectina del plasma. Solo i trattamenti a lungo termine possono sti-molare la sensibilità all’insulina e la tolleranza al glucosio, mentre all’inizio del trattamento si può verificare un effetto negativo del CLA (Bhattacharya et al., 2006).

Alcuni studi clinici hanno mostrato che l’isomero t10,c12 CLA può indurre iperinsuline-mia in individui obesi, mentre in altri studi si è riportato che il CLA aumenti la sensibilità all’insulina (Bhattacharya et al., 2006) .

CLA e risposta infiammatoria

Il CLA ha un effetto anti-infiammatorio derivante da diversi meccanismi di azione:- riduzione della produzione di eicosanoidi;- aumento della risposta anti-infiammatoria mediata dal PPAR, anche se con meccanismi di-

versi fra i due isomeri;- soppressione della risposta infiammatoria attraverso la regolazione del fattore nucleare di

trascrizione cellulare k B (NF-kB);- riduzione dell’espressione delle citochine pro-infiammatorie (TNF-α; IL-1, IL-6).

Negli animali il CLA induce una regolazione negativa dell’espressione dei geni pro-infiammatori e un’attivazione dell’apoptosi nella regione aterosclerotica (Bhattacharya et al., 2006).

Assunzione di CLA

In accordo con Kelly et al. (2007)] l’assunzione di CLA nell’uomo, corrispondente ai livel-li di efficacia negli animali, può variare da 5 a 50 g/die. Un articolo recente di Mushtaq et al. (2010) ha riportato un’intake giornaliero di 97,5 mg in 18 volontari inglesi, mentre Aro et al. (2000) hanno stimato un’assunzione del CLA nelle donne finlandesi da 126.8 a 142.3 mg/die.

Non sono ancora disponibili dati sull’assunzione di CLA da parte della popolazione ita-liana attualmente sotto studio, comunque basandosi sui risultati dei due lavori sopra citati, si evidenzia la necessità di aumentare i livelli di CLA nel latte e nei prodotti lattiero-caseari per rendere disponibili alimenti che rispondano al bisogno di un consumatore sempre più at-tento alla salute.

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Acidi grassi saturi e salute umana

Introdurre con la dieta una grande quantità di prodotti lattiero caseari può comportare una forte assunzione di grassi, soprattutto di acidi grassi saturi (Moorman e Terry, 2004) e colesterolo.

Gli effetti negativi di questo tipo di grassi possono essere principalmente due: l’aumento delle LDL e quindi l’insorgere di problemi cardiovascolari e l’aumento della concentrazione di estrogeni circolanti. Nello studio Seven Countries è stato riportata una chiara relazione fra l’assunzione di grassi saturi e la mortalità coronarica. Se però gli acidi grassi saturi vengo-no disaggregati in funzione della loro lunghezza, si nota una differenza di risposta in funzio-ne del tipo di acido grasso. Mentre l’acido stearico (C18:0) non ha effetti sui livelli di cole-sterolo se confrontato con l’acido oleico (18:1), gli acidi grassi saturi di dimensioni inferiori del C18, come il C14 (ac. miristico) e il C16 (ac. palmitico) tendono ad incrementare i livelli di colesterolo e di LDL nel plasma. La parziale sostituzione degli acidi grassi saturi con aci-di grassi polinsaturi si è mostrata in grado di abbassare la colesterolemia e il rischio corona-rico (Hu et al., 2001).

RUOLO FISIOLOGICO DEL FATTORE DI CRESCITA INSULINO-SIMILE E DEGLI ESTROGENI

Gli estrogeni e l’ IGF-I sono presenti nel latte umano e bovino sia in forma libera che le-gata, non possono essere distrutti con la pastorizzazione e pertanto sono rinvenibili in que-sto alimento.

I fattori di crescita insulino-simili IGF-I e IGF-II, anche noti come somatomedina C ed A, sono peptidi che agiscono stimolando la crescita localmente nei tessuti.

Si ipotizza che siano potenti mitogeni, normalmente presenti nel latte umano e bovino.La somministrazione di ormone della crescita bovino (bGH) è in grado di aumentare la

concentrazione di IGF-I nel latte (Outwater et al., 1997).Il fattore IGF-I è, almeno potenzialmente, in grado di stimolare la proliferazione delle cel-

lule di tumore mammario.Alcuni studi in vitro hanno rivelato che le cellule di cancro mammario rispondono a con-

centrazioni nanomolari di IGF-I e che tali cellule hanno molti più recettori per IGF-I che le cellule del normale tessuto mammario.

L’IGF-I inoltre causa cambiamenti nel ciclo cellulare e negli oncogeni come c-fos.La conseguenza diretta delle attività degli IGF-I può essere la crescita non controllata del-

le cellule cancerose. Ulteriore conferma del coinvolgimento dell’IGF-I nella trasformazione cellulare tumorale,

viene dall’osservazione che bloccando o rimuovendo i relativi recettori cellulari, si può elimi-nare la trasformazione maligna virale o indotta dagli oncogeni (Moorman e Terry, 2004. Ne deriva che l’IGF-I agisce in sinergia con altri fattori di crescita, rendendo le cellule trasfor-mate più sensibili ai loro segnali.

Gli estrogeni hanno la migliore sinergia con l’IGF-I: possono infatti aumentare i livelli di IGF-I nel tessuto neoplastico mammario umano. L’IGF-I viene anche chiamato estromedina, proprio perché anch’esso riesce a mediare gli effetti degli estrogeni.

In alcuni studi un’alta concentrazione di estrogeni nel plasma è stata correlata con un’au-mento dell’incidenza del cancro mammario (Outwater et al., 1997; Moorman e Terry, 2004).

L’ IGF-I può essere assorbito intatto dal tratto gastro-intestinale, sia pure in misura limi-tata e può viaggiare attraverso il circolo sanguigno, liberando i suoi effetti mitogeni local-mente sui tessuti: così i problemi legati a questi peptidi non si limitano agli IGF già presen-

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ti nell’organismo o dipendenti dagli estrogeni, ma anche ai fattori dei crescita introdotti con l’assunzione del latte intero.

Non può però essere dimenticato che se si fissa la sintesi endogena di IGF-I a valo-ri medi nell’ordine di 107 ng/die, allora il contributo dell’IGF-I di origine casearia è at-torno allo 0.06%.

RUOLO FISIOLOGICO DEL CALCIO E DELLA VITAMINA D

Il calcio e la vitamina D sono strettamente collegati uno all’altra: la vitamina D regola l’as-sorbimento e il metabolismo del calcio.

La maggior parte delle evidenze in cui si mostra il ruolo protettivo del calcio contro il can-cro, sono legate alla presenza di vitamina D.

Si è dimostrato che la forma attiva della vitamina D agisce fortemente sul processo e sull’entità della crescita cellulare; è stato anche riconosciuto un ruolo specifico di tale mole-cola nella differenziazione della ghiandola mammaria (Moorman e Terry, 2004).

La vitamina D può infatti inibire la proliferazione del ciclo cellulare, arrestandolo alla fa-se G0/G1, come il CLA. In questo modo può regolare negativamente alcuni fattori di sviluppo come gli IGF e regolare positivamente alcuni fattori inibenti la crescita.

Un ulteriore meccanismo con cui la vitamina D può regolare il ciclo cellulare è legato all’induzione dell’apoptosi, l’involuzione della cellula, la condensazione della cromatina e la frammentazione del DNA (Moorman e Terry, 2004.

Gli effetti del calcio da solo non sono altrettanto evidenti: in alcuni studi si è mostrato che la relazione inversa tra il calcio e il cancro è statisticamente significativa solo a livelli alti di assunzione della vitamina D (Cho et al., 2004), ma si è riportato anche che il calcio da solo ha un effetto apoptotico, contribuendo così a proteggere l’organismo dal cancro (Alvarez et al., 2006; Moorman e Terry 2004).

CONCLUSIONI

La ipotesi dell’esistenza di una relazione inversa tra i prodotti lattiero caseari e il cancro ha spinto molti studi.

Tale ipotesi è stata confermata in alcuni studi (Choe tal., 2004; Knekt et al., 1996), anche se è necessario discriminare tra i vari tipi di cancro.

Il latte è stato riconosciuto come agente protettivo contro il cancro al colon-retto in diversi studi (Knekt et al., 1996; Alvarez-Leon et al., 2006; Moorman e Terry, 2004; Cho et al., 2004).

Nello studio di Cho et al., 2004 si è evidenziato come per ogni 500g/die di aumento nell’as-sunzione di di latte si ottenesse una riduzione del 12% nel rischio di sviluppare un tumore al colon-retto.

Alcuni studi hanno mostrato gli effetti protettivi dei prodotti lattiero-caseari contro il can-cro mammario soprattutto per quanto riguarda i prodotti fermentati: da queste e altre ricerche è emersa una relazione inversa tra il consumo di latticini e il rischio di cancro mammario. è stata riconosciuta l’assenza di relazioni positive tra i prodotti derivati dal latte, fermentati e non, e il rischio di cancro mammario Cho et al., 2004; Ip et al., 1996; Knekt et al., 1996; Shin et al., 2002; Van’t Veer et al., 1989) .

La rielaborazione dei dati relativi alle prove su modelli animali mostrano chiaramente un trend nella relazione tra il cancro mammario e l’assunzione di CLA. Sfortunatamente non so-no disponibili sufficienti studi clinici per dimostrare nell’uomo lo stesso andamento dei mo-delli animali.

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In due studi epidemiologici condotti sull’uomo, non è stato infatti possibile individua-re nessun tipo di effetto dell’ingestione di CLA sul tumore mammario (Alvarez-Leon et al., 2006; Voorips et al., 2002).

Nei prodotti lattiero-caseari è chiara la presenza contemporanea di alcuni fattori protettivi per la salute e di qualche fattore non favorevole.

Quindi gli studi epidemiologici condotti ad oggi non sono in grado di stabilire quali tra ta-li fattori sono i più rilevanti per la salute umana.

Alcuni studi hanno ottenuto effetti positivi dall’utilizzo di prodotti lattiero-caseari, ma che non possono essere statisticamente dimostrati o che non possono essere connessi in modo spe-cifico con un preciso componente di tali alimenti.

Concludendo si può dire che i prodotti lattiero-caseari sono essenziali per il nostro meta-bolismo e alcuni componenti sono probabilmente coinvolti in processi positivi per la salute. Gli effetti maggiori contro la patologia neoplastica sono collegati alla sinergia tra CLA, Vi-tamina D e Calcio.

Queste molecole sono anche coinvolte in altri effetti positivi per la salute, come la preven-zione dell’aterosclerosi, la riduzione della massa grassa e il controllo dell’insulino-resistenza.

Gli isomeri del CLA hanno differenti target e meccanismi di azione, ma sicuramente pos-sono regolare la proliferazione cellulare, gli estrogeni e i fattori di crescita. La panoramica su questi risultati quindi suggerisce che i prodotti lattiero-caseari in regime di assunzione cor-retta siano importanti per proteggere il nostro organismo contro i mali principali dei nostri tempi ma altri studi sono necessari per definire tali prodotti sicuri, anche per il contenuto in acidi grassi saturi.

IPERTENSIONE ARTERIOSA E PRODOTTI LATTIERO-CASEARI

L’ipertensione viene generalmente definita come pressione arteriosa diastolica > 90 mmHg o pressione sistolica > 140 mmHg. L’ipertensione è il principale fattore di rischio per la car-diopatia ischemica, lo scompenso cardiaco congestizio, l’ictus, la rottura di aneurisma aorti-co, la nefropatia e la retinopatia. Poiché queste complicanze sono tra le malattie più comuni e gravi nei paesi industrializzati, il successo degli interventi atti a ridurre la pressione potreb-be avere un impatto significativo sulla salute della popolazione. L’alimentazione è conside-rata un fattore importante ai fini della regolazione della pressione arteriosa. In letteratura so-no presenti molteplici studi sull’associazione tra pressione arteriosa e consumo di prodotti lattiero-caseari.

Ruolo dei prodotti lattiero-caseari nell’ipertensione arteriosa

Le potenzialità biologiche della frazione proteica del latte e delle sostanze biologicamen-te attive in essa contenute hanno risvegliato negli ultimi anni l’interesse di ricercatori e stu-diosi. Tra le sostanze in questione troviamo i peptidi bioattivi. Queste sostanze sono inattive all’interno della sequenza primaria delle proteine, ma acquistano bioattività nel momento in cui vengono rilasciati in vivo durante la digestione gastrointestinale, o come conseguenza dei processi proteolitici che hanno luogo durante la lavorazione degli alimenti o, nel caso di for-maggi ed insaccati, durante la stagionatura. I peptidi derivano prevalente da proteine animali e vegetali, soprattutto dal latte (caseine), dalla soia e dal pesce.

Le principali attività legate a tali peptidi bioattivi sono quella antitrombotica, antiiperten-siva (Fitzgerald et al., 2004), oppioide, immunomodulante, antimicrobica, antiossidante, ipo-colesterolemica e di trasporto degli oligoelementi.

Tra i peptidi bioattivi derivanti da proteine di origine alimentare, i più studiati sono quel-

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li con attività anti-ipertensiva, che si esplica principalmente attraverso l’inibizione dell’en-zima convertitore dell’angiotensina (ACE). Quest’ultimo è una zinco-metallopeptidasi pre-sente nei polmoni, nel plasma ed in numerosi altri tessuti, è coinvolta nella regolazione della pressione sanguigna attraverso la formazione dell’octapeptide angiotensina II, un potente va-socostrittore, a partire dall’angiotensina I per rimozione del dipeptide C-terminale. Paralle-lamente l’enzima è coinvolto nella degradazione della bradichinina, che è invece un potente vasodilatatore, per cui il risultato finale di tale attività enzimatica è un deciso innalzamento della pressione sanguigna.

L’angiotensina II in parte regola anche la lipogenesi, quindi gli ACE inibitori hanno effetto positivo anche su prevenzione e trattamento dell’obesità.

I peptidi ACE inibenti sono solitamente composti da un piccolo numero di amminoaci-di (da due a nove) e sono generalmente resistenti alla degradazione operata dagli enzimi digestivi.

Questo fatto è molto importante in quanto l’attività ACE inibitrice si esplica nel caso in cui il peptide venga assorbito intatto nell’intestino, raggiungendo il sistema cardiocircolato-rio nella sua forma attiva (Erdmann et al., 2008)

Inoltre si è scoperto che la presenza di arginina, prolina o lisina come terminali carbonio-si contribuisce a facilitare l’attacco dei peptidi all’ACE, potenziando così l’attività inibitrice.

Le caseine rappresentano una fonte molto importante di peptidi dotati di attività ACE-ini-bitrice; in particolare sono noti peptidi ad attività anti-ipertensiva, detti casochine, che deri-vano dall’αS1-caseina bovina (frammenti 23-24, 23-27 e 194-199), e dalla β-caseina bovina (frammenti 177-183 e 193-202) per idrolisi triptica (Maruyama et al., 1987).

Diversi peptidi con attività ACE-inibitrice sono stati riscontrati anche nei formaggi, nei quali si formano in seguito ai fenomeni proteolitici a cui è sottoposta la frazione caseinica durante la produzione e la fase di stagionatura; tali molecole non possono sicuramente com-petere come potenza con i farmaci attualmente in commercio per il trattamento dell’iperten-sione, tuttavia il fatto che prodotti caseari possano contenere peptidi con una evidente azione di abbassamento della pressione arteriosa è sicuramente molto interessante nell’ottica dello sviluppo di cibi funzionali.

Sipola et al. (2002) hanno evidenziato degli effetti della somministrazione prolungata di prodotti lattiero caseari sulla pressione arteriosa di topi. Seppo et al. (2003) e Jauhiainen et al. (2005-2007) hanno evidenziato che diete ricche di latti fermentati da Lactobacillus helveticus portano ad una riduzione della pressione arteriosa sino a 21 mm Hg.

Uno studio recente Cicero et al. (2010) mostra un effetto evidente dei lattotripeptidi VPP (valina-prolina-prolina) e IPP (isoleucina, prolina, prolina) sulla pressione arteriosa, focalizzando però l’attenzione sul diverso effetto che hanno sulla razza caucasica ed asia-tica (Figura 1).

Infatti è stata riscontrata attività anti-ipertensiva nei soggetti asiatici, mentre i soggetti cau-casici non hanno dato risultati analoghi (Cicero et al., 2010).

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Figura 1. Effetto dei peptidi ACE-inibenti sulla pressione arteriosa sistolica. A sinistra i da-ti relativi a studi condotti su popolazioni caucasiche e asiatiche, mentre a destra vi sono gli studi condotti unicamente su soggetti di origine asiatica.

Jauhiainen et al. (2010) confermano le potenzialità ACE inibenti dei peptidi bioattivi in uno studio su modelli animali.

In accordo con i precedenti studi si riscontra che i derivati del latte contenenti tali pepti-di agiscono contro l’ipertensione anche in casi di patologia grave (Jauhiainen et al.; 2010).

Il confronto effettuato in questo studio ha permesso di capire che i prodotti derivati dal latte sono nel loro complesso gli effettivi agenti di inibizione dell’ACE nei casi di patologia grave e di rapido sviluppo, in quanto la sola somministrazione di IPP e VPP con acqua ha mostrato un effetto debole di inibizione. L’azione anti-ipertensiva dei peptidi è quindi in stretta siner-gia con i componenti del latte.

Una nostra rielaborazione della meta-analisi di Pripp (2008) conferma non solo l’assen-za di una risposta lineare fra variazione pressoria e quantità di peptidi somministrati con alimenti costituiti prevalentemente da latticini, ma anche l’assenza di risposte logaritmi-che (Figura 2).

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Figura 2. Assenza di relazione fra i dosaggi dei peptidi ACE inibenti e la pressione sistolica (SBP) e diastolica (DBP)

I risultati preliminari di uno studio, ancora in corso, della Facoltà di Agraria di Piacenza (Istituto di Scienze degli Alimenti e della Nutrizione) e dell’Ospedale di Piacenza mostrano come la somministrazione di 30 gr di Grana Padano sia in grado di ridurre la pressione arte-riosa in soggetti ipertesi (Tabella 1) Crippa et al., 2011)

Tabella 1. Effetto della somministrazione di 30 gr di formaggio Grana Padano sulla pres-sione arteriosa in soggetti ipertesi.

Basale Dopo trattamento PPressione arteriosa media (mmHg) (Gruppo Grana Padano) 146/91 ± 11/9 134/83 ± 10/7 <0.05

Pressione arteriosa media (mmHg)(Gruppo Controllo) 149/93 ± 13/8 147/91 ± 12/10 NS

L’azione anti-ipertensiva dei peptidi bioattivi si esplica anche attraverso altri meccanismi, oltre all’inibizione dell’ACE: i peptidi infatti possono interagire con i recettori per gli oppioi-di dando un effetto di vasodilatazione; possono inibire il rilascio dell’endotelina-1, un peptide con proprietà vasocostrittrici; infine fungono da trasportatori del calcio, rendendolo maggior-mente disponibile (Tidona et al., 2009).

Tra gli altri componenti dei prodotti lattiero-caseari che svolgono un ruolo determinante nella riduzione della pressione arteriosa si ricorda infatti anche il calcio. Lo studio NHANES I ha evidenziato che la concentrazione di Ca alimentare derivato da prodotti lattiero-caseari ha un rapporto inverso con i valori pressori. Nello studio di Smajilovic et al. (2007), si ipotiz-za la presenza dei recettori per il calcio (CaR) a livello dei nervi perivascolari e delle cellule muscolari lisce, mentre è confermata nelle cellule dell’endotelio.

Tre sono i meccanismi proposti per giustificare l’azione ipo-tensiva del Ca (Figura 3): a livello dell’intima, il legame del Ca con il suo recettore (CaR) determina sia una maggior sintesi di NO, potente vasodilatatore, che un aumento nell’escrezione di K+, cui seguireb-be una iper-polarizzazione che a sua volta si ipotizza determini vasodilatazione, mediata da un cannabinoide.

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Figura 3. Effetti del calcio e dei recettori CaR nei vasi sanguigni. Le frecce scure indicano ef-fetti comprovati, mentre le frecce rosse quelli ipotizzati dagli autori (Smajilovic et al., 2007).

Prodotti lattiero caseari e peso corporeo

I prodotti lattiero-caseari sembrano influenzare anche le dinamiche ponderali (Zemel et al., 2004; Gunther et al., 2005; Lorenzen et al., 2007; Major et al., 2009; Zemel, 2004; Azadbakht et al., 2005; Zemel et al., 2005; Zemel e Miller, 2004).

Gli studi svolti fino ad oggi dimostrano che diete ricche di calcio aumentano l’ossidazione lipidica e riducono l’assorbimento di grassi per la formazione di saponi insolubili di calcio che vengono escreti con le feci.

La sinergia calcio-vitamina D è necessaria per ottenere risultati soddisfacenti in caso di bassa introduzione di calcio (Pittas et al., 2007).

Già Tordoff (2001) ha suggerito l’esistenza di uno specifico controllo dell’appetito da parte del calcio e questo si collega con l’effetto della sinergia calcio-vitamina D sull’intake spon-taneo di energia. E’ significativa in tal senso la tabella 2:

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Tabella 2. Effetto della somministrazione di diete a basso o alto tenore in Ca o ad alto contenuto di laticini, sul peso la massa grassa e la circonferenza vita. (Zemel et al., 2004)

TrattamentiBasso Ca Alto Ca Alto latticini

Peso corporeo iniziale (kg) 103.1 + 6.1 99.8 + 4.5 101.6 + 6.8Grasso corporeo iniziale (kg) 59.4 + 4.7 48.4 + 5.3* 50.7 + 5.0*Grasso iniziale nel tronco (kg) 26.0 + 1.7 22.8 + 3.1 26.7 + 3.0Circonferenza fianchi iniziale (cm) 104.6 + 3.3 100.6 + 4.8 103.4 + 2.8Riduzione peso (kg) 6.60 + 2.58a 8.58 + 1.60b 11.07 + 1.63c

Riduzione peso (% peso iniziale) 6.4 + 2.5a 8.6 + 1.1b 10.9 + 1.6c

Riduzione del grasso corporeo (kg) 4.81 + 1.22a 5.61 + 0.98b 7.16 + 1.22c

Riduzione del grasso nel tronco (kg) 1.38 + 0.60a 2.94 + 0.73b 3.74 +0.64c

Dalla tabella emerge la drastica alterazione del grasso corporeo e del peso in funzione del-la quantità di calcio introdotta con la dieta (Zemel et al., 2004).

Sono stati suggeriti diversi meccanismi per spiegare la riduzione del grasso corporeo.Il Ca intracellulare [Ca]i è un punto

fondamentale nella regolazione del meta-bolismo dell’adipocita, ad un suo aumen-to corrisponde infatti una stimolo alla li-pogenesi ed una inibizione della lipolisi. Tale aumento è dovuto al fatto che li adi-pociti posseggono recettori di membra-na per la vitamina D i quali, in presenza dell’1,25(OH)2 D3 permettono l’entrata del Ca nella cellula, con attivazione del-la lipogenesi e soppressione della lipoli-si. L’esito è un aumento di volume degli adipociti. La vitamina D inibisce inol-tre la UCP-2 (uncoupling protein 2) che consentirebbe la termogenesi da tessuto adiposo. Al contrario alti apporti di Ca, inibendo la sintesi di vitamina D attiva, riducono il Ca cellulare e ciò modifica la ripartizione dell’energia ingerita.

In particolare la vitamina D3, determina l’aumento di [Ca]i e la sua sintesi è inversamen-te proporzionale al calcio introdotto con la dieta, Pertanto il calcitriolo aumentando il flusso intracellulare di calcio negli adipociti, determina un aumento di adiposità. Una dieta ricca di calcio inibisce invece la lipogenesi e promuove la lipolisi.

In questo modo il calcio agisce in sinergia con i peptidi ACE inibenti.Questi risultati sono in accordo con lo studio di Zemel et al.( 2004) in cui si è definito che

un elevata introduzione di derivati del latte porta alla riduzione di vitamina D3 che a sua vol-ta stimola l’espressione di 11β-idrossisteroide deidrogenasi 1(11β-HSD-1), che determina la produzione di cortisone, riducendo lo stato infiammatorio e lo sviluppo di adiposità.

Infine è bene ricordare che la sinergia tra calcio e vitamina D è fondamentale anche per funzioni neuromuscolari, psoriasi,e alcuni tipi di cancro.

Si suppone inoltre un effetto benefico del calcio in prevenzione del diabete di tipo II.

Meccanismo con cui il calcio introdotto con l’alimenta-zione agisce sull’adiposità. Zemel (2004)

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PRODOTTI LATTIERO-CASEARI E SALUTE DELLE OSSA

Scopo di questo capitolo è focalizzare l’attenzione sulle relazioni tra consumo del latte e dei suoi derivati e salute delle ossa, con particolare riguardo all’osteoporosi, patologia carat-terizzata da una riduzione della massa ossea e da un deterioramento microarchitetturale del tessuto osseo, con conseguente fragilità scheletrica e aumento del rischio di frattura (Consen-sus Development Conference, 1993).

Il ruolo del calcio e della vitamina D nel determinare l’entità della massa ossea sono no-ti da tempo (Heaney, 2000b; Rizzoli et al., 2010; Caroli et al., 2011). La maggior quantità di calcio ottenuto dalla dieta proviene, in generale, da latte e derivati. In condizioni normali, so-lo il 40% del calcio presente in latte e formaggi viene assorbito, una biodisponibilità molto simile a quella dei comuni integratori di calcio nella dieta. A differenza di questi ultimi, tut-tavia, i prodotti lattiero-caseari forniscono anche proteine, magnesio, potassio, zinco e fosfo-ro, un complesso di elementi che può rendere più efficiente l’assorbimento del calcio e la sua deposizione nell’osso (Heaney, 1996, 2000, 2009; United States Department of Agriculture, 2005; Weaver, 2009; Tucker, 2009). Inoltre, latte e derivati non contengono sostanze capaci di inibire l’assorbimento intestinale di calcio, come fitati, ossalati e polifenoli, presenti inve-ce in molti vegetali apportatori di elevate quantità di calcio. Da ultimo, il calcio presente nel latte può essere assorbito anche in assenza di vitamina D grazie all’effetto del lattosio (Gue-guen e Pontillard, 2000).

Un sufficiente apporto nutrizionale di calcio condiziona il raggiungimento di un adeguato picco di massa ossea durante l’accrescimento dell’apparato scheletrico e previene la perdita di osso e le conseguenti fratture negli anziani (Lindsay e Nieves, 1994; Murray, 1996; Heaney, 2000a; Huth et al., 2006; Straub, 2007; Rizzoli et al., 2010). Secondo Francis et al. (2006), la popolazione adulta dovrebbe assumere con la dieta una quantità di calcio superiore a 700 mg/giorno mentre i soggetti a rischio di osteoporosi dovrebbero aumentare il loro apporto a 1000-1500 mg/giorno. Nel 1996 la Società Italiana di Nutrizione Umana ha fissato le dosi giorna-liere medie raccomandate di calcio tra 800 e 1000 mg per i bambini e gli adulti, elevandole a 1200 mg per gli adolescenti e gli anziani (LARN, 1996). Tutti gli autori sopra citati concor-dano nel considerare i prodotti lattiero-caseari come una fonte ottimale di calcio a tutte le età.

Anche Sunyecz (2008) afferma che tali prodotti possono rappresentare la migliore fonte di calcio alimentare a causa del loro elevato contenuto di calcio biodisponibile, nonché del loro costo relativamente ridotto. Weaver (2008) evidenzia come l’apporto dietetico dello io-ne possa condizionare il 10-15% del contenuto scheletrico di calcio durante l’adolescenza. Heaney (2009) conclude quanto sia difficile progettare una dieta salutare per le ossa che non comprenda almeno tre porzioni di latticini al giorno.

Peters e Martini (2010) affermano che adeguate quantità di calcio, vitamina D e proteine riducono il riassorbimento osseo, migliorano la ritenzione di calcio, limitano la perdita di osso legata all’età e il rischio di fratture. Gli stessi autori evidenziano come una dieta appropriata, contenente latticini, frutta e verdura nonché adeguate quantità di carne e pesce, sia positiva-mente correlata con la salute dello scheletro. Un parere favorevole per quanto riguarda l’ef-fetto del calcio sulla salute delle ossa e dei denti è stato espresso anche dall’Autorità Europea di Sicurezza Alimentare (EFSA, 2009).

Effetti benefici di calcio e latticini sulla massa ossea: alcuni dati sperimentali

Correlazioni significative tra consumo di latte nell’adulto e densità minerale ossea (BMD) dello scheletro assiale e appendicolare sono state osservate da Soroko et al. (1994) in uno stu-dio condotto su 581 donne bianche in menopausa. Nguyen et al. (2000) evidenziano associa-zioni positive e significative tra BMD, indice di massa corporea (BMI), forza dei quadricipiti

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e consumo di calcio. Anche Hawker et al. (2002) riportano una correlazione significativa tra BMD dell’avambraccio e consumo di latte in giovani donne norvegesi.

I vantaggi che provengono dall’assunzione di latte e derivati per la salute delle ossa è mas-simo durante l’accrescimento. Kalkwarf et al. (2003) hanno valutato gli effetti del consumo di latte durante l’infanzia e l’adolescenza sulla densità ossea in età adulta e sulle fratture osteo-porotiche in 3251 donne americane non ispaniche in menopausa. Una ridotta massa ossea in età adulta è stata associata ad un limitato consumo di latte nell’infanzia (5-12 anni) e nell’ado-lescenza (13-17 anni). Un limitato consumo di latte durante l’infanzia era inoltre associato all’11% delle fratture osteoporotiche riscontrate in età avanzata.

Durante la transizione alla prima età adulta, l’apporto giornaliero di calcio in femmine e maschi si riduce in media di 153 mg e 194 mg, rispettivamente (Larson et al., 2009) ad in-dicare la necessità di interventi mirati per indurre gli adolescenti ad assumere una maggior quantità di latte e prodotti caseari. In una popolazione di 755 maschi (età media = 18,7 anni) Ruffing et al. (2006) hanno osservato che la quantità di latte consumato è un fattore cruciale, insieme alla dimensione corporea, alla razza e all’esercizio fisico, che condiziona la BMD e la dimensione delle ossa.

Bonjour et al. (2008) hanno messo in evidenza l’inibizione del riassorbimento osseo in donne sane in post-menopausa, in seguito alla somministrazione di latte parzialmente scre-mato (500 ml al giorno, corrispondenti a 600 mg di calcio). Tale supplemento, assunto per un periodo di 6 settimane, induceva una diminuzione di numerosi indicatori compatibile con un diminuito turnover dell’osso. Si può, quindi, concludere che un approccio nutrizionale volto a ridurre le alterazioni del metabolismo osseo post-menopausale rappresenti una misura vali-da nella prevenzione primaria dell’osteoporosi.

Nicklas et al. (2009) raccomandano la somministrazione di 3-4 porzioni al giorno di latti-cini a individui di età superiore a 9 anni come misura per assicurare un adeguato apporto di calcio e magnesio, assumendo che il resto della dieta rimanga invariato.

Il contenuto minerale osseo (BMC) a livello del rachide lombare e la BMD sono risultati strettamente associati al consumo di latte, ma non al calcio proveniente da altre fonti (Ester-le et al., 2009). Ragazze che assumevamo meno di 55 ml di latte al giorno presentavano va-lori di BMD e BMC significativamente inferiori rispetto alle loro coetanee il cui consumo giornaliero di latte era superiore a 260 ml. Uno studio italiano condotto su 1771 donne sane, all’inizio della menopausa, non non ha evidenziato nessuna correlazione tra apporto nutri-zionale di calcio e osteoporosi se non si teneva conto del fattore sovrappeso (Varenna et al., 2007). Tuttavia, se i dati venivano corretti per questo fattore, vi era una maggior probabilità di insorgenza dell’osteoporosi nelle donne che assumevano meno calcio.

Sostanze bioattive in latte e derivati e metabolismo del calcio

Anche particolari componenti bioattive delle lattoproteine possono influenzare la salu-te delle ossa. Le proteine del siero di latte, in particolare la frazione basica (MBP), si sono dimostrate capaci di inibire il riassorbimento osseo e di prevenire la perdita di osso causata dall’ovariectomia in ratti di 51 settimane di età (Toba et al., 2000). Inoltre, gli stessi autori hanno evidenziato in vitro effetti inibitori diretti di MBP sugli osteoclasti di coniglio.

Le proteine acide del colostro (2-50 mg/d) prevenivano la perdita d’osso in ratti ovariecto-mizzati (Du et al., 2010). Si tratta di un effetto probabilmente associato alla presenza, tra le proteine acide del colostro, di numerose sostanze in grado di stimolare la mineralizzazione e crescita ossea (osteopontina, epidermal growth factor, insulin-like growth factor-2).

I caseinofosfopeptidi (CFP) trasportano numerosi minerali, in particolare il calcio (FitzGe-rald, 1998). Reeves and Latour (1958) hanno evidenziato che CFP ottenuti mediante idrolisi enzimatica in vitro delle caseine, aumentano la solubilità del calcio. Una maggior calcifica-

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zione della diafisi ossea di embrioni di ratto è stata dimostrata da Gerber e Jost (1996). Do-nida et al. (2009) hanno osservato che un idrolisato caseinico contenente CFP era in grado di modulare l’assorbimento di calcio e la differenziazione in cellule umane di tipo osteobla-stico. Tulipano et al. (2010) hanno dimostrato che i CFP possono direttamente influenzare la crescita di osteoblasti-simili, l’assorbimento di calcio e, in definitiva, la deposizione di calcio nella matrice ossea extracellulare, sia con effetti stimolatori o inibitori.

Elementi confondenti e pareri discordanti

La complessità delle relazioni tra assunzione di latticini e salute delle ossa è molto elevata, come abbiamo mostrato in questa breve descrizione dello stato dell’arte. Il metabolismo os-seo è influenzato da numerosi fattori, genetici, ormonali, fisiologici e nutrizionali. Elementi confondenti di ogni genere possono influire negativamente sugli esperimenti, in particolare negli studi retrospettivi basati su dati auto-riportati che riguardano l’assunzione di latticini. Un altro fattore che può rendere difficile il confronto tra sperimentazioni condotte in diversi paesi è l’utilizzo di latticini fortificati, ad esempio con vitamina D. L’ampia varietà di prodotti caseari è anche un aspetto che dovrebbe essere considerato nel valutare il diverso contenuto di nutrienti biodisponibili che possono incidere sulla salute delle ossa.

I lavori scientifici che riportano gli effetti favorevoli del latte e dei prodotti lattiero-caseari sul tessuto osseo sono percentualmente più numerosi, anche se esistono alcuni studi che ri-portano effetti negativi. Sono stati infatti riportati alcuni dati discordanti, soprattutto sul ri-schio di fratture, che forniscono prove limitate riguardo l’effetto sfavorevole dell’assunzione di latte (Cumming e Klineberg, 1994; Feskanich et al., 1997; Feskanich et al., 2003; Kanis et al., 2005; Bischoff-Ferrari et al., 2007). L’acidosi metabolica cronica conseguente ad una dieta ad alto contenuto proteico è stata proposta da alcuni autori come un fattore di rischio per l’osteoporosi o le fratture ossee a causa dell’aumento dell’escrezione urinaria di calcio derivante dalla acidità metabolica del metabolismo delle proteine (Barzel et al., 1998; Bu-shinsky, 2001; Arnett, 2008). Tuttavia, questo effetto sfavorevole è stato negato da altri ricer-catori (Bonjour, 2005; Cao et al., 2011; Thorpe e Evans, 2011). Più frequentemente, gli stu-di discordanti non evidenziano alcun effetto positivo dei prodotti lattiero-caseari sulla salute delle ossa (Lanou et al., 2005; Álvarez-León et al., 2006; Jackson et al. 2006; Roux et al., 2008; Rabenda et al., 2010).

Conclusioni

Nonostante i lavori che evidenziano effetti favorevoli del latte sull’apparato scheletrico si-ano nettamente più numerosi, gli studi discordanti sopra citati vanno attentamente considerati e necessitano di ulteriori approfondimenti. In tutti i casi, sulla base dei risultati esposti in que-sta breve rassegna, si possono trarre alcune considerazioni. Innanzitutto, latte e derivati sono una fonte ottimale di calcio e di altri nutrienti limitanti, ad esempio potassio, con importanti effetti sulla salute delle ossa. L’apporto di calcio influisce positivamente sulla massa ossea ed è fondamentale per il suo adeguato sviluppo nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza. Ne-gli anziani, l’apporto di calcio e di vitamina D devono essere attentamente controllati. Com-ponenti bioattivi presenti nel latte e nei prodotti lattiero-caseari possono, inoltre, svolgere un ruolo essenziale sul metabolismo osseo, come dimostrato dagli studi sulle proteine acide del colostro, le proteine basiche del siero e i caseinofosfopeptidi.

La grande varietà di prodotti lattiero-caseari disponibili, in particolare nel nostro Paese dove la tradizione casearia fornisce una gamma variegata di prodotti di alta qualità, costitui-sce un patrimonio culturale e alimentare di grande importanza per individuare l’apporto cor-retto di calcio e delle altre componenti nutrizionali in base alle diverse esigenze dietetiche

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del singolo consumatore. A supporto di questa affermazione, è stata recentemente pubblicata una mini-review che dimostra che il parmigiano reggiano può essere definito a pieno titolo un functional food perché possiede caratteristiche nutrizionali che portano effetti benefici per la salute del consumatore, in particolare per quella dello scheletro (Pampaloni et al., 2011).

ATTIVITÀ FUNZIONALI DELLE COMPONENTI BIOATTIVE DEL LATTE

Il latte fornisce un’ampia gamma di composti che vengono definiti “bioattivi” in quanto svolgono una molteplicità di funzioni il cui significato fisiologico si spinge oltre il semplice aspetto nutrizionale. Per quanto riguarda le proteine del latte, ad esempio, tali attività fun-zionali includono la modulazione delle funzioni gastrointestinali, la regolazione emodinami-ca, il miglioramento della funzionalità immunitaria e la modulazione della microflora inte-stinale (Rosetta & Baldi, 2008; Chien et al., 2001). L’attività biologica viene esplicata dalle proteine native, ma anche dai peptidi da esse derivate in seguito a degradazione proteolitica. Una volta liberati, i peptidi possono agire come sostanze con azione ormono-simile, interes-sando i sistemi cardiovascolare, digestivo, endocrino, immunitario e nervoso (Meisel, 1997; Korhonen, 2009). Le proteine possono andare incontro a idrolisi in seguito ai processi dige-stivi ed all’azione della microflora intestinale (Baldi et al., 2005). Inoltre, nel latte, così come nei prodotti lattiero-caseari, alcune proteasi, sia native quali la plasmina, sia di origine mi-crobica, possono causare il rilascio di peptidi bioattivi (Baldi et al., 1996; Politis et al., 1996; Fantuz et al., 2001).

Oltre alle proteine e ai peptidi bioattivi da esse derivati, il latte contiene altri composti, qua-li i lipidi, gli oligosaccaridi e le vitamine che svolgono attività funzionale. Tali componenti agiscono in modo sinergico per favorire il benessere del neonato (Lönnerdal, 2000).

In questa breve rassegna si presenteranno alcune fra le attività funzionali svolte da questi composti.

Componenti antimicrobiche del latte

Il latte contiene una serie di componenti ad azione antimicrobica, che proteggono la ghian-dola mammaria e il neonato nel momento in cui il suo sistema immunitario è ancora immatu-ro. Il latte fornisce un sistema di difesa che si articola su molteplici livelli. I patogeni possono essere inattivati direttamente per azione dei lipidi e delle proteine ad attività antimicrobica, come gli anticorpi secretori, la lattoferrina e il lisozima. Il legame dei patogeni ai recettori sulla superficie cellulare può essere bloccato dall’azione degli oligosaccaridi e dei carboidra-ti complessi (Isaacs, 2005). Gli anticorpi secretori forniscono protezione nei confronti degli antigeni e dei patogeni ai quali la madre è stata esposta e il loro effetto protettivo è partico-larmente efficace durante le infezioni gastroenteriche (Telemo & Hanson, 1996; Lönnerdal, 2010). I composti glicoconiugati e gli oligosaccaridi sembrano proteggere il neonato tramite l’inibizione del legame dei patogeni o delle tossine alla superficie cellulare (Newburg, 2005).

Numerose proteine nel latte hanno attività inibitoria nei confronti di batteri patogeni, virus e funghi. Fra queste, spicca la lattoferrina, una glicoproteina chelante il ferro, dotata di pro-prietà antimicrobiche rilevanti. Il ruolo della lattoferrina come antibatterico è riconducibile non solo ad un’azione batteriostatica mediata dal sequestro del ferro, ma anche da un’attivi-tà battericida mediante la destabilizzazione delle membrane batteriche (Valenti & Antonini, 2005). L’azione antimicrobica ad ampio spettro della lattoferrina è ampiamente riconosciuta nei confronti di numerosi microrganismi, quali Escherichia coli (Dionysius et al., 1993), Ba-cillus spp. (Oram et al., 1968), Salmonella typhimurium, Shigella dysenteriae e Streptococ-cus mutans (Batish et al., 1988; Payne et al., 1990). Studi in vivo su vitelli hanno evidenziato

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che la somministrazione di lattoferrina, combinata con il sistema lattoperossidasi, riduce la carica microbica di E. coli a livello fecale (van Leeuwen, 2000). Inoltre, topi alimentati con lattoferrina bovina presentano una ridotta proliferazione di ceppi di Clostridium nell’intestino (Teraguchi et al., 1995). Lee et al. (1998) hanno evidenziato che la somministrazione di lat-toferrina a suinetti prima dell’inoculazione di lipopolisaccaridi riduce la mortalità degli ani-mali. Pecorini et al. (2005) hanno valutato l’attività antibatterica di lattoferrina suina ricom-binante, espressa nel lievito Pichia pastoris, nei confronti di ceppi di E. coli isolati da suinetti con diarrea. Alla concentrazione di 0.1 mg/ml, la proteina ha inibito del 30% la crescita dei batteri rispetto al controllo.

La lattoferrina esplica la sua azione difensiva anche a livello di ghiandola mammaria. È noto che le endotossine prodotte da E. coli, i lipopolisaccaridi, inducono un incremento dell’espressione di lattoferrina a livello tissutale, e che la lattoferrina svolge un’azione protet-tiva nei confronti del danno citotossico indotto dalle endotossine (Pecorini et al., 2009; 2010).

L’effetto antimicrobico della lattoferrina è mediato anche dai peptidi derivati dalla protei-na. In seguito a digestione proteolitica ad opera della pepsina, le porzioni N-terminali della lattoferrina umana e bovina originano dei peptidi cationici: la lattoferricina H comprende i residui 1-47 della lattoferrina umana, mentre la lattoferricina B include i residui 17-41 della lattoferrina bovina (Tomita et al., 1994; Hoek et al., 1997; Paul et al., 2010). Recentemente, è stato individuato un nuovo peptide, la lattoferrampina: esso esercita un’azione inibitoria nei confronti di Bacillus subtilis, Eschericha coli e Pseudomonas aeruginosa e possiede anche un’efficace attività antifungina (van der Kraan et al., 2004). Il potere battericida dei peptidi è dalle 100 alle 1000 volte più efficace di quello della proteina nativa e non dipende dalla pre-senza del ferro; un elevato numero di batteri Gram positivi e Gram negativi è suscettibile alla loro azione; Pseudomonas fluorescens, Enterococcus faecalis e Bifidobacterium bifidum so-no, invece, altamente resistenti (Bellamy, 1992a; 1992b).

Anche i lipidi del latte possono esplicare un’azione antimicrobica. Tra i microrganismi su-scettibili all’attività dei lipidi, i virus dotati di envelope sono inattivati efficacemente sia da-gli acidi grassi a lunga catena che da quelli a media catena, mentre i batteri Gram-positivi e Gram-negativi presentano sensibilità differente in base alla lunghezza delle catene (Isaacs, 2005). In particolare i CLA riducono l’attività proliferativa e inibiscono la sintesi dei nucle-otidi (Molkentin, 1999) e in tal senso possono interferire anche sulla crescita microbica. In generale, i CLA svolgono un ampio spettro di funzioni biologiche che sono trattate nel capi-tolo di Rossi e Cicognini.

Come già accennato, i glicoconiugati e gli oligosaccaridi sembrano difendere il neonato attraverso l’inibizione del legame dei patogeni o dei loro metaboliti tossici a recettori loca-lizzati sulla superficie cellulare. Molti patogeni, infatti, utilizzano glicoconiugati per aderire alle cellule bersaglio prima di penetrare al loro interno o causare un danno citotossico. Tra i batteri inibiti dall’azione degli oligosaccaridi si possono annoverare Streptococcus pneumo-niae, E. coli enteropatogeno e Campylobacter jejuni (Newburg, 2005). Yolken et al. (1992) hanno evidenziato che la replicazione e l’infezione rotavirali sono inibite dall’azione della mucina, una macromolecola glicosilata, contenente il 50% di carboidrati e complessata con altre molecole di dimensioni ridotte.

Supporto prebiotico della microflora intestinale

Una delle prime differenze riscontrate tra i neonati allattati al seno e quelli alimentati con formulati è stata la diversa popolazione microbica intestinale (Balmer et al., 1989). I neonati allattati al seno possiedono un numero inferiore di batteri patogeni, e un numero superiore di bifidobatteri e lattobacilli rispetto a quelli alimentati con formulati, mentre la composizione della microflora di questi ultimi è simile a quella dell’intestino di un adulto.

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È noto che l’ambiente generato dalla colonizzazione dei batteri lattici inibisce la prolifera-zione dei batteri patogeni, proteggendo l’organismo dalle infezioni (Lönnerdal, 2003; New-burg, 2005). Numerosi fattori nel latte possiedono una nota azione prebiotica di supporto alla microflora benefica. Il latte, e il colostro in particolare, contengono un gruppo di oligosacca-ridi riconosciuti come potenti promotori della crescita dei bifidobatteri (Newburg, 1996). Que-sti composti, antagonizzando l’azione dei batteri patogeni e promuovendo la proliferazione dei microrganismi probiotici, sono coinvolti nel mantenimento di una microflora intestinale equilibrata (Newburg, 2005) e, quindi, promuovono il benessere dell’organismo che li assume.

Numerosi studi hanno mostrato che anche la lattoferrina può svolgere un’azione prebioti-ca, essendo in grado di stimolare la crescita dei batteri appartenenti ai generi Lactobacillus e Bifidobacterium (Liepke et al., 2002; Kim et al., 2004). L’effetto stimolatorio sulla crescita è ceppo-dipendente e può essere correlato alla presenza di recettori specifici per la lattoferrina sulla superficie e nelle frazioni citosoliche dei batteri sensibili (Kim et al. 2004). Studi in vitro hanno evidenziato che le lattoferrine bovina, umana e suina ricombinanti espresse in Pichia pastoris sono in grado di stimolare la crescita di quattro ceppi di lattobacilli, tra i quali il cep-po Lactobacillus casei ssp casei è stato quello maggiormente stimolato (Pecorini et al., 2005).

Anche gli oligosaccaridi sono efficaci nel modulare la flora enterica, influenzare le attività del tratto digestivo e modulare i processi infiammatori (Kunz et al., 2006).

È interessante notare che l’effetto delle componenti bioattive del latte sulla crescita della microflora benefica è il risultato delle azioni sinergiche tra componenti funzionali di natura diversa: proteiche e non proteiche (Schanbacher et al., 1998).

Componenti immunomodulatorie del latte

Tutti i neonati dipendono dalle proteine del latte fino al primo mese di vita. Gli anticorpi presenti nel colostro sono diretti contro numerosi enterobatteri e altre specie, parassiti, virus e, a volte, proteine alimentari (Telemo & Hanson, 1996). Grazie alla loro resistenza alla de-gradazione proteolitica, le IgAS agiscono come prima linea difensiva della barriera epiteliale contro gli agenti patogeni che cercano di colonizzarla o penetrarla (Lindh, 1975).

Le componenti bioattive del latte influenzano lo stato immunitatio del neonato, non solo fornendo protezione, ma anche educando il sistema immunitario del neonato nelle fasi pre-coci della vita (Baldi et al., 2005). Alla nascita, il sistema immunitario acquisito dei neona-ti si presenta immaturo e molte componenti dell’immunità mucosale non hanno raggiunto il pieno sviluppo. I primi mesi sono un periodo estremamente critico, in quanto i neonati sono esposti al contatto con microrganismi, proteine estranee e sostanze chimiche, e il loro siste-ma immunitario dovrebbe sviluppare tolleranza orale ai nutrienti ed evitare la tolleranza agli antigeni derivati dai patogeni (Field, 2005). Il termine immunomodulazione è stato apposita-mente coniato per indicare che la soppressione del sistema immunitario può essere richiesta in alcune circostanze (tolleranza orale), mentre in altri è fondamentale che vi sia un’induzio-ne della risposta difensiva nei confronti degli antigeni derivati dai patogeni. La buona riusci-ta dello sviluppo della tolleranza contribuisce alla minore incidenza di allergie alimentari nei neonati allattati al seno (Van Odijk et al., 2003; Politis et al., 2008).

Numerose evidenze sperimentali suggeriscono che vari peptidi generati dall’idrolisi delle proteine del latte possono regolare la funzione immunitaria del neonato nel suo complesso. Pecquet et al. (2000) hanno mostrato che topi alimentati con idrolisati o frazioni di idrolisato della β-lattoglobulina risultavano tolleranti nei confronti della proteina. Prioult et al. (2004) hanno evidenziato che le peptidasi di Lactobacillus paracasei sono in grado di idrolisare ul-teriormente i peptide derivati dalla digestione della tripsina della β-lattoglobulina. Inoltre, tali peptidi reprimono la proliferazione dei linfociti e up-regolano la produzione di interleuchi-na 10 che ha effetto antiinfiammatorio. L’idrolisi della caseina tramite pepsina o con enzimi

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derivati dal ceppo Lactobacillus casei GG generano molecole capaci di inibire la prolifera-zione dei linfociti (Sutas et al., 1996). Quindi, gli enzimi residenti nell’intestino e gli enzimi di origine batterica sono efficaci nel down-regolare le reazioni di ipersensibilità alle proteine ingerite dai neonati.

Il principale meccanismo di protezione contro gli antigeni derivati dai patogeni, fornito dall’immunità mucosale, è mediato dalle cellule che producono IgA e dalle IgA secretorie, che neutralizzano e, quindi, prevengono l’ingresso dei patogeni pericolosi per l’ospite. Di con-seguenza, la stimolazione della risposta immunitaria locale può essere efficace nel prevenire certe patologie causate dai microrganismi che sono entrati nell’organismo per via orale. Un elevato numero di studi ha mostrato la capacità dei peptidi del latte di incrementare la funzio-nalità del sistema immunitario (Clare et al., 2000; Hill et al., 2000). Politis et al. (2003) han-no mostrato che l’effetto dei peptidi dclle caseine sui paramentri immunitari dipende dalla maturità del sistema immunitario. L’effetto di due peptidi, corrispondenti ai residui 191-193 della β-caseina bovina, è stato studiato in neutrofili di suino a livello dell’attivatore del plasmi-nogeno di tipo urochinasico legato alla membrana (u-PA) e l’espressione degli antigeni di classe II del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC). I risultati hanno indicato che entrambi i peptidi hanno ridotto la quantità di u-PA presente sulla superficie cellulare e l’espressione de-gli antigeni di classe II dell’MHC solamente nel periodo dello svezzamento e non 4 settimane dopo. I peptidi sintetici della β-caseina sono efficaci solo nel periodo che coincide con l’imma-turità del sistema immunitario, mentre non sono efficaci quando il sistema immunitario ha rag-giunto la sua piena funzionalità.

Anche la frazione lipidica del latte svolge un ruolo importante nei meccanismi di difesa prin-cipalmente a carico dell’immunità aspecifica. A parte i già citati CLA, il latte bovino presenta acidi grassi poliinsaturi (Polyunsaturated Fatty Acids, PUFAs), principalmente l’acido lino-leico e l’acido α-linolenico: tra le attività di questi composti si possono annoverare l’effet-to antiaterogenico e l’immunomodulazione. Infine, occorre ricordare il ruolo di protezione svolto da alcuni componenti della frazione lipidica, quali le vitamine liposolubili, che posso-no esplicare un effetto antiossidante, come riportato nella review di Baldi & Pinotti ( 2008).

Peptidi bioattivi: i fatti e le aspettative

I peptidi del latte possono svolgere anche un’azione anti-ipertensiva e anti-trombotica. L’ACE (Angiotensin-Converting-Enzyme) è un enzima polifunzionale, localizzato in vari tessuti e associato al sistema renina-angiotensina, che presiede al controllo della pressione sanguigna periferica: l’inibizione dell’ACE esita in un effetto antiipertensivo. Tale inibizione può influenzare vari sistemi regolatori dell’organismo coinvolti nella modulazione della pres-sione arteriosa, nelle difese immunitarie e nell’attività del sistema nervoso centrale (Meisel, 1993). È stato mostrato che le caseine e alcune proteine del siero sono in grado di rilasciare peptidi bioattivi con azione anti-ipertensiva. Gli ACE-inibitori derivati da vari frammenti del-le caseine prendono il nome di caseochinine o ACE-I ed esercitano un effetto antiipertensivo, riducendo la pressione sanguigna e aumentando il flusso di sangue locale nella mucosa inte-stinale (Schlimme & Meisel, 1995). Questi peptidi possono originare sia in seguito all’azio-ne degli enzimi digestivi, pepsina, tripsina e chimo-tripsina, sia essere rilasciati localmente dalla ghiandola mammaria per azione di enzimi proteolitici, come nel caso delle caseomor-fine, e potrebbero modulare il flusso sanguigno e la funzionalità dell’organo stesso (Schan-bacher et al., 1997; Boelsma et al., 2009; Madureira et al., 2010). E’ stato trovato che il latte fermentato ad opera di L. helveticus e Saccharomyces cerevisiae e contenente idrolisati del-la αS1- e β-caseina è in grado di ridurre la pressione arteriosa nei ratti e nell’uomo. Anche la α-lattoalbumina e la β-lattoglobulina rilasciano peptidi ACE-inibitori dopo digestione con enzimi proteolitici (Moller et al. 2008).

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Un capitolo a parte, ma di estremo rilievo, soprattutto per il consumatore adulto è il ruolo antiosteoporotico del latte. Un’elevata biodisponibilità di calcio a livello intestinale contribu-isce a migliorare la mineralizzazione ossea e a prevenire patologie croniche, quali l’osteopo-rosi, come trattato nel capitolo specifico da Caroli e Cocchi. Oltre al calcio, il latte contiene altre componenti importanti per la salute delle ossa. Le caratteristiche osteoprotettive delle caseine e dei peptidi derivati sono note da più di 50 anni. È stato evidenziato che le caseine e i fosfopeptidi da esse derivati incrementano l’assorbimento del calcio a livello intestinale (Moller et al. 2008 per riferimenti bibliografici). Anche le componenti del siero hanno mo-strato un effetto positivo sul metabolismo osseo. In particolare, è stato evidenziato da studi in vitro e in vivo che la frazione proteica basica promuove la formazione ossea e sopprime il riassorbimento osseo (Toba et al., 2000).

Conclusioni

In conclusione, il ruolo “salutistico” svolto dalle componenti bioattive del latte è stato og-getto di un crescente interesse anche per il possibile sfruttamento commerciale. In particola-re, alcuni peptidi ACE inibenti e i calcio fosfopeptidi hanno già portato alla formulazione di prodotti commerciali. Va sottolineato che prodotti arricchiti con peptidi anti-ipertensivi sono commercializzati in Giappone già dalla fine degli anni ’90 e il loro consumo si è progres-sivamente diffuso in numerosi paesi (Boelsma et al., 2009). Tuttavia, l’opinione scientifica dell’EFSA riguardo l’attività funzionale di alcuni tri-peptidi con azione anti-ipertensiva ha portato alla conclusione che non esistono ancora evidenze definitive su una relazione causa-effetto tra il consumo di tali peptidi e il mantenimento di valori normali di pressione arteriosa e dell’elasticità delle arterie (EFSA Journal, 2009).

È, comunque, importante sottolineare che l’azione benefica delle diverse componenti bio-attive del latte è legata alla sinergia fra le stesse, che fanno del latte nel suo complesso un ve-ro e proprio alimento funzionale.

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CAPITOLO 5Consumo di uova e salute

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CONSUMO DI UOVA E SALUTE

ADELE MELUZZI1, ALESSANDRA BORDONI1, SILVIA CEROLINI2, ALESSANDRO DAL BOSCO3, GERARDO MANFREDA1, CECILIA MUGNAI4,

FEDERICO SIRRI1, LUISA ZANIBONI2

1 Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agroalimentari, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna 2 Dipartimento di Scienze Veterinarie per la Salute, la Produzione animale e la Sicurezza alimentare

Università degli Studi di Milano3 Dipartimento di Biologia Applicata, Università degli Studi di Perugia

4 Dipartimento di Scienze degli Alimenti, Università degli Studi di Teramo

ASPETTI NUTRIZIONALI DEI COMPONENTI DELL’UOVO E LORO VARIAZIONI

Composizione e valore nutritivo dell’uovo

L’uovo rappresenta il gamete femminile degli animali ovipari che, se fecondato, darà ori-gine ad un nuovo organismo. Per tale motivo, esso contiene in quantità appropriate tutti i nu-trienti necessari per lo sviluppo dell’embrione; la sua composizione nutritiva risulta quindi di alta qualità e lo rende un prezioso alimento per l’uomo. Per definizione l’uovo ad uso alimen-tare, senza altre specificazioni, è quello di gallina, cioè della specie Gallus gallus. Le uova di altri uccelli domestici, come quaglia, faraona, oca e tacchino sono commestibili ma, se poste in vendita, devono riportare la dicitura “uova” accompagnata dalla denominazione di specie.

Gli studi e le ricerche realizzati in questi ultimi anni sull’uovo hanno rivelato molti aspet-ti interessanti relativi alla sua composizione, che lo rendono utile sia per l’alimentazione dell’uomo in ogni età, sia per l’industria farmaceutica, biotecnologica, cosmetica e medica per la presenza di alcune molecole biologicamente attive (Anton et al., 2006).

L’uovo, procedendo dall’esterno verso l’interno, è costituito da guscio, albume e tuorlo. Le uova di gallina hanno un peso variabile da 45 ad oltre 73 g anche se le più richieste dal mercato sono quelle comprese tra 53-63 g (Meluzzi, 2004). Un uovo di 55 g ha un guscio che pesa mediamente il 10% (5,5 g), mentre l’albume pesa un po’ meno del 60% (circa 32 g) e il tuorlo il 30% (17,5 g) (Melissano, 2009). Le proporzioni dei diversi costituenti possono varia-re in funzione di numerosi fattori, ad esempio: l’ibrido genetico, l’età della gallina, il mana-gement aziendale, l’alimentazione e le condizioni ambientali. L’uovo costituisce un alimento versatile che contiene molti principi nutritivi essenziali per la dieta dell’uomo, inoltre è un importante agente schiumogeno, gelificante e strutturante, essenziale nelle diverse prepara-zioni alimentari. La stabilità delle caratteristiche chimiche del tuorlo e dell’albume dipende in parte da caratteristiche genetiche ed in parte da una corretta alimentazione animale, mentre il sistema di allevamento (in gabbia, a terra, all’aperto e biologico) non ha effetto sulle diverse caratteristiche qualitative (Zaniboni e Cerolini, 2008). Il guscio, parte non edibile dell’uovo, è costituito da sali minerali (carbonato e fosfato di calcio per il 95%) e sostanza organica. Il suo colore dipende esclusivamente da fattori genetici e per tale motivo non riveste alcuna im-portanza per la qualità dell’uovo. L’albume e il tuorlo rappresentano la parte edibile dell’uovo e sono costituiti principalmente da acqua, proteine e lipidi, presenti in quantità notevolmente differente nelle due componenti (Tabella 1).

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Tabella 1: Composizione della parte edibile totale, dell’albume e del tuorlo dell’uovo (% sul peso della componente) (Sauveur, 1988).

Componente Edibile Albume TuorloAcqua 74,0-75,5 87-89 46,5-49,0Lipidi 11,8-12,3 Tracce 33,0-34,0

Proteine 12,0-12,8 9,5-11,5 16,0-17,0Glucidi 0,3-0,4 0,4-0,5 0,15-0,25Minerali 0,8-1,0 0,5-0,7 1,1-1,6

La componente principale della parte edibile è senza dubbio l’acqua, che rappresenta circa il 75% del peso totale (Sparks, 2006), alla quale seguono le proteine ed i lipidi, presenti in percentuali simili, ed infine minerali e glucidi, presenti in ridotte quantità (Tabella 1). Un uo-vo del peso medio di 60 g fornisce circa 76 kcal (61 kcal concentrate nel tuorlo) ed è quindi in grado di coprire il 3-4% del fabbisogno energetico medio di un adulto (Sparks, 2006), ma al tempo stesso rappresenta una fonte ricchissima di nutrienti: 6-7 g di proteine con elevato valore biologico, una buona dose di vitamine, soprattutto vitamina A e B2, e molti minerali. L’uovo risulta carente solo in glucidi ed è privo di vitamina C (Zaniboni e Cerolini, 2008).

Proteine

Il valore nutritivo dell’uovo risiede nel contenuto proteico la cui composizione è legata a fattori genetici e alle caratteristiche del mangime.

Le uova rappresentano una fonte concentrata di proteine di origine animale e sono ricche di aminoacidi essenziali in quantità bilanciata e aminoacidi solforati (Tabella 2), spesso me-no presenti in altri alimenti proteici, e pertanto in grado di contribuire in buona misura alla copertura del fabbisogno proteico giornaliero.

Se è vero che contengono mediamente quantità proteiche minori rispetto alle carni (12,4 g/100 g - pari a due uova - vs 22 g/100 g), è pur vero che la qualità delle proteine delle uova è superiore e, per tale motivo, le proteine dell’uovo sono considerate quelle con il più alto valore biologico (VB) fra tutti gli alimenti (Cozzani e Dainese, 2006), grazie alla loro abbondanza ed all’equilibrio degli aminoacidi essenziali, ad esempio VB uovo: 97; VB latte vaccino 84, VB carne bovina: 80 (Sicheri e Borsarelli, 2004). Questa proprietà è molto importante perché il VB di una proteina è una misura quantitativa dell’attitudine della proteina stessa a soddisfa-re i fabbisogni in aminoacidi dell’organismo per la sintesi delle sue proteine specifiche. Per questo motivo, le proteine dell’uovo sono definite nobili e spesso considerate dai nutrizionisti come proteine di riferimento (standard) per valutare la qualità biologica degli altri alimenti proteici. Le proteine sono presenti sia nell’albume sia nel tuorlo e assicurano all’uovo intero un elevato contenuto proteico caratterizzato da una buona digeribilità.

L’albume è una soluzione colloidale idrofila costituita da circa 87-89% di acqua, 9,5-11,5% di proteine e da piccole quantità di glucidi e sali minerali (Tabella 1). L’albume può essere considerato come una miscela di 40 differenti proteine, delle quali, tuttavia, le 7 principali (ovoalbumina, ovotransferrina, ovomucoide, lisozima, ovomucina, globuline e flavoproteine) rappresentano da sole più del 90% della sostanza secca.

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Tabella 2 – Contenuto in aminoacidi (mg/100 g di parte edibile) nell’uovo, nell’albume e nel tuorlo (Carnovale e Marletta, 2000)

Uovo Albume TuorloLisina 880 725 1250Istidina 298 235 394Arginina 767 603 1103Acido aspartico 1209 1060 1524Treonina 623 500 826Serina 842 702 1170Acido glutammico 1508 1329 1885Prolina 496 417 685Glicina 416 371 685Alanina 719 659 878Cistina 323 312 328Valina 823 732 993Metionina 437 422 422Isoleucina 657 572 842Leucina 1041 862 1347Tirosina 503 448 663Fenilalanina 662 626 707Triptofano 197 171 237

Le principali proteine dell’albume sono le seguenti (Belitz e Grosch, 1999).- Ovoalbumina (54% sulla s.s): è una glicofosfoproteina ad alto valore biologico in quanto

presenta tutti gli aminoacidi essenziali e gli aminoacidi solforati; essa coagula a caldo e fissa quindi la schiuma dopo la cottura;

- Ovotransferrina o conalbumina (12% sulla s.s.): è una metalloproteina analoga alla latto-ferrina del latte che è in grado di legare diversi ioni metallici come Mn3+, Fe3+, Cu2+ e Zn2+ a pH maggiore o uguale a 6; contiene notevoli quantità di lisina e tirosina ed è sensibile al calore;

- Ovomucoide (11% sulla s.s): è una glicoproteina che presenta 2-3 forme differenti che dif-feriscono per il contenuto di acido sialico; non coagula al calore;

- Lisozima (3,4% sulla s.s) è una proteina con proprietà batteriolitica in grado di idrolizzare il peptidoglicano della parete dei batteri Gram-positivi. Il tuorlo è il componente dell’uovo più ricco di nutrienti, rappresenta circa un terzo del pe-

so dell’uovo sgusciato, ma apporta da solo oltre i due terzi dei nutrienti totali. Il tuorlo è co-stituito principalmente da acqua, lipidi e da una consistente quantità di proteine (Tabella 1). Il tuorlo è, in realtà, una emulsione di particelle lipidico-proteiche in una matrice acquoso-pro-teica (Coultate, 2005); può essere separato per ultracentrifugazione in due frazioni, una sedi-menta ed è costituita da granuli (19-23% del tuorlo totale), mentre l’altra è una frazione flui-da e chiara ed è definita plasma (circa il 77% del tuorlo totale). I granuli sono principalmente costituiti da proteine (azoto=47%; lipidi=10%), mentre il plasma da lipidi (lipidi=90%; azo-to=53%) (Belitz e Grosch, 1999). Le proteine contenute nel tuorlo sono principalmente quat-tro: la livetina, la fosvitina, la vitellina e la vitellinina. La livetina è una globulina idrosolubile simili alle globuline ematiche del pollo. La fosvitina è una fosfoglicoproteina con un elevato

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contenuto di acido fosforico. La vitellina e la vitellinina sono debolmente legate a lipidi per formare la lipovitellina e la lipovitellinina. La lipovitellina è una lipoproteina ad alta densità (HDL), la cui componente lipidica è costituita da trigliceridi (35%), fosfolipidi (60%) e cole-sterolo (5%). La lipovitellinina è una lipoproteina a bassa densità (LDL) la cui componente lipidica è il 90% della sostanza secca ed è costituita da trigliceridi (74%) e fosfolipidi (26%). I fosfolipidi sono principalmente costituiti da fosfatidilcolina (76%) e fosfatidiletanolamina (18%) (Belitz e Grosch, 1999). Anche le proteine del tuorlo contengono tutti gli aminoacidi essenziali in quantità bilanciata (Tabella 2).

Lipidi e acidi grassi

I lipidi dell’uovo (circa 4,5 g in un uovo di 60 g) sono localizzati per oltre il 99% nel tuor-lo e sono principalmente: trigliceridi (65%), fosfolipidi (29%), colesterolo (5%) e acidi grassi liberi (<1%) (Anton et al., 2006). I fosfolipidi sono costituiti principalmente da fosfatidilco-lina (70%) e fosfatidiletalonamina (14%), mentre cefaline, lisofosfatidilcoline e sfingomie-line sono meno presenti (2%). I fosfolipidi del tuorlo contengono il triplo di fosfatidilcolina rispetto alla lecitina di soia (Anton et al., 2006). L’uovo, fra tutti gli alimenti, è considerato una importante fonte di colina (280 mg/uovo del peso di 50 g), infatti solo il fegato di manzo contiene un contenuto di colina più elevato (Froning, 2006). Poiché la colina è un importante nutriente per lo sviluppo celebrale, per le funzioni epatiche e nella prevenzione tumorale, si ritiene che l’uovo possa dare un contributo importante in questi casi specifici. E’ stato inoltre dimostrato che l’assunzione dei fosfolipidi del tuorlo tende ad alleviare i sintomi della malat-tia di Alzheimer. I lipidi dell’uovo sono facilmente digeribili per l’uomo grazie al loro stato di emulsione (lipoproteine). La digeribilità dei trigliceridi è più alta (98%) di quella dei fosfoli-pidi (90%) che è comunque soddisfacente. Il contenuto lipidico del tuorlo è piuttosto stabile e poco influenzabile dal contenuto lipidico della dieta della gallina, al contrario la composi-zione in acidi grassi dei lipidi può essere modificata attraverso la manipolazione alimentare. I lipidi del tuorlo sono caratterizzati da un contenuto di acidi grassi saturi relativamente basso per un alimento d’origine animale e pari a circa un terzo del totale e da un elevato contenuto in acidi grassi insaturi (Tabella 3).

Tabella 3 - Composizione in acidi grassi dell’uovo

%A g/100 g parte edibileB

Lipidi totali 8,7Acidi grassi saturi totali (SFA) 33,9 3,17C16:0 24,6 1,90C18:0 9,00 1,21Acidi grassi monoinsaturi totali (MUFA) 41,1 2,58C18:1 38,2 2,35Acidi grassi polinsaturi totali (PUFA) 24,9 1,26C18:2n-6 19,4 1,06C22:6n-3 1,15 -PUFA/SFA 0,64 -PUFA n-6/PUFA n-3 11,5 -MUFA+PUFA/SFA 1,95 -

A Zaniboni et al, 2006; B Carnovale e Marletta, 2000.

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La percentuale di acidi grassi insaturi (PUFA+MUFA = 66%) del tuorlo è molto più ele-vata di quella di altri alimenti di origine animale e determina un rapporto acidi grassi insatu-ri totali su saturi totali che varia da 1,6 a 2, considerato ottimale per l’alimentazione umana. Tale rapporto è condizionato dalla composizione in acidi grassi della dieta somministrata alla gallina e può essere modificato attraverso l’utilizzo di diete con composizione acidica mirata (Zaniboni e Cerolini, 2008).

In particolare, la ricchezza dell’uovo di acido linoleico (C18:2n-6), precursore essenziale degli acidi grassi polinsaturi della serie n-6, valorizza in termini nutrizionali questo alimento.

Inoltre, si rileva anche la presenza di piccole quantità di acidi grassi polinsaturi della serie n-3, considerati nutrienti essenziali per le funzioni celebrali e per l’acutezza visiva nell’uomo.

Colesterolo

Negli ultimi anni, si è osservata una progressiva riduzione del contenuto di colesterolo nell’uovo, probabilmente conseguente alla selezione genetica finalizzata all’aumento della produttività della gallina ovaiola. Tuttavia, la concentrazione di colesterolo nell’uovo rispetto a quella di altri alimenti rimane piuttosto elevata. L’uovo presenta un contenuto di colestero-lo pari a 200-220 mg/uovo (370 mg/100 g di parte edibile) e questo ha determinato nel con-sumatore una certa avversione nei confronti del consumo di questo alimento; inoltre, un’in-formazione dietetica superficiale ha generato confusione tra il colesterolo ematico e quello assunto con la dieta.

Oggi, grazie ad anni di ricerche, la conoscenza delle relazioni esistenti tra dieta, stile di vi-ta e salute ha determinato una rivalutazione di questo alimento, valorizzando le sue moltepli-ci peculiarità (Meluzzi, 2004). Attualmente, il problema colesterolo si è quindi ridimensio-nato grazie alle ricerche che hanno dimostrato la ridotta influenza del colesterolo alimentare sul colesterolo ematico. In realtà solo il 20% del colesterolo ematico è di origine alimenta-re, mentre il restante deriva da sintesi endogena. Di conseguenza, solo le persone predispo-ste a particolari dismetabolie, in particolare i consumatori affetti da calcolosi alle vie biliari, dovrebbero limitare il consumo di prodotti ricchi di colesterolo e l’ingestione di un uovo al giorno viene considerata positiva se la colesterolemia rientra nei valori di normalità. Infine, si ritiene opportuno ricordare che il colesterolo è comunque un elemento fondamentale per il corretto funzionamento dell’organismo umano, infatti è il precursore degli acidi biliari e di altri steroli, inclusi gli ormoni sessuali, ed è una componente strutturale e funzionale indi-spensabile delle membrane cellulari.

Pigmenti

Il tuorlo dell’uovo contiene pigmenti naturali (carotenoidi), fortemente biodisponibili nella matrice lipidica, che gli conferiscono la tipica colorazione giallo-arancio rendendolo un’in-teressante fonte alimentare di luteina e zeaxantina. Questi pigmenti presentano un notevole potere scavenger nei confronti dei radicali liberi e sono considerati tra i principali elementi di difesa dalle malattie cardio-coronariche (Osganian, 2003). Va aggiunto che questi compo-sti inibiscono l’ossidazione delle LDL, che rappresentano il primo passaggio verso i processi di aterosclerosi. Greene et al. (2006) hanno sottolineano la particolare funzione dei carote-noidi per la salute dell’occhio e il loro effetto protettivo nei confronti di quelle degenerazioni che possono condurre alla cecità. In particolare, la luteina e la zeaxantina esplicherebbero un effetto filtro proteggendo la macula sensitiva della retina da danni degenerativi di tipo ossi-dativo e fotochimico. Ciò può essere attribuito al fatto che la degenerazione maculare è una malattia multifattoriale correlata alla predisposizione genetica, all’esposizione ad ambienti sfavorevoli e allo stile di vita, che oltre a svolgere un danno diretto sull’organismo, riducono

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la disponibilità di quegli elementi nutrizionali con funzione strutturale e protettiva. Poiché ta-li composti non sono sintetizzati a livello endogeno, debbono necessariamente essere assunti con la dieta. Il tuorlo d’uovo, pur contenendo quantità inferiori di luteina rispetto ad alcuni vegetali (i.e. spinaci), ne presenta una maggiore biodisponibilità in virtù della matrice lipidi-ca ove questi pigmenti vanno a depositarsi; infatti la luteina ingerita con le uova permette di raggiungere livelli plasmatici più elevati rispetto a quelli ottenuti consumando spinaci o in-tegratori di sintesi.

Vitamine e minerali

L’uovo è una eccellente fonte di vitamine e minerali. Contiene tutte le vitamine con la sola eccezione della vitamina C. Le vitamine liposolubili sono presenti esclusivamente nel tuorlo mentre le idrosolubili le ritroviamo sia nell’albume che nel tuorlo, presenti in quest’ultimo in forma legata a specifiche proteine. L’uovo, al pari del fegato e del burro, costituisce una eccellente fonte di vitamina A e copre il 15% del fabbisogno giornaliero di un uomo adul-to. Analogamente la vitamina D è particolarmente concentrata nel tuorlo al pari dell’olio di fegato di pesce. In generale, un uovo fornisce più del 10% del fabbisogno giornaliero di di-verse vitamine come A, D, riboflavina, niacina, biotina, acido folico e acido pantotenico. La vitamina B12, presente solo negli alimenti di origine animale e coinvolta nell’ematopoiesi ed indispensabile per la sintesi degli acidi nucleici, è presente nell’uovo in cospicue quantità, ed un solo uovo copre oltre il 40% del fabbisogno giornaliero (Figura 1).

La concentrazione delle vitamine è influenzata da fattori genetici (razza o ceppo di gal-lina), tasso di deposizione di uova e dalla composizione della dieta della gallina (Leeson e Caston, 2003). In base al primo Report Europeo di nutrizione e salute (Elmadfa, 2004) l’assunzione di vitamine degli europei è in genere relativamente buona, tuttavia in alcuni paesi, particolarmente nel nord Europa, l’apporto di vitamina D è basso e quello dell’aci-do folico è al di sotto dei valori raccomandati. Pertanto l’uovo può essere considerato una buona fonte per l’uomo di tali vitamine (Seuss-Baum, 2007) (Figura 1). La vitamina D è presente nella forma 25-idrossicolecalciferolo che è meglio e più facilmente assorbita del colecalciferolo (Ovesen et al., 2003). Una ridotto apporto dietetico di vitamina D può au-mentare il rischio di osteoporosi, diabete, sclerosi multipla, cancro ed artrite reumatoide. Un incremento dell’assunzione di acido folico può risultare benefico per l’uomo in quanto promuove la riduzione della concentrazione di omocisteina nel plasma, fattore di rischio delle malattie cardiovascolari. Le uova sono inoltre un’ottima fonte di colina il cui appor-to risulta importante per l’uomo dal momento che la sintesi endogena non è sufficiente a soddisfare i fabbisogni dell’organismo. Inoltre è stato dimostrato che la colina esercita ef-fetti benefici sulla funzione cognitiva, in particolare durante le fasi di sviluppo del tessuto cerebrale (Hasler, 2000).

L’uovo è anche un’ottima fonte di minerali ed è l’alimento più ricco di fosforo assimilabile presente quasi esclusivamente in forma organica come componente di fosfolipidi e fosfopro-teine (circa il 16% del LARN). Altri minerali come selenio, ferro e zinco coprono una buo-na parte dei LARN pari a 9, 8 e 11% rispettivamente (Figura 1). L’uovo contiene anche altri oligoelementi in piccole quantità, è solo carente in calcio in quanto l’embrione per il suo svi-luppo utilizza il calcio presente nel guscio. I minerali sono distribuiti diversamente nel tuorlo e nell’albume: cloro, potassio, sodio e zolfo sono presenti in quantità più elevate nell’albume mentre gli altri minerali sono più rappresentati nel tuorlo. Il contenuto di minerali varia in re-lazione al loro contenuto nella dieta della gallina ed è possibile aumentare la concentrazione di alcuni di essi, come selenio e iodio, applicando particolari strategie alimentari. I valori di vitamine e minerali appaiono notevolmente variabili da paese a paese come si può osservare dalle tabelle di composizione degli alimenti edite nei diversi paesi europei e negli Stati Uniti

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(Tabella 4) sia per la normale variabilità biologica dei dati che per fattori alimentari e geneti-ci, ma anche per i diversi metodi analitici impiegati.

Figura 1. Contenuto di vitamine e minerali di un uovo di 60 g (53 g di parte edibile) espresso come percentuale del livello raccomandato di assunzione giornaliera (LARN)

I nutrienti presenti nell’uovo hanno una elevata biodisponibilità che è dovuta sia alla fun-zionalità digestiva ed allo stato fisiologico e di salute dell’uomo sia dalla presenza di compo-nenti alimentari che possono inibirne o innalzarne l’assorbimento come enzimi, fibre o vita-mine. La biodisponibilità della vitamina A è pari al 90%, mentre la vitamina E ha un tasso di assimilazione che varia dal 15 al 65% (Traber and Sies, 1996). La biodisponibilità del ferro è relativamente bassa. Il ferro è presente nella forma ferrica legato alle proteine dell’albume (ovotransferrina) e del tuorlo (fosvitina) e la loro presenza, secondo alcuni autori, riduce la biodisponibilità del ferro presente in altri alimenti in relazione alla capacità delle fosfopro-teine di sequestrare il ferro presente negli altri alimenti (Seuss-Baum, 2007).

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Tabella 4. Composizione vitaminica e minerale di 100 g di uovo (tuorlo + albume) valutata in diversi paesi europei e negli USA (Seuss-Baum, 2007).

Nutrienti* Belgio Danimarca Francia Finlandia Germania Italia Paesi Bassi Spagna Regno Unito USA RangeVitamineAa µg 192 208 240 262 278 225 192 227 190 140 140-278D µg - 1,75 1,7 2,2 2,9 - 1,75 1,8 1,7 - 1,7-2,9E mg - 1,9 1,2 2 2 - 2,8 2 1,1 1,5 1,1-2,8K µg - 50 - 0,8 48 - - - - 0,3 0,3-50B1 mg 0,1 0,007 0,08 0,12 0,1 0,09 0,1 0,11 0,1 0,07 0,07-0,12B2 mg 0,3 0,45 0,46 0,37 0,3 0,3 0,3 0,37 0,5 0,48 0,3-0,5B6 mg - 0,12 0,12 0,14 0,12 - 0,17 0,12 0,12 0,14 0,14-0,17B12 µg 2,3 2 1,6 2,5 2 - 2,3 2,1 2,5 1,3 1,3-2,5Acido Folico µg - 21 60 58 65 - 57 51 50 47 21-65Niacina mg - 0,1 0,07 3,4b 3,1 b 0,1 0,1 0,08 3,8 b 0,07 0,07-3,8 b

Biotina µg - 25 - - 25 - - - 19 - 19-25Ac. Pantotenico µg - 1,6 1,6 - 1,6 - - - 1,8 1,4 1,4-1,8 MineraliSodio mg 116 138 133 110 144 137 125 - 140 140 110-144Potassio mg 125 130 125 130 147 133 113 - 130 134 125-147Calcio mg 91 40 55 57 56 48 50 56 56 53 40-91Fosforo mg 312 210 188 210 216 210 179 - 200 191 179-312Magnesio mg 9 13 11 13 12 13 11 12 12 12 9-13Ferro mg 2,9 2 1,8 2,5 2,1 1,5 - 2,2 1,9 1,8 1,5-2,9Iodio µg - 21 - 44 10 - - 12 52 - 10-52Rame mg 0,1 0,07 - - 0,14 0,06 0,08 - 0,1 0,1 0,06-0,14Zinco mg 2,3 1,4 - 1,4 1,4 1,2 1,3 2 1,4 1,1 1,1-2,3Selenio µg - 22 - 22 - 5,8 11 - 11 31 5,8-31Fluoro mg - - - - 0,11 - - - - - 0,11

a: retinolo equivalenti; b: niacina equivalenti (niacina e triptofano)

Effetto di sistema di allevamento, tipo genetico ed età della gallina sulle caratteristiche e sulla composizione dell’uovo

L’attenzione attualmente riservata dai nutrizionisti alla qualità della dieta in vista della pre-venzione di molte patologie la cui incidenza è in continuo aumento, induce il consumatore ad operare scelte oculate riducendo o annullando il consumo di alcuni alimenti. Tra questi figu-rano anche le uova, ritenute troppo ricche di colesterolo e quindi come un fattore predispo-nente per le malattie del sistema circolatorio.

Effettivamente le uova hanno un contenuto di colesterolo piuttosto elevato, ma non pregiu-dizievole per la salute umana e a tale riguardo sono necessarie alcune precisazioni. Il livello di colesterolo dell’uovo varia da 10 a 14 mg/g di tuorlo, corrispondenti a circa 200-220 mg per uovo di medie dimensioni. Innanzitutto va sottolineato che tale livello dipende dal tipo geneti-

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Tabella 4. Composizione vitaminica e minerale di 100 g di uovo (tuorlo + albume) valutata in diversi paesi europei e negli USA (Seuss-Baum, 2007).

Nutrienti* Belgio Danimarca Francia Finlandia Germania Italia Paesi Bassi Spagna Regno Unito USA RangeVitamineAa µg 192 208 240 262 278 225 192 227 190 140 140-278D µg - 1,75 1,7 2,2 2,9 - 1,75 1,8 1,7 - 1,7-2,9E mg - 1,9 1,2 2 2 - 2,8 2 1,1 1,5 1,1-2,8K µg - 50 - 0,8 48 - - - - 0,3 0,3-50B1 mg 0,1 0,007 0,08 0,12 0,1 0,09 0,1 0,11 0,1 0,07 0,07-0,12B2 mg 0,3 0,45 0,46 0,37 0,3 0,3 0,3 0,37 0,5 0,48 0,3-0,5B6 mg - 0,12 0,12 0,14 0,12 - 0,17 0,12 0,12 0,14 0,14-0,17B12 µg 2,3 2 1,6 2,5 2 - 2,3 2,1 2,5 1,3 1,3-2,5Acido Folico µg - 21 60 58 65 - 57 51 50 47 21-65Niacina mg - 0,1 0,07 3,4b 3,1 b 0,1 0,1 0,08 3,8 b 0,07 0,07-3,8 b

Biotina µg - 25 - - 25 - - - 19 - 19-25Ac. Pantotenico µg - 1,6 1,6 - 1,6 - - - 1,8 1,4 1,4-1,8 MineraliSodio mg 116 138 133 110 144 137 125 - 140 140 110-144Potassio mg 125 130 125 130 147 133 113 - 130 134 125-147Calcio mg 91 40 55 57 56 48 50 56 56 53 40-91Fosforo mg 312 210 188 210 216 210 179 - 200 191 179-312Magnesio mg 9 13 11 13 12 13 11 12 12 12 9-13Ferro mg 2,9 2 1,8 2,5 2,1 1,5 - 2,2 1,9 1,8 1,5-2,9Iodio µg - 21 - 44 10 - - 12 52 - 10-52Rame mg 0,1 0,07 - - 0,14 0,06 0,08 - 0,1 0,1 0,06-0,14Zinco mg 2,3 1,4 - 1,4 1,4 1,2 1,3 2 1,4 1,1 1,1-2,3Selenio µg - 22 - 22 - 5,8 11 - 11 31 5,8-31Fluoro mg - - - - 0,11 - - - - - 0,11

a: retinolo equivalenti; b: niacina equivalenti (niacina e triptofano)

co; i genotipi con spiccata attitudine produzione, producono uova con più basse concentrazioni di colesterolo, poiché le quantità di steroli che l’organismo riserva alla produzione si diluisco-no nel maggior numero di uova deposte. Va anche sottolineato che con la selezione è possibi-le abbassare il contenuto di colesterolo dell’uovo senza però scendere oltre determinati limi-ti, se non si vogliono pregiudicare i processi metabolici della gallina e dello stesso embrione.

La composizione acidica delle uova è caratterizza da un elevato livello di acidi grassi po-linsaturi della serie n-6 e basso livello di n-3 (Yannakopoulos, 2007). Da ciò è scaturita la ne-cessità di individuare delle strategie alimentari e gestionali volte ad incrementare il contenuto di questi ultimi. Tralasciando la trattazione dell’argomento, che verrà affrontato nel paragrafo dell’arricchimento dell’uovo con molecole bioattive, si ritiene invece opportuno considerare gli altri fattori con forte impatto sulla composizione dell’uovo quali il sistema di allevamen-to, il tipo genetico e l’età della gallina.

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Effetto del sistema di allevamento

Holt et al. (2011), in una recente review, riportano una serie di riscontri che attestano l’im-portanza del sistema di allevamento e della stagione sulla qualità microbiologica e nutrizio-nale delle uova.

Precedentemente, Mugnai et al, (2007, 2009, 2010) confrontando il sistema di allevamento convenzionale (100.000 galline Hy-line Brown con una disponibilità di spazio di 0,75 m2/capo) con quello biologico classico (18.000 galline Hy-line Brown con una densità nel ricovero di 6 ani-mali/m2 e con possibilità di accesso ad un parchetto esterno nel quale ogni gallina disponeva di 4 m2) e con un sistema ancor più estensivo (Bio-plus, densità nel ricovero: 6 animali/m2 con possibi-lità di accesso ad un parchetto esterno di 10 m2/animale) hanno osservato che nel gruppo Bio-plus la variazione del contenuto di caroteni del tuorlo nel corso delle stagioni era legata all’assunzione di erba che, grazie al suo elevato contenuto in carotenoidi, ne aveva favorito l’accumulo nel tuorlo (Surai et al, 1998), raggiungendo in primavera un livello paria a 17,7 mg/g di tuorlo che conferiva al tuorlo una colorazione giallo-arancio, simile a quella ottenibile con xantofille naturali tipo lu-teina o zeaxantina (15,2 mg/g e 1,8 mg/g di tuorlo, rispettivamente). Il contenuto di α-tocoferolo, il sistema di allevamento ed in particolare la possibilità di consumare erba, notoriamente ricca di tale composto (Lopez-Bote et al., 1998), può avere un forte effetto sulla qualità finale delle uova.

Anche il livello di polifenoli è legato all’assunzione di erba ed ha raggiunto in primavera, nelle uova Bio-plus, valori pari a 62,8 mg/100 g di uovo intero, aspetto da non sottovaluta-re in quanto sembra che anche i polifenoli contribuiscano alla stabilità dell’uovo, proteggen-do i componenti del tuorlo e dell’albume contro lo stress ossidativo (Winkel-Shirley, 2002).

Tabella 5. Effetto del sistema di allevamento sul profilo acidico (% acidi grassi del tuor-lo) delle uova nelle diverse stagioni.

Controllo Biologico Biologico Bio-plus DSEInverno Primavera Estate Autunno Inverno Primavera Estate Autunno Inverno Primavera Estate Autunno

C14:0 0,5 0,5 0,4 0,5 0,4 0,4 0,5 0,4 0,4 0,4 0,4 0,4 0,1C16:0 24,3 23,4 23,8 23,7 20,2 18,5 20,3 20,2 23,1 21,2 24,2 23,6 4,6C18:0 12,2 11,7 12,0 12,4 10,7 9,0 8,3 8,5 9,5 7,9 8,7 8,8 2,1Altri 0,9 0,8 0,9 0,7 0,7 0,8 0,7 0,6 0,8 0,8 0,9 1,0 0,3SFA 37,8C 36,3C 37,1C 37,3C 32,0AB 28,6A 29,8A 29,7A 33,8B 30,2A 34,2B 33,7B 5,4C16:1n-7 4,0 3,9 4,3 5,0 4,3 5,0 6,0 4,5 3,5 3,2 3,5 3,3 1,9C18:1n-9 41,4A 44,5A 42,6A 41,7A 47,7AB 48,5B 47,4AB 48,6B 49,8B 51,5B 48,8B 49,3B 5,9Altri 0,3 0,3 0,3 0,3 0,4 0,4 0,4 0,4 0,2 0,3 0,2 0,3 0,1MUFA 45,7A 48,6A 47,2A 47,0A 52,5B 53,9B 53,9B 53,5B 53,5B 55,0B 52,5B 52,8B 4,5C18:2n-6 12,6B 11,1B 11,1B 11,4B 10,9B 12,2B 11,8B 12,1B 9,2A 7,9A 9,0A 8,8A 2,0C20:4n-6 2,1B 2,2B 2,5B 2,4B 2,3B 2,6B 2,3B 2,2B 0,2A 0,5A 0,3A 0,4A 0,2Altri 0,5A 0,5A 0,5A 0,5A 0,6A 0,7A 0,6A 0,7A 0,6A 1,3B 0,6A 0,5A 0,1C18:3n-3 0,5A 0,5A 0,8AB 0,7A 0,7A 0,9B 0,5A 0,7A 0,9B 1,1B 0,9B 0,9B 0,3C20:5n-3 0,1A - 0,1A - 0,1A 0,1A 0,1A 0,1A 0,4B 0,6B 0,4B 0,5B 0,1C22:5n-3 - - - - 0,1A 0,1A 0,1A 0,1A 0,4B 0,5B 0,4B 0,4B 0,1C22:6n-3 0,4A 0,4A 0,4A 0,3A 0,5A 0,6A 0,5A 0,5A 0,6A 2,1C 1,0AB 1,4B 0,4Altri 0,3 0,3 0,3 0,3 0,4 0,4 0,4 0,4 0,5 0,7 0,6 0,7 0,2PUFA 16,5 15,1 15,8 15,7 15,5 17,5 16,3 16,8 12,7 14,8 13,3 13,6 2,4

N = 220 uova per gruppo e stagione (22 pool di 5 tuorli); A..B.:P<0,01; a..b.: P<0,05.

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Una recente indagine (http://www.motherearthnews.com/eggs.aspx) ha dimostrato che le uova provenienti da allevamenti free-range avevano livelli 4 volte superiori di vitamina E, β-carotene e acidi grassi n-3, livelli doppi di vitamina A e un terzo in meno di colesterolo ri-spetto a quelle convenzionali.

Tali riscontri sono in accordo con quanto riportato da Mugnai (2007) e riportato in Tabella 5.Mugnai (2007) ha evidenziato gli effetti del sistema di allevamento sul profilo acidico delle

uova ed in particolare il fatto che i gruppi allevati con metodo biologico, rispetto al control-lo, hanno presentato una minore percentuale di acid grassi saturi a fronte di maggiori livel-li di monoinsaturi mentre i livelli di polinsaturi non hanno mostrato differenze significative. Nell’ambito di questi però, è stata superiore la presenza di acido linoleico nelle galline del gruppo di controllo e di quello biologico classico, presumibilmente per effetto dell’assunzio-ne di maggiori quantità di mangime. Il tuorlo delle uova deposte dalle galline Bio-plus era in-vece caratterizzato da elevate quantità di acido linolenico, di cui sono ricchi i galattoglucosi-di delle leguminose (Ouhayoun, 1998) e comunque dell’erba fresca. In generale tali riscontri sono in accordo con quanto osservato da Lopez-Bote et al. (1998) e Köhler et al. (2001) su uova ottenute da ovaiole che disponevano di alimentazione verde (rispettivamente pascolo o fornitura di erba fresca sfalciata).

La diversa concentrazione dei precursori dei polinsaturi a lunga catena ha determinato pro-fonde modifiche a carico dei derivati delle due serie (n-3 e n-6); infatti, ad elevati livelli di linoleico sono corrisposti altrettanto elevati livelli del suo derivato (acido arachidonico) nei gruppi di controllo e biologico classico, mentre in quello Bio-plus, la maggior presenza di acido linolenico ha favorito la sintesi di acido eicosapentaenoico (EPA), acido docoesapena-tenoico (DPA) e docosaesaenoico(DHA). Così ad esempio, in primavera, in 100 g di tuorlo

Effetto del sistema di allevamento

Holt et al. (2011), in una recente review, riportano una serie di riscontri che attestano l’im-portanza del sistema di allevamento e della stagione sulla qualità microbiologica e nutrizio-nale delle uova.

Precedentemente, Mugnai et al, (2007, 2009, 2010) confrontando il sistema di allevamento convenzionale (100.000 galline Hy-line Brown con una disponibilità di spazio di 0,75 m2/capo) con quello biologico classico (18.000 galline Hy-line Brown con una densità nel ricovero di 6 ani-mali/m2 e con possibilità di accesso ad un parchetto esterno nel quale ogni gallina disponeva di 4 m2) e con un sistema ancor più estensivo (Bio-plus, densità nel ricovero: 6 animali/m2 con possibi-lità di accesso ad un parchetto esterno di 10 m2/animale) hanno osservato che nel gruppo Bio-plus la variazione del contenuto di caroteni del tuorlo nel corso delle stagioni era legata all’assunzione di erba che, grazie al suo elevato contenuto in carotenoidi, ne aveva favorito l’accumulo nel tuorlo (Surai et al, 1998), raggiungendo in primavera un livello paria a 17,7 mg/g di tuorlo che conferiva al tuorlo una colorazione giallo-arancio, simile a quella ottenibile con xantofille naturali tipo lu-teina o zeaxantina (15,2 mg/g e 1,8 mg/g di tuorlo, rispettivamente). Il contenuto di α-tocoferolo, il sistema di allevamento ed in particolare la possibilità di consumare erba, notoriamente ricca di tale composto (Lopez-Bote et al., 1998), può avere un forte effetto sulla qualità finale delle uova.

Anche il livello di polifenoli è legato all’assunzione di erba ed ha raggiunto in primavera, nelle uova Bio-plus, valori pari a 62,8 mg/100 g di uovo intero, aspetto da non sottovaluta-re in quanto sembra che anche i polifenoli contribuiscano alla stabilità dell’uovo, proteggen-do i componenti del tuorlo e dell’albume contro lo stress ossidativo (Winkel-Shirley, 2002).

Tabella 5. Effetto del sistema di allevamento sul profilo acidico (% acidi grassi del tuor-lo) delle uova nelle diverse stagioni.

Controllo Biologico Biologico Bio-plus DSEInverno Primavera Estate Autunno Inverno Primavera Estate Autunno Inverno Primavera Estate Autunno

C14:0 0,5 0,5 0,4 0,5 0,4 0,4 0,5 0,4 0,4 0,4 0,4 0,4 0,1C16:0 24,3 23,4 23,8 23,7 20,2 18,5 20,3 20,2 23,1 21,2 24,2 23,6 4,6C18:0 12,2 11,7 12,0 12,4 10,7 9,0 8,3 8,5 9,5 7,9 8,7 8,8 2,1Altri 0,9 0,8 0,9 0,7 0,7 0,8 0,7 0,6 0,8 0,8 0,9 1,0 0,3SFA 37,8C 36,3C 37,1C 37,3C 32,0AB 28,6A 29,8A 29,7A 33,8B 30,2A 34,2B 33,7B 5,4C16:1n-7 4,0 3,9 4,3 5,0 4,3 5,0 6,0 4,5 3,5 3,2 3,5 3,3 1,9C18:1n-9 41,4A 44,5A 42,6A 41,7A 47,7AB 48,5B 47,4AB 48,6B 49,8B 51,5B 48,8B 49,3B 5,9Altri 0,3 0,3 0,3 0,3 0,4 0,4 0,4 0,4 0,2 0,3 0,2 0,3 0,1MUFA 45,7A 48,6A 47,2A 47,0A 52,5B 53,9B 53,9B 53,5B 53,5B 55,0B 52,5B 52,8B 4,5C18:2n-6 12,6B 11,1B 11,1B 11,4B 10,9B 12,2B 11,8B 12,1B 9,2A 7,9A 9,0A 8,8A 2,0C20:4n-6 2,1B 2,2B 2,5B 2,4B 2,3B 2,6B 2,3B 2,2B 0,2A 0,5A 0,3A 0,4A 0,2Altri 0,5A 0,5A 0,5A 0,5A 0,6A 0,7A 0,6A 0,7A 0,6A 1,3B 0,6A 0,5A 0,1C18:3n-3 0,5A 0,5A 0,8AB 0,7A 0,7A 0,9B 0,5A 0,7A 0,9B 1,1B 0,9B 0,9B 0,3C20:5n-3 0,1A - 0,1A - 0,1A 0,1A 0,1A 0,1A 0,4B 0,6B 0,4B 0,5B 0,1C22:5n-3 - - - - 0,1A 0,1A 0,1A 0,1A 0,4B 0,5B 0,4B 0,4B 0,1C22:6n-3 0,4A 0,4A 0,4A 0,3A 0,5A 0,6A 0,5A 0,5A 0,6A 2,1C 1,0AB 1,4B 0,4Altri 0,3 0,3 0,3 0,3 0,4 0,4 0,4 0,4 0,5 0,7 0,6 0,7 0,2PUFA 16,5 15,1 15,8 15,7 15,5 17,5 16,3 16,8 12,7 14,8 13,3 13,6 2,4

N = 220 uova per gruppo e stagione (22 pool di 5 tuorli); A..B.:P<0,01; a..b.: P<0,05.

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d’uovo prodotto da galline Bio-plus erano presenti 3.332 mg di acidi grassi polinsaturi di cui 476 mg di DHA, che, espressi in percentuale degli acidi grassi totali, si attestavano su un li-vello di 2,1, superiore a quello riscontrato da Shapira et al. (2007) in uova prodotte da galli-ne alimentate con diete supplementate con il 5% di lino estruso (1,7% DHA). Valkonen et al. (2007), sostituendo la soia della dieta con una pianta ricca in acido linolenico, quale la Ca-melina sativa, hanno raggiunto livelli di DHA nel tuorlo pari al 2,2%, valore simile a quel-lo ottenuto nelle uova Bio-plus senza nessuna integrazione alimentare. Tali dati confermano la capacità della gallina di elongare e desaturare l’acido linolenico (Lopez-Bote et al., 1998; Donaldson, 1996) e di porre in atto efficienti meccanismi di trasferimento degli n-3 a lunga catena all’interno dell’uovo, dove esplicano un importantissimo ruolo anche durante l’accre-scimento del pulcino (Speake et al., 1999). Saveur (1991) ha ipotizzato che l’aumento dei polinsaturi a lunga catena nelle uova free-range avviene a scapito dell’acido stearico. Anche Simopoulos e Salem (1992) hanno riscontrato elevati livelli di acidi grassi a lunga catena del-la serie n-3 e quindi un rapporto n-6/n-3 inferiore, in uova prodotte da galline allevate con sistema free-range rispetto ad altre allevate in gabbia.

Nell’ambito delle due serie, grande importanza viene attribuita al rapporto linoleico/linole-nico, in quanto il linoleico favorisce la modificazione delle LDL che trasportano il colesterolo, incrementando la risposta delle piastrine all’aggregazione sanguigna ed alla immuno-soppres-sione (Wender et al., 1997). Simoupolos (2000) indica come ottimale per l’elongazione di 11 g di linolenico in 1 di eicosapentaenoico un rapporto linoleico/linolenico pari a 4:1. Craig-Schmidt et al. (1987) e Jiang et al. (1991) hanno ipotizzato che quando la gallina ingerisce elevate quantità di linolenico e/o n-3, si riduce drasticamente la conversione dell’acido linolei-co in arachidonico e conseguentemente il contenuto di quest’ultimo si abbassa. La riduzione del rapporto n-6/n-3 nelle diete rappresenta pertanto il principale mezzo per l’inibizione dei processi di desaturazione-elongazione degli acidi grassi della serie n-6.

Un altro dato interessante è quello legato al livello del DHA riferito a 100 kcal di uovo, che secondo le raccomandazione della Life Sciences Research Office (LSRO, 1998) dovreb-be essere di 8 mg per 100 kcal di alimento. Anche in questo caso, le uova del gruppo Bio-plus deposte in primavera, estate ed autunno hanno presentato valori superiori a quelli consigliati. Inoltre, le uova Bio-plus hanno raggiunto in primavera punte di n-3 totali per uovo addirittura superiori a quelli raccomandati dall’European Food Science Authority (EFSA, 2005) per la definizione di uova arricchite (Tabella 6).

Per ciò che concerne il contenuto di colesterolo delle uova, Tolan et al. (1973) e Scholtys-sek (1992) hanno riscontrato un effetto del sistema di allevamento, con livelli superiori in uova prodotte da galline allevate in condizioni free-range. Anche Minelli et al. (2007) hanno riscontrato contenuti di colesterolo significativamente più elevati in uova prodotte da galline allevate con il sistema biologico rispetto ad altre mantenute in gabbia, evidenziando che le variazioni dei livelli di colesterolo nel tuorlo d’uovo sono negativamente correlate con la pro-duttività delle ovaiole (Hall e McKay, 1992).

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Tabella 6. Effetto del sistema di allevamento su alcuni indici nutrizionali delle uova (Mugnai et al, 2010)

Controllo Biologico Bio-plus VE*SFA mg 100 g–1 tuorlo 8.302b 6.121a 6.796a 201,4

MUFA mg 100 g–1 tuorlo 11.102a 11.538a 12.353b 385,8

PUFA mg 100 g–1 tuorlo 3.458 3.751 3.332 152,8

S n-3 mg 100 g–1 uovo 104,07a 140,74a 409,06b 5,6

S n-3 mg 100 g–1 tuorlo 302,53a 434,40a 1.156,32b 106,71

S n-6 “ 3.155,13b 3.316,25b 2.175,86a 204,75

DHA mg 100 kcal–1 uovo 63,30a 85,47a 342,22b 45,54

DHA mg 100 kcal–1 tuorlo 27,69a 37,09a 149,12b 26,69

UFA % acidi grassi insaturi totali 63,70a 71,40b 69,80b 5,8

n-6/n-3 10,43c 7,63b 1,88a 1,82

C18:2n-6/C18:3n-3 21,02c 13,81b 7,32a 4,11

Indice Aterogenico 0,37b 0,26a 0,31a 0,28

Indice Trombogenico 1,01b 0,67a 0,61a 0,57

Indice di Perossidabilità 26,74a 33,18b 34,14b 3,59

IQN 0,93a 1,38a 4,78b 1,02

HH 2,46 3,43 2,93 0,91

Colesterolo mg 100 g–1 uovo 330,3a 329,9a 414,3b 31,9

mg 100 g–1 tuorlo 1.075,2a 1.105,4a 1.287,3b 100,51

TBARs mg MDA kg-1 tuorlo 0,18a 0,40b 0,44b 0,09

* varianza dell’errore; a..b.: P<0,05

Effetto del tipo genetico

Il tipo genetico non sembra avere un effetto significativo sul profilo nutrizionale delle uova (Ahn et al., 1995; Kovacs et al., 1998). Gli stessi autori non hanno riscontrato significative modifiche nel profilo acidico del tuorlo di uova di galline di diversi genotipi sottoposte allo stesso sistema di allevamento.

Scheideler et al. (1998) alimentando tre diversi tipi genetici di ovaiole (Babcock B300, DeKalb Delta e Hy-Line W-36) con diete contenenti semi di lino, hanno peraltro osservato effetti significativi per gli acidi palmitico, stearico e oleico, ma non per gli acidi linoleico, arachidonico e docosaesanoico.

Kovacs et al. (1998) hanno ottenuto uova più ricche di colesterolo da razze pure rispetto a quelle prodotte da ibridi commerciali. Altri Autori (Hargis, 1988) hanno invece osservato un effetto pressoché nullo del tipo genetico e dei trattamenti alimentari sui contenuti di coleste-rolo del tuorlo d’uovo.

Effetto dell’età della gallina

Per ciò che concerne l’effetto dell’età della gallina sulla composizione degli acidi grassi del tuorlo, Nielsen (1998) ha riscontrato livelli più elevati di acido arachidonico e docosae-sanoico nei lipidi del tuorlo di uova deposte da galline Lohmann di 21 rispetto a 51 settima-ne di età. Al contrario Scheideler et al. (1998) in uova deposte da galline di diversi genotipi (Babcock B300, DeKalb Delta e HyLine W-36) hanno evidenziato che all’età di 36 settimane

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queste risultavano meno ricche di acido docosaesanoico rispetto a quelle deposte dalle stesse galline a 58 settimane di vita.

STRATEGIE DI MIGLIORAMENTO DELLA QUALITÀ DEI PRODOTTI

Arricchimento dell’uovo con molecole bioattive (PUFA n-3, acido linoleico coniugato, vitamine, minerali e pigmenti)

Nell’ultimo decennio del secolo scorso si sono sviluppate ricerche sugli alimenti fun-zionali ovvero alimenti che, per la presenza di molecole fisiologicamente bioattive, eser-citano un potenziale effetto benefico sulla salute dell’uomo. Gli alimenti funzionali, sia di origine vegetale che animale suscitano grande interesse per il loro ruolo nella prevenzione delle malattie e per la promozione della salute. L’uovo può essere considerato un alimen-to funzionale poiché contiene molte molecole la cui attività va oltre le necessità nutrizio-nali di base, come ad esempio i carotenoidi, luteina e zeaxantina presenti in abbondanza nel tuorlo. Queste molecole hanno una spiccata attività antiossidante e svolgono un’azione protettiva contro la degenerazione maculare, malattia dell’occhio legata all’invecchiamento (Olson et al., 2011).

L’uovo può essere considerato anche un “designer food” ovvero un alimento che può es-sere modificato mediante un approccio biotecnologico per migliorarne la qualità e il valore nutrizionale.

Attraverso particolari strategie nutrizionali applicate nell’alimentazione della gallina, è possibile aumentare i livelli di acidi grassi polinsaturi della serie n-3, acido linoleico coniu-gato, vitamine, e minerali ed esistono già in commercio in alcuni paesi europei ed extra-eu-ropei uova arricchite con alcune di queste molecole (Sirri e Meluzzi, 2011; Schiavone e Bar-roeta, 2011).

Arricchimento dell’uovo con acidi grassi polinsaturi n-3

La composizione lipidica del tuorlo risulta dalla combinazione di lipidi derivanti sia dalla sintesi endogena sia direttamente dalla dieta della gallina. Per quanto riguarda gli acidi grassi n-3 di nota importanza per la salute dell’uomo, EPA e DHA, essi non vengono sintetizzati ex novo dalla gallina ma attraverso reazioni di allungamento della catena carboniosa e di desa-turazione dell’acido linolenico presente nella dieta.

L’arricchimento dell’uovo con acidi grassi n-3 è stato eseguito seguendo 2 approcci, ovvero arricchendo l’uovo utilizzando nella dieta della gallina fonti di acido alfa-linolenico (C18:3 n-3, ALA) contenuto in grandi quantità nei semi di lino e suoi derivati, oppure impiegando alghe o olii di pesce che contengono elevate quantità di EPA e DHA. In prove eseguite da diversi autori (Caston e Leeson, 1990; Cherian e Sim, 1991; Niemic et al., 1999; Yannako-poulos et al., 1999; Gurbutz et al., 2010) è stato dimostrato che è possibile aumentare fino al 74% il contenuto di acido alfa-linolenico dell’uovo impiegando a diversi dosaggi semi di lino, colza, enagra. Farrell (1994) ha dimostrato che l’aggiunta di olio di colza o di lino alla dieta di gallina ha portato ad un notevole incremento dei PUFA-n3, in particolare di acido al-fa-linolenico, e in piccole quantità di EPA e DHA. La supplementazione dietetica di 150 g/kg di alimento di semi di lino, canola e di una miscela di semi di lino e pisello (1:1) ha innalza-to il livello di PUFA n-3 rispettivamente a 562, 207 e 427 mg/60 g uovo. Amini e Ruiz-Feira (2007), impiegando dosaggi crescenti di semi di lino (2, 4, 8 o 12%), hanno dimostrato che sono necessari dosaggi superiori al 4% per avere un elevato contenuto di PUFA n-3 nell’uo-vo. Yannakopoulos et al. (2004), con una dieta che conteneva semi di lino, una miscela di er-be spontanee dell’area mediterranea oltre che vitamina E, iodio e selenio, hanno osservato

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un incremento della concentrazione di PUFA n-3 ed una riduzione del 20% del contenuto di colesterolo del tuorlo. In Canada sono commercializzate uova etichettate come “uova arric-chite con PUFA n-3” (350 mg di PUFA n-3/uovo) ottenute utilizzando mangimi che conten-gono l’8% di semi di lino.

Gli acidi grassi PUFA n-3 a lunga catena EPA e DHA sono più efficaci rispetto all’ALA nella prevenzione delle malattie cardiovascolari (Farrell, 2000; De Girolamo et al., 2010). Le alghe sono gli unici organismi in grado di sintetizzare i PUFA n-3 a lunga catena per mantenere le loro membrane cellulari fluide alle basse temperature consentendo loro di ef-fettuare la fotosintesi e di crescere. Nella catena alimentare i PUFA n-3 sono trasferiti allo zooplancton che si nutre di alghe ed altri piccoli organismi marini, e poi ai pesci ed infine agli altri animali, incluso l’uomo che si nutre di pesci o di organismi acquatici. Diversi stu-di sono stati eseguiti per valutare gli effetti dell’olio di pesce aggiunto alla dieta della gal-lina sulle percentuali di PUFA n-3 del tuorlo (Hargis et al., 1991; Farrell, 1994; Meluzzi et al., 1997a, 1997b; Sirri et al., 2001) (Tabella 7). L’integrazione dietetica di dosi crescenti (2, 3, 4%) di olio di pesce contenente il 16,8% di EPA e il 9% di DHA oppure di un olio contenente il 14,8% di DHA e il 9% di EPA ha innalzato il livello di EPA e DHA propor-zionalmente alla dose impiegata. A parità di dosaggio dell’olio, il livello di EPA era più elevato nelle uova delle galline che avevano ricevuto l’olio a maggiore contenuto di EPA. Con entrambi gli oli di pesce e ad ogni livello di integrazione si è ottenuta una significativa incorporazione di n-3 PUFA nell’uovo la cui composizione in acidi grassi rifletteva quel-la della dieta. Il contenuto di DHA variava dal 200 al 370% rispetto alle uova di controllo ed esso rappresentava la più alta concentrazione rispetto agli altri n-3 PUFA, EPA e DPA anche quando il contenuto dietetico di DHA era inferiore a quello di EPA. Ciò suggerisce che il DHA è sintetizzato dalla gallina a partire dall’ALA e dall’EPA mediante i processi di allungamento e di desaturazione della catena carboniosa dell’acido grasso. Quando gli n-3 PUFA aumentano nel tuorlo, il livello di acido arachidonico, che è sintetizzato a partire dall’acido linoleico, diminuisce del 25-50% rispetto alle uova di controllo. Ciò è dovuto al fatto che la delta-6-desaturasi, l’enzima coinvolto nei processi di desaturazone degli acidi grassi della famiglia n-3 e della famiglia n-6 viene maggiormente impiegato per il metabo-lismo degli n-3 PUFA (Meluzzi et al., 1997a, 1997b; Farrell, 1994). La somministrazione dietetica di livelli crescenti di olii di aringa ha favorito una deposizione di n-3 PUFA fino a oltre 200 mg/tuorlo (Van Elswyck, 1997) (Tabella 7). Herber and Van Elswyck (1996) hanno dimostrato che l’incorporazione nel tuorlo di n-3 PUFA è superiore quando si im-piegano alghe marine piuttosto che olio di aringa. Analogamente, Sirri et al. (2001) hanno ottenuto concentrazioni di DHA pari a 12,5, 9,57 e 6,05 mg/g di tuorlo impiegando rispet-tivamente alghe marine, olio di pesce e semi di lino estruso. Inoltre gli Autori hanno osser-vato che raddoppiando la dose di alghe marine dal 2,4 al 4,8% non si raddoppia la quantità di n-3 PUFA nel tuorlo dimostrando che c’è un limite nella efficienza di trasferimento di tali acidi grassi dalla dieta all’uovo. Il tasso di trasferimento degli acidi grassi dalla dieta al tuorlo dipende dalla proporzione di n-3 PUFA nella dieta. In generale il DHA è trasferi-to con una maggiore efficienza dell’EPA in quanto quest’ultimo è parzialmente convertito in DHA. Il tasso di trasferimento varia dal 5 al 7% per l’EPA e dal 40 al 70% per il DHA (Hammershoj, 1995; Meluzzi et al., 1997a, 2000).

In virtù degli effetti benefici sulla salute umana dimostrati dall’acido linoleico coniugato (CLA), sono stati fatti diversi tentativi per arricchire con il CLA i prodotti di origine ani-male per il consumo umano, incluso l’uovo. I risultati di diverse prove confermano che è possibile ottenere uova che contengano da 0,3 a 1 g di CLA (Chamruspollert e Sell, 1999; Du et al., 1999; Meluzzi et al., 2003). La concentrazione di CLA aumenta nel tuorlo all’au-mentare dell’integrazione dietetica (0, 2,5, 5%) (Yin et al., 2008). L’isomero prevalente è il CLA cis 9, trans-11.

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Tabella 7. Contenuto di acidi grassi polinsaturi n-3 dell’uovo (mg/uovo) in relazione all’impiego nell’alimentazione della gallina di diverse fonti di PUFA n-3

Fonti di n-3 PUFA

Livello di inclusione (%) ALA EPA DPA+DHA Totale

PUFA n-3 Autori

Linosemi 16 8,81 0,151 1,541 10,81 Cherian and Sim, 1991

“ 4 35,2 n.r. 35,0 70,2 Niemiec et al., 1999

“ 15 420 8,5 91,8 520 Jia et al., 2008

olio 2 226 5,92 117 350 Meluzzi et al., 2001a

“ 4 4,91 0,31 1,851 7,071 Baucells et al., 2000

PesceSgombro olio 3 23 40 251 343 Farrell, 2000

Aringa “ 3 26 30 185 241 Hargis et al., 1991

Anguilla “ 3 37 26 148 207 Hammersoj, 1995

Aringa “ 3 n.r. n.r. n.r. 232 Van Elswyk, 1997

(ROPUFA 30 DHA oil)a “ 4 25,3 16,6 180 227 Meluzzi et al., 1997a

(ROPUFA 30 EPA oil)b “ 4 18,1 27,4 184 230 Meluzzi et al., 1997a

Pesce “ 2 17,9 7,9 129 156 Meluzzi et al., 1997b

Pesce “ 4 0,41 0,91 3,651 5,061 Baucells et al., 2000

Pesce farina - 4,12 0,22 6,92 11,32 Simopoulos, 2000

AlgaSchizochytrium sp. 2,4 n.r. n.r. 8,82 9,52 Herber and Van Elswick, 1996

Schizochytrium sp. 2 1,42 0,432 132 14,72 Sirri et al., 2001

Crypthecodinium coonii

3 1,22 0,392 10,92 12,62 Meluzzi et al. 2001b

aProdotto commerciale contenente il 30% di DHA;bProdotto commerciale contenente il 30% di EPA;1 percentuale del totale degli acidi grassi;2 espresso in mg/g tuorlo; n.r.: non rilevato.

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Arricchimento dell’uovo con vitamine

Attraverso l’alimentazione delle galline è possibile modificare la quantità di vitamine e mi-nerali contenute nell’uovo. Mediante questo approccio è possibile ottenere uova contenenti sostanze bioattive potenzialmente benefiche per la salute dell’uomo in quanto possono pre-venire l’insorgenza di alcune malattie.

Numerosi esperimenti hanno messo in evidenza i risultati soddisfacenti ottenuti per au-mentare, attraverso l’alimentazione della gallina, la concentrazione di vitamine liposolubili dell’uovo come la E (Jiang et al., 1994; Meluzzi et al., 2000, Galobart et al., 2002), la A (Jiang et al., 1994), la D (Mattila et al, 2003), e la K (Suzuki e Okamoto, 1997) ma anche le idroso-lubili con particolare riferimento a vitamina B12 e acido folico (House et al., 2002).

Arricchimento con vitamina E

La vitamina E gioca un ruolo fondamentale per le normali funzioni dell’organismo poiché è stato dimostrato che riduce l’incidenza di varie patologie in relazione al suo elevato potere antiossidante. L’aggiunta di vitamina E alla dieta del pollame consente di raggiungere 3 obiet-tivi: la prevenzione di carenze nutrizionali nel pollo, il miglioramento della stabilità ossidati-va della carne di pollo e degli ovoprodotti e di costituire una eccellente fonte nutrizionale di vitamina E per il consumatore.

Numerose ricerche sono state effettuate negli ultimi venti anni per incrementare il conte-nuto di vitamina E nell’uovo (Frigg et al., 1992; Jiang et al., 1994; Surai et al., 1995; Che-rian et al., 1996a; Chen et al., 1998; Meluzzi et al., 1999; Mori et al., 2003; Pita et al., 2004). È stato evidenziato che esiste una relazione diretta tra la concentrazione di vitamina E nella dieta della gallina e la concentrazione nell’uovo; tuttavia il tasso di trasferimento diminuisce all’aumentare del livello di alfa-tocoferil acetato della dieta passando dal 41,8% con dosaggi di 50 ppm al 26% con dosaggi di 200 ppm (Galobart et al., 2001a). La vitamina E trasferita all’uovo è circa il doppio di quella che viene trasferita nel fegato a dimostrazione che quest’or-gano non è il deposito di eccellenza della vitamina (Surai et al., 1998). Con diete contenenti 200 mg di alfa-tocoferil acetato per kg di mangime si ottengono nell’uovo concentrazioni di vitamina E che vanno da 177 a 313 µg/g di tuorlo (Tabella 8).

Queste differenze sono da ascrivere alle diverse condizioni sperimentali adottate dagli au-tori, alla presenza di antiossidanti o particolari ingredienti della dieta che possono interagire con l’assorbimento della vitamina ed al tipo e livello di inclusione lipidica della dieta. Infatti quando si impiegano diete che contengono elevati livelli di acidi grassi insaturi si ha una ri-duzione del deposito di vitamina nel tuorlo in quanto essa viene utilizzata come antiossidante nel metabolismo dell’animale riducendo la deposizione nell’uovo (Meluzzi et al., 2000; Ga-lobart et al., 2001a). Un altro importante fattore che può modificare il contenuto di vitami-na nell’uovo è rappresentato dalla cottura che ne riduce il contenuto (Galobart et al., 2001b; Cortinas et al., 2003; Franchini et al., 2002) a differenza della conservazione che non esercita alcun effetto sul livello della vitamina (Cherian et al., 1996b; Meluzzi et al., 1999).

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Tabella 8. Effetto dell’aggiunta alla dieta della gallina di dl-alfa-tocoferil acetato sul con-tenuto di vitamina E dell’uovo

Autori α-tocoferil acetato (mg/kg mangime) α-tocoferolo (µg/g di tuorlo)Jiang et al., 1994 DB=28 135

DB+50 164DB+100 235DB+200 245DB+400 390

Chen et al., 1998 DB =11 25DB+15 35DB+30 45DB+60 50DB+120 75

Hossain et al., 1998 25 9950 16975 207100 203

Meluzzi et al., 2000 DB=33,2-43,9 90,9DB+50 136,1DB+100 227,5DB+200 313,8

Galobart et al., 2001a 0 5050 149100 237200 397

Grobas et al., 2002 0 28,140 109,2160 353,9640 967,5

Franchini et al., 2002 DB<10 47,2DB+100 120,6DB+200 219,1

Pita et al., 2004 DB=36-38 34,0DB+100 108,1DB+200 177,4

DB: dieta base

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Arricchimento con vitamina A

La vitamina A è coinvolta in diverse funzioni metaboliche come la vista, il mantenimento dell’integrità delle membrane, la riproduzione, lo sviluppo dell’osso, la risposta immunitaria e la proliferazione cellulare. Essendo un componente indispensabile per lo sviluppo dell’em-brione è presente nel tuorlo a concentrazioni variabili in funzione al suo livello di inclusione nella dieta. Infatti, il contenuto di vitamina aumenta con l’aumentare della concentrazione dietetica anche se l’efficienza di trasferimento si riduce progressivamente. Jiang et al. (1994) impiegando diete integrate con dosaggi di beta carotene da 0 a 200 UI/kg di mangime hanno ottenuto una concentrazione rispettivamente pari a 38 a 46 UI/g di retinolo nel tuorlo.

Arricchimento con vitamina D

La vitamina D è di fondamentale importanza per la formazione e il mantenimento del tes-suto osseo e viene assunta con la dieta o prodotta a livello endogeno per azione della luce so-lare che trasforma il colesterolo in vitamina. Pertanto l’assunzione di vitamina D dalla dieta è assolutamente necessaria per le persone che hanno una limitata esposizione alla luce ultra-violetta. La vitamina D, interagendo con il metabolismo dei minerali, riduce il rischio di pato-logie legate all’invecchiamento quali malattie cardiovascolari, ipertensione e sclerosi. Mattila et al. (1999) hanno osservato una correlazione positiva elevata tra il contenuto di vitamina D del mangime e quello dell’uovo. Aumentando il contenuto di vitamina da 26,6 a 216 µg/kg di mangime hanno ottenuto un incremento del colecalciferolo da 1,2 a 23 µg/100 g di tuorlo. Pertanto un uovo arricchito in vitamina D può soddisfare il 93% del fabbisogno giornaliero per l’uomo mentre un uovo normale copre il 30,8% del fabbisogno giornaliero (Tabella 9).

Arricchimento con vitamina K

La principale funzione della vitamina K è di regolare la sintesi dei fattori coinvolti nella coagulazione del sangue ma anche nei processi di mineralizzazione dell’osso e di formazio-ne del guscio. Suzuki e Okamoto (1997) hanno dimostrato che l’integrazione dietetica di vi-tamina K1 o fillochinone da 10 a 100 mg/kg produce uova con un contenuto di vitamina K1 da 1,04 a 19,08 µg/g di tuorlo e di 0,7-19,2 µg/g tuorlo di vitamina K2 (Tabella 9). Allo stes-so modo l’integrazione da 10 a 1.000 ppm di K3 consente di ottenere uova arricchite con K2 (1,1-2,4 µg/g di tuorlo) e K3 (0,01 µg/g di tuorlo).

Arricchimento con acido folico (folati)

Le vitamine idrosolubili sono contenute sia nel tuorlo sia nell’albume a differenza delle li-posolubili che sono presenti solo nel tuorlo. Le ricerche eseguite sull’arricchimento dell’uovo con vitamine idrosolubili sono scarse; solo la vitamina B12 e l’acido folico sono stati studiati in quanto intervengono nel metabolismo della omocisteina. Sembra che le malattie cardiova-scolari siano associate ad elevate concentrazioni di omocisteina nel sangue e che l’incremento della B12 e dell’acido folico nella dieta possa limitare l’accumulo dell’omocisteina nel sangue e nei tessuti (Austic et al., 2008).

L’acido folico è contenuto per il 95% nel tuorlo ed il suo livello nelle uova non arricchite varia da 20 a 65 µg/100 g di uovo coprendo il 13-25% del LARN. Un’adeguata quantità di acido folico è necessaria per la prevenzione delle malattie cardiovascolari e delle alterazioni delle funzioni cognitive e della insorgenza della spina bifida del feto; pertanto l’assunzione di elevate quantità di acido folico è particolarmente importante per la donna in gravidanza, soprattutto nel primo trimestre, a causa degli effetti della vitamina sullo sviluppo del feto. I folati contenuti nell’uovo hanno una biodisponibilità del 100% e la loro concentrazione è co-stante durante la conservazione dell’uovo a 4°C per 4 settimane (House et al., 2002). Negli

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esperimenti eseguiti da House et al. (2002) è stato dimostrato che alimentando la gallina con dosi crescenti di acido folico, da 0 a 128 mg/kg di mangime, aumenta il deposito di acido fo-lico nell’uovo fino a raggiungere un plateau alla concentrazione di 30-50 µg di folato/100 g di uovo. Hoey et al. (2009) aggiungendo alla dieta della gallina livelli crescenti di acido fo-lico (0, 2, 4, 8, 16, 32 mg/kg di mangime) hanno ottenuto la maggior concentrazione della vitamina nell’uovo (144,6 µg/100 g di uovo ovvero 75 µg/uovo) con il dosaggio di 16 mg/kg di mangime. Risultati analoghi sono stati ottenuti anche da Roth-Maier e Böhmer (2007).

Arricchimento con vitamina B12

I primi studi sull’arricchimento dell’uovo con vitamina B12 e B2 furono eseguiti da Naber (1979) che osservò che la concentrazione della B12 nell’uovo era proporzionale alla quanti-tà di vitamina aggiunta al mangime. Risultati analoghi furono conseguiti da Squires e Naber (1992) che ottennero uova contenenti 0,4, 1,3, 2,6 e 4,8 µg/100 g di tuorlo alimentando le galline con mangimi contenenti 0,5, 4, 8 e 16 µg di vitamina B12/kg di mangime rispettiva-mente. Leeson e Caston (2003) impiegando nel mangime della gallina dosaggi pari a 110 µg di vitamina B12/kg di mangime hanno ottenuto uova contenenti 3,5 µg di vitamina B12/uovo. Pertanto un uovo arricchito è in grado di soddisfare il 134% del fabbisogno giornaliero pari a 2,5 µg/die (Tabella 9).

Tabella 9. Contenuto di vitamine apportato da uova normali ed arricchite in relazione al livello di assunzione giornaliera raccomandato (LARN).

Vitamine LARNa Uovo normaleb

contenuto

Uovo normaleb

(% LARN)

Uovo arricchitob

contenuto

Uovo arricchitob

(% LARN)LiposolubiliA µg

RE*800 150 18,8 172 e 22

D µg 5 1,54 30,8 4,67 f 93E mg 12 1,10 9,20 6,00 g 50K µg 75 25,0 33,3 287 c h

36 d h

38348

IdrosolubiliB12 µg 2,50 1,06 42,4 3,35 i 134Acido Pantotenico mg 6 0,85 14,2 1,20 i 20Biotina µg 50 13,3 26,5 18,0 i 36

* Retinolo equivalentea Livello di assunzione giornaliera raccomandato (Scientific Committee on Food, 2003)b (uovo intero: 60 g; parte edibile: 53 g; tuorlo: 15 g). c fillochinoned menachinone MK4e Mori et al. (2003)f Mattila et al. (2003)g Galobart et al. (2001a)h Suzuki and Okamoto (1997)i Leeson and Caston (2003)

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Arricchimento dell’uovo con minerali

La maggior parte dei minerali sono depositati in misura maggiore nel tuorlo piuttosto che nell’albume e i microelementi maggiormente studiati per l’arricchimento dell’uovo sono il selenio, iodio, ferro e zinco.

Arricchimento dell’uovo con selenio

Il selenio è un microelemento indispensabile per l’accrescimento e la fertilità ed ha un ruolo importante in virtù della sua attività antiossidante pari a quella ben nota della vitami-na E. La carenza di selenio nell’alimentazione è associata ad alcune disfunzioni del sistema immunitario e ad una maggiore suscettibilità a varie malattie cardiovascolari, tumori, artri-te e diabete (Surai, 2006). In particolare studi epidemiologici hanno dimostrato che c’è una correlazione inversa tra livello di selenio nel sangue e negli alimenti e rischio d’insorgenza di tumori (Fisinin et al., 2008).

Il selenio è presente sia nel tuorlo che nell’albume: in quest’ultimo viene depositato il se-lenio organico come quello legato ad aminoacidi o contenuto nei lieviti mentre nel tuorlo è prevalentemente depositata la forma inorganica.

Numerose prove sono state eseguite per aumentare il contenuto di selenio dell’uovo attra-verso l’alimentazione della gallina, in particolare utilizzando fonti di selenio organico con-tenuto in lieviti arricchiti del minerale. Pertanto somministrando alle galline diete contenenti da 0,3 a 0,5 ppm di selenio organico si ottengono uova arricchite che contengono fino a 40 µg di selenio/uovo in grado di coprire circa il 70% del fabbisogno giornaliero dell’uomo (Surai et al., 2007; Fisinin et al., 2009).

Il selenio raggiunge un livello di tossicità a dosaggi di oltre 600 µg/die e per avere un ef-fetto tossico si dovrebbero consumare più di 15 uova al giorno per un lungo periodo di tem-po (Whanger, 2004).

Attualmente le uova arricchite in selenio sono prodotte e commercializzate nel mondo in più di 25 paesi, in particolare nell’Europa dell’Est (Fisinin, 2008).

Arricchimento dell’uovo con iodio

Lo iodio è assorbito in maniera efficiente dall’intestino sia nella forma inorganica che or-ganica ed in combinazione con la tirosina forma gli ormoni tiroidei. Il fabbisogno giornaliero è di 0,3-0,4 mg; tali valori sono fortemente innalzati se nella dieta sono presenti alimenti goi-trogenici che sequestrano lo iodio impedendone l’utilizzazione a livello della tiroide e causano l’ipotiroidismo (Klasing, 2000). L’impiego di alimenti arricchiti con iodio è particolarmente consigliato nelle zone in cui l’ipotiroidismo è endemico. Alcuni tentativi di arricchire in io-dio le uova di galline sono stati effettuati somministrando alle galline diete arricchite in tale elemento (6 ppm) raggiungendo concentrazioni di 26 µg di iodio/uovo pari a 112 µg/ 100g di tuorlo e 18 µg /100 g di albume (Yalcin et al., 2004).

Arricchimento dell’uovo con ferro

Il contenuto di ferro nell’uovo può essere aumentato del 5-18% fornendo alla gallina una dieta integrata con ferro sia in forma organica sia inorganica. In generale la massima depo-sizione di ferro nell’uovo si ottiene con concentrazioni dietetiche di 100 ppm di ferro legato ad aminoacidi (metionina) oppure di 200-300 ppm se si impiegano fonti inorganiche quali il solfato ferroso. Secondo Skrivan et al. (2005) l’integrazione della dieta della gallina con fer-ro, in combinazione con zinco e rame, fa aumentare la concentrazione di ferro del 34-36%. Il contenuto di ferro nelle uova arricchite varia da 2,2 a 2,3 mg/100 g di uovo (Park et al., 2005).

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Arricchimento dell’uovo con zinco

Lo zinco è un minerale importante coinvolto in numerose funzioni metaboliche come la crescita e lo sviluppo neuro-comportamentale, la riproduzione e la funzione immunitaria. L’arricchimento delle uova con zinco viene effettuato impiegando mangimi con concentra-zioni variabili: con valori da 1.762 a 1.861 mg/kg di mangime si ottengono uova che conten-gono fino a 2,4 mg di zinco per 100 g di uovo, ovvero il 50-90% in più di zinco rispetto un uovo normale deposto da galline alimentate con mangimi che contengono da 26 a 28 mg di zinco/kg (Stahl et al., 1988).

Arricchimento dell’uovo con pigmenti

In considerazione degli effetti benefici di luteina e zeaxantina per la salute umana e del-la elevata biodisponibilità di questi pigmenti nell’uovo, sono studiati gli effetti del consumo di uova arricchite in luteina (confronta paragrafo Pigmenti). Chung et al. (2004) e Burke et al. (2005), nell’ambito di studi sulle relazioni tra quantità di luteina ingerita e concentrazio-ne della stessa sia nel plasma che nella macula, hanno osservato che le migliori situazioni di densità nei pigmenti ottici della macula erano sempre associati ad elevati livelli di assunzione alimentare di luteina e zeaxantina.

Queste constatazioni hanno spinto alcuni ricercatori a verificare la possibilità di incremen-tare la loro concentrazione nelle uova, analizzando poi gli eventuali benefici per la salute uma-na. Handelman et al. (1999) utilizzando uova commerciali deposte da galline il cui mangime era stato integrato con olio di mais, hanno constatato un innalzamento del livello ematico di luteina del 39% con un consumo di circa un uovo al giorno. Anche il sistema di allevamento della gallina, ovvero la disponibilità di ampi spazi inerbiti consente un incremento dei pig-menti del tuorlo (confronta paragrafo Effetto del sistema di allevamento).

METODOLOGIE TRADIZIONALI ED INNOVATIVE DI DECONTAMINAZIONE DELLE UOVA

Per molti anni le salmonellosi associate al consumo di uova sono state, e lo sono ancora oggi, un importante problema di salute pubblica in tutto il mondo (EFSA, 2009a). In parti-colare la Salmonella Enteritidis, responsabile del 64% delle salmonellosi umane in Europa, è il sierotipo che persiste maggiormente nell’allevamento della gallina ovaiola e tale rischio potrebbe aumentare, come ipotizzato in un rapporto EFSA (EFSA, 2005a) con l’entrata in vigore nel 2012, della Direttiva comunitaria 1999/74/EC, basata sull’utilizzo di sistemi di al-levamento alternativi a quello in gabbie convenzionali.

Refrigerazione e lavaggio

Sulla base di queste considerazioni in tutta Europa si discute sull’opportunità di prevede-re efficaci misure in grado di ridurre la contaminazione dell’uovo in guscio da S. Enteritidis o altri patogeni batterici.

Tra gli interventi tradizionali più frequentemente richiamati c’è senza dubbio la refrige-razione a temperature di 7°C o inferiori. Su questo tema una recente opinione del panel sui rischi biologici dell’EFSA (EFSA 2009b) ha confermato che se da un lato questo intervento limita la crescita di patogeni come Salmonella spp., dall’altro non riduce la contaminazione da Salmonella all’interno dell’uovo ed inoltre può prolungare la sua sopravvivenza sul gu-scio. Un’altra procedura normalmente adottata negli USA, ma vietata in Europa per le uova di classe A (ad eccezione di Olanda e Svezia che la adottano su base volontaria) è il lavaggio

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in acqua. I dati scientifici fino ad ora prodotti con questa tecnica indicano una riduzione bat-terica variabile da 1 a 6 log

10(EFSA 2005 b). Tuttavia le uova in guscio trattate con questo

sistema normalmente devono essere conservate a temperature di refrigerazione dal momento che presentano una cuticola esterna danneggiata che potrebbe favorire la penetrazione batte-rica in fase post-trattamento.

Pastorizzazione con acqua e aria calda

Attualmente sono allo studio tecniche innovative che stanno valutando la possibilità di ri-durre la sopravvivenza e la penetrazione di Salmonella Enteritidis all’interno dell’uovo tra cui l’utilizzo di acqua calda (pasteurizzazione in acqua calda), e di aria calda. La pasteurizzazio-ne in acqua a temperature elevate (100°C) per 3 secondi, sebbene risulti efficace nel ridurre la contaminazione batterica superficiale, tuttavia produce microfratture del guscio con con-seguente aumento del rischio di penetrazione di batteri patogeni all’interno dell’uovo (Hima-thongkham et al., 1999); al contrario la pasteurizzazione in acqua con temperature variabili tra 55 e 60°C richiede tempi di trattamento molto lunghi, non compatibili con un possibile utilizzo industriale, ed è risultata controproducente per le caratteristiche qualitative dell’uo-vo (Hou et al., 1996; Schuman et al., 1997). In quest’ambito la pasteurizzazione ad aria può rappresentare una valida alternativa, come già evidenziato in letteratura (Hou et al., 1996) e confermato dagli studi condotti da Pasquali et al. (2010). In particolare l’utilizzo di due getti di aria calda a 600°C per 8 secondi, intervallati da una fase di raffreddamento di 30 secondi, hanno ridotto, per l’intera durata della conservazione (24 giorni a 20°C), fino ad un massi-mo di 2 log10 la carica di S. Enteritidis artificialmente inoculata sulla superficie del guscio. Tale risultato appare assai importante in quanto corrisponde ad una riduzione della popola-zione batterica maggiore del 90%. La carica totale dei mesofili sulle uova di galline allevate in gabbia è risultata inferiore o prossima al limite di rilevazione pari a 100 UFC/g di guscio.

Su uova biologiche trattate con aria calda è stata registrata una riduzione della carica tota-le dei mesofili pari a 1 log10 UFC/g rispetto a quelle non trattate, tuttavia dal terzo giorno di conservazione si è registrata una inversione di tendenza con cariche microbiche più alte nel-le uova trattate rispetto alle non trattate. Da questi risultati sembra che il trattamento con aria calda sia efficace solo per le specie batteriche termo-sensibili colonizzanti il guscio (Gram positivi non sporiformi come Micrococcus, e Gram negativi come Escherichia, Pseudomo-nas), mentre i batteri Gram positivi sporiformi, termo-resistenti, non sono stati inattivati dal trattamento e, al contrario, in assenza di batteri competitori si sono rapidamente moltiplicati.

Confezionamento in atmosfera modificata

Un’altra promettente tecnica di decontaminazione potrebbe essere rappresentata dal con-fezionamento dell’uovo in atmosfere modificate. In particolare l’effetto decontaminate di si-stemi di confezionamento a base di O2, CO2 e aria (controllo) è stato valutato su uova spe-rimentalmente inoculate con S. Enteritidis, e conservate per 45 giorni a diverse temperature (4, 20 e 36°C). I risultati ottenuti hanno evidenziato un incremento delle cariche iniziali di S. Enteritidis, sia sui gusci che negli albumi delle uova sperimentalmente contaminate, durante la conservazione a 20 e 36°C, mentre il carico iniziale è rimasto costante a 4°C indipenden-temente dal gas utilizzato per il confezionamento. A 45 giorni di conservazione la carica mi-crobica superficiale di S. Enteritidis di uova conservate a 4°C e confezionate con O2 è risultata significativamente più bassa rispetto alle uova confezionate con CO2 e stoccate a 36°C. L’ef-ficacia decontaminante dell’atmosfera modificata è stata valutata anche su uova naturalmente contaminate dalla microflora indigena e provenienti da galline allevate in gabbie convenzio-nali e da galline allevate con sistemi biologici. La concentrazione dei mesofili totali, sia sul guscio che nell’albume delle uova confezionate con i diversi gas e provenienti da allevamenti

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in gabbia è risultata sempre inferiore o uguale al limite di rilevazione, mentre sulle uova pro-venienti da allevamenti biologici la CO2 sembra avere un maggior effetto stabilizzante i bat-teri mesofili rispetto all’O2 e all’aria.

Decontaminazione con gas plasma

Un ulteriore sistema innovativo di decontaminazione è rappresentato dall’impiego di gas plasma le cui specie chimiche reattive generate dalla scarica a partire dall’aria ambiente sa-rebbero alla base del processo di decontaminazione. Risultati ottenuti in fase sperimentale mediante un generatore di gas plasma del tipo “scarica-barriera”, discontinuo ad elevato vo-lume, su uova deposte da galline allevate in gabbia e infettate sperimentalmente con S. Ente-ritidis sono stati confrontati con quelli delle uova non trattate, durante un mese di stoccaggio a temperatura ambiente. I risultati hanno dimostrato, durante tutto il periodo di conservazio-ne, una riduzione del livello di S. Enteritidis pari a 2 log10 nelle uova trattate, valore estrema-mente significativo in termini di riduzione del rischio per il consumatore anche in relazione alle basse cariche di salmonella normalmente evidenziate sulle uova commercializzate, diffi-cilmente superiori a 100 cellule per uovo.

CONSUMO DI UOVA E SALUTE UMANA

La salute umana poggia sulla base di una corretta alimentazione, contenente in giusta quan-tità alimenti ad elevato valore nutrizionale. Il valore di un alimento per l’alimentazione uma-na si basa essenzialmente sul suo contenuto in nutrienti. Tale contenuto è valutato su 100 g di parte edibile quindi, per quanto riguarda l’uovo, sul prodotto privato del guscio. 100 g di parte edibile corrispondono a circa 2 uova.

Come si evince dalla composizione chimica, riportata in tabella 1, il macronutriente pre-ponderante nell’uovo è costituito dalle proteine. Di conseguenza le uova in generale, e quel-le di gallina in particolare, sono classificate nutrizionalmente, insieme alla carne ed al pesce, tra gli alimenti del primo gruppo, ossia contenenti elevate quantità di proteine ad alto valore biologico.

Fondamentale caratteristica nutrizionale dell’uovo è quella di essere un’ottima fonte di pro-teine non solo in termini quantitativi ma anche, e soprattutto, qualitativi: le proteine dell’uovo hanno una composizione di aminoacidi essenziali (AAE) particolarmente adeguata alle esi-genze dell’essere umano, e da ciò deriva il loro elevato valore biologico. Gli AAE sono otto (nove nel bambino), e sono così detti in quanto non possono essere biosintetizzati dall’orga-nismo umano. Pertanto, onde evitare carenze che potrebbero riflettersi in una inadeguata sin-tesi di proteine, è necessario che essi vengano introdotti con gli alimenti in proporzioni cor-rette. La composizione aminoacidica delle proteine dell’uovo è talmente vicina alle necessità dell’essere umano che per anni esse sono state considerate la “proteina di riferimento” per la valutazione dell’adeguatezza delle proteine alimentari (indice chimico). Sebbene oggi la proteina di riferimento sia una proteina ipotetica, non presente in natura, le proteine dell’uo-vo rimangono tra quelle a maggiore indice chimico, peraltro rappresentando la fonte protei-ca meno costosa. La composizione in aminoacidi essenziali dell’uovo è riportata in tabella 2.

L’assenza di carboidrati ed il basso contenuto di lipidi totali determinano un’altra impor-tante caratteristica nutrizionale dell’uovo, ossia il basso contenuto energetico. Esso, pari a 128 kcal/100 g (533 kJ/100 g) è ancora più limitato quando si considera l’uovo come “porzione standard”, corrispondente ad un uovo. Pertanto il consumo di uova nell’ambito di un pasto rappresenta una scelta a bassa densità energetica ma ad alta densità nutrizionale, in quanto esse forniscono una importante serie di vitamine e minerali, in grado di coprire in molti ca-

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si una significativa percentuale dei livelli di assunzione raccomandata (LARN) (figura 1).La gran parte dei micronutrienti dell’uovo è concentrata nel tuorlo, in cui è presente anche

la totalità della colina, un fattore similvitaminico importante per lo sviluppo ed il trofismo del cervello, e la lecitina. La presenza nell’uovo di un fattore antivitaminico, l’avidina, che con-trasta l’utilizzazione della vitamina biotina, non rappresenta un problema nutrizionale, poichè l’avidina è una proteina termolabile, e quindi viene inattivata dalla cottura.

Al di là della composizione in macro e micronutrienti, numerose ricerche scientifiche stan-no evidenziando che il valore nutrizionale dell’uovo è legato anche alla presenza di compo-nenti definiti bioattivi. Molte delle proteine dell’uovo e dei peptidi che da esse si originano durante la digestione mostrano, infatti, una bioattività che li rende particolarmente interessanti da un punto di vista nutrizionale.

Le proteine dell’uovo: nuovi componenti bioattivi utili per la salute umana?

Le proteine dell’albume sono principalmente l’ovoalbumina, l’ovotransferrina e l’ovomu-coide. In minore percentuale sono presenti ovomucina, responsabile della viscosità dell’albu-me, lisozima e avidina (Sugino et al., 1997b).

Molte di queste proteine hanno attività antimicrobica, e rappresentano il naturale sistema di difesa dell’uovo. L’effetto antimicrobico è attribuibile a diversi meccanismi, tra cui la lisi batterica ed il legame con i metalli e le vitamine (Li-Chan et al., 1989); il lisozima, ad esem-pio, idrolizza i componenti strutturali della parete cellulare batterica, e la digestione di questa proteina libera peptidi con attività batteriolitica ancora più pronunciata (Mine et al., 2004). La spiccata attività antibatterica del lisozima ha portato al suo utilizzo in prodotti per l’igie-ne orale (dai dentifrici alle gomme da masticare). Questa proteina ha anche attività antivirale, e diversi studi hanno evidenziato sia in vitro che in vivo una attività anticancerogena (Pacor et al., 1999)

Alcuni peptidi prodotti dalla digestione dell’ovoalbumina sono fortemente attivi contro il Bacillus subtilis e, in minore misura, contro E. coli, Bordetella bronchiseptica, Pseudomonas aeruginosa, e Candida albicans (Pellegrini et al., 2004).

L’ovotransferrina, un membro della famiglia di proteine in grado di legare il ferro, proprio grazie alla sua proprietà di chelare questo metallo è in grado di prevenirne l’utilizzo da parte dei microorganismi, risultando quindi un batteriostatico (Abdallah et al., 1999). Anche alcu-ne componenti del tuorlo hanno attività antimicrobica. Tra esse, la più studiata è l’immuno-globulina Y (Kovacs-Nolan and Mine, 2004).

L’uovo ha un’azione protettiva verso le infezioni microbiche anche grazie ad alcune com-ponenti non proteiche, che sono in grado di contrastare l’adesione dei microorganismi patoge-ni alla mucosa intestinale, primo stadio dei processi infettivi. Questa adesione avviene grazie all’interazione del batterio con i carboidrati presenti sulla superficie della mucosa dell’ospite. Gli oligosaccaridi e i glicoconiugati presenti nell’albume competono con i carboidrati della mucosa per il legame con i batteri, e quindi prevengono le infezioni microbiche (Kobayashi et al., 2004). Ugualmente i sialo-oligosaccaridi presenti nel tuorlo contrastano l’adesione bat-terica alla mucosa intestinale, e hanno dimostrato la capacità di ridurre la diarrea da rotavirus sia nei topi che nei ratti.

Diverse proteine dell’albume e peptidi da esse derivati durante la digestione hanno atti-vità immunomodulatoria. L’ovoalbumina induce il rilascio del tumor necrosis factor (TNF) (He et al., 2003), ed alcuni peptidi derivati da questa proteina aumentano l’attività fagocita-ria dei macrofagi. Una attività analoga è stata dimostrata in peptidi derivati dalla digestione dell’ovomucina.

Non ultimo, alcuni peptidi derivati dalla digestione delle proteine dell’albume sembrano avere attività antiipertensiva attraverso un’azione vasorilassante (Davalos et al., 2004). Altri

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peptidi derivati da proteine dell’albume esplicano attività antiipertensiva grazie all’inibizione dell’enzima che converte l’angiotensina I (ACE), e sono pertanto definiti peptidi ACE-inibi-tori. Molti farmaci antiipertensivi agiscono con lo stesso meccanismo.

Infine, Davalos et al. (2004) hanno evidenziato che la digestione con pepsina delle pro-teine dell’albume determina la produzione di un peptide con spiccata attività antiossidante, in aggiunta alla capacità antiossidante dei lipidi e fosfolipidi presenti nel tuorlo, già nota da tempo in particolare nella prevenzione dell’ossidazione degli acidi grassi insaturi (Sugino et al., 1997a). Anche la fosvitina è un componente antiossidante del tuorlo, ed agisce come chelante dei metalli.

Sebbene altre ricerche siano necessarie per stabilire la reale efficacia di questi componen-ti bioattivi dell’uovo, le attuali conoscenze a riguardo indicano che, probabilmente, il valore nutrizionale di questo alimento è stato fino ad oggi sottostimato.

Uovo, colesterolemia e rischio cardiovascolare

Nel 1968, quando l’American Heart Association raccomandò per la prima volta che l’as-sunzione giornaliera di colesterolo fosse inferiore a 300 mg e che il consumo di uova non su-perasse le 3 alla settimana, l’evidenza di una relazione tra dieta, colesterolemia e rischio car-diovascolare era molto limitata.

Oggi il numero di ricerche indicanti una connessione tra colesterolo plasmatico e rischio cardiovascolare è enorme, ma da esse si evince anche chiaramente che la colesterolemia è legata solo in minima parte all’entità dell’assunzione alimentare di colesterolo e che quindi quest’ultima non è fattore di rischio per le malattie cardiovascolari (McNamara, 2009).

Per lungo tempo gli alimenti ricchi di colesterolo sono stati considerati uno dei fattori cau-sali delle malattie cardiache ischemiche, e questo ha portato alla limitazione del consumo di uova. In realtà, la maggior parte degli studi non ha evidenziato alcuna relazione tra consumo di uova e cardiopatia ischemica nella popolazione sana. Anche in soggetti diabetici, l’esisten-za di questa relazione non poggia su basi convincenti (Novello et al., 2006).

Basandosi sull’ulteriore restrizione nell’assunzione di colesterolo (200 mg/die) nei sog-getti con diabete, disturbi cardiovascolari, ipercolesterolemia, o con una anamnesi famiglia-re di aterosclerosi, il contenuto dello sterolo nel tuorlo d’uovo porterebbe, teoricamente, ad una sua totale eliminazione dalla dieta di questi soggetti. Nella realtà, il consumo di uova ha un effetto sulla colesterolemia decisamente inferiore rispetto ad altri alimenti ricchi di questo sterolo (Kayikçiog˘lu and Soydan, 2009).

La mancanza di correlazione tra assunzione di uova e malattie cardiovascolari è in parte spiegabile dal fatto che il 70% della popolazione non mostra un incremento della colestero-lemia all’aumentare dell’introduzione di colesterolo con gli alimenti. Nella percentuale di popolazione in cui questo aumento si verifica, esso è relativo sia al colesterolo LDL (il c.d. “colesterolo cattivo”) che HDL (“colesterolo buono”) (Fernandez, 2006). Un aumento della colesterolemia LDL appare maggiormente legato al consumo di elevate quantità di grassi sa-turi, al punto che le ultime linee guida dell’European Food Safety Authority circa il consumo di lipidi dietetici danno una indicazione circa il consumo massimo giornaliero di lipidi saturi ma non di colesterolo (EFSA, 2010).

L’uovo ha un basso contenuto di lipidi, con una ripartizione tra acidi grassi saturi ed insaturi a favore di questi ultimi (Figura 2). Inoltre l’uovo rappresenta una delle matrici alimentari facilmente arricchibili di acidi grassi polinsaturi grazie a modificazioni della dieta della gallina. L’arricchimento, in particolare con PUFA n-3, rende l’uovo un’ottima fonte, per giunta a basso costo, di questi acidi grassi riconosciuti utili nella prevenzione cardiovascolare.

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Figura 2. Ripartizione del contenuto di grassi nell’uovo intero

Inoltre il consumo di uova porta alla formazione di lipoproteine LDL di dimensioni mag-giori, che sono meno aterogene, e le uova contengono antiossidanti, che contribuiscono alla protezione delle LDL stesse dall’ossidazione, considerata uno dei fattori scatenanti il proces-so aterogeno (Fernandez, 2006).

Studi di popolazione non solo non hanno evidenziato alcuna associazione tra consumo di uova e colesterolemia, ma a volte addirittura una associazione inversa (Dawber et al., 1982; Tillotson et al, 1997). Analizzando i 20.000 partecipanti allo studio Third National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES III) condotto nel 1988–94 è stato verificato che i livelli medi di colesterolemia erano maggiori nei soggetti che consumavano ≤ 1 uovo a setti-mana rispetto a coloro che ne introducevano 4 o più (Song and Kerver, 2000).

In molti studi, anche svolti in Italia, non si è evidenziata una relazione tra consumo di uova e rischio cardiovascolare (Kritchevsky, 2004; Gramenzi et al, 1990).

Questo non significa che i livelli di colesterolo nella dieta non debbano essere tenuti sotto controllo, ma che questo debba essere fatto nell’ambito di una educazione alimentare global-mente corretta, e che la restrizione nel consumo di uova è una raccomandazione che non può essere generalizzata a tutta la popolazione (Spence et al, 2010).

Uova ed allergie

Dopo quella alle proteine del latte l’allergia all’uovo è la forma allergica più comune nell’infanzia e adolescenza (Sicherer et al., 2006), con una presenza nello 0,5-2,5% dei bam-bini (Rona et al., 2007). L’allergia all’uovo è strettamente associata alla dermatite atopica, ed è presente nei 2/3 dei soggetti affetti da questa patologia; il rischio di sensibilizzazione ad allergeni respiratori, e quindi di asma, è maggiore nei soggetti allergici alle proteine dell’uo-vo (Ricci et al., 2006).

La maggior parte degli allergeni dell’uovo è contenuta nell’albume, che ne presenta circa 20 tipi. Tra essi l’ovomucoide, l’ovalbumina, l’ovotransferrina ed il lisozima sono i maggiori (Heine et al., 2006), con il seguente ordine di allergenicità: ovomucoide > ovalbumina > ovo-transferrina > lisozima. Benchè l’ovoalbumina sia la proteina presente in maggiore concen-trazione, l’allergene dominante dell’uovo è l’ovomucoide (Cooke and Sampson, 1997). Ciò è dovuto alla sua caratteristica di essere particolarmente termostabile e resistente alla digestione rispetto alle altre componenti proteiche dell’albume (Matsuda et al., 1983).

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Il maggiore allergene del tuorlo è l’alfa-livetina, che si pensa essere coinvolta nella c.d. bird-egg syndrome (Quirce et al., 2001). In questa malattia, la prima sensibilizzazione avvie-ne per via inalatoria dopo contatto con un allergene avicolo, e si ha quindi una sensibilizza-zione secondaria o reattività crociata con le proteine del tuorlo d’uovo. La sintomatologia è rappresentata da sintomi respiratori in presenza di uccelli e da altri segni di allergia all’inge-stione di uova.

La terapia di questa forma di allergia è costituita dalla rigida esclusione dell’uovo dalla dieta, cosa non semplice dal momento che esso è ingrediente di molti prodotti dell’industria.

Fortunatamente la prognosi di questa forma allergica è estremamente favorevole, in quan-to essa si risolve, nella maggior parte dei casi, nei primi anni di vita (Savage et al., 2007).

CONCLUSIONI

L’uovo è un alimento completo e di elevata qualità, ricco di importanti principi nutritivi, di vastissimo consumo e di basso costo. Oltre ad essere consumato direttamente è anche ampia-mente utilizzato in molte preparazioni alimentari nelle quali viene inserito come ingrediente oppure per le sue caratteristiche funzionali.

Naturalmente ricco di sostanze bioattive che svolgono un’azione positiva sulla salute uma-na, l’uovo è diventato anche alimento funzionale adattandosi alle recenti ricerche in scien-za dell’alimentazione. Attraverso particolari strategie nutrizionali applicate all’alimentazione della gallina, è infatti possibile arricchire l’uovo di specifiche componenti che possono agire sulla prevenzione di particolari patologie e, più in generale, promuovere la salute umana. In alcuni paesi europei ed extra-europei, esistono già in commercio uova arricchite con alcune di queste molecole.

Anche le uova prodotte da galline allevate free range o con il metodo biologico sono ric-che di composti bioattivi. Inoltre, utilizzando genotipi autoctoni, a più elevata attitudine pa-scolativa ed efficienza nei meccanismi di desaturazione, si possono ottenere uova ad elevato valore nutrizionale, salvaguardando al contempo la biodiversità animale.

Le controindicazioni al consumo di uova sono, o sono state, motivate dal loro elevato con-tenuto di colesterolo, dal rischio di contaminazione batterica e dalle proprietà allergeniche di alcune sue proteine. La ricerca medica ha ampiamente dimostrato che non esiste relazione diretta fra consumo alimentare di colesterolo e livello ematico dello stesso, come indicato nei paragrafi precedenti. Al contrario, è oggi riconosciuto che il contenuto lipidico delle uova ha caratteristiche nutrizionali positive ed elevata digeribilità. Di conseguenza, si ritiene accetta-bile un consumo anche di un uovo al giorno, eliminando quindi ogni precedente pregiudizio verso questo alimento. Il rischio di tossinfezioni conseguenti al consumo di uova è legato in particolare alla eventuale presenza di Salmonella. Come descritto in precedenza, in diversi Paesi sono già in uso metodi di disinfezione che riducono tale rischio ed anche in Europa si sta valutando l’opportunità di adottare una normativa al riguardo per la tutela del consumato-re. Si vuole comunque ricordare che il rispetto di rigorose norme di allevamento, come quelle adottate dal sistema produttivo integrato nazionale, permette oggi la commercializzazione di uova di alta qualità anche da un punto di vista igienico. La presenza nell’uovo di proteine con proprietà allergeniche è invece un concreto ostacolo al consumo di questo alimento per tutte le persone a rischio. La proteina maggiormente responsabile di allergia è l’ovomucoide per la sua proprietà di termoresistenza e quindi di stabilità anche dopo cottura.

In conclusione, l’uovo può essere considerato un ottimo alimento per la maggior parte della popolazione umana, anche grazie ad una specifica azione di promotore della salute ed il suo consumo è sconsigliato solo in soggetti che presentano specifiche dismetabolie.

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205

LATTE, PRODOTTI LATTIERO-CASEARI E SALUTE

PRESENTAZIONE

1) Alexander D.D., Morimoto L.M., Mink P.J., Cushing C.A. 2010. A review and meta-analysis of red and processed meat consumption and breast cancer. Nutr. Res. Rev., 23: 349-365.

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3) Dernini S., Berry E.M., Bach-Faig A., Belahsen R., Donini L.M., Lairon D., Serra-Majem L., C. Cannella 2012. A dietary model constructed by scientists. In “Mediterra 2012. The mediterranean diet for sustainable regional development”, CIHEAM – Sciences Po. Les Presses, pp. 71-88.

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5) Melnik B.C. 2009. Milk - The promoter of chronic Western diseases. Medical Hypotheses, 72: 631-639.

6) Pampaloni B, Bartolini E, Brandi ML. Parmigiano Reggiano cheese and bone health. Clinical Cases in Mineral and Bone Metabolism 2011; 8:33-36.

7) Pufulete M. 2008. Intake of dairy products and risk of colorectal neoplasia. Nutr. Res. Rev., 21:56-67.

8) Tramm R., McCarthy A.L., Yates P. 2011. Dietary modification for women after breast cancer treatment: a narrative review. European J. Cancer, 20: 294-304.

PRODOTTI LATTIERO-CASEARI E SALUTE

1) Alvarez-Leon E.E., Roman-Vinas B., Serra-Majem L. Dairy prod and health: a review of th epidemiological evidence. British J. Nutr. 2006; 96: S94-S99.

2) Aro A., Mannisto S., Salminen I., Ovaskainen M.L., Kataja V., Uusitupa M. Inverse association btw dietary and serum Conjugated Linoleic Acid and risk of breast cancer in postmenopausal women. Nutr. and Canc. 2000; 38: 2, 151-157

3) Banni S., Angioni E., Murru E., Carta G., Melis M.P., Bauman D., Dong Y., Ip C. Vaccenic Acid Feeding Increases Tissue Levels of Conjugated Linoleic Acid and Suppresses Development of Premalignant Lesions in Rat Mammary Gland. Nutr Cancer. 2001; 41: 91-97.

4) Bhattacharya A., Banu J., Rahaman M., Causey J., Fernandes G. Biological effects of conjugated linoleic acids in health and disease. J. Nutr. Biochem. 2006; 17:789-810.

5) Cho E., et al. Dairy foods, calcium and colorectal cancer: a pooled analysis of 10 cohort studies. 2004; J. N. Cancer Insistute.2004; 96:13, 1015-1022.

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7) Delerive P., Martin-Nizard F., Chinetti G., Trottein F., Fruchart J.C., et al. (1999) Peroxisome proliferator-activated receptor activators inhibit thrombin-induced endothelin-1 production in human vascular endothelial cells by inhibiting the activator protein-1 signaling pathway. Circ.Res. 85: 394–402.

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14) Ip C., Banni S., Angioni E., Carta G., McGinley J., Thompson H.J., Barbano D., Bauman D. Conjugated Linoleic Acid–Enriched Butter Fat Alters Mammary Gland Morphogenesis and Reduces Cancer Risk in Rats. J. Nutr. 1999; 2135-2142.

15) Ip M.M., Masso-Welch P., Ip C. Prevention of mammary cancer with conjugated linoleic acid: role of the stroma and the epithelium. J. Mammary Gland Neoplasia. 2003; 8.

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31) Zhang L.L., Gao C.Y., Fang C.Q., Wang Y.J., Gao D., et al. (2011) PPARg attenuates intimal hyperplasia through inhibiting TLR4-mediated inflammation in vascular smooth muscle cells. Cardiovascular Research 92: 484–493.

IPERTENSIONE ARTERIOSA E PRODOTTI LATTIERO-CASEARI

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3) Crippa G., Cassi A., Bosi M., Fiorentini L., Rossi F. (2011) Blood pressure lowering effect of dietary integration with Grana Padano cheese in hypertensive patients. 21st European Meeting on hypertension, 17-20 giugno, Milano.

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17) Smajilovic S., Tfelt-Hansen J. (2007) Calcium act as a first messenger through the calcium-sensing receptor in the cardiovascular system. Card. Res.,75: 457-467.

18) Tidona F., Criscione A., Guastella A.M., Zuccaro A., Bordonaro S, Marletta D. (2009) Bioactive peptides in dairy products. Ital. J. Anim. Sci., 8: 315-340.

19) Tordoff MG (2001) Calcium: taste, intake and appetite. Physiol. Rev., 81: 1567-1597.20) Zemel M.B., Thompson W., Milstead A., Morris K., Campbell P. (2004) Calcium and

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24) Zemel M.B., Thompson W., Milstead A., Morris K., Campbell P. (2004) Calcium and dairy acceleration of weight and fat loss during energy restriction in obese adults. Obes. Res., 12: 582-590.

PRODOTTI LATTIERO-CASEARI E SALUTE DELLE OSSA

1) Alvarez-León EE, Román-Viñas B, Serra-Majem L. Dairy products and health: a review of the epidemiological evidence. Br J Nutr 2006;96:S94–9.

2) Arnett TR. Extracellular pH regulates bone cell function. J Nutr. 2008;138(Suppl):S415–S441.3) Barzel US, Massey LK. Excess dietary protein can adversely affect bone. J Nutr.

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Finito di stampare da

Tipografia Camuna S.p.A. - Breno (Bs)Centro Stampa di Brescia

nel mese di gennaio 2014

Informazione ecologica:

pubblicazione stampata con assenza di esalazioni alcoolicheSistema Cesius® brevetto Philip Borman Italia

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ISBN 978-88-97562-09-2

9 788897 562092