alfonso d'avino hans haug e la sua musica per chitarra
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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI ROMA “TOR VERGATA”
FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA
CORSO DI LAUREA IN DAMS (VECCHIO ORDINAMENTO)
TESI DI LAUREA IN
STORIA DELLA MUSICA
“HANS HAUG E LA SUA MUSICA PER CHITARRA”
RELATORE CANDIDATO AGOSTINO ZIINO ALFONSO D’AVINO
MATR. 0021003 CORRELATORE
GIORGIO SANGUINETTI
ANNO ACCADEMICO 2003-2004
HANS HAUG
E
LA SUA MUSICA PER
CHITARRA
(illustrazione: “Le Serenadeur” di Watteau)
INDICE
Sérénade à l’inconnue (Introduzione-preludio) pag. I
Capitolo I. La biografia . pag. 1
I.1. Le aspirazioni di un giovane che esita fra le arti. pag. 1
I.2. La formazione. pag. 3
I.3. Il periodo tra il 1924 e il 1950.
La direzione d’orchestra come attività principale. pag. 4
I.4. Dal 1950 al 1967 (Le période romand).
La composizione in primo piano. pag. 7
I.5. L’incontro con Segovia e la chitarra. pag. 14
Capitolo II. Il catalogo dell’opera. pag. 19
II.1. La realizzazione del catalogo. pag. 20
II.2. Musica da camera. pag. 21
II.3. Musica vocale. pag. 23
II.4. Concerti. pag. 24
II.5. Orchestra sinfonica. pag. 25
II.6. Balletti. pag. 26
II.7 Opere – Operette. pag. 33
II.8. Oratori. pag. 40
II.9. Giochi radiofonici. pag. 42
II.10. Festival – Musica di scena diversa. pag. 44
II.11. Musica per film. pag. 45
II.12. Riflessioni. pag. 47
Capitolo III. Dal contesto al testo. pag. 48
III.1. La musica in Europa nella prima metà del
Novecento. pag. 49
III.2. In Svizzera. pag. 62
III.3. Maestri, amici e colleghi. pag. 73
III.4. Alcuni autori segoviani. pag. 91
Capitolo IV. La chitarra nell’opera di Haug. pag. 111
IV.1. Alba. pag. 122
IV.2. Preludio. pag. 131
IV.3. Étude (Rondo Fantastico). pag. 138
IV.4. Passacaglia. pag. 144
IV.5. Il Trittico: Prélude, Tiento e Toccata. pag. 150
IV.5.1. Rondò (“La Gitarra”). pag. 152
IV.5.2. Prélude (Étude). pag. 157
IV.5.3. Tiento. pag. 161
IV.6. Fantasia. pag. 164
IV.7. Capriccio. pag. 169
IV.8. Concertino per chitarra e piccola orchestra . pag. 176
IV.9. Doppelkonzert. pag. 183
IV.10. Conclusioni. pag. 188
Bibliografia. pag. 190
Sérénade à l’inconnue ( Introduzione…Preludio)
“Sérénade à l’inconnue” è il titolo del secondo movimento del Capriccio per chitarra
e flauto scritto da Haug nel 1963. Ho scelto questo titolo come introduzione alla mia
tesi perché la “sconosciuta” della serenata potrebbe essere - in senso metaforico – la
stessa musica di Haug, la sua vita, la sua arte.
Il mio interesse per Hans Haug è iniziato nel 2000, anno del centenario della nascita
del compositore. Ne ebbi notizia per la prima volta attraverso il Manuale di storia
della chitarra curato da Angelo Giardino. Rimasi sconvolto nel constatare come un
compositore che avesse scritto tanta e varia musica per chitarra, ottenendo anche
prestigiosi riconoscimenti, fosse completamente ignorato, non solo nei programmi
concertistici, ma anche dagli insegnanti di Conservatorio.
Le motivazioni di tanto oblio potevano essere soltanto due: o la sua musica era
talmente brutta, per cui nessuno voleva suonarla; o stava accadendo – per l’ennesima
volta – che la consuetudine di rifarsi ad un repertorio ormai consolidato da parte dei
chitarristi stava per cancellare un capitolo, a mio parere importante, della storia della
chitarra del Novecento.
I
Decisi dunque di verificare personalmente quale delle due possibili cause fosse reale.
Mi procurai tutti gli spartiti per chitarra di Haug… decisi che bisognava fare
qualcosa.
Fui particolarmente colpito dal Concertino per chitarra e piccola orchestra e riuscii
ad eseguirlo con l’ orchestra del Conservatorio “G. da Venosa” di Potenza. Non fu
un’impresa facile. Dovetti confrontarmi con obiezioni del tipo << Ma a chi vuole che
interessi la musica di un compositore minore>>. Se ciò fosse vero, oggi
probabilmente non esisterebbe neanche la ricerca sotico-musicale.
Il mio interesse per Haug non si fermò alla celebrazione del centenario. Volevo
saperne di più su quel “compositore minore” e sulla sua arte “sconosciuta”. La mia
ricerca ha compiuto passi da gigante grazie a due figure con le quali sono entrato in
contatto. Si tratta di Angelo Gilardino, attualmente uno dei personaggi più attenti alla
ricerca storiografica sulla musica per chitarra del Novecento; e Jean-Luois Matthey,
bibliotecario della Bibliothèque cantonale et universitaire di Losanna, che nel 1970
ha curato la realizzazione del catalogo delle opere di Haug.
Tengo a specificare che questo mio lavoro è finalizzato a richiamare l’attenzione dei
miei colleghi chitarristi sulla musica per chitarra di Haug, ma non va trascurata la
titanica produzione che questo compositore ha destinato anche agli altri strumenti.
II
Capitolo primo
La biografia1
I.1. Le aspirazioni di un giovane che esita fra le arti.
Figlio di Hans Haug e di Bertha Bosshardt, Hans Haug è nato il 27 luglio 1900 a
Basilea. Frequentò la scuola primaria e quella secondaria di Basilea, dove suo padre
aveva una pasticceria rinomata.
Già da bambino sviluppò un interesse spontaneo per le belle arti, che si manifestò
allorquando, ragazzino - anziché andare a scuola - si recava nei musei e lasciava il
1 Gran parte delle notizie biografiche ivi contenute provengono da una documentazione privata, redatta dal Prof. Matthey quale testo di presentazione del “Catalogue de l’oeuvre de Hans Haug (1970)”, gentilmente inviatami a seguito di precedenti contatti telematici.
1
suo ombrello al guardaroba, quale pegno per la sua impossibilità di pagare il biglietto
(confidenza di Renèe Senn, un'amica di famiglia).
Questa passione per le belle arti ha, molto più tardi (nel 1951), ispirato al nostro
compositore uno dei suoi balletti più originali, Melos, indubbiamente autobiografico.
Questo balletto riflette precisamente le “aspirazioni di un giovane che esita tra le
arti”2. E' affascinato dall'architettura, la scultura e la pittura, ma alla fine decide di
consacrarsi alla musica.
Nel 1915, poco prima della sua Cresima (apparteneva ad una famiglia protestante),
suo padre - temendo per lui le angherie di una carriera artistica - lo piazza in
apprendistato alla banca Cavin, ad Oron.
Questo sarà il suo primo contatto con il paese romanzo, che egli amerà per tutta la sua
vita. Nella chiesa di Chatillens, suona l'organo senza aver probabilmente ricevuto
alcuna formazione musicale preliminare.
Ad Oron, Haug scopre il gusto della lettura. Una mattina, nel castello della città, il
custode lo trova dormiente sul divano della biblioteca; si era addormentato mentre
leggeva i libri che lo affascinavano.
2 J.-L. MATTHEY, Hans Haug – Catalogue du fonds déposé à la B.C.U. de Lausanne (1968) – Textes de présentation, pag.5, Losanna, 1970.
2
I.2. La formazione
Nel 1917, Haug volta le spalle alla banca, torna alla sua città natale ed entra in
Conservatorio. Riceve la sua prima formazione musicale da grandi maestri: Egon
Petri, ed Ernest Levy, suo insegnante di piano. A Zurigo Haug segue anche i corsi di
Ferruccio Busoni.
(Zurigo, foto del 1914)
Tre anni dopo, ricevuti i diplomi di pianoforte e violoncello, lascia il Conservatorio.
A Monaco, si iscrive all'Accademia di musica. Lì beneficia dell'insegnamento di
grandi professori, quali il Dott. Walter Courvoisier con il quale studia composizione,
strumentazione e direzione d'orchestra. E' a Courvoisier che Haug dedica il suo
Concerto per violino e piccola orchestra, composto nel 1924.
In questo periodo, siamo negli anni del primo dopoguerra, la vita non è facile. Per
sovvenire ai bisogni, gli studenti devono lavorare duramente. Haug dovrà, come
molti suoi colleghi di studi, lavorare la terra della campagna bavarese. Arrivata la
sera, andrà a suonare il piano nei bar per un magro guadagno.
3
A Monaco Haug compone qualche pagina di musica da camera. Numerosi
manoscritti per tenore e orchestra raggruppati sotto il titolo Von Pagen und
Ritterminne sono degni di nota.
Tra i poeti che ispirarono Haug, citiamo i nomi di Richard Dehmel e di Joseph von
Eichendorff.
I.3. Il periodo tra il 1924 e il 1950. La direzione d’orchestra come
attività principale.
(Haug dirige l’Orchestra da Camera di Losanna – foto del 1945)
Nel 1924, terminati i suoi studi, comincia la sua attività a Grenchen e a Solothurn,
dove è nominato maestro e direttore della banda municipale - per la quale compone
4
marce ed ouvertures - del coro misto e di quello femminile. Parallelamente anche il
coro della sinagoga di Basilea lavorerà sotto la sua direzione.
E' nel corso delle innumerevoli repliche con questi Ensembles che Haug acquisterà
una grande maestria nella direzione corale.
Dal 1928 al 1934, Radio-Basilea gli affiderà il posto di vice-direttore della propria
orchestra. Egli prosegue inoltre la sua attività di pianista e partecipa a numerosi
concerti di musica da camera, particolarmente ai recitals tenuti nell'incantevole
cornice del castello di Aarbourg in Argovie.
In seguito le tournées si succedono. Egli percorre la Francia, la Germania e l'Italia
alla quale si affeziona particolarmente. I poeti italiani hanno un posto preferenziale
nella scelta dei soggetti per le sue opere sceniche. I sonetti di Michelangelo gli
ispirano una cantata, i testi di Poliziano un'opera balletto, quelli di Goldoni un'opera.
Questa è un'eclatante dimostrazione della sua passione per la letteratura.
Haug avrebbe deciso di vivere a Tessin, ma lo si ritrova a Ginevra dove dirige
l'orchestra del Kursaal che gli darà il piacere di allestire numerosi spettacoli con
Josephine Baker.
A Ginevra Haug fa del jazz e della musica leggera, generi nei quali lascia ugualmente
qualche componimento. Compone della musica per film: storici, d'attualità,
documentari, pubblicità; la varietà è già una grande costante della sua opera.
5
Dal 1935 al 1938, Haug dirige l'orchestra di Radio-Sottens (Radio Suisse Romande),
che gli viene affidata dal suo fondatore Gustave Doret. Questo incarico sarà per lui
l'occasione di collaborare con i maggiori solisti e compositori del momento. In
particolare egli tiene dei memorabili concerti con Paderewsky, molto elogiati dalla
critica. Fu amico di Jacques Dalcroze e Jean Binet. Poi, al fine di proporre al
pubblico di Losanna le opere popolari del repertorio vocale, fonda il coro " La
Chanson romande". Nel 1936, un altro animatore della vita musicale della Svizzera
francese, Charles Faller, allora direttore del Conservatorio di Chaux-de-Fonds, offre
ad Haug le classi di composizione e direzione d'orchestra.
Nel 1939, Radio-Beromunster propose ad Haug la direzione della propria orchestra; a
Zurigo svolge un'attività fruttuosa. Il posto di direttore d'orchestra gli lascia
abbastanza tempo per la composizione di numerosi Festspiele. Durante l'esposizione
nazionale del 1939, la città di Zurigo gli commissiona il Festspiel Underem
Lällekeenig, opera che testimonia l'umore col quale il nostro compositore coltiva il
genere popolare. Sempre a Zurigo collabora a numerose iniziative musicali, emissioni
radiofoniche o televisive. Durante la guerra, la sua partitura di Gilberte de
Courgenay, personaggio popolare della mobilitazione 1914-1918, divenne celebre.
Nel 1942, succedendo a Herman Lang, Haug riprende la direzione del coro di
Losanna e per ventitré anni presiederà ai destini di questa formazione. Numerose
volte il coro sarà chiamato all'estero. Per esempio nel 1950, in occasione del
6
duecentesimo anniversario della morte di Bach ottenne alla Scala di Milano un
grande successo.
Nel 1944 rompe con la Svizzera tedesca e si installa a Rivaz. Da allora, romando di
adozione, in collaborazione con Jean Villard Gilles, realizza il Passage de l'ètoile;
con suo suocero, Paul Budry, scrisse L'Annèe vigneronne; con C.F. Landry propone
Terre du Rhone.
Dal 1947 al 1960 tiene le classi di armonia e contrappunto al Conservatorio di
Losanna.
I.4. Dal 1950 al 1967 (Le période romand). La composizione in primo
piano.
7
Prima del 1950 Haug era considerato un musicista di formazione svizzero-tedesca, la
cui attività di compositore rimaneva subordinata a quella di direttore d’orchestra. In
effetti Haug dirigeva di persona le opere che scriveva, né vi erano altri interpreti che
prestassero loro un interesse particolare: di qui il gran numero di composizioni non
più eseguite e la scarsità di partiture pubblicate, molte rimasero manoscritte.
Dopo la fine della guerra, privato di un incarico fisso come direttore d’orchestra, egli
cambiò residenza e dedicò la maggior parte del tempo alla composizione. Stabilitosi a
Losanna e nei suoi dintorni immediati, sempre più influenzato da Arthur Honegger e
dalla nuova musica francese e italiana, egli venne da quel momento considerato un
compositore della Svizzera francese, al quale non erano affatto estranee le influenze
popolari dell’ambiente in cui si era stabilito. 3
Abbiamo notato come Haug avesse lasciato la Svizzera tedesca a favore di quella
francese già nel 1944, ma abbiamo scelto il 1950 come data spartiacque nella vita
artistica di Haug perché è da questo momento in poi che egli concentra tutte le sue
forze nella composizione. Si susseguono i riconoscimenti per la sua attività di
compositore. Il suo Concerto per chitarra ottiene il premio dell'Accademia Musicale
Chigiana di Siena nel 1951. Nel 1954 la sua opera radiofonica La colombe ègarèe
vince il Premio Italia. Il 1956 è l’anno della consacrazione: l’opera Orphèe riceve il
premio della Società degli Autori e Compositori Drammatici.
Le périod romand è dunque il periodo in cui Haug vive immerso nella natura, dalla
quale trae ispirazione per le sue composizioni.
3 Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e dei Musicisti Vol.3°, voce Haug, Hans, pp.476-7.
8
L’attività di direttore d’orchestra si riduce a sporadici impegni con l’orchestra di
Radio Montecarlo e a concerti all’estero, come quelli in Italia, documentati dagli
archivi RAI. Una prima registrazione risale al 31 ottobre 1956: Haug dirige
l’orchestra e il coro della RAI di Roma; il programma prevede fra l’altro l’esecuzione
della Passacaglia dello stesso Haug. Una seconda registrazione è del 13 giugno 1962;
Haug dirige l’orchestra della RAI di Milano, in programma è previsto anche il suo
Michelangelo. I nastri sono ancora conservati in RAI.
Fino al 1960, Haug non abbandonerà l’attività dell’insegnamento.
Tra i suoi allievi citiamo il maestro d'orchestra Armin Jordan, il compositore Jean
Balissat, la pianista Denyse Rich, Françoise Tille, flautista e professore al
Conservatorio di Losanna, Willy Rochat, intendente musicale alla Radio della
Svizzera romanda e Robert Mermound che così parla del suo insegnante: " Hans
Haug ci ha avvicinati mirabilmente all'orchestra e alla tecnica degli strumenti. Egli ha
avuto la generosa idea di far venire ad ogni lezione uno dei musicisti dell'orchestra
che allora dirigeva, invitandolo a parlare del suo strumento, a dimostrarne le
possibilità e i limiti. Poi si metteva al pianoforte e accompagnava un brano tratto da
un concerto. Era sia utile che appassionante".
Nel 1960 Haug abbandona l’insegnamento e lascia Losanna. Trascorre gli ultimi anni
della sua vita nella città di Belmont, comunque non distante dalla più grande città che
precedentemente lo aveva accolto.
9
Proprio del 1960 è un articolo della “National – Zeitung”4, scritto in occasione del
sessantesimo compleanno del Maestro, che ci aiuta a cogliere la matrice basilense
della prima produzione artistica di Haug, ma allo stesso tempo l’entità del suo
successivo allontanamento.
Il giornalista polemizza con la tendenza delle istituzioni musicali - e soprattutto
teatrali - della città di Basilea, che hanno completamente ignorato le opere teatrali del
loro concittadino negli ultimi anni.
<<…Forse sarebbe anche ora di verificare, in modo oggettivo, perché negli ultimi
anni si è sentito così poco di Haug, perché, per esempio, il teatro – il vero dominio
del compositore – da troppo tempo non ha più rappresentato niente di Haug. Il
palcoscenico di Basilea in passato ha curato con particolare attenzione l’operato del
suo figlio talentato…>>. Molte delle prime opere di Haug ebbero a Basilea la loro
prima rappresentazione. <<…ed ora che abbiamo a disposizione Die Narren, tratto da 4 Una copia dell’articolo, in cui non compare il nome dell’autore, mi è stata gentilmente inviata dal Prof. Jean-Louis Matthey.
10
un lavoro di Goldoni, una delle sue opere comiche più divertenti (eseguita in prima
da Radio Ginevra nella versione francese) a Basilea non incontra più nessun
interesse!…per l’ennesima volta viene dimostrato che il profeta non viene mai
ascoltato in patria sua…>>.
Alla luce di tali affermazioni verrebbe da domandarsi se Haug ha abbandonato
Basilea e, per estensione, la Svizzera tedesca; o se, viceversa, è stata Basilea ad
abbandonare Haug, e questi, terminata la guerra, senza un incarico come direttore
d’orchestra stabile, senza teatri che rappresentassero le sue opere, abbia deciso di
rifugiarsi nella più “accogliente” Svizzera francese, dove gli si offriva la possibilità di
insegnare, dirigere e comporre con più tranquillità. Il Dizionario Enciclopedico
Universale della Musica e dei Musicisti parla dell’incarico di insegnante al
Conservatorio di Losanna, ricevuto da Haug dopo alcuni anni di traversie, legate a
motivi politici, non meglio precisate. Chissà che queste traversie non fossero anche la
causa del disinteressamento nei confronti di Haug, denunciato nel precedente
articolo?
Il 15 settembre 1967, Haug soccombe alla malattia nella clinica "La Source" di
Losanna. Subito maestri d'orchestra, musicisti e critici rendono omaggio al
compositore scomparso. La stampa riconosce in Haug un grande nome della musica
svizzera contemporanea.
11
(Hans Haug est mort: necrologio dalla Gazette de Lausanne. Sam.16 septembre 1967)
12
I necrologi ci parlano di un Hans Haug versatile ed eclettico… « un umanista che si è
espresso interamente nella sua opera in cui unisce, con talento molto personale ed una
sensibilità vibrante, lo spirito del Rinascimento e le scoperte più audaci della tecnica
moderna ».
<<Haug ha trovato il tono e l’espressione giusti nei campi più svariati lasciando
un’eredità enorme nel mondo strumentale, sinfonico, vocale, nonché teorico. La sua
produzione va dalle musiche per film ai giochi radiofonici, dai balletti alle opere
buffe, scritte con abilità e sensibilità, per cui possedeva in misura superiore la
necessaria leggerezza, lo spumeggiante umorismo del basilense, il senso per la
situazione comica e un carattere ingegnoso sia nella conduzione di effetto drastico
delle parti solistiche sia nell’orchestra drammaticamente potente>> .
Non vanno dimenticati i suoi scritti teorici. Dovrebbe essere abbastanza noto il suo
scritto Für Feinde Klassischer Musik. Alcune opere letterarie sono rimaste
manoscritte, come la sua Naturharmonie e Zeitgemässer Kontrapunkt.
Infine ricordiamo i suoi studi sulle corrispondenze tra musica e pittura, realizzati in
collaborazione col pittore Blanc-Gatti
13
I.5. L’incontro con Segovia e la chitarra. In ragione della profonda conoscenza della sua arte, Haug prese parte a numerose
giurie di concorsi internazionali ( Ginevra, Atene, Santiago de Compostela e Siena).
Inoltre, fece la conoscenza di solisti di fama internazionale, tra cui Andrès Segovia,
che registrò alcuni suoi pezzi per chitarra sola.
(Giuria del Geneva International Music
Competition, 1956: per la prima volta la chitarra è ammessa alla competizione. Da sinistra verso destra: José de
Azpiazu, Hermann Leeb, Alexandre Tansman, Luise Walker, Henri Gagnebin, Andrés Segovia e Hans Haug).
Nella foto vediamo Haug come componente della giuria del Concorso Musicale
Internazionale di Ginevra5. È il 1956. Per la prima volta, grazie al prestigio che la
chitarra si sta ritagliando nelle sale da concerto mondiali per opera di Segovia, lo
strumento è ammesso alla competizione. Luise Walker ricorderà a proposito il talento
di un giovane concorrente di quindici anni di nome John Williams, che allora non
vinse, ma che oggi conosciamo come uno degli astri del concertismo mondiale.
5 Foto e informazioni scaricate dalla pagina web di Han Jonkers nel link: “A Swiss Homage to Andrés Segovia”.
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I componenti della giuria sono alcuni tra i più grandi compositori e concertisti,
svizzeri ed europei del momento.
Tra loro, segnaliamo la presenza di Alexandre Tansman, che vinse il concorso di
composizione alla Chigiana di Siena, nella categoria “pezzi per chitarra solista” con
la sua Cavatina, lo stesso anno in cui Haug vinse per la categoria “Concerti con
chitarra”.
Da non sottovalutare la figura di Henri Gagnebin, che come Haug, Frank Martin,
Castelnuovo-tedesco, M.M. Ponce, lo stesso Tansman e tanti altri, subì l’influenza di
Segovia, dedicando alcuni suoi lavori alla chitarra. Ci ricorderemo di alcuni tra questi
personaggi quando andremo ad analizzare più dettagliatamente la produzione
chitarristica di Haug, confrontandola con quella di compositori a lui contemporanei e
che come lui orbitarono attorno alla figura di Segovia.
Infine, continuando a riferirci alla foto di cui sopra, li vediamo seduti uno accanto
all’altro: Andrés Segovia ed Hans Haug.
Il primo contatto fra i due fu indiretto, e fu proprio legato al concorso di
composizione di musica per chitarra indetto dall’Accademia Musicale Chigiana di
Siena nel Dicembre 1950.
La competizione prevedeva tre categorie in concorso:
1) Concertino per chitarra e orchestra da camera;
2) Quintetto per chitarra e quartetto d’archi;
3) Opere per chitarra sola (Sonata, Suite o Fantasia).
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Vennero presentati venticinque lavori. Il presidente di giuria era Gorge Enescu, tra gli
altri membri vi erano Riccardo Brengola, Gaspar Cassadò e Andrés Segovia. I premi,
assegnati nell’agosto del 1951, non videro nessun vincitore nella categoria
“Quintetto”. La Cavatina di Tansman fu premiata per il brano solistico; il Concertino
per chitarra e orchestra di Haug ricevette il premio nell’altra categoria: fu la prima
composizione per chitarra scritta da Haug.6
Ai vincitori venne promessa la pubblicazione da parte della casa editrice Schott di
Londra e la prima esecuzione mondiale ad opera di Segovia da realizzarsi nell’estate
del 1952. Le promesse furono mantenute nei confronti della Cavatina di Tansman,
ma, per quanto riguarda il Concertino di Haug, né Segovia lo eseguì mai, né vi fu la
pubblicazione da parte della Schott. Bisognò attendere il 1970 perché la Berbèn di
Ancona ne effettuasse la pubblicazione in una collana di musiche per chitarra curata
da Angelo Gilardino. La prima esecuzione, invece, fu realizzata da Alexandre Lagoya
e la Lausanne Chamber Orchestra.
Incoraggiato dal premio ricevuto a Siena, Haug continuò ad esplorare la chitarra.
Prese lezioni di chitarra con Josè de Azpiazu dal 28 ottobre 1953 al 27 gennaio 1954
per conoscere quanto più possibile dello strumento7. Probabilmente Alba e il
Preludio (che Segovia chiamerà poi Postludio), furono scritti in questo periodo8.
In una lettera del 19 settembre 1954 inviata a Gagnebin, Segovia si scusa per aver
studiato un solo brano del compositore, perché impegnato con lo studio di altri brani 6 “Guitar Review”, No.13, 1952 7 informazioni tratte dall’agenda di José de Azpiazu, fornite da Maria Guadalupe Azpiazu ad Han Jonkers. 8 HAN JONKERS, A Swiss Homage to Andrés Segovia, 1996.
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di Villa-Lobos, Tansman, Haug, Rodrigo, Torroba e Castelnuovo-tedesco. Il pezzo di
Haug di cui Segovia parla è quasi sicuramente Alba. Successivamente Segovia lo
registrò, assieme al Postludio, per la Decca (DL 9832). Furono gli unici lavori di
Haug incisi da Segovia.9
Nel 1961, a dieci anni dalla composizione del Concertino, Segovia chiederà ad Haug
di tenere dei corsi di composizione all’accademia musicale estiva di Santiago di
Compostela. Qui, il 28 settembre 1961, Haug terminerà la composizione del trittico
per chitarra sola Prélude, Tiento e Toccata. Non risultano testimonianze di una
corrispondenza scritta tra Haug e Segovia: probabilmente i due comunicavano
prevalentemente per telefono. È però evidente che il rapporto tra i due era giunto ad
un alto grado di stima reciproca. Vi sono addirittura voci che vogliono i due
personaggi legati da un rapporto di “fratellanza” di tipo massonico,10 ma al di là di
ogni misterioso legame non documentabile in questa sede, appare evidente che ormai
Segovia - che dieci anni prima non aveva eseguito il Concertino per chitarra e
orchestra come concordato – invita Haug a Santiago di Compostela riconoscendolo e
consacrandolo come uno dei compositori che la storia della chitarra ha ribattezzato
come “segoviani”.
Ai pezzi per chitarra sola fin qui citati, vanno aggiunti altri due brani Étude (Rondo
fantastico) e Passacaglia pubblicati per la prima volta nel 2003 dalla Bérben a
9 GRAHAM WADE, Segovia: A Celebration of the Man and his Music, Allison & Busby, London, 1983. 10 Rivelazione fattami da Angelo Giardino durante una conversazione telefonica.
17
seguito del loro provvidenziale ritrovamento da parte di Angelo Giardino
nell’archivio della Fondazione Segovia di Linares.
Haug compose altri brani cameristici con chitarra, frutto di legami con altri
concertisti dell’epoca. Nel 1956 conobbe Luise Walker al concorso di Ginevra (vedi
foto). Frutto di questo incontro fu la Fantasia per chitarra e pianoforte, terminata nel
1957 e a lei dedicata.
Nel 1963 Haug scrisse il Capriccio per chitarra e flauto, dedicato al duo Werner
Tripp (flautista) e Konrad Ragossnig (chitarrista), inciso e distribuito dalla RCA
(RCA Victor 440.182: “L’Anthologie de la guitare”).
Risale al 1966 il Concerto per flauto, chitarra e orchestra.11 Scritto nella residenza di
Belmont l’anno prima della sua morte, il concerto non risulta essere mai stato
eseguito finora.
Haug usò la chitarra anche in altri lavori come: Variazioni su un tema di Jacques
Offenbach (per orchestra); Don Juan à l’étranger (opera comica); Berceuse pour les
canons (brano cameristico); Les Fous (opera comica); Justice du roi
(tragicommedia); Tag ohne Ende (“Giorno senza fine”, musica per film).
11 Non risulta che il concerto sia stato mai eseguito, né registrato. I diritti sono gestiti dalla casa editrice Henn di Ginevra. Il brano, non essendo pubblicato, sarebbe eseguibile solo noleggiando la partitura presso la suddetta casa editrice. Il prof. J.L. Matthey mi ha gentilmente inviato, per fini di studio, una copia del manoscritto della riduzione per chitarra, flauto e pianoforte, facente parte del fondo “Hans Haug” custodito presso la BCU (Biblioteca Cantonale e Universitaria) di Losanna.
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Capitolo secondo
Il catalogo dell’opera
Si è già visto nel precedente capitolo come Haug fosse un compositore eclettico e
versatile, capace di cimentarsi con i più svariati generi di musica (persino jazz e
blues, o colonne sonore per film), in grado di comporre per molteplici ensembles,
strumenti, e nelle più diverse forme sinfoniche, cameristiche o teatrali.
Nel presente capitolo ci imbatteremo nella vastissima ed eterogenea mole della sua
produzione musicale, soffermandoci – laddove è possibile – a fornire quante più
informazioni circa le opere che più ci interessano nella nostra ricerca: opere divenute
19
più celebri di altre o che ci aiutano a definire la presenza eventuale di uno stile
compositivo.
Un’analisi approfondita di tutta la produzione di Haug è un progetto da rinviare ad
altre circostanze, per ovvie ragioni.
Rinviamo anche l’analisi accurata delle opere per chitarra, che sarà affrontata nei
successivi capitoli.
II.1. La realizzazione del catalogo.
Madame Haug - Budry rimise, nel 1968, alla Biblioteca Cantonale ed Universitaria di
Losanna l'opera completa di suo marito.
Si convenne che la biblioteca effettuasse la classificazione definitiva di questo fondo
e che ne pubblicasse l'inventario.
Il fondo musicale Hans Haug è costituito dall'insieme del materiale formante l'opera
del musicista svizzero.
Il catalogo censisce i manoscritti, le copie manoscritte, le riproduzioni eliografiche e
fotografiche.
La catalogazione provvede a fornire, per quanto possibile, notizie dettagliate su data e
luogo di composizione dell'opera, circostanze della creazione, durata dell'esecuzione,
composizione d'orchestra, materiale a disposizione ecc.
20
Il catalogo è stato realizzato nel 1970 dal Sig. Jean-Louis Matthey nell’ambito della
stesura della tesi presentata a l'Ecòle de bibliothècaires di Ginevra.
Il sig. Louis-Daniel Perret, bibliotecario, ne ha assunto la direzione preparandone
l’edizione1.
Il catalogo raccoglie 182 titoli d’opera contrassegnati dalla sigla MUH e da numeri
progressivi, che dispongono le opere in dieci sezioni discriminanti il genere musicale
di appartenenza.
II.2. Musica da camera.
La prima sezione raccoglie ventotto titoli appartenenti al genere «musica da
camera».
L’osservazione degli strumenti, ai quali sono dedicati i lavori contenuti in questa
sezione, e le date di composizione ci suggeriscono alcuni spunti interessanti.
Vengono inseriti in questa categoria di musica da camera anche alcuni brani per
strumento solista. Tali brani sono sorprendentemente pochi e destinati esclusivamente
al pianoforte, il violino e la chitarra.
Che brani solistici siano dedicati al pianoforte e al violino è facilmente
comprensibile, visto che furono gli strumenti ai quali Haug si dedicò nei primi anni
1 Prefazione del Catalogo a cura di Jean-Pierre Clavel (Direttore della B.C.U. nel marzo 1971).
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della sua formazione. Ciò giustifica anche il fatto che la maggior parte della musica
da camera scritta negli Anni Venti sia dedicata proprio a questi due strumenti, ai quali
il compositore si sentiva particolarmente vicino e che, probabilmente, conosceva
meglio degli altri.
Ad eccezione di una Suite per oboe e viola (MUH20), tutti i brani che prevedono
strumenti diversi dal piano o dagli archi, sono stati composti dopo il 1950, quindi in
quello che abbiamo definito “le period romand” (Vedi cap.I.4).
Il fatto che la chitarra sia l’unico strumento - estraneo alla formazione strumentale del
compositore - al quale Haug dedica pagine solistiche, ci riconduce al suo rapporto
con Segovia e al fascino che tale figura esercitò, col suo strumento, sul compositore
svizzero. Si tratta di brani scritti per il grande concertista spagnolo, per la cui stesura
Haug, ormai cinquantatreenne, prese lezioni da Josè de Azpiazu al fine di conoscere
più profondamente le potenzialità che lo strumento da solo poteva esprimere.
Gli altri strumenti utilizzati da Haug nella musica d’insieme, oltre agli archi, il piano
e la chitarra, furono l’oboe – abbinato alla viola (MUH20), al piano (MUH21) o
inserito in un ensemble di strumenti a fiato (MUH28: Quintetto per flauto, oboe,
clarinetto, corno e fagotto rimasto incompiuto); il flauto, accoppiato al
piano(MUH22 e 23) o alla chitarra(MUH25); e l’arpa (MUH22 Vision d’Hellade
per flauto, clarinetto in la, violino e arpa). L’organo e il trombone tenore sono citati
come alternative, in alcuni brani, al piano e al violoncello.
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II.3. Musica vocale.
La sezione dedicata alla musica vocale conta tredici titoli (da MUH 29 a MUH 41).
La maggior parte dei brani sono per tenore con accompagnamento di piano, a volte
orchestra. Uniche eccezioni sono Hanferlied (MUH35 per basso e piano o arpa),
Deux chants puor voix d’alto et quatuor à cordes (MUH37) e Der Traurige Page
(MUH40 per voce e orchestra).
Tutti i brani di questa sezione sono stati scritti tra gli anni 1918 e 1925. Escludendo i
brani del 1925, scritti a Granges/Soleure, tutti gli altri risalgono agli anni della
formazione, quando Haug non esercitava ancora né come direttore di coro o
d’orchestra, né come professore. Il giovane Hans cercava di sostenere i suoi studi,
lavorando la terra o suonando la sera nei bar: è possibile che le molteplici
composizioni per tenore di questo periodo fossero destinate proprio a questo tipo di
attività.
L’amore per il lied romantico e per la letteratura è stato probabilmente la forza
generatrice di queste pagine musicali. I testi sono tratti da scrittori ai quali Haug
sembra molto legato: Eichendorf, Goethe, Dehmel e Michelangelo, per citarne solo
alcuni.
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II.4. Concerti.
Il primo concerto riportato dal catalogo è rimasto incompiuto. Dal titolo Musique
puor orgue, orchestre à cordes et timbales , riporta tra parentesi l’interessante
dicitura in italiano “quasi concerto”. Avremo modo di notare come la parola “quasi”
ricorra spesso nei sottotitoli e nelle didascalie usati dall’autore: è come se egli volesse
sottolineare un certo grado di indefinitezza presente nella sua musica e che le sue
composizioni si avvicinassero continuamente a forme consolidate, senza però mai
identificarsi con esse.
Nel 1924 Haug scrive il suo primo Concerto per violino e piccola orchestra dedicato
al suo maestro Walter Courvoisier. La composizione dell’orchestra è davvero esigua:
un flauto, un oboe, un clarinetto e un quintetto d’archi.
Risale a due anni dopo il Concerto per violoncello e orchestra. Esiste di questo
concerto anche la versione per banda, adattamento fatto probabilmente da Haug per
poter eseguire il suo concerto con la banda municipale di Granges, che allora
dirigeva.
Bisognerà attendere il 1938 per avere un nuovo concerto. Questa volta lo strumento
solista è il pianoforte. Haug compose il concerto nel maggio del 1938 alla Maison du
peuple di Losanna per l’orchestra di Radio-Sottens dedicandolo a Françoise Budry,
sua moglie. Nel 1945 scriverà un Concerto per flauto e piccola orchestra, nel 1947
una trascrizione per pianoforte e orchestra del Rondò per due pianoforti in Do
maggiore op.73 di Chopin. Tutti i restanti nove concerti furono scritti dopo il 1950.
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Tra questi l’orchestrazione de l’Elégie pastorale per oboe e piano, già visto nella
sezione di musica da camera, e i concerti con chitarra (MUH48 e MUH54).
Quasi per un gioco ironico del destino, l’ultimo concerto, scritto poco prima di
morire, di cui rimane compiuto solo il primo movimento, è di nuovo dedicato al
violino, proprio come il primo. La prima esecuzione fu affidata all’Orchestra da
camera di Losanna un anno dopo la morte del compositore.
II.5. Orchestra sinfonica.
La sezione comprende sedici lavori realizzati tra il 1927 e il 1964. Alcuni di essi sono
tratti da altre opere dello stesso autore. È il caso di Don Juan à l’étranger (MUH 59),
ouverture dell’omonima opera comica; della Sarabande pour orchestre (MUH 64)
tratta dall’oratorio Ariadne; Une Femme disparait (MUH 65), suite sinfonica dal film
di Jacques Feyder; Passacaglia pour orchestre (MUH 66), tratta dall’oratorio
Michelangelo; Dies Irae (MUH 72) dal balletto Das Lob der Torheit. La Symphonie
pour cordes (MUH 61), tratta dal Quartetto n°3, è rimasta incompiuta.
Le Variations sur un thème de Jacques Offenbach (MUH 70) sono state scritte a
Belmont nel 1961. L’organico prevede l’utilizzo della chitarra, ma va sottolineato che
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si tratta di un’orchestra di musica leggera, nella fattispecie, l’orchestra leggera di
Radio-Bâle, dedicataria del brano.
II.6. Balletti.
Haug scrisse sette balletti tra il 1947 e il 1962. I soggetti di questi lavori ci forniscono
interessanti spunti di riflessione sul patrimonio culturale e la sensibilità artistica
dell’autore.
Il primo balletto scritto da Haug, rappresentato a Basilea nel 1947, fu L’indifférent.
Diviso in cinque parti e tratto da un’idea di Otto Maag, è ispirato ad un evento
realmente accaduto nel 1939, ossia, il furto di un quadro di Watteau (l’”Indifférent”
appunto) dal Museo del Louvre.
(“L’Indifferent” di Watteau”)
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Il seguito della storia è pura fantasia. Il quadro era stato rubato da un pittore esaltato.
La compagna del pittore si innamora del personaggio ritratto e questi, durante il
sonno del pittore, prende vita ed esce dal suo quadro. Al risveglio del pittore la
coppia fugge e inizia un lungo inseguimento. Alla fine l’”Indifférent” decide di
riconsegnare la donna al pittore e riguadagnare il suo posto nel Louvre. Preso ancora
dall’eccitazione per l’avventura vissuta, coinvolge in una danza altri personaggi dei
quadri, ma l’arrivo del guardiano ristabilisce l’ordine nella galleria, che ricade nel suo
silenzio. I ruoli danzati sono l’”Indifférent”, la donna, il pittore, un professore, un
marinaio, una coppia di ballerini spagnoli. La storia sembra essere vissuta in
un’atmosfera da sogno. Infatti è proprio il momento del sonno del pittore che
determina un allontanamento dell’intreccio dal fatto storico, per continuare in un
contesto di pura fantasia. Che il personaggio di un quadro possa prendere vita è un
evento fantastico, e il fatto che tale soggetto sia stato scelto da Haug per la
realizzazione del suo primo balletto ci conferma il grande amore del compositore per
le arti figurative; propensione che abbiamo avuto modo di sottolineare già nel primo
capitolo e che ricompare ancora più evidente nel secondo balletto da lui scritto:
Mélos.
Composto nel 1951 a Losanna, con libretto di Marie Laure, presenta chiari riferimenti
autobiografici. Il giovane protagonista esita tra le arti, proprio come il giovane Haug,
e decide infine di consacrarsi alla musica, dopo aver percorso un cammino, che
definirei iniziatico. I ruoli danzati sono il giovane uomo, la passeggiatrice Poesia, la
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passeggiatrice Scultura, il passeggiatore Pittura, il passeggiatore Architettura, il
muratore, il suo apprendista, Melodia.
L’idea di accostare le esitazioni del giovane al “cammino iniziatico” verso la musica
è suggerito dalla decisione di rappresentare i personaggi che incarnano i ruoli delle
arti come dei passeggiatori. Poesia, Scultura, Pittura e Architettura sono personaggi
in movimento, che il giovane incontra lungo il suo cammino. È curioso notare come
gli altri tre personaggi, il Muratore (maçon), il suo apprendista, e Melodia, siano
invece indicati come personaggi non in movimento: quasi dei punti di riferimento o
di arrivo. Quanto sarà azzardato considerare la consacrazione del giovane alla
musica, come metafora di un’iniziazione ai segreti della Libera Muratoria? Forse
tanto, troppo, ma nell’ambito di un’opera già definita autobiografica, alla luce di
rivelazioni che ci indicano Haug come un esponente della Massoneria Svizzera,
iniziato al Rito Scozzese, ci impediscono di non cadere nella tentazione di un simile
accostamento.
Nel 1959 Haug porta a termine nella sua villa di Belmont il balletto Nausicaa, tratto
dall’Odissea di Omero. Il balletto della durata di trentasei minuti ha una struttura
chiaramente ispirata alla tragedia classica con la presenza di un coro parlato,
composto di uomini e donne, che viene affiancato ai ruoli parlati di Pallas Athéna
caratterizzata da un timbro di voce dolce e sonoro; Nausicaa, con voce chiara e
ingenua; Ulisse, con voce virile e patetica. Interessante questa esplicita richiesta del
compositore dei timbri di voce che devono contraddistinguere i personaggi. La voce
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deve riflettere la sensibilità interiore dei personaggi e allo stesso tempo specificarne il
ruolo e la funzione nella vicenda. Sembra quasi che l’elemento acustico, vocale, vada
ad assumere quella funzione che nella tragedia classica spettava alle grosse maschere
indossate dagli attori.
I ruoli danzati sono quelli di Pallas Athéna, Nausucaa, Ulisse, due giovani
domestiche, il corpo di ballo di giovani ragazze.
Le parti recitate furono adattate alle tre versioni, tedesca, francese e italiana.
La vicenda narrata prende il via col naufragio di Ulisse e il suo salvataggio da parte
della dea Athéna. Ulisse sfinito, si arena sulla spiaggia e si addormenta. Nausicaa,
ispirata da Athéna, sopraggiunge con le sue ancelle cantando e scopre Ulisse.
Spaventate le giovani fuggono mentre Nausicaa si avvicina al naufrago del quale si
innamora. Riconoscendo in lui il favore degli dei, la giovane lo invita al palazzo e si
allontana con la sua gioiosa scorta. Rimasto solo, Ulisse prega con fervore Athéna di
essere ben ricevuto dal re.
Sempre a Belmont, Haug termina, nel 1961, il balletto in tre atti Das Lob der Torheit.
Durata di 50’50. Commissionato dalla Fondazione Pro Helvetia. Eseguito per la
prima volta nel 1963 dall’Orchestre de la Suisse romande. La coreografia è stata
curata dallo steso Haug. Il catalogo ci rinvia al libretto per conoscere i ruoli danzati,
forse per una questione di spazio, vista la grande quantità di energie umane
necessarie per la realizzazione di questo balletto. Vengono invece specificati i ruoli
solisti: si tratta di due soprani, un contralto, un tenore e due bassi. La composizione
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dell’orchestra appare subito ben più folta rispetto ai balletti precedenti. Ad essa si
affianca un’orchestra di scena, più ridotta, che comunque suggerisce un allestimento
grandioso e conferisce al balletto un tono epico, confermato dalla sua stessa struttura
e articolazione.
Al prologo – ouverture segue il primo atto che porta il titolo “Le grandi pazzie di
questo mondo”. Il secondo atto propone tre leggende. In realtà si tratta della
rappresentazione in successione dei tre balletti successivi riportati dal catalogo: La
Magie des sons (MUH77); Le Voile d’or (MUH78); La Chaste Suzanne (MUH79).
Questi tre balletti portano tutti la data del 1962. Intuiamo dunque che la data 1960-61
indicata dal catalogo per Das Lob der Torheit è relativa al prologo – ouverture, al
primo atto e probabilmente al terzo. Il secondo sarà dunque terminato nel 1962 e ciò
giustifica anche la data della prima rappresentazione, 1963. Sarebbe apparso strano
che un’opera su commissione fosse stata rappresentata ben due anni dopo essere stata
terminata.
Il terzo atto reca il titolo “Enfer, Paradis et Terre”.
Passiamo ora ad inquadrare con più attenzione le tre leggende che costituiscono il
secondo atto. Si tratta degli ultimi lavori che Haug dedica al genere del Balletto.
La magie des sons, anche proposto col titolo di “Pan e Apollon”, è un balletto satirico
della durata di 12’45. i ruoli danzati sono quelli di Pan, Apollo, Mida, Thmolos,
cinque sacerdotesse di Apollo, Oreadi, Ninfee, Fauni, Satiri, Silene. L’orchestra
affianca al quintetto a corde una corposa sezione di fiati e percussioni.
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I personaggi mitologici, fauni, ninfe, satiri e sileni, circondano Pan che, attraverso il
suo flauto, incanta il suo pubblico col suo stile dodecafonico. Apollo, accompagnato
dalle sacerdotesse, sopraggiunge suonando la lira. Pan, beffardo, propone ad Apollo
una disputa musicale. Il pastore Thmolos farà da arbitro. A turno, Pan e Apollo
suonano, fin quando il re Mida sopraggiunge e d’autorità prende il posto di Thmolos.
Il concorso prosegue. Pan trionfa, le ninfe danzano davanti a Mida che manifesta la
sua approvazione. Apollo si vendica facendo crescere delle orecchie d’asino a Mida
che riconosce il Dio e implora il suo perdono. Apollo se ne va, malizioso, seguito
dalle sacerdotesse e dalle ninfe.
Ciò che più ci fa riflettere in questa ri-proposizione del mito di Pan e Apollo è l’aver
voluto specificare lo stile dodecafonico nella musica di Pan. La disputa sembra ad un
certo punto trascendere dall’elemento mitico e suggerire una riflessione di carattere
estetico. La contrapposizione sembra essere non più quella tra Pan e Apollo, ma tra lo
stile dodecafonico e quello tonale tradizionale. La soluzione temporanea a favore di
Pan potrebbe essere letta come metafora della fortuna avuta dalla dodecafonia nella
prima metà del Novecento, ma la conclusiva imposizione di Apollo e della sua
autorità divina, rappresenterebbe l’inevitabile ritorno alla tonalità classica.
Le Voile d’or o “Venere e Vulcano” è tratto dall’Odissea di Omero. Della durata di
16’ prevede i ruoli danzati di Venere, Vulcano, Marte, Giove, Apollo, Mercurio e le
Ninfe.
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Venere dorme, contemplata da giovani donne e da suo marito Vulcano, il dio del
fuoco. Questi si reca al lavoro. Sopraggiungono ninfe e putti danzanti attorno a
Venere che si sveglia. Vulcano ritorna e Venere, raggiante, danza con lui. Marte,
amante di Venere, appare scintillante e Vulcano si getta contro di lui, ma questi è
invulnerabile. Vulcano furioso si ritira. Ninfee e putti festeggiano la coppia di amanti.
Ma Vulcano fa gettare su di loro una rete d’oro che li imprigiona. Giove, divertito
dalla disputa, interviene ordinando a Vulcano di liberare gli amanti che si separano
accompagnati da Mercurio e Apollo.
La Chaste Suzanne, della durata di 18’, prevede i ruoli danzati di: Suzanne; Joakim,
suo sposo; due anziani; il giovane profeta Daniel; il seguito di Suzanne; qualche
guardia armata; un importante tribunale.
Due anziani giudici del popolo cercano invano di sedurre Suzanne, sposa del re
Joakim. Sorpresi, essi accusano Suzanne di adulterio con un giovane evaso. Essi si
dichiarano testimoni del fatto e riescono a convincere il tribunale che condanna
l’accusata a morte. A questo punto appare il profeta Daniel che svela le menzogne dei
due uomini e li fa condannare a morte, scagionando la casta Suzanne.
I soggetti utilizzati per Das Lob der Torheit, tratti dal mito classico e da quello
biblico, fungono – a mio avviso - da pre-testo, attribuendo all’intera opera
un’atmosfera metafisica, utilizzabile come chiave di lettura della instabile condizione
dell’esistenza umana. Il titolo del primo atto denuncia le follie del mondo nonché la
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natura effimera dell’esistenza umana. I tre racconti mitici del secondo atto si
incentrano sulla contrapposizione di valori. In Magie des sons vi è la
contrapposizione di carattere estetico, da una prospettiva prettamente musicale, tra
ciò che è bello e ciò che è brutto. In “Le voile d’or” a contrapporsi sono la fedeltà e la
passione. In fine, ne La Chaste Suzanne si oppongono verità e menzogna,
emblematiche trasfigurazioni del bene e del male. La comprensione di questi valori ci
introduce nell’universo metafisico del terzo atto. Un universo tripartito, che
abbandona la tradizionale cosmogonia cristiana, che prevede l’esistenza di Inferno,
Paradiso e Purgatorio. Quest’ultimo, mera invenzione della cultura cristiana
medievale, di cui non esiste alcun cenno nelle Sacre Scritture, viene sostituito dalla
Terra. Un universo metafisico così articolato può implicare molteplici riflessioni. La
Terra, come il Purgatorio, può essere vista come un luogo di transito, ma può anche
essere vissuta come un Paradiso o come un Inferno a seconda dei valori, giusti o
sbagliati, verso i quali l’uomo si orienta.
II.7. Opere – Operette.
Questa sezione comprende quattordici opere composte tra il 1930 e il 1965.
La prima fu Don Juan a l’etranger. Opera comica in due atti su testi di Dominik
Müller. Scritta nel 1930. I ruoli parlati sono quelli di un ballerino spagnolo, un
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conferenziere, un ragazzo del vagone ristorante. Ruoli muti: una ballerina spagnola e
un’elegante signora. I ruoli cantati, col loro registro vocale sono i seguenti:
- il narratore baritono lirico
- Don Juan tenore
- Else soprano
- Manke basso
- Hanke basso
- Caesar Zwieback basso buffo
- Clothilde Zwieback soprano
- un poliziotto baritono
- una voce di donna contralto
- una bella donna soprano
- un tenore di jazz tenore
- coro.
Accanto alla corposa orchestra, abbiamo un’orchestra di scena con strumenti tipici
della musica leggera: sax soprano, contralto e tenore, tromba, trombone e tuba,
violino, banjo, armonica a bocca, piano, batteria e chitarra. Quest’ultima, accanto al
mandolino, è presente anche nell’orchestra classica.
La storia è una versione in chiave moderna delle famose, o famigerate, vicende
amorose di Don Giovanni con un finale indubbiamente originale, proprio di
un’esilarante commedia.
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A Siviglia, Don Juan tenta di sedurre Else, una bionda tedesca, che di primo acchito
gli resiste. Siccome la donna lascerà la Spagna la sera stessa in treno con suo marito,
Don Juan decide di seguirli e li ritrova la sera stessa nell’espresso Siviglia-Parigi.
Allora Else dichiara il suo amore a Don Juan e gli cede, per essere subito dopo
abbandonata per una bella sconosciuta. Più tardi in un caffè – concerto parigino Don
Juan seduce Clithilde in presenza di suo marito e successivamente corteggia una
ballerina spagnola. È lo stesso Don Juan a pronunciare la morale della vicenda: “…al
sud come al nord, le donne sono le donne, esse amano i forti e gli audaci.” In questo
momento una spettatrice da una loggia del teatro chiama Don Juan, gli dichiara il suo
amore e fugge con lui.
Madrisa è un’opera popolare in tre atti scritta a Basilea nel 1933 su libretto di
Johannes Jegerlehner. L’orchestra è affiancata da un coro. I ruoli cantati sono nove
più due voci di basso e una voce infantile.
Il soggetto è tratto da una leggenda montanara.
In un villaggio delle Alpi, il costume vuole che, il primo giorno di primavera, i
fidanzati si scambino le loro promesse di matrimonio dinanzi alla “mazze”, una sorta
di figura mitologica. Mentre Joerg respinge Lena, una creatura ideale, Madrisa, si
presenta a Wendel, un povero pastore che non ha mai osato posare gli occhi su una
fanciulla del villaggio. Madrisa sposa Wendel a condizione che questi non le faccia
mai domande circa la sua origine. Presto il potere soprannaturale di Madrisa, subito
ben accolto dagli abitanti del villaggio (lei ha fatto riconciliare Joerg e Lena), la fa
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considerare come una strega. Wendel stesso la prega di rivelare la sua origine.
Madrisa scompare e Wendel, accusato di aver incendiato lo chalet di Joerg, si vede
condannato al rogo; ma Madrisa torna, lo salva e svela il suo ruolo di consolatrice e
tutto il villaggio riconosce la sua natura soprannaturale.
Successivamente Haug compone due opere tratte da Molière. Si tratta di Tartuffe e
Der Unsterbliche Kranke (Il malato immaginario).
Tra il 1953 e il 1954 Haug scrive a Losanna Le miroir d’Agrippine, opera in tre atti
su testi di Fridolin Tschudi tratti da un lavoro di Hans Müller-Einigen. I sette
personaggi in scena rivivono una rielaborazione in chiave psicologica del matricidio
attuato da Nerone. Infatti, per ottenere il potere assoluto, Nerone fa assassinare sua
madre Agrippina. L’azione comincia davanti al catafalco dove Nerone riceve lo
specchio che Agrippina portava sempre al polso. Questo specchio diviene per Nerone
la persecuzione della sua coscienza. Esso riflette tutte le immagini dei crimini da lui
commessi. La follia dell’imperatore si accentua, egli è posseduto dall’angoscia e dal
panico: finirà per distruggere lo specchio, ma troppo tardi!
L’Orphée è, tra le opere di Haug, quella che riscosse maggior successo. La prima
esecuzione radiofonica fu realizzata dall’Orchestra della Radio-Televisione francese
il 24 settembre 1954. La prima messa in scena avverrà il 12 giugno 1955 a Losanna
con l’Orchestra della Suisse romande diretta dallo stesso compositore. Quest’opera
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varrà ad Haug, nel 1956, il Premio della “Società degli autori e compositori
drammatici”.
Degli estratti dalle Metamorfosi di Ovidio commentano la leggenda di Orfeo ed
Euridice e sono cantati in latino nella buca dell’orchestra. Il libretto, la cui versione
francese è stata realizzata da Daniel Anet, è tratto dalla Favola di Orfeo di Poliziano.
Questa duplicità linguistica è sottolineata dall’impiego di due orchestre di differente
formazione: strumenti non temperati per l’opera e strumenti temperati per il
commento. Nell’orchestra non vi è che un solo violino rappresentante Euridice;
infatti il ruolo di Euridice è un ruolo danzato e non cantato. Ad essa si affianca un
corpo di ballo.
I ruoli cantati sono i seguenti:
- Orphée baritono
- Pluton basso
- Proserpine soprano
- Mopsus tenore
- Aristée tenore
- Tirsis soprano
- una Driade Contralto
- una Menade soprano
- Mercurio basso
- tre furie e coro.
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Les Fous è un’opera comica tratta dal Fanfano, re dei matti di Carlo Goldoni. Il testo
in tedesco è stato curato da Fridolin Tschudi, mentre la versione francese è di Murice
Budry. Scritta a Belmont nel 1957, della durata di un’ora e quarantacenque minuti,
l’opera fu messa in scena per la prima volta nel 1959 presso Radio-Genève con la
partecipazione dell’Orchestra della Suisse romande.
La vicenda narra di Fanfano, il re dei folli, che riceve nel suo regno sei personaggi
che intendono divenire suoi sudditi. Dopo diverse avventure si scopre che il Regno
dei Folli è il mondo stesso e chi si crede folle è in realtà saggio, mentre chi si crede
saggio è un folle inconsapevole di esserlo.
Unico ruolo parlato dell’opera è quello di un araldo.
I ruoli cantati sono i seguenti:
- Fanfano, re dei folli basso comico;
- Garbata, cortigiana soprano;
- Gloriosa, regina di bellezza soprano drammatico;
- Sempliciona, giovane timida soprano lirico;
- Sordidone, avaro e usuraio tenore bufo;
- Malgoverno, dissipatore baritono lirico;
- Furibondo, collerico avido di potere baritono eroico.
Da notare la presenza della chitarra all’interno dell’orchestra.
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Le Souper de Venise è un’opera in un atto unico scritta a Belmont nel 1965. Il testo
originale francese è di Pierre Sabatier; la versione tedesca è stata realizzata da Haug,
quella italiana da Antonio Gronen-Kubitzki. Della durata di circa cinquantacinque
minuti, l’opera fu rappresentata alla Radio Suisse romande nel 1966, dall’Orchestra
da camera di Losanna, diretta dallo stesso Haug.
Vi sono solo due ruoli cantati. Quello di Wanda, soprano, e Serge, baritono.
In un salotto veneziano, Wanda riceve Serge per una cena galante. I due personaggi
sembrano non sapere nulla l’uno dell’altra. Poco a poco si apprende che Wanda è
convinta di aver attirato in una trappola il principe Ivan di Mostar, che deve uccidere.
Ma innamorata del presunto principe, Wanda decide di tradire i suoi mandanti e di
farlo scappare. A questo punto Serge le svela di non essere il principe Ivan, bensì una
spia incaricata di sorvegliarla e, siccome lei è colpevole di tradimento, si vede
costretto ad eliminarla. Serge uccide Wanda e fugge.
Le Souper de Venise è l’ultima opera scritta da Haug.
Il catalogo procede con l’elencare in successione cronologica le operette, composte
tutte tra il 1938 e il 1945. La prima di queste è un’operetta in tre atti in dialetto
svizzero-tedesco composta nel 1938 dal titolo Liederlig Kleeblatt. L’orchestra non è
corposa come per le opere viste in precedenza, ma, in compenso, è affiancata da
un’orchestra di scena.
A tale opera segue, nella stesura del catalogo, siamo al numero d’opera MUH89,
l’operetta militare Gilberte de Courgenay, composta nel 1940 a Zurigo. Ebbe
notevole successo negli anni della seconda guerra mondiale.
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Annely us der Linde è un’operetta popolare, anch’essa in dialetto svizzero-tedesco.
Composta a Basilea nel 1940 su testo di Albert Roesler e dello stesso Haug, della
durata di due ore e mezza circa, vede, come Liederlig Kleeblatt, la presenza di
un’orchestra di scena.
Segue Barbara, operetta in tre atti, su testo di Gustav Hartung e Kurd Heine, tratta da
La petite Fadette di Gorge Sand. Il testo è in tedesco e fu composta a Zurigo nel
1942. Le ultime due operette furono composte entrambe a Rivaz nel 1944 e 1945. La
prima, Leute von der Strasse, è ancora in tedesco su testo di Emil Hegetschweiler; la
seconda, La Mère Michel, è in francese, su testo di William Aguet.
II.8. Oratori.
La sezione include sei numeri d’opera, da MUH94 a MUH99. Il primo oratorio fu
scritto a Granges nel 1927. Si tratta del Te Deum per voci soliste, coro misto, tre
trombe, tre violoncelli e tre timpani. Durata di venti minuti, dedicato a Cuno Amiet,
fu eseguito per la prima volta a Basilea nel 1934.
Ariadne è un oratorio per voci soliste, coro e orchestra su testo di Emil Ludwig
Müller, adattamento francese di Maurice Budry. Fu scritto a Zurigo tra il 1938 e il
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1942. Prima esecuzione a Basilea nel 1943. I ruoli recitati sono quelli di Teseo,
Arianna, Dionisio, Pan, Eco e Zeffiro.
Nel 1943 Haug compone la prima versione dell’oratorio Michelangelo per voci, coro,
orchestra e organo. La prima esecuzione fu fatta a Solere nel 1944. I ruoli cantati
sono quelli di Michelangelo, baritono, e una Voce mistica, soprano, affiancati da tre
cori: un coro principale, un coro mistico e un coro di ragazzi. La seconda versione
(MUH99) è del 1958, tradotta in francese da Géo Blanc. Dura quaranta minuti, a
differenza della prima, che durava circa due ore e mezza.
Nel 1944, Haug compone a Rivaz la Grande Année vigneronne. I testi sono di Paul
Budry. Si tratta di un insieme di sei cantate per piccolo coro, strumenti e una voce
recitante. La composizione dell’orchestra varia da una cantata all’altra. I titoli delle
sei cantate sono i seguenti: 1) Générique; 2) Juin; 3) Juillet; 4) Août; 5) Septembre; 6)
Octobre.
La Cantate gastronomique per voci soliste, coro e orchestra è del 1958. Tratta da La
Physiologie du goût di Brillat-Savarin, è stata realizzata nella triplice versione
tedesca, francese e italiana.
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II.9. Giochi radiofonici.
I giochi radiofonici rientrano in un genere musicale, che testimonia come Haug fosse
un compositore ben integrato nella cultura mass-mediatica del Novecento. Le sue
molteplici collaborazioni con le Radio svizzere, francesi, italiane ecc. in qualità di
compositore e direttore d’orchestra sono documentate da numerose registrazioni
custodite negli archivi sonori delle emittenti audio-visive europee.
Tale attività valse ad Haug un prestigioso riconoscimento di valenza internazionale.
Come abbiamo avuto già modo di sottolineare nel primo capitolo, egli ricevette, nel
1954, il Premio Italia per l’opera radiofonica La colombe égarée.
Il catalogo riporta dodici lavori di questo genere.
Il primo, Charlie Chaplin, fu composto nel 1930 a Granges e trasmesso nello stesso
anno da Radio-Zurich. Si tratta di un poema sinfonico in forma di Rondo, definibile
come un film sonoro senza video, per orchestra e voce recitante. I testi furono scritti
dallo steso compositore. La durata è di circa diciassette minuti.
Morgarten (Tragedia di un popolo) è un dramma radiofonico scritto per le
celebrazioni del primo agosto. Scritto a Rivaz nel 1944, su testi di Benjamin
Romieux, fu trasmesso da Radio Losanna lo stesso anno.
La durata è di circa un’ora e mezza e l’orchestra è affiancata da due cori polifonici.
Da Tantaruffo è la musica per una serie radiofonica in cinque episodi di William
Aguet, mandata in onda nel 1946 da Radio Losanna e scritta da Haug durante il suo
soggiorno a Lonay.
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Leucosia è un gioco radiofonico con testi di Maurice Budry tratti da alcuni brani
dell’Odissea di Omero. Composta a Lonay nel 1949, fu trasmessa lo stesso anno da
Radio Losanna.
Maurice Budry curò anche i testi di Le Premier Chapeau. Fantasia radiofonica,
racconto dei tempi della Creazione. Composto e trasmesso a Losanna nel 1951 con
una durata di circa mezz’ora. I ruoli cantati sono quattro: “L’uccello senza nome”,
soprano leggero; “Aidim, il primo uomo”, tenore; “Kali, la prima donna”, soprano;
“Il crotalo”, basso. Questo lavoro è un’ennesima testimonianza dell’attenzione rivolta
da Haug a soggetti mitologici o biblici, ma in questo caso è evidente il tentativo di
fondere in un unico racconto i diversi miti della Creazione, provenienti da culture
diverse.
Nel 1953 Haug scrisse a Losanna la Colombe égarée. Il lavoro venne commissionato
e trasmesso da Radio Basilea, che ancora detiene la proprietà della partitura. L’anno
successivo l’opera radiofonica venne presentata al Premio Italia. Esistono ben
quattro versioni dei testi: inglese; tedesca, curata da Walther Franke-Ruta; francese,
di Daniel Anet; italiana, di Antonio Gronen-Kubitzki. Alla voce recitante sono
affiancati tre ruoli cantati: Gaubert, Elaine e Il cavaliere. Da segnalare la presenza di
due orchestre.
I lavori successivi furono tutti composti a Belmont: Fiesco nel 1958; Die Heilige
Johanna nel 1959. Pigeon vole, musica per la fantasia radiofonica di Jean Goudal
tratta da una novella di Diderot, è del 1961. Jaakobs Traum risale al 1964. Le gardien
vigilant è un’operetta radiofonica in un atto con testo di Géo Blanc, tratto da un
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intermezzo di Miguel de Cervantès; fu scritta nel 1966. Conclude la sezione del
catalogo Le malade immaginaire, commedia radiofonica tratta dall’omonimo lavoro
di Molière, scritta nel 1960.
II.10. Festival – Musica di scena diversa.
La sezione contiene diciannove lavori. I primi sei sono dei Festivals scritti tra il 1935
e il 1954. Tra essi segnaliamo Lällekeenig, per solisti, coro e orchestra, su testo di
Eduard Fritz Knuchel, commissionato ad Haug in occasione dell’Esposizione
nazionale di Zurigo del 1939.
Le opere riportate in seguito rientrano nella categoria di musica di scena, ma non
trattandosi né di balletti, né di opere o operette, vengono inserite in questa sezione
differente. Al numero d’opera MUH118 corrisponde il gioco drammatico biblico per
coro, ottoni e percussioni, Peuple, marche dans la lumière! Fu composto nel 1962 a
Belmont su testi di Roland Jay e Edmond Jeanneret. Segue la pantomima La terre.
Composta a Belmont nel 1964 e rappresentata lo stesso anno a Losanna in occasione
dell’Esposizione nazionale svizzera.
Le Passage de l’ètoile è una musica di scena per il lavoro letterario di Jean Villard-
Gilles, scritto a Losanna nel 1950 e rappresentato a Mézières al teatro Jorat nel
giugno dello stesso anno.
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Justice du Roi è una tragicommedia del 1963, divisa in tredici frammenti, tratta da
“L’Alcade de Zalamea” di Pedro Calderon, con adattamento francese di Jean Bovey.
Tra i lavori riportati in seguito nel catalogo segnaliamo una Berceuse pour les canons
su testi di Paul Budry; l’armonizzazione di canzoni tradizionali ticinesi; l’adattazione
radiofonica di un’opera comica di Gluck, L’Ivrogne corrige; una commedia musicale
tratta da abbozzi di Offenbach dal titolo Hoelle auf Erden; Der Fländrische
Totentanz del 1937; e un’opera del 1920, Der Tor und der Tod, su testi di Hugo von
Hoffmannstahl.
II.11. Musica per film.
Il catalogo si conclude con l’elenco di cinquantaquattro composizioni destinate ad
essere colonne sonore per film, spot o documentari. È interessante notare come
questa sia la sezione più corposa dell’intero catalogo. Non sono certo questi i lavori
che hanno reso Haug celebre agli occhi dei suoi contemporanei o che suscitano il
maggiore interesse da un punto di vista storiografico, ma evidentemente furono per
lui una importante risorsa economica e rappresentano per noi una preziosa
testimonianza circa il suo inserimento nel contesto socio-culturale dell’Europa del
dopoguerra. Gli anni in cui Haug vive sono gli anni degli sviluppi tecnologici che
portano alla nascita e alla diffusione del cinematografo, della radio e della
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televisione, senza dimenticare lo sviluppo dell’industria discografica. Questi
diventano gli strumenti di comunicazione più importanti della seconda metà del
Novecento. Molti compositori contemporanei di Haug compresero l’importanza di
tali strumenti come forma di diffusione della propria arte, ma soprattutto come fonte
di sostentamento economico. Basti pensare a Castelnuovo-Tedesco, emigrato negli
Stati-Uniti , si dedicò alla composizione di colonne sonore per l’industria
cinematografica di Hollywood. Non possiamo immaginare quanto possa essere stato
frustrante per un compositore di tale calibro dover sopravvivere grazie a
composizioni che pochissimo hanno a che vedere con la propria arte, ma, in un
mondo in via di ricostruzione a seguito del secondo conflitto mondiale, l’arte deve
spesso piegarsi a nuove regole di mercato. Pertanto è lecito domandarsi se la
dedizione alla composizione di colonne sonore vada considerata come un ripiego
verso una fonte certa di sostentamento economico, oppure come l’intuizione di
percorrere una nuova strada che possa condurre alla popolarità e alla diffusione dei
propri lavori. Probabilmente nel caso di Haug questa seconda ipotesi è più adattabile
ai suoi lavori destinati alla radio, la prima - invece - sembra meglio conciliare con la
sua musica per film.
Concludiamo segnalando, tra tutti i titoli riportati dal catalogo in questa sezione, il
numero d’opera MUH136, Pacem in terris. È la colonna sonora del film di Michel
Dickoff, Nicolas de Flue. Fu scritta a Belmont nel 1963 e porta il titolo di
un’enciclica di Papa Giovanni XXIII.
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II.12. Riflessioni.
Ciò che maggiormente fa riflettere, al termine dell’ampio sguardo che abbiamo
dedicato all’opera complessiva di Haug, è la scelta dei titoli e delle forme operata dal
compositore. La predilezione dell’autore verso forme quali il preludio, capriccio,
fantasia, serenata, intermezzo, canzonetta, miniature, etc. o titoli come Elegia
pastorale, visione d’Hellade, Aubade, Improvisation, Sehnsucht, Symphonie
romantique, suggeriscono un accostamento quasi ostentato da parte di Haug nei
confronti delle forme e degli ideali sonori romantici, almeno per quanto concerne la
sua produzione di musica strumentale. L’utilizzo di temi dall’ampio respiro melodico
all’interno di forme che prediligono un trattamento molto libero del materiale sonoro
sembrano essere una costante del suo stile compositivo. Avremo modo di evidenziare
questi aspetti in una fase di analisi dettagliata della musica per chitarra, ma una
riflessione di questo tipo ci suggerisce adesso di indagare sul contesto culturale e
artistico nel quale Haug fu inserito, e su eventuali influssi esterni che condizionarono
la formazione di un proprio pensiero sulla musica e l’arte.
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Capitolo terzo
Dal contesto al testo
In questo capitolo daremo uno sguardo al contesto storico, culturale e artistico in cui
Haug fu inserito. Svolgeremo un percorso dal generale al particolare. Partiremo da
osservazioni sulle tecniche di composizione e sulla situazione musicale in Europa
nella prima metà del Novecento, per focalizzare poi la nostra attenzione su quanto
accadeva in Svizzera nello stesso periodo. Il campo di osservazione si andrà via via
restringendo, focalizzandosi su quei compositori che furono particolarmente legati ad
Haug in quanto suoi maestri, amici o colleghi, che possano in qualche modo,
direttamente o indirettamente, aver influenzato il suo modo di pensare in musica.
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Concluderemo passando in rassegna alcuni compositori “segoviani”, ossia quei
contemporanei di Haug che scrissero musica per chitarra, orbitando attorno alla
figura di Andrés Segovia.
III.1. La musica in Europa nella prima metà del Novecento.
L’inizio del XX secolo fu caratterizzato da un crescente fermento sociale e da
tensioni internazionali che sfoceranno nel primo conflitto mondiale. Questo stato di
generica agitazione e di instabilità politica, sociale ed economica si manifesta in
campo musicale con l’abbandono dell’idioma tardo romantico e la sua trasformazione
in un nuovo linguaggio musicale, frutto di nuove sperimentazioni e tendenze
individualistiche che, seppur seguendo strade differenti, condurranno verso
l’esaurimento della concezione di tonalità così come i secoli XVIII e XIX l’avevano
intesa.
Il sistema tonale viene posto in dubbio: non è più ritenuto in grado di contenere le
idee creative dei vari autori, i quali – in piena indipendenza fra di loro – tentano vie
nuove e diverse. Il carattere di unità della musica in occidente, perpetuatosi sin dal
XV secolo sotto le successive egemonie delle scuole nazionali olandese, italiana e
tedesca, si interrompe definitivamente nel XX secolo, frantumandosi in una
costellazione di diversi movimenti tra loro separati e indipendenti e in una miriade di
nuovi ed originali tentativi di creare un nuovo e rivoluzionario modo di creare
musica, libero dai vincoli della tonalità classica.
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Si viene a creare, agli inizi del XX secolo un vero e proprio labirinto fatto di nuove
strade (nuove tecniche compositive e rivoluzionarie teorie musicali) orientate verso
quella terra promessa che è la nuova musica. Molti di questi nuovi sistemi musicali si
manifesteranno come delle strade senza uscita, ossia delle vie individuali, seguite da
singoli compositori e non più imitate da altri.
Ogni autore si forma un linguaggio musicale non imitabile. È il caso di Skryabin e il
suo “accordo mistico” tendente ad abbattere le barriere della tonalità; Alois Haba e
l’introduzione della poetica dei quarti di tono; Ferruccio Busoni e il suo classicismo
contrappuntistico con tentativi di atonalità; Hauer con la sua dodecafonia particolare
in antagonismo con Schoenberg; Messiaen con il suo “sistema di modi a
trasposizione limitata”, che ricorda il “sistema alternato” di Vito Frazzi; Savagnone
ed il suo “prismatismo musicale”; Roberto Lupi e la sua “armonia di gravitazione”1.
Tra i musicisti di inizio secolo si percepisce il senso della crisi della civiltà
occidentale e il senso di dovere di testimoniarla nell’opera d’arte. Il musicista che si
sente estraneo alla propria epoca, vive una condizione di isolamento rispetto al gusto
del pubblico, alle regole del mercato editoriale o alle istituzioni scolastiche. Le
avanguardie musicali, che nascono da tale condizione del musicista, tendono ad
organizzarsi in cenacoli di artisti con un salotto in cui riunirsi, una sala nella quale
esibirsi abitualmente in concerto e magari una rivista che ne divulghi le idee. Non
sempre però le nuove poetiche musicali derivano dal dibattito o dal confronto tra
artisti. La poetica può discendere anche da teorie misteriosofiche, teosofiche o
1 CLAUDIO GREGORAT, Sguardo panoramico sullo sviluppo dei sistemi musicali dall’inizio del ‘900 ad oggi, saggio non ancora pubblicato, gentilmente inviatomi dall’autore.
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antroposofiche, come nel caso di Skrjabin o del giovane Satie, appartenente al gruppo
dei Rosacrociati.
All’interno di questo complesso labirinto formatosi nella prima metà del Novecento,
si possono però distinguere tre strade principali, che corrispondono
approssimativamente alle tre linee principali di sviluppo del periodo precedente.
La prima consiste nella creazione di stili musicali in relazione agli idiomi nazionali
folklorici. La seconda, che può essere definita col termine neoclassicismo, consiste
nella nascita di vari movimenti che mirano a introdurre le nuove scoperte della prima
parte del secolo in sistemi musicali ancorati ai principi, alle forme e alle tecniche del
passato, in particolar modo dell’epoca pre-ottocentesca.
La terza strada, che è anche l’unica a poter essere definita come una vera e propria
“scuola”, consiste nella trasformazione dell’idioma post-romantico tedesco nello stile
dodecafonico di Schoenberg, Berg e Webern, passando per la strada del cosiddetto
“espressionismo musicale”.
Agli inizi del XX secolo, lo studio del materiale folklorico fu intrapreso con l’utilizzo
di un metodo scientifico rigoroso. In passato la musica popolare veniva raccolta e
conservata con l’uso poco ortodosso della tradizionale notazione musicale, la quale
non era in grado di riportare con esattezza le peculiarità stilistiche e proprie delle
prassi esecutive di certi canti. Con l’avvento del fonografo fu possibile registrare i
materiali musicali e conservarli senza alcun rischio di filtrare la genuinità della loro
51
origine. Nasce così l’etnomusicologia, disciplina che darà un impulso notevole allo
sviluppo di nuove tendenze musicali che sentivano l’influsso della musica popolare.
L’Europa centrare fu l’ambiente ideale per lo sviluppo dei primi vasti studi scientifici
sulla musica folklorica. Pioniere, in tale campo, fu Janàček in Cecoslovacchia, cui
fecero seguito gli ungheresi Zoltàn Kodàly (1882-1967) e Béla Bartók (1881-1945).
Quest’ultimo coprì un ruolo di primo piano sotto vari aspetti, da quello della ricerca
di materiale folklorico sul campo, all’attività di esecutore e didatta, a quella - per noi
forse la più interessante - di compositore.
Comporre secondo l’influsso del materiale folklorico significava per questi
compositori riproporre, in chiave più o meno colta – quindi secondo le tecniche, i
principi e le forme della composizione “ortodossa” – melodie, ritmi e pratiche
polifoniche e armoniche della tradizione popolare.
Molti compositori cercarono di assorbire le nuove scoperte musicali senza
interrompere la continuità con la tradizione, rimanendo legati ad alcune
caratteristiche del passato come la conservazione di centri tonali, la forma melodica e
il movimento finalizzato delle idee musicali. Le opere che questi compositori
produssero vengono spesso assorbite nella definizione di neoclassicismo in musica. È
il caso del balletto “Pulcinella” (1920) e dell’opera buffa “Mavra” (1922) con i quali
Stravinskij entrava nel periodo “neoclassico” della sua produzione, attuando una
revisione quasi totale della propria scrittura precedente. Il neoclassicismo
stravinskiano assume già ai suoi esordi il duplice aspetto della ricostruzione rispettosa
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e della caricatura irriverente. Una contraddizione, mai risolta, che troverà il suo
campo ideale di sviluppo nella musica da camera del compositore russo.
Al gusto neoclassico sono riconducibili anche buona parte delle opere di Erik Satie e
del “Gruppo dei Sei”, di cui fu guida spirituale. Le innovazioni più consistenti
presenti nella musica di Satie sono riscontrabili prevalentemente nella sua produzione
pianistica: le armonie sono spesso costruite col procedimento di quarte sovrapposte;
viene abolita la barra di divisione delle battute; non vengono messe le alterazioni in
chiave. Alcune brevi idee musicali vengono ripetute in continuazione, oppure
alternate con altre, anch’esse sempre uguali, oppure trasposte ad altezze differenti. La
qualità stesse delle idee musicali è di un genere sconosciuto: melodie quasi
totalmente diatoniche, a grado congiunto, a piccoli incisi ritmicamente costanti;
accordi solenni o grumi di note, inspiegabili con le regole tradizionali. La
partecipazione di Satie alla setta misteriosofica della Rose-croix (per questo gli amici
lo chiamavano scherzosamente “Esoterik” Satie) comportò un vivo interesse per il
canto gregoriano di cui adottò le modalità.
L’interesse per il canto gregoriano, i motivi di danza e le melodie medievali furono
una componente rilevante anche per la produzione musicale di Arthur Honegger, uno
dei componenti dei Sei, dal quale Haug fu fortemente influenzato.
La denominazione “Les Six” aveva avuto un’origine casuale: ad un concerto in cui si
presentavano le musiche di Milhaud, Poulenc, Honegger, Auric, Durey e della
Tailleferre, il critico Henri Collet aveva intitolato il proprio articolo “I Cinque russi e
i Sei francesi”. L’accostamento, anche se fortuito, di questi sei compositori francesi,
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andava ad indicare un cenacolo di artisti legati da una stretta amicizia e che
riconoscevano in Satie il loro animatore ed ispiratore. Essi amavano incontrarsi
regolarmente o a casa di Milhaud o al caffè Gaya nel sofisticato locale “Le boef sur le
toit”, così chiamato proprio in omaggio a una composizione di Milhaud. Eseguivano
le loro opere pianistiche con preferenza nella piccola Salle Huyghens e si videro ben
rappresentati dal manifesto di Cocteau “Le coq et l’Arlequin” tanto da pubblicare dal
1920 articoli sulla rivista “Le coq”, in cui ciascuno scrisse le sue cattiverie contro i
comuni nemici. Vorremmo evidenziare, tra i Sei, la figura di Milhaud per la tecnica
della politonalità spesso ricorrente nelle sue opere. Lo stesso Milhaud fornisce una
spiegazione semplice dell’uso di accordi politonali: “Il loro suono soddisfa il mio
orecchio; un accordo tonale quando è tenue è più sottilmente dolce e quando è forte è
più violento di un tipo di accordo normale”. Da un punto di vista più tecnico, la
musica politonale è quella musica in cui, attraverso l’analisi visiva della partitura, si
può verificare il percorso simultaneo di più linee melodiche o più piani armonici,
aventi ognuno una tonalità diversa e distinta.
Una serie di defezioni e litigi smembrò il gruppo dei Sei tra il 1923 e il 1925: Durey e
la Tailleferre non produssero più; Honegger seguì il proprio temperamento più
serioso e complesso; Poulenc subì il fascino di Stravinskij e si legò con Auric al
critico ed impresario Louis Laloy, di cui Satie si considerava nemico giurato perché
gli sembrava incarnasse la concezione mercantile in musica. Alla morte di Satie, nel
1925, ognuno rimase da solo con le proprie capacità personali.
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Un ultimo componente della corrente neoclassica, seppure non per la totalità della sua
produzione, che vorremmo citare per dovizia storiografica è Paul Hindemith.
Fu un abile violista e rinomato didatta presso la Scuola di Musica di Berlino (dal
1927 al 1937), la Yale University (dal 1940 al 1953) e l’Università di Zurigo (dopo il
1953). Come compositore non attraversò nessuna fase giovanile romantica o
impressionistica, ma si lanciò subito, con le sue prime composizioni nel mondo
disorientato e disorientante della nuova musica tedesca degli Anni Venti. Liquidò ben
presto però questi suoi trascorsi espressionisti con l’opera Cardillac del 1926 e
sviluppò, negli anni seguenti, una personale poetica dell’artigianato musicale e della
Gebrauchsmusik, ossia musica d’uso. Agli inizi degli Anni Trenta operò un’ulteriore
svolta, orientandosi verso posizioni decisamente neobarocche ed accademiche. La
figura di Hindemith va ricordata, forse principalmente, per la sua attività di teorico.
Egli tentò di elaborare una teoria nel suo Manuale di composizione, pubblicato a
Magonza fra il 1937 e il 1939, secondo la quale i centri tonali venivano stabiliti
mediante una sorta di movimento melodico gravitazionale e di un decorso armonico
fondato su accordi di maggiore o minor tensione, sicchè la triade tradizionale
conservava una posizione di primato come centro focale del flusso cadenzale. La
tonalità era per Hindemith inevitabile in musica come la legge di gravità lo è per il
mondo fisico; egli sosteneva che i tentativi di evitarla erano non soltanto inefficaci,
ma che il loro risultato era il caos. Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale,
Hindemith si volse sempre di più all’interiorizzazione e alla speculazione su problemi
cosmico-filosofici. Divenne sempre più convinto che l’ordine all’interno di una
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composizione musicale rappresentasse un simbolo di ordine più elevato, appartenente
al mondo morale e spirituale. Testimonianze di questa nuova poetica spiritualistica
furono opere come Harmonie der Welt (Armonia del mondo) del 1957 in cui viene
messa in scena la figura di Keplero alle prese con il problema di conciliare la Bibbia
con le scienze esatte, nel tentativo di trovare attraverso la vita contemplativa
l’armonia del mondo. Nella nuova versione del ciclo Das Marienleben vi è una
relazione simbolica di tonalità: la tonalità principale di Mi è associata a Cristo, la
dominante Si alla sua natura terrestre, la sottodominante La alla sua natura divina e
altre tonalità ad altre idee secondo il loro grado di vicinanza alla tonalità centrale di
Mi2.
Per completare la nostra panoramica dell’orizzonte musicale nell’Europa della prima
metà del Novecento, andremo ora ad esaminare le notizie a nostra disposizione
riguardo all’Espressionismo musicale, la Scuola di Schoenberg, l’opera dei suoi
successori, tra cui Webern, lo stile dodecafonico e il suo naturale confluire nella
Scuola di Darmstadt, fino ad arrivare alle tendenze successive, rivolte alla musica
aleatoria, al puntillismo, al serialismo, alla ricerca di nuovi timbri e alla musica
elettronica. Tutto ciò meriterebbe una trattazione ben più ampia di quella che, per
ovvie ragioni pratiche, riusciremo a dare in questa sede.
<<L’espressionismo musicale è l’insieme delle esperienze più o meno omogenee
maturate tra il 1906 e il 1925 in alcuni musicisti, soprattutto tedeschi, i quali le
2 DONALD JAY GROUT , Storia della musica in Occidente, Feltrinelli, Milano 1984.
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avallarono dal punto di vista teorico con le idee sostenute nella Harmonielehre di
Schoenberg del 1911 e negli scritti apparsi in “Der blaue Reiter”, almanacco curato
da V. Kandinskij e Fr. Marc, edito a Monaco nel 19123 >>. Spesso si identifica
l’Espressionismo con la seconda Scuola di Vienna e quindi le opere di Schoenberg,
Berg e Webern, e, in definitiva con la fase di gestazione della dodecafonia. Il
momento conclusivo dell’espressionismo viene fatto coincidere con la morte di
Schoenberg e l’affermarsi del Circolo di Darmstadt, i cui esponenti indicarono
nell’ultimo Webern il punto di congiunzione tra la Scuola di Vienna e la loro,
consacrando queste posizioni nel celebre saggio di Pierre Boulez “Schoenberg è
morto”.
Base poetica dell’Espressionismo musicale è la negazione del carattere mimetico
della musica e la dichiarazione dell’impossibilità di esprimere con essa qualsiasi cosa
comprensibile in termini scientifici e logici. La musica è l’interiorità fatta arte, non la
sua rappresentazione o imitazione di tipo naturalistico. I fini tracciati da Schoenberg
sono il superamento della forma, l’emancipazione della dissonanza e l’abbandono
della tonalità, il rinnovamento della melodia, la liberazione del ritmo dalla costrizione
formale, il rifiuto dell’ordine a favore dell’intuizione. Tutto ciò era già stato
pienamente raggiunto nel 1912, l’anno del Cavaliere Azzurro e del Pierrot Lunaire.
Ben presto ci si rese però conto che il rifiuto della forma come veicolo di
comunicazione minacciava gli espressionisti di “naufragare in un mare di acqua
bollente” – come sosteneva lo stesso Schoenberg.
3 DUSE UGO, Per una storia della musica del Novecento e altri saggi, Torino, 1981.
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Secondo Webern “si ritorna alla forma perché altrimenti non si comunica l’idea
musicale, anzi, al limite, senza forma non c’è nemmeno idea musicale”.
La dodecafonia rappresenta la soluzione ad ogni problema. Fu presentata come un
metodo di comporre con dodici suoni che non stanno in relazione tra loro; in realtà
questo fu il principio compositivo dodecafonico del periodo espressionista. La
dodecafonia, così come si presenta nella sua forma più matura, ossia con Webern, è
un metodo che mette in relazione tra loro i dodici suoni del totale cromatico, non per
un loro interno organizzarsi dettato dalle esigenze espressive mutanti di volta in volta,
ma obbedendo a leggi predeterminate e rigorose. In tal modo, l’ordine – oggetto del
rifiuto della poetica espressionista – torna ad essere considerato da Webern, non più
in quanto fine a se stesso, ma come una soluzione di necessità e punto di approdo
verso nuovi principi formali.
Nel segno di Webern nacque una nuova avanguardia che assunse l’appellativo
adorniano di <<Nuova Musica>> e stabilì epicentro a Darmstadt, nei pressi di
Francoforte. Nel 1946 era stato qui fondato l’Istituto Kranischstein con lo scopo di
ricostruire la vita musicale in Germania, bruscamente interrotta con l’avvento del
nazismo. Le intenzione del suo primo direttore Wolfgang Fortner, seguito da
Hindemith, che diresse i corsi estivi del 1947, l’Istituto doveva diventare un centro
per lo studio di quella musica messa al bando per oltre dieci anni e che si identificava
prevalentemente con il neoclassicismo di Stravinskij, quello dello stesso Hindemith,
con l’atonalismo degli anni Venti e Trenta, e solo in misura modesta con la
dodecafonia, nei confronti della quale i musicisti più anziani manifestavano ancora
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un certo disorientamento. Le cose cambiarono sensibilmente, a partire dal 1948, con
l’ammissione di studenti stranieri, come Leibowitz o Messian, e una schiera di
giovani compositori ben più agguerriti nella tecnica dodecafonica rispetto ai loro
colleghi o maestri più anziani.
Il serialismo weberniano rappresentava negli anni Cinquanta la discriminante tra
vecchia e nuova musica. All’interno di una concezione estensiva del serialismo è
possibile notare lo sviluppo di tecniche compositive come il puntillismo, di cui fu
illustre esponente l’italiano Luigi Nono, e il serialismo integrale, arricchito da un
raffinato quanto radicale strutturalismo, di Boulez. Fu proprio quest’ultimo, il più
rigoroso tra gli strutturalisti darmstadtiani, a segnare nel 1956-57 una svolta storica
all’interno della corrente post-weberniana. Nella Terza sonata per pianoforte del
1957 si incontra l’applicazione rigorosa e coerente del principio aleatorio che segnerà
la fine della fase iperstrutturalistica della musica postweberniana. L’alea è un
fenomeno in cui il compositore ricorre alla collaborazione creativa dell’interprete,cui
affida alcune scelte di carattere propriamente compositivo. Una pratica analoga era
già stata sperimentata negli Stati Uniti sin dal 1950-51 con alcuni lavori di Morton
Feldman e John Cage. Quella statunitense è però una pratica aleatoria che si
manifesta con la sospensione, totale o parziale, dell’intenzionalità creativa
dell’autore, al punto di affidare ad una logica misteriosa e incontrollata di fattori
accidentali gli esiti combinatori della materia sonora. L’alea europea, invece,
teorizzata e chiarita magistralmente da Boulez nella sua conferenza ai corsi estivi di
Darmstadt nel 1957, contrappone alla struttura chiusa della musica precedente, una
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struttura virtuale resa aperta dalla presenza di un labirinto di circuiti possibili. Al
“puro fortuito” teorizzato da Cage, Boulez oppone il concetto di “alea controllata”,
che non implica la rinuncia da parte del compositore alla responsabilità degli esiti
della composizione, ma ne estende preventivamente l’intenzione e il controllo anche
a quelle possibilità che appartengono al piano dell’interpretazione e della percezione.
In tutte le tendenze compositive manifestatesi nel XX secolo è possibile individuare
una costante che le unisce tutte in maniera trasversale: la ricerca timbrica.
Dall’introduzione di nuovi strumenti e sonorità nella tradizione musicale occidentale
ad opera di Debussy, alla possibilità - sostenuta dallo stesso Schoenberg - di creare
una serialità timbrica nell’ambito della pratica dodecafonica4, fino ad approdare alla
creazione di nuovi suoni attraverso apparecchiature elettroniche propria della
musique concrète, o di nuovi strumenti (tipo le onde Martenot) è evidente che si
introduce nel pensiero musicale del Novecento un nuovo parametro, il timbro, su cui
riflettere al fine di comprendere pienamente la rivoluzione musicale del secolo. Essa
deve essere dunque considerata come un insieme di grandiosi mutamenti intervenuti
nella sensibilità musicale occidentale che hanno agito su tutti i parametri musicali
contemporaneamente. Resta comunque difficile stabilire se l’emancipazione della
dissonanza abbia condotto ad una nuova sensibilità timbrica, oppure se i nuovi
impasti timbrici, già presenti nelle opere di Debussy, Ravel, Bartòk e altri musicisti
dei primi decenni del XX secolo non abbiano favorito l’avvento di una nuova
4 ENRICO FUBINI, Il pensiero musicale del Novecento e le avanguardie, in « MusicaIncerta » a cura di Arturo Tallini, Ut Orpheus Edizioni , Bologna 2000.
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sensibilità intervallare. Certamente sterile sarebbe una disputa finalizzata a chiarire
cosa si sia avuto prima, ma resta fermo il fatto che nelle molteplici correnti musicali
del secolo si è andati alla ricerca di nuovi effetti timbrici anche attraverso un uso
innovativo degli strumenti tradizionali.
È il caso della chitarra e dell’importanza che tale strumento riveste oggi nella musica
contemporanea, frutto della rinnovata sensibilità di molti compositori, venuti a
conoscenza delle immense potenzialità timbriche dello strumento grazie alla presenza
di grandi interpreti come Segovia. E’ uno strumento ancora tutto da scoprire, al quale
i grandi compositori dei canali ufficiali della “musica che conta” hanno iniziato a
guardare solo nel Novecento, a partire da De Falla, Poulenc, Auric, Ghedini,
Malipiero, Petrassi, passando per la schiera degli autori propriamente detti
“segoviani”, fino ad arrivare ai contemporanei Razzi, Vescovo, Bussotti e tanti altri.
Concludiamo questa breve digressione sulla chitarra, frutto di una evidente ed
incontenibile deformazione professionale, compiacendoci dei passi da gigante fatti da
tale strumento, progressi resi ancor più evidenti dal confronto con la considerazione
di cui lo strumento godeva, nell’ambito della grande musica, nel corso del XIX
secolo. Berlioz fu uno dei pochi a citare la chitarra nel suo Grande Trattato di
Istrumentazione e d’Orchestrazione moderne: << La chitarra è propria ad
accompagnare la voce ed a figurare in qualche componimento strumentale non
rumoroso, come ancora ad eseguire da sola pezzi più o meno complicati ed a più
61
parti, donde ne risulta un delizioso e reale effetto se l’esecuzione è affidata a veri
artisti >>.
Ci venga consentito di sostenere che l’iperbole evolutiva dello strumento e della sua
letteratura musicale si completa col superamento da parte del chitarrista di quello che
Franco Donatoni definisce << un narcisismo sconfinato e un contatto con lo
strumento paragonabile a quello di certi oboisti musulmani che non possono vivere
senza portare l’oboe nella tasca interna e gli fanno dei regali, come gli orecchini,
trattandolo nello stesso modo di una donna >>5.
III.2. In Svizzera.
La Svizzera è una federazione di cantoni dotati di ampia autonomia e indipendenza;
da ciò deriva una situazione culturale fortemente eterogenea testimoniata dalla
presenza di quattro aree linguistiche: tre per le lingue romanze (francese, italiano e
romancio) e una per la lingua tedesca, suddivisa essa stessa in numerosi dialetti
talvolta molto differenti tra loro.
Tuttavia, una situazione geografica e politica comune ha creato un forte legame
interno tra i vari cantoni ed uno spirito di appartenenza, o, se si preferisce,
nazionalismo, motivo di orgoglio per i cittadini svizzeri. Quella della Svizzera è
dunque una situazione di “unità nella diversità”, particolarmente evidente in campo
5 Intervista pubblicata sul n.31, aprile 1980, de Il Fronimo.
62
culturale, affatto alterata dalle innegabili e costanti influenze culturali provenienti
dalle capitali straniere.
Se i libri di storia delle grandi nazioni vicine riportano frequentemente notizie circa
l’importanza del ruolo politico ed economico della Svizzera, si cercheranno invano
menzioni riguardo ad un ruolo centrale della Svizzera nei capitoli dedicati alla
musica. Fanno eccezione nomi come quello di Notker Balbulus, legato alle vivaci
attività musicali dell’Abbazia di Saint-Gall tra il IX e X secolo, o di Glareanus (1488-
1563), musicista e umanista che ha lasciato alla storia della musica trattati di
indiscutibile valore. Dovremo attendere fino al XIX secolo per ritrovare il nome di un
musicista svizzero degno di rilievo come quello di Hans Georg Nägeli (1773-1836),
compositore e pedagogo ricordato per il suo importante ruolo nello sviluppo della
pedagogia musicale e della musica corale.
La fine del XIX secolo vide apparire i primi compositori svizzeri di importanza extra-
regionale. Citiamo i nomi di Joachim Raff (1822-1882), Friedrich Hegar (1841-
1927), Hans Huber (1852-1921), Hermann Suter (1870-1926), Fritz Brun (1878-
1959), Volkmar Andreae (1879-1962), Walter Courvoisier (1875-1931) che divenne
capofila della scuola detta di Monaco, Ernest Bloch (1880-1959) conosciuto persino
negli Stati Uniti, Othmar Schoeck (1886-1957), primo compositore ad aver raggiunto
una fama internazionale senza aver lasciato il suo Paese, per terminare con Frank
Martin (1890-1974), la cui figura occupò nel corso del Novecento un ruolo di
indiscusso prestigio internazionale.
63
Il XX secolo si apre con una situazione musicale in Svizzera sicuramente
promettente, ma fondata su delle basi storiche piuttosto esili, paragonabili ad atolli
nel vasto oceano in tempesta della musica occidentale. Era evidente che bisognava
fare qualcosa di realmente significativo affinché l’orgoglio dei musicisti svizzeri
trovasse riscatto dalla situazione avutasi in passato e la Svizzera cominciasse a
coprire un ruolo importante nella vita musicale Europea.
Il 2 novembre 1898, Edouard Combe (1866-1942) pubblica il suo storico appello
sulla <<Gazzetta di Losanna>>, facendosi portavoce di una visione già largamente
diffusa tra i maggiori musicisti dell’epoca: …<< Nos musiciens ont, à côté de leurs
intérêts immédiats et locaux, des intérêts communs, tant matériels que moraux, et ces
intérêts ils ne pourront les défendre efficacement que par l’union. Les questions
d’école doivent être laissées de côté : que chacun de nous conserve son originalité, sa
note personnelle. C’est précisément en ce bariolage que réside la saveur de notre
école nationale ! N’est-il pas l’image fidèle de notre groupement de vingt-deux petits
Etats souverains ?>>…
Quasi simultaneamente, il 26 novembre 1898, venne costituita a Basilea
un’Associazione di Musicisti Svizzeri sotto la presidenza del violoncellista Emil
Braun (1870-1954). Questa prima A.M.S. era riservata ai musicisti della regione di
Basilea, ma i suoi fondatori intendevano invitare i musicisti delle altre città svizzere a
seguire l’esempio fino a giungere, finalmente, alla creazione di una vera e propria
Associazione dei Musicisti Svizzeri a carattere nazionale.
64
Il 30 giugno 1900 erano presenti quarantacinque musicisti alla prima Assemblea
generale dell’AMS, tenutasi alla Tonhalle di Zurigo, e presieduta energicamente da
Gustav Arnold, deceduto pochi mesi più tardi. Gli statuti dell’Associazione adottati
nel corso delle prime due Assemblee generali, non hanno subìto modifiche sostanziali
nel corso degli anni, nonostante le numerose revisioni.
Lo scopo principale dell’AMS è quello di stimolare lo spirito di cooperazione tra i
musicisti svizzeri professionisti e fornire loro l’occasione di riunirsi periodicamente
per lo studio, la discussione e la difesa dei loro interessi comuni, sia materiali che
morali. L’Associazione si propose ugualmente di contribuire allo sviluppo della
musica nazionale. A questo scopo essa fornisce ogni anno ai compositori svizzeri
l’occasione di far conoscere le loro opere durante la Fête des Musiciens Suisses e
facilitarne la pubblicazione. Inoltre, l’Associazione incoraggia i giovani musicisti a
perfezionare i loro studi. Vengono istituite delle borse di studio per solisti e
compositori. Dal 1940 l’AMS versa un contributo annuale al Concorso Internazionale
d’Esecuzione Musicale di Ginevra affinché si possano commissionare ai musicisti
svizzeri dei pezzi imposti in vista delle prove eliminatorie del concorso.
Lo spirito di fratellanza che deve regnare tra i membri dell’AMS implica che si vada
in soccorso di un musicista o della sua famiglia qualora ve ne sia bisogno. A tale
scopo fu istituita nel 1916 una Cassa di Soccorso che ha l’obbligo di fornire sussidi ai
membri attivi ed onorari dell’AMS, o ai loro eredi, in caso di malattia o altre
situazioni di incapacità al lavoro, nonché in caso di decesso.
65
Dal nostro punto di vista l’attività dell’AMS copre un ruolo di vitale importanza: il
sostegno alla creatività dei compositori attraverso l’organizzazione di concerti che
diano loro la possibilità di far conoscere i propri lavori e la tutela, anche giuridica, dei
diritti derivanti dalle esecuzioni pubbliche. Essa contribuisce,quindi, allo sviluppo
della vita musicale in Svizzera e alla creazione di quel contesto culturale ed artistico
in cui Haug operò.
Nel corso della prima metà del Novecento cresce in maniera esponenziale il numero
di città svizzere dotate di una propria orchestra. Tra le più importanti citiamo
l’Orchestre de la Suisse Romande (OSR), fondata e diretta per molti anni da Ernest
Ansermet, l’Orchestre de la Tonhalle di Zurigo, l’Orchestre de Chambre di Zurigo,
L’orchestre symphonique di Basilea (BOG), l’Orchestre de chambre di Basilea,
l’Orchestre Suisse du Festival de Lucerne. Lugano e Basilea avranno anche una
propria orchestra radiofonica.
Per quanto riguarda i cori, la situazione è a dir poco prodigiosa. Oltre ai cori ritenuti
professionali in quanto garantiscono un salario ben determinato e stabile ai loro
componenti, che sono quelli legati ai grandi teatri o alle emittenti radio-televisive, si
formano in Svizzera una miriade di cori più o meno amatoriali, frutto di una
tradizione consolidatasi a partire dalla titanica opera del già citato Nägeli.
Cresce anche il numero di Festivals organizzati nelle diverse città svizzere. Il più
antico è il Juni-Festwochen (Festival di giugno), organizzato a Zurigo a partire dal
66
1909. Il Festival Internazionale di Lucerna e la sua orchestra composta dai migliori
solisti svizzeri sorgono per la prima volta nel 1938. Seguiranno il Festival de
l’Engadine (1941), il Festival musicale di Montreux, all’interno del quale vedrà la
luce il Premio mondiale del disco di Montreux. E poi ancora Les Semaines musicales
d’Ascona (1946), il Festival di Losanna (1956), il Festival Menuhin di Gstaad (1961),
il Festival di Interlaken, il Festival d’Uster di Zurigo e tantissimi altri.
Il resoconto di quanto avviene nei circoli musicali svizzeri è affidato a riviste
specializzate come la <<Revue Musicale Suisse>> che per 123 anni, dal 1861 al
1983, rifletterà fedelmente l’insieme delle attività musicali in Svizzera. La Svizzera
francese possiede ancora oggi una propria rivista musicale, la <<Revue musicale de
Suisse Romande>> che prosegue l’iniziativa dei <<Feuilles musicales>>, fondati nel
1948 da Pierre Meylan.
All’interno di tale contesto culturale sicuramente più vivace che in passato, si
andarono via via affermando nella Svizzera di inizio secolo nuove generazioni di
compositori, che raggiunsero la notorietà anche all’estero, i cui nomi possono essere
inseriti all’interno di correnti musicali formatesi sulla scia di quanto avveniva, nello
stesso periodo, nel resto d’Europa. Nel XIX secolo la vita musicale in Svizzera era
fortemente influenzata da musicisti tedeschi, che furono rimpiazzati, con l’avvento
del secolo successivo, da generazioni di musicisti svizzeri, formatisi per lo più
all’estero, principalmente nei conservatori francesi e tedeschi.
67
I compositori svizzeri del XIX secolo si era dedicati principalmente alla musica
corale. Sarà con Hans Huber (1852-1921), studente a Lipsia e successivamente
docente, pianista e direttore d’orchestra a Basilea, che la composizione svizzera
comincerà a rivolgersi al ventaglio completo dei generi musicali come la musica da
camera, sinfonica, l’oratorio e l’opera. Il suo stile sarà caratterizzato dalle influenze
romantiche di Schumann, Brahms e Richard Strass. Tra gli altri compositori che,
come Huber, possono essere raggruppati nella corrente del tardo romanticismo,
citiamo Hermann Suter, allievo di Huber, la cui carriera segue, quasi identicamente
l’evoluzione di quella del suo maestro, così come il suo stile compositivo.
Ernest Bloch seguì una via originale studiando a Ginevra, nella sua patria dunque,
con Jacques-Dalcroze, e poi con Ysaye e Ludwig Thuille. Si stabilì successivamente
negli Stati Uniti e creò uno stile nel quale si fondono tardo romanticismo con impulsi
rapsodici e stilemi di tradizione ebraica6.
Othmar Schoeck, formatosi a Zurigo, fu il primo compositore svizzero a godere di
fama e considerazione mondiali. Come lui lo sarà Frank Martin (1890-1974), la cui
produzione artistica è caratterizzata da un’evoluzione lenta e costante che abbraccerà
gran parte degli stili musicali che interessarono la musica del XX secolo. Alcune sue
opere furono legate alle tendenze tardo romantiche proprie dei compositori fin qui
citati, ma la sua produzione andrà ben oltre ed avremo modo di esaminarla meglio nei
successivi paragrafi, visto che Martin compose alcuni brani per chitarra e la sua
6 FRITZ MUGGLER, Musique et vie musicale en Suisse, Imprimerie Moderne de Sion, 1984, pag.12.
68
figura, seppur in via marginale, sarà introdotta tra la schiera dei compositori
segoviani di cui parleremo avanti.
Avremo modo di esaminare meglio anche la figura di Walter Courvoisier, facente
parte, anch’egli, della schiera dei compositori tardo romantici. Nacque a Basilea nel
1875, nel 1902 si recò a Monaco per divenire discepolo di Ludwig Thuille. Alla
morte di questi divenne la figura di spicco della scuola di Monaco. Fu maestro di
Haug e torneremo dunque a parlare di lui nel paragrafo successivo.
I compositori finora citati non si mostrarono molto aperti alle novità musicali, così
come, alla nascita della “nuova musica” negli Anni Venti e Trenta del XX secolo,
non ci furono molti compositori svizzeri pronti a seguire la via aperta da Hindemith o
ad abbracciare l’estetica totalmente nuova della dodecafonia. Al contrario, la messa
in opera di uno stile neo-barocco è propria dei compositori svizzeri, da Willy
Burkhard a Robert Blum, da Paul Müller-Zürich ad Adolf Brunner e Conrad Beck.
Il neo-classicismo con la sua adesione all’equilibrio e alle proporzioni classiche non
fu una vera e propria scuola in Svizzera. Frank Martin ha dedicato una parte
importante della sua produzione artistica a questo stile ed influenzò la produzione del
suo allievo Peter Mieg, in cui la semplicità dello stile classico è ancora più evidente e
più rigorosa che nel suo maestro.
Con Ernst Levy, nato a Basilea, si ha a che fare con un altro tipo di neo-classicismo
che si serve di elementi stilistici tanto medievali che moderni, rielaborati in maniera
69
molto personale. Fu anch’egli uno dei maestri di Haug. Rinviamo una trattazione più
approfondita sul suo conto al prossimo paragrafo.
Molti dei compositori che scrissero secondo lo stile neo-barocco adottarono anche, in
alcune loro opere, lo stile neo-romantico, vale a dire che essi composero nel quadro
dell’estetica romantica e delle sue forme, facendo ricorso all’armonia moderna
propria del sistema tonale. Tra questi compositori ricordiamo Heinrich Sutermeister,
Armin Schibler, Julien-François Zbinden, Robert Blum e Hugo Pfister.
La nuova scuola di Vienna e la dodecafonia non ebbero ripercussioni in Svizzera se
non relativamente tardi. L’allievo di Schöenberg, Alfred Keller, cominciò a comporre
intensamente secondo i canoni dodecafonici solo negli anni cinquanta. Edward
Staemplfi, allievo di Jarnach e Paul Dukas, ricorse sistematicamente al sistema
dodecafonico a partire dal 1949. Egli fu seguito nel 1954 da Albert Moeschinger e nel
1956 da André-François Marescotti. Parallelamente, Vladimir Vogel, nato a Mosca
nel 1896 e stabilitosi in Svizzera nel 1933, si dedicò alla dodecafonia solo a partire
dal 1937, dopo un lungo dibattito interiore. Uno dei suoi allievi, Rolf Liebermann, si
interessò alla dodecafonia solo verso la fine degli Anni Quaranta e, per finire, lo
stesso Willy Burkhard cominciò a prenderci gusto solo poco prima della sua morte.
Se l’adozione dell’idioma dodecafonico in Svizzera fu piuttosto timida, la
composizione d’avanguardia del dopoguerra conobbe un successo ben più rapido
sotto il nome di Stil der neuen Zeit. Forza motrice di questa nuova tendenza furono i
70
corsi di Darmstadt. Tra i compositori che per primi seguirono la strada di tale
avanguardia ci furono Paul Gredinger, pioniere della musica elettronica e seriale;
Jacques Wildberger e Philippe Eichenwald, i quali cominciarono a scrivere musica
seriale all’inizio degli anni cinquanta. Da ricordare ancora i lavori di Costantin
Regamey ed Edward Staempfli.
L’accademia musicale di Basilea ospitò dal 1961 al 1963 tra i suoi insegnanti i nomi
prestigiosi di Boulez, Stockhausen e Pousseur. Visto che la presenza di Paul
Hindemith all’Università di Zurigo tra il 1951 e il 1957 non aveva prodotto gli effetti
attesi, sarà proprio Basilea la città in cui si formeranno la maggior parte dei musicisti
dell’avanguardia degli Anni Sessanta. Tra essi Klaus Huber, Hans Ulrich Lehmann,
Jürg Wittenbach, Heinz Holliger, Rudolf Kelterborn.
Subito dopo Basilea, anche Berna coprì un ruolo importante e stimolante per lo
sviluppo delle nuove tendenze musicali grazie ad una serie di concerti “Neue
Horizonte Bern” organizzati dalla Société Internazionale de Musique Contemporaine
(SIMC) e da Urs Peter Schneider che nel 1968 fondò l’ensemble “Neue Horizonte
Bern” che si dedicò interamente alla musica contemporanea.
Ricapitolando, è possibile osservare che diverse tendenze musicali, ben presenti e
diffuse nel resto d’Europa, non ebbero fortuna in Svizzera. È il caso
dell’impressionismo o delle influenze della musica popolare, in particolare di quella
dell’Est (Bartòk o Stravinsky). Ciò proverebbe una certa indipendenza dello spirito
dei musicisti svizzeri, ma è comunque clamoroso che nemmeno l’opera di Hindemith,
71
che fece letteralmente scuola in Germania, ebbe alcun seguito in Svizzera: tutto a
beneficio, o forse a causa, di tendenze ben più forti, ancorate alla tonalità e ai principi
formali barocchi. Tanto meno l’espressionismo, la nuova scuola di Vienna e la
dodecafonia ebbero riscontro immediato nelle opere dei musicisti svizzeri.
Soltanto a partire dagli Anni Cinquanta e Sessanta, la musica seriale troverà in
Svizzera un terreno abbastanza fertile per svilupparsi e diffondersi, grazie all’opera
delle nuove generazioni dei musicisti d’avanguardia.
Fino ad allora, l’interesse verso le teorie di Schoenberg fu un qualcosa di
assolutamente sporadico. Nel 1934, Frank Martin fece ascoltare il suo primo
Concerto per pianoforte e orchestra, tributo di indiscutibile valore alla tecnica
seriale, ma pur sempre un caso isolato, anche se considerato all’interno della stessa
produzione artistica del suo autore, che all’epoca non aveva ancora raggiunto la
notorietà di cui godrà in seguito. Anche, e forse soprattutto, gli interpreti e gli
organizzatori di concerti, si rivelarono poco attenti, se non completamente diffidenti,
nei confronti della dodecafonia. Bisognerà guardare all’operato di due grandi figure
come Edmond Appia e Costantin Regamey per osservare un concreto contributo per
la diffusione della musica contemporanea nella sale da concerto, in particolare della
Svizzera francese. Il rifiuto da parte delle generazioni dei giovani compositori
svizzeri dei primi decenni del XX secolo nei confronti della dodecafonia non è
comunque da considerarsi casuale o semplicemente frutto di disattenzione, ma è da
considerarsi come un qualcosa di programmatico, che trova radice nell’operato di
72
quei compositori del passato che maggiormente imposero la loro influenza nella
Svizzera di inizio secolo.
Mentre a Parigi, Colonia e Milano nascevano centri di ricerca sonora, che
utilizzavano le più sofisticate apparecchiature elettroacustiche, in Svizzera bisognerà
attendere fino al 1959 per veder nascere un centro simile, a Ginevra, per volontà del
compositore André Zumbach.
Alla luce di quanto detto, va tenuto in debita considerazione il fatto che Haug,
normalmente considerato - dai suoi contemporanei come dai posteri - un
tradizionalista, fece uso delle onde Martenot nell’orchestrazione di alcuni suoi lavori.
III.3. Maestri, amici e colleghi.
Nei due paragrafi precedenti abbiamo avuto modo di verificare quanto fosse
articolato e complesso il panorama musicale nell’Europa e nella Svizzera della prima
metà del XX secolo.
Le notizie biografiche su Haug e la rassegna della sua vasta produzione artistica,
riportate nei primi due capitoli, ci hanno consegnato l’immagine di un compositore
legato alla tradizione, ma allo stesso tempo attento alle molteplici innovazioni
apportante nel campo della composizione e alla nascita di nuovi generi musicali di
consumo, come le colonne sonore dei film. Pensiamo di non far torto ad Haug
considerandolo, inoltre, un compositore dallo “sguardo lieto”, usando un’espressione
73
del suo maestro Ferruccio Busoni: <<Solo chi guarda innanzi ha lo sguardo lieto>>,
tratta dal Faust.
Non è dunque un caso se Paul-André Gaillard, in un suo saggio dal titolo La création
musicale en Suisse romande entre 1950 et 1975, inserito nel volume Tendances et
realisations, pubblicato in occasione del settantacinquesimo anniversario
dell’Association des Musiciens Suisses, riferisce su Haug in un paragrafo intitolato:
La force de la tradition.
La figura di Haug viene inserita da Gaillard tra la folta schiera di musicisti svizzeri
che, al di fuori delle correnti ufficiali, << lavorarono all’edificazione di opere spesso
di notevole valore, ma senza alcuna relazione con lo scompiglio generale provocato
da una sintassi alla ricerca costante di rinnovamento >>7.
In questo paragrafo cercheremo di conoscere meglio i profili biografici ed artistici di
personaggi di notevole spessore, che furono maestri di Haug. Si tratta di Egon Petri,
Ernst Levy, Walter Courvoisier e Ferruccio Busoni. Aggiungiamo a questi la figura
di Roberto Lupi8, con il quale Haug condivideva l’adesione ad un’idea spiritualistica
della musica.
Il nostro scopo è quello di definire con maggior chiarezza i contorni culturali ed
artistici della formazione musicale di Haug, partendo dagli insegnamenti ricevuti da
7 P.-A. GAILLARD, La création musicale en Suisse romande entre 1950 et 1975, in Tendances et réalisations, Zurigo, 1975, pag.215. 8 L’accostamento della figura di Lupi a quella di Haug mi fu suggerito dal M°Angelo Gilardino nel corso di una conversazione telefonica e successivamente confermatami in una corrispondenza via e-mail. Secondo Gilardino, Haug si interessò al trattato Armonia di gravitazione di Lupi, condividendone sia gli spunti teorici che filosofici. Circa l’amicizia tra i due non si dispone di alcuna documentazione, ma – sempre secondo Gilardino – è possibile che essa abbia un'origine nella comune appartenenza ad un ordine iniziatico segreto e di caratura filosofica molto alta (probabilmente Rosacroce).
74
grandi maestri, fino ad arrivare ad un profilo di carattere misteriosofico che ha
influenzato in parte la sua produzione.
In questa foto del 1940 è ritratto Egon Petri ( al centro) con la sua classe al Mills
College di Oakland in California. Il suo nome viene ricordato in funzione delle
numerose generazioni di pianisti che si formarono grazie ai suoi insegnamenti,
diventando poi concertisti di fama internazionale.
Petri nacque ad Hannover il 23 marzo del 1881 da una famiglia tedesca. Il padre era
un violinista professionista ed indirizzò il figlio, ancora in tenera età, verso lo studio
di questo strumento. Ben presto però gli interessi del giovane Egon si orientarono
verso il pianoforte. Egli fu allievo di Ferruccio Busoni, che esercitò a lungo su di lui
una forte influenza focalizzando i suoi studi principalmente su compositori come
Bach e Liszt, le cui opere, assieme a quelle di Busoni stesso, rimasero per molti anni
al centro del repertorio concertistico di Petri. Durante gli anni della Prima guerra
75
mondiale seguì il suo maestro in Svizzera, dove, in qualità di assistente di Busoni
collaborò alla pubblicazione delle opere di Bach trascritte per pianoforte. Fu proprio
in questi anni, precisamente a partire dal 1917, che Haug studiò il pianoforte sotto la
guida di Petri presso il Conservatorio di Basilea.
Nel 1920 Petri insegnò a Berlino e nel 1923 divenne il primo solista non sovietico a
suonare in Unione Sovietica. Nel 1927 si trasferì in Polonia e a partire dal 1929
realizzò numerose incisioni discografiche.
Durante la Seconda guerra mondiale si trasferì negli Stati Uniti, dove insegnò prima
alla Cornell University e successivamente al Mills College di Oakland. Morì a
Berkeley, California, il 27 maggio del 1962.
La sua tecnica pianistica, magistralmente trasmessa a numerosi allievi divenuti
prestigiosi interpreti in tutto il mondo, pone particolare attenzione al superamento
delle difficoltà tecniche legate al virtuosismo pianistico. Fulcro dei suoi insegnamenti
fu la leggerezza muscolare, unica strada perseguibile per l’esecuzione di brani di
notevole difficoltà tecnica senza dover rinunciare alla freschezza delle dinamiche e
del fraseggio.
76
Ernst Levy, ritratto nella foto in alto, fu anch’egli – come Petri, uno dei maestri di
Haug durante gli anni dei primi studi al Conservatorio di Basilea.
Nato il 18 novembre 1895 a Basilea, quindi più giovane di Haug di soli cinque anni,
ricevette la sua prima formazione pianistica proprio da Egon Petri e dal francese
Raoul Pugno. Sentì molto l’influenza del compositore Hans Huber di cui fu prima
allievo e poi assistente proprio al Conservatorio di Basilea a partire dal 1916.
Quattro anni dopo si trasferì a Parigi dove, nel 1928 fondò “le Choeur Philarmonique
de Paris”, la cui direzione gli portò grosse soddisfazioni professionali.
La situazione politica nell’Europa degli anni trenta spinse Levy, di origine ebraica, a
fuggire negli Stati Uniti, dove insegnò in prestigiosi Istituti come New England
Conservatory, Bennington College, University of Chicago, Massachusetts Institute of
Technology, Brooklyn College. Le attività di insegnamento del pianoforte e della
composizione e le sue abilità come direttore di coro e d’orchestra, lo tennero molto
occupato durante gli anni trascorsi negli Stati Uniti. In questo periodo scrisse anche
quindici sinfonie ed una quantità impressionante di musica corale e da camera.
77
Nel 1966 tornò in Svizzera dove morì nel 1981.
Come compositore, il suo linguaggio musicale non è riconducibile a nessuna scuola o
tradizione ben precisa. Egli fu un fermo sostenitore della capacità di sopravvivenza
della tonalità, ciò in opposizione alle tendenze dominanti in quegli anni orientate
verso l’idioma dodecafonico. Egli cercò costantemente nuove prospettive entro i
parametri della musica tonale. Si interessò molto degli studi pitagorici sulla musica e
la simbologia numerica che in essa risiede. Compì delle ricerche che lo indussero a
pubblicare un saggio sulla simbologia numerica presente nelle proporzioni
architettoniche della cattedrale di Chartres, contenuto nel libro The Gothic Cathedral:
Origins of Gothic Architecture and the Medieval Concept of Order, di Otto Georg
Von Simson del 1956. Le sue conclusioni furono che la cattedrale fosse una
deliberata rappresentazione di un ordine cosmico, <<piena di simboli e musicalità>>.
Sia l’attaccamento al sistema tonale che l’interesse verso la numerologia e la mistica
simbologia, presenti nella musica e nell’architettura, sono elementi che accomunano
la figura di Levy a quella del suo antico allievo Hans Haug. Non sappiamo quando i
loro pensieri a riguardo possano essere giunti ad una piena maturità e quanto abbiano
potuto influenzarsi vicendevolmente, visto anche il breve lasso di tempo in cui i due
furono in stretto contatto e la giovane età di entrambi.
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Il compositore svizzero Walter Courvoisier fu maestro di Haug
dal 1921 al 1923 presso la Akademie der Tonkunst di Monaco. Con lui Haug studiò
composizione, orchestrazione e direzione d’orchestra. A lui Haug dedicò il suo primo
Concerto per violino e piccola orchestra del 1924. Le notizie a nostra disposizione su
Courvoisier non sono tante. Sappiamo che nacque a Basilea il 7 febbraio 1875 e che
lì completò i suoi studi umanistici prima e medici poi al punto da lavorare come
assistente chirurgo all’ospedale di Basilea tra il 1900 e il 1902. In quest’anno si recò
a Monaco per dedicarsi agli studi musicali sotto la guida di Ludwig Thuille. Alla
morte di questi divenne la figura di spicco della cosiddetta scuola di Monaco. Il suo
modo di comporre è riconducibile allo stile tardo romantico, quindi ancora legato alle
soluzioni tecniche e formali proprie del sistema tonale. Produsse molta musica
vocale, ma anche musica da camera, pezzi per pianoforte ed opere drammatiche.
Durante gli anni di studio al Conservatorio di Basilea, sotto la guida di Petri e Levy,
Haug si recò a Zurigo per seguire i corsi di Ferruccio Busoni, probabilmente dietro
consiglio dei suoi diretti maestri di Conservatorio, i quali sentivano entrambi la forte
influenza di un caposcuola come Busoni.
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Tra i maestri di Haug, Busoni fu sicuramente il personaggio di maggior prestigio,
colui che lasciò una traccia indelebile nella storia della musica degli inizi del
Novecento. La sua figura va ricordata non solo per l’eccellenza e il virtuosismo delle
sue esecuzioni pianistiche, ma anche per le attività di organizzatore di concerti,
critico musicale, teorico, compositore e filosofo della musica.
Nato il primo aprile 1866 a Empoli da genitori entrambi musicisti, cominciò ad
esibirsi al piano sin dalla tenera età sette anni. A sedici anni, dopo una serie di trionfi
concertistici, la Filarmonica di Bologna lo nominò accademico pianista e gli conferì il
diploma di composizione. Ben presto cominciò un’intensa attività concertistica e
didattica in svariate città europee, seppure la sua dimora stabile era Berlino sin dal
1894. Con lo scoppio della prima guerra mondiale si trovò nella scomoda posizione
di essere troppo legato sia all’Italia che alla Germania, per poter decidere di vivere in
80
uno di questi due Paesi. Per questo nel 1915 si stabilì nella neutrale Svizzera, per la
precisione a Zurigo, dove rimase fino al 1920.
La formazione musicale di Busoni si svolse inizialmente sotto il segno di Bach e
Mozart, aprendosi in seguito all’esperienza dei romantici tedeschi, in particolar modo
a quella di Liszt. Il legame più forte rimase però con la figura di Bach a tal punto che
Busoni stesso arrivò a sentirsi come una reincarnazione dello spirito di Bach. Questo
istintivo riconoscersi in Bach è testimonianza della sua tendenza verso quello che egli
stesso definirà in età matura col termine junge Klassizität (“nuova classicità”). Ciò
non ha però nulla a che vedere con il concetto di neoclassicismo così come può essere
accostato alle esperienze musicali di Hindemith o Stravinskij. Busoni definisce il
concetto di “Nuova classicità” in uno scritto del 1920 indirizzato a Paul Bekker: <<
Per Nuova classicità intendo il dominio, il vaglio e lo sfruttamento di tutte le
conquiste di esperienze precedenti: il racchiuderle in forme solide e belle.>>9 Ancora
tornò sull’argomento in una lettera del 1921 indirizzata al figlio: << La mia idea (o
piuttosto sensazione, necessità personale più che stabile principio) è che la nuova
classicità significhi compiutezza in duplice senso: come perfezione e come
compimento. Conclusione di tentativi precedenti.>> 9
Guardare al passato significava per Busoni avere delle basi solide su cui costruire una
nuova teoria della musica. Egli si manifestò particolarmente attento a tutte le nuove
tendenze musicali che si andavano affermando in quegli anni, ma ostentava una certa
9 F. BUSONI, <<Nuova classicità>> in Lo sguardo lieto: tutti gli scritti sulla musica e le arti, a cura di F. D’Amico, Il Saggiatore, Milano, 1977, pag. 113.
81
diffidenza nei confronti di coloro che si dimenticavano completamente di ciò che la
musica era stata i passato.
Questo guardare al futuro in maniera, per così dire, “prudente”, non impedì a Busoni
di teorizzare una nuova teoria della musica che compie un ampio percorso, sia dal
punto di vista cronologico che da quello degli argomenti trattati. Per molti anni
Busoni teorizzò innovazioni in campo musicale che però non trovarono riscontro
immediato nella pratica compositiva. Nella sua Relazione sui terzi di tono, scritta a
Berlino il 27 giugno 1922, affermava: <<Sono passati circa sedici anni da quando
fissai teoricamente il principio di un possibile sistema basato sui terzi di tono e fino
ad oggi non mi sono deciso ad annunciarlo definitivamente. Perché? Perché il
compito di porne le prime basi mi addossa una responsabilità di cu mi rendo ben
conto.>>10 La possibilità di suddividere l’ottava in intervalli diversi dal semitono fu
un principio già ben delineato in Entwurtf einer neuen Ästhetik der Tonkunst
(Abbozzo di una nuova estetica della musica) del 1906: << Ho tentato tutte le
possibilità di graduazione della successione delle sette note, e mi è riuscito di fissare
113 scale diverse abbassando e innalzando gli intervalli.>>11
L’utilizzo di queste 113 scale e la possibilità di trasposizione o mescolanza tra di esse
offre un universo immenso e inesplorato per il compositore, dal quale attingere nuovo
materiale musicale sia per la costruzione armonica che per quella melodica. Dal
10 F. BUSONI, Relazione sui terzi di tono in Lo sguardo lieto: tutti gli scritti sulla musica e le arti, a cura di F. D’Amico, Il Saggiatore, Milano, 1977, pag. 131. 11 F. BUSONI, Entwurtf einer neuen Ästhetik der Tonkunst in Lo sguardo lieto: tutti gli scritti sulla musica e le arti, a cura di F. D’Amico, Il Saggiatore, Milano, 1977, pag.65.
82
punto di vista dell’armonia, l’utilizzo delle 113 scale individuate è, per Busoni, solo
una delle possibili strade perseguibili. Ne La nuova teoria dell’armonia del 1911,
indica come altre strade possibili: l’inversione simmetrica delle successioni
armoniche suggerita da Bernhard Ziehn; la condotta indipendente delle voci nella
composizione polifonica (Busoni riferisce dell’esperimento fatto costruendo un
episodio di fuga a cinque voci, in cui ogni voce è scritta in una tonalità diversa, sì che
l’insieme produca nuove successioni di accordi); altra strada possibile è l’anarchia,
ossia l’accostare e sovrapporre intervalli arbitrariamente, secondo l’umore e il gusto
(in questo caso Busoni polemizza con Schoenberg affermando che egli prova a fare
una cosa simile cominciando però a muoversi in un circolo chiuso).
Esperimenti e riflessioni in ambito armonico non allontanarono però Busoni dal suo
incommensurabile amore per la melodia; amore testimoniato dal suo scritto Alla
melodia l’avvenire nel quale riporta la frase emblematica di Salomon Jadassohn (suo
maestro a Lipsia nel 1886): << Al comporre bisognano tre cose, prima la melodia, poi
ancora la melodia, la terza volta infine, la melodia.>>12
Il pensiero complessivo di Busoni sulla musica è davvero un universo ricco di
riflessioni originali, talvolta geniali, dotato di una lucidità lungimirante ed eclettismo
rari. Fu un serbatoio di idee dal quale molte generazioni di musicisti attinsero nei
decenni successivi.
Ci risulta difficile pensare che Haug, allievo diretto di Busoni a Zurigo, ed
indirettamente ad egli collegato per i suoi studi con Petri a Basilea, possa essere 12 F. BUSONI, Alla melodia l’avvenire in Lo sguardo lieto: tutti gli scritti sulla musica e le arti, a cura di F. D’Amico, Il Saggiatore, Milano, 1977, pag 92.
83
rimasto indifferente a cotanto sapere. Il legame di Haug alla tradizione e,
contemporaneamente, l’attenzione rivolta ad un sistema musicale non temperato
manifestata nell’opera Orphée, sono una testimonianza del legame tra Haug e il
pensiero di Busoni. Altra prova di tale legame è la scelta degli strumenti che Haug fa
nell’orchestrazione delle proprie composizioni teatrali e orchestrali. Haug sembra
obbedire fedelmente alle intuizioni profetiche di Busoni, riportate nel suo scritto
L’insufficienza dei mezzi d’espressione musicale13, nel quale si auspica un uso più
frequente di certi strumenti ancora poco diffusi e l’invenzione di nuovi strumenti che
meglio rispondano alle necessità timbriche ed intervallari di una nuova musica.
Terminata questa nostra rapida carrellata sui musicisti che furono maestri di Haug,
potremmo ora soffermarci nell’esaminare le personalità musicali, conterranee e non,
con le quali Haug entrò in contatto e che esercitarono un certo tipo di influenza sulla
sua concezione della musica e sulla sua prassi compositiva. Ma, così facendo,
rischieremmo di allontanarci davvero troppo dall’oggetto principale del nostro
lavoro, che era e rimane la musica di Haug.
Di tutti i musicisti, amici, o collaboratori di Haug in diverse circostanze, vorremmo
ricordare solo la figura di Roberto Lupi.
13 F. BUSONI, L’insufficienza dei mezzi d’espressione musicale in Lo sguardo lieto: tutti gli scritti sulla musica e le arti, a cura di F. D’Amico, Il Saggiatore, Milano, 1977, pag 29.
84
L’importanza di questo personaggio nella vita e carriera di Haug ci è stata segnalata
dal chitarrista e musicologo Angelo Giardino, docente di chitarra, curatore di alcune
collane editoriali di musica per chitarra e responsabile artistico della Fondazione
Segovia di Linares14.
Una componente spirituale di indubbia matrice steineriana traspare dagli scritti di
Lupi, in particolar modo ne Il libro segreto di un musicista: questo testo è da
considerarsi come un vero e proprio testamento spirituale, se si tiene conto che la
prefazione a cura dell’autore porta la data dell’11 marzo 1971, poco più di un mese
prima della scomparsa dell’autore. La concezione della musica da parte di Haug ha
subìto indubbiamente il fascino delle posizioni originali e altisonanti di Lupi.
L’elemento spirituale è percepibile senza alcun dubbio in opere significative della
produzione scenica di Haug, ma occhi particolarmente attenti ed inclini ad approcci
analitici più “fantasiosi” potrebbero cogliere un ampio campionario della simbologia
massonica anche nella produzione strumentale di Haug. 14 Cfr. nota 8 pag.74.
85
Fatta salva la nostra convinzione che il valore di un’opera, che sia essa vocale o
strumentale, resti inalterato alla presenza o meno di un codice simbolico intrinseco, è
a nostro avviso doveroso conoscere, seppur superficialmente, il pensiero che vi sta
dietro. Il Flauto magico di Mozart resta un’opera di indiscusso valore artistico, lo è
per un orecchio educato quanto per uno “profano”. Sapere che quest’opera contiene
dei chiari richiami alla simbologia della ritualità massonica e alla spiritualità da essa
derivante può essere interessante solo dal punto di vista storiografico o musicologico,
non certo dal punto di vista della fruizione artistica.
È dunque per dovere di cronaca storiografica che riportiamo in questa sede alcune
notizie riguardanti la figura di Roberto Lupi, la sua filosofia e le sue teorie più
strettamente tecniche: aspetti che entrano, a più livelli, in contatto con la figura di
Haug.
Nato a Milano il 28 novembre 1908, Lupi conseguì presso il Conservatorio della sua
città natale i diplomi di pianoforte (1927), violoncello (1928) e composizione (1934).
Nel 1937 vinse la Prima Rassegna per Direttori d’Orchestra e nel 1950 il <<Prix de
Rome>> con la cantata Orpheus. Insegnò composizione al Conservatorio
“Cherubini” di Firenze a partire dal 1941 e nel 1944 fu per breve tempo direttore
artistico dell’Academia di S.Cecilia di Roma. Diresse le principali orchestre
sinfoniche italiane, nonché la prima esecuzione in Italia della Quinta Sinfonia di
Anton Bruckner. Lupi racchiude nella sua personalità il duplice aspetto di musicista
impegnato, d’azione, attivo sotto diversi aspetti nel mondo musicale; e di teorico,
pensatore sempre disposto ad attività di carattere speculativo o addirittura
86
contemplativo. Non disdegnò nessuna delle tecniche di composizione emerse nel XX
secolo, pur senza aderire pienamente a nessuna di esse. Cercò di adattarle tutte ad un
sistema unitario, che egli stesso teorizzò nel suo trattato Armonia di Gravitazione
(1946), al quale fornisce delle motivazioni per lo più teoretiche ed extramusicali.
Partendo dall’osservazione degli armonici naturali, Lupi arriva a definire leggi di
attrazione armonica concludendo che: <<gli aloni15 che possono avere relazioni
“per attrazione” col mondo armonico della nota Do (nota attrattiva o nota tonale)
sono quattro e precisamente quelli che contano, fra gli armonici da cui sono formati,
uno o più Do; e che l’attrazione dell’alone di Do è tanto più forte quanto più questo
(o questi) Do è ( o sono) vicino alla sua fondamentale e più ripetuto. Gli aloni attratti
saranno detti di gravitazione e le loro fondamentali, fondamentali di
gravitazione.>>16 La teoria proposta da Lupi ha il pregio di fornire nuovo materiale
armonico e melodico al quale il compositore può attingere. Forse la parte più debole
si riscontra proprio nella fase di giustificazione teorica con la quale Lupi rischia di
cadere in contraddizioni che rischiano di offuscare l’intuizione più genuina, frutto
della vasta esperienza dell’autore e del suo raffinato orecchio.
Procedendo logicamente sulla base del fenomeno naturale degli armonici, Lupi
definisce nel suo breve trattato armonie naturali, di inversione, di riflesso, si
sofferma sulla sensazione di maggiore e minore e termina con la formulazione di una
scala bimodale ( in quanto contiene in sé le sensazioni sia di maggiore che di minore)
e di una scala pentedecafonica, genitrice di un cromatismo tonale.
15 insieme delle prime dieci armoniche costitutive di un suono. 16 R. LUPI, Armonia di gravitazione, De Santis, Roma, 1946, pag. 8.
87
A differenza di quanto avviene con la regola dell’ottava in cui la scala governa
l’armonia, per Lupi la scala ha un valore puramente melodico ed ha la sua ragione
d’essere nelle armonie di gravitazione: << … basterà avvicinare per gradi congiunti
le note fondamentali di gravitazione naturale e di inversione di un’atmosfera o, il che
equivale, i primi dieci armonici di una nota tonale e le note date dal capovolgimento
degli intervalli degli stessi armonici, per ottenere la scala che ci servirà da materiale
di ricamo del melos sulla nostra rete armonica.>>17 Su ogni grado di questa scala sarà
possibile costruire una scala bimodale e tutte saranno in relazione con l’atmosfera
della fondamentale della scala bimodale progenitrice, in quanto conterranno la nota
fondamentale stessa. Dal punto di vista intervallare queste scale bimodali presentano
il semitono tra il terzo e quarto e tra il quinto e sesto grado. Conservano la stessa
struttura sia in senso ascendente che discendente e contengono in se sia la sensazione
del maggiore che del minore. <<Se una scala non è che la rappresentazione melodica
delle armonie di una tonalità, il riavvicinamento per gradi congiunti delle note delle
diverse scale dell’atmosfera di do ci darà un’altra scala (cromatica questa) di quindici
suoni (pentedecafonica) che sarà la rappresentazione melodica di tutta l’atmosfera di
do, e che avrà quindi quale nota tonale il do; dunque una scala cromatica tonale
(cromatismo tonale).>>18
Di notevole interesse è anche l’altro scritto teorico, pubblicato a Firenze nello stesso
anno della morte dell’autore, avvenuta a Basilea il 17 aprile 1971: Il libro segreto di
un musicista. La prefazione, scritta dall’autore il mese precedente la sua morte,
17 R. LUPI, Armonia di gravitazione, De Santis, Roma, 1946, pag. 27. 18 R. LUPI, Armonia di gravitazione, De Santis, Roma, 1946, pag. 28.
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assume i toni di un testamento spirituale: <<… con questo scritto si vorrebbe
ricordare – soprattutto ai giovani di oggi – quali siano i reali veri scopi della musica
nel mondo. E se nel titolo di questa breve opera si accenna a un “segreto”, ciò è solo
in quanto il contenuto di cui tratta non viene generalmente conosciuto né ricercato
dalla maggior parte degli studiosi e dei musicisti del nostro tempo. Ma è bene che si
sappia che questo modo di conoscere le verità appartenenti all’universo, al mondo,
all’uomo, e quindi alla musica, dovrà sempre più diventare in avvenire chiaro e
palese per la vera cultura del mondo.>>19 L’elemento mistico e spirituale proprio del
pensiero di Rudolf Steiner è alla base delle osservazioni proposte da Lupi in questo
scritto. L’uomo è visto come un luogo di incontro tra energie cosmiche e terrestri,
che, sintetizzandosi nell’anima dell’uomo, si trasformano in musica. Pur senza
allontanarsi mai dalla componente mistica delle sue riflessioni, Lupi trova il modo,
tra le pagine di questo suo testamento spirituale, di fornirci anche gli ultimi
aggiornamenti sul suo rapporto con le sperimentazioni musicali fatte dai suoi
contemporanei e sulla propria estetica della musica. Lupi condanna fortemente la
musica contemporanea, e in particolar modo quella elettronica, in cui la ricerca
timbrica appare fine a sé stessa. <<La musica prodotta da apparecchiature
elettroniche è completamente avulsa dalla realtà musicale. È menzogna che uccide le
possibilità di sguardo verso il futuro, poiché il ritmo, che è proiezione verso il futuro
e attività di amore, viene in tal modo completamente eliminato.>>20
19 R. LUPI, prefazione a Il libro segreto di un musicista, Centro Internazionale del Libro, Firenze, 1971. 20 R. LUPI, Il libro segreto di un musicista, Centro Internazionale del Libro, Firenze, 1971, pp. 55-56.
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<<Il suono sinusoidale, il suono bianco e il suono del computer, sono la beffa di forze
occulte per illudere l’uomo sui futuri misteri della musica… si tratta di un suono
senza ottave proprie, cioè privo di un passato e di un futuro, cancellatore di possibili
sviluppi spirituali, cancellatore dell’attiva coscienza dell’Io, annullatore della
coscienza del ripetersi della vita.>>21 In fine Lupi critica aspramente tutti quegli
organizzatori di eventi musicali che, per la ricerca impenitente dell’effetto
sbalorditivo e dell’originale anticonformista, propongono “pagliacciate di ogni
genere”. <<Ciò che oggi viene chiamato “libertà d’azione”, nel campo artistico non è
altro che impulso privo di senso e di linguaggio.>>22
Concludo questa sezione dedicata a Roberto Lupi citando le parole conclusive de Il
libro segreto di un musicista, parole che assumono ancor più peso emotivo se
consideriamo che furono scritte poco prima della scomparsa dell’autore: << Possa
l’uomo cosciente, respirare con il pensiero rivolto a un avvenimento della nostra
interiorità che è: morte e rinascita – come è morte e rinascita il convibrare del nostro
essere fra un suono che muore e un suono che nasce.>>23
21 R. LUPI, Il libro segreto di un musicista, Centro Internazionale del Libro, Firenze, 1971, pag. 66. 22 R. LUPI, Il libro segreto di un musicista, Centro Internazionale del Libro, Firenze, 1971, pag. 67. 23 R. LUPI, Il libro segreto di un musicista, Centro Internazionale del Libro, Firenze, 1971, pag. 104.
90
III.4. Alcuni autori segoviani.
Il nostro percorso di avvicinamento al nucleo centrale della nostra analisi – ossia la
musica per chitarra di Hans Haug – volge al termine. Partendo dalla situazione
generale della musica nell’Europa, e più nel dettaglio nella Svizzera, della prima
metà del Novecento, siamo giunti a conoscere eminenti musicisti che, in qualità di
maestri o amici di Haug, ne condizionarono in qualche modo la formazione.
Nell’avvicinarci sempre di più alla musica per chitarra di Haug, che affronteremo nel
prossimo capitolo, esamineremo adesso la figura di Andrés Segovia, il più illustre
chitarrista del XX secolo, e di alcuni compositori, che, come Haug, dedicarono la
maggior parte dei loro lavori per chitarra al grande chitarrista spagnolo.
Nato a Linares il 17 marzo 1893, Segovia non ricevette alcun tipo di sostegno
didattico nella sua formazione chitarristica. Nonostante ciò, già nella prima
giovinezza, fu in grado di presentarsi in pubblico come abile concertista. A questo
91
punto cercò qualche contatto con allievi di Tarrega onde perfezionare la propria
formazione, ma dovette scontrarsi contro un muro di indifferenza ed ostilità nei
confronti del suo modo “rivoluzionario” di suonare lo strumento. Infatti, la scuola di
Tarrega basava la sua tecnica chitarristica su un tipo di attacco delle corde con i
polpastrelli delle dita della mano destra; Segovia, invece, attaccava le corde con le
unghie, una vera e propria eresia per i devoti di Tarrega.
Segovia ebbe due brillanti intuizioni, corredate dalle capacità di concretizzazione,
dettate da un comune obiettivo: far entrare la chitarra nei circuiti musicali ufficiali e
più prestigiosi della musica colta. Tali intuizioni furono: quella di esibirsi
principalmente in concerti organizzati da circoli musicali di prestigio, in rassegne
concertistiche non prettamente chitarristiche; e quella di coinvolgere, nell’opera di
ampliamento del repertorio chitarristico, compositori non chitarristi e che avevano già
dato prova del loro valore scrivendo musica per altri strumenti.
L’occasione per divincolare la chitarra dai circuiti concertistici esclusivamente
chitarristici si presentò a Segovia nel 1920, quando, grazie al violoncellista Gaspar
Cassadò, entrò in contatto con l’impresario madrileno Ernesto de Quesada, il quale,
impressionato dal virtuosismo del giovane chitarrista, gli organizzò un’importante
tounée in Spagna e Argentina.
Sempre il 1920 è un anno fondamentale anche per quanto riguarda la possibilità da
parte di Segovia di chiedere a compositori prestigiosi di scrivere per chitarra anche se
non sono a conoscenza della tecnica strumentale. Sarà infatti Segovia stesso ad
apportare alle opere i dovuti aggiustamenti in fase di revisione e diteggiatura.
92
Man mano che la fama del chitarrista spagnolo cresceva, diventavano sempre più
numerosi i compositori che si interessarono alla chitarra a tal punto che il prestigioso
concertista non sempre riuscì ad eseguire tutti i brani che per lui venivano scritti. Tali
brani andarono ad incrementare il mastodontico corpus di spartiti che oggi
costituiscono un Fondo musicale, gestito dalla Fondazione Segovia di Linares, che
rappresenta un vero e proprio universo ancora da esplorare e dal quale emergono
continuamente brani inediti che Segovia aveva gelosamente conservato. È il caso di
due brani recentemente pubblicati dalla Bèrben, a cura di Angelo Giardino, scritti da
Haug e presentati all’attenzione di Segovia, un’attenzione che però fu talmente
scarsa, che solo oggi si viene a conoscenza di questi due pezzi: Ètude (rondo
fantastico) e Passacaglia, di cui riferiremo nel prossimo capitolo.
Accanto alla frenetica attività di concertista e “pungolatore” di compositori, Segovia
svolse un importante ruolo come didatta. Nei suoi corsi tenuti in tutto il mondo (tra
cui ricordiamo i più prestigiosi e duraturi di Santiago de Compostela e della
Accademia Chigiana di Siena) si formò una folta schiera di chitarristi che ancora oggi
rappresenta il fior fiore del concertismo internazionale. Pur non avendo lasciato alcun
metodo per chitarra, Segovia riuscì a dar vita ad una vera e propria scuola
chitarristica. Quando gli si chiedeva sul perché non avesse pensato a scrivere un
metodo didattico da consegnare ai posteri, rispondeva che i suoi allievi avrebbero
potuto ascoltare i suoi dischi al fine di ricostruire la sua estetica dello strumento: un
procedimento sicuramente poco ortodosso dal punto di vista pedagogico, ma che, con
senno di poi, sembra aver prodotto comunque dei risultati significativi. Proprio a
93
Siena e a Santiago de Compostela Haug e Segovia entrarono in diretto contatto: a
Siena Haug partecipò al concorso di composizione, di cui Segovia era commissario e
che Haug vinse col concertino per chitarra e orchestra; a Santiago fu invece Segovia
ad invitare, anni dopo, Haug a tenere dei corsi di composizione nel periodo estivo.
Tornando al rapporto di Segovia con i compositori, va riferito circa le caratteristiche
del nuovo repertorio che si andò formando a seguito di questa attività e che a buon
ragione è oggi definito dagli storici col termine di “repertorio segoviano”.
Tale repertorio si colloca nel periodo tra le due guerre.
Nel vasto panorama delle avanguardie storiche delineatosi agli inizi del XX secolo è
possibile sottolineare due grandi correnti predominanti: quella, basata sulla scala
cromatica, dell’espressionismo viennese, evolutasi nella dodecafonia e nel successivo
serialismo della scuola di Darmstadt; e quella francese, basata sul diatonismo,
sull’esatonalità e formatasi nell’ambito dell’impressionismo, del post-impressionismo
e del simbolismo. Tra queste due correnti la chitarra si collocava in una sorta di
equidistante privilegio, e avrebbe potuto cogliere frutti copiosi nell’uno e nell’altro
campo.
<< Le scelte di Segovia determinarono invece il prevalere di una tendenza secondaria
e periferica della musica moderna, quella che, movendo da presupposti culturali di
tipo nazionalistico ( la “Hispanidad” dei vari Turina, Torroba, Ponce, l’italianità di
Castelnuovo-Tedesco), si aggiornava in un contatto con la musica francese, più o
meno propriamente detta impressionista, cioè le composizioni di Debussy, Ravel, e
altri. Si trattò di un colorito connubio tra elementi ritmico-melodici
94
inconfondibilmente segnati da tratti nazionali o regionali – sia popolareschi che
aristocratici – ed elementi armonici, timbrici e formali per i quali l’attributo
“francese” non deve essere inteso nazionalisticamente, ma piuttosto nel senso di un
“genere” di musica. Tale genere ammirava i propri modelli in alcuni pezzi di
Debussy e toccava i propri vertici nel capolavoro della maturità di Isaac Albéniz (il
ciclo dei 12 pezzi per pianoforte intitolati Iberia), nella produzione di De Falla fino al
1922 e in alcune tra le composizioni orchestrali e pianistiche di Ravel. In quell’orbita,
fu composta una certa quantità di musica da parte di autori secondari, tra i quali gli
artefici del repertorio chitarristico segoviano>>.24
Tali peculiarità di carattere estetico della musica prediletta da Segovia nei suoi
concerti furono difese tenacemente, sia dal chitarrista spagnolo che da i suoi fidati
compositori e allievi, al punto tale da arrivare a sostenere una posizione di aspra
polemica nei confronti dei tentativi di innovazione del repertorio chitarristico che
cominciarono a manifestarsi negli Anni Settanta. Nella nota introduttiva al “Primo
concorso internazionale di composizione chitarristica Mario Castelnuovo-Tedesco”,
scritta da Segovia a Chicago l’11 febbraio 1972 e pubblicata nel bando di concorso,
egli condanna in maniera piuttosto esplicita l’altra musica per chitarra, per intenderci,
quella che obbedisce alle più innovative scuole di composizione che andavano
affacciandosi nel mondo musicale non chitarristico: <<Quando si saranno dissolti i
nuvoloni con cui l’impotenza creatrice di oggi copre le belle forme della Verità
24 ANGELO GILARDINO, Manuale di storia della chitarra vol.2° - La chitarra moderna e contemporanea, Bèrben, Ancona 1988, pag. 38.
95
Artistica, il nome di Mario Castelnuovo-Tedesco risplenderà con maggiore fulgore. E
i suoi ricchi riflessi illumineranno per sempre la chitarra. >>25
A tal punto scaturisce quasi spontanea un’imbarazzante osservazione.
L’atteggiamento di Segovia di voler difendere e promuovere a tutti i costi un solo
tipo di musica per chitarra sembra essere un po’ quello del cane che si morde la coda.
Segovia lottò tenacemente per sottrarre la chitarra all’alone settario che la circondava
e consegnarla ai circuiti musicali ufficiali. È grazie a lui se furono aperte cattedre di
chitarra nei Conservatori, se il repertorio ha subito un arricchimento notevole, se
furono organizzati concerti per chitarra nei teatri e sale da concerto precedentemente
riservati a strumenti più “colti” e prestigiosi come il pianoforte o il violino. Il voler
accettare un solo modo di scrivere per chitarra, a tal punto che oggi si è arrivati a
parlare di repertorio segoviano, ha significato però relegare nuovamente la chitarra in
un circuito chiuso, situazione aggravata dall’atteggiamento miope di molti allievi di
Segovia, che – un po’ come facevano a suo tempo i discepoli di Tarrega – hanno
preso alla lettera gli insegnamenti del loro maestro, chiudendo le porte ad altri
possibili sviluppi. È verosimile immaginare che la rigidità di Segovia nello scegliere i
pezzi da inserire nel proprio repertorio abbia in qualche modo influenzato anche le
intenzioni creative dei compositori che scrivevano per lui, i quali si vedevano limitati
nella possibilità di seguire strade nuove, al passo con i tempi, nello scrivere musica
per chitarra. È il caso dello stesso Haug. Avremo modo di notare nel prossimo
25 ANGELO GILARDINO, Manuale di storia della chitarra vol.2° - La chitarra moderna e contemporanea, Bèrben, Ancona 1988, pag. 39.
96
capitolo, la sostanziale differenza di stile tra i pezzi che Haug scrisse per Segovia e
quelli che, come il Capriccio per chitarra e flauto, furono scritti per altri chitarristi.
I compositori segoviani furono numerosi e provenienti da diverse nazioni. Tra gli
spagnoli ricordiamo Joaquin Turina, Joan Manén, Federico Moreno-Torroba,
Federico Mompou, Vicente Asencio e l’illustre Joaquin Rodrigo. Di particolare
rilievo, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo è la produzione chitarristica
del messicano Manuel Maria Ponce. Esaminare in rassegna i profili di tutti i
compositori che scrissero per chitarra, ispirati dalla figura di Segovia, sarebbe
un’impresa enciclopedica. Ci soffermeremo pertanto solo su compositori che, per la
vastità e varietà della loro produzione per e con chitarra, meglio si prestano ad un
lavoro di analisi comparativa con l’opera di Haug. Per la precisione ci occuperemo di
due compositori riconosciuti unanimemente tra i maggiori autori segoviani:
Alexandre Tansman e Mario Castelnuovo-Tedesco. Gli altri compositori di cui ci
occuperemo sono colleghi conterranei di Haug. La produzione chitarristica di questi
non è certo paragonabile a quella di Tansman e Castelnuovo-Tedesco, ma attira la
nostra attenzione perché ci induce nella tentazione di parlare, non senza correre
qualche rischio, di una vera e propria “corrente svizzera” di compositori attenti alla
chitarra. Ci occuperemo nello specifico di Frank Martin ed Henri Gagnebin.
97
Alexandre Tansman (Lodz, 1897 – Parigi, 1986), ritratto nella foto sopra, fu un
compositore, pianista e direttore d’orchestra polacco, naturalizzato francese. Ricevuta
la prima formazione musicale nella città natale, si trasferì a Parigi nel 1919, ove
strinse amicizia con Ravel e conobbe Milhaud e Honegger. Dal 1941 al 1946 visse
con la famiglia a Hollywood, componendo musica per film e dando concerti. Alla
fine della seconda guerra mondiale, fece ritorno in Francia e riprese l’attività
concertistica per tutta l’Europa. Musicista dal carattere versatile si formò nello stile
impressionista francese giungendo più tardi, attraverso sofferte esperienze, alle soglie
del neoclassicismo strvinskiano; non mancano nelle sue opere influssi folklorici della
sua terra d’origine e precisi riferimenti a Chopin. Raccolse i maggiori successi come
compositore proprio grazie alla sua musica per chitarra, nella quale emerge in
maniera più evidente che altrove la sua anima polacca, elementi folklorici si fondono
ad un’ispirazione di matrice impressionista di stampo raveliano comune anche a
Turina, Ponce o Castelnuovo-Tedesco: ciò spiega l’interesse di Segovia per la musica
di quest’autore che, per il suo lato stravinskiano, ben poco lo avrebbe attratto. Fu
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proprio Segovia a premiare la Cavatina per chitarra di Tansman al concorso di
composizione dell’Accademia Chigiana di Siena, relativamente alla sezione delle
opere per chitarra sola, lo stesso anno in cui Haug vinceva col suo Concertino per
chitarra e piccola orchestra nella sezione di musica da camera (1951).
Eccetto alcuni lavori per chitarra e orchestra, l’interesse di Tansman per la chitarra si
concretizzò esclusivamente attraverso lavori solistici. Il primo pezzo per chitarra è
una Mazurka del 1926. A differenza degli altri autori segoviani, Tansman non
comporrà altro durante il periodo tra le due guerre, ad eccezione della Cavatina,
scritta, per il concorso già citato, nel 1950, e composta da quattro movimenti ai quali
farà seguito una Danza Pomposa, che Segovia utilizzerà nei suoi concerti come brano
conclusivo della suite. Così come nella Cavatina emerge lo spirito veneziano del
versatile Tansman, la Suite in modo polonico (1962) evidenzia il legame del
compositore con la sua terra d’origine, cosa che avviene anche in brani successivi,
pubblicati da Max Eschig nel 1972, come Hommage à Chopin, Variations sur un
thème de Scriabine e Hommage à Lech Walesa. Tra glia altri brani meno conosciuti
per chitarra sola, ne ricordiamo tre del 1953: Canzonetta (Rêverie), Alla polacca e
Berceuse d’Orient (Kolysanka).
Come Tansman, anche Mario Castelnuovo-Tedesco si trasferì negli Stati Uniti con
lo scoppio della seconda guerra mondiale e trovò sostentamento nella composizione
di musica per film. L’aver composto musica per la celluloide accomuna anche Haug a
Tansman e Castelnuovo-Tedesco e tutti e tre si distinsero per il carattere versatile
99
della loro arte. Il nostro interesse per Castelnuovo-Tedesco è dettato dal fatto che
produsse una quantità impressionante di musica per chitarra, non solo come
strumento solista. Anzi, sarà proprio la produzione di musica da camera con chitarra
che attirerà maggiormente la nostra attenzione, perché – come Haug, anzi
sicuramente più di lui – Castelnuovo-Tedesco andrà alla scoperta di abbinamenti ben
riusciti tra la chitarra ed altri strumenti.
Nato a Firenze il 3 aprile 1895, Castelnuovo-Tedesco studiò composizione con
Pizzetti e svolse un’intensa attività di compositore, saggista e critico sulle maggiori
riviste musicali italiane nel periodo tra le due guerre. Nel 1939 fu costretto ad
abbandonare l’Italia e rifugiarsi negli Stati Uniti, a Beverly Hills dove morì il 17
marzo del 1968, per sfuggire alle persecuzioni antisemite. Il suo stile, carico di
“simpatie” debussyane e in aperto contrasto con la dodecafonia di Schönberg,
piaceva tanto a Segovia, come abbiamo già avuto modo di sottolineare. Castelnuovo-
Tedesco tentò una sola volta la strada della dodecafonia col brano Si sabra mas el
discìpulo. I suoi brani per chitarra gli comportarono un successo indiscusso. Pur non
100
suonando la chitarra, egli amerà a tal punto tale strumento da preferirlo spesso al suo
primo amore: il pianoforte. L’incontro con Segovia avvenne a Venezia nel 1932 e
portò alla composizione delle Variations à travers les siècles. Dal 1932 al 1939, la
sua musica per chitarra fu caratterizzata da evidenti e marcati tratti di “italianità”,
ossia una predilezione spiccata per melodie cantabili e riproposizioni di aspetti
stilistici e formali cari ai maestri italiani dal Settecento a Puccini. A questo periodo
risalgono i brani per chitarra sola Sonata (omaggio a Boccherini) del 1934, Capriccio
diabolico (omaggio Paganini) del 1935, Tarantella del 1936 fino ad arrivare al
Concerto in re maggiore op.99 per chitarra e orchestra, composto nel 1939, alla
vigilia della partenza verso l’esilio statunitense. L’unica composizione con chitarra
scritta nel periodo bellico è la Serenade del 1943, brano per chitarra e orchestra in
cui, ridimensionate le proprie ambizioni solistiche, la chitarra dialoga con archi e fiati
in un tono più disinvolto e confidenziale. Il vasto e vario catalogo chitarristico di
Castelnuovo-Tedesco comprende altri brani per chitarra sola, tra cui spiccano i 24
caprichos de Goya del 1961, e numerosi lavori di musica da camera con chitarra. Si
va dal Quintetto per chitarra e archi del 1950 al Romancero gitano per chitarra e coro
del 1951, fino al secondo Concerto per chitarra e orchestra del 1953. Per due chitarre
compose nel 1962 un ciclo di 24 preludi e fughe intitolato Les guitares bien
temperées ed ancora la conosciuta Sonatina canonica. Ancora, tra la musica da
camera, incontriamo una Fantasia per chitarra e pianoforte (1950), l’ Ecloghe per
chitarra, flauto e corno inglese del 1968, la Sonatina per chitarra e flauto del 1965:
tutti brani - e ne mancano certamente tanti all’appello per poter completare
101
l’immenso catalogo chitarristico del compositore – destinati a lasciare il segno nella
storia della musica e, in particolar modo, in quella della chitarra.
La scelta di Castelnuovo-Tedesco di isolarsi dalle nuove tendenze che la musica -
europea in particolare - andava sperimentando, fu causa di un’aspra squalifica da
parte degli esponenti della nuova musica e di una conseguente emarginazione e
diffidenza dalla quale solo negli ultimi anni la musica di Castelnuovo-Tedesco si sta
liberando, tenendo fede alle profezie di Segovia.
Sorti di certo differenti toccarono alla figura di Frank Martin. Egli si cimentò solo
una volta nel comporre musica per chitarra, dando vita ai Quatre pièces brèves
(1933). La sua produzione musicale spaziò in quasi tutti gli stili musicali che il XX
secolo ha consegnato alla storia della musica.
Nato a Ginevra il 15 settembre 1890, Martin non è affatto un compositore segoviano.
Il nostro interesse nei suoi confronti, in questa sede, è giustificato innanzitutto
102
dall’esigenza di completare un discorso di tipo “nazionalistico” che evidenzi il
rapporto tra i compositori svizzeri, tra cui Haug, e la chitarra – quindi Segovia.
In secondo luogo, ma non certo per importanza, ci occupiamo di Frank Martin in
quanto i brani chitarristici da lui scritti rappresentano l’esempio emblematico di come
si sarebbe potuto scrivere per chitarra se i compositori non fossero stati vincolati dai
canoni estetici dettati da Segovia. In tal senso i Quatre pièces brèves ci forniscono un
prezioso termine di paragone e di confronto tra la musica chitarristica “segoviana” di
Haug e quella – come il Capriccio per chitarra e flauto del 1963 – esente
dall’influenza del chitarrista spagnolo. Infatti il Capriccio appare costruito su aspetti
tecnici e formali che molto somigliano a quelli adoperati da Martin nei suoi Quatre
pièces brèves. Legati da un’unica cellula originaria, i Quatre pièces brèves
presentano caratteri individuali spiccatamente differenti. <<Il Prélude, dopo aver
severamente dichiarato l’unità tematica, ne dà due consecutivi sviluppi, accumulando
progressivamente tensione ritmica e dinamica, per ritornare poi, con accorate
scansioni, sugli elementi iniziali; l’Air evoca, con estatico trasporto, il fascino
dell’arte clavicembalistica francese e le sue eleganti, un poco enfatiche “inégalités”;
il terzo brano, Plainte, procede su un ossessivo rintoccare di accordi statici con
singhiozzanti melismi, in una struggente lamentazione, la quale sbocca infine su un
oscuro precipitare di note gravi che rimuginano la cellula originaria; per terminare
irrompe il ritmo ambiguo di una danza (Comme une gigue) che si agita fluttuando in
un’esaltata fantasmagoria, fino a sfiorare, nella sezione centrale, le movenze di un
valzer viennese (ma di un fascino spettrale, simile a quello raveliano de La
103
valse).>>26 Questi brani chitarristici di Martin subirono la completa indifferenza da
parte dei chitarristi fino a quando, negli anni sessanta, entrarono nel repertorio di
alcuni concertisti e da allora non si verificò più alcun affievolimento di interesse nei
loro confronti. Martin incluse la chitarra in alcuni suoi lavori di musica da camera che
non sono mai entrati nel repertorio dei chitarristi e sconosciuti alla maggior parte di
essi: si tratta di un brano per tenore chitarra e piano dal titolo Quant n’ont assez fait
do-do (1947); del Drey Minnelieder per soprano e pianoforte (1960) arrangiato da
Martin stesso per chitarra e flauto; e del Poèmes de la mort (1971) per tre voci
maschili e tre chitarre elettriche.
Nel 1933, sia Martin che Segovia vivevano a Ginevra. Non si sa se i “Quattro pezzi
brevi” furono frutto dell’invito di Segovia a Martin a scrivere qualcosa per lui. Di
certo Segovia fornì dei pezzi per chitarra di Castelnuovo-Tedesco a Martin, al fine di
illustrargli come avrebbe voluto che scrivesse per la chitarra. Ma Martin non si
riconosceva con i principi estetici tanto amati da Segovia e messi in pratica da
Castelnuovo-Tedesco, e compose i “Quattro pezzi brevi” secondo il proprio gusto e
intelletto. Spedì un abbozzo del lavoro a Segovia senza ottenerne però alcuna
risposta. Durante un incontro fortuito tra i due in “via della Corratarie” Segovia emise
semplicemente un timido “arrivederci” nei confronti di Martin, che, perplesso
dall’indifferenza di Segovia, pensò che i suoi pezzi fossero in suonabili. Nello stesso
anno Martin scrisse un arrangiamento per pianoforte dei brani chitarristici
intitolandoli “Guitare – Suite pour le piano (Ritratto di Andrés Segovia)”. inoltre, nel
26 ANGELO GILARDINO Manuale di storia della chitarra vol.2° - La chitarra moderna e contemporanea, Bèrben, Ancona 1988, pag.69.
104
1934 fu eseguita la versione per orchestra scritta da Martin dietro il pressante invito
dell’amico direttore d’orchestra Ernest Ansermet. Nonostante ciò Martin continuò ad
avere l’originale versione per chitarre nel profondo dei suoi pensieri, tanto che nel
1938 scrisse una versione revisionata per il chitarrista ginevrino Hermann Leeb, che
la eseguì. Ciò spinse Segovia a chiedere a Martin una nuova copia dei brani avendo
perduto la prima inviatagli cinque anni prima. Martin rifiutò con probabile
disappunto. Non sembra esserci modo attualmente, a meno che non riaffiori tra
l’immenso carteggio di Segovia custodito dalla Fondazione a lui intitolata di Linares,
di visionare l’abbozzo originale che Martin spedì a Segovia e confrontarlo con la
versione eseguita da Leeb e custodita presso la Paul Sacher Foundation di Basilea.
Nel 1951 Martin inviò una copia manoscritta al Direttore musicale di Radio Ginevra
(poi chiamata Radio Suisse Romande), affinché Josè de Azpiazu ne realizzasse una
registrazione avvenuta in giugno dello stesso anno. La copia che Martin inviò alla
Radio andò perduta, ma quella che fu restituita al compositore fu probabilmente la
copia che Azpiazu fece per sé al fine di revisionare il pezzo ed eseguirlo. Un’ulteriore
versione fu curata da Martin nel 1955 per la pubblicazione che avvenne nel 1959 a
cura della Universal Edition. Questa versione appare fortemente diversa da quella
eseguita da Leeb nel 1938. Per questo la casa editrice ricevette numerose critiche: si
credeva che l’editore avesse commesso madornali errori nella pubblicazione. A
discolpare l’editore da tali accuse interviene la versione del 1951 di Azpiazu, identica
a quella del 1955: ciò conferma che Martin aveva già allora modificato le proprie
idee riguardo a quanto scriveva nel 1938. Subito dopo la pubblicazione dei brani fu
105
Julian Bream, famoso concertista inglese, ad eseguirli ad Amsterdam in presenza del
compositore, e ad inciderli poco tempo dopo. Da allora i Quatre pièces brèves sono
un riferimento inamovibile per i concertisti nella scelta del loro repertorio.
Henri Gagnebin è il secondo compositore svizzero di cui ci occuperemo per
sviluppare le nostre conoscenze sul rapporto tra i compositori svizzeri e Segovia.
Nato a Liegi il 13 marzo 1886 da genitori svizzeri, si stabilì ai svizzera con la
famiglia nel 1892. Compì gli studi umanistici al ginnasio di Losanna, ma gli studi
musicali lo portarono a Berlino, Ginevra e Parigi, dove visse dal 1908 al 1916,
seguendo i corsi musicali di grandi maestri tra cui Vincent d’Indy. Nel 1925 fu
chiamato a dirigere il Conservatorio di Ginevra, funzione che ricoprì fino al 1957.
Nel 1938 fondò il Concorso Internazionale d’Esecuzione Musicale di Ginevra di cui
sarà presidente fino al 1959. Sarà anche Presidente della Federazione Internazionale
106
dei Concorsi Musicali. Nel corso della sua carriera si distinguerà come virtuoso
organista, brillante critico musicale e compositore attento, ma è doveroso ricordare
che fu un intraprendente imprenditore musicale, attivo in maniera instancabile
nell’organizzazione di eventi finalizzati alla rivalutazione del ruolo della Svizzera
nello scenario musicale internazionale del XX secolo. Membro dell’AMS dal 1925,
ne sarà successivamente vice-presidente e presidente. Uomo di grande cultura, gli fu
conferita nel 1949 una laurea honoris causa dall’Università di Ginevra. Fu membro
d’onore della Royal Academy of Music di Londra e dell’Accademia di Graz,
cavaliere della Legione d’onore, dell’Ordine della Corona e dell’Ordine di Leopold
del Belgio. Ricevette le massime onorificenze e riconoscimenti nel mondo musicale
svizzero per le sue attività di compositore e di organizzatore della vita musicale del
Paese.
Ci occupiamo della sua figura in quanto scrisse tre pezzi per chitarra dedicati ad
Andrés Segovia, al quale fu legato da una stretta amicizia: un simpatico aneddoto ci
racconta che, dopo aver ascoltato per la prima volta la versione per chitarra della
Ciaccona in Re minore di Bach realizzata da Segovia, Gagnebin coniò la simpatica
espressione “Chacun sa Chaconne”, ispirata ad un’espressione tipica francese
“Chacun sa chacune”.
Oltre a questi tre brani per chitarra sola, scrisse un pezzo Egloghe per clarinetto (o
violino) e chitarra (1965).
In qualità di Presidente del Concorso Internazionale di Esecuzione Musicale di
Ginevra, accolse le richieste di Segovia di inserire la chitarra tra gli strumenti
107
ammessi alla competizione nel 1956. Tra i pezzi imposti dal programma del
Concorso figuravano proprio una Chanson, tratta dai lavori chitarristici dello stesso
Gagnebin, e un concerto per chitarra e orchestra, scritto da un altro svizzero, Pièrre
Wissmer.
Oltre all’amicizia con Segovia, Gagnebin strinse stretti rapporti con i più grandi
compositori e interpreti dell’epoca. Amico intimo di Frank Martin (vissero per cinque
anni nello stesso palazzo a Ginevra), vantava tra i suoi amici anche i nomi illustri di
Rostropovich, Rubinstein, Ansermet.
I tre pezzi per chitarra furono scritti da Gagnebin nel marzo 1953. Non suonando la
chitarra, Gagnebin si avvalse della collaborazione di José de Azpiazu. La
pubblicazione avvenne lo stesso anno ad opera della Symphonia-Verlag di Basilea
sotto il titolo Trois pièces pour guitare à Andrés Segovia. Probabilmente Segovia
ricevette una copia dei brani dopo la stampa, come lascia intendere una lettera inviata
dal chitarrista al compositore il 22 febbraio 1954. Segovia informa Gagnebin di
“lenti, ma decisivi progressi” nello studio dei brani che intende inserire nel proprio
programma da concerto della stagione successiva. Il 19 settembre dello stesso anno
Segovia invierà una lettera da Assisi a Gagnebin, per chiedergli parere sulla sua
intenzione di suonare la sola Chanson, e non l’intera suite, nel suo prossimo concerto
a Ginevra, che avverrà il 12 ottobre.
Dopo il concorso di Ginevra del 1956, l’interesse per la Chanson, e quindi l’intera
suite, di Gagnebin andò scemando e lo stesso Segovia venne meno alle sue più volte
manifeste intenzioni di registrare i pezzi dell’amico compositore svizzero. La
108
registrazione completa dell’intero ciclo è avvenuta per la prima volta ad opera del
chitarrista olandese Han Jonkers, in un disco dal titolo “A Swiss Homage to Andrés
Segovia” (1996), contenente, oltre a i tre brani di Gagnebin, anche i Quatre pièces
brèves di Frank Martin, il Prélude, Tiento e Toccata di Haug, e i Fünf Stücke für
Gitarre di Ernst Widmer.
Si stringe così il cerchio intorno alla figura di Hans Haug e al suo rapporto con la
chitarra. La sua produzione chitarristica fu indubbiamente più corposa dei suoi
colleghi svizzeri Martin e Gagnebin, come anche il suo rapporto con Segovia, andò
stringendosi sempre di più fino ad arrivare all’invito di Segovia nei confronti di Haug
a tenere dei corsi di composizione a Santiago de Compostela nel 1961. Abbiamo
avuto modo di vedere come Segovia, divenuto celebre in tutto il mondo, non sempre
era in grado di tener fede alle promesse di inserire brani di compositori che
scrivevano per lui nei propri concerti o incisioni discografiche. Tale sorte spettò tanto
ai tre pezzi di Gagnebin quanto al Concertino di Haug per chitarra e orchestra.
Segovia avrebbe dovuto curare la pubblicazione di tale opera ed effettuarne
l’incisione, in quanto il pezzo risultò vincitore del concorso di composizione alla
figiana di Siena nel 1951.
Più fortunato fu Tansman, la cui Cavatina – vincitrice del medesimo concorso e nello
stesso anno nella sezione dei brani solistici – fu pubblicata ed inserita da Segovia tra i
suoi brani di repertorio. Più turbolento invece fu il rapporto tra Segovia e Martin,
come abbiamo già avuto modo di sottolineare. Probabilmente Haug, tra i compositori
109
svizzeri fu colui che, a lungo andare, arrivò a godere della maggiore considerazione
da parte di Segovia, pur non giungendo mai ai livelli di un Castelnuovo-Tedesco o un
Tansman.
Nonostante la mancata pubblicazione del proprio Concertino, Haug continuò a
scrivere brani per Segovia ed ebbe ragione di questa sua perseveranza perché i pezzi
successivi: Alba e Preludio (ribattezzato Postludio da Segovia) furono registrati e più
volte eseguiti in concerto dal chitarrista spagnolo. Nel prossimo capitolo
esamineremo uno per uno tutti i pezzi per e con chitarra scritti da Haug, compresi i
due brani recentemente dati alle stampe dalla Berbèn nella collana “The Andrés
Segovia Archive”, curata da Angelo Giardino, nel volume Hans Haug – The
complete works for solo guitar (2003).
Direttore artistico della Fondazione Segovia di Linares, Giardino ha ritrovato, tra le
musiche ricevute da Segovia e mai eseguite, due brani di Haug: Étude (Rondo
fantastico) e Passacaglia, di cui si ignorava completamente l’esistenza.
Ma il rapporto tra Haug e la chitarra non fu elusivamente vincolato alla figura di
Segovia. Haug scrisse opere di musica da camera con chitarra, non dedicate a
Segovia, nelle quali cercò di divincolarsi dagli stretti vincoli che il gusto del
chitarrista imponeva ai suoi compositori.
110
Capitolo quarto
La chitarra nell’opera di Haug
Il nostro cammino volge al termine. L’inconnue, di cui abbiamo riferito nella
prefazione (Introduzione… Preludio) a questo lavoro, si è svelata ai nostri sguardi.
Abbiamo conosciuto la figura di Hans Haug, direttore d’orchestra e compositore, la
sua produzione musicale egregiamente catalogata dal Prof. Jean-Louis Matthey, il
contesto storico culturale in cui operò.
Ora vogliamo cogliere i frutti che il talento creativo di Hans Haug ha voluto dedicare
al nostro strumento: la chitarra.
Secondo Angelo Gilardino, nel suo Manuale di storia della chitarra edito dalla
Bèrben, <<Haug rivela nella sua musica chitarristica un’indole perdutamente
111
romantica, nonostante l’adozione di procedimenti armonici che collegano gli accordi
secondo leggi di attrazione diverse da quelle scolastiche>>1.
Che la musica, in prevalenza quella strumentale, di Haug manifesti una matrice e un
gusto spiccatamente romantici è stato evidenziato in precedenza2. Per ciò che
concerne la sua musica per chitarra, l’affermazione di Gilardino è vera, in particolar
modo per le opere per chitarra sola - ovvero per quei lavori che Haug ha scritto e
dedicato ad Andrés Segovia - nonostante i titoli di tali opere richiamino lo stile e
procedimenti tecnici del periodo barocco e di quello “classico”.
Inoltre, le “leggi di attrazione” adoperate da Haug per i propri procedimenti armonici
di concatenazione di accordi, di cui riferisce Gilardino, altro non sono che la messa in
pratica di ideali teorici probabilmente ispirati all’Armonia di gravitazione di Roberto
Lupi.
Il primo lavoro in cui Haug usò la chitarra come strumento facente parte
dell’orchestra fu Don Juan à l’étranger (1930). Di quest’opera comica in due atti su
testi di Dominik Müller abbiamo già avuto modo di parlare approfonditamente nel
secondo capitolo. La chitarra è prevista come componente sia dell’orchestra di scena
che di quella tradizionale.
Nel 1945 la chitarra verrà utilizzata da Haug nella sua Berceuse pour les canons. La
composizione, catalogata da Matthey col numero d’opera MUH122 e inserita nella
1 A. GILARDINO, Manuale di storia della chitarra vol.2° - La chitarra moderna e contemporanea, Bèrben, Ancona, 1988, pag. 59. 2 Cfr. Cap.II, pag. 47.
112
sezione IX del catalogo - sotto la voce “Festivals – Musique de scène divers” – fu
scritta su testi di Paul Budry, per voce di bambino, soprano e strumenti. Nella
fattispecie l’orchestra era composta da un flauto piccolo, un flauto traverso,
percussioni, chitarra e quintetto d’archi. Fin qui dunque solo ruoli marginali per la
chitarra. Bisognerà attendere il 1951 affinché Haug dedichi allo strumento un ruolo
da protagonista con il Concertino per chitarra e piccola orchestra. Dopo di allora
ancora ruoli marginali. Nel 1957 la chitarra sarà parte dell’orchestra dell’opera
comica Les Fous, tratta dal Fanfano re dei matti di Goldoni, di cui già si è riferito nel
secondo capitolo.
Nel 1961, Haug terminerà a Belmont un concerto per orchestra di musica leggera:
Variations sur un thème de Jacques Offenbach. Dedicato e creato per l’orchestra di
musica leggera di Radio Basilea, diretta da Cédric Dumont, il concerto ospita la
chitarra tra gli strumenti componenti l’orchestra.
Datata 1961 è anche la colonna sonora del film Tag ohne Ende la cui partitura
prevede l’utilizzo della chitarra al fianco del flauto, l’arpa, il clarinetto, la tromba e la
batteria.
L’elenco di lavori scritti da Haug che prevedono l’utilizzo, seppur marginale, della
chitarra, termina con Justice du Roi. Scritta a Belmont nel 1963, questa
tragicommedia è suddivisa in tredici frammenti scenici ed è tratta da L’Alcade de
Zalamea di Pedro Calderon. L’adattamento del testo in francese fu curato da Jean
Bovey. La prima rappresentazione fu dello stesso anno, al Teatro “Jorat” di Mézières.
113
Naturalmente il nostro interesse, in questa sede, sarà principalmente rivolto a quelle
composizioni in cui la chitarra riveste un ruolo di primaria importanza.
Il catalogo curato da Matthey e pubblicato nel 1971 riporta notizia del Concertino per
chitarra e piccola orchestra “Quasi una fantasia” del 1951, del Doppelkonzert per
chitarra, flauto e orchestra del 1966, di brani cameristici come la Fantasia per
chitarra e pianoforte del 1957 e il Capriccio per chitarra e flauto del 1963. I brani per
chitarra sola, di cui fa menzione il catalogo, sono cinque: tutti pubblicati dalla Bèrben
nel 1970 in una collana curata da Angelo Gilardino. Questi cinque brani erano il
trittico Prélude, Tiento e toccata e i due pezzi separati Alba e Preludio, entrambi
registrati nel 19613 da Segovia (nella registrazione il Preludio venne rinominato
Postludio).
Il 7 maggio del 2001 Angelo Gilardino, attualmente Direttore Artistico della
Fondazione Segovia di Linares, ritrova nell’archivio di musiche conservate da
Segovia due brani inediti di Haug per chitarra sola, mai registrati o eseguiti in
pubblico dal chitarrista spagnolo. Si tratta dell’ Étude (Rondo fantastico) scritto da
Haug nel 1955 e della Passacaglia del 1956. Entrambi i brani furono probabilmente
inviati da Haug a Segovia, con la speranza che questi potesse eseguirli, registrarli o
semplicemente fornire al compositore osservazioni a riguardo.
Nel 2003 Gilardino pubblica, nuovamente per la Bèrben, quella che al momento
attuale è da ritenersi l’opera completa di Haug per chitarra sola. Ai cinque brani
pubblicati nel 1970 si aggiungono, nella nuova edizione, i due riscoperti nel 2001 e si
3 Cfr. Hans Haug - The complete works for solo guitar, Bérben, Ancona 2003, Prefazione a cura di Angelo Gilardino, pag.8.
114
esclude volontariamente una trascrizione di Haug per chitarra sola di un Preludio di
Giuseppe Aldrovandini (1665-1707), anch’essa ritrovata nell’archivio di Segovia.
Nella prefazione, già citata, della nuova edizione delle opere per chitarra di Hans
Haug, Gilardino fornisce preziose delucidazioni sulle dinamiche del ritrovamento dei
due nuovi brani, ma anche sulla genesi di quelli già conosciuti in precedenza e –
soprattutto - sulla reale datazione del trittico.
Gilardino riferisce del suo incontro nel 1970 con la vedova di Haug, Madame
Françoise Haug-Budry, recentemente scomparsa. All’epoca nessun lavoro di Haug
per chitarra sola era stato pubblicato, l’incontro era finalizzato proprio alla prima
pubblicazione di quei brani. La signora Haug era a conoscenza dell’esistenza dei soli
cinque brani per chitarra sola che furono pubblicati nel 1970. Si trattava dei due brani
incisi da Segovia, Alba e Postludio, e del trittico, allora ancora privo di titolo. Proprio
in quella occasione Gilardino e la vedova Haug decisero di dare al trittico la
denominazione per la pubblicazione di Prélude, Tiento e Toccata, conservando
quindi le denominazioni dei singoli brani che lo componevano. Attualmente, la
conclusione che questi pezzi fossero un trittico e non tre brani indipendenti è
suggerita dal solo fatto che il frontespizio di ognuno di essi riporta l’indicazione di un
numero d’ordine romano, ma non vi è tra essi alcuna evidente connessione di
carattere musicale. Durante il loro incontro, Madame Haug fornì a Gilardino le
fotocopie dei tre brani del trittico e l’originale manoscritto del Postludio, intitolato
realmente Preludio. Di quest’ultima composizione, come di Alba, non si è in grado di
115
stabilire con certezza la data di composizione. Per giunta, di Alba, non esiste
attualmente nessuna copia del manoscritto. Madame Haug, già nel 1970, era sicura
che esistesse di Alba solo una copia manoscritta, inviata da Haug a Segovia. Quando,
sia la vedova Haug – prima – che Gilardino – poi – fecero richiesta a Segovia di poter
visionare il manoscritto di Alba, entrambi appresero dal Maestro che egli non ne era
più in possesso. Per fortuna Segovia aveva registrato il brano e tale incisione fu
l’unica fonte alla quale Gilardino attinse per la pubblicazione. Gilardino avvisò
Segovia della sua intenzione di trascrivere il brano dalla registrazione del Maestro e,
con sorpresa, non ricevette alcun rimprovero. Ciò era una evidente testimonianza che
Segovia avesse realmente smarrito il manoscritto di Alba. Egli era solito girare il
mondo portando con sé i manoscritti originali delle opere che intendeva includere nei
programmi dei suoi concerti. È possibile che il manoscritto di Alba sia stato
dimenticato in qualche camera d’albergo.
A seguito del ritrovamento dell’ Étude (Rondo fantastico), datato gennaio 1955, e
della Passacaglia (settembre 1956), Gilardino notò un’evidente differenza stilistica
tra questi due brani e quelli per chitarra già conosciuti di Haug. Mentre i brani
precedentemente pubblicati erano a buon diritto classificabili come “pezzi segoviani”
per il loro carattere post-romantico, i due brani di nuova scoperta appaiono
difficilmente compatibili con gli orientamenti del repertorio segoviano e non meno
alieni al gusto del Maestro spagnolo di quanto lo fossero i Quatre pièces brèves di
Frank Martin. Ciò che, secondo Gilardino, rende questi due brani estranei al gusto di
Segovia - causa probabile per cui il chitarrista non li eseguì mai condannandoli al
116
dimenticatoio fino alla loro riscoperta – è il loro linguaggio armonico nonché il
ricorso ad una piattaforma tonale allargata e ad una elaborata tessitura cromatica.
Contestualmente al ritrovamento dell’ Étude e della Passacaglia, Gilardino trovò
nell’archivio di Segovia altre copie manoscritte di due pezzi del trittico: il Prélude e
la Toccata. Questo ritrovamento risulta provvidenziale in merito alla datazione e
all’assemblaggio sotto forma di trittico dei tre brani. La versione del Prélude presente
nell’archivio di Segovia porta la data di Settembre 1956 (dunque contemporaneo
della Passacaglia).
Il terzo brano del trittico, la Toccata, è presente nell’archivio in forma di copia
manoscritta incompleta con il titolo Rondò (“La Gitarra”)/ pour Guitar solo. La
data riportata sul manoscritto è l’ 8 agosto 1952.
Da ciò si evince che il trittico va considerato come l’assemblaggio di separati e
precedenti lavori, rinominati e combinati col Tiento. Il manoscritto di quest’ultimo,
non presente nell’archivio di Segovia, reca la data 26-28 settembre 1961. Il brano fu
scritto da Haug durante il soggiorno a Santiago de Compostella, dove fu invitato da
Segovia a tenere un corso estivo di composizione. Non è possibile stabilire se il pezzo
fu scritto in vista di un assemblaggio con i due brani precedenti o se nacque con
intenti di autonomia formale. È certo però che l’assemblaggio sia avvenuto in una
data successiva al settembre 1961, a seguito della rinominazione dei due brani
precedentemente scritti e con il probabile intento da parte di Haug di ottenere
un’opera per chitarra sola più organica e di maggior spessore e durata per
117
l’inserimento in programmi da concerto. Forse Haug si era reso conto che la stima
che Segovia gli andava dimostrando con l’invito a Santiago, l’incisione di Alba e del
Postludio e il loro inserimento nei suoi programmi da concerto, andava
contraccambiata con un lavoro in grado di sostenere il confronto con le sonate, le
suite e i temi con variazioni che gli altri autori “segoviani” dedicavano al chitarrista
spagnolo con una produzione quasi “industriale”.
Alla luce di quanto detto vogliamo azzardare una sistemazione in ordine cronologico
di tutti i brani per e con chitarra scritti da Haug. Escludendo i lavori teatrali,
cinematografici o orchestrali in cui Haug prevede un utilizzo marginale della chitarra,
l’ordine cronologico dei brani in cui la chitarra assume un ruolo da protagonista è il
seguente:
1) Concertino per chitarra e piccola orchestra (1951);
2) Rondò (“La Gitarra”) (8/8/1952);
3) Alba (1954?);
4) Preludio (1954?);
5) Étude (Rondo fantastico) (Gennaio 1955);
6) Passacaglia (Settembre 1956);
7) Prélude (Étude) (Settembre 1956);
8) Fantasia pour guitare et piano (1957);
9) Tiento (26-28 settembre 1961) ;
10) Capriccio pour Flûte et Guitare (1963);
118
11) Doppelkonzert für Flöte, Guitarre und Kammerorchester (1966).
Leggendo in successione i titoli dei brani sopra elencati e le rispettive date,
scaturiscono spontanee una serie di osservazioni.
Innanzitutto risulta singolare come un compositore, che fino al 1951 conosceva la
chitarra solo per l’utilizzo marginale all’interno dell’orchestra per lavori scenici o
cameristici, decida di cimentarsi improvvisamente nella composizione di un concerto
per chitarra e orchestra da presentare ad un concorso di composizione prestigioso
come quello dell’Accademia Chigiana, che – tra l’altro – riuscirà a vincere.
A nostro avviso è probabile che nuove scoperte, come quella fatta da Gilardino nel
2001, possano portare nuova luce sulla datazione di alcuni brani di cui ora non si ha
certezza, o – cosa ancor più auspicabile – che si possano ritrovare brani per chitarra
sola composti da Haug prima del 1951, da intendersi come un approccio graduale da
parte del compositore ad uno strumento fino ad allora poco praticato. Ciò è tanto più
vero se consideriamo il fatto che Haug prese lezioni di chitarra con Josè de Azpiazu
dal 28 ottobre 1953 al 27 gennaio 1954 per approfondire la sua conoscenza dello
strumento.
Un’ulteriore osservazione riguarda i brani del trittico Prélude, Tiento e Toccata.
Nell’elenco sopra esposto abbiamo voluto indicare i brani col loro titolo originale. La
Toccata, che nel trittico appare come brano conclusivo, è in realtà il primo dei tre
brani ad essere composto, nel 1952, col titolo Rondò (“La Gitarra”). Il Prélude, che
119
occupa la posizione iniziale nel trittico, fu il secondo ad essere composto, nel 1956,
col titolo Prélude (Étude). Il Tiento, secondo brano del trittico, fu invece l’ultimo ad
essere composto, ben nove anni dopo la Toccata e cinque anni dopo il Prélude. È
dunque un assemblaggio singolare, quello fatto da Haug, anche se, come avremo
modo di evidenziare nei paragrafi successivi, lo stile compositivo dei tre brani è
riconducibile ad una comune matrice di stampo romantico, tanto cara al gusto di
Segovia. Evidenzieremo anche come la Toccata, che – grazie alle scoperte di
Gilardino – sappiamo essere il brano più vicino anagraficamente al Concertino,
contenga del materiale tematico di quest’ultimo.
Per quanto riguarda la datazione di Alba e del Preludio (Postludio), abbiamo indicato
con un punto interrogativo l’anno 1954. Abbiamo ricavato tale data a seguito di un
procedimento logico. Infatti, il manoscritto di Alba, come abbiamo già avuto modo di
specificare in precedenza, è stato probabilmente smarrito da Segovia, e sul
manoscritto del Preludio, consegnato da Madame Haug a Gilardino e conservato
unicamente presso gli archivi della Bèrben, non compare alcuna data. La datazione al
1954 (forse 1953) scaturisce, dunque, da una lettera - già citata in precedenza –
indirizzata da Segovia a Gagnebin e datata 19 settembre 1954. In questa lettera
Segovia si scusa con Gagnebin per non essere stato ancora in grado di studiare il
brano inviatogli dal compositore svizzero perché troppo impegnato nello studio di
brani di altri compositori tra i cui nomi figura quello di Haug.
120
Successivamente uscirà, pubblicato dalla DECCA, un disco in cui Segovia esegue, tra
gli altri brani, anche Alba e il Preludio (ribattezzato in questa sede Postludio).
È possibile ancora osservare come, ad eccezione del Tiento (1961), a partire dal 1957
con la Fantasia per chitarra e pianoforte, tutti i lavori dedicati da Haug alla chitarra
vedono quest’ultima affiancata ad altri strumenti e non saranno più dedicati alla
figura di Segovia. Ciò è sicuramente frutto di una sorta di “emancipazione” di Haug
da Segovia. Il compositore svizzero, che – come abbiamo visto nelle notizie
biografiche riportate nel primo capitolo – già dal 1950 aveva anteposto all’attività di
direttore d’orchestra quella di compositore, comincia ad essere conosciuto a livello
internazionale per le sue qualità creative e ad attirare l’attenzione di interpreti di
prestigio come la chitarrista Luise Walker e il duo chitarra-flauto composto da
Werner Tripp (flautista) e Konrad Ragossnig (chitarrista). L’emancipazione di Haug
da Segovia sarà evidente anche dal punto di vista dello stile composito, proprio nei
brani in cui la chitarra sarà affiancata al flauto.
Nei paragrafi a seguire ci dedicheremo ad un’osservazione più dettagliata dei singoli
brani sopra elencati. L’ordine col quale verranno affrontati non sarà puramente
cronologico, ma terremo conto anche di considerazioni di carattere “organico”.
Cominceremo con l’affrontare i lavori per chitarra sola partendo da Alba e dal
Preludio del 1954, sarà poi la volta dell’ Étude (Rondo fantastico) del 1955, della
Passacaglia del 1956, per concludere con i brani del trittico assemblati nel 1961.
Successivamente ci occuperemo dei brani cameristici, partendo dalla Fantasia per
121
chitarra e pianoforte, del 1957, e passando poi al Capriccio per chitarra e flauto del
1963. Concluderemo interessandoci dei brani con orchestra: il Concretino per chitarra
e orchestra del 1951 e il Doppelkonzert per chitarra, flauto e orchestra del 1966,
terminato poco prima della morte del compositore.
IV.1. Alba.
Come abbiamo avuto modo di precisare più volte, di questo brano non si è conservata
alcuna copia del manoscritto. Abbiamo a nostra disposizione le due edizioni della
Bèrben, entrambe curate da Angelo Gilardino. La prima, risalente al 1970, è frutto di
un lavoro di trascrizione, da parte del curatore, della registrazione fatta da Segovia
nel 1961. La seconda, facente parte del volume con l’opera omnia chitarristica di
Hans Haug The complete works for solo guitar, pubblicata nel 2003 da Gilardino,
adotta come punto di partenza la stessa registrazione usata per la prima edizione, ma
è resa maggiormente attendibile da quella che lo stesso curatore definisce
<<l’esperienza acquisita negli ultimi trent’anni>>.
Nella prefazione al volume contenente l’opera completa per chitarra sola di Haug,
Gilardino confessa di aver dovuto compiere molte valutazioni di carattere soggettivo,
ad eccezione di ciò che riguarda le altezze delle note. Infatti, i rubato presenti
nell’esecuzione di Segovia lasciano aperti molti quesiti di carattere ritmico.
122
123
La pluriennale esperienza di Gilardino nel curare la pubblicazione di molte opere
dedicate a Segovia (ricordiamo la sua attuale carica di Direttore artistico della
Fondazione Segovia di Linares) e la sua conoscenza approfondita del gusto del
chitarrista spagnolo, nonché delle sue abitudini ad adattare i testi musicali alla propria
estetica, ci rassicura del fatto che la nuova edizione di Alba sia il frutto di scelte ben
più meditate rispetto a quelle fatte per la pubblicazione del brano nel 1970. La
notazione dei cambi di tempo presenti nello spartito di Alba è il frutto sia di
un’approfondita conoscenza delle diverse prassi esecutive di Segovia, sia
dell’osservazione accurata del modus operandi di Haug negli altri suoi pezzi.
Confrontando le due edizioni appare immediatamente evidente l’eliminazione, da
parte di Gilardino, di quasi tutti i punti coronati presenti nella prima edizione. Questi
derivavano senza alcun dubbio dalla fedele trascrizione delle scelte espressive
apportate da Segovia nella sua esecuzione del brano. L’unico punto coronato
conservato nella seconda edizione è quello sull’accordo di Mi maggiore, che precede
la ripresa (Battuta 52).
Le altre modifiche apportate nella seconda edizione riguardano principalmente i
cambi di metro e i raddoppi di note all’interno degli accordi. Dalla diversa
interpretazione ritmica deriva una differente numerazione delle battute, che sono 67
nella prima edizione e 69 nella seconda. Le due battute in più derivano: 1) dal diverso
raggruppamento delle note alla battuta 32, l’unica battuta di 5/4 della prima edizione
è stata scomposta in due battute di 2/4 e 3/4 (Figura a); 2) la battuta 50 della prima
124
edizione, con metro in 3/4, è stata sostanzialmente modificata con la trasformazione
delle biscrome in semicrome, e divisa in due battute da 2/4 (Figura b).
(Figura a)
(Figura b)
Alla battuta 2, così come nell’equivalente battuta 54 della ripresa nella seconda
edizione, il Si bemolle viene presentato un’ottava sopra rispetto a quello della prima
edizione. Alla battuta 21, come nell’equivalente battuta 47 nella seconda edizione,
l’accordo conclusivo di Sol maggiore dura una minima anziché una semiminima.
Come anticipato, le altre modifiche riguardano i raddoppi all’interno degli accordi. In
sostanza vengono eliminati molti raddoppi che, presenti nella prima edizione e quindi
certamente eseguiti da Segovia nella sua registrazione, hanno un sapore - ed anche
proprietà di diteggiatura – prettamente chitarristico. Gilardino si assume la
125
responsabilità di eliminare queste note all’interno degli accordi ritenendole delle
aggiunte “chitarristiche”, apportate da Segovia ad un’ossatura accordale
presumibilmente più asciutta voluta da Haug. Quanto detto è riscontrabile alle battute
9, 16, 17, 32, 36, 37 e 43 (secondo la numerazione della seconda edizione).
Prima di passare ad un’analisi della forma e dei contenuti del brano, vorrei proporre
una riflessione sulla scelta del titolo apportata da Haug.
Alba è un evidente richiamo al genere di componimento lirico il cui tema è diffuso in
moltissime letterature. Il sopraggiungere delle prime luci dell’alba è annunciato dal
cinguettìo degli uccelli o dal richiamo delle scolte che intonano un canto, segnale per
gli amanti che è giunto il momento della separazione. Il tema della separazione degli
amanti al sopraggiungere dell’alba è già presente nella letteratura classica ( vedi gli
epigrammi di Meleagro di Gadara del 70 ca. a.C. o la poesia latina di Ovidio). Il
primo esempio medievale appartiene al X secolo: la famosa alba bilingue (strofe
latine e ritornello in un enigmatico volgare o semivolgare) del Cod. Vat. Reg.1462,
proveniente da Fleury-sur-Loire, della Biblioteca Apostolica Vaticana. La poesia
trobadorica dei secoli XII-XIII offre poi, nella forma più tipica, diverse albe:
provenzali, francesi antiche, galero-portoghesi, tedesche. L’unico esempio italiano è
conservato in un Memoriale bolognese del 1286. La poesia trobadorica offre anche
albe religiose, in cui il sorgere del giorno viene a simboleggiare la vittoria della
grazia e della fede sulle tenebre dell’ignoranza e del peccato.
126
Il “tema dell’Alba” evocato dal titolo suggerisce due immagini utilizzabili come
possibili chiavi di lettura del brano. La prima immagine è molto poetica e romantica:
il canto d’amore, che narra la separazione degli amanti, è un canto struggente,
malinconico, estremamente denso di carica emotiva. Questa immagine è
egregiamente resa dalla musica di Haug nella sezione centrale del brano, di carattere
spiccatamente melodico.
La seconda immagine ha invece una valenza mistica – oserei dire – iniziatica. La
vittoria della Luce sulle Tenebre è un miracolo che si compie quotidianamente; la
rigenerazione dell’umanità dal peccato, tema proprio dell’alba religiosa, è resa
magistralmente dalla concatenazione di accordi con la quale si apre il brano. Il
percorso armonico, che parte dalla tonalità di La maggiore, evoca all’orecchio
dell’ascoltatore un processo di graduale schiarimento timbrico che si conclude col
solare irrompere del tema melodico, nella tonalità di Sol maggiore, alla battuta 12.
L’accostamento di Alba con i canti trobadorici va al di là del semplice richiamo del
titolo al genere poetico-musicale medievale dell’aube, ma si riflette anche nella
struttura formale del brano. La struttura delle chansons dei trovatori prevedeva
l’alternanza di strofe e ritornelli. La loro derivazione da una forma di dialogo
prevedeva l’esecuzione da parte di almeno due personaggi (nel caso dell’alba, ai due
amanti si affiancava la figura della sentinella che li avvisava del sopraggiungere del
giorno). Dalla struttura in forma di dialogo derivarono probabilmente alcune forme
rudimentali di rappresentazione drammatica per le quali era previsto anche l’utilizzo
127
del coro. Un esempio è dato dal famoso Jeu de Robin et Marion, scritto attorno al
1284 da Adam de la Halle. All’inizio del Jeu, Marion intona una melodia, con
ritornelli corali: “Robin m’aime”, che è un rondò nella forma AbaabAB (dove le
lettere indicano ognuna una frase musicale: le maiuscole le parti corali, le minuscole
le parti a solo).
Alla luce di ciò, la struttura formale di Alba di Haug, seppur priva di testo, è
ipotizzabile segua il seguente schema: AbcbcAb’.
La sezione A è indicata con la lettera maiuscola per sottolineare il suo carattere
“corale” vista la sua struttura “accordale”. Tale sezione termina alla battuta 11 in cui
fa il suo ingresso la voce solista che intona il refrain (b). Alla battuta 20 inizia la
sezione c, alla quale Gilardino aggiunge intelligentemente l’indicazione di
‘Recitativo’ visto il suo carattere spiccatamente monodico e libero dal punto di vista
ritmico. Alla battuta 37 compare nuovamente il refrain (b) con l’indicazione di
Tempo I°. Alla battuta 46 compare nuovamente il Recitativo (c), seppur in forma
incompleta e terminante alla battuta 52 con l’accordo coronato di Mi maggiore. Alla
battuta 53 si ascolta nuovamente la sezione corale A, cui fa seguito – alla battuta 61 -
il refrain (b’), non più nella consueta tonalità di Sol maggiore, ma nella stessa
tonalità di A, ossia La maggiore.
Un’ultima osservazione riguarda la tecnica di concatenazione degli accordi adottata
da Haug nella sezione A. Questa sezione ci sembra un’originale armonizzazione della
melodia affidata alle note acute degli accordi (Figura c).
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(Figura c)
Disponendo in ordine crescente le note della melodia nell’ambito di un’ottava, si
ricava una scala cromatica di 9 suoni4 (Figura d).
(Figura d)
Per completare la successione cromatica di questa scala mancano le note Sol# (Lab),
La e La# (Sib). 4 Tenendo conto delle voci riguardanti l’iniziazione di Haug ai misteri Rosacrociani, la scelta di utilizzare una scala con nove suoni - che orbitano attorno al Decimo suono della Tonica, che si manifesta solo alla fine del percorso creativo - potrebbe essere un richiamo alla corposa valenza simbolica e mistica che il numero Nove ha nella spiritualità Cristiana e nella Dottrina Rosacrociana.
129
Risulta evidente come – pur essendo costruita sull’armonia più o meno latente di La
maggiore, con accordi che gravitano attorno a quello di tonica con attrazioni che
ricordano quelle descritte da Lupi nel suo trattato dal titolo Armonia di Gravitazione
– la sezione A è priva, nella sua linea melodica, della tonica La e delle note ad essa
più prossime (Sol# e La#).
La tonica fa la sua comparsa nella linea melodica solo nella Ripresa di A (alla battuta
59), poco prima della risoluzione definitiva sull’accordo di La maggiore. A tale
accordo di battuta 61 fa seguito una “solare” riproposizione del Refrain nella tonalità
d’impianto.
La vittoria della Tonalità sull’ambiguità armonica è, a nostro avviso, una simbolica
rappresentazione della vittoria della Luce selle Tenebre: il Miracolo quotidiano è
avvenuto e, con l’Alba, la Luce del giorno illumina di nuovo il cammino dell’Uomo
verso la Verità.
130
IV.2. Preludio.
131
132
Come per Alba, anche del Preludio non si conosce la data esatta di composizione,
non essendo essa indicata sull’unica copia manoscritta, consegnata dalla vedova di
Haug a Gilardino nel 1970, ed oggi custodita presso gli archivi della Bèrben.
Abbiamo indicato l’anno 1954 (o 1953) come probabile data di composizione per le
stesse ragioni già espresse per Alba. Nel 1954 Haug prese lezioni di chitarra da José
de Azpiazu per approfondire le sue conoscenze sullo strumento probabilmente perché
intenzionato a scrivere qualcosa da sottoporre all’attenzione di Segovia. Ciò, quasi
sicuramente, avvenne perché, nella già citata lettera inviata da Assisi il 19 settembre
1954 a Gagnebin, Segovia sostiene di essere impegnato nello studio di brani di
compositori tra cui compare il nome di Haug. Il fatto che successivamente (1961)
Segovia incida, eseguendoli in successione, sia Alba che il “Postludio”, è un primo
segnale che i due brani siano da considerarsi l’uno la naturale continuazione
dell’altro5.
Sul perché Segovia abbia deciso di ribattezzare il Preludio col titolo Postludio
possiamo solo avanzare delle ipotesi. È evidente che egli lo considerasse un brano più
adatto a “succedere” che a “precedere”. Può darsi che la scelta del titolo Postludio sia
stata fatta da Segovia per la sua preferenza a posporre il Preludio ad Alba. Se ciò
fosse vero, andrebbe letto come un tacito invito ad Haug a comporre non più singoli
brani, ma un lavoro organico, dotato di più movimenti. A tale invito Haug
sembrerebbe rispondere solo nel 1961 con la decisione di assemblare tre brani, sorti
in circostanze differenti, in un trittico (Prélude, Tiento e Toccata). Osservando il
5 Nel disco prodotto dalla DECCA (DL 9832) Segovia, con la collaborazione del Quintetto Chigiano, esegue, oltre ai brani di Haug, anche il Quintetto di Castelnuovo-Tedesco e altre musiche di Scriabin, Villa-Lobos e Llobet.
133
manoscritto del Preludio e confrontandolo con gli altri in fac-simile, pubblicati dalla
Bèrben in calce al volume Hans Haug – The complete works for solo guitar, notiamo
una maggiore imprecisione grafica. Il manoscritto è ricco di correzioni e cancellature
del tutto assenti negli altri brani. Ricordiamo che il manoscritto fu consegnato da
Madame Haug ad Angelo Gilardino nel 1970 e che questi vi aggiunse
successivamente le diteggiature. Vista la precisione grafica degli altri manoscritti, è
possibile che la copia del Preludio in questione fosse una sorta di “brutta copia” che
Haug avesse conservato per sé e che ne esistano altri esemplari più “ordinati”.
Sicuramente Segovia sarà stato in possesso di una copia del Preludio, indispensabile
per la registrazione: ci piace immaginarla, impolverata, accanto ad una copia di Alba,
dimenticata negli studi di registrazione della DECCA o in qualche camera d’albergo,
ma al momento non si ha alcuna notizia al riguardo. Va però sottolineato che
l’imprecisione grafica del manoscritto è anche frutto del lavoro di diteggiatura
realizzato da Gilardino sul manoscritto originale e non su una fotocopia, come
sarebbe stato più saggio fare. Gilardino stesso esprime biasimo nei confronti di sé
stesso per aver commesso una leggerezza: “errore di gioventù”6.
Dall’osservazione del manoscritto scaturisce un’altra interessante considerazione.
Sembra che Haug avesse l’abitudine di indicare con dei numeri la divisione dei brani
in più parti, ognuna delle quali suddivisa in ulteriori sezioni. Ciò è riscontrabile non
solo nel manoscritto del Preludio, ma anche in quello della Toccata e del Prélude
appartenenti al trittico; nel manoscritto della Passacaglia Haug usa i numeri romani. 6Cfr. Hans Haug - The complete works for solo guitar, Bérben, Ancona 2003, Prefazione a cura di Angelo Gilardino, pag.8.
134
Tali indicazioni erano apposte da Haug con numeri sotto forma di frazioni: al
denominatore vengono indicate le parti e, al numeratore, le sezioni in cui le parti si
suddividono. Nella Toccata, ad esempio, è indicata, già sul frontespizio, una
divisione in cinque parti (Figura e).
(Figura e)
Nel manoscritto del Preludio (Postludio) è possibile individuare solo l’indicazione
della seconda, terza e quarta parte indicate con i numeri 7/2 (alla battuta 19), 8/3
(battuta 36), 8/4 (battuta 62). Anche nel manoscritto della Toccata notiamo che le
cinque parti annunciate sul frontespizio portano la numerazione da 8 a 12, anziché da
1 a 5, ma questa anomalia è presto spiegata col fatto che Haug abbia inserito questa
numerazione in sede di assemblaggio del trittico, e le cinque parti di cui è composto il
brano sono numerate come la continuazione delle parti di cui sono composti gli altri
brani del trittico.
A questo punto sorge spontanea la domanda su che fine abbia fatto la prima parte del
Preludio: è corretto considerarlo la continuazione di “qualcos’altro”?
135
Ancora una volta possiamo avanzare solo delle ipotesi per rispondere a questo
quesito. A nostro avviso la prassi di Segovia di eseguire il Preludio subito dopo Alba
e la sua decisione di rinominarlo Postludio non sono da considerarsi affatto arbitrarie.
Forse è proprio Alba la prima parte mancante nel manoscritto del Preludio, e i due
brani sono da considerarsi tra essi complementari. Ciò è ancor più vero se si tiene
conto del piacevole effetto che ne deriva eseguendo i due brani l’uno di seguito
all’altro.
Se ciò non fosse vero, se il Preludio non potesse essere considerato come una
naturale prosecuzione di Alba, resterebbe salvo il fatto che – vista la mancanza della
prima parte – il Preludio vada considerato come la continuazione di qualcosa.
Nel 1954, l’unico brano per chitarra sola che ci risulta fosse già stato scritto da Haug
è il Rondò (“La Gitarra”). Scritto nel 1952 e conservato nell’archivio di Segovia fino
a quando, nel 2001, Gilardino lo ha riportato alla luce, fu conosciuto al pubblico con
il titolo Toccata, in seguito all’assemblaggio del trittico da parte di Haug nel 1961. Il
fatto che il Rondò (“La Gitarra”) sia stato inserito in una forma organica (Prélude,
Tiento e Toccata) in cui non figura il “Postludio”, ci lascia supporre che non fosse
nelle intenzioni di Haug accostare questi due brani. Dunque, a meno che non salti
fuori qualche brano di Haug ancora sconosciuto, Alba è l’unico lavoro in grado di
assolvere alla funzione di “prima parte” del Preludio: l’assenza del manoscritto rende
comunque lecito qualche dubbio a riguardo.
136
Alla luce di quanto detto risulta evidente che Segovia avesse ragione a considerare il
Preludio un brano più adatto a succedere che a precedere. Da ciò derivano ulteriori
domande.
Se il Preludio nasce per succedere ad un altro brano (probabilmente Alba), perché
Haug volle intitolarlo Preludio? Fu una semplice distrazione, alla quale Segovia –
magari di comune accordo con Haug stesso – pose rimedio con la sua incisione? O
forse Haug intendeva considerare il Preludio come un brano che succedeva si ad
Alba, ma precedeva comunque altri pezzi in una sorta di suite?
Se ciò fosse vero, potremmo considerare l’Étude (1955) e la Passacaglia (1956) –
rimasti seppelliti nell’archivio di Segovia fino al 2001 – dei tentativi di completare
questa suite? Ricordiamo che l’assemblaggio del trittico ad opera di Haug appare
come un’operazione alquanto artificiosa, frutto di un’esigenza urgente - forse sotto
pressione proprio di Segovia – di produrre un lavoro in più movimenti. Potremmo
considerare il trittico l’epilogo di tentativi di assemblaggio precedentemente falliti?
Lasciamo irrisolti questi quesiti nella speranza che dallo stesso archivio di Segovia o
dal suo enorme epistolario possano un giorno riaffiorare documenti o manoscritti in
grado di fornirci delle risposte.
Per ciò che riguarda il contenuto musicale, il Preludio si presenta come un brano
sostanzialmente monodico, caratterizzato da uno spiccato cromatismo e da una quasi
ostentata varietà ritmica, che ricordano la parte della chitarra nel Concertino (1951).
Tutto ciò viene inserito in un contesto melodico e timbrico molto espressivo,
sottolineato dall’indicazione iniziale - presente solo nel manoscritto - ‘très libre’.
137
IV.3. Étude (Rondo Fantastico).
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141
L’Étude (Rondo fantastico), di cui abbiamo riportato sopra il frontespizio e le tre
pagine del manoscritto, fu ritrovato, come abbiamo già avuto modo di sottolineare,
assieme al manoscritto della Passacaglia, il 7 maggio del 2001 da Angelo Gilardino
nell’archivio musicale di Segovia. Fino ad allora né la vedova di Haug, né Gilardino
(che aveva curato le precedenti edizioni delle musiche per chitarra), né Matthey
(curatore del catalogo delle opere di Haug), avevano avuto il minimo sospetto
dell’esistenza di ulteriori brani dedicati dal compositore svizzero alla chitarra. Nella
prefazione al volume contenente l’opera completa di Haug per chitarra sola,
Gilardino così riferisce circa le emozioni provate in occasione del ritrovamento:
<<Mi sentii come se avessi ritrovato due lettere sconosciute di un vecchio amico>>7.
Perché Segovia trascurò a tal punto questi brani da “archiviarli”, sottraendoli al
giudizio del suo pubblico, non spetta a noi stabilirlo. Certamente non sono stati né i
primi né gli ultimi brani destinati da Segovia a tale sorte.
Sul frontespizio del manoscritto, oltre al titolo e alla firma, compaiono la dedica Pour
Andrés Segovia, la data (Losanna, gennaio 1955) e l’indicazione della durata di tre
minuti.
Vista la dedica al chitarrista spagnolo, è possibile che Haug avesse inviato il brano a
Segovia per ottenere un giudizio a riguardo, senza conservare altre copie per sé:
questo giustifica il fatto che la vedova non fosse a conoscenza della sua esistenza.
La dicitura del titolo, Étude (Rondo fantastico), suggerisce tre riflessioni sull’aspetto
formale del brano. La prima riguarda l’indicazione Étude, che sottolinea il possibile 7 Cfr. Hans Haug - The complete works for solo guitar, Bérben, Ancona 2003, Prefazione a cura di Angelo Gilardino, pag.8.
142
carattere didattico del brano, reso ancor più evidente dall’assenza di difficoltà
tecniche strumentali di particolare rilievo. La seconda riflessione, focalizzata
sull’indicazione Rondo, suggerisce la presenza di materiale tematico ricorrente.
Concludiamo con l’aggettivo fantastico, che qualifica il termine Rondo - nella
dicitura tra parentesi - ed appare come un richiamo alla forma della Fantasia, onde
sottolineare il carattere libero e quasi improvvisato sia della melodia che
dell’arpeggio.
La struttura formale del Rondo si manifesta attraverso la ripetizione di materiale
tematico presentato interamente nel primo periodo di sedici battute, che segue ad una
breve introduzione di quattro battute.
La melodia presenta un carattere cromatico evidente anche nell’arpeggio che funge
da accompagnamento. Tale materiale melodico è riproposto, con opportune e
fantasiose modifiche, in tutte le sezioni del brano, ma a volte è riconoscibile in
maniera più evidente. Ad esempio, il frammento tematico di esordio (battute 5 e 6) è
riproposto in maniera pressoché identica alle battute 50/51 e 82/83, seppur inserito
in contesti armonici differenti (Figura f ).
(batt.5/6) (batt.50/51)
(batt. 82/83) (Figura f)
143
IV.4. Passacaglia.
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Le notizie di carattere storico riguardanti questo brano, il ritrovamento del
manoscritto e la recente pubblicazione, sono le stesse già riportate nel paragrafo
precedente, relative all’ Étude (Rondo fantastico).
Il frontespizio del manoscritto riporta la datazione: settembre 1956. Non è presente la
dedica esplicita a Segovia, come per l’ Étude, ma è piuttosto evidente che fosse
proprio il chitarrista spagnolo la fonte d’ispirazione per questa composizione.
Il titolo Passacaglia chiarisce esplicitamente il contenuto formale del brano.
La Passacaglia era originariamente una danza spagnola, affermatasi a partire dal ‘600
nella sua forma consistente in variazioni su un basso ostinato, di ritmo ternario e di
andamento moderato.
Nelle prime otto battute della Passacaglia di Haug assistiamo alla presentazione del
tema, un basso ricco di cromatismi, costruito in un contesto tonale di La minore. Le
prime variazioni sono il frutto di una chiara scrittura contrappuntistica. Il basso è
presentato inalterato nelle prime tre variazioni, accompagnato da una seconda voce
acuta, di volta in volta più articolata dal punto di vista ritmico.
Dalla quarta alla sesta variazione il tema passa nel registro acuto, trasposto nella
tonalità di dominante: la seconda voce, passata al registro grave, perde le sue
caratteristiche spiccatamente melodiche per diventare un arpeggio con caratteristiche
ritmiche differenti in ogni variazione.
Le variazioni VII e VIII abbandonano il carattere contrappuntistico delle precedenti.
Le note del tema – evidenziate con degli accenti - sono inserite all’interno di un
arpeggio con ritmo di terzine (VII) e di quartine (VIII).
147
Con la IX variazione il tema torna nel registro grave trasposto, questa volta, al tono
della sottodominante e sovrastato da accordi a tre voci.
Nella X variazione (con chiare intenzioni contrappuntistiche e virtuosistiche) il tema,
di nuovo alla dominante, subisce modifiche sostanziali, non più solo di carattere
ritmico, ma anche dal punto di vista melodico. La voce superiore è caratterizzata da
una incisiva figurazione ritmica.
La variazione successiva provvede a ricordare immediatamente il tema originale
riproponendolo nella tonalità d’impianto, così come lo si era ascoltato la prima volta.
L’accompagnamento è affidato a bicordi organizzati secondo uno schema ritmico ben
definito.
La variazione numero XII è forse la più interessante dal punto di vista strumentale. Il
tema, ancora alla tonica, è inserito – attraverso note accentate - all’interno di un
arpeggio che funge da accompagnamento ad una melodia proposta all’acuto
attraverso la tecnica del tremolo.
Nella variazione XIII, le due voci, entrambe con un ritmo molto incisivo, sono
organizzate contrappuntisticamente. Il tema, evidenziato ancora una volta mediante
l’utilizzo di accenti, è presente nella voce grave, ancora nella tonalità d’impianto.
La variazione XIV vede al basso un pedale di dominante costruito su un ritmo
martellante mediante l’utilizzo di crome e semicrome. Il tema, questa volta alla
dominante, è presentato nella voce superiore mediante raddoppi sia ritmici che
all’ottava.
148
La variazione conclusiva, di carattere accordale, presenta il tema in La minore nella
voce acuta degli accordi, opportunamente modificato nel finale, onde consentire la
cadenza V-I. Questa volta il basso assume una funzione puramente armonica per
delineare il percorso cadenzale.
149
IV.5. Il trittico: Prélude, Tiento e Toccata.
Il trittico fu assemblato da Haug dopo il 1961, ossia dopo aver terminato il Tiento
durante il suo soggiorno a Santiago de Compostella. Abbiamo già sottolineato più
volte come la decisione di assemblare questi tre brani vada letta come l’esigenza di
offrire a Segovia un lavoro più organico per i suoi programmi da concerto. Lo stesso
Haug indicò le modalità di assemblaggio dei tre brani ponendo un numero romano sul
frontespizio dei tre manoscritti onde indicare l’ordine di esecuzione.
A seguito del loro incontro nel 1970, Angelo Gilardino e Madame Haug decisero di
pubblicare il trittico conservando il titolo dei tre brani nell’ordine predisposto dal
compositore.
Osservando i manoscritti in nostro possesso, ossia quelli pubblicati in fac-simile dalla
Bèrben, nel 2003, in calce al volume contenente l’opera completa di Haug per
chitarra sola, notiamo che solo il Tiento riporta la data e il luogo di composizione
(Santiago di Compostella 26-28/9/1961). Queste copie sono quelle affidate da
Madame Haug a Gilardino in occasione della prima pubblicazione del 1970,
identiche a quelle affidate dalla vedova anche alla Biblioteca Cantonale e
Universitaria di Losanna che gestisce il Fondo delle musiche di Haug. Ciò spiega
anche come mai il frontespizio del manoscritto del Prélude riporti l’indicazione
MUH24, apposta dal Prof. Matthey a seguito del suo lavoro di catalogazione.
150
Inoltre, sul frontespizio del Prélude, come su quello della Toccata, è indicato il
numero delle parti in cui si suddividono i brani: numerazione riportata anche negli
spartiti. Ciò non è valido per il Tiento.
Alla luce di quanto svelato da Gilardino con il suo ritrovamento di musiche di Haug
custodite nell’archivio di Segovia, sappiamo che esiste un’altra copia manoscritta sia
del Prélude che della Toccata. In questi manoscritti i brani sono indicati con titoli
differenti e – cosa di enorme importanza – vengono indicate le date di composizione.
Sappiamo infatti che la Toccata fu il primo dei tre brani del trittico ad essere
terminato, l’8 agosto 1952, e riportava il titolo Rondò (“La Gitarra”). Il manoscritto
conservato nell’archivio di Segovia è purtroppo incompleto.
Il Prélude fu composto successivamente: il manoscritto ritrovato nell’archivio di
Segovia riporta la data di settembre 1956, dunque contemporaneo della Passacaglia,
e il titolo completo di Prélude (Étude).
Esamineremo in questa sede i tre brani non nell’ordine voluto da Haug a seguito
dell’assemblaggio del trittico, ma seguendo un ordine cronologico e conservando i
titoli dei manoscritti ritrovati nell’archivio di Segovia. Opereremo in questo modo
perché riteniamo che ciò possa chiarire meglio eventuali evoluzioni nello stile
compositivo di Haug avvenute nel corso degli anni, ma – soprattutto - perché è ormai
evidente che l’assemblaggio sia stato operato da Haug senza alcuna motivazione
legata ad affinità circa i contenuti musicali dei tre brani, accomunati solo dal carattere
improvvisativo evocato dai titoli.
151
IV.5.1. Rondò (“La Gitarra”).
152
Il frontespizio del manoscritto riportato alla pagina precedente è relativo alla copia
affidata da Madame Haug ad Angelo Gilardino nel 1970. Pur essendo l’ultimo dei tre
brani, secondo l’ordine voluto da Haug all’interno del trittico, affrontiamo per prima
la Toccata, in quanto – alla luce di quanto già sottolineato in precedenza – fu il primo
dei tre brani ad essere terminato da Haug l’8 agosto 1952 con il titolo Rondò (“La
Gitarra”).
Sul frontespizio compare la numerazione relativa alla suddivisione in parti del brano,
già incontrata in precedenza, quando ci siamo occupati del Preludio.
Il brano è diviso in cinque parti, le prime due sono suddivise in sette sezioni, le
ultime tre parti sono composte da otto sezioni ciascuna. Osservando il manoscritto
notiamo come la numerazione di queste parti non inizi da uno, bensì da otto: la prima
parte del brano è l’ottava parte del trittico. Ciò evidenzia il fatto che il manoscritto in
nostro possesso è stato redatto da Haug nella fase di assemblaggio del trittico, quando
era ormai già chiara nella mente dell’autore quella che doveva essere la sua funzione
di chiusura. È interessante notare come a concludere il trittico sia proprio il brano più
vecchio dei tre, composto ben nove anni prima del Tiento. Il fatto che Haug non abbia
provato alcun imbarazzo nell’operare un assemblaggio del genere ci suggerisce che
probabilmente egli non riscontrasse nessun cambiamento nel proprio stile
compositivo, nell’arco di questi nove anni, tale da impedire un accostamento tra i
brani da lui scelti. Non sarebbe certo la prima volta che un compositore decida di
adattare brani composti in precedenza per inglobarli in un lavoro organico che
comprenda musiche composte anche a distanza di diversi anni. Le uniche domande
153
che possiamo dunque porci sono relative alle decisioni di modificare i titoli
precedentemente affidati alle composizioni “riciclate”. Può un brano nato nel 1952
col titolo di Rondò (“La Gitarra”) cambiare nel 1961 il proprio titolo in Toccata? La
nostra è una domanda retorica perché è evidente che un compositore può decidere
liberamente quando e come vuole cambiare il titolo di un proprio brano, a maggior
ragione se consideriamo che spesso i titoli scelti dagli autori non hanno alcun nesso
con il contenuto della composizione. Il discorso è però diverso quando il titolo
contiene in sé dei nessi con la forma stessa del pezzo. Sia il titolo Rondò che Toccata
richiamano forme musicali che provocano nell’ascoltatore delle aspettative
sull’organizzazione strutturale del materiale musicale contenuto nel brano. Dunque,
se Haug ha deciso di dare entrambi questi titoli al proprio brano, è evidente che lo
ritenesse fornito dei contenuti formali sia del rondò che della toccata.
Il termine toccata indica un breve componimento avente carattere d’improvvisazione
e dunque con una struttura formale non ben definita.
La struttura formale del rondò consiste invece nell’alternanza di un episodio fisso ( o
lievemente modificato, seppur sempre riconoscibile) nella tonalità fondamentale, con
episodi di carattere contrastante ambientati in tonalità diverse.
Non è la prima volta che Haug accosta in un proprio titolo richiami alla prassi
dell’improvvisazione con la forma del rondò: abbiamo già visto come nell’Étude
(Rondò fantastico) avvenga qualcosa di analogo.
In questo <<Rondò (“La Gitarra”) – Toccata>> si ha una sezione introduttiva di
otto battute alla quale fa seguito il tema, anch’esso di otto battute (Figura g), ripetuto
154
– secondo i canoni formali del rondò – in maniera pressoché identica alle battute 34-
41 e 113-120.
(Figura g)
Proprio in queste prime sedici battute si respira un’atmosfera simile a quella creata
nelle sezioni cadenzali del Concertino per chitarra e piccola orchestra. Il materiale
utilizzato risulta essere molto simile: scale, accordi e l’utilizzo ritmico che se ne fa
nella Toccata sembrano essere presi in prestito dagli incisi solistici della chitarra
presenti nel primo movimento del Concertino. Questi prestiti di materiale tematico
possono essere giustificati dalla vicinanza cronologica che vi è tra il Concertino e la
Toccata.
L’intero brano presenta quel carattere di improvvisazione suggerito dal titolo Toccata
ed evidenziato dai cromatismi presenti nella linea melodica. Ancora una volta
notiamo quanto Haug amasse creare melodie ricche di cromatismi, con un’intrinseca
tensione espressiva. A nostro avviso il cromatismo era per Haug uno strumento di
ancoraggio al sistema tonale tradizionale, che – pur avendo esaurito gran parte delle
sue capacità espressive – riusciva (proprio grazie all’utilizzo dei cromatismi e alla
loro tensione drammatica) a suscitare ancora interesse. Forse questa è una chiave di
lettura per comprendere la mancata adesione da parte di Haug agli ideali della musica
155
dodecafonica. Con il sistema dodecafonico la base del sistema musicale diviene la
scala cromatica di dodici suoni in cui tutte le note sono equiparate; annullata ogni
distinzione e gerarchia tra note alterate e non alterate, su cui si basava, il cromatismo
perderebbe la sua funzione espressiva e ragion d’essere.
156
IV.5.2. Prélude (Étude).
157
Osservando il frontespizio del manoscritto riportato alla pagina precedente, è
possibile individuare degli elementi degni di nota. Primo fra tutti, il titolo Prélude è
preceduto dal numero romano I, indicazione che chiarisce come Haug abbia
compilato questo manoscritto in fase di assemblaggio del trittico. Su questo
manoscritto non è indicata alcuna data di composizione e ciò ha lasciato intendere per
anni che fosse stato composto contestualmente al Tiento e alla Toccata, nel 1961.
Alla luce dei ritrovamenti fatti da Gilardino nel maggio 2001, sappiamo che, come è
già stato visto per la Toccata, la genesi del Prélude avviene precedentemente al
Tiento. Nell’archivio di Segovia, custodito a Linares ad opera della Fondazione
Segovia, è presente una copia manoscritta del Prélude che porta la data del settembre
1956 e il titolo completo di Prélude (Étude). Il manoscritto da noi esaminato,
pubblicato dalla Bèrben nel volume contenente l’opera completa di Haug per chitarra
sola, è stato redatto da Haug durante il suo lavoro di assemblaggio del trittico. Ciò ci
suggerisce una riflessione: a meno che Haug non ricordasse a memoria l’intero brano
(cosa alquanto improbabile), è presumibile che egli avesse conservato una copia del
manoscritto del brano consegnato a Segovia nel 1956. Di questa copia non si ha però
alcuna notizia. Sappiamo che una copia del manoscritto recante il titolo Prélude
(Étude) e la data del 1956 è conservata a Linares; una copia del manoscritto del brano
riveduto dall’autore in vista dell’assemblaggio del trittico e quindi recante il titolo di
Prélude è stata affidata, assieme a tutti gli altri lavori di Haug, dalla vedova alla
Biblioteca Cantonale e Universitaria di Losanna, che gestisce il Fondo “Haug”; una
fotocopia di quest’ultimo manoscritto fu consegnata dalla vedova a Gilardino in
158
occasione della pubblicazione del 1970 ed è ora conservata presso gli archivi della
Bèrben.
Non ci risulta che vi siano in giro per il mondo altre copie del manoscritto e, per
giunta, la copia conservata dalla Bèrben non offre grossi spunti di interesse: essa è
solo una fotocopia del manoscritto consegnato dalla vedova al Prof. Matthey in vista
della catalogazione avvenuta sempre nel 1970. Ciò è confermato dal fatto che sul
frontespizio del manoscritto, pubblicato dalla Bèrben, compare l’indicazione del
numero d’opera (MUH 24), apposto dal Matthey in fase di catalogazione.
Sul frontespizio, oltre all’indicazione del numero d’opera, è indicata anche la
suddivisione del brano in quattro parti, ribadita all’inizio della prima pagina dello
spartito, ove si evince che ogni parte è suddivisa in sette sezioni.
Un’ultima riflessione riguarda le motivazioni che possono aver indotto Haug a
modificare il titolo originale eliminando la dicitura Étude tra parentesi.
Il termine Étude viene utilizzato per indicare un brano composto con finalità
didattiche o avente un chiaro carattere virtuosistico e, come tale, va eseguito da solo o
inserito in una raccolta di studi. È evidente che, nel momento in cui il Prélude viene
destinato a fungere da brano d’esordio del trittico, l’indicazione Étude risulterebbe
fuori luogo. Altra motivazione potrebbe essere che Haug si fosse accorto che il brano
non mostrava intenti né didattici, né virtuosistici o – cosa ancor più probabile – Haug
potrebbe aver deciso di dare ai tre brani del trittico un titolo unico, che esprimesse
con immediatezza il carattere di improvvisazione che li accomuna. Infatti, il titolo
159
Prélude, come anche Tiento e Toccata, richiama una forma di composizione libera
che non rifugge da elementi imitativi. I tre titoli possono essere considerati sinonimi.
Le osservazioni sui contenuti musicali e la struttura formale del brano evidenziano un
approccio compositivo adoperato da Haug, analogo a quello già evidenziato nella
Toccata. Pur essendo composti a quattro anni di distanza i due brani sono accomunati
dallo stesso stile e dalla medesima struttura formale: quella del rondò.
Il tema d’esordio del brano (Figura h) - riaccennato brevemente nella sezione
centrale alla battuta 31, per essere immediatamente abbandonato - viene riproposto,
in maniera identica all’esposizione, nella sezione della ripresa (battuta 51 ),
precedendo una breve coda con funzione cadenzale.
(Figura h)
Sia la melodia che l’arpeggio, che funge da accompagnamento, sono – ancora una
volta – caratterizzati dal cromatismo tanto caro ad Haug. Lo stesso cromatismo,
l’articolazione del fraseggio, le numerose indicazioni espressive, rendono questo
brano carico di un gusto prettamente romantico: appassionato.
160
IV.5.3. Tiento.
161
Il frontespizio del manoscritto del Tiento riporta unicamente l’indicazione del titolo e
il numero d’ordine all’interno del trittico. Lo spartito contiene alla fine della seconda
pagina l’indicazione della data e il luogo di composizione (Santiago de Compostella
26-28/9/1961).
Ricordiamo che Haug si trovava a Santiago - luogo molto suggestivo, dotato di un
santuario meta di continui pellegrinaggi – dietro invito di Andrés Segovia, per tenere
un corso estivo di composizione.
Non è possibile stabilire se il Tiento nasca con la chiara intenzione di essere
raggruppato assieme al Prélude e alla Toccata, ma è evidente come, dato il suo
carattere lento ed evocativo, svolga magistralmente – all’interno del trittico – la
funzione di movimento lento.
Il termine “Tiento” in spagnolo indica il camminare, tastando con il bastone, del
cieco. In musica fu utilizzato per indicare una composizione per organo, di stile
imitativo, in voga in Spagna nei secoli XVI e XVII. È l’equivalente dell’italiano
“ricercare” e il titolo stesso indica un procedimento compositivo, e di conseguenza
esecutivo, basato sulla ricerca, il tentativo, l’improvvisazione. L’origine della forma
del Tiento va probabilmente ricercata nella raccolta di musiche per vihuela di Luis de
Milàn intitolata El Maestro (1535-36).
Lo spartito di Haug esordisce con la didascalia Improvvisando ed appare ricco di
indicazioni di dinamica, accordi arpeggiati, segni espressivi. Il Tiento ci appare come
un concentrato di ispirazione poetica ottenuto mediante melodie semplici e cantabili,
accorgimenti di carattere timbrico ed armonico che attribuiscono al brano
162
un’atmosfera onirica raggiunta, a nostro avviso, anche in Alba e in alcuni punti del
Concertino.
Il brano trasuda elementi tipici della musica popolare spagnola, quasi come se Haug
traesse ispirazione dal luogo in cui si trovava durante la gestazione dell’opera. Le
armonie, il carattere modale delle melodie, il frequente utilizzo dell’hemiolia dal
punto di vista ritmico, fanno sì che il Tiento contenga tutti i profumi e i sapori della
tradizione musicale spagnola. Haug non avrebbe potuto ringraziare Segovia, per
l’invito a Santiago, in maniera migliore che scrivendo un brano per chitarra di alto
valore artistico come il Tiento.
163
IV.6. Fantasia.
164
Il primo brano di musica da camera comprendente la chitarra fu la Fantasia per
chitarra e pianoforte, scritto da Haug nel 1957. Il pezzo, indicato nel catalogo curato
da Matthey all’interno della sezione I (Musica da camera) con il numero d’opera
MUH 26, fu dedicato alla chitarrista Luise Walker, conosciuta probabilmente nel
1956, quando entrambi furono membri della giuria del Concorso Internazionale di
Ginevra.
Il catalogo ci informa che la Biblioteca Cantonale e Universitaria di Losanna
conserva all’interno del “Fondo Haug” una fotocopia del manoscritto autografo sul
quale è indicata la durata del brano, pari a dieci minuti e trenta secondi.
Le edizioni Bèrben pubblicarono la Fantasia nel 1973, all’interno della “Collezione
di musiche per chitarra diretta da Angelo Gilardino”.
Il brano è composto con cura per favorire l’uguaglianza tra i due strumenti, mettendo
da parte i problemi relativi all’equilibrio sonoro. Il materiale tematico espone le
principali caratteristiche dello stile di Haug: modelli ritmici semplici, sezioni
accordali dai colori scuri e di grande ricchezza timbrica, un contrappunto ingegnoso
così come temi modali lirici e di ampio respiro.
L’opera è strutturata secondo la forma del rondò.
La sezione iniziale Allegro moderato, più volte ripresa all’interno del brano (battute
61 e 252) è caratterizzata da un dialogo tra i due strumenti costruito con accordi
energici, interrotti da brevi e virtuosistiche volatine della chitarra, l’ultima delle quali
(a battuta 19) realizza un intelligente rallentando ritmico che introduce alla sezione
successiva (Figura i).
165
(Figura i)
Da battuta 20 a battuta 60 Haug realizza una sezione molto espressiva caratterizzata
da una melodia, affidata alla chitarra, estremamente cantabile e di ampio respiro. Il
pianoforte accompagna con arpeggi molto coinvolgenti, la cui ricchezza timbrica è
rinforzata dall’utilizzo del pedale.
Alla battuta 61 si riprende il Tempo I con gli stessi accordi iniziali, presto
abbandonati per dare spazio ai virtuosismi della chitarra. Questa sezione termina (alla
battuta 85) con un frammento, che ricorda tanto la parte della chitarra in un episodio
del primo movimento del Concertino (Figura l).
(Fantasia)
(Concertino: chitarra – battute da 98 a 102)
(Figura l)
Alla battuta 86 ha inizio una sezione in quattro mezzi, molto vivace, che reca
l’indicazione Allegro vivo (quasi scherzo). Questa sezione termina a battuta 158 ed è
seguita da due brevi sezioni Molto meno e Andante (la prima di quattro battute, la
166
seconda di sei), nelle quali il tempo subisce un drastico rallentamento che introduce
alla seguente Ballade (Figura m).
(Figura m)
La Ballade è forse la parte più interessante della Fantasia. Si tratta di un ricercare
costruito su una melodia estremamente cantabile introdotta da una dicitura tra
parentesi: “Chant d’un Troubadour”; ciò la accomuna al brano per chitarra sola
Alba, esaminato in precedenza. Tutta la sezione è molto libera (come richiesto
esplicitamente con l’indicazione in tedesco Sehr frei) sia nella parte melodica della
chitarra, sia negli accordi arpeggiati (quasi arpa) affidati al pianoforte. Alla battuta
216 inizia un intervento cadenzale della chitarra (ad lib. quasi Cadenza) che conduce
alla conclusione della Ballade. Ciò avviene alla battuta 251, a seguito di sei battute in
cui la chitarra ripropone una successione accordale presa in prestito, ancora una volta,
dal Concertino del 1951.
Segue la ripetizione delle prime sessanta battute e la ripresa finale del Tempo primo,
che conduce ad una breve coda (battuta 272), in cui gli accordi iniziali vengono
opportunamente modificati (ad esempio il Mi minore diviene Mi maggiore) per dare
ulteriore solarità all’intero finale.
La Fantasia per chitarra e pianoforte ci appare come un brano scritto davvero bene,
sia dal punto di vista dell’equilibrio sonoro tra i due strumenti, sia per ciò che
167
riguarda la coerenza strutturale, la qualità dei contenuti tematici e la ricchezza
timbrica dell’insieme. Un brano, dunque, che non ha nulla da invidiare alle
composizioni analoghe, scritte da autori di maggior prestigio come ad esempio
Castelnuovo-Tedesco. Anche quest’ultimo scrisse nel 1950 una Fantasia per chitarra
e pianoforte, dedicata ad Andrés Segovia e a sua moglie Paquita Madriguera, che ha
riscosso sicuramente maggior successo della Fantasia di Haug, sia per quanto
riguarda l’inserimento in programmi da concerto, che le incisioni discografiche.
Andrés Segovia era sicuramente il chitarrista di maggior prestigio sullo scenario
concertistico internazionale. Il fatto che Haug avesse dedicato la Fantasia a Luise
Walker, che sicuramente teneva meno concerti di Segovia, ha sicuramente contribuito
ad una diffusione della Fantasia minore rispetto a quella realmente meritata dal
brano. Luise Walker era una chitarrista che esercitò la sua carriera di concertista e
didatta principalmente in Austria: ciò spiega perché alcune indicazioni apportate da
Haug alla parte della chitarra nella Fantasia fossero in tedesco.
168
IV.7. Capriccio.
169
Nel 1963 Haug compose il Capriccio per chitarra e flauto. Nel catalogo di Matthey il
brano è indicato col numero d’opera MUH25 ed è conservato presso la Biblioteca
Cantonale e Universitaria di Losanna sia in esemplare di stampa che in copia
manoscritta. Il brano fu pubblicato dalle edizioni Max Eschig di Parigi nel 1967. La
durata indicata sullo spartito è di undici minuti e cinquantacinque secondi.
Il Capriccio fu dedicato da Haug al duo Tripp-Ragossnig; quest’ultimo ha curato le
diteggiature per la pubblicazione. Ancora una volta notiamo come le musiche per
chitarra di Haug non siano più una prerogativa di Segovia. Il chitarrista austriaco
Konrad Ragossnig, nel 1963, aveva appena trentuno anni e si era da poco distinto
nello scenario concertistico internazionale vincendo, nel 1961, il Concorso
Internazionale di Chitarra di Parigi. Il duo chitarra e flauto Tripp-Ragossnig ebbe
notevole successo in tutta Europa e questa volta la scelta di Haug di dedicare a loro il
suo Capriccio appare una mossa azzeccata per le sorti favorevoli del brano. La
pubblicazione da parte di una casa editrice prestigiosa come la Max Eschig e
l’immediata incisione da parte del duo ne sono una conferma.
Il termine Capriccio è stato utilizzato nella storia della musica per indicare una
varietà innumerevole di composizioni. Nel XVII secolo con Capriccio si indicava una
composizione strumentale di carattere estemporaneo ed estroso, in parte simile al
ricercare e alla fantasia. In seguito il termine indicò composizioni di carattere
programmatico o virtuosistico, comunque libero da prescrizioni formali.
Il Capriccio di Haug mostra di essere pervaso da motivi folclorici di chiara
provenienza iberica. L’inclinazione tipicamente romantica del compositore, come nel
170
Tiento per chitarra sola o in alcuni momenti del Concertino per chitarra e orchestra, è
qui tutta volta ad evocare un’atmosfera esotica vaga e indefinita. Tutto ciò che
presenta chiare connotazioni popolari, infatti, viene intellettualmente filtrato con
grande perizia; ne risulta un’interpretazione finale elegante e sapiente in cui il
materiale musicale di riferimento, attraverso anche una scrupolosa definizione
timbrica, viene ad assumere un carattere spiccatamente concettuale.
Il brano è costituito da tre movimenti: 1) Prélude; 2) Sérénade à l’inconnue; 3)
Gigue.
Il Prélude comincia con due battute di 6/4 affidate alla sola chitarra, ripetute per ben
quattro volte, con un effetto quasi ipnotico. Su di esse si inserisce la melodia del
flauto molto legata ed espressiva, di carattere cromatico. Alla battuta 9 la parte della
chitarra, che finora fungeva solo da accompagnamento, comincia a dialogare con il
flauto dando origine ad una sezione di carattere imitativo. Alla battuta 19 la chitarra
viene lasciata da sola in una breve sezione cadenzale contrassegnata dall’ annotazione
Quasi Recitativo alla quale segue di nuovo un vivace dialogo tra i due strumenti, che
sfocia (battuta 39) nella ripresa del Tempo I con la riproposizione del materiale
tematico ascoltato nella sezione iniziale. Quest’ultima viene opportunamente
modificata per condurre alla sezione conclusiva (da battuta 55 a 59) caratterizzata,
prima dall’incalzare del flauto su accordi arpeggiati della chitarra, e poi da una finale
distensione di entrambi gli strumenti verso l’accordo conclusivo di La maggiore.
171
172
Il titolo del secondo movimento, Sérénade à l’inconnue, è un richiamo alla forma
della serenata. Tale forma ha origini e caratteri popolari e una struttura semplice e
libera; nasce in contrapposizione al canto del mattino (Alba) intonato dai Trovatori
nel Medioevo: ancora una volta la lirica trobadorica funge da musa ispiratrice per la
musica di Haug, come già era avvenuto in Alba e nella Fantasia. La serenata apparve
nelle raccolte umanistico-rinascimentali accanto ad altre forme di canto popolare
(villanelle, giustiniane). Nella seconda metà del XVIII sec. indicò una composizione
vocale-strumentale destinata all’esecuzione serale << en plein air >>. Predilesse
organici con strumenti a fiato, e fu strutturata come un seguito di danze, con preludio
e marcia.
L’Allegretto con cui inizia la Sérénade è ricco dei richiami folclorici della musica
spagnola di cui si accennava in precedenza. Le armonie e il loro adattamento ritmico,
sono un richiamo elegantemente filtrato del canto popolare spagnolo.
Alla battuta 21 inizia, invece, il canto notturno della serenata, intonato sotto voce con
estrema eleganza e a turno, prima dal flauto, poi anche dalla chitarra. Alla battuta 56
ricompare il ritornello iniziale con l’indicazione di Tempo I e poi (battuta 73)
nuovamente il tema dell’Andante, questa volta in tempo ternario e in forma più breve
per lasciare spazio ad una nuova e conclusiva ripresa del ritornello. Infatti da battuta
80 a 87 il ritornello ricompare col suo ritmo flamenco, non più in un contesto
armonico di La maggiore, bensì nella tonalità di Mi maggiore, per terminare con un
punto coronato sull’accordo di Sib maggiore. La struttura del brano è dunque quella
tipica della canzone, con l’alternanza tra strofa e ritornello: a b a’ b’ a’’.
173
174
La Gigue è il terzo movimento del Capriccio. Lo stesso titolo riconduce chiaramente
alla musica barocca; infatti, la gigue era una danza in tempo ternario e di andamento
veloce, in uso nel XVII e XVIII secolo. Di origine forse irlandese, ebbe larga
diffusione in tutta Europa, entrando a far parte della suite strumentale di cui
costituiva di norma il tempo mosso finale.
Anche all’interno del Capriccio la Gigue assolve alla sua funzione di danza veloce
conclusiva. Il suo inizio energico e brillante in 6/8 mette immediatamente in evidenza
la valenza virtuosistica di entrambe le parti strumentali. Il tempo iniziale Presto
possibile subisce una lieve flessione a battuta 27 (Poco meno) per tornare al tempo
primo, con relativa ripresa tematica, alla battuta 46. Alla battuta 57 comincia la
sezione lirica del brano con un tema molto espressivo affidato prima al flauto e poi
scambiato a più riprese tra i due strumenti. La melodia di questa sezione presenta -
così come anche gli accompagnamenti sotto il loro aspetto armonico, ritmico e
timbrico – nuovi richiami alla tradizione della musica popolare spagnola. A battuta
118 si riprende il Tempo I, ma questa volta, dal punto di vista tematico, comincia
un’ampia sezione di sviluppo di tutti gli spunti tematici ascoltati finora. I due
strumenti procedono parallelamente con eguale piglio energetico, ritmico e
virtuosistico, equilibrati da una sapiente scrittura contrappuntistica. Poco prima del
finale (battuta 184) si ascolta per l’ultima volta il tema cantabile presentato in
precedenza alla battuta 57, segue un cambio di tempo repentino che conduce alla
cadenza sull’accordo finale, sforzatissimo, di La minore.
175
IV.8. Concertino per chitarra e piccola orchestra.
176
Il Concertino per chitarra e piccola orchestra ci risulta essere il primo brano in cui
Haug utilizza la chitarra affidandole un ruolo da protagonista. Scritto in occasione del
concorso di composizione, indetto dall’Accademia Chigiana di Siena, il Concertino
ricevette il primo premio, nell’estate del 1951, relativamente alla sezione “Concerto
per chitarra e orchestra da camera”. Promotore di tale concorso fu Andrés Segovia, il
cui giudizio fu sicuramente il più influente all’interno della commissione
esaminatrice dei lavori. Tra i riconoscimenti annunciati per i vincitori della
competizione erano previste la pubblicazione dei brani da parte delle edizioni Schott
e la pubblica esecuzione, affidata alla chitarra dello stesso Segovia, programmata per
l’estate del 1952. Abbiamo già sottolineato nel primo capitolo come queste promesse
- mantenute per la Cavatina di Tansman, vincitrice nella sezione “opere per chitarra
sola” - non furono osservate nei confronti del Concertino di Haug.
La pubblicazione del Concertino fu realizzata dalla Bèrben solo nel 1970, quindi
dopo la morte del compositore, ed inserita nella “Collezione di musiche per chitarra
diretta da Angelo Gilardino”. La prima esecuzione mondiale fu invece realizzata, non
da Segovia, ma da Alexandre Lagoya con l’Orchestra da camera di Losanna.
Ho eseguito personalmente il Concertino nel giugno del 2000, in occasione del
Centenario della nascita dell’autore, con la collaborazione dell’Orchestra del
Conservatorio Gesualdo da Venosa di Potenza diretta dal M° Raffaele Napoli.
Esprimo ancora oggi il mio stupore su come tale Concerto sia stato completamente
ignorato per tutti questi anni dai miei colleghi chitarristi e dagli Enti concertistici.
177
Nonostante fosse il primo lavoro dedicato da Haug alla chitarra, il Concertino appare
sapientemente scritto: in esso il compositore si divincola facilmente da ogni problema
relativo all’equilibrio tra strumento solista e orchestra, problemi che sappiamo essere
di non poco conto, vista la sonorità ridotta della chitarra.
La maggior parte dei chitarristi sembra ostinarsi a voler mostrare capacità
funamboliche sullo strumento eseguendo sempre gli stessi concerti per chitarra e
orchestra di autori come Rodrigo, Villa-Lobos o Castelnuovo-Tedesco. Si tratta di
Concerti dall’indiscusso valore artistico e di alto valore tecnico strumentale, ma la
situazione attuale è tale che chiunque - privo di conoscenze sulla letteratura
chitarristica – si recasse nei maggiori negozi di dischi italiani o frequentasse le sale
da concerto dei circuiti “grossi”, si convincerebbe che gli autori sopra elencati siano
gli unici ad aver composto concerti per chitarra e orchestra. Eppure esistono Concerti
per chitarra, come quello di Ohana, Ruiz-Pipò e lo stesso Haug, di alta ispirazione
artistica e scritti talmente bene, per ciò che riguarda l’equilibrio sonoro, che
l’amplificazione della chitarra potrebbe (l’uso del condizionale non è casuale)
risultare superflua. Un purista del suono come Segovia, che non amava amplificare la
chitarra (ricordiamo una sua disputa con Villa-Lobos, il quale prescriveva
l’amplificazione dello strumento per il suo Concerto per chitarra e orchestra,
composto nello stesso anno del Concertino di Haug ) avrebbe dovuto cogliere al volo
l’occasione presentatagli, eseguendo il Concertino di Haug come previsto dal
regolamento del concorso chigiano, ma è anche vero che Segovia era pur sempre un
178
essere umano ed eseguire tutti i brani scritti per lui sarebbe stata un’impresa che di
umano avrebbe avuto ben poco.
Fino al 1951 Haug aveva scritto solo Concerti e Concertini (la differenza
terminologica sta oggi ad indicare una composizione ridotta dell’orchestra nel
Concertino) per violino (primo concerto in assoluto scritto da Haug nel 1924 e
dedicato al suo maestro Walter Courvoisier), violoncello, pianoforte e flauto.
I concerti per chitarra e orchestra maggiormente conosciuti all’epoca in cui Haug
scriveva il suo Concertino - ad eccezione di quelli del periodo classico come il
Concerto in La maggiore op.30 di Mauro Giuliani – erano: il Concerto in Re
maggiore op.99 scritto da Castelnuovo-Tedesco nel 1939 ed eseguito per la prima
volta da Segovia a Los Angeles nel 1947; il Concerto de Aranjuez, scritto da Joaquìn
Rodrigo sempre nel 1939, dedicato a Regino Saiz de la Maza, che ne fu il primo
esecutore; risale invece al 1941 il Concerto del sur di Manuel Maria Ponce. Altri
Concerti, entrati nel repertorio dei maggiori chitarristi del Novecento, portano date
successive a quella di creazione del Concertino di Haug : il Concerto di Villa-Lobos
fu scritto anch’esso nel 1951; la Fantasia para un gentilhombre di Rodrigo risale
invece al 1954. Notiamo dunque come non vi fosse una gran possibilità di scelta per i
chitarristi che intendevano eseguire concerti per chitarra e orchestra: questa fu
probabilmente una delle motivazioni che spinsero Segovia a sollecitare la creazione
di un concorso di composizione come quello indetto dall’Accademia Chigiana nel
1951.
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Il Concertino per chitarra e piccola orchestra è indicato nel Catalogo dell’opera di
Haug, curato da Jean-Louis Matthey, con il numero d’opera MUH 48. Accanto
all’indicazione del titolo compare la dicitura tra parentesi: Quasi una fantasia, non
presente sulla partitura pubblicata dalla Bèrben, ma probabilmente apposta
dall’autore sulla copia manoscritta custodita presso la Biblioteca Cantonale e
Universitaria di Losanna. È presente anche l’indicazione della durata di 24’.
L’orchestra è composta da un flauto, un oboe, due clarinetti in Sib, un fagotto, un
corno in Fa, una tromba in Do e dal quintetto d’archi; le percussioni prevedono
l’utilizzo di timpani, glockenspiel e triangolo.
Il Concertino è composto da tre movimenti. Il primo movimento inizia con un
Moderato, quasi improvvisando in cui il primo tema è affidato ai clarinetti e al
fagotto, ripreso dagli archi, e poi dalla chitarra (battuta 14), per essere affidato
all’intera orchestra a partire dalla battuta 20.
Alla battuta 36 entra il secondo tema affidato agli archi che dialogano con i fiati fino
alla battuta 44, dove inizia una sezione quasi cadenzale della chitarra, che termina
con un breve duetto col flauto prima di condurre all’Andante di battuta 60.
Con l’Allegro moderato di battuta 71 continua l’elaborazione dei materiali tematici
esposti precedentemente, caratterizzata da un continuo scambio tra chitarra e
orchestra fino alla battuta 135, dove inizia la Cadenza della chitarra. Nella Cadenza la
chitarra riprende il materiale già ascoltato precedentemente, riproposto con una
scrittura sapiente, densa di cromatismi e molto ricca dal punto di vista timbrico, come
se la chitarra fosse un’orchestra in miniatura.
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Segue una breve ripresa del primo tema affidato agli archi con progressivo incalzare
dell’intera orchestra verso l’energico accordo conclusivo di La minore.
Nel secondo movimento, Andante, il tema – una melodia molto lirica recante
l’indicazione: semplice ma espressivo – è affidato inizialmente alla chitarra con
l’accompagnamento dei clarinetti. In chiave compare il Sib nella parte della chitarra e
il Fa# in quella dei clarinetti: alterazioni che scompaiono alla battuta 16, dove inizia
per la chitarra una successione di accordi ai quali si sovrappongono degli incisi
melodici affidati ai clarinetti. Alla battuta 24 la chitarra prende il posto dei clarinetti e
realizza degli interventi melodici sugli accordi, affidati questa volta agli archi.
L’intero movimento - molto poetico ed espressivo, interessante dal punto di vista
timbrico pur se non si raggiunge mai il pieno dell’orchestra – non presenta una grossa
varietà di materiale tematico e confluisce rapidamente, e senza interruzione,
nell’atmosfera scherzosa del terzo movimento, Allegro moderato. Questo movimento
inizia con un cambio improvviso di tempo rispetto al secondo. In realtà la divisione
tra i due movimenti è puramente teorica, frutto del numero romano III, apposto da
Haug all’inizio del terzo movimento. In pratica, però, l’ Allegro moderato è un
naturale proseguimento dell’Andante, come è dimostrato dalla numerazione delle
battute che non ricomincia da zero, come era avvenuto alla fine del primo
movimento.
Il terzo movimento presenta una struttura tripartita con successiva cadenza della
chitarra e una coda in cui viene brevemente ripreso il tema della prima parte. L’
Allegro moderato inizia con incisi del nuovo tema affidati prima alle viole, poi al
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fagotto, per essere finalmente eseguito per intero dalla chitarra (da battuta 70 a 77)
nella tonalità di La maggiore. Lo si ascolta poi eseguito dai violini e continuamente
scambiato tra i vari strumenti dell’orchestra, frammentato, trasposto, modificato, ma
senza mai perdere l’incisività ritmica che lo caratterizza. In questa parte è prevista
anche una breve sezione cadenzale della chitarra (da battuta 129 a 146).
La seconda parte, Lentamente, con fantasia, inizia a battuta 163. È caratterizzata da
un nuovo tema, molto lirico e affidato alla chitarra, che si snoda su note tenute degli
archi e il contemporaneo tremolo su note lunghe dei clarinetti. Ne deriva una
coinvolgente atmosfera, onirica e fantastica, molto valida dal punto di vista timbrico.
Alla battuta 205, segnata dall’indicazione Tempo I, si ha una ripresa della prima
parte, con lo stesso tema ritmico e giocoso, scambiato tra la chitarra e gli altri
strumenti dell’orchestra. Segue, da battuta 281, la cadenza della chitarra, molto
libera, che ripropone il tema lirico della seconda parte. La cadenza termina a battuta
311 con una breve ripresentazione del primo tema, affidata al fagotto. Segue una
coda, Molto allegro, caratterizzata da vorticose scale discendenti degli archi e
ascendenti dei fiati che accumulano energia e conducono alla cadenza, che risolve
sull’accordo finale di La maggiore.
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IV.9. Doppelkonzert.
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Il Doppelkonzert per flauto, chitarra e orchestra da camera fu uno degli ultimi lavori
scritto da Haug prima di morire. Gli unici lavori che ci risultano ad esso successivi
sono un Concerto per tromba e orchestra (scritto anch’esso a Belmont) del 1967,
dedicato a Helmut Hunger, e un Concerto per violino e orchestra, rimasto
incompiuto: il primo movimento fu eseguito dall’ Orchestra da Camera di Losanna
nel 1968, a un anno dalla morte dell’autore.
Nel 1968 il manoscritto del Doppelkonzert fu affidato dalla vedova di Haug, assieme
al resto degli spartiti del marito in suo possesso, alla Biblioteca Cantonale e
Universitaria di Losanna, che istituì il “Fondo Haug”. Successivamente i diritti
furono acquisiti dalle edizioni Henn di Ginevra. Per visionare la partitura è necessario
corrispondere alla casa editrice un sostanzioso compenso a titolo di noleggio, cosa
che molto probabilmente ha scoraggiato molti musicisti interessati ad eseguire il
brano, che, a tutt’oggi, risulta non essere mai stato eseguito. Fortunatamente il Prof.
Matthey mi ha gentilmente inviato, per esclusivi scopi di studio, una copia del
manoscritto della riduzione per pianoforte, di cui la Biblioteca dell’Università di
Losanna è in possesso. Non trattandosi della partitura, non siamo in grado di riflettere
sulle scelte di orchestrazione fatte da Haug, anche se – per fortuna – spesso
compaiono sulla riduzione delle indicazioni a riguardo. Ricaviamo le informazioni
relative alla composizione dell’orchestra dal Catalogo dell’opera redatto dallo stesso
Matthey.
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L’orchestra è composta da un flauto piccolo, un flauto traverso, un oboe, un corno
inglese, due clarinetti, un clarinetto basso, un fagotto, due corni in Fa, due trombe,
timpani, tamburi, triangolo, tam-tam, xilofono, piatti, campane e quintetto d’archi.
Il Doppelkonzert è composto da tre movimenti: 1) Andante; 2) Quasi una fantasia; 3)
Rondò giocoso.
Le diverse sezioni in cui è suddiviso il Concerto sono indicate da lettere maiuscole. Il
primo movimento esordisce con un tema melodico esposto, con scrittura
contrappuntistica dal flauto e dalla chitarra, su di un accompagnamento discreto e
ritmico realizzato dai timpani e dal pizzicato dei contrabbassi. La sezione successiva
è affidata ai soli archi: si passa ad un Allegro vivace di appena sette battute, prima di
tornare al Tempo I (Battuta 32) in cui la chitarra dialoga con le viole in una sezione
molto libera (quasi improvvisando). Segue un nuovo inciso, Allegro, dei soli archi,
che lascia subito spazio ad una nuova sezione molto espressiva dedicata al flauto con
accompagnamento degli archi. Alla battuta 73 si assiste ad una breve sezione
cadenzale degli strumenti solisti. A questa si contrappone la sezione successiva in cui
è invece l’orchestra da sola a fare da protagonista. Il movimento prosegue in questo
modo, con una sapiente alternanza di momenti di tensione a momenti di distensione,
realizzata anche grazie ad una coscienziosa orchestrazione, in cui gli strumenti solisti
non vengono mai sopraffatti dall’orchestra. Come era avvenuto nel Concertino per
chitarra e piccola orchestra, Haug mostra di conoscere bene i limiti sonori della
chitarra. Forte anche della prova ben riuscita con il Capriccio per chitarra e flauto, il
compositore realizza nel Doppelkonzert, un amalgama sonoro ben equilibrato e ricco
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dal punto di vista timbrico, cosa alla quale Haug ci ha ormai abituati. Altra costante
della scrittura di Haug presente nel Doppelkonzert è il cromatismo intrinseco nei
materiali tematici, sia melodici che accordali, e le figurazioni ritmiche semplici ma
incisive, che si alternano a melodie legate ed espressive. Il primo movimento, la cui
durata indicata sul manoscritto è di quattordici minuti, termina con una sezione,
Sostenuto, di cinque battute, tutte in “Fortissimo”, con note acute del flauto, abbellite
da acciaccature, sostenute da accordi marcati della chitarra. L’ultima battuta, che
segue ad una pausa di croma con punto coronato, presenta l’indicazione “Presto” e
vede tutta l’orchestra impegnata nella realizzazione della cadenza (Mi maggiore/La
minore) sempre in “Fortissimo”.
Il 3/4, con cui termina il primo movimento, viene sostituito dal 6/8 del secondo, che
inizia con un Andante con moto, il cui tema, “espressivo (quasi legato)”, è affidato al
flauto e alla chitarra (all’unisono), che dialogano con il corno inglese, i clarinetti e il
fagotto. Il tema viene riproposto più volte durante tutto il secondo movimento,
costruito, come annotato dallo stesso Haug sul manoscritto, in maniera molto libera,
“Quasi una fantasia”.
Davvero interessante ci sembra la cadenza a tre, che inizia a battuta 99 ed è affidata
alla chitarra, al flauto e al corno inglese. Le linee melodiche, intrecciate con un
sapiente contrappunto, producono un impasto timbrico davvero interessante. Il finale,
da battuta 164, vede una ripresa del tema iniziale affidato al flauto e opportunamente
modificato per concludersi con un “pianissimo” (si ha una sorta di effetto in
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“sfumando”) sostenuto dall’accordo di Do maggiore. La durata complessiva del
secondo movimento, indicata sul manoscritto, è di nove minuti e dieci secondi.
Il terzo movimento, della durata di otto minuti e trenta secondi, è un Rondò giocoso il
cui tema iniziale, un Allegro in quattro mezzi, è affidato prima ai soli violini, ai quali
si aggiunge poi il resto dell’orchestra. La chitarra entra da sola alla battuta 28, seguita
dal flauto, che intona una melodia molto simile, per quanto riguarda la sua incisività
ritmica, al tema iniziale del terzo movimento del Concertino. Il brano prosegue con la
sua struttura di Rondò con la costante attenzione all’equilibrio sonoro e
l’introduzione di nuovi spunti tematici. Alla battuta 115 si ascolta la prima cadenza,
molto espressiva, iniziata dalla chitarra, cui si sovrappone il flauto dopo due battute. I
due strumenti instaurano un dialogo, su un tessuto musicale denso di cromatismi,
interrotto a battuta 141 dall’irruzione dell’orchestra. La seconda cadenza compare a
battuta 217, un “Più vivo” che ha inizio con degli accordi fortissimi della chitarra sui
quali si inserisce una lunga scala ascendente del flauto. La cadenza si interrompe con
un intervento intenso e vivace dell’orchestra in cui vengono riproposti a più riprese, e
da diversi strumenti, frammenti del primo tema. Ciò introduce al “Quasi presto”
finale, che ha inizio con degli accordi in rasgueado della chitarra e termina con una
lunga scala (ascendente per il flauto, discendente per la chitarra) che conduce
all’accordo conclusivo di La maggiore, affidato al “tutti” dell’orchestra.
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IV.10. Conclusioni.
In questo lavoro, dedicato alla figura di Hans Haug e alla sua musica per chitarra,
abbiamo avuto modo di conoscere e fornire diverse notizie su un compositore molto
conosciuto in Svizzera, soprattutto per la sua attività di Direttore d’orchestra, ma – a
nostro avviso – alquanto trascurato, finora, per la sua sapiente e raffinata produzione
artistica.
Le notizie biografiche, pubblicate sui maggiori Dizionari enciclopedici dedicati alla
musica e ai musicisti, relative ad Haug, si manifestano come la punta di un iceberg,
alla luce delle notizie da noi raccolte in questo lavoro. Il nostro intento era e rimane
quello di attribuire il giusto valore all’arte di un compositore per troppo tempo
relegato nella folta schiera dei “compositori minori”.
Ci piace immaginare che questo lavoro possa fornire il giusto stimolo per coloro che,
musicisti e non, vogliano continuare ad indagare sul valore delle musiche, non solo
per chitarra, che Haug ci ha regalato. La sua produzione musicale si è svelata ai nostri
occhi nella sua forma eclettica, frutto della genuina ispirazione e della profonda
conoscenza degli strumenti di cui un compositore dispone.
Relativamente alla musica per chitarra di Haug, abbiamo cercato di gettare nuova
luce, fornendo notizie sulla datazione di alcuni lavori e sull’esistenza di brani di cui
non si era precedentemente a conoscenza.
Il catalogo delle opere di Haug andrebbe dunque aggiornato.
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Ci eravamo proposti di introdurre Haug tra i compositori di primo piano che
orbitarono attorno alla figura di Segovia. Non spetta a noi fare una classifica, non
sarebbe possibile farla, e non è nostra intenzione lanciare provocazioni a riguardo, ma
il lavoro qui proposto ha voluto essere una testimonianza del valore e del significato
delle musiche per chitarra di Haug. Non pensiamo di far torto a nessuno se
esprimiamo il favore con cui vedremmo il nome di Haug comparire più
frequentemente, accanto a quello di Castelnuovo-Tedesco, Tansman, Villa-Lobos,
Rodrigo, Ponce, Turina, Torroba ecc, nei programmi da concerto dei chitarristi, o in
articoli di contenuto storico interessati agli autori “segoviani”.
Abbiamo osservato da vicino la produzione chitarristica di Haug con l’intento di
stimolare la curiosità dei chitarristi e invitarli a rinnovare il repertorio chitarristico
non solo guardando al presente - che per fortuna appare piuttosto roseo grazie alla
generosa produzione di musiche per chitarra da parte di valenti compositori
contemporanei – ma anche al passato.
Nonostante il titanico lavoro che Angelo Gilardino sta svolgendo da anni per
riscoprire brani per chitarra del passato, dimenticati o ignorati per anni, il mondo
della chitarra ha ancora bisogno di lavori di ricerca storiografica seri e condotti con
criterio scientifico. La letteratura chitarristica, nonostante stia subendo una crescita
esponenziale negli ultimi anni, deve ancora coprire un gap abissale nei confronti di
quella di altri strumenti come il pianoforte, gli archi o i fiati. Spetta ora ai chitarristi
ed agli studiosi di questo strumento far sì che ciò avvenga.
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Bibliografia F. BUSONI, Lo sguardo lieto: tutti gli scritti sulla musica e le arti, a cura di F. D’Amico, Il Saggiatore, Milano, 1977. M. DELL’ARA, Manuale di storia della chitarra vol.1°, Bèrben, Ancona, 1988. U. DUSE , Per una storia della musica del Novecento e altri saggi, Torino, 1981. E. FUBINI, Il pensiero musicale del Novecento e le avanguardie, in « MusicaIncerta » a cura di Arturo Tallini, Ut Orpheus Edizioni , Bologna 2000. E. FUBINI, L’estetica musicale dal Settecento ad oggi, Einaudi, Torino, 1964. P.-A. GAILLARD, Haug Hans, in Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e dei Musicisti/ diretto da Alberto Basso/ vol.3, UTET, Torino, 1986, pp. 476-477. P.-A. GAILLARD, La création musicale en Suisse romande entre 1950 et 1975, in Tendances et réalisations, a cura dell’ Association des Musiciens Suisses, Zurigo, 1975. A. GILARDINO, Manuale di storia della chitarra vol.2° - La chitarra moderna e contemporanea, Bèrben, Ancona, 1988. C. GREGORAT, Sguardo panoramico sullo sviluppo dei sistemi musicali dall’inizio del ‘900 ad oggi, saggio pubblicato sul sito www.rudolfsteiner.it. D.- J. GROUT , Storia della musica in Occidente, Feltrinelli, Milano, 1984. H. JONKERS, A Swiss Homage to Andrès Segovia, pubblicato sulla pagina web www.hanjonkers.com, 1996. A. LANZA, 10.2: Il Novecento 2, Storia della Musica a cura della Società Italiana di Musicologia, EDT, Torino, 1980. R. LUPI, Armonia di gravitazione, De Santis, Roma, 1946. R. LUPI, Il libro segreto di un musicista, Centro Internazionale del Libro, Firenze, 1971. J.-L. MATTHEY E L.-D. PERRET, Catalogue de l’ouvre de Hans Haug, Bibliothèque Cantonale et Universitaire, Losanna, 1971.
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