alberto di giovanni la dialettica dell'amore

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ITINERARI CRITICI 5 ALBERTO di GIOVANNI La dialettica dell3amore « UTI-FRUÌ» NELLE PRECONFESSIONI DI SANT 1 AGOSTINO EDIZIONI ABETE ROMA

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uti-frui, SANT' AGOSTINO

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Page 1: ALBERTO Di GIOVANNI La Dialettica Dell'Amore

IT IN E R A R I C R IT IC I

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A L B E R T O d i G IO V A N N I

La dialettica dell3amore

« UTI-FRUÌ»

NELLE PRECON FESSION I D I S A N T 1 AG O STIN O

E D IZ IO N I A B E TE RO M A

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Tutti i d i r i t t i riservati

E D IZ IO N I A B E T E

Rom a - Corso Vittorio Emanuele, 39

Introduzione

Dottore della grazia, Agostino {354-430) è, non meno giustamente, il riconosciuto dottore della carità, dell’a­more soprannaturale che dalla grazia scaturisce. Ma co­me dottore, come teoreta di una dottrina rivelata, per teorizzare sulla carità deve averne, prima od insieme, approfonditi i fondamenti teorici naturali, deve cioè aver filosofato sull’amore, sulla psicologia e deontologia del- l’amare. Solo infatti una chiara visione di cosa sia l ’a­mare (psicologia) e di cosa e come si debba amare (deon­tologia), — visione fondata su un solido, seppur meno esplicito, sostrato metafisico: i beni e il Bene, e la par­tecipazione degli uni dall’A ltro — potrà permettere al­l ’Agostino teologo l ’intellezione, anzitutto, e il conseguen­te sistematizzare in sintesi i dati molteplici e sparsi della Rivelazione sull’amore.

Di questa filosofia, soggiacente alla sua teologia sul­l ’amore, il presente lavoro vorrebbe allora cogliere le grandi linee nel primo decennio dopo la conversione (estate del 386), decennio che segna l ’inizio di una con­tinua, fecondissima, attività letteraria e di pensiero co­ronata dal capolavoro, le « Confessioni » (397-398 [o -401]).

Sono, esse, la storia del suo spirito fino alla conver­sione (i primi nove libri) ed insieme (1. X specialmente) l ’istantanea dell’animo suo nel momento stesso in cui, ormai vescovo, le scrive: sia l ’Agostino narrato chel ’Agostino narrante 1 vi appare dotato di una costante,

1. La distinzione è di A. M asn ovo: cfr., nel suo S. Ago­stino e S. Tomaso. Concordanze e sviluppi (Milano, 19502), il cap. IV « Filosofia cristiana » (p. 99 e passim).

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luridissima presenza di sé a se stesso. Agisce e vive, Ago- si ino, .ma in piena, esasperata talora, consapevolezza del suo vivere ed agire; chiedendosi di continuo quali motivilo spingano, quali ansie lo muovano e quali illusioni; quali delusioni, e perché, da quelle conseguano.

Spirito sommo, Agostino, come ogni spirito, è attivo ed identico a sè mediante le due supreme forme d ’at­tività spirituale, il conoscere e l ’amare: tutto in tutto,Io spirito è infatti trasparente a sè stesso (coscienza co­noscitiva, conoscere) e volente se stesso in affettiva (amare) coesione con se stesso.1 Ma vivendosi nel pro­prio valore e nella propria finitudine, non s’appaga del­l’essere suo limitato; si coglie invece teso tutto, cono­scitivamente ed affettivamente, all’Essere, semplicemen­te e totalmente. Questa la condizione umana, che Ago­stino, uomo anch’egli, in sè rivive, con l ’acuta consape­volezza d ’un genio appunto dello spirito.

Cos’altro è, infatti, il suo passato, se non l ’inquieto cercare conoscitivo-aflettivo Colui che nell’intimo l ’ha strutturato per Sè, come un vivente « ad illum » (feci­sti nos ad te)7 Un amore, la sua vita; un amore alla ri­cerca dell’Amabile pienamente appagante. Una vicenda di luce e di tenebre: i falsi amori, falsi perchè deviazioni dal senso profondo di quel suo infinito inclinare al bene, che solo più tard i2 gli si rivelerà inclinazione al Bene infinito, l ’Attraente che di continuo, attraverso ed ol­tre le attrattive finite, l ’attirava e l’attira. Partecipi del Bene, i finiti l ’attirano; partecipazioni, i beni non esauri­

1. Su questo compenetrarsi, nell’essere (esse) spirituale, di conoscere ed amare (nosse e velie), cfr. ad es. Coni X III, ir , 12. (P. L., t. 32, col. 849-850): lo spirito umano come immagine della Trinità, lo Spirito Divino.

2. Troppo tardi .al suo cuore: « Sero te amavi, pulchritudo tam antiqua et tam nova! Sero te amavi! » (Conf. X, 27, 38; t. 32, col. 795).

scono in sé la totalità di valore e d ’attrattiva del Bene, e non appagano la senza fine tesa inquietudine dello spi­rito, del « cuore » umano (... et inquietum est cor no­strum). Trovato Dio, finalmente la requie (...donec re­quiescat in te): requie che, nel possesso, è perenne ri­cerca dell’Amato, per un possesso sempre nuovo e mag­giore. E ’ possesso infatti di quel « tam magnum bonum, quod et inveniendum quaeritur, et quaerendum inveni­tur », e che « quaeritur ut inveniatur dulcius, et inve­nitur ut quaeratur avidius ».1

Il suo riflesso mediare la propria vicenda, chiarirà allora ad Agostino insieme il proprio spirito e lo spi­rito umano stesso; illuminerà l ’eterna . vicenda d ’ogni uomo, «anim ai inquietum » sempre e per definizione. Ecco allora, fra i primi suoi scritti (quelli di Cassiciaco: autunno del 386-387), i « Soliloqui » ove, solo con se stesso, s’interroga su sè e Dio, su quel Dio appunto che « tutto ciò che è capace d’amare ama, o conscio o incon­sciamente ».2 Ed ecco, un decennio più tardi, le « Con­fessioni », per approfondire ancora la propria vicenda interiore, quell’esperienza che al tempo dei « Soliloqui » era appena giunta al suo termine, ma termine avvio a nuova vita in nuovo amore. Da allora infatti Agostino ha vissuto d ’amore, vive l ’amore per il suo Dio: ben al­tra è perciò la sua consapevolezza di quest’attività fon­damentale del suo spirito, l ’amare, sia immediatamente (per la decennale, costante intimità con il Termine d ’es­sa), sia riflessamente. Questo decennio, infatti, dedicato anche à continuo studio, ha armato il suo spirito di que-

1. De Trinit. XV, 2, 2; t. 42, col. 1058: è l ’esegesi tutta agostiniana del Salmo 104 «...quaerite Dominum...; quaerite faciem eius semper ».

2. « Deus qüem amat omne quod potest amare, sive sciens, sive nesciens » (Soliloq, I, 1, 2; t. 32, coi. 869).

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fji siriimenti (ilosoiico-teologici che potranno aiutarlo nia a meglio chiarire sè a se stesso: la sua vita, ch’è amore; l ’amore, sua vita.

Con quegli strumenti, infatti, Agostino ricostruisce il suo passato, costruisce le « Confessioni »: interpreta, cioè, il significato del suo amare nei vari suoi amori.

Il conoscere la natura dello strumento, studiandolo in se stesso e nel suo farsi (è strumento di pensiero, che si fa pensandosi!), prima di vederlo usato nelle Confes­sioni, varrà a comprendere meglio che cosa, con esso, Agostino vorrà esprimerci in quelle. L ’indagare cioè cosa Agostino, l ’uomo-filosofo Agostino, pensasse delFamore, quale teoria se ne fosse formata in precedenza, servirà di chiave ermeneutica ad afferrarne il pensiero al riguardo nelle Confessioni, G li scritti « minori », infatti, servono ad inquadrare quelli « maggiori » per meglio intenderne le formule più mature, talvolta enigmatiche nella loro rifinita levigatezza o nella loro sbrigatività, scoprendoci e chiarendo l ’evoluzione genetica che a quelle ha por­tato.1

L ’indagine intrapresa a tale scopo, però, si è dimo­strata valida anche in se stessa, rivelando nell’Agostino

i . Giustamente scrive A. Guzzo: «Limitarmi a studiare le ‘principali’ opere di Agostino, trascurando gli scritti minori? Riconosco volentieri che questa cernita delle opere di un autore è quasi sempre esatta: perché di farlo s’è curata la storia, che non s’inganna, o non s’inganna mai completamente. Ma io so per esperienza che le opere ‘maggiori’, proprio perché raccol­gono e potenziano in sé tutto lo sparso lavorio delle ‘minori’ , risultano enigmatiche a chi, non giungendovi per la stessa via onde vi giunse l ’autore, se le trova dinanzi come formule per­fette ed ermetiche, di cui non possiede la chiave: onde s’accende l ’estro e la fantasia a ricostruire, ‘ad libitum’ o press’a poco, quei concetti di cui non si è seguita la genesi »; in Agostino. Dal ‘Contra Academicos’ al 'De Vera Religione’ (Firenze 1925: ripubblicato in Agostino e Tommaso, vol. II dei suoi Scritti di Storia della filosofia, Torino 1958), Prefazione, p. V III,

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pre-Confessioni una dottrina filosofica suH’amore ben chiara e netta, e sufficientemente completa. Con un dop­pio vantaggio, anzi, dal punto di vista filosofico, sulle Confessioni: la dottrina sull’amore infatti vi si presenta più esplicita, meno immersa, cioè, in quell’integralità concreta di pensiero e di vita sì propria dell’Ipponese; e vi si presenta come filosofia, l ’aspetto filosofico essen­done ben più rilevato che nella « spiritualità », prevalen­temente teologico-cristiana, delle Confessioni.

Ma come condurre l ’indagine? Piuttosto che abbrac­ciare sommariamente tutta l’opera agostiniana pre-Con- fessioni, scorrendola affrettatamente con il rischio conti­nuo di travisare il senso genuino delle singole citazioni, non approfondite nel loro contesto, è preferibile un al­tro criterio di sondaggio. Scelte due opere veramente si­gnificative per la filosofia dell’amore, analizzarle a fondo testo nel contesto, per estrarne tutto l ’apporto specula­tivo al nostro tema: esse costituiranno così due testimo­nianze qualificatissime sul pensiero agostiniano prima delle Confessioni, divenendo insieme strumento prezio­so d’interpretazione di queste ultime (non è infatti il numero delle opere che conta, ma la loro qualità).

Sia il D e diversis quaestionibus LXXXIII, che il De doctrina christiana, i campioni-sonda prescelti, sono in posizione privilegiata rispetto al compito loro assegnato. Ambedue infatti trattano « espressamente » dell’amore, e filosoficamente; anche se la filosofia prevale sulla teo­logia piuttosto nella prima opera che non nella seconda. Il loro contenuto filosofico sull’amore, poi, è molto ric­co, anche se più sul piano morale che non su quello psicologico, o su quello ancor più soggiacente della me­tafisica. La loro posizione cronologica, infine, lu n a al principio e l ’altra alla fine del periodo che c ’interessa,

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.ivv!iloi;i i titoli precedenti, qualificandole come validi icNiiiiiiiiii e interpreti di un pensiero mantenutosi in pie- ita coniinuiuì, senza mutazioni, come vedremo.

Il trattamento analitico delle due opere seguirà uno schema identico nelle sue grandi linee: dopo un’introdu­zione inquadrativa dell’opera, nella sua cronologia e nel suo carattere e contenuto generale, ne sarà.pazientemente ricostruito il pensiero sull’amore, prima da un punto di vista prevalentemente psicologico, poi da quello preva­lentemente morale, sempre con l ’occhio all’insieme del­l ’opera, come alla compresenzialità dei vari punti di vista, .filosofici ed extrafilosofici, sull’amore.

L ’indagine condotta con metodo concentrico nelle due opere (sempre lo stesso tema, e con uno schema sostanzialmente identico, pur nell’adattabilità richiesta dall’indole propria di ognuna), faciliterà la constatazione finale che il di più e il di meno che la prima opera of­fre sulla seconda, e reciprocamente, non fa che integrare ed arricchire un pensiero sostanzialmente immutato. Una breve conclusione riassumerà allora, sintetizzandoli, i dati acquisiti sull’amore nella filosofia agostiniana pre-Con- fessioni.

Altrove 1 abbiamo esaminate ampiamente alcune dif­ficoltà preliminari ad ogni studio filosofico su S. Agosti­no: se in Agostino non c’è, ordinariamente, una filo­sofia separata, ciò non significa che in lui non ci sia una filosofia. Il presente lavoro del resto ne fornirà la prova sperimentale.

L ’asistematicità di Agostino, pensatore del concreto

X. Cfr. l’Introduzione all’altro nostro volume: L 'inquietu­dine dell’anima. La dottrina dell’amore nelle « Confessioni » di Sant’Agostino (Roma 1964).

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nella sua integralità,1 impone inoltre allo studioso di « non distinguere se non tenendo uniti »2 i vari piani e, in uno stesso piano, i vari aspetti. Solo tale metodo permetterà di non alterare nè forzare il pensiero filo­sofico agostiniano sull’amore, non mutilandolo delle in­time sue connessioni teologiche e, sul piano filosofico stesso, non ignorandone nè la compresenzialità dell’ele­mento etico a quello psicologico (e viceversa), nè il sog­giacere ad essi del sostrato metafisico, la « partecipa­zione ».

1. Cfr. 1 ’o. c., specialmente le pp. 20-22.Anche J. A. Beckaert, nella Nota complementare Classifica­

tion générale des 83 Questions, così descrive la caratteristica dello stile e del pensiero di A. in tale « Raccolta »:

« Talune questioni (...) si riferiscono 0 più soggetti. Nessuna del resto è così sistematica da non riferirsi che ad un soggetto rigorosamente circoscritto o ad un punto di vista isolato. Lo spi­rito di S. A. è aperto, sintetico, intuitivo dei rapporti del suo pensiero con tutte le sue sorgenti e con tutte le sue virtualità. Per questo l ’esposizione è sempre di estrema densità, e abbozza ordinariamente altre direzioni di ricerca, a fianco o a seguito di quelle prescelte.

« Per la stessa ragione la frase è spesso sovraccarica d’inci­si; taluni hanno la missione di sfumarla, ma quanti intervengono come osservazioni marginali! Lo sviluppo di pensiero potrebbe impegnarvisi, ma non fa che attardatisi un po’, deviando tal­volta l ’attenzione, sollecitata in troppe direzioni. Ciò riprova che si tratta di notazioni scaturite dal colloquio, massa un po’ troppo densa per una esposizione sistematica, ma idi grandi risorse per l ’analista deciso a prendersi tutto l’agio della riflessione» (inB. A., vol. X, p. 701).

Quest’ultima frase l ’accettiamo come programmatica!2. Cfr. la nostra 0. c., pp. 24-25.

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C a p i t o l o ï

Cronologia, carattere e contenuto

Dopo il suo ritorno in Africa (388) e fino al suo epi­scopato (395 o 396) Agostino aveva avuto più volte occasione di rispondere ai quesiti più vari — dì filoso­fia o di teologia, di morale o di esegesi — rivoltigli dai suoi amici e discepoli. Appena eletto vescovo, tra le sue prime cure ci fu quella di raccogliere questi scritti sparsi in un unico volume: il De diversis quaestionibus L X X X III.1 Ce lo narra egli stesso nelle Ritrattazioni, ini­ziando la revisione di questa sua « Raccolta »:

Tra i nostri libri c ’è anche un ’opera piuttosto prolissa, considerata però come un solo libro, dal titolo 83 questioni diverse. Esse erano disperse su m olti foglietti giacché fin dal prim o tempo della mia conversasione, dopo ch’eravamo tornati in A frica, erano state da me dettate senza alcun or­dine, secondo che venivo interrogato dai fratelli quando mi vedevano libero. Orm ai vescovo, ordinai di riunirle e farne un libro, numerandole affinché ognuno potesse trovarvi fa­cilmente quanto volesse leggervi.2

Abbiamo perciò la data: composte dal 388 in poi, furo­no raccolte insieme nel (395 o 396).3 Sono perciò opera

1. Nella Patrologia Latina del M igne (sigla P. L.) si trova nel t, 40 (col. n -io o).

Nella Bibliothèque Augustinienne, Oeuvres de saint Augustin (sigla B. A.), nel vol. X della I serie (Paris 1952). Ha la trad. francese (a cura di J.-A. B eck aer t) a fronte del testo latino (lo stesso del Migne), con Introduzione e Note complementari di G . B ardy (taluna del traduttore).

2. Retract. I, 26; t. 32, col. 624 (trad. mia).3. Su questa data concordano infatti S. Z arb , Chronologia

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uiiirriniv alle Confessioni, non solo nella loro raccolta in volume, ma soprattutto nella loro composizione. E ’ possibile stabilire la cronologia delle singole « quaes­tiones »? Vari autori l ’hanno tentato:1 è probabile che l’ordine di numerazione segua all’incirca quello cronolo­gico. Lo riprova il loro stesso contenuto: quelle solo o prevalentemente filosofiche, infatti, si trovano all’inizio, in seguito prevalgono le questioni esegetiche {qq. 51-65) e paoline (qq. 66-75),2 da ascriversi perciò all’attività di

operum S. Augustini, in Angelicum, X, 1933, p. 395 e XI, 1934, p. 89; B. A ltan er , Patrologia (Tonino 19524), p. 3x5; G . Bar d y , Introduction al De div. quaest. 83 (in B. A ., vol. X), p. 12;C. B oyer , L ’idée de vérité dans la philosophie de saint Au­gustin (Paris 1920), p. 8; V . C apanaga, Obrns de S. Agustin, t. I (M adrid 19502), p. 446; A. C a s a m a s s a , voce Agostino in Enciclopedia Ital., vol. I, p. 917; F. C ayré , Oeuvres de S. Au­gustin, B. A , vol. I (Paris 1949), pp. 101 e 111; H. M arrou, Saint Augustin et Vaugustinisme (Paris 1956), p. 185; J. M artin , Saint Augustin (Paris 19232), p. 397; U. M o ricca , Storia della letteratura latina cristiana, vol. I l i , P. I. (Torino 1932), p. 484; M . F. Scia c c a , S. Agostino, vol. I, La vita e l’ opera. L ’itinera­rio della mente (Brescia 1949), p. 77; e voce Agostino, in Enc. Filosofica, vol. I, col. 88.

1. A. P inch erle si occupa della questione in La formazione teologica di Sant’Agostino (Roma s.d. [1948]), pp. 89-90 e no­ta 14 p. 102 s. Vi avanza l ’ipotesi che le varie questioni siano « disposte secondo un ordine che è, sia pure in maniera approssi­mativa, quello cronologico » (p. 90). Notando l ’esistenza di tre gruppi di qq., filosofico, esegetico, paolino, scrive: « Ma poiché l ’ordine di esse non è che apparentemente sistematico, se ci proviamo invece a considerarlo come cronologico, abbiamo che tutto si spiega, in relazione con la stessa evoluzione spirituale di Agostino » (p. 103).

Lo segue G. B ardy n d l’Introd. al De div. qq. 83 cit., pp. 16-36; cfr. anche H. J. M arrou, S. Aug. et la fin de la culture antique (Paris 1938), p. 168 nota 4; e G. H ultgren , Le commandement d’amour chez Aug. (Paris 1939), che pone le prime 50 qq. come già composte entro il 391 (p. 291).

2. Cfr. F. C a yr é , Initiation à la philosophie de saint Au­gustin, Paris 1947, p. 143. Cfr. anche la Nota compì. Classification générale des 83 Questions di J. A . Be ck a br t , in. B. A ., vol. X, p. 697.

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Agostino ormai sacerdote (anno 391). Le « quaestiones » allora su cui più si soffermerà il nostro interesse appar­tengono, probabilmente, ai primi anni dopo la conver­sione.

« Questioni, diverse », « talune non sono che cita­zioni,1 alcune sono redatte nervosamente con rapidi sil­logismi; nè mancano di quelle ingenue e sottili. Tutte pe­rò hanno un loro interesse, poiché vi si coglie l ’attività prodigiosa d ’uno spirito sempre sveglio, a tutto interes­sato, a tutto cercante una risposta ».2

Particolarmente importanti per il nostro studio sono le qq. 30 (« utrum omnia in utilitatem hominis creata sint »), 35 (« quid amandum sit ») e 36 (« de nutrien­da caritate »). Queste specialmente saranno oggetto d’ana­lisi, integrandole con quei passi di altre « questioni » che valgano a lumeggiarle.

1. A d es. la q. 31, sulla divisione e definizione delle virtù, riportante pari pari un brano di Cicerone, come dichiara Ago­stino stesso nelle Ritrattazioni (I, 26; t. 32, col. 625). Per tale motivo non prenderemo in considerazione quanto vi si dice sul­l’amicizia.

2. G. B ar d y, Saint Augustin. L ’ homme et l’oeuvre, Paris 19403, pp. 283-284.

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C a p i t o l o II

Psicologia dell’amore

I. L 'amore è un appetito, un moto...

E ’ appunto questa la risposta, ancora generica, alla domanda che cosa sia l ’amore, che Agostino ci dà nella

q- 35:« L ’amore infatti è un appetito ».1 E ancora: «Ama­

re infatti non è altro che appetire una cosa per se stes­sa »; 2 « essendo l ’amore un moto, e non avendosi al­cun moto se non verso qualcosa ».3

Da questa risposta prendiamo le mosse, approfon­dendola sotto la guida di Agostino stesso.

II. a) ...verso un oggetto a cui tendere, da appetire...

Lo si deduce chiaramente dall’inizio della q. 35, in cui Ag. si chiede se l ’amore debba essere amato esso stesso:

Si deve amare di vivere senza il timore, e con l ’intelli­genza. Ciò solo si deve amare? o bisogna amare anche l’amo­re stesso? Certamente, dal momento che senza di questo non si può amare neppure l ’altro. Ma se è per le altre cose da amare che si ama l ’amore stesso, è impropriamente che si dice di amarlo. Amare infatti non è altro che appetire qual­cosa per se stessa.

1. « Namque amor appetitus quidam est» (q. 35,2; col. 24).2. « Nihil enim aliud est amare, quam propter seipsam

rem aliquam appetere » [ivi, 1; col. 23).3. « cum amor motus quidam sit, neque ullus sit motus

nisi ad aliquid » (ivi).

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l'niM- ilic clinique l ’amore deve essere appetito per se n I c h s i i , i l ; t l momento che quando manca ciò che è amato, i|iiesi;i è un’indubbia infelicità? Inoltre essendo l’amore un molo, e non avendosi alcun moto se non verso qualcosa, quando chiediamo che cosa debba amarsi, chiediamo ap­punto cosa sia ciò verso cui bisogna muoversi}

Per Agostino è inconcepibile, assurdo, un amare sen­za oggetto alcuno: sarebbe lo stesso che un appetire il nulla, un muoversi verso il nulla; non appetire, cioè, non muoversi, « poiché non si ha nè si può avere moto alcuno se non verso qualcosa » (neque ullus sit motus nisi ad aliquid).

Il carattere oggettivistico dell’amore è inoltre sotto- lineato fortemente dall’affermazione che l ’unica ragione per cui si debba amare l ’amore stesso, non è il valore in sè dell’atto di amare, ma la sua intrinseca, essenziale relazione all’oggetto amato; la sua qualità di mezzo ne­cessario al contatto affettivo con l ’oggetto amato: « sen­za l ’atto di amare non si può amare la cosa amata » (sine hoc illa non amantur).

Se, dunque, il valore dell’amore è misurato dal va­lore dell’oggetto a cui tende, l ’amore stesso non ha un valore in sè, ma solo come mezzo; non può, quindi, essere amato per se stesso, ma solo perchè ed in quanto relato all’oggetto amato.

b) ... per se stesso, o in ordine a un altro,

A rigore, dice Agostino (q. 35,1), solo impropria­mente si può dire di amare l ’amore stesso: « amare in­

i. « Nihil enim aliud est amare, quam propter se ipsam rem aliquam appetere. Num igitur propter se ipsum amor appetendus est, cum quando desit quod amatur, ea sit indubitata miseria? Deinde cum amor motus quidam sit, neque ullus sit motus nisi ad aliquid: cum quaerimus quid amandum sit, quid sit illud ad quod moveri oporteat, quaerimus» (q. 35,1).

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fatti è appetire qualcosa per se slessa » (Nihil enim aliud est amare, quam propter seipsam rem aliquam appete­re). Ne deriva che « se è per le altre cose da amare che si ama l ’amore stesso, è impropriamente che si dice di amarlo » (Sed si propter alia quae amanda sunt amor amatur, non recte amari dicitur).

In ogni moto appetitivo verso qualcosa, si ha amore, non nello stesso modo, però. Amore in senso proprio e pieno è solo il tendere a qualcosa per se stessa; ten­dere a qualcosa in ordine a qualcos’altro (vero termine del moto amoroso), è ancora amore, ma solo in un senso sminuito, improprio. Applicando agli amori la nozione così agostiniana di « partecipazione », potremmo dire che solo l ’amore di un oggetto per se stesso verifica in pieno la nozione di amore, mentre l ’amore di una cosa in ordine a un’altra, ne partecipa sì, ma non total­mente.

c) tale oggetto è il « bonum ».

Che l ’oggetto cui tende l ’amore sia il bene, Agosti­no lo presuppone (more suo), parlandone come di cosa ovvia, per inciso:

Benché nessuno possa perfettam ente avere o conoscere un bene che non è amato: chi infatti può conoscere quanto gran bene sia quello di cui non fruisce? ‘ .

Nessun bene è conosciuto perfettamente, se non è per­fettam ente amato.2

d) tale bene viene chiamato onesto o utile, a seconda

1 . « Quamquam bonum quod non amatur, nemo potest per­fecte habere vel nosse. Quis enim potest nosse quantum sit bonum, quo non fruitur? » (q. 35.1).

2. « nullumque bonum perfecte noscitur, quod non perfecte amatur » (ivi, 2).

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clic siu innato per se stesso [frui), o come mezzo in ordine a un altro bene (uti).

Nella q. 35,1 si è visto che solo l ’amore di un bene per se stesso verifica pienamente il nome di amore, men­tre l ’amore di qualcosa come mezzo ne partecipa solo impropriamente. La q. 30, con il binomio uti e frui di origine stoica, ci dà i termini per distinguere inequivo­cabilmente questi due amori. Con uti infatti vi si de­signa l ’amore di qualcosa come mezzo a un altro bene; con frui l ’amore in senso stretto, del fine, del bene per se stesso.

Tale binomio è introdotto da Agostino ad uno scopo morale, trattando di cosa si debba amare (come fine o solo come mezzo), per conformarsi al piano del Crea­tore che tutto ha creato a bene dell’uomo (è il titolo stesso della q. 30):

Come c’è differenza tra onesto ed utile, così tra il fruire e l ’usare. ...con maggior proprietà e più comune­mente vien detto onesto ciò che è appetendo per se stesso, e utile ciò che è da riferire a qualcos’altro. ... Perciò diciamo di fruire di ciò di cui prendiamo voluttà. Usiamo invece di quello che riferiamo a ciò da cui si deve prendere voluttà. ...Orbene, bisogna fruire dei beni onesti, usare degli u tili.1

Notiamo anche che qui Agostino ci dà un altro ter­mine per descrivere l ’amare (oltre a moto, appetito): prender voluttà, « capere voluptatem ». A seconda poi che il prendere voluttà ce lo offra l ’amato in se stesso,o che esso ne sia solo il mezzo, si ha rispettivamente

1. « U t inter honestum et utile interest, ita et inter fruen- dum et utendum. (...) Magis proprie atque usitatius honestum dicitur quod propter seipsum expetendum est, utile autem quod ad aliud aliquid referendum est; (...) F rui ergo dioimut ea rede qua capimus voluptatem. Utimur ea quam referimus ad idunde voluptas capienda est. (...) Fruendum est autem honestis,utendum vero utilibus » (q. 30; coi. 19).

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il « frui » e 1’« uti ». Si fruisce della cosa da cui si. trae piacere, si usa di quella che viene riferita all’oggetto donde proviene il piacere. L ’amare, cioè, è il tendere ad un oggetto come ad un fine, ad un bene di cui si prende voluttà. Se vi si tende come ad un fine imme­diato (« propter seipsum »), si ha il « frui », se solo co­me ad un fine mediato (riferito « ad aliud aliquid »), si ha 1’« uti ».

e) dai diversi beni (onesto o utile) vengono specifi­cati gli amori, sia psicologicamente che moralmente.

Il termine generico di amore, valido per ogni specie di appetito, sia d’un bene utile che d’un bene onesto, si divide così nel celebre binomio agostiniano di uti e frui. Si ha infatti un « uti », un usare, quando si ama un bene utile, cioè un bene-mezzo; un « frui », un fruire, quando si ama un bene onesto, fine in se stesso. L ’og­getto amato specifica così la tendenza amorosa.

Anche se introdotti per uno scopo morale, « uti » e « frui » sono termini teoretici, psicologici: essi infatti, nella tendenza amorosa, riguardano proprio il suo diverso aspetto intenzionale. Se l ’intenzione di chi ama un dato bene termina a quel bene stesso come a suo fine, la ten­denza amorosa si specificherà come un « frui »; se in­vece attraverso quel bene tende ad un altro oggetto, ecco 1’« uti ».

Riferendosi questa specificazione all’aspetto psicolo­gico, intenzionale del?amare, essa parrebbe tenersi piut­tosto dal lato del soggetto amante; come conciliarlo con l ’affermazione precedente che è l ’oggetto amato (l’« hone­stum » o - l ’« utile») a specificare l ’amore? Riflettendo che l’amore, tendenza di un soggetto (cfr. sotto, § IV ) a un oggetto amato, è con ciò stesso una realtà unica sì, ma bipolare, considerabile cioè sia dal lato dell’aman-

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I h i Iit’ i lii i |i n i In i li'l l 'i in m lo . l ) ; i lo però che in Agostino l'tf&lHMto n^m'itivisiii'o è così pronunciato — assurdo e inmiu'cpibile, per lui, un puro tendere senza un qual­cosa cui tendere — , è forse più agostinianamente esatto dire che è proprio l ’oggetto, considerato nel suo aspetto psicologico di fine o di mezzo a qualcos’altro — secon­do il modo, cioè, con cui esso è il termine dell’inten­zione dell’amante — , a specificare la tendenza amorosa in « frui » o in « uti ».

Per questo carattere oggettivistico dell’amore dun­que, l ’amore non ha valore in se stesso, ma lo deriva dal suo oggetto: i vari amori cioè vengono specificati (appartengono a questa o a quella specie) dal diverso oggetto cui tendono. Si ha da ciò, immediatamente, una conseguenza morale di enorme portata. La risposta in­fatti alla domanda quali amori si debbano amare, si cambia subito nell’altra: quale oggetto si deve amare?

Perciò se si deve amare l ’amore, non bisogna però amar­li tutti. N e esiste infatti anche uno turpe, quello con cui l ’animo persegue le cose a sé inferiori, e che più propria­mente si chiama cupidità, la radice di tutti i m ali.1

Opposto invece all’amore disordinato o cupidità, è l’amore retto, di quanto merita d’essere amato, e che anch’esso riceve da Agostino un termine proprio, ca­rità o dilezione:

L ’amore delle cose che devono essere amate vien detto più propriamente carità o dilezione ,2

1. « Quale si amandus est amor, non utique omnis 'aman­dus est. Est enim et turpis, quo animus se ipso inferiora sectatur, quae magis proprie cupiditas dicitur, omnium sdlicet malorum radix » (q. 35,1; coi. 23-24).

2. « Amor autem .rerum amandarum, caritas v e l . dilectio melius dicitur» (q. 35,2; coi. 24).

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E ’ la conclusione stessa della q. 35 (« quid amandum sit »); la questione seguente così riprende:

Chiamo carità, l ’amore di ciò che non deve essere di­sprezzato a paragone d e ll’amante stesso, cioè l ’eterno e chi può amare tale oggetto eterno. D io dunque e l ’anima (uma­na) da cui è amato, è giusto chiamarli carità purissima e consumata, se non si ami n ull’altro; questa stessa piace dirla d ilezio n e.1

L ’amore, l ’atto di amare non è che il mezzo con cui l ’amante può amare questo o quel bene; potendo pe­rò l ’amore essere amato esso stesso, (sempre nel senso meno proprio di amare), moralmente quali amori si pos­sono e debbono amare? Quelli che siano amori-carità, fuggendo invece gli amori-cupidità.

Anche in campo morale infatti l ’amore, tendenza a un oggetto, dall’oggetto stesso considerato nel suo aspet­to morale, deriva la propria specificazione etica in ca­rità o in cupidità, in amore eticamente ordinato o disor­

dinato.Quando infatd l ’oggetto amato come fin e,2 è ontolo­

gicamente inferiore all’amante, ecco il disordine mo­rale, la « cupiditas ». L ’oggetto, cioè, specifica, anche mo­ralmente la tendenza amorosa, proprio per la sua stessa natura ontologica, oggettivistica, per il fatto stesso di essere il tale oggetto e non il tal altro. Se invece si ve­rificasse il caso contrario, se cioè il bene amato non fosse inferiore all’amante, ma a lui superiore (Dio) o

1. « Caritatem voco, qua amantur ea quae non sunt prae ipso amante contemnenda: id est, quod aeternum est, et quod amare ipsum aeternum potest. Deus igitur et animus quo amatur, caritas proprie dicitur purgatissima et consummata, si nihil aliud amatur: hanc et dilectionem dici placet» (q. 36, x; coi. 25).

2. Che psicologicamente si tratti qui di un amore in senso proprio, dell’oggetto per se stesso — cioè del « frui » — , è chiaro da tutto il contesto della q. 35. 1 che precede il passo qui esaminato (cfr. nota 1, p. 26), o che immediatamente lo segue.

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i n v e c e i i a I < > roi termine, parimenti scritturistico, dl (llphllltls.

limili gli oggetti dell’amore-carità? La conclusione della q. 3 5 ce li indica in Dio, con le parole stesse del primo e supremo comandamento evangelico. La q. 36 ripete fin dall’inizio: Dio e l ’io; 1 e, concludendo, ag­giunge: Dio e il prossimo come noi stessi.2 Oggetto allo­ra della « carità » sono soltanto Dio, me stesso, il mio prossimo. Ne deriva che « caritas » si deve e può avere solo dalla persona umana, e verso le persone: « caritas » fruitiva verso Dio, « uti-carità » verso se stesso e il prossimo. Questi i soli amori virtuosi, ordinati, da par­te dell’uomo verso beni-persone, verso oggetti cioè a sé superiori (Dio) o a sé eguali (se stesso e il prossimo). G li altri « uti » dell’uomo verso esseri non personali a sé inferiori, animali o cose, benché non ricevano il nome specifico di « carità », sono amori moralmente ret­ti, purché egli non ne fruisca ma solo ne usi, quando e nel modo che deve usarli (utilibus autem utendum est omnibus, ut quoquo eorum opus est; q. 30).

« C a rita s » e « cu p id itas » in fa tti, aven d o un sign i­

ficato m orale, non si app lican o a ltro che a ll'u o m o , es­

sendo g li anim ali irra g io n e vo li fu o ri d ella sfera della

m o ra lità 3 p erché fu o ri d e lla ra z io n a lità .4

1. Q. 36, 1; cfr. sopra nota 2, p. 27.2. « Is (sapiens) est autem qui summe diligit Deum, et

proximum tanquam se ipsum » (q. 36,4; col. 26).3. Di essi Agostino afferma che possono «fru i» , benché

limitatamente ai beni corporali; 1’« uti » invece è fuori della loro possibilità, giacché presupporrebbe la discorsività della ra­gione, la sola facoltà capace di riferire una cosa a un’altra: « Et frui quidem cibo et qualibet corporali voluptate non adeo absurde existimantur et bestiae: uti autem aliqua re non potest nisi animal quod rationis est particeps. Scire namque quo quidque referendum sit, non datum est rationis expertibus » (q. 30; coi. 19).

4. La virtù infatti è da Agostino identificata colla « perfecta

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« Caritas » è dunque l ’amore ordinato delPuomo che abbia per oggetto la persona (Dio, l ’io, il prossimo). Dato allora che psicologicamente solo l ’amore verso Dio è un « frui », ecco che là « caritas » nostra verso Dio è dal punto di vista intenzionale, psicologico, un « frui », mentre la « caritas » verso noi stessi e il prossimo è solo un « uti ».

«Cupiditas» designa invece l ’amore disordinato del­l ’uomo verso gli esseri a sé inferiori perché non umani (animali e cose), pretendente cioè di fruire di quanto potrebbe al più essere da lui usato.

Il disordine morale essendo da Agostino additato in due opposte direzioni: voler usare degli oggetti da fruir­si (« fruendis uti velie », contravvenendo al « fruendum est autem honestis »), e voler fruire di quelli solamente da usarsi (« atque utendis frui », opponentesi all’« uten­dum vero utilibus »); il termine « cupiditas » è riferi­bile solo alla seconda specie di deviazione, che vorrebbe elevare ad onesto, oggetto di fruizione, l ’utile; anzi nep­pure comprende ogni fruire vizioso, ma solo quello de­gli esseri inferiori all’uomo.1 Per il fruire vizioso di sé

ratio », al cui potere discorsivo si deve appunto la moralità, qua­lora esso si eserciti nel senso di un retto ordinare una cosa a un’altra, un amore all’oggetto a sé connaturale. Così come allo stesso potere, mal usato, è da attribuire il vizio morale, iden- tificantesi appunto nel disordine, nel riferire cioè l ’amore ad oggetti indebiti. Ë sempre la q. 30 a ricordarlo: « Omnis itaque humana (chè solo l ’uomo ha questo triste privilegio, prezzo du­rissimo del suo potere di scelta morale) perversio est, quae vitium etiam vocatur, fruendis uti velie, atque utendis frui. Et rursus omnis ordinatio, quae virtus etiam nominatur, fruendis frui, et utendis uti. Fruendum est autem honestis, utendum vero utilibus » (coi. 19).

1. Tra essi è da includere anche l ’aspetto corporeo, carnale, dell’uomo; l ’uomo cioè considerato esclusivamente come essere corporeo. Che anche a questo caso di indebita fruizione si estenda il nome di « cupiditas », è implicito sempre nella q. 35,1, in cui Agostino ha introdotto il termine di « cupiditas ». Poco

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e del prossimo, senza cioè subordinare tali amori a Dio, Agostino usa un altro termine particolare, quello di « superbia ». L ’orgoglio, la superbia, infatti, spinge l ’uo­mo a fare di se stesso il proprio fine, trovando con ciò la propria infelicità;1 come è sempre l ’orgoglio a sdegna­re la compagnia dei propri simili, rifuggendo di amarli come propri eguali.2

Per la prima deviazione, voler cioè usare di ciò che deve essere fruito, Agostino non ha alcun termine etico speciale. Poiché però l ’unico essere di cui si debba fruire è Dio, quella specie di disordine si attua a rigore solo in un caso, quando cioè l ’uomo subordina Dio a se stesso, nel massimo di perversione cui possa giungere l ’essere intelligente; perversione implicita appunto, co­me la sua estrema e ultima conseguenza, in quella « su­perbia » che vuol fruire di sé come fine in se stesso, ossia come termine indipendente da Dio.

Questi i rapporti tra « uti-frui » e « caritas-cupidi- tas ». Si osservi però che il confronto tra i due binomi e le deduzioni precedenti si fondano su dati solo impli­citi nelle tre questioni esaminate, e non hanno valore altro che per quest’opera dell’Ipponese. Come apparirà dall’esame del D e doctr. christ., del resto, neppure la

dopo infatti aggiunge: « Et quoniam potest aliquid amari (e si tratta sempre di amore in senso proprio, come fine, di « frui » quindi), nec haberi, non solum ex his quae amanda non sunt, ut pulchrum aliquod corpus... » (col. 24).

1. «Ergo et se ipsa utitur (la ragione umana, l’uomo stesso); quas profecto inchoat miseriam per superbiam, si ad se ipsam, non ad Deum referatur » (q. 30; col. 20).

2. « cavenda superbia est. Difficile est enim ut dignetur consociari hominibus, qui eis piacere iam non desiderat, et plenum se virtutibus putat» (q. 36,4; col. 26). I l superbo con­travviene così al dovere dell’uomo di usare « caeteris rationalibus animantibus ad societatem » (q. 30; col. 20).

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terminologia stessa di « uti » e « frui » conserverà sem­pre il significato tecnico così rigoroso qui usato dal N o­stro, dato che « frui » non vi sarà esclusivamente riser­vato all’amore verso Dio, ma usato, in un senso meno proprio, anche per l ’amore verso l ’io e il prossimo (cfr. sotto, p. 123).

III. L ’amore presuppone anche un soggetto, quegli cioè che ama il « bonum ».

Ciò è implicito in tutti i passi finora citati; in talu­ni però è anche esplicito, vg.:

Chi infatti può conoscere quanto gran bene sia quello di cui non fruisce? Ma non fruisce se non ama: perciò non ha ciò che deve essere amato, chi non ama... 1

Ma come non è solo la mente a poter conoscere, così non è lei sola a poter amare.2

Superfluo l ’insistervi.In ogni amore si ha dunque un soggetto, l ’amante,

ed un oggetto, il bene amato.

IV . L ’amore è relazione tra il soggetto e l ’oggetto; relazione non necessariamente di alterità.

La relazione amorosa è attività del soggetto amante; con ciò stesso non è qualcosa di sussistente, relazione pura che non inerisca a colui che ama. Anche se impli­cita, quest’affermazione balza da tutti i testi citati; il contrario, del resto sarebbe inconcepibile in un pensa­tore realista come Agostino.3

1. Q. 3 5,1; col. 24.2. Q. 35,2; col. 24.3) Sia qui permessa una citazione dal De Trinitate'. « L ’a­

mante invero dice relazione aH’amore, e l ’amore all’amante. L ’amante infatti ama mediante un qualche amore, e l’amore è

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Che poi l ’amore, quest’attività del soggetto amante, tenda ad un oggetto è provato dal § II; e sarà confer­mato anche dal § V i l i . D all’amare infatti è prerequi­sito il conoscere, ma un conoscere oggettivistico, che attinga cioè la realtà in se stessa: ebbene appunto a tali oggetti in sé esistenti, presentatigli dal suo intellet­to, tende l ’amore dell’uomo; e vi tende diversamente, a seconda della diversità dell’oggetto visto, conosciuto. È quanto afferma la q. 40:

D ai diversi oggetti visti si diversifica l ’appetito della anima... La diversità poi degli oggetti v isti è conseguenza d ell’ordine stesso delle c o s e .1

Inoltre la necessità per l ’amore e di un soggetto e di un oggetto, ovvero — per restare in termini più ago­stiniani — che colui che ama, ami un bene, di per sé né esclude né include l ’identità dei due termini, non ri­chiede cioè necessariamente la loro alterità; solo asseri­sce che l ’amore è la loro relazione o, meglio, che il sog­getto amante deve avere qualcosa da amare.

Lo si deduce dal fatto che Agostino, nelle qq. 30, 35, 36 parla sia di amori in cui non si ha identità di soggetto, sia di amori in cui l ’amante coincide coll’ama­to. Se perciò ogni amore esigesse l ’identità tra i due termini, nessuno potrebbe amare gli altri da sé, le cose, il suo prossimo, Dio; ma solo se stesso. Se poi fosse vero il contrario, se cioè la non identità, l ’alterità dei

di un amante. (...) tolto invece l ’amante, non si dà più amore; e tolto l ’amore, non c’è più l ’amante. Amans quippe ad amorem refertur, et amor ad amantem. Amans enim aliquo amore amat, et amor alicuius amantis est. (...) retracto autem amante, nullus est amor, et retracto amore, nullus est amans» (IX, 2, 2; t, 42, col. 962). Come dire più chiaramente che l ’amore non è qual­cosa in sé sussistente, ma un atto del soggetto amante?

1. « Ex diversis visis diversus appetitus animaram est (...). Diversa autem visa ordo rerum facit » (q. 40; t. 40, coi. 27).

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due termini fosse esigenza necessaria all’amore, nessuno potrebbe amare se stesso. Ecco allora che Agostino, col solo parlare di amori dell’una specie e dell’altra, impli­ca la loro possibilità, e colla possibilità la sua condizio­nante: l ’amore, di per sé, né esclude né include l ’iden­tità d ’amante e d ’amato.

V . N ell’uomo vi sono varie specie di amori, in cor­rispondenza con le varie « parti » della stia anima.

Nel § II abbiamo distinto con Agostino vari amori, in funzione dei loro diversi oggetti (utile e onesto). No­tiamo ora che può differire anche il soggetto amante, o meglio la facoltà di amare dell’amante.

L ’uomo infatti non è solo intelletto (mens) né solo senso (caeterae partes animi)-, possiede perciò e un amo­re sensitivo e un amore intellettivo.1 Col primo è simile alle bestie, col secondo se ne distingue. Ecco alcuni testi:

M a come non è solo la mente a poter conoscere, così non è lei sola a poter amare. Infatti l ’amore è un appetito:

i . E certo illuminatrice a questo proposito l ’analisi della terminologia agostiniana, che E. G ilso n ci dà di anima, animus-, mens, ratio, intelligentia.

Eccola in succo: anima è l ’anima, ma in quanto principio vitale del corpo, comune perciò e all’uomo e alla, bestia; animus è invece l ’anima, ma in quanto principio d’ordine spe­cialmente razionale (e non soltanto vegetativo o sensitivo), pro­prio, quindi, solo dell’uomo. Mens è l ’anima razionale (animus), considerata nella sua funzione conoscitiva d’ordine più elevato: essa comprende perciò sia il conoscere discorsivo ratio, sia Vintelligentia (o intellectus) che percepisce la verità scopertale dairillutninazione divina. Cfr. Introduction à l'êtude de saint Augustin, Paris 19493, p. 56 n. 1. (Cf. anche G. Bardy, Nota complementare Sur la définition de l’homme, pp. 705-6, in B. A., vol, X; C ayré F., Les sources de l’amour divin, Paris 1933, pp. 30-32; H ultgreni G., Le commandement d’amour chez Au­gustin, Paris 1939, pp. 127-128; JoLiVET R., Dieu soleil des

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e vediamo che v’è un appetito anche nelle altre patti del­l’animo... Perciò l ’animo (l’uomo) deve amare anche colle altre sue parti quest’oggetto sì grande che la mente deve conoscere.1

Che poi l ’amore sensitivo sia comune anche alle be­stie, l ’aveva asserito nella q. 30:

Non è così assurdo pensare che anche le bestie fruisca­no del cibo e di qualsiasi voluttà corporale.2

Si osservi inoltre che Agostino non parla mai espli­citamente, in quest’opera, di amore come atto o come

esprits ou la doctrine augustinienne de l’illumination, Paris I934, Appendice: la terminologie de S. Augustin, pp. 201-209).

Ma G i l s o n giustamente osserva che « qui, come altrove, la terminologia di Agostino è piuttosto fluttuante » (l. c.). Età Agostino stesso infatti il primo a riconoscerlo nella q. 7 (« che cosa nell’essere animato è chiamato anima? »): « Talvolta diciamo anima, includendoci anche la mente, come quando asseriamo che l’uomo è composto d’anima e corpo; talvolta invece ne esclu­diamo la mente. Ma quando ne escludiamo la mente, parliamo dell’anima quanto a quelle operazioni che abbiamo in comune con le bestie. Le bestie infatti sono prive di ragione, che è invece proprietà della mente ». Agostino afferma cioè che talora parliamo di « anima » in senso stretto, come principio soltanto vitale, comune quindi e all’uomo e alle bestie (e opposto ad « animus »); talora invece in senso più largo, come principio anche intellettuale, propriamente umano, sicché anima non è più distinta da ciò che altrove vien detto animo.

Tornando adesso al passo in esame (q. 35,2), riteniamo che mens ed animus non siano ivi presi nel senso stretto sopra definito da G il s o n , ma che mens vi equivalga a tutto Vanimus (principio d’indole intellettiva, anima umana in quan­to tale); e che animus sia sinonimo di anima (principio vitale cioè non solo intellettivo, ma anche sensitivo),

1. «Neque ut sola mens potest cognoscere, ita et amare sola potest. Namque amor appetitus quidam est: et videmus etiam caeteris animi partibus inesse appetitum (...). Ergo etiam caeteris suis partibus amare animus debet hoc tam magnum quod mente cognoscendum est » (q. 35, 2; coi. 24),

2. Q. 30; coi. 19.

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facoltà dell’anima umana; perciò ora si tratterà della facoltà ora dell’atto d’amare.

V I. Caratteristiche proprie dell’amore.

Enucleando i vari dati, espliciti o impliciti, che il De div. quaest. 83 ci offre, caratterizzeremo in questo § quanto v ’è di proprio nella tendenza amorosa. Il § se­guente, sui rapporti tra amare e conoscere, completerà quest’analisi per il fatto stesso di distinguerla dall’altra grande attività dell’uomo, la conoscenza. Vedremo così che conoscere e amare — identico a volere per Agosti­no § IX) — costituiscono le due forme supreme di agire in cui l ’uomo esplica se stesso, manifestando la sua su­periorità su ogni altro essere visibile. Alla piena evo­luzione poi di queste due attività, conoscitiva e amo­rosa, corrisponde anche la piena perfezione dell’uomo nella fruizione di Dio, sua felicità (§ V III).

a) N ell’amore l'oggetto amato « afficit ex se » il sog­getto amante.

L ’amore è, dunque, un’attività del soggetto amatite in ordine ad un oggetto, un bene, da esso amato, appe­tito. In questa relazione d ’amore tra il soggetto e l ’og­getto, è solo l ’amante ad agire, ed il bene resta mera­mente passivo? O anche l ’oggetto dell’amore, l ’amato, ha, proprio come tale, una sua specialissima funzione, anche se d ’un ordine assai diverso dall’ agire del­l ’amante?

E poiché è necessario che l ’oggetto amato affetti di sé l'amante, si ha che un oggetto amato che sia eterno, affetta l’anima colla sua eternità. In definitiva quindi quella vita è felice, che è eterna. Ma che c’è di eterno, da affettare l’anima con la sua eternità, se non Dio? 1

I. « Et quoniam id quod amatur, afficiat ex se amantem necesse est, fit ut sic amatum quod aeternum est, aeternitate

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Abbiamo qui una prima risposta, ancora generica: anche l ’oggetto amato ha, nell’amore, una sua funzione, quella cioè di affettare di sé il soggetto amante. E si noti che è questo, per Agostino, un principio di valore uni­versale e necessario, senza eccezioni: « id quod amatur, afficiat ex se amantem necesse est ».

Ma tale « affectio » l ’oggetto l ’esercita in modo atti­vo o passivo? È un’attività, questa dell’amato; è esso, infatti, ad « afficere ex se » l ’amante. M a è un’attività di un genere veramente singolare, unico: infatti colui che « afficit » è proprio « id quod amatur »; ed « afficit » per nessun’altra ragione che per il fatto stesso di essere amato, appunto perché ed in quanto amato.

Ricordando poi (cf. § II) che l ’oggetto dell’amore, il bene, è ciò a cui appunto tende quel moto, quell’appe­tito che è l ’amore stesso; che cioè il bene, l ’amato, è il fine (fine immediato nel « frui », fine mediato o mez­zo nell’« uti ») del movimento amoroso, ecco allora che con quest’attività dell’oggetto, nell’amore, ci troviamo di fronte ad un’attività che non è altro che l ’attività stessa del fine, del bene, dell’amato.

Q uest’attività dunque — e non è un gioco di pa­role — si esercita passivamente, non essendo altro chelo stesso esser amato, 1’« amari o appeti ». Poiché inol­tre per Agostino l ’amore è moto, e colui che ama è co­lui che si muove, l ’oggetto che viene amato o appetito è il « movente » dell’amore. L ’attività, l ’attrazione fi­nale esercitata dall’oggetto amato non è che un « appeti- amari-movere »; concetti tutti che non esprimono altra realtà da quell’« afficere ex se » che l ’amato opera sul­l ’amante.

animum afficiat. Quo circa ea demum vita beata, quae aeterna est. Quid vero aeternum est, quod aeternitate animum afficiat, nisi Deus? ». (q. 35, 2; coi. 24).

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b) Carattere estatico dell’amore.

Poiché l ’oggetto amato « afficit » di sé l ’amante, lo muove, lo attrae a sé, tingendolo, affettandolo di sé— l ’oggetto eterno della propria eternità, per es. — ,

ecco Vestasi.Se infatti è vero che l ’oggetto amato, appetito, assi­

mila — affettandolo di sé, delle proprie caratteristi­che — il soggetto da cui è appetito, è pur vero che ciò è possibile appunto perché all’attrazione esercitata dal­l ’amato sull’amante, corrisponde in quest’ultimo un uscire da sé per unirsi, per farsi tutt’uno affettivamen­te con l ’oggetto amato. L ’amore, relazione di un amante a un amato, è dunque, come ogni relativo, considera­bile bipolarmente, sia dal polo oggettivo che da quello soggettivo. Se allora l ’oggetto amato attrae a sé l’aman­te, se cioè l ’amare — visto dal polo oggettivo — è un essere attratto, mosso, affettato dall’amato; è vero reci­procamente che l ’amore — visto dal polo opposto — è un appetire, un tendere, un darsi all’amato.

Noi siamo così fortemente toccati, affetti, trasfor­mati quasi nell’oggetto stesso del nostro amore, appunto perché, usciti affettivamente dai noi stessi, ci diamo e abbandoniamo tutti ad esso. Questo e non altro è l ’amo­re, l ’estasi costituendone la caratteristica propria ed esclusiva. Nel § seguente, infatti, vedremo che il cono­scere è un agire proprio in direzione opposta all’amare: mentre l ’amare è un uscire di sé per darsi all’amato, fa­cendosi assimilare da esso, nel conoscere è l ’oggetto a venir afferrato dal soggetto e a sé interiorizzato. A l carattere estatico dell’amare corrisponde cioè quello pos­

sessivo del conoscere.Notiamo ancora come è proprio dal carattere estati­

co dell’amore che derivano immediatamente quelle gravi conseguenze morali già accennate nel § II (e - f): l ’og­getto infatti specifica la tendenza amorosa in virtuosa

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e viziosa, appunto perché l ’amare è un darsi, un assi­milarsi all’amato, restando affetti, partecipi delle di lui proprietà. Perciò, mentre ad un’unione affettiva con Dio, corrisponde un innalzamento dell’amante, reso partecipe della sua eternità e beatitudine; l ’amore verso un ogget­to non ordinato, la cupidità, abbassa invece l ’uomo a divenire affettivamente ciò che ama: « Adamo (...) aman­do le cose carnali, divenne carnale ».*

V II. Relazioni tra amare e conoscere.

Conoscere e amare, che si svolgono in direzione op­posta, centripeta lu n a e centrifuga l ’altra rispetto al proprio oggetto, sono attività che si completano reci­procamente, poiché è proprio il darsi amoroso del sog­getto all’oggetto afferrato conoscitivamente, ciò che ren­de piena e consumata l ’unione nostra con esso.

La pienezza unitiva tra l ’io e l ’altro da sé (Dio o il prossimo), come del resto la piena attiva identità con se stesso, richiede cioè non solo il conoscere ma anche l ’amore, nella sinergia operativa di entrambe le funzio­ni con cui l ’essere spirituale attua se stesso. Ma ancor prima di questo mutuo richiedersi di amare e conoscere, v ’è l ’altra mutua inferenza, da un antico adagio espressa nell’« ignoti nulla cupido ».

a) la conoscenza del bene da amare, perequisito ne­cessario all’amore.

Agostino, che sempre lo suppone, talvolta ne parla anche esplicitamente. Qualche testo:

Dai diversi oggetti visti si diversifica l ’appetito del­l ’anima.2

1. « Cum Adam (...) diligendo carnalia, carnalis effectus sit » (q. 5 1 ,1 ; coi. 32).

2. « Ex diversis visis diversus appetitus animarum est... » (q. 40; coi. 27).

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Senza cioè l ’oggetto visto, conosciuto, non può esser­ci appetito, amore di esso: e ciò ha validità universale, per ogni amore, sia « uti » che « frui », del fine che dei mezzi.

Quanto all’amore d’utilità — legge più particolare quindi — , in cui l ’amato è fine solo intermedio, la sua sola possibilità esige la conoscenza di quel bene-fine, cui l’utile va riferito. Perciò solo gli uomini — animali ra­gionevoli (e che possano attualmente esercitare la loro ragione) — sono capaci di « uti »:

Usare poi di qualcosa lo può solo l ’animale provvisto di ragione. Infatti il sapere a che deve essere riferita una cosa, non è dato agli esseri privi di ragione; anzi neppure agli esseri razionali, ma stolti. Né alcuno può usare di ciò che non sa a cosa debba essere riferito...1

È dunque certo che se io non conósco un bene, esso per me è come se non fosse. Io che mi sento at­trarre dai beni, sono dunque fatto per amarli, e non per amarli di mero desiderio, ma per possederli: per essere felice di essi. Anzi io non sono fatto per una qualsiasi felicità, ma per la felicità.2 Ebbene proprio per possederla è necessario il conoscere.

b) solo la conoscenza ci fa possedere il bene co­nosciuto.

Per Agostino infatti, quando parla di amore non di desiderio, ma di possesso, sola facoltà possessiva è quel­la di conoscere.

1. Q. 30; col. 19.2. Che tutti tendano alla felicità è per Agostino un dato

primo, evidente ad ognuno. Esso è implicito in tutta la q. 35, al cui riguardo egli dice nelle Ritrattazioni « Nam quis eam (beatam vitam) penitus nescit, eorum dumtaxat qui iam ratione utuntur; quandoquidem beatos se esse velle noverunt? » (I, 26; t. 32, 625).

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Quanto ai beni materiali, esiste un possesso esterio­re fisico diverso da quello meramente conoscitivo: giac­ché « quanto all’oro e ai corpi tutti, il possedere non è la stessa cosa che il conoscere ».J Si ha cioè il possesso esteriore, di proprietà fisica, oltre a quello interiore, di cognizione. Ma affermato ciò, Agostino nega che per gli oggetti, i beni spirituali, vi sia altro modo di pos­sederli che il conoscerli: riguardo ad essi « il possedere non è altro che il conoscere »?

Q uale amore dunque d ev’essere amato, se non quello di ciò che non può venir meno mentre è amato? Riguardo a un tale oggetto il possedere non è altro che il conoscere. Q uanto a ll’oro e ai corpi tutti invece, il possedere non è la stessa cosa che il conoscere: non bisogna quindi amarli.3

M olti sono questi beni spirituali, possedibili solo mediante la cognizione, per es. la scienza dei numeri; ma ciò si realizza soprattutto per il Bene, l ’Eterno, Dio.

L ’oggetto che vale più d ’ogni altro è ciò che è eterno: e perciò non possiamo possederlo se non con ciò che v ’è in noi di maggior valore, cioè con la mente. In fatti qualsiasi cosa si possegga con la mente, la si possiede conoscendo '

Se, quanto ai beni spirituali, non può aversi amoredi possesso se non conoscendoli, in tale specie d ’amores’identificano amare e conoscere? L ’amore di possesso consiste cioè nel conoscere? No, per la semplice con-

Q- 35, i ; t. 40, col. 24.2. « nihil est aliud habere quod nosse» (ivi).3. « Cuius ergo rei amor amandus est, nisi eius quae non

potest deesse dum amatur? Id autem est, quod hihil est aliud habere quam nosse. Porro aurum et omne corpus non hoc est habere quod nosse: non, itaque amandum est » (ivi).

4. « Omnium enim rerum praestantissimum est quod aeter­num est: et propterea id habere non possumus, nisi ea re quapraestantiores sumus, id est mente. Quidquid autem mentehabetur, noscendo habetur » (ivi, 2).

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statazione che si può possedere conoscitivamente senza amare e, inversamente, amare senza possedere: « Poiché una cosa può essere amata e non posseduta (...); e v i­ceversa può essere posseduta e non amata ».'

Per provare che amare non è conoscere Agostino porta l ’esempio della matematica che, come ogni scienza (« disciplina »), non può essere posseduta altro che cono­scendola, e conoscendola in se stessa. Se allora l ’amare s’identificasse col conoscere, conoscere la matematica equivarrebbe ad amarla, e ad amarla in se stessa, poiché della matematica non può darsi altro conoscere che cono­scerla in se stessa (conoscerla ma non in se stessa, sarebbe infatti lo stesso che non conoscerla, non possederla). Ma è invece caso frequente che uno studioso si impadro­nisca della scienza dei numeri, senza per questo amarla in sé (frui), ma solo come mezzo di lucro (uti). Sta, quindi, la conclusione: poiché possedere un bene spi­rituale equivale a conoscerlo in se stesso, e dato che possederlo non comporta sempre amarlo in se stesso, resta provato anche che amare (in senso proprio, « frui ») non è conoscere.2

1. « Et quoniam potest aliquid amari, nec haberi (...); et rursus potest aliquid haberi nec amari... » (ivi, r).

2. « E poiché una cosa può essere amata e non posseduta, non solo di quelle che non si devono amare, come un bel corpo, ma anche di quelle da amarsi, come la felicità; e vice­versa potendo una cosa essere posseduta e non amata, come le catene; è giusto chiedersi se sia possibile che uno possedendola, cioè conoscendola, non ami una cosa in cui possederla non sia altro che conoscerla. Ma poiché vediamo che taluni non ad altro scopo apprendono i numeri, ad es., se non per arricchire o piacere agli uomini con quella scienza, e che appresala la riferiscono allo stesso fine che si erano proposti apprendendola— e per una scienza il possederla non è altro che il cono­scerla — : può dunque accadere che uno abbia qualcosa in cui il possedere sia lo stesso che il conoscere, e tuttavia non l ’ami » (ivi).

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c) amare e conoscere, benché distinti, si compenetra­no l ’un l ’altro.

Non può aversi amore senza il conoscere, abbiamo visto; ma neppure il bene può esser conosciuto perfet­tamente come bene, se non perché percepiamo il nostro amarlo. I l conoscere cioè risente influsso, almeno in questo senso, da parte dell’amare. I l passo ora citato infatti così prosegue:

Benché nessuno possa perfettamente possedere, ossia conoscere, il bene che non è amato: chi infatti può cono­scere quanto gran bene sia quello di cui non fruisce? In­vero non fruisce se non ama: perciò neppure possiede ciò che dev’essere amato quegli che non ama, anche se possa amare chi non possiede.1

e conclude:

Qualsiasi cosa si possegga colla mente, si possiede co­noscendo; ma nessun bene è conosciuto perfettamente, se non è perfettamente amato}

Acutissima osservazione! -Se, infatti, ogni cosa che esiste è un bene, ha cioè una sua appetibilità, amabi­lità, che altro gioverà a porre maggiormente in luce que­sta sua bontà se non il fatto stesso di sentirci attratti da essa, di percepire che l ’appetiamo, che l ’amiamo? Per mutua reazione, quindi, il conoscere un oggetto come bene ci stimola ad appetirlo; mentre il nostro stesso appetirlo, il nostro stesso esserne attratti, ce ne

1. « Quanquam bonum quod non amatur, nemo potest perfecte habere vel nosse. Quis enim potest nosse quantum sit bonum, quo non fruitur? Non autem fruitur si non amat: nec habet igitur quod amandum est, qui non amat, etiam si amare possit, qui non habet » (ivi).

2. « Quidquid autem mente habetur, noscendo habetur; nullumque bonum perfecte noscitur, quod non perfecte amatur » (ivi, 2).

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fa conoscere sempre meglio l’appetibilità, la bontà. La conoscenza perciò rimanda all’amore, e l ’amore alla co­noscenza; l ’una arricchisce, potenzia, perfeziona l ’altra, sicché veramente come non può darsi perfetto amore di un bene solo imperfettamente conosciuto, così non può darsi perfetta cognizione d ’un bene amato solo imperfettamente.

Ecco perché Agostino trattando di tutt’altro argo­mento, e precisamente del precetto cristiano di soppor­tare vicendevolmente i nostri difetti, osserva inciden­talmente che prima di giudicare un ignoto e di attri­buirgli dei difetti, ci si rifletta bene; anzi che potrà giu­dicare con verità d ’un altro quegli solo che gli sia ami­co. Solamente quest’ultimo, infatti, sarà nella giusta pro­spettiva per coglierne sì anche i difetti, ma nella loro esatta portata: inquadrati nell’insieme delle doti posi­tive amate nell’amico, senza svisarli per unilateralità o esagerazione. Ma ecco il testo:

In nessun modo poi bisogna pronunciare sentenza su un uomo sconosciuto: e nessuno è conosciuto se non attra­verso l ’amicizia. Proprio per questo sopportiamo con mag­gior fermezza i difetti (mala) degli amici, poiché le loro doti (bona) ci dilettano e ci tengono.1

Veramente conosce, dunque, chi ama; come, reci­procamente, ama perfettamente solo chi perfettamente conosce.

Per possedere il bene, nel che consiste la felicità, è dunque necessario anzitutto il possesso, la presa in­tellettuale di esso, opera del conoscere; ma ad essa con-

1. « Nullo modo autem de quoquam homine incognita ferenda sententia est: et nemo nisi per amicitiam cognoscitur. Et ideo amicorum mala firmius sustinemus, quia bona eorum nos delectant et tenent ». (Q. 7 1, « De eo quod scriptum est:— invicem onera vestra portate, et sic adimplebitis legem Dei » [Gaiat. 6 ,2 ], 5; col. 82).

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tribuisce, come abbiamo visto, l ’amare. A sua volta il conoscere non basta, ma richiede che all’adesione in­tellettuale, all’unione possessiva del conoscere, si aggiun­ga il darsi amoroso del soggetto al bene posseduto co­noscitivamente. Questo stesso darsi potenzia il cono­scere l ’oggetto come bene, e perciò anche ne potenzialo stesso possesso (se possedere e conoscere sono una identica cosa, come abbiamo visto); l ’aumentato cono­scere a sua volta, rende più forte l ’attrazione amorosa, aumenta l ’amore. Così sia conoscere che amare giun­gono, per mutua reazione, alla propria consumata per­fezione. Se questa poi si ha non riguardo ad un bene, ma al Bene, ecco che la perfezione del conoscere e del- l ’amare coincidono con la perfezione stessa dell’uomo, nel possesso del suo Fine, della Felicità.

V i l i . Amare e felicità.

a) L ’amore del bene posseduto si chiama felicità: la felicità e le felicità.

Termine dell’appetito amoroso è il bene; appetito che è e resta solo desiderio se il bene non è posseduto, che diviene amore di possesso quando il bene deside­rato è ottenuto dall’amante. L ’amore di un bene pre­sente all’amato è una felicità, come il possesso amoroso del Bene è la felicità stessa, la « beata vita » dell’uomo.

Agostino lo presuppone affermando che « la feli­cità » non si ha che possedendo il bene « eterno », Dio, dalla cui eternità restiamo affettati: 1 è ovvio, infatti, che il mero amore di desiderio — d’un bene, cioè, non posseduto — non fa felici, ma che solo l ’amore che possiede il bene desiderato, è felicità.

i . Cfr. tutto il n. 2 della q. 35; col. 24.

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Dato il gran numero di beni, altrettanto numerose sono le felicità rese possibili dal loro possesso: soltan­to, però, il possesso di ciò che è sommamente — e perciò eternamente — bene, darà non una felicità, ma la felicità stessa.

Abbiamo esplicitato così la q. 35, quando afferma « che altro è il viver felici, se non il possedere, cono­scendolo, qualcosa di eterno? »,' mostrandone le due implicazioni: felicità è solo l ’amore di possesso; non ogni amore di qualsiasi bene posseduto è la felicità, ma solo l ’amore del bene sommo ed eterno.

b) La felicità, possesso di Dio, è attività suprema­mente spirituale, implicante conoscere e amare intellettivi.

Sia la q. 30 che la q. 35 sono esplicite nell’affer­mare che solo il possesso di Dio può farci felici, anche se è diverso il motivo che esse ne adducono (cfr. cap. I l i , § I). Q ui ci interessa sottolineare che Dio, bene supremamente spirituale, non può essere posseduto che in modo spirituale. La felicità cioè, possesso del Som­mo Bene, non può ottenersi altro che con una presa conoscitiva di tale Bene, mediante quella facoltà, l ’intel­ligenza, che sola può afferrare le realtà immateriali.

A l già detto nel § V I I , b (specialmente il testo ci­tato a p. 42, nota 4), può aggiungersi quanto Agostino afferma nella q. ^4 , in cui riflette da filosofo sul ver­setto « Mihi autem adhaerere Deo bonum est », del Salmo 72. Il contesto vi è totalmente diverso: vi si adombra in abbozzo la prova tipicamente agostiniana dell’esistenza di Dio.2 Come sinonimo di « intelligere »,

1. « quid est aliud beate vivere, nisi aeternum aliquid cognoscendo habere? » (q. 35,2).

2. Cfr. in B. A., vol. X, le Note complem. 56-58.

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Agostino vi usa sia il termine « iu n gi» che lo stesso « adhaerere ». Il bene dell’anima richiede dunque, per Agostino, il conoscere Dio intellettualmente; tale cono­scere d’ordine intellettivo è, anzi, il « bonum » stesso dell’anima:

A Dio dunque è unito ciò che conosce intellettualmente (intelligit) Dio. Ma è l ’anima razionale che conosce Dio in­tellettualmente... Quando allora (l’anima) conosce qualcosa che esiste sempre allo stesso modo, senza dubbio conosce Dio. Questa è la verità stessa; e poiché l ’anima razionale vi si unisce conoscendo intellettualmente (intelligendo), ed in ciò è il bene dell’anima, si capisce allora esser questo il senso del — Per me è bene l’aderire a Dio — . 1

Si osservi però che l ’accento posto esplicitamente sul solo lato conoscitivo dell’adesione a Dio, non esclu­de affatto, per non esprimerlo direttamente, il lato af­fettivo, di cui si sono invece preoccupate apertamente questioni precedenti (ad es. la q. 35). La luce che da esse si riverbera su queste linee della q. ^4, ci rivela appunto la portata piena dei termini « iungi - adhaerere - bonum », che un senso esclusivamente conoscitivo non solo porrebbe in artificioso contrasto coi passi preceden­ti più accurati, ma priverebbe di tutta la loro vitale pre­gnanza (cfr. sopra, § V II).

Intellettualismo chiarissimo, dunque, quello di Ago­stino, nel descrivere il bene, la felicità dell’anima come possesso, presa intellettuale di Dio, « la Verità stessa ». Ce lo riconferma l ’intera q. 5, trattante con rapido, ner­voso sillogizzare, « Se l ’animale irragionevole possa es­

1. « Deo igitur iunctum est quod intelligit Deum. Intelligit autem rationalis anima Deum (...). Cum igitur intelligit aliquid quod semper eodem modo sese habet, ipsum sine dubio intelli­git. Haec autem est ipsa veritas; cui quia intelligendo anima rationalis iungitur, et hoc bonum est animae, recte accipitur id esse quod dictum est, — Mihi autem adhaerere Deo bonum est — » (q. 54; col. 38).

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sere felice »; ed escludendolo dalla felicità appunto per­ché irragionevole, incapace di conoscere, di « scientia »: di quel possesso spirituale che rende possibile la bea­titudine.1

L ’intellettualismo agostiniano nel problema della fe­licità richiede però, oltre il conoscere intellettivo, la fruizione amorosa. Il possesso di Dio, cioè, sarà per­fetto quando alla presa dell’intelligenza si aggiungerà il suo necessario complemento, il darsi, l ’estasi del­l ’amore più pieno, nell’unico « frui » che sia esclusiva- mente tale, puro da ogni tendenza a beni ulteriori, per­ché unito ormai col Bene per eccellenza.

La perfezione cioè dell’agire umano — l ’aspetto sog­gettivo della felicità, oggettivamente determinata dal Bene sommo posseduto — deriva dunque dalla colla­borazione delle facoltà più propriamente umane, cono­scere e amare, intelletto e volontà, nel loro atto più alto perché (è sempre l ’oggettivismo agostiniano) ope­rante intorno all’oggetto supremo, « non loco, sed ex­cellentia suae naturae » (q. 30).

La perfetta ragione d e ll’uom o, che si chiama virtù, usa anzitutto di se stessa per conoscere D io, onde fruire di Colui da cui appunto è stata fatta.

Si noti qui l ’ordinazione del conoscere all’amare, in­tellettivi ambedue; come pure quanto accuratamente Agostino abbia scelto il termine « fruire » per designa­re l ’amore verso Dio, amore identificantesi col godimen­to della felicità — che è Dio — , nell’atto stesso che lo si ama disinteressatamente, cioè unicamente come fine, in se stesso e per se stesso.

1. Ecco l ’intera q. 5 (col. 12): « Animal quod caret ratione, caret scientia. Nullum autem animal quod scientia caret, beatum esse potest. Non igitur cadit in animalia rationis expertia ut beata sint ».

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Im sua stessa vita la riferisce al fine di fruire Dio: così appunto è felice. Perciò usa anche di se stessa, ella che cer­tamente qualora si riferisca a se stessa anziché a D io, co­mincia colla superbia la propria in fe lic ità .1

Che l ’amare D io sia amore intellettivo, non sensi­tivo, è qui chiarissimo: è la « ratio », l ’anima razionale a fruire. Ma ciò è detto esplicitamente anche nella q. 35, in cui Agostino distingue l ’amore intellettivo dagli ap­petiti sensitivi: il possesso del bene « omnium praestan- tissimum », perché eterno, non può avvenire che con l ’intelletto {« nisi ea re qua praestantiores sumus, id est mente »), intelletto che richiede un amore corrispon­dente, intellettivo quindi, affinché quel possesso sia pie­no. Infatti:

Nessun bene è conosciuto perfettamente, se non è per­fettam ente amato. M a come non è solo la mente a poterconoscere, così non è lei sola a poter amare. Infatti l ’amoreè un appetito: e vediam o che v ’è un appetito anche nelle altre parti dell’animo. Se quest’ultim o si armonizzerà (con­sentiat) con la mente e con la ragione, in tale pace e tran­quillità l ’animo sarà libero di contemplare con la mente ciò che è eterno. L ’animo perciò deve amare anche con le altre sue parti quest’oggetto sì grande che la mente deve conoscere.2

La fruizione intellettuale di Dio, in cui consiste la felicità, appartiene perciò all’animo, alla mente, alla « ratio » (cfr. sopra, p. 35 nota 1), alla parte cioè propria­mente umana e spirituale dell’uomo, ed implica sia il conoscere che l ’amare intellettivi; ma richiede anche

1. « Perfecta igitur hominis ratio, quae virtus vocatur,utitur primo se ipsa ad intelligendum Deum, ut eo fruatur a quo etiam facta est. (...). Vitam etiam suam ad id refert, ut fruatur Deo: ita enim beata est. Ergo et se ipsa utitur; quae profecto inchoat miseriam per superbiam, si ad se ipsam non ad Deum referatur ». {q. 30; coi. 20).

2. Q. 35,2; coi. 24; già cit. parzialmente sopra, p, 35 s.

SO

l ’armonica collaborazione della sfera sensitiva, non quasi gli appetiti sensitivi possano essi direttamente unirsi a Dio, bene sommamente immateriale, ma affinché le zone inferiori dell’animo non turbino la niente nella sua « contemplazione » del divino.

c) Volontarismo agostiniano?

Si parla spesso di Volontarismo per definire la carat­teristica del pensiero agostiniano, quasi esso misconosca la parte dell’intelletto a tutto vantaggio della volontà,o nell’intero sistema, od almeno nel problema più spe­cifico del costitutivo essenziale della felicità.

Quanto abbiamo visto nel numero immediatamente precedente ci permette senza dubbio di eliminare qual­siasi esclusivismo ai danni dell’intelletto, sia nel proble­ma della felicità, sia conseguentemente in quello più ampio dei mutui rapporti tra volere e conoscere (cfr. so­pra il § V II).

D i fronte ai testi più nettamente intellettualistici,— come le qq. 54 e j , e della q. 35 l ’ultimo passo appena citato — , stanno però altri passi in cui l ’attenzione di Agostino insiste principalmente sull’amore (in genere tutta la q. 30).

Rispettando allora la caratteristica asistematicità del- l ’Ipponese in una questione che, del resto, egli non si pone ex professo nella nostra Raccolta, resti fermo che alla felicità, alla piena attuazione cioè dell’agire umano, concorrono sia conoscere che volere, in un mutuo richie­dersi ed arricchirsi. Complementarietà delle due ten­denze, bene espressa dalle due citazioni scritturistiche— più volontaristica la prima e più intellettualistica la seconda — con cui Agostino chiude e conclude la q. 35:

« Diliges Dominum Deum tuum in toto corde tuo... » (M t. 22, 37); e « H aec est autem vita aeterna, ut cognoscant le solum verum Deum... » (Jo. 17,3).

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d) La Felicità, possesso di Dio, è raggiungibile in questa vita?

La domanda è più che giustificata, giacché non solo nella Raccolta che stiamo analizzando, ma in genere ‘iel­le opere dei primi sei o sette anni dopo la conversione, il modo di esprimersi di Agostino lo farebbe supporre. La difficoltà quindi investe tutta la prima produzione agostiniana; risoitala, si risolveranno anche i dubbi al riguardo nel « De div. quaest. ». Facendo nostra la solu­zione datane da C. Boyer, nel suo L ’ idée de vérité. , già citato,1 ne riassumiamo gli argomenti.

Parecchi sono, nel primo Agostino, i passi che fanno pensare ad una felicità piena, raggiungibile in questa terra: egli stesso, « nel primo libro delle Ritrattazioni, corregge o interpreta con cura numerose frasi della sua giovinezza, che danno quest’impressione. Uno studio minuzioso dei testi però, noi crediamo, fa esitare estre­mamente ad attribuirgli tale opinione, in qualsiasi pe­riodo. È infatti cosa notevole che Agostino non con­fessi affatto di averla tenuta e che il più sovente egli interpreti in altro senso i testi che l ’insinuano ».2 Anzi già nel De quantitate animae, scritto a Roma nel 388, c’è un passo 3 in cui Agostino pur elogiando entusiasti­camente la contemplazione terrena di Dio, desidera cio­nonostante la morte che permetterà finalmente all’anima

1. Cfr. sopra, p. 18 nota 3. La questione vi è trattata ex pro­fesso nelle pp. 237-239. Anche G. B ardy la discute, sostanzial­mente nello stesso senso, nella sua Introduction alle Retractationes (cfr. B. A., I série, vol. XII; Paris 1950), pp. 158-168, e specialmente 165-168. Cfr. inoltre F. C a yr é , La contemplation augustinienne, cap. I, V Les limites de la contemplation sur la terre, pp. 48-51 (Paris 19542); e la nota 1, p. 6, nell’o. c. di E. G ilso n .

2. B o yer, o. c., p. 237.3. De quant, animae, 33, 76; P. L. 32, col. 1077.

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il godimento pieno della divinità, in una contempla­zione non più solamente parziale.

« Bisogna concluderne — prosegue il Boyer — che almeno da quest’epoca Agostino riferisca la perfetta bea­titudine all’altra vita. Ma libri suoi, contemporanei o posteriori, continuano a parlare, come i precedenti, di felicità perfezione saggezza raggiunte in questa vita. C ’è allora forse un modo semplice di tutto conciliare, suggerito da Agostino stesso. Egli non ha mai creduto di poter ottenere sulla terra la felicità più grande di cui l ’uomo sia capace; però, soprattutto all’inizio della sua conversione, considerava volentieri la felicità grandissi­ma che l ’esercizio della contemplazione procura ai ben disposti. Anche in seguito egli ne parlerà sempre con elogio, con trasporto anzi (per es. Conf. X, 40, 65); ma avendo approfondito maggiormente il potere insradica- bile della concupiscenza, come l ’imperfezione e la bre­vità delle più deliziose intellezioni di quaggiù, egli aspi­rerà unicamente al termine ultimo, l ’al di là (...). Nelle sue preoccupazioni dell’inizio, quindi, non bisogna cer­care altro che la risposta a questa questione più gene­rale: come deve vivere l ’uomo, dato che suo fine è la felicità, consistente in una conoscenza perfettissima di Dio? »,1 e non ulteriori specificazioni su una fase terre­stre parziale, e una escatologica consumata del possesso di Dio nella contemplazione.

e) La felicità è raggiungibile con le sole forze na­turali?

Come evitare il dubbio anche in questo secondo problema, dal momento che Agostino nelle qq. 30, 35 e 36 non dice mai una frase che richieda, sia pur indi-

i . O. c., pp. 238-239.

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rettamente, l ’aiuto divino per conseguire quella felicità che può esserci data soltanto dal possesso di Dio?

Anche qui la questione è più estesa che la nostra Raccolta, ed anche per essa ci pare valido quanto espo­ne il Boyer, appena risolto il problema precedente: 1 bisognerebbe ignorare totalmente l ’esperienza che Ago­stino fece nella sua conversione, così inequivocabile sulla debolezza del volere umano, e il suo continuo ricorso a Dio non solo nel racconto delle Confessioni, ma fin dai primi Dialoghi di Cassiciaco, per poter credere che il Nostro, per il semplice fatto di non accennarvi esplici­tamente, affermi che Dio sia raggiungibile senza Dio.

Più Agostino avanzò in età, con forza sempre mag­giore affermò la necessità dell’aiuto divino per superare la debolezza davanti al peccato originale: ciò si spiega con tre influenze riunite, « gli insegnamenti d’una psi­cologia straordinariamente attenta e delicata; lo studio di S. Paolo; più tardi, a partire dal 4 11, la necessità della controversia pelagiana »? Ma oltre a ciò, e fin dall’ini­zio, il fatto stesso di riguardare Dio come altro da sé, come l ’Ente supremo, sovranamente libero quindi e au­tonomo di fronte alla sua creatura, doveva precludere ad Agostino qualsiasi assurdo « pretendere di impadro­nirsi di Lui, con l ’intelligenza, senza il Suo assenso e la Sua collaborazione ».3

Per quanto complesso sia allora determinare esatta­mente, qui come in altri campi, il rapporto preciso tra natura e grazia, tra naturale e soprannaturale tecnicamen­te intesi — concetti del resto esplicitati solo in epoca ben posteriore — , mai il mero silenzio al riguardo, da parte di Agostino, potrà autorizzare l ’affermazione che

1. O. c., pp. 239-240. Cfr. anche pp. 251-252; come pure il B ardy, l. c., pp. 168-169.

2. B o y er, 0. c., p. 251.3. Ivi, p. 240.

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egli neghi la necessità di un aiuto di cui semplicemente tace. Anzi nella nostra stessa Raccolta, in altra questio­ne, c’è incidentalmente un passo di grande valore per quanto andiamo asserendo:

(Dio) è invece giustissimo compensatore di m eriti e di persone, E gli che compie da se stesso le cose che sono degne solo di Lui e che a Lui solo convengono, come l ’illuminare le anime e, offrendosi loro in fruizione, il renderle sapienti e felici. 1

Tra quelle azioni che Dio solo può compiere, non mediante le creature ma direttamente, vanno annoverate, dice Agostino, l ’illuminazione (che rende possibile la conoscenza: è la famosa tesi agostiniana) e la capacità di rendere felice l ’uomo. Delle varie implicazioni di que­sto mirabile inciso, — quali l ’affermazione che solo Dio può fare felice l ’uomo o il sapore intellettualistico di una fruizione divina che fa sapienti e, conseguente­mente, felici — , a noi interessa soprattutto quanto Ago­stino rileva qui espressamente: è Dio che si dà a posse­dere alla creatura razionale nella fruizione beatificante. Possedere Dio è quindi, per Agostino, ben altro pos­sesso da quello di un qualsiasi oggetto conosciuto; Dio è Essere personale che noi giungiamo a possedere, nella beatitudine, appunto e solo perché Egli stesso a noi si offre liberamente, come persona a persona.

Se è vero allora, considerando la felicità dalla parte dell’uomo, che siamo noi a possedere Dio, è vero reci­procamente dalla parte di Dio, — per la solita bipola­rità di ogni relazione, e di una relazione interpersonale

1. « Sed meritorum et personarum iustissimu's distributor (Deus est), faciens quaedam per se ipsum, quae ilio solo digna sunt, eique soli conveniunt, sicut est illuminare animas, et se tpsum eis ad perfruendum praebendo, sapientes beatasque praestare» (q. 53,2; t. 40, col. 36-37).

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con l’Ente supremo, con la Libertà stessa — che è Dio a donarcisi in possesso. Senza il Suo aiuto, senza il Suo donarci, sarebbe quindi inconcepibile quella bea­titudine che, prima di essere la più alta perfezione del­l’uomo, è il massimo dono divino, il Dono per eccellen­za: Dio stesso.

IX. Amare e volere s ’identificano per Agostino,

L ’analisi condotta finora ci permette di raggruppare qui i vari termini che per Agostino sono sinonimi di amare, perché descrittivi di questo dato primissimo della nostra esperienza interiore.

Amare dunque è, per Agostino, appetire (appetitus); muoversi verso qualcosa (motus)\ prendere voluttà di qualcosa (capere voluptatem); essere afEetto da qualcosa (affici ex). Se poi l ’amare è verso un bene in se stesso,o solo ad esso come mezzo, si avrà rispettivamente frui ed uti-, moralmente considerato, l ’amore retto si chiama caritas o dilectio, quello disordinato cupiditas.

C ’è però anche un altro termine, altrettanto gene­rale dei primi, con cui Agostino identifica implicita­mente l ’amare, e cioè il termine « volere ». L ’amore è un moto (q. 31, 1). Ebbene la q. 8 si chiede proprio se l ’anima si muova da se stessa (« utrum per se anima moveatur »), e risponde affermativamente, fondandosi sull’autocoscienza che ognuno di noi ha di essere lui, e non un altro in lui, a volere.1 Moto dell’anima è per­ciò il volere, la volizione, moto che però è tutt’altro dal moto locale, proprio dei corpi: è un muoversi spirituale,

1. Moveri per se animam sentit, qui sentit in se esse voluntatem. Nam si volumus, non alius de nobis vult. » (Q. 8; col. 13).

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non fisico, benché sia proprio la volontà che a sua volta muova localmente il nostro corpo.1

Un altro passo in cui Agostino identifica l ’appetito dell’anima con il volere, è la q. 40, chiedentesi « come mai se la natura dell’anima sia unica, varie siano le vo­lontà degli uomini » (tale il suo titolo):

Dai diversi oggetti visti si diversifica l ’appetito [appe­tito come atto, l ’atto di appetire] deH’anima, da un diverso appetito si ha un diverso successo nell’ottenere, da un di verso successo una diversa consuetudine, da una diversa consuetudine si ha una diversa volontà. La diversità poi degli oggetti visti è conseguenza dell’ordine stesso delle co­se: ordine occulto, ma tuttavia reale sotto la provvidenza divina. Non per questo però si deve pensare che siano di­verse le nature delle anime perché si hanno diverse volontà, dal momento che anche la volontà di una stessa anima varia col variare dei tempi; giacché in un determinato tempo desidera esser ricca, in un altro — sprezzate le ricchezze — esser sapiente: e nello stesso appetito [appetito come abi­tudine, consuetudine] dei beni temporali una volta all’uomo piace il commercio, un’altra la milizia.2

Agostino dice, cioè, che l ’appetito non è altro che voluntas: infatti mentre prima il desiderio di esser ricco è riferito alla volontà (« la volontà di una stessa anima varia col variare dei tempi; giacché in un determinato tempo desidera esser ricca... »), subito dopo è attribuito all 'appetito (« e nello stesso appetito dei beni temporali una volta all’uomo piace il commercio... »). Volontà e appetito (appetito nella seconda accezione rilevata, non appetito-atto, ma appetito-consuetudine), sono dunque

1. « Et iste motus animae spontaneus est; hoc enim ei tributum est a Deo. Qui tamen motus, non de loco in locum est, tanquam corporis: localiter enim moveri corporis proprium est. Et cum anima voluntate, id est, illo motu qui localis non est, corpus suum tamen localiter movet, non ex eodem monstratur et ipsa localiter moveri » (ivi).

2. Q. 40 « Cum animarum natura una sit, unde hominum diversae voluntates? »; coi. 27.

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sinonimi tra loro; dato poi che l ’amore è un appetito dell’anima (q. 35, 2), identificare volontà con appetito è dire implicitamente che amare è lo stesso che volere. Qualche difficoltà d ’interpretazione presenta però il ter­mine « voluntas » usato da Agostino; quale ne è il si­gnificato esatto?

Benché tutt’altro che tecnico, al solito, esso non de­signa qui prevalentemente la facoltà d’amare, la volon­tà, come potrebbe parere a prima vista, e neppure sem­plicemente l ’atto d’amare, la volizione; significa piutto­sto la consuetudine d’amare, il volere abituale, l ’atto cioè considerato nella sua consuetudinarietà. Così ap­punto sembra suonare la prima frase della nostra que­stione, in cui il termine « voluntas » appare dopo quello « consuetudo »: ... « da una diversa consuetudine si ha una diversa volontà », cioè una diversa abitudine voli­tiva. L ’ultima frase lo riconferma. Infatti, dopo aver respinta l ’obiezione che se diverse sono le « voluntates » dei singoli, diversa sarà anche la natura delle anime umane (giacché allora dovrebbe variare anche l ’anima di uno stesso individuo, variando in lui il volere), porta un doppio esempio di volontà-consuetudine: quello del­l ’appetito abituale dei beni temporali, che può variare nel suo oggetto concreto, (ora verso il commercio, ora verso la milizia), pur continuando ad esistere immutato nello stesso individuo; e quello di una consuetudine vi­ziosa (l’amore delle ricchezze), che cede il luogo ad una altra virtuosa (l’amore della sapienza).

Che Agostino possa usare il termine « voluntas » senza con ciò stesso indicare la facoltà di volere, è con­fermato anche dall’uso chiarissimo e ripetuto di « vo­luntas » nel senso di atto (prevalentemente, ma anche d’abitudine) di volere, fattone nelle Confessioni1 quan­

i . Cfr. 1. V i l i , capp. 5, 8, 9, 10; e la nota di G. C a p e l lo

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do narra il tempestoso contrasto delle due « volontà » nella sua anima, lacerata tra l ’amore alle sue vecchie catene e l ’anelito a una vita nuova.

Per Agostino dunque l ’amore come abitudine e co­me atto è distinto dall’anima, giacché un’anima può avere molte e contrastanti volizioni, pur restando una e identica.

(Le Confessioni, Introd. vers, e note, Torino 1945; pag. 351): « Due volontà: non due facoltà, non due sostanze, ma due vo­lizioni ».

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C a p i t o l o III

Morale dell’amore

I. Cosa bisogna amare? Quanto ci farà felici-. Dio, È un dato primo non solo naturale, ma anche morale.

Alla radice stessa del nostro essere, come un dato primo ineliminabile e negabile solo a parole, ognuno avverte in sé un desiderio continuo, sempre inappagato e sempre anelante, d ’essere felice. Fatto vitalissimo, esso non poteva sfuggire ad Agostino, questo gigante dell’introspezione, che l ’aveva sperimentato violentemen­te in sé, ad esso cercando invano una soluzione fin oltre i trent’anni, quando, convertendosi, ritrovava Dio e in Dio la felicità. O vvio allora, in un temperamento come il suo, che un’esperienza vissuta così intensamente ripercuotesse con pari intensità nel suo pensiero, riflesso mediare dati prima vissuti.

La nozione di felicità, centralissima nell’intero ago- stinismo, diventa così pietra fondamentale per la costru­zione dell’etica sua, di quella parte cioè della filosofia che più da vicino ripensa i problemi della vita; né è casuale che tra le primizie del convertito si trovi un dia­logo intero « De beata vita ». D i questa ricerca della felicità indaghiamo adesso la funzione morale nella no­stra Raccolta, dopo che già ne abbiamo visto i rapporti con l’amare, in sede più strettamente psicologica.

Se rileggiamo la q. 35, tenendo presente quell’evi­denza naturale che è per ogni uomo il suo innato desi-

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delio di felicità, essa ci si rivelerà in tutto il suo signi­ficato, poiché quel dato evidenziale ne costituisce l ’im­plicito sostrato:

Chi non vive non teme, ma nessuno si lascerebbe per­suadere a privarsi della vita, per essere così privo anche del timore: bisogna allora desiderare di vivere senza timore. Ma, d ’altra parte, poiché non è appetibile neppure una vita priva di timore se sia priva dell’intelligenza, si deve amare di vivere senza il timore e con l ’intelligenza. Ciò solo si deve amare? o bisogna amare anche l ’amore stesso? Certa­mente, dal momento che senza di questo non si può amare neppure l ’altro. Ma se è per le altre cose da amare che si ama l ’amore stesso, è impropriamente che si dice di amarlo. Amare infatti non è altro che appetire qualcosa per se stes­sa. Forse che dunque l ’amore deve essere appetito per se stesso, dal momento che quando manca ciò che è amato, questa è un’indubbia infelicità? Inoltre essendo l’amore un moto, e non avendosi alcun moto se non verso qualcosa, quando chiediamo che cosa debba amarsi, chiediamo appun­to cosa sia ciò verso cui bisogna muoversi.1

Posto dunque che ogni uomo tende naturalmente ad esser felice, ne consegue con pari evidenza che nessuno appetisce la non vita, la vita piena di timore, o la vita senza timore ma priva di intelligenza; come inversa­mente ognuno appetisce di vivere con l ’intelligenza (cioè una vita umana, superiore a quella degli esseri irrazio­nali) e senza timore. Tutti insomma si muovono verso un qualcosa, termine del loro innato appetito, che non può essere se non il bene; ma un bene che possa essere amato senza alcun timore di perderlo, perché mai verrà meno. Agostino infatti prosegue:

Perciò non si deve amare quanto può essere sottratto a an amore che fruisce e permane. Quale amore dunque deve essere amato, se non quello di ciò che non può venir meno

i . Q. 35, i; col. 23; cfr. sopra, p. 21 s.

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mentre è amato? Riguardo a un tale oggetto, il possedere non è altro che il conoscere [è un bene cioè soltanto spi­rituale], Quanto all’oro e ai corpi tutti invece, il possedere non è la stessa cosa che il conoscere: non bisogna quindi amarli. ...Benché nessuno possa perfettamente possedere os­sia conoscere il bene che non è amato. Infatti chi può cono­scere quanto gran bene sia quello di cui non fruisce? In­vero non fruisce se non ama: perciò neppure possiede ciò che deve essere amato quegli che non ama, anche se possa amare chi non possiede. Nessuno dunque conosce la bea­titudine ed è infelice: poiché se è essa che bisogna amare, come ne è il caso, conoscerla è lo stesso che possederla. '

Termine ultimo del nostro perenne desiderare è un bene indefettibile, e perciò spirituale: afferrabile, cioè, solo mediante la conoscenza, l ’intelletto. Ma quale bene spirituale è pienamente indefettibile, se non l’eterno; e quale altra realtà spirituale ed eterna esiste, se non Dio? Per comprendere la validità di questo suo implicito ra­gionamento, gioverà ancora una volta riferirsi alla real­tà del desiderio naturale di felicità, cui non può non corrispondere se non un termine altrettanto reale. N e­gare, infatti, a quel desiderio naturale un termine reale, sarebbe rendere assurdo, e perciò irreale, anche il desi­derio, il moto stesso: « neque ullus sit motus nisi ad aliquid ». Esistendo invece realmente quel moto, ne esi­ste anche il termine, che ne è la ragione ultima:

Stando così le cose, che altro è viver felici, se non pos­sedere per mezzo della conoscenza qualcosa di eterno? L’eterno è infatti il solo oggetto di cui fidarsi che non possa esser tolto all’amante [cioè il solo termine adeguato al nostro desiderio di felicità, e termine reale perché reale quel desiderio]: ed è anche ciò in cui il possedere non è altro che il conoscere. Ciò che è eterno è infatti l ’oggetto che vale più d’ogni altro, e perciò non possiamo possederlo se non con ciò che c’è in noi di maggior valore, cioè con la mente. Infatti qualsiasi cosa si possegga con la mente, la

i . Ivi, col. 24.

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si possiede conoscendola; ma nessun bene è conosciuto per­fettam ente, se non è perfettam ente amato.

Per la piena conoscenza si richiede infatti anche pie­no amore, non essendo la felicità, dal polo soggettivo, che pienezza di attività.

E poiché è necessario che l ’oggetto amato affètti di sé l ’amante, si ha che un oggetto amato che sia eterno, affètta l ’anima colla sua eternità. In definitiva quindi quella vita è felice che è eterna. M a che c ’è d ’eterno, da affèttare l ’anima con la sua eternità, se non D io? 1

Ricapitolando: la q. 35 si chiede « che cosa si deve amare » (è il titolo stesso). Esplicita la domanda, come la risposta: il bene che non può mai venir meno mentre è amato è l ’Eterno, Dio. Solo l ’amore verso di Lui po­trà essere libero da ogni timore, perché mai Egli verrà meno; l ’eternità dell’oggetto amato, poi, affetterà di sé— per la estaticità dell’uomo — l ’amante, rendendolo partecipe dell’eternità stessa di Dio.

Sul dato primo del desiderio naturale di felicità— indimostrabile appunto perché primo, innato, non da provare ma solo da riconoscere ed accettare — si è ve­nuto svolgendo il processo razionale della nostra que­stione, fino a concludere all’esplicita identificazione in Dio, del termine di quel desiderio. Felicità e Dio sono così, per Agostino, l ’oggetto di un identico amore, del­l ’amore fondamentale cui la natura stessa inclina ogni essere umano, precedentemente ad ogni sua scelta. La saggezza consisterà appunto nel seguire la natura, ten­dendo consapevolmente e liberamente al termine da essa propostoci.

Primo passo a ciò, quello conoscitivo, il rendersi cioè conto che termine del nostro infinito desiderio di bene è il Bene infinito, Dio. Secondo passo dev’essere quello

1. Ivi, 2.

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volitivo, il riconoscere cioè in Dio quel termine, ten­dendo a Lui con tutta la forza appetitiva del nostro amore. Fare altrimenti sarebbe infelicità, « miseria », la disgrazia peggiore: una natura sviata dalla sua strada, che mai giungerà al suo termine, restando sempre in­compiuta.

Ma questo dover tendere a Dio, come a termine ul­timo cui è ordinata la nostra natura, è solo una legge fisica di natura, scaturente cioè dalla costituzione stessa dell’ente spirituale, capace come tale di ogni vero e di ogni bene, e quindi appagabile solo dal Vero, dal Bene sussistente; o è anche una legge etica, un imperativo morale, pena la colpa, il peccato? 1

Con Agostino, nella q. 35, abbiamo riconosciuto questo fatto, questa legge della nostra natura: inclinati alla felicità, dobbiamo tendere a Dio, pena l ’infelicità. Con Agostino compiamo il passo ulteriore; è proprio la qualità di « naturale », nella tendenza a Dio come a termine ultimo del nostro innato desiderio di felicità, a fondarne anche l ’obbligatorietà morale. Con quel suo intuitivo discorrere da una verità a un’altra, carico di virtualità appena accennate, Agostino ha appena con­cluso esser fatto naturale che noi amiamo Dio, che su­bito aggiunge:

L ’amore poi delle cose che devono essere amate vien detto più propriamente carità o dilezione. Pertanto con tutta la forza del pensiero si deve considerare quel saluberrimo precetto: « Am erai il Signore D io tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente » (M t. 22, 3?)-1

1. Cfr. B o yer , IJidée de vérité, pp. 227-230; Sant’Ago­stino, p. 167.

2. « Amor autem rerum amandarum, caritas vel dilectio melius dicitur. Quare omnibus cogitationis viribus considerandam

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don le parole stesse del supremo comandamento evangelico, Agostino afferma cioè la piena obbligatorie­tà morale di ciò che prima esplicitamente aveva conside­rato solo come una legge fisica, risultante dal nostro innato tendere alla felicità.

Questo spostamento di obbiettivo su un aspetto fi­nora non considerato del nostro tendere a Dio, fa so­spettare però che Agostino lo implicasse anche prima. Riesaminando infatti il suo discorso, possiamo vedernei germi in un inciso precedente:

N e esiste in fa tti anche u no turpe (d i am ore), qu ello con cui l ’ anim o p ersegue le cose a sé in ferio ri, e che p iù pro­priam en te si chiam a cu p id ità , la radice cioè d i tu tti i m ali. '

« Turpe » è certo una qualifica morale, che dona quindi un’implicita sfumatura etica anche a quel « deve amare » che precedeva: « Perciò se si deve amare l ’amo­re, non bisogna amarli tutti ».

Fin dalle prime battute (cfr. sopra, p. 62), la no­stra questione sembrava impostata su altra direzione, su cosa cioè si debba amare non in sede morale, ma per vivere senza timore e felici; quest’incidentale ma esplicito accenno all’immoralità della cupidità, rivela in­vece che quella direzione non era esclusiva, implicando altre accezioni.

Il « quid amandum sit », tema della nostra questio­ne, si svolge perciò su due piani, naturale e morale, più esplicito il primo e meno il secondo. L ’indagine sulla tendenza fondamentale dell’uomo alla felicità, conclusa

est saluberrimum illud praeceptum ‘Diliges Dominum Deum tuum in toto corde tuo, et in tota anima tua, et in tota mente tua’ (Mt. XXII, 37) ». (Q. 35, 2; coi. 24-25),

1. « Quare si amandus est amor, non utique omnis amandus est. Est enim et turpis, quo animus se ipso inferiora sectatur, quae magis proprie ‘cupiditas dicitur, omnium scilicet malorum radix’ (I Tim. V I, 10) ». (Q. 35, 1; coi. 23-24).

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vedendovi una tendenza innata a Dio, acquista così va­lore di legge etica, proprio' perché fatto, legge di natura.

La cupidità, infatti, amore dei beni inferiori all’uo­mo, è detta viziosa, « turpis » moralmente, perché de­siderio contro natura: amare, tendere come a fine a ciò che di sua natura è solo subordinabile all’amante, appunto in quanto a lui ontologicamente inferiore. Per­ché invece Dio deve, in senso etico, essere amato dal­l ’uomo come suo ultimo fine? Ancora per ragioni onto­logiche: è la natura stessa che ci fa tendere alla feli­cità, perciò ad un bene indefettibile, eterno. I l nostro desiderio di felicità è, quindi, desiderio di Dio: deve essere eseguito, appunto perché il contrario sarebbe andare contro natura, disordine, e con ciò stesso vizio morale.

Così dunque, implicitamente, Agostino giustifica, co­me supremo precetto, il sopremamente conforme alla no­stra natura: tesa con tutta se stessa alla felicità, al pos­sesso indefettibile del bene, essa deve tendere verso Dio, Bene indefettibile.

A un identico punto d ’arrivo ci conduce la q. 30, benché diversa ne sia la partenza e la dinamica interna: non il desiderio naturale di felicità, ma la distinzione tra « honestum » ed « utile », cui rispondono « frui » ed « uti ». Bene onesto è quello « propter se ipsum expe­tendum », utile invece quello « ad aliud aliquid refe­rendum »; da questa distinzione di due ordini di beni deriva il principio di ogni ordine morale: « Fruendum est autem honestis, utendum vero utilibus ». Tale Vor­dinatio, la virtus-, perversio e vitium il contrario.

È anche qui la diversa perfezione ontologica, la di­versa natura dei beni, degli oggetti amabili, a distin­guerli anzitutto in onesti ed utili, fine e mezzo; e, con­seguentemente, a imperare verso di essi un amore con-

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(.legno, « frui » o « uti ». Vari dunque i beni, gli ama­bili; vari corrispondentemente gli amandi: supremo ama­bile e supremo amando Dio, giacché nulla gli è superiore « non loco, sed excellentia suae naturae ».

Di Dio solo (la retta ragione dell’uomo) non giudica, poiché di tutto il resto giudica secondo Dio; né di Lui usa, ma fruisce. Dio infatti non dev’essere riferito a nient’altro, giacché tutto ciò che dev’essere riferito a un altro, è infe­riore a ciò cui dev’essere riferito. Né v ’è nulla di supe­riore a Dio, non localmente, ma per eccellenza naturale. 1

Analogamente, saranno degni di maggiore o minore amore gli altri beni, a seconda del diverso loro posto nella scala ontologica, del loro maggiore o minore parte­cipare la perfezione naturale: di qui un uso di totale subordinazione (« ad dominium ») da parte dell’uomo verso gli esseri irrazionali a sé inferiori; un uso invece su piano di eguaglianza (« ad societatem ») quanto agli altri uomini (cfr. sotto, p. 78).

La gerarchia ontologica dei beni norma, quindi, la gerarchia morale degli amori: quale il grado di amabi­lità, tale il grado di precettività nell’amore. Turbare quest’ordine costituisce in sede morale la « humana per­versio, quae etiam vitium vocatur » (cfr. p. 74): ma costituisce pure l ’infelicità della nostra natura. La « mi­seria » naturale, infatti, s’identifica con la massima col­pa morale, la « superbia », quando l ’uomo capovolge la gerarchia dei valori ponendo l ’amore di sé sopra quello di Dio:

La sua stessa vita (la retta ragione) la riferisce al fine di fruire Dio: così appunto è felice. Perciò usa anche di se

1. « de solo Deo non iudicat, quia secundum Deum de caeteris iudicat; nec eo utitur sed fruitur. Neque enim ad aliquid aliud Deus referendus est. Quoniam omne quod ad aliud refe­rendum est, inferius est quam id ad quod referendum est. Nec est aliquid Deo superius, non loco, sed excellentia suae naturae. » (Q. 30; coi. 20).

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stessa, ella che certamente, qualora si riferisca a se stessa anziché a Dio, comincia colla superbia la propria infelicità.1

II. Significato dell’ eudemonismo agostiniano.

L ’etica d’Agostino è dunque eudemonistica; « utili­taristica », anzi, ma nel senso più nobile della parola, quello per cui ogni bene che l ’uomo ama e deve amare, non può essere per lui « onesto » senza essergli nel contempo « utile »; né, viceversa, essergli veramente utile se non perché gli si addice come pienamente onesto.

È quanto acutamente osserva Agostino, a commento della differenza tra « utile » ed « honestum », oggetto dei due amori di « uti » e « frui »:

Com e c ’è differenza tra ciò che è onesto e ciò che è u ti­le, così tra il fruire e l ’usare. Benché si possa sottilmente difendere che ogni onesto è utile e che ogni utile è onesto, tuttavia con maggior proprietà e più comunemente vien detto onesto ciò che è appetendo per se stesso, e utile ciò che è da riferire a qualcos’altro: ora parliamo secondo que­sta differenza, tenendo sempre fermo però che l ’onesto e l ’utile non si contraddicono in alcun modo.1

Agostino, anzi, non si trattiene dal tacciare di « im­perita e volgare » l ’opinione contraria: « Si stima infatti

1. « Vitam etiam suam ad id refert, ut fruatur Deo: ita anima beata est. Ergo et se ipsa utitur; quae profecto inchoat miseriam per superbiam, si ad se ipsam, non ad Deum refe­ratur. » (Ivi).

2. « U t inter honestum et utile interest, ita et inter fruen­dum et utendum. Quamquam enim omne honestum utile, et omne utile honestum esse, subtiliter defendi queat; tamen quia magis proprie atque usitatius honestum dicitur quod propter se ipsum expetendum est, utile autem quod ad aliud aliquid referendum est: secundum hanc differentiam nunc loquimur, illud sane custodientes, ut honestum et utile nullo modo sibimet adversentur. » (Q. 30; coi. 19).

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tiilora, in modo imperito e volgare, che essi si contrad­dicano ».*

Che vero « utile » e vero « onesto » non siano mai in contrasto, è convalidato da quanto Agostino viene poi asserendo sul retto amore dell’utile: d ’ogni utile bisogna usare, in quanto è appunto tale per ognuno; come mez­zo cioè e non fine o, se si vuole, come fine soltanto intermedio e inferiore perché ordinato ad un fine più alto. Tale consapevole subordinare non può essere che opera della ragione, sicché solo l ’uomo ne è capace; non lo stolto però, ma il « sapiens », quegli cioè che usa rettamente o virtuosamente della sua ragione. Se uno volesse invece trovare il suo utile in ogni cosa, fare cioè di tutto, in ultima analisi, un mezzo in funzione di se stesso, ogni cosa gli si guasterebbe tra mano: ogni utile perderebbe per lui la sua utilità, non sarebbe più bene — sia pure soltanto usabile, mezzo e non fine — , ma male.

Quanto agli oggetti utili, si deve usare di tutti, secondo che ci sia bisogno di ognuno di essi... usare poi di qualcosaIo può solo l ’animale provvisto di ragione. In fatti il sapere a che deve essere riferita una cosa, non è dato agli esseri privi di ragione; anzi neppure agli esseri razionali, ma stolti. Né alcuno può saperlo se non il saggio. È più giusto quindi, di coloro che non usano bene, dire che abusano. Infatti a nulla giova ciò che viene usato male; e ciò che non giova, certo non è utile. Invece qualsiasi cosa sia utile, è utile, usandola: e così nessuno usa se non d ell’utile. Per­ciò non usa, chiunque mal usi}

1. « Adversari enim haec sibi aliquando imperite ac vulga­riter existimantur » {ivi).

2. « Utilibus autem utendum est omnibus, ut quoquo eorum opus est, (...) uti autem aliqua re non potest nisi animal quod rationis est particeps. Scire namque quo quidque referendum sit, non datum est rationis expertibus; sed ncque ipsis rationa­libus stultis. Nec uti quisque potest ea re quae quo referenda sit nescit; nec quisquam potest scire nisi sapiens. Quare abuti

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Oltre all’accezione tecnica che definisce onesto « ciò che è appetendo per se stesso », e utile « ciò che è da riferire a qualcos’altro », esiste dunque un senso più largo di «utile » ed « onesto »: « utile » è ciò che giova, « onesto » ciò che conviene, ci si addice, è degno di noi.1 Ebbene ci conviene, ci si addice, è cioè moral­mente « onesto » poiché nel retto ordine, tutto ciò che è vero « utile » per noi, ossia che veramente ci giovi. Inversamente, tutto ciò che veramente ci giova, che è e resta « utile » vero per noi, non guastato da un uso disordinato, contro la sua reale natura (« utile autem quidquid est, utendo est utile »), non può non essere insieme degno di noi, non può non convenirci come vera­mente « onesto ».

Si capisce allora com e anche qu el bene che è al

vertice d ella scala d eg li o g g e tti on esti, essendo l ’H one-

stum p er eccellen za, D io , sia in certo senso anche il

suprem o U tile d e ll’u o m o , p u rch é sia am ato secondo la

d ign ità d ella Sua natura.

T a le d ign ità è così e levata, è di un gen ere così d i­

verso d alla d ign ità fin ita e p artecip ata d i ogn i a ltro bene,

da n on to llerare n e ll’am are alcuna m istion e d i « u ti »,

esigen do in ve ce un p u rissim o « fru i », u n ico am ore co n ­

ven ien te verso C o lu i che è i l b en e suprem o, n on rife r i­

b ile ad a ltro . E p p u re , p ro p rio qui, nel cu lm in e d e ll ’amo-

rectius dici solent, qui non bene utuntur. Non enim euiquam prodest id quo male utitur; et quod non prodest, non utique utile est. Utile autem quidquid est, utendo est utile: ita nemo utitur nisi utili. Non ergo utitur, quisquis male utitur. » (Q. 30; col. 19-20),

i, Ë Agostino stesso a supporre l ’esistenza di questa acce­zione meno tecnica di utile ed onesto, proprio col sottolineare la definizione più rigorosa di « uti » e « frui »: cfr. sopra, il testo di p. 69. Quell’accezione meno tecnica è data espressa- mente, sempre nella q. 30, solo per l ’utile: vg. « et quod non prodest, nom utique utile est ».

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re disinteressato verso il Bene amato unicamente per se stesso, noi troviamo insieme il nostro massimo giova­mento e perfezionamento, la nostra stessa felicità. È la conseguenza quasi paradossale dell’identificare in Dio la nostra beatitudine: l’amare D io al di sopra di ogni cosa è per l ’uomo il supremo fine da realizzare, supremo co­mandamento insieme e suprema felicità; proprio come il contrario, l ’amare ogni altro essere in ordine a sé, è la somma miseria dell’uomo e insieme la perversione morale più grande:

La sua stessa vita la riferisce (la perfecta hominis ratio) al fine di fruire Dio: così appunto è felice. Perciò usa anche di se stessa, ella che certamente, qualora si riferisca a se stessa, anziché a Dio, comincia colla superbia la propria infelicità \

La q. 36 vi insiste ancor più esplicitamente: amare Dio, più e sopra se stesso, è in fondo l ’unico modo per provvedere « vere summeque » a se stessi.

Ma quando si ami Dio più che l ’anima, sì che l’uomo preferisca essere di Lui più che di se stesso, allora si provvede veramente e sommamente all’anima, e di conse­guenza al corpo...2.

È quindi veramente un darsi, l ’amore. Ma nell’ama­re Dio fino a voler « essere di Lui più che di se stesso », chi si perde si ritrova verissimamente, ente nell’Ente, be­ne nel Bene, amore nell’Amore, immagine per essenza nell’Essenza di cui partecipa.

È questo il meraviglioso, anzi il mistero di un disin­teresse totale che è un totale interesse, poiché è il vero interesse. Disinteressato pienamente può solo essere Co­

1. Cfr. sopra, p. 68 s.2. « Sed cum Deus magis diligitur quam animus, ut malit

homo eius esse quam suus, tunc vere animo summeque consu­litur, consequenter et corpori... » (q. 36,1; col. 25).

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lui che amando nulla può acquistare, essendo in sé l ’im­mutabile Perfezione, piena e sussistente. Ogni essere mutevole, e l ’uomo è tale, non potrà mai essere piena­mente disinteressato: anche se la sua intenzione (disin­teresse « intenzionale ») avrà un altro movente, amando— come deve — il Bene Sommo per se stesso, non po­trà non acquistare ontologicamente (interesse « ontolo­gico ») in bene, in perfezione, giacché realizzerà piena­mente se stesso, partecipando più intimamente che mai di Quegli di cui è, per essenza, immagine, « partecipa­zione ».

Se allora ci si prenderà per quel che si è, ricono­scendo sì la nostra supremazia nel creato, ma insieme la nostra creaturalità, accettando la grandezza dell’uomo e insieme i suoi limiti — nel che è il vero « umanesi­mo », e il Cristianesimo è tale — , non si cadrà nell’as­surda pretesa di un assoluto disinteresse « ontologico », irrealizzabile dall’uomo: sarebbe, in ultima analisi, il peccato satanico di chi voglia farsi « come Dio » che solo è, e può essere, il Disinteresse sussistente. Ë reale ed umano, invece, è realmente umano e umanamente reale, soltanto un disinteresse intenzionale nell’amare Dio; assurdo e impossibile un disinteresse ontologico.

Con questo il problema non è certo esaurito. Resta ad es. da precisare come, nel nostro amare Dio per se stesso, coesista psicologicamente l ’anelito alla propria fe­licità; quale sia, cioè, l ’incidenza intenzionale nell’amore puro, nel nostro « fruire » Dio senza alcun « uti », di ogni consapevole avvertenza che amando Lui in se stes­so amo anche il mio bene supremo. Comunque però la folgorazione agostiniana, vertice speculativo della q. 30, che solo di Dio si debba unicamente fruire, resterà sem­pre la base su cui approfondire ulteriormente la tensio­ne tra l ’interesse ontologico e il disinteresse intenzionale, poli del nostro fruitivo amare Dio-felicità.

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III . Etica dell’amore, quella agostiniana...

L ’identificazione della felicità con l ’amore di Dio sopra ogni cosa, come redime l ’eudemonismo agostinia­no da ogni basso egoismo, così fa della sua etica eude­monistica un’etica della carità, dell’amore.

Solo un amore che sia purissimo « frui », è degno di Dio e, insieme, capace di farci possedere Dio, al ter­mine della nostra vita. Ma anche nello stato di via, la virtù suprema è e resta sempre l ’esercizio terreno del­l’amore ordinato, adeguato cioè ai vari generi di beni che ci circondano. La virtù infatti è « ordinatio », e « perversio » il vizio; ma ordine e disordine verifican­dosi neH’amore, la virtù non è altro che l ’amare ordi­nato, 1’« ordo amoris », secondo la felicissima definizio­ne che Agostino stesso formulerà nel De Civitate Dei (XV, 22). Virtù cioè non è altro che amare ciò che deve essere amato, e amarlo come deve essere amato. Vari i beni, gli amabili; vari corrispondentemente gli amori. A un bene onesto si addice il « frui », 1’« uti » a un bene utile; a ognuno poi tanto amore quanta è la sua natu­rale amabilità, non meno né più,

E così ogni umana perversione, che è chiamata anche vizio, non è che il voler usare di ciò che dev’essere fruito, fruire di ciò che dev’essere usato. E invece ogni ordine, che è detto anche virtù, non è che il fruire di ciò che dev’essere fruito, usare di ciò che deve essere usato. Si deve dunque fruire degli oggetti onesti, usare degli utili. ... Bisogna quin­di fruire delle bellezze invisibili, cioè dei beni onesti; se di tutte è un’altra questione, benché forse non convenga dire onesto altro che ciò di cui si deve fruire. Quanto agli oggetti utili poi, si deve usare di tutti, secondo che ci sia bisogno di ognuno di essi. ... È più giusto quindi, di coloro che non usano bene, dire che abusano. Infatti a nulla giova ciò che viene usato male; e ciò che non giova, certo non è utile. Invece qualsiasi cosa sia utile, è utile usandola: e

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così nessuno usa se non d e ll’utile. Perciò non usa, chiunque mal usi.J

Riducendo dunque il vizio a un disordine nel­l ’amore, la virtù al retto « uti » e « frui », Agostino ha proclamato la supremazia della carità su ogni altra virtù, riducibili sempre alla carità, o perché nient’altro che de­terminazioni dell’amare ai vari settori di beni, o perché esercitate sotto l ’influsso dell’amore.

Così infatti si esprime la q. 30 (si rammenti che ogni retto « uti » è un amare virtuoso):

Usa infatti — la retta ragione — ... di taluni oggetti da tollerare, per esercitare la pazienza; di altri da ordina­re, per attuare la giustizia; ... usa anche di quelli da cui si astiene, esercitando così la temperanza.2

Nella q. 61 c ’è poi un inciso molto significativo, che definisce le quattro classiche virtù cardinali come vari modi di manifestarsi dell’amore; caratteristica anzi di questo testo è la totale identificazione della giustizia con la carità che — altro particolare di grande valore — permea di sé tutte le altre virtù:

...le quattro virtù dell’anima, per le quali si vive questa vita in modo spirituale: prudenza, temperanza, fortezza e

1. Omnis itaque humana perversio est, quod etiam vi­tium vocatur, fruendis uti velle, atque utendis frui. Et rursus omnis ordinatio, quae virtus etiam nominatur, fruendis frui, et utendis uti. Fruendum est autem honestis, utendum vero utili­bus. (...) Oportet ergo frui pulchris invisibilibus, id est, ho­nestis: utrum autem omnibus, alia quaestio est; quanquam for­tasse honesta non nisi quibus fruendum est diei deceat. Utilibus autem utendum est omnibus, ut quoquo eorum opus est. (...) Quare abuti rectius dici solent, qui non bene utuntur, Non enim cuiquam prodest id quo male utitur: et quod non prodest, non utique utile est. Utile autem quidquid est, utendo est utile: ita nemo utitur nisi utili. Non ergo utitur, quisquis male utitur. » (Q. 30; col. 19-20).

2. «U titur etiam (...) quibusdam tolerandis ad patientiam, quibusdam ordinandis ad iustitiam, (...) utitur etiam iis a qui­bus se abstinet, ad temperantiam ». (Ivi, coi. 20).

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giustizia. La prima di esse è la conoscenza delle cose da appetire o da fuggire; la seconda raffrena la cupidità dai diletti temporali; la terza è la fermezza d’animo nelle mo­lestie temporali; la quarta, che si diffonde attraverso tutte le altre, è la dilezione di Dio e del prossimo. 1

Posto questo primato della carità, virtù principale e in qualche modo unica, che a sé riduce ogni altra virtù facendone il proprio strumento, si comprende come an­che tutta l ’ascetica agostiniana non abbia altro fine che insegnare a progredire sempre più nella carità, accre­scendola e « nutrendola » in noi. È l ’insegnamento della q. 36, « de nutrienda caritate », didattica del come ali­mentare la carità, compendiata in una sentenza scultorea:

Nutrimento della carità è il diminuire la cupidità; sua perfezione, l’assenza di cupidità... Chiunque dunque vuol nu­trirla, si dia a sminuire la cupidità.2

Segno del crescere della carità, delPamare cioè Dio, a Lui subordinando ogni altro amore, è il graduale affievolirsi del motivo del timore nelle nostre relazioni con Lui:

Segno del progresso della carità, è la diminuzione del timore; segno della sua perfezione, il nessun timore.3

Agostino esporne poi i vari gradi per praticare sem­pre più la carità; accenniamo appena, essendo materia più di teologia morale che d’etica filosofica.

1. «(...) propter quatuor animi virtutes, quibus in hac vita spiritualiter vivitur, prudentiam, temperantiam, fortitudi­nem, et justitiam. Quarum prima est cognitio rerum appeten­darum et fugiendarum: secunda, refrenatio cupiditatis ab iis quae temporaliter delectant: tertia, firmitas animi adversus ea quae temporaliter molesta sunt: quarta, quae per caeteras omnes diffunditur, dilectio Dei et proximi.» (Q. 61,4; coi. 51).

2. « Nutrimentum eius (caritatis) est, imminutio cupiditatis; perfectio nulla cupiditas (...). Quisquis igitur eam nutrire vult, instet minuendis cupiditatibus» (q. 36,1; coi. 25).

3. « Signum profectus eius, imminutio timoris; signum per­fectionis eius, nullus timor » (ivi).

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A ll’inizio, per distogliersi dagli amori disordinati o cupidità, gioverà soprattutto il pensiero che nulla resta occulto all’onniscienza divina, insieme al timore dell’on­nipotenza divina che punirà il peccato. Per persuadere che a tutto e tutti si estende la Provvidenza di Dio, piuttosto che ragionamenti saranno adatti esempi con­creti, che si impongano o perché recenti o perché narrati dalla S. Scrittura.1

Acquistata la consuetudine di non peccare, se ne percepirà la non gravosità, e si potrà cominciare a gu­stare la dolcezza della carità e ad apprezzarne la bel­lezza: l ’esempio di Cristo stesso e dei suoi Santi, sia di sprone a desiderare e amare i beni eterni, non i terrestri e caduchi.2

Superate le voluttà carnali ci si guardi dalla cupidigia di lode; se però si desideri piacere agli uomini per aiu­tarli nell’amare Dio, l ’amore della lode sarà un lecito « uti ».3

Ultimo e supremo scoglio da evitare, la superbia dello spirito: ne è preso colui che rifuggirà sì di piacere agli uomini, ma solo per vivere nella torre d’avorio della sua virtù, sdegnoso di accompagnarsi a coloro che riguarderà come a sé inferiori.4

Così l ’uomo progredirà nell’amore verso Dio, « nu­trendo » gradualmente in sé la carità, dal timore ini­ziale di Dio che punisce il peccatore, a quello filiale del saggio, costantemente timoroso di perdere Dio, al cui amore ormai è solo e « summe » dedito.5

r. Ë ii 1 della q. 36. 2. È il 2.3. È il 3. 4. Ë il 4.> « Quapropter Dei timor non solum inchoat, sed etiam

perficit sapientem. Is est autem qui summe diligit Deum... »(q. 36,4; coi. 26).

Un buon commento a tutta la q. 36 è offerto dalla Nota compì, di G. B ardy, ha marche vers l’amour de Dieu, in B. A., vol. X, pp. 719-720.

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IV . . . . ma etica razionale.

E tica d e ll ’am ore, la m o rale agostin ana scaturisce d a l­

la n atura stessa d elle cose e, com e tale, ci è im p osta dalla

re tta ragion e. E tica d e ll ’am ore, quindi, m a assolutam en­

te razion ale — o razion alistica se si p re ferisce — , tut-

ta ltro che sen tim en talistica o ciecam en te vo lo n taristica .

T ra i b e n i, tra g li o g g e tti d a am are p erché u tili o one­

sti, la ragio n e p rescrive in fa tti che si serbi i l re tto o rd i­

n e: esso v u o le che si u s i d e ll ’u tile (com e m ez2o), si fru i­

sca (co m e fine) d e ll’o n esto . I l con trario è p erv e rtire la

n atura d elle cose, è agire irrazio n alm en te, è vizio :

E così ogni umana perversione, che è chiamata anche vizio, non è che il voler usare di ciò che dev'esser fruito, fruire di ciò che d ev ’esser usato. E invece ogni ordine, che è detto anche virtù, non è che il fruire di ciò che dev’esser fruito, usare di ciò che dev’essere usato. Sì deve dunque fruire degli oggetti onesti, usare degli utili. 1

Se d u n q u e la v ir tù è « ord in atio », e « p erversio »

il v iz io , si p uò id entificare la v ir tù colla retta ragione

(p erfecta ratio), che to ta lm en te si d isp iega quando ap­

p u n to d ’o gn i bene usa o fru isce con n aturalm en te alla

d ign ità di fine in term ed io o u ltim o del b en e stesso. O f-

ferta g lis i l ’occasion e A g o s tin o traccia allora, con m ira­

b ile sin tesi, l ’in te ro p an oram a del cam po su cu i la v irtù ,

la re tta ragion e, esercita il suo p o tere d i d iscern im en to

e di gu id a a ll’am ore, a ffin ch é an ch ’esso sia retto :

La retta ragione d e ll’uomo, che si chiama virtù, usa anzitutto di se stessa per conoscere D io, onde fruire di C o ­lui da cui appunto è stata fatta.

Usa poi degli altri esseri razionali per far società con essi, di quelli irrazionali per dominarli. La sua stessa vita la riferisce al fine di fruire di D io: così appunto è felice. Perciò usa anche di se stessa, ella che certam ente, qualora

i. Q. 30; col. 19; cfr. sopra p. 74.

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si riferisca a se stessa anziché a D io , comincia colla superbia la propria infelicità.

Usa anche di taluni corpi vivificandi, per beneficare — così infatti usa del proprio corpo — ; di taluni altri per assimilarli o rifiutarli a scopo di salute; di altri da tollerare, per esercitare la pazienza; di altri da ordinare, per attuare la giustizia; di altri da considerare, per averne un qualche documento di verità; usa anche di quelli da cui si astiene, esercitando così la temperanza. D ’ogni cosa usa dunque, sen­sibile e non sensibile, né ne esiste una terza.

G iudica poi di tutto ciò di cui usa: di D io solo non giudica, poiché di tutto il resto giudica secondo D io; né di Lui usa, ma fruisce. D io infatti non dev’essere riferito a nient’altro, giacché tutto ciò che dev’esser riferito a un altro, è inferiore a ciò a cui dev’esser riferito. Né v ’è nulla di superiore a D io, non localm ente, ma per eccellenza na­turale.

T u tto ciò che è stato fatto, allora, è stato fatto per uso d ell’uomo, giacché di tutto la ragione, che è stata data all’uomo, usa giudicando. 1

1. « Perfecta igitur hominis ratio, quae virtus vocatur, utitur primo se ipsa ad intelligendum Deum, ut eo fruatur a quo edam facta est. Utitur autem caeteris rationalibus animan­tibus ad societatem, irrationalibus ad eminentiam. Vitam etiam suam ad id refert, ut fruatur Deo: ita enim beata est. Ergo et se ipsa utitur; quae profecto inchoat miseriam per superbiam, si ad se ipsam, non ad Deum refertur.

« Utitur etiam corporibus quibusdam vivificandis ad bene­ficentiam; sic enim utitur suo corpore: quibusdam assumendis vel respuendis ad valetudinem, quibusdam tolerandis ad patien­tiam, quibusdam ordinandis ad justitiam, quibusdam conside­randis ad aliquod veritatis documentum: utitur etiam iis aquibus se abstinet, ad temperantiam. Ita omnibus et sensis et non sensis utitur; nec aliquid tertium est,

« ludicat autem de omnibus quibus utitur: de solo Deo non iudicat, quia secundum Deum de caeteris iudicat; nec eo utitur, sed fruitur. Neque enim ad aliquid aliud Deus referendus est. Quoniam omne quod ad aliud referendum est, inferius est quam id ad quod referendum est. Nec est aliquid Deo superius, non loco, sed excellentia suae naturae.

« Omnia ergo quae facta sunt, in usum hominis facta sunt, quia omnibus utitur iudicando ratio, quae homini data est. » (Q. 30; coi. 20),

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La virtù è, dunque, il retto ordine degli amori, nor­mato dalla diversità degli oggetti amati stessi, dalla in­trinseca gerarchia di valore dei beni. Etica razionale, per­ciò, essendo da ragione presupposta necessariamente per il discernimento dei beni da amare secondo il loro or­dine: « ... giacché di tutto la ragione, che è stata data all’uomo, usa giudicando ». D el resto se l ’amore preri­chiede il conoscere, è ovvio che il « retto amore » pre­supponga il giudizio normativo della « retta ragione ».

Ma quest’etica razionale, proprio perché tale, è e re­sta un’etica dell’amore, giacché la ragione proponendo all’uomo i vari beni ognuno al suo posto, non fa altro che proporgli gli oggetti amabili ognuno secondo il gra­do d ’amare che gli è dovuto. Non è, infatti, il bene l ’oggetto stesso dell’amore? e non è razionale che esso sia amato corrispondentemente alla sua stessa natura di bene, di amabilità, niente di più e niente di meno?

Mentre dunque nel § prec. abbiamo visto che la virtù per eccellenza, unica in certo modo, consiste nel­l ’amore, in questo § essa è venuta identificandosi con la ragione stessa, nella sua rettitudine (perfecta hominis ratio, quae virtus vocatur). Si deve perciò concludere che amore e ragione coincidono nella virtù suprema, non essendo quest’ultima che il perfetto uso della ragion^ nell’amare, ovvero il perfetto amare secondo ragione.

Razionalità e volontarismo, intellettualismo e amore sono quindi le due componenti della virtù, della retti­tudine cioè nella suprema attività umana. Si ha così perfetta corrispondenza etica con la mutua complemen­tarietà psicologica di conoscere e amare, costituenti ap­punto l ’attività umana in quanto tale (cfr. sopra, pp. 40- 46). L ’oscillazione stessa con cui Agostino calca, ora più ora meno, l ’aspetto razionalistico o volontaristico della virtù — tipica del resto di un temperamento così poco rigoroso nelle sue folgorazioni intuitive —

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conferma le osservazioni già fatte in sede psicologica (cfr. sopra, p. 51) sul «Volontarism o» agostinia­no, escludente cioè ogni esclusivismo, qualunque ulte­riore preminenza si possa o si voglia dare, nella sua dottrina, all’intelletto o alla volontà. Resta acquisito, infatti, che l ’etica agostiniana è insieme intellettualistica e volontaristica, nella virtù esplicandosi sia l ’apporto di­scorsivo, giudicativo, ordinatore e relazionatore della ra­gione, sia quello appetitivo, affettivo, oblativo di sé dell’amore.

V. Etica razionale, ma oggettivistica, fondata sulla nozione di « partecipazione ».

Giudice, norma vivente della virtù etica, è dunque la ragione umana. Essa, però, non giudica a suo arbitrio il valore dei beni da amare e la loro corrispondente ob­bligatorietà d ’amore; non fa altro, invece, che prendere atto della loro intrinseca gerarchia di valore. È il loro stesso valore che detta alla ragione, norma a sua volta nom ata, il cosa e il quanto amare.

Contemplando i beni, la ragione ne percepisce la maggiore o minore amabilità, stabilendo di conseguenza l ’ordine in cui sono da amarsi. Essa non è la facitrice totale e ultima della legge, ma è piuttosto la promulga- trice immediata di quella legge che a lei stessa è dettata dalla scala degli esseri, cioè dei beni, dei fini e, ultima­mente, da Dio stesso di cui essi, per creazione, parte­cipano. Esistono vari beni, cioè vari amabili; a seconda della diversa loro bontà o amabilità, sarà diversa l ’obbli- gazione di amarli.

Se è vero allora che per imporre tale obbligazione ci vuole una volontà legifera, la Volontà divina che è— sotto questo rispetto — la legge stessa sussistente, la « lex aeterna » da Agostino definita appunto come

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« l ’intelletto o la volontà divina, imperante che sia con­servato l ’ordine naturale, e vietante che esso sia tur­bato »; 1 resta però egualmente vero che tale obbligazio­ne morale Dio l ’impone in base alla natura stessa dei beni da Lui creati. G li amabili cioè sono anche amandi, e più o meno amandi quanto più o meno amabili, quanto più o meno partecipi di bontà, di perfezione ontologica.

La nozione metafisica di « partecipazione », centra­lissima nell’agostinismo, ne fonda perciò anche l ’etica, essendo la diversa obbligatorietà degli amori in propor­zione esatta col diverso partecipare la bontà da parte dei beni da amare: è la conseguenza etica di un pensiero oggettivistico, in cui è l ’oggetto a specificare la tenden­za, sia ontologicamente che moralmente (cfr. sopra, pp. 25-28).

Riportando adesso alcuni passi trattanti espressa- mente della partecipazione dal punto di vista metafisi­c o 2 — descriventi cioè la gerarchia ontologica dei beni, degli amabili, più o meno beni ed amabili appunto se­condo il maggiore o minore loro partecipare del Bene, di Dio — risulterà sempre meglio l’esatto corirspondere, grado con grado, tra gerarchia dei valori etici da una parte, e gerarchia dei valori ontologici dall’altra. Ecco allora dalla q. 24:

T utto ciò che è, in quanto è, è bene. Ma sommamente è quel bene per cui partecipazione sono gli altri beni. E tutto ciò che è mutabile, in quanto è, è bene, non per se stesso, ma per partecipazione al bene immutabile. Invero

1. « Lex vero aeterna est ratio divina vel voluntas Dei, ordinem naturalem conservari jubens, perturbari vetans » (Con­tra Faustum manich., XXII, 27; t. 42, coi. 418).

2. Oltre che nei passi che ora citeremo, la partecipazione ricorre anche nelle qq. 1; 6; 21; 23; 46, 2; 78.

Sulla partecipazione nel De div. quaest., può consultarsi utilmente la nota compì, di J. A. B e c k a e rt , L ’âme et la partici pation platonicienne, in B. A., vol. X, pp. 702-703.

quel bene, per cui partecipazione sono beni le altre cose qualunque siano, non per altro, ma per se stesso, è bene...1

Ma è soprattutto la q. 51, in cui Agostino descrive in particolare quella specialissima partecipazione (per « immagine e somiglianza ») che è l’uomo, a gettare una luce vivissima sull’intera sua metafisica della partecipa­zione. V i afferma infatti che ogni perfezione non è che partecipazione della Perfezione prima e somma: gli enti dall’Ente, i beni dal Bene, i viventi dalla Vita, i sapienti dalla Sapienza, ecc.:

Come poi non sia fuor di luogo il dire che anche il corpo è fatto a somiglianza di Dio, lo comprende facilmente chi consideri diligentemente quel detto: « E fece Dio ogni cosa assai buona » (Gen. I, 31).

Nessuno dubita infatti che Egli non sia il primo bene. Giacché in m olti modi le cose possono esser dette sim ili a Dio: alcune, fatte secondo virtù e sapienza, perché in Lui c’è virtù e sapienza non fatta; altre in quanto vivono sola­mente, poiché Egli sommamente e il primo vive; altre in quanto sono, poiché Egli è sommamente e il primo. Pertan­to le cose che sono solamente, e tuttavia non vivono né sanno, sono a sua somiglianza non perfetta, ma esigua; poi­ché anch’ esse sono beni nel proprio ordine, essendo Egli supremo Bene, da cui ogni bene procede. Tutto ciò poi che vive e non sa, partecipa un po’ più della sua somiglianza. Infatti ciò che vive, anche è: ma non anche vive, chiunque è. Quelli poi, che sanno, gli sono tanto prossimi in somi­glianza, che nessuna creatura gli è più vicina. Infatti ciò che partecipa della sapienza, e vive ed è: ciò che vive invece, è necessario che sia, ma non che sia anche sapiente. L ’uomo perciò, potendo essere partecipe della sapienza secondo la

1. « Ontne autem quod est, in quantum est, bonum est. Summe enim est illud bonum, cuius participatione sunt bona caetera. Et omne quod mutabile est, non per se ipsum, sed boni immutabilis participatione, in quantum est, bonum est. Porro illud bonum, cuius participatione sunt bona caetera quaecumque sunt, non per aliud, sed per seipsum bonum est... » (q. 24; t. 40, coi. 17).

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propria interiorità (cioè nella sua anima spirituale), secondo, essa è talmente ad immagine (di D io), da essere stato for­mato senza l ’intermediario di natura alcuna; e così nulla v ’è di più congiunto con D io. Infatti e sa, e vive, ed è: di tale creatura nessuna è m ig lio re .1

Ogni essere, in quanto tale, è dunque buono, è un bene; ma ogni essere non è tale che per partecipazione al primo Essere, che — come tale — è insieme il primo Bene. Perciò ogni bene non è tale che per partecipazione al primo Bene, ovvero non è amabile che per partecipa­zione al primo Amabile.

È perciò dalla natura stessa degli esseri o beni, e dalla volontà dell’Autore della natura che sanziona— coll’obbligazione morale vietante il disordine — l ’ordine stesso della natura, che deriva la moralità

i . « Quomodo autem non sit incongruum, quod dicitur etiam corpus factum ad similitudinem Dei, facile intelligit qui diligenter attendit quod dictum est, — Et fecit Deus omnia bona valde (Gen. I, 31) — .

« Nemo enim dubitat quod sit ipse primitus bonum. Multis enim modis dici res possunt similes Deo', aliae secundum virtutem et sapientiam factae, quia in ipso est virtus et sapientia non facta; aliae in quantum solum vivunt, quia ille summe et primitus vivit; aliae in quantum sunt, quia ille summe et primitus est. Et ideo quae tantummodo sunt, nec tamen vivunt aut sapiunt, non perfecte, sed exigue sunt ad similitudinem eius-, quia et ipsa bona sunt in ordine suo, cum sit ille super omnia bonus, a quo omnia bona procedunt. Omnia vero quae vivunt et non sapiunt, paulo amplius participant similitudinem. Quod enim vivit, etiam est: non autem quidquid est, etiam vivit. Iam porro quae sapiunt, ita illi similitudine sunt proxima, ut in creaturis nihil sit propinquius. Quod enim participat sapien­tiae, et vivit et est: quod autem vivit, necesse est ut sit,non necesse est ut sapiat. Quare cum homo possit particeps esse sapientiae secundum interiorem hominem, secundum ipsum ita est ad imaginem, ut nulla natura interposita formetur; et ita nihil sit Deo coniunctius. Et sapit enim, et vivit, et est: qua creatura nihil est melius. » (Q. 51,2 « De homine facto ad imaginem et similitudinem Dei »; coi. 31-33).

dell’amore. In essa infatti il sommamente amando non sarà altri che il sommo Amabile, cioè il primo Essere0 primo Bene; gli altri beni dovranno essere amati solo rispondentemente alla loro maggiore o minore parteci­pazione da Lui. Prima di tutte le creature perciò dovrò amare me stesso — essendo l ’uomo la massima parte­cipazione creata al Bene increato — , e gli altri come me stesso; tutto il resto invece subordinandolo a me. In me poi, non essendo io un essere semplice ma com­posito, amerò il corpo in ordine all’anima e, finalmente, l ’anima in ordine a Dio.

Tale l ’ordine di natura e tale in conseguenza l ’ordi­ne dell’amore, la virtù, qual è delineato ad es. nella sintesi mirabile della q. 30 (citata sopra, p. 78 s.) su « uti » e « fruì ». Rileggendola ora, acquisterà pieno rilievo il parallelismo tra retto amare e partecipazione metafisica, che di quella rettitudine è l ’implicito fonda­mento.

V I. Etica antropocentrica, secondo il suo fine im­mediato.

È infatti la varia convenienza, maggiore o minore, colla natura dell’uomo, ciò che stabilisce in quale ordine1 beni siano tali per lui, e perciò in qual misura siano amabili e amandi dall’uomo. Non per nulla a gradino supremo, nella scala del creato, è posto colui che più è congiunto per partecipazione al « primitus Bonum »: l ’uomo, « qua creatura nihil est melius » (cfr. pag. prec.).

Con tutta sicurezza Agostino ne conclude infatti che l’uomo « usa degli altri animali razionali per far società con essi {ad societatem), di quelli irrazionali per domi­narli {ad eminentiam »), (q. 30; cfr. p. 78).

Nulla, nel creato, più alto dell’uomo! Egli, perciò, amerà tutto il resto in ordine a sé, gli altri uomini

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associando a quest’amore ordinato di sé, amandoli ap­punto come altri se stesso. In una considerazione del creato astraente dal Creatore, l ’uomo ne costituisce il vertice: l ’agostinismo è, sul piano umano, pieno antro­pocentrismo.

Ma l ’uomo è, per natura, immagine di Dio: tutta la sua dignità consiste appunto nell’essere così « ad ima­ginem » che null’altra creatura si ponga tra l ’uomo e Dio, per una partecipazione ontologica superiore a quel­la dell’uomo.1 In un piano più alto, veramente totale, l ’antropocentrismo cede il passo al teocentrismo, lo­gico necessario sviluppo del vero umanesimo, affinché l ’uomo non sia distrutto proprio nella sua natura più intima, quella di « immagine » creata dell’increato.

V II . T eocentrismo ultimo dell’etica di Agostino.

Sarebbe ripetizione l ’insistervi: la filosofia dell’Ip- ponese col suo ragionare non sfocia a conclusione di­versa da quella abbracciata dalla sua fede.

Dio infatti — • ontologicamente il « primitus bo­num » (q. 51), il Bene stesso — è di conseguenza il primo Amabile e il primo Amando. A Lui perciò è riservato un posto unico negli amori dell’uomo: il pri­vilegio dell’unico « frui » pienamente disinteressato, perché spoglio di ogni « uti ».

Virtù suprema è, correlativamente, la carità verso Dio; quella cioè che realizza in pieno il precetto su­premo dell’etica agostiniana, identico a quello evange­lico. Per questo Agostino non sa suggellare la q. 35, « quid amandum sit », con parole migliori o diverse da

1. Evidentemente qui (q. 51; cfr. p. 84) Agostino parla da mero filosofo, prescindendo dall’esistenza dei puri spiriti, gli angeli, conosciuti solo per Rivelazione..

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quelle del primo comandamento della Rivelazione cri­stiana: « Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore... ».

Se dunque, in una considerazione teleologica, fine ultimo d’ogni amore umano non può né dev’essere altri che Dio, teocentrismo si ha anche considerando l ’etica agostiniana rispetto alla fonte della norma morale. Chi infatti promulga la norma morale è, per Agostino, la retta ragione dell’uomo (« perfecta hominis ratio »); ma essa è « retta » appunto quando osserva l ’ordine naturale, da esso normandosi, e quindi ultimamente da Dio, che ne è l ’autore e il legislatore:

G iudica poi (la ragione umana) di tutto ciò di cui usa: di D io solo non giudica, perché di tutto il resto giudica secondo Dio.

Né avrebbe potuto essere altrimenti, giacché « Non v ’è nulla di superiore a Dio, non localmente, ma per eccellenza naturale ».*

Con questi pochi cenni sul teocentrismo concludia­mo la nostra analisi sull’amore nel De Div. Ouaest., mostrando quali conseguenze, sia ontologiche che etiche, abbia portato nel sistema agostiniano l ’identificazione del Sommo Bene — per il platonismo ancora nulla più che un’idea 2 — con la realtà sostanziale di Dio.

Posto infatti al vertice della realtà come Primo onto­logico (primitus bonum), Dio ne diventa immediata­mente anche il termine ultimo cui si orienta ogni na­tura, quella specialmente che ne è l ’immagine per essen­za, l ’uomo.

1. Q. 30; cfr. sopra, p. 79.2. « L ’interpretazione cristiana del platonismo spiega que­

sto passaggio cui assistiamo, da ciò che non era ancora che un’idea, alla realtà sostanziale di Dio ». Così D em an (0. c., p. 108), a proposito dell’unico « frui », riservato a Dio, nella q. 30.

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. In questo moto ascensionale verso Dio convergono allora, in mirabile sintesi, i molteplici aspetti dell’etica agostiniana: il « frui » supremo — totale disinteresse in un darsi che è insieme un pieno ritrovarsi — , e la prima delle virtù, la carità, cui si riducono in ultima istanza tutte le altre; il massimo precetto morale e la suprema realizzazione di sé. Si armonizzano così dati provenienti dalla filosofia e dalla Rivelazione — si ripen­si ai termini beatitudine, partecipazione, « utile » e « ho­nestum », « uti » e « frui », da una parte; carità, dile­zione, cupidità, superbia, dall’altra — , divenuti pietre di un unico stupendo edificio, la « sapientia » cristiana di Agostino.

P a r t e S e c o n d a

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C a p i t o l o IV

Cronologia, carattere e contenuto

Anche il D e doctrina cbristiana1 è opera anteriore alle Concessioni, da Agostino stesso elencata nelle R i­trattazioni due posti prima di quelle. Sempre nelle Ritrat.2 Agostino ci informa di aver composto il De doctr. christ, in due riprese: interrotto a due terzi (al I. I l i , 2 5 ,35), 1° completò, arricchendolo di un quarto libro, al momento stesso in cui stendeva le sue Ritratta­zioni. Su questo ed altri passi, poggia il consenso degli studiosi3 che ne pone unanimemente la data all’inizio

1. Il De doctr. christ, nella P. L. occupa le col. 15-212 del t. 34; nella B. A. si trova nel vol. X (Paris 1949): trad. fran­cese, Introd. e Note complem. di J. F a r g e s ; nella B.A.C. è nel t. XV (Madrid 1947); trad. spagn. e Introd. di F. B. M a r t in .

2. II, 4, 1; t. 32, col. 631.3. Così già 1’Admonitio dei M aum ni, in P. L., t. 34, col.

13-14; cfr. inoltre S. Zarb, o. c. [i rimandi rinviano sopra, nota 3 di p. 18 s.], 1933, pp. 480-482 e 1943, p. 89; B. A lta n e k ,o. c., p. 317; G . B ardy, S. Augustin, p. 286; e Introduction aux Révisions, pp. 54-55 e Nota compì, 41, pp. 576-577 (in B. A ., vol. XII, Paris 1950); C. Boyer, L'idée de vérité..., p. 8; e voce Agostino Aur., in Enc. Catt. I, col. 524; V. Ca- PANAGA, O. C. , p. 447; A . CASAMASSA, l . C ., p. 917; F. CaYRÉ, Introduction générale, Note doctr. V , pp, 102 2 109 (in B. A ., vol. I); Th. D em an, 0. c., p. 99, nota 2; J. F arges, /. c., Intro­duction, p. 151; G. I s ta c e , Le Livre I" du « D e doctrina christiana » de saint Augustin - Organisation synthétique et méthode mise en oeuvre, in Eph. Theol. Lovanienses, XXXII, 1956, p. 298, nota 1; H. M a rro u , o. c., p. 185 e Saint Au­gustin et la fin de la culture antique, Paris 1949, p. 352, nota 2; B. M a r tin , Obras de San Augustin, t. XV, pp, 49-50 (Madrid 1947); J- M a r tin , o. c., p. 397; U. M ortcca , o. c., p. 453; M. F. S cia cca , S. Agostino, vol. I, p. 77; ecc.

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del suo episcopato, e cioè nel 396-397 per quanto ri­guarda la prima ripresa, e nel 426-427 per la seconda.

In quest’opera Agostino espone le regole per « tratta­re » la S. Scrittura,1 offrendoci così « un manuale di meto­dologia esegetica »,2 anzi « il primo manuale d’esegesi apparso neH’anticliità cristiana ».3 I Maurini, giustificando il primo posto dato al De doctr. christ, nel tomo in cui hanno riunito tutte le opere esegetiche di Agostino sul Vecchio e Nuovo Testamento, la chiamano « la chiave dell’arte di una retta interpretazione (della Scrittura), usata da Agostino e, dopo di lui, dai commentatori cat­tolici ».4 .

Agostino stesso divide i suoi «praecepta» esegetici in « metodo per scoprire ciò che deve essere compreso (nella Scrittura) » — abbracciarne i primi tre libri — , e .« metodo per esporre quanto è stato compreso » 3 -— argomento dell’ultimo libro — . Quanto deve essere compreso nella Scrittura è poi distinto in « res » e « si­gna »;6 il libro I perciò dà subito una breve sintesidi tutto il contenuto (res) nei testi chiari della Scrittura.Si hanno così le basi su cui l ’esegeta può fondare il suo

1. Il De docir, christ, infatti lo dichiara fin dall'inizio: « Sunt praecepta quaedam tractandarum Scripturarum, quae studiosis earum video non incommode posse tradi...» (Prol. 1; t. 34, coi. 15).

2. Così G . IsTACE, iniziando l’art, cit., p. 289.3. Cfr. J. Fa r c e s , 0. c., Introduction, p. 154.4. « ...libris de Doctrina Cristiana, quae veluti clavis atque

ars recte interpretandi rationis, quam adhibuit Augustinus, et post eum catholici commentatores » (Praefatio; t. 34, coi. 9-10).

5. « Duae sunt res quibus nititur omnis tractatio Scriptu* rarum; modus inveniendi quae intelligenda sunt, et modus pro ̂ferendi quae intellecta sunt» (I, 1 ,1 ; coi. 19). Cfr. anche IV , 1 ,1 (col. 89); e Retr. II, 4, 1: «quorum primi tres (libri) adiuvant ut Scripturae intelligantur, quartus autem quomodo quae intelligiimrs proferenda sunt » (t. 32, coi. 631).

6. « Omnis doctrina vel rerum est vel signorum, sed res per signa discuntur » (I, 2,2; t. 34, coi. 19).

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sforzo interpretativo dei passi biblici oscuri sia a motivo dei « segni ignoti« » (vg. termini greci od ebraici) che dei « segni ambigui » (vg. dubbi d ’interpunzione o di pronuncia; senso letterale o simbolico, ecc.); per il pri­mo caso (signa ignota) le regole metodologiche da se­guire vengono date nel libro II, per l ’altro (signa ambi­gua) nel III .1 Il libro IV invece dà precetti di eloquen­za, insegnando all’oratore cristiano come debba esprime­re agli altri quanto lo studio della Bibbia gli ha rivelato.2

Questo, dunque, il contenuto dei quattro libri del De doctr. christ., in armonia con il fine propostosi : di esporre la metodologia dell’esegesi scritturistica. Sempre a tale scopo Agostino delinea la formazione culturale richiesta per porsi in grado di « trattare » la Scrittura, formazione che prende dalle scienze umane del pagane­simo quello che le è utile, rigettando insieme al falso tutto l ’inutile e il dipiù. Non ci sembra perciò giusti­ficata la concezione che H.-I. Marrou, seguito da altri studiosi,3 si è fatto del De doctr. christ, come di una « teoria della cultura cristiana ».4 Dalle dichiarazioni di Agostino surriferite, infatti, abbiamo visto la sua vera

1. « Duabus autem causis non intelliguntur quae scripta sunt, si aut ignotis, aut ambiguis signis obteguntur» (II, 10,15; coi. 42.; cfr. anche n , 16; 42, 21; e III, 1, 1).

2. Riassumono brevemente il contenuto del De doctr. christ. VAdmonitio dei Maurini (t. 34, col. 13-16; cfr. anche i brevis­simi ma preziosi compendi dei singoli libri, posti all’inizio di essi); J. F arce s , 0. c., Introduction, pp. 152-153; G. IsTACE,o. c ., p. 290; B. M a rtin , o . c., Introducciòn (al De doctr. christ:), pp. 50-52; G. B ardy, Saint Augustin. L ’homme et l’oeuvre, pp. 286-289; U. M o ricca , 0. c., pp. 454-458; ecc.

3. Vg. G. B ardy, /. cit. nota prec.; F arges, o . c . , Intro­duction, pp. 155-163.

4. S. Augustin et l ’Augustinisme, p. 56; cfr. soprattutto Saint Augustin et la fin de la culture antique, pp. 332 (specie nota 1), 339, 343-344, 381, 389, 413, ecc.; e Retractatio (Paris 1949), p. 638, nota 1.

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intenzione nel comporre quest’opera, che è e resta quindi un « manuale di metodologia esegetica »/ anche se « in obliquo » proponga un piano completo di studi, piano del resto tutto ordinato a formare il perfetto esegeta e l ’eloquente espositore della Scrittura al popolo cristiano.

Da questa sommaria esposizione del contenuto e del fine del De doctr. christ, si può già arguire l ’indole pro­fondamente diversa di quest’opera, rispetto al De div. quaest. L X X X III — almeno per le questioni di que- st’ultima che più ci avevano interessato, composte pro­babilmente nei primissimi anni dopo la conversione. Nel 396-7, data di composizione dei tre primi libri del D e doctr. christ., sono invece già passati 10 anni dalla conversione, anni preziosi, in cui Agostino ha arricchitoil suo pensiero con uno studio continuo e costante delle fonti cristiane, specialmente della Scrittura. Mentre pa­recchie delle « Questioni diverse » restavano solo o pre­valentemente filosofiche, il clima del De doctr. christ. è invece esplicitamente e anzitutto cristiano, come ap­pare dal titolo stesso dell’opera.

D i notevole interesse per la dottrina sull’amore in Agostino è tutto il I libro, mentre il resto — tranne pochi paragrafi del II e III libro — resta estraneo al nostro studio. I l I libro infatti « contiene una mirabile piccola sintesi dogmatica e morale, traente gran parte del suo valore da alcuni alti principi mediante i quali l ’autore unifica tutte le parti d ’un insieme sì vasto, fa­cendovi circolare la vita: la distinzione tra « frui » ed

1. Come a ragione afferma G. I stace nelY art. già cit., oppo­nendosi all’opinione del Marrou: cfr. specialmente la nota 26, p. 301 s.

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« uti »: (...) le molteplici funzioni dell’amore ».2 Di que­sta sintesi « ecco l ’idea organizzatrice: tutto l ’insegna­mento morale e dogmatico della Scrittura si riconduce alla carità, accompagnata dalla speranza e dalla fede. Di qui, per l ’esegeta, questa regola suprema: riportare tut­ta l ’intelligenza della Scrittura alle tre virtù teologali ».‘ Ma è proprio il binomio « uti-frui », con la sua dialetti­ca, che permette ad Agostino di articolare razionalmen­te questa sintesi del contenuto (res, le cose) del messag­gio cristiano, quale risulta dai testi chiari della Scrittu­ra. Di. quel contenuto, di quelle cose, infatti, si dovrào usare o fruire, a seconda della loro natura (capp. III- XXII, 3-21); questa ordinata dialettica di « u ti-frui» non è che un razionalizzare il doppio precetto evangelico della carità (cap. XXIII-XXXIV, 22-38); giacché poi le stesse realtà che sono oggetto di quel precetto, sono an­che il contenuto della nostra fede, ecco che il binomio « uti-frui » ha fornito ad Agostino lo strumento per una sintesi teologica cristiana, sboccante nella triade delle virtù teologali, fede speranza carità (capp. XXXV-XL,

39-44)-Questo il clima esplicitamente cristiano, in cui la

dialettica degli amori (il binomio « uti-frui ») dispiega tutta la sua virtualità: proponendoci allora di analizzare l ’apporto di quest’opera alla filosofia agostiniana del-

2. F. Cayré, Initiation à la phil. de S. Augustin, p. 145.i. G . Ista ce, o. c., p. 291. Come dice il sottotitolo

(« Organisation synthétique et méthode mise en oeuvre »), l ’art, deiristace si propone unicamente di porre in evidenza l ’organarsi strutturale del pensiero agostiniano nel I libro del De doctr. christ., unitamente al metodo (essenzialmente scritturistico) da Agostino messo in opera. Anche se diverso è il fine della nostra analisi del contenuto dottrinale sull’amore nel De doctr. christ., il lavoro accurato o solido dell’Istace oi sarà prezioso sussidio per cogliere l ’esatta portata delle affermazioni di Agostino, inqua­drandole nel loro autentico contesto.

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l ’amore, dovremo tener conto del contesto vitale in cuii dati filosofici, razionali, sono immersi nel De doctr. christ., per non rischiare di alterarli con una vivisezione violenta e artificiosa.

La nostra analisi farà dapprima un inventario dei dati psicologici sull’amore, secondo uno schema analogo a quello usato per il D e div. quaest. 83; lo studio del­l ’aspetto morale della dottrina sull’amore seguirà invece più fedelmente il successivo concatenarsi del pensiero

nel D e doctr. christ.

Prima però di passare a tale analisi, sarà opportuna una sintesi sommaria, ma più completa dei pochi cenni già dati, sul contenuto di questo I libro. Se ne avvan­taggeranno così le suddistinzioni che l ’analisi necessaria­mente comporta, inquadrate meglio in tutto l’insieme dell’esposizione di Agostino.1

Il I libro del De doctr. christ, vuole dunque offrire una sintesi delle « res », delle cose contenute chiara­mente nella S. Scrittura; sarà questa la chiave principale con cui l ’esegeta potrà interpretare i « signa » oscuri di cui trattano i libri II e III .

Le cose contenute nella S. Scrittura possono subito ridursi a tre categorie: cose di cui si deve fruire, cose di cui si deve usare, cose che fruiscono ed usano (cap.

I H , 3).Posta questa divisione, i capitoli seguenti non fan­

no che darci un’esposizione etico-dogmatica sommaria di tutte le principali verità cristiane, ricondotte alle due prime categorie: « Cosa » di cui si deve fruire è unica­mente Iddio, Uno e Trino (capp. V-X, 5-10), si deve

1. Aiuto prezioso a questo scopo ci sarà l 'art. già cit. di G . I s t a c e : alla divisione da lui proposta accediamo in piano, senza riserve.

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usare in vece d i tu tta l ’econ o m ia red en trice, com e d e l­

l ’a iuto che D io stesso ci dà p er p o te rlo raggiu n gere

(cap p. X I-X X I, x x -19 ). S o g g etto risp ettiva m en te d i q u e ­

sta fru iz io n e e d i q u esto u so , è l ’uom o; l ’u o m o a sua

v o lta d i se stesso e d e l suo p ro ssim o d o vrà usare e non

fru ire , adem p iendo così i l p re cetto evan gelico d e lla ca­

rità (cap. X X I, 20-21). T erm in a così la prima sezione del lib ro {capp. III-X X II, 3-21).

La seconda sezione {capp. X X III-X X X IV , 22-38), non è che una rielaborazione delle tre specie di amori

suddetti — dell’uomo cioè verso Dio, se stesso e il prossimo, — in funzione del doppio precetto evangelico

della carità: tutto il contenuto della Scrittura, ridotto (tramite « uti » e « frui ») ad oggetto e soggetto di amo­re, si riduce ulteriormente a quel precetto. Agostino analizza ora questo precetto a fine di mostrarne tutta l ’universalità estensiva interpersonale: esso abbraccia

infatti espressamente il fruire di Dio e 1’« uti » del prossimo, implicitamente 1’« uti » di noi e del nostro corpo (capp. XXIII-XXVI, 22-27). Varie digres­sioni, esigi te anche dal giustificare in pieno l ’uso del

binomio « uti-frui », trattano poi dell’ordine nell’amore

(e la varia prossimità dei prossimi, in particolare): capp. XXVII-XXIX, 28-30; del caso degli angeli, inclusi anch’essi nell’amore del prossimo (difesa ad ogni costo dell’universalità del precetto): cap. XXX, 31-33; del

come Dio ci ami (con un « uti », di specie ben diversa però dal nostro « uti » umano interpersonale): capitoli XXXI-XXXII, 34-35; di un’accezione meno tecnica del « frui » (cioè del nostro « uti » interpersonale; accezio­ne giustificata dall’impiego fattone da S. Paolo):

cap. XXXIII, 36-37; del nostro « uti » verso il Verbo incarnato, in quanto Via egli stesso verso la Trinità: cap. XXXIV, 38.

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La terza sezione {capp. X X X V -X L, 33-44) final­mente, dopo un breve ricapitolare la sezione precedente (cap. XXXV, 39), mostra come la carità, oggetto e fine del doppio precetto evangelico, si accompagni necessa­riamente con la fede (come amare infatti ciò che non si conosce?) e con la speranza (che scaturisce spontanea­mente dalla consapevolezza di amare rettamente l ’oggetto della propria fede): capp. XXXVI-XL, 40-44.

Mentre la prima sezione contempla le principali ve­rità di fede e di morale, riducendole con « uti » e « frui » ad oggetto e soggetto di amore, e costituendo così una breve esposizione etico-dogmatica del contenuto chiaro della Scrittura; l ’ulteriore riduzione di tale contenuto al doppio precetto evangelico della carità, nella seconda sezione, lascia in ombra la linea dogmatica dell’esposi­zione di quelle « res » che pure non possono essere ama­te, se previamente non siano credute. L ’ultima sezione, però, riportando espressamente la carità a fede e spe­ranza, da essa inseparabili, con la triade paolina rianno­da il filone etico, oggetto della maggiore insistenza nella esposizione, a quello dogmatico. « Da tutto ciò risulta una regola suprema in esegesi: riportare tutta l ’intelligenza

della Scrittura alla carità, accompagnata dalla fede e dalla speranza ».'

1. Così conclude giustamente, con Agostino (cap. XL, 44), G. IsTACE (o. c., p. 330).

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C a p i t o l o V

Psicologia dell’amore

I. Soggetto e oggetto nell’amore.

C ’è nell’amore un soggetto che ama, e un oggettoamato. Constatazione ovvia per Agostino (come nel Dediv. qq. 83): anche qui l ’Ipponese la implica di continuo, e fin dall’inizio della sua sintesi delle « res », del con­tenuto nella S. Scrittura:

Le cose {res) dunque alcune sono da fruire, altre dausare, altre che fruiscono ed usano. Q uelle di cui fruire, ci fanno felici. D i queste da usare invece ci aiutiamo e quasi ce ne sosteniamo tendendo alla beatitudine, per giungere, e poter loro inerire, a quelle che ci fanno felici. Se poi noi che, posti in mezzo tra quelle due specie di cose, fruiamo ed usiamo, vorremo fruire di ciò che dev’essere usato, im ­pediamo il nostro cammino e talvolta lo deviamo così che — im pediti dall’amore degli oggetti inferiori — , siamo ritar­dati o revocati dall’ottenere ciò che dev’esser fru ito .1

Quanto contenuto nella Scrittura è dunque da A go­stino ridotto all’oggetto, e correlativamente al soggetto, degli ôïnori di fruizione e di utile: ogni amore cioè è di

i. « Res ergo aliae sunt quibus fruendum est, aliae quibus utendum, aliae quae fruuntur et utuntur. Illae quibus fruendum est, beatos nos faciunt. Istis quibus utendum est, tendentes ad beatitudinem adiuvamur, et quasi adminiculamur, ut ad illas quae nos beatos facint, pervenire, atque his inhaerere possimus. Nos vero qui fruimur et utimur, inter utrasque constituti, si eis quibus utendum est frui voluerimus, impeditur cursus noster, et aliquando etiam deflectitur, ut ab his rebus quibus fruendum est obtinendis vel retardemur, vel etiam revocemur, inferiorum amore praepediti » (I. I, cap. III, 3; t. 34, co!. 20).

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qualcuno (soggetto), che ama qualcosa (oggetto), sia quest’oggetto il termine di un « uti » o di un « frui ». Superfluo l ’insistervi o il moltiplicare le citazioni.

Anche in quest’opera — come nella precedente — Agostino, parlando di un soggetto amante, si riferisce quasi esclusivamente all’uomo (così il testo ora citato): unica eccezione i capp. XXX-XXXII (33-35) del 1. I, in cui è posto esplicitamente il problema di come Dio ci ami. Tra gli oggetti del nostro amore, compaiono qui anche gli angeli (cap. XXX, 31-33), come in genere l ’in­tera economia redentrice, ossia il Verbo incarnato stesso visto come Via verso la Trinità (cap. XXXIV, 38; capp. XI-XXI, 11-19), e il Bene supremo identificato apertamente nella Trinità (vg. cap. V , 5; X, 10; ecc.): arricchimenti questi, rispetto al De div. quaest. 83, che riprovano l ’atmosfera espressamente cristiana dell’opera.

Che la « res », l ’oggetto da amare per se stesso {frui) o in ordine a un altro {uti), sia designabile col termine più appropriato di bonum, è un dato ancora più

implicito che non nell’opera prec. Mai cioè Agostino esplicita qui che l ’oggetto dell’amare è il bene, o che ogni amabile sia un bene e che solo come bene possa essere amato; tuttavia lo si può dedurre agevolmente

da quei passi1 in cui la res cui termina l ’amore frui- tivo è chiamata bonum, e in particolare dall’indagine citata sul come possa dirsi con verità che Dio ami noi.2 Questo passo infatti ci autorizza a concludere che il

bene {bonum, bonitas) sia per chiunque l ’unico oggetto

1. Cfr. capp. XXII, 21; XXIX, 30; XXXI, 34; XXXII, 35; XXXIII, 37; XXXIV, 38.

2. Cfr. capp. XXXI-XXXII, 34-35; col. 32 (cfr. sotto, cap. VI, § IV).

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dell’amore, dal momento che deve esserlo anche per

Iddio.

II. Uamore: « uti » e « frui ».

La relazione amorosa di un soggetto a un oggetto può

fermarsi a quest’ultimo, facendone il proprio fine, o attraversarlo verso un fine ulteriore. Nel primo caso l ’amore è « frui », nel secondo « uti ».

Torna così il celebre binomio agostiniano d ’origine

stoica, — già comparso nella q. 3o dell’opera preceden­te, — che ad Agostino serve egregiamente per sinte­tizzare tutto ciò di cui parla la Scrittura (res), considerato appunto o come oggetto di « frui » e di « uti » (« Res ergo aliae sunt quibus fruendum est, aliae quibus uten­dum »), o come loro soggetto (« aliae quae fruuntur et utuntur »).

Anche qui l ’impiego del binomio ha uno scopo pre­valentemente morale: è lo strumento per esprimere tec­

nicamente l ’obbligatorietà degli amori, evidenziando quali beni debbano essere amati dall’uomo, come e perché. Analizzeremo tutto ciò, nei suo aspetto etico, più tardi; ora ci preme inventariare, dell’aspetto speculativo di « uti » e « frui », i dati nuovi o più ricchi offertici dal D e doctr. christ, rispetto all’altra opera esaminata.

Appena divise le « res » contenute nella Scrittura in oggetto (e soggetto) dell’umano fruire ed usare, Agostino ci dà la definizione di queste due specie di amori:

Fruire è inerire amorosamente a qualcosa per se stessa. Usare invece è riferire l ’oggetto di uso ad ottenere ciò che a m i.1

1. « Frui enim est amore alicui rei inhaerere propter seip- sam. Uti autem, quod in usum venerit ad id quod amas obtinendum referre » (cap. IV, 4; col. 20).

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Più tardi, chiedendosi se dell’uomo dobbiamo fruire od usare, Agostino torna a ripeterci quella definizione con parole ancora più semplici:

E così è questione di grande importanza se gli uo­mini tra di loro debbano fruire o usare o tu tt’e due le cose insieme. C i è prescritto infatti di amarci a vicenda, ma ci si chiede se l ’uomo debba essere amato d a ll’uomo per se stesso o per altra cosa. Se deve esserlo per se stesso, fruiamo di lui; se per altra cosa, ne usiamo.'

Definizione che viene applicata subito dopo anche al retto amor proprio:

Ma nessuno, deve fruire neppure di se stesso, a pensar­ci bene, giacché non deve amare se stesso per se stesso, ma per colui di cui si deve fruire.2

e ancora una volta nel passo indagante l ’amore con cui Dio ci ama, paragonato col nostro « uti » e « frui ».3

Mentre il De div. quaest. 83 — nella q. 35 — ci dava una definizione dell’amore,4 il De doctr. christ. non ci dà mai altra definizione esplicita che quella di « uti e « frui » or ora riferita. Mentre poi nel De div. quaest. 83 — q. 30 — « uti » e « frui » erano definiti, oltre che in se stessi, anche nel proprio oggetto specifico,

1. « Itaque magna quaestio est utrum frui se homines debeant, an uti, an utrumque. Praeceptum est enim nobis ut diligamus invicem; sed quaeritur utrum propter se homo ab homine diligendus sit, an propter aliud. Si enim propter se, fruimur eo; si propter aliud, utimur eo» (cap. XXII, 20; coi. 26).

2. « Sed neque seipso quisquam frui debet, si liquido advertas; quia nec seipsum debet propter seipsum diligere, sed propter illud quo fruendum est » (ivi, 21).

3. « Dicimus ea re nos per frui, quam diligimus propter seipsam » (cap. XXXI, 34; coi. 32); « nos res quibus utimur, ad id referimus, ut Dei bonitate perfruamur » (cap. XXXII, 35; coi. 32)

4. Cfr. sopra cap. II, §§ I, II b).

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« utile » ed « honestum »: 1 qui invece non si fa parola di oggetti utili ed onesti, ma in compenso la definizione di « uti » e « frui » è più ricca, implicata com’è nelle descrizioni dei vari casi in cui si tratta di. « uti » o di

« frui ».I testi appena citati ce lo mostrano. Enucleandoli

abbiamo dunque che fruire (frui; perfrui) è « inerire amorosamente (amore) a qualcosa per se stessa (propter seipsam) — amare (diligere) qualcuno per se stesso (propter seipsum) »; usare (uti) invece è « riferire (refer­re ad) l ’oggetto di uso ad ottenere ciò che ami — amare (diligere) qualcuno non per se stesso ma per qualcos’altro (propter aliud), per qualcun altro (propter illud quod) ».2

Nel « frui » dunque l ’amato è fine, nell’« uti » è mezzo: ciò appare fin dal primo testo citato,3 che desi­gna appunto come oggetto fruendo quanto ci rende feli­ci, e come oggetto utendo ciò che « ci aiuta e sostiene » nel tendere alla beatitudine.

Noi dunque dobbiamo camminare attraverso i beni

utendi, senza fermarci se non al bene supremo, oggettodi fruizione: spontanea sorge allora alla fantasia di Ago­

stino la splendida immagine dell’umano pellegrinare lungi dalla Patria, perennemente attratti dalle amenità del­l ’esilio, dal diletto del viaggio e dei veicoli stessi, in con­tinuo pericolo di dimenticare la meta fermandoci lungo la strada del mondo:

Se dunque noi fossimo dei pellegrini che non potes­sero vivere felici se non in patria, e resi infelici da questo pellegrinare e desiderosi di por fine alla nostra infelicità vo-

1. Cfr. ivi, § II d).2. Cfr. i testi citati nelle note di pp. 101-2.3. È il cap. I l i , 3, riferito a p. 99.

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fossimo tornare in patria, avremmo bisogno di veicoli ter­restri o m arittim i da usare per poter raggiungere la patria di cui dobbiamo fruire. Che se poi le amenità del viag­gio e i mezzi di trasporto stessi (ipsa gestatio vehiculorum) ci dilettassero, e voltici a fruire di ciò che avremmo do­vuto usare, non volessimo finire presto la nostra strada, appagati da una perversa dolcezza ci storneremmo dalla patria, la cui dolcezza invece ci renderebbe felici. Se allo­ra in questa vita mortale pellegrinando lontani dal Signore (II Cor., V , 6), vogliam o tornare nella patria in cui pos­siamo essere felici, dobbiamo usare di questo mondo, e non fruirne; affinché gli attributi invisibili di D io, compresi attraverso il creato, possano essere scorti (Rom. I , 20) da noi, cioè affinché dalle cose corporee e temporali possiamo afferrare le eterne e spirituali.1

I b e n i in fe rio ri e m u te vo ii d evo n o essere usati, non

fru iti: so lo attraversan d o li si g iu n ge alla P a tria . Spostan ­

do allora un p oco il suo angolo v isu ale A g o s tin o con si­

dera la v ia b ilità , la n atu ra d i m ezzo d eg li o g g e tti u ten d i,

nella sua d iffico ltà d i realizzazion e; com e op era cio è di

fa tico sa ascesi p u rifica trice . I vari « u ti » sono qu in d i

v ia alla P a tria , non lo cale p erò , m a m orale:

G li uom ini dunque sono respinti dai cattivi costumi, quasi da venti contrari, lungi dalla Patria (...). Perciò do­vendosi fruire di quella verità che vive immutabilmente (...); si deve purificare l ’animo affinché possa percepire quella luce, e percepitala inerirvi. Questa purificazione la consideriamo essere come un camminare, come un navi­gare verso la patria. Verso colui infatti che dovunque ë presente, noi non ci m uoviam o localm ente, ma con la b u o ­na applicazione e coi buoni costum i.2

P o sto s i in q u e st ’ord in e d ’id ee, che ved e o gn i retto

« u ti » com e un m ezzo m orale, v ia ascetica e non locale

da p erco rrere per giu n gere a D io , A g o stin o ricon osce

1. Cap, IV , 4; col. 20-21,2. Capp. IX-X, 9-10; col. 23.

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che tale v ia ci è im p o ssib ile co lle sole n ostre fo rze . E cco

allora che la Sapien za d iv in a so vv ien e la n ostra d eb o lezza

incarnandosi e facen d o si n ostro esem pio: in ta l m odo

« E ssen d o ella la p atria , si è fa tta le i stessa v ia alla p a ­

tria ». 1

M a com e ogn i sacrificio d e lla tendenza a ferm arsi ai

ben i in fe rio ri a D io è e resta u n m ezzo e non un fin e;

così l ’a iu to stesso che D io ci dà in qu esti sacrifici, resta

m ezzo an ch ’esso, fosse p u re D io stesso in qu an to in car­

nato, nella sua um ana natura. Sul C risto -V ia A g o stin o

torna d i p ro p o sito p iù o ltre , in un passo m irab ile di cui

va i la pen a trascrivere l'essen ziale:

E gli (il Verbo) infatti, che non solo ha voluto offrirsi co­me possesso a chi lo raggiunge, ma anche come via a chi venga a ll’inizio della strada, ha voluto incarnarsi (...), affin­ché di qui incomincino coloro che vogliano venire. (...) da Lui (cioè dal Verbo incarnato) tuttavia devono intrapren­dere e iniziare il cammino tutti coloro che desiderano giun­gere alla verità e permanere nella vita eterna. Infatti E gli dice così: « Io sono la via, la verità e la vita » (Io. X IV ,6), cioè attraverso di me si viene, a me si perviene, in me si permane (...). D al che si comprende come nulla ci debba trattenere in via, dal momento che neanche il Signore stes­so, in quanto degnatosi di essere nostra via, ha voluto ci fermassimo (in Lui), ma che (lo) attraversassimo. Ciò affin­ché non ci attacchiamo per debolezza alle cose temporali, benché da Lui stesso intraprese e compiute per la nostra salvezza, ma piuttosto attraverso di esse corriamo alacre­mente per meritare di avanzare e pervenire a Lui stesso, che ha liberato la nostra natura da ciò che è temporale e l ’ha collocata alla destra del Padre.2

Su q u esto d iv in o esem pio che non ci p erm ette di

ferm arci in L u i, in q uan to V ia , ma ci spinge ad attraver-

■ 1. « Cnm ergo ipsa sit patria, viam se quoque nobis fecit ad patriam» (cap. XI, ir ; col. 23).

2. Cap. XXXIV, 38; col. 33-34.

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sarlo poi: giungere a possederlo nello stadio finale, come Vita, si modellano « l ’uomo santo e l ’angelo santo », che,

quando stanchi, desideriamo riposare e fermarci in essi, ci rifocillano piuttosto con quei beni che hanno ricevuto per noi o anche per loro stessi, ma che han ricevuto tuttavia; e così rifocillati ci spingono ad andare a Colui, della cui fruizione siamo noi pure beati.1

G li amori di questa vita verso tutto ciò che non è Dio, sono dunque contraddistinti inequivocabilmente da una nota di mediazione, di viabilità, di strumentalità: sono e devono restare « uti ». Solo così restano, per noi viatori, quella via « non locale ma affettiva »2 che ter­mina in Dio, nella beatitudine dell’unico Bene da fruire, perché « sommo e immutabile ».3 Con piena ragione Ago­stino può quindi concludere che di tutto ciò che la

divina Provvidenza ha fatto, sia nell’ordine della crea­zione che in quello della Redenzione, altro scopo non v ’è se non quello che noi di tutta questa « economia tempo­rale (dispensatio temporalis) » usiamo come di veicolo verso Dio:

Perché questo noi sapessimo e potessimo, dunque, è stata realizzata per la nostra salvezza, dalla divina Provvi­denza, tutta l ’economia temporale, di cui dobbiamo usare con un amore e un diletto non permansivo ma transitante, come di una via, come di veicoli o di qualsivoglia altro stru­mento, o di altro che possa nominarsi ancor più a propo­

1. Cap. XXXIII, 36; col. 32-33.2. « Porro quoniam in via sumus, nec via ista locorum

est, sed affectuum » (cap. X VII, 16; col. 25).3. « Si vero inhaeseris atque permanseris, finem in ea

ponens laetitiae tuae, tunc vere et proprie frui dicendus es: quod non faciendum est nisi in illa Trinitate, id est summo et incommuntabili bono » (cap. XXXIII, 37; col. 33).

106

sito; affinché insomma ciò da cui siamo portati noi l ’amia­mo per l ’oggetto a cui siamo portati. 1

Agostino non poteva certo ribadire più chiaro e forteil carattere di mezzo dell’« uti ». D ’altro canto in que­st’opera usa esplicitamente la parola « finis » per designa­re il carattere di termine dell’amore, proprio dell’oggetto del « frui »:

Se allora non devi amare te per te stesso, ma per colui in cui è il fine Tetrissimo del tuo amore... »;2 « Q uando infatti è presente ciò che è amato, necessariamente esso comporta del diletto. Se tu lo attraverserai, riferendolo a ciò in cui si deve permanere, userai di esso (diletto) e abu­sivamente e impropriamente si dirà che ne fruisci. Se invece vi inerirai e ti ci fermerai, ponendo in esso il fine della tua letizia, allora si dirà che ne fruisci in modo vero e proprio;’

Da tutte queste citazioni risalta appunto che l ’oggetto dell’« uti » non è che via, mezzo « ad aliud », mentre

l ’oggetto del « frui » si qualifica nettamente come fine della tendenza amorosa. Ma il fatto stesso che ogni

1. «H oc ergo ut nossemus atque possemus, facta est tota prò salute nostra per divinam providentiam dispensatio tempo­ralis, qua debemus uti, non quasi mainsoria quadam dilectidne -atque delectatione, sed transitoria potius, tanquam viae, tanquam vehiculorum, vel aliorum quorumlibet instrumentorum, aut si quid congruentius dici potest, ut ea quibus ferimur, propter illud ad quod ferimur, diligamus » (cap. XXXV, 39; coi. 34).

2. « Si ergo teipsum non propter te debes diligere, sed propter illum ubi dilectionis tuae rectissimus finis est » (cap. XXII, 21; coi. 27).

3. « Cum enim adest quod diligitur, etiam delectationem secum necesse est gerat: per quam si transieris, eamque ad illud ubi permanendum est, retuleris; uteris ea, et abusive, non proprie, diceris frui. Si vero inhaeseris atque permanseris, finem in ea ponens laetitiae tuae, tunc vere et proprie frui dicendus es » (cap. XXXIII, 37; coi. 33).

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« uti » è veicolo per giungere, come a fine, all’oggetto del « frui »; e che l ’unico fine ulteriormente irriferibile sia Dio; è chiaro indizio della tonalità eudemonistica della concezione agostiniana del nostro fruire.

L ’abbiamo già visto in alcuni dei testi citati;1 ma sarà utile completarne l ’elenco. Chiarissimo è ad es. il cap. XXII, che porta a ragione ultima del nostro n o n

dover fruire, ma usare dell’uomo, appunto questa: « In­fatti è in ciò che deve essere amato per se stesso, che si colloca la felicità ».2 Il cap. XXXIII, 37 insiste che solo di Dio dobbiamo fruire, giacché da Lui saremo resi felici; se collocassimo la nostra speranza in chiunque altro, ci arresteremmo per via (ivi, 36). Invece è dato evidente che « dobbiamo fruire soltanto di ciò che ci rende felici, usare di tutto il resto ».3

Fine della tendenza amorosa non può dunque essere che il bene; l ’amore di un bene, come fine in se stesso, è il « frui ». Ma dato che in tanto il bene finalizza la nostra tendenza in quanto la appaga facendoci felici, ecco che bene ulteriormente irriferibile, bene-fine in senso pieno, è solo il bene supremo e immutabile, Dio, l ’oggetto stesso della beatitudine.

« Frui » e felicità sono quindi correlativi. Lo contro­provano anche tutti quei testi che indicano nel Bene sommo e immutabile l ’oggetto del nostro retto fruire.4

1. Cfr. il cap. I l i , 3 (citato a p. 99): « Le cose di cui si deve fruire, ci fanno felici »; il cap. XXXIII, 36 (citato par­zialmente a p. 106); e specialmente tutta la stupenda simili­tudine della nostra vita con un pellegrinare verso la patria, cioè verso la felicità in Dio, del cap. IV , 4 (riferito a p. 104 s.).

2. « Quod enim propter se diligendum est, in eo consti­tuitur vita beata» (cap. XXII, 20; col. 26).

3. « ea re nobis fruendum esse tantum, qua efficimur beati, caeteris vero utendum» (cap. XXXI, 34; col. 32).

4. Cfr. i passi indicati a nota 1, p. 100.

Anche se non sempre essi esplicitino l ’aspetto eudemo­nistico di questa fruizione, lo implicano egualmente: di quel Bene unicamente si deve fruire, appunto perché esso, ed esso solo, è il termine ultimo, pienamente saziante, del nostro innato inclinare alla felicità. Il bene « sum­mum » si configura così come il bene « beatifico », « tan- quam beatificum bonum »}

III. Cos’è l'amare, e sue caratteristiche.

Posta così in risalto tutta la ricchezza teoretica con­tenuta nel binomio « uti-frui », definito come amore del mezzo o del fine, basterà osservare che « uti » e « frui » sono per Agostino le uniche forme possibili di amare,2 per capire immediatamente che la loro definizione implica quella dell’amare stesso.

Lo riprovano tutti quei testi in cui il « diligere » è parola che investe sia « uti » che « frui », la dilezione di noi e del prossimo configurandosi come un « uti »,

come un « frui » la dilezione di Dio: a una terza, diversa forma di amore, non si pensa neppure lontanamente. Ecco qualche citazione:

Ci è prescritto infatti di amarci a vicenda, ma ci si chiede se l ’uomo debba essere amato dall’uomo per se stesso o per altra cosa. Se dev’esserlo per se stesso, fruiamo di lui; se per altra cosa, ne usiamo.3

Anche l ’amore di se stessi dev’essere un « uti »:

Se dunque devi amarti non per te stesso, ma per Colui in cui è il fine rettissimo del tuo amore, nessun uomo si

1. Cfr. cap. XXIX, 30; col. 30.2. « Nam si (Deus) neque fruitur ncque utitur (nobis),

non invenio quemadmodum (nos) diligat » (cap. XXXI, 34; col. 32).

3. Cap. XXII, 20; cfr. sopra, p. 102.

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sdegni, se anche lui tu ami per Iddio. Questa infatti è la regola dell’amore, stabilita da Dio: « Amerai il tuo pros­simo come te stesso; Dio invece con tutto il cuore, con tutta l ’anima e con tutta la mente » (Levit. XIX, 18; Deut.VI, 5; e Matt. XXII, 37,39); (...)■ Usando le parole «Con tutto il cuore, con tutta l ’anima, con tutta la mente », (Dio) non lascia parte alcuna della nostra vita, che resti libera e possa dar luogo a fruire un’altra cosa. Qualunque altro oggetto d’amore mi venga nell’animo, invece, là sia trascinato (rapiatur) dove corre tutto l ’impeto dell’amore. Chiunque allora ami rettamente il suo prossimo deve comportarsi con lui in modo che anch’egli ami Dio con tutto il cuore, con tutta l ’anima, con tutta la mente. Amandolo come se stesso, egli riferisce così tutto l ’amore di sé e di lui (del prossimo) a quell’amore di Dio che non sopporta si storni da sé al­cun rivolo, la cui deviazione lo sminuirebbe.1

Altri molti sono i passi che, esplicitamente o impli­citamente, affermano la dilezione essere o un amare qualcosa in sé, « frui », o in ordine a un altro, « uti »;2il che è asserito anche per il termine « carità ».3

1. « Si ergo teipsum non propter te debes diligere, sed propter illum ubi dilectionis tuae rectissimus finis est, non succen- seat alius homo, si etiam ipsum propter Deum diligis. Haec enim regula dilectionis divinitus constituta est: ‘Diliges’, inquit, ‘proximum tuum sicut teipsum; Deum’ vero ‘ex toto corde, et ex tota anima et ex tota mente’ (Levit. XIX, 18; Deut. V I, 5; e Matt. XXII, 37, 39); (...). Cum autem ait, ‘toto corde, tota anima, tota mente’, nullam vitae nostrae partem reliquit, quae vacare debeat et quasi locum dare ut alia re velit frui; sed quidquid aliud diligendum venerit in animum, illuc rapiatur, quo totus dilectionis impetus currit. Quisquis ergo recte proxi­mum diligit, hoc cum eo debet agere, ut etiam ipse toto corde, tota anima, tota mente diligat Deum. Sic enim eum diligens tanquam seipsum, totam dilectionem sui et illius refert in illam dilectionem Dei, quae nullum a se rivulum duci extra patitur, cuius derivatione minuatur» (cap, XXII, 21; coi. 27).

2 /Cfr. i capp. XXIII, 22; XXVI, 27; XXVII, 28; XXIX. 30; XXX, 33; XXXI 34; XXXV, 39; libro II, cap. V II, 10;1. III, cap. X, 14; XV, 23.

3. Cfr. cap. XXXVI, 40; libro III, cap. X, 16; XV, 23.

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Abbiamo così, implicita, la risposta: amare è fruire ed usare; è « diligere » qualcuno per se stesso o per qual­cun altro; quanto insomma già abbiamo visto, enuclean­do le definizioni di « uti » e « frui » (cfr. sopra, pag. 103).

Poiché inoltre Agostino distingue il fruire in senso « vero e proprio » (vere et proprie), da un fruire in senso « improprio e abusivo » (abusive, non proprie), che non è altro che 1’« uti », ecco che possiamo distinguere l ’amo­re stesso in amore in senso proprio, il « frui », e amore in senso meno proprio, 1’« uti ».

Benché l ’usare con diletto (cum delectatione uti), sia detto anche in un senso assai vicino fruire (etiam vicinissime dicitur frui). Q uando infatti è presente ciò che è amato, necessariamente esso comporta del diletto. Se tu lo attra­verserai, riferendolo a ciò in cui si deve permanere, userai di esso (diletto) e abusivamente e impropriamente si dirà che ne fruisci. Se invece ti ci fermerai, ponendo in essoil fine della tua letizia, allora si dirà che ne fruisci in senso vero e proprio.1

« Quando è presente ciò che è amato », se ci fermia­mo al diletto, al piacere che l ’amato suscita in noi, questo è « frui »; se lo attraversiamo fermandoci ad un oggetto, a un fine ulteriore, quest’amore « transitante » 2 è « uti ». Agostino implica così l ’identità del « frui », sia proprio che improprio, con l ’amare, con il « diligere » sia proprio che improprio. Tale identificazione delPamare, — benché

non nel termine « diligere » ma in quello di « cari-

1. Cap. XXXIII, 37; col. 33: « Quamquam etiam vicinis­sime dicitur frui, cum delectatione uti. Cum enim adest quod diligitur... » (è il testo riferito sopra, a p. 107),

2. Cfr. cap. XXXV, 39, riferito sopra, a p. 106 s.

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tas », — con il fruire, sia in senso proprio che improprio,

si trova anche in un altro testo:

Chiamo carità il moto dell’animo a fruire di Dio per se stesso, e di sé e del prossimo per Iddio.1

Raffrontando quest’ultima citazione con la precedente,

risulta chiaramente che si ha amore (diligere, caritas) in senso proprio quando si fruisce di qualcosa in se stessa e per se stessa; in senso improprio quando se ne usa, se ne gode cioè in ordine a qualcos’altro, fine della tendenza amorosa. Ossia l'amare, come il fruire, si distingue in

proprio ed improprio, e si definisce come un movimento dell’animo che fruisce (trova diletto, piacere) di qualcosa in se stessa e per se stessa (amore in senso proprio); o in e per qualcos’altro (amore in senso improprio).

Con tutto questo lavorio di raffronto, ci sembra aver ricostruito la definizione delPamare contenuta nel De doctr. christ.-, non ci resta altro, adesso, che di porre in piena luce alcuni elementi caratteristici dell’amare, emersi

da taluni testi.

L ’amore dunque è un moto dell’anima:

Chiamo carità il moto dell’animo a fruire di Dio per se stesso, e di sé e del prossimo per Iddio; cupidità invece il moto dell’animo a fruire di sé e del prossimo e di qualsiasi corpo non per Iddio.2

Il nostro amoroso tendere a Dio quaggiù è un « muo­verci » non locale, ma morale, verso Colui che dovunque

1 . « Caritatem voco motum animi ad fruendum Deo prop­ter ipsum, et se atque proximo propter Deum » (libro III, cap. X, 16; col. 72).

2. Ibidem.

112

è presente;1 la via da percorrere per raggiungerlo essendo non spaziale, ma affettiva: « nec via ista locorum est, sed affectuum ».2

Ogni amore, sia « frui » che « uti », è cioè un muo­versi affettivo, un movimento dell’anima verso un ogget­to fine o mezzo.

L ’amore di un bene presente, dà piacere, diletto:

Q uando è presente ciò che è amato, necessariamente esso comporta del diletto. Se tu lo attraverserai, ecc. (cfr. sopra, p. i n ) .

Sempre, cioè, il bene posseduto dà diletto (dalectatio), letizia (laetitia): sia l ’oggetto-fine che l ’oggetto-mezzo.

Rifacendoci adesso a cose già dette nel cap. I l i

(§§ I e II) possiamo integrarle alla luce di quest’« affer­mazione primordiale di S. Agostino » sul « legame ogget­tivo dell’onesto e dell’utile [gli oggetti del « frui » e dell’« uti »] col dilettevole ».3

Non solo dunque ciò che giova (l’utile) e ciò che è

1. Libro I, cap. X, 10; cfr. sopra, p. 104.2. Cap. X VII, 16; cfr. sopra, nota 2, p. 106.3. Cfr. D em an, o . c . , p. 108, nota r: « La triplice di­

stinzione del bene in onesto, utile, dilettevole, che vedia­mo non coincidere più con quella di S. Agostino e delle sue fonti filosofiche, è stata ottenuta staccando il dilette­vole dall’onesto e dall’utile, che non lasciano per questo diimplicarlo: l ’onesto per se stesso, l ’utile per rapporto all’one­sto. Questa separazione sottolinea che il dilettevole può essere ricercato dal soggetto al di fuori dell’utile e dell’onesto. Essa però ha l ’inconveniente di non esprimere affatto il legame og­gettivo dell’onesto e dell’utile col dilettevole, che è l ’afferma­zione primordiale di S. Agostino (...). Rileviamo che la tradu­zione agostiniana dell’onesto in frui assume inoltre il valored’un rifiuto opposto ad ogni pretesa di concepire la moralecristiana secondo la forma di un puro dovere e la carità sottola specie di un ‘amor puro’ ».

1138

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degno di noi, che ci si addice (l’onesto), non si oppon­gono mai tra loro, ma anche ciò che è vero utile perché vero onesto (e viceversa), è per noi vera fonte di diletto, di piacere, di felicità insomma. Anzi, proprio perché fonte di diletto, il bene è capace di finalizzarci verso di sé; e proprio per questo il Bene supremo soltanto è capace di porcisi come fine supremo, ultimo, irriferibile; tutti gli altri beni, invece, appunto perché inferiori limi­tati e finiti, si riducono di loro stessa natura a fine sol­tanto intermedio, in cui non si deve permanere ma tran­sitare, con una « dilectione atque delectatione (...) tran­sitoria »/ pena l ’infelicità nell’ordine naturale, la colpa

in quello morale.Se ora torniamo a rileggere la q. 30 del De div.

quaest. 83, capiremo meglio perché Agostino, definitovi l’onesto in senso proprio come « ciò che deve essere appetito per se stesso », e l ’utile in senso proprio come « ciò che deve essere riferito a qualcos’altro », ed affer­matovi che « ogni onesto è utile e che ogni utile è one- tos », passando poi a definire « uti » e « frui » lo facesse adoperando una terza categoria, non l ’onesto e l ’utile,

loro oggetto, ma il diletto, la « voluptas »:

Perciò diciamo di fruire di ciò di cui prendiamo voluttà. Usiamo invece di quello che riferiamo a ciò da cui si deve prender voluttà,2

Agostino cioè ha intuito genialmente non solo la non

contraddizione di onesto ed utile, ma anche che sia l ’utile che l ’onesto sono oggetto, fonte di piacere, di « delecta­

tio — laetitia — voluptas ».

1. Cap. XXXV, 39; cfr. sopra, nota 1, p. 107.2. Si ritroveranno questi passi della q. 30, rispettivamente

a p. 24 e p. 69.

114

Anche su questa linea, dunque, c ’è piena e armonica continuità tra la teoria del De div. quaest. 83 e quella del De doctr. christ. Q uest’ultima anzi precisa, rispetto alla q. 30, che ogni oggetto d’amore colla sua presenza arreca piacere, voluttà; non soltanto l ’oggetto del « frui », ma anche quello dell’« uti ».

Caratteristica delPamare è la sua estatìcìtà\ anche nel « De doctr. christ. » ad essa dobbiamo concludere, dai vari elementi che descrivono l ’atto di amare.

Anzitutto dall’attrazione che l ’oggetto amato esercita sull’amante, allettandolo verso di sé. È il significato di quanto ora osservato sulla presenza dell’amato, sia utile che onesto, come recante « necessariamente » con sé il diletto, il piacere: « Cum enim adest quod diligitur, etiam delectationem secum necesse est gerat » (cap. XXXIII, 37). Questo, ancora, il senso ultimo della poetica descrizione dell’umano pellegrinare verso la Patria, soggetti di continuo alle seduzioni dei beni di quaggiù, la cui « suavitas » vorrebbe pervertirci dalla fruizione dell’unica « suavitas » che potrà renderci totalmente felici, quella eterna e spirituale del possesso di Dio.1

Che il bene dia piacere, attraendoci, non è dunque altro che descrivere l ’estaticità dell’amore, polarizzati dall’oggetto amato; estaticità implicata anche nel ter­mine « inerire », con cui Agostino descrive talora l’amare.

L ’amare infatti è un « inerire affettivo, amoroso » all’oggetto amato, « stringendoci » ad esso;2 inesione

1. Cfr. cap. IV, 4; riportato sopra, p. 103 s.2. « Frui enim est amore alicui rei inhaerere propter seip-

sam» (cap. IV, 4; col, 20), « Tunc est quippe optimus homo,

115

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che ha luogo in senso pieno nell’oggetto del « frui »,

il solo a cui ci si fermi di amore permansivo (e perciò

Agostino adopera i vocaboli « inhaerere-haerere-cons- tringi » solo per il « frui »), ma che in qualche modo, viale e transitante, potrebbe applicarsi anche all’« uti », qualora almeno si estenda anche a questa conclusione l ’af­fermazione del cap. XXXIII, 37 che 1’« uti » è un « frui » in senso improprio.

Inerire, stringersi all’amato è certo un uscire di sé, è l ’estasi amorosa. Se, allora, da una parte l ’oggetto amato attrae col diletto che suscita nell’amante, e dall’altra il soggetto amante si stringe inerendovi all’amato, frutto dell’estasi e suo risultato non può essere che l ’unione dell’amante coll’amato.

Del carattere unitivo dell’amore, necessariamente conseguente l ’estaticità, il darsi all’amato, Agostino fa parola in taluni passi del « De doctr. christ. » anche se in tutt’altri contesti dall’indagine su cosa siano « uti » e « frui ». Così ad esempio già nel Prologo, insistendo sul fatto che Iddio nella Chiesa d ’ordinario vuole istruire gli uomini attraverso gli uomini, aggiunge:

Del resto la carità stessa, che stringe tra loro gli uo­mini con un nodo unitivo, non avrebbe modo di fondere e quasi di mescolare gli animi tra loro, se gli uomini non ap­prendessero nulla attraverso gli uomini.1

cum tota vita sua pergit in incommutabilem vitam, et toto affectu inhaeret illi (...); quia melior est cum tota vita sua pergit in incommutabilem vitam, et toto affectu inhaeret illi (...); quia melior est cum totus haeret atque constringitur incommutabili b o n o ... » (cap. XXII, 21; coi. 26-27). * Si vero inhaeseris atque permanseris, finem in ea ponens laetitiae tuae, tunc vere et proprie frui dicendus es » (cap. XXXIII, 37; coi. 33),

1. « Deinde ipsa caritas, quae sibi invicem homines nodo

116

IV . Questioni di vocabolario: significato dei termini de­signanti l ’amare nel « D e doctr. christ.».

Analogamente a quanto già fatto nel cap. II (§ II f) riguardo al De div. quaest. 83, riteniamo utile precisare il senso che Agostino dà nel De doctr. christ, ai singoli termini con cui designa il fenomeno dell’amore.

Il termine « amare — amor » ricorre raramente in quest’opera,1 sostituito invece dal sinonimo suo « dili­gere — dilectio », di uso continuo e frequentissimo.2 È anche questo un indizio del clima nettamente ed espres­samente cristiano dell’opera: « diligere » infatti, intro­dotto la prima volta nel 1. I, al cap. XXII, 20-21, perché è il termine scritturistico con cui è enunciato il doppio precetto evangelico dell’amore a Dio e al prossimo, sop­pianta subito il termine « amare » in tutte le sue acce­zioni.

Mentre allora nel De div. quaest. 83 (qq. 3 5 ,2 e36, x) « dilectio» , stretto sinonimo di « caritas» , era

— come quest’ultima — un termine morale tecnico,

unitatis astringit, non haberet aditum refundendorum et quasi miscendorum sibimet animorum, si homines per homines nihil discerent» (Prologus, 6; coi. 18).

Cfr. anche cap. XVI, 15: «Corpus ergo suum (cioè la sua Chiesa) multis membris diversa officia gerentibus, nodo unitatis et caritatis tamquam sanitatis (Christus) astringit ».

1. Come già accennato, del De doctr. Crist. ci interessa solo il libro I; del 1. II, solo il cap. V II; del 1. III, i capp. X-XXI, passim.

Ebbene, in tutti questi passi il termine «amare » si trova solo nel 1. I capp. IV, 4 e XXXVII, 41; il termine « amor » nel 1. I, capp. I l i , 3 e IV , 4; nel 1 II, cap. V II , 10; nel1. I l i , cap. XIX, 27.

2. Il termine «diligere» è usato nel 1. I, nn. 20-23, 25'34,37, 39, 41-42, 44; nel 1. II, nn. 10-11; nel 1. I l i , nn. 14 e25. Il termine « dilectio » nel 1. I, nn. 21, 23, 27-28, 30-34,39; nel 1. I l , nn. 10-11; nel 1. I l i , nn. 14 e 23.

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riservato ai soli amori retti dell’uomo, e dell’uomo verso le persone (Dio, l ’io, il prossimo), nel De doctr. christ. « dilectio » designa anche ogni altro amore, acquistando così la stessa estensione di. impiego della parola « ama­re ». Non solo infatti « diligere » e « dilectio » esprimono gli amori retti dell’uomo verso le persone (Dio, gli angeli e il prossimo, se stesso), ma anche l ’amore disordinato dell’uomo verso se stesso 1 e il suo prossimo.2 Né « dili­gere » è termine esclusivo degli amori — ordinati o di­sordinati — dell’uomo verso le persone, ma vale anche per i suoi amori verso le cose;3 anzi non è nemmeno riservato unicamente agli amori dell’uomo, ma è usato ad esprimere l ’amore di Dio verso l ’uomo,4 e addirit­tura anche quello degli esseri inferiori, degli animali, verso se stessi.3

Possiamo così distinguere due accezioni del vocabolo « diligere (dilectio) » nel De doctr. christ., un « dilige­re » in senso stretto e un « diligere » in senso lato. « Diligere » infatti, oltre ad esprimere gli amori umani interpersonali imperati dal doppio precetto evangelico: l ’amore di fruizione verso Iddio e di « uti » verso sé e il prossimo (diligere in senso stretto); abbraccia ogni altra specie di amore umano, anche disordinata, anche verso le non persone; designa anzi anche l ’amore da parte dell’Essere supremo e degli animali irragionevoli. In altre parole qualsiasi « frui » ed « uti » è un amore (cfr. il § prec.), e come tale può essere espresso con

i! termine « diligere-dilectio », la cui estensione diventa

1. Cfr. ad es. 1. I, cap. XXII, 21 e XXIII, 23.2. Cfr. ad es. cap. XXIX, 30.3. Cfr. l’es, dell’avaro che ama il denaro, cap. XXV, 26.4. Cfr. capp. XXXI-XXXII, 34-35.5. Cfr. cap. XXVI, 27: « nam et bestiae se atque corpora

sua diligunt ».

118

così perfettamente identica a quella di « amare-amor »

{.diligere in senso lato).1

Il termine « caritas » ha invece nel « De doctr.

christ. » sempre un senso tecnico, quello attribuito al « diligere in senso stretto »: sono carità gli amori inter-

x. Non crediamo perciò di poter consentire con l ’affermazione di G. I st a c e , nell’ottimo ari. già cit., che « al contrario di ‘frui’ , che implica amore per la sua stessa definizione, ‘uti’ è arricchito di questo sentimento nel caso speciale dell’uomo... » (p. 303; cfr. anche p. 318), come se ogni altro « u ti» nostro verso le non­persone sia senza amare, senza « diligere », cioè non sia amare. Quest’affermazione resta esclusa sia dai §§ I I e III, che defini­scono 1’« uti » come un « amare » qualcosa per qualcos’altro, e l ’amare come « frui » e « uti », sia da quanto detto ora sul « diligere in senso lato », che si estende ad ogni forma di amore umano, anche non interpersonale.

Il cap. XXIII, 22 « Non autem omnia quibus utendum est, diligenda sunt, sed ea sola quae aut nobiscum societate quadam referuntur in Deum, sicuti est homo vel angelus, aut ad nos relata, beneficio Dei per nos indigent, sicuti est corpus. Nam utique martyres non dilexerunt scelus persequentium se, quo tamen usi sunt ad promerendum Deum. Cum ergo quatuor sint diligenda, unum quod supra nos est, alterum quod nos sumus, tertium quod iuxta nos est, quartum quod infra nos est; de secundo et quarto nulla praecepta danda erant », che porta 1’Istace alla sua interpretazione (p. 303), può invece essere facilmente compreso alla luce della distinzione sopra data sui due sensi (stretto e lato) de! termine «diligere». L ’esempio por­tato da Agostino, dei martiri che usano, senza amarlo, del delitto del persecutore per meritare Dio, significa solo che il delitto del persecutore deve essere usato dal martire (e quindi amato, «diligere» in senso lato), senza essere oggetto di amore carità («diligere» in senso stretto). Quel delitto infatti è mezzo con cui il martire procura il proprio bene, ama se stesso di amore- carità: « il « diligere » in senso stretto, l ’amore-carità del martire ha quindi per oggetto il martire stesso, e giustamente non è usato per designare 1’« uti » ordinato di un oggetto non perso­nale, qual’è il crimine persecutorio. Se poi si obiettasse che quel crimine rientra nella persona del persecutore, sia pure, non però nella persona in quanto oggetto di carità, giacche è amando (di

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personali retti verso D io,1 s é 2 e il prossimo/' Il senso di « caritas » nel De doctr. christ, coincide quindi con quello delle qq. 35 e 36 del De div. quaest. 83; è, anzi, ancor più espressamente ed elaboratamente cristia­no, tutto in funzione di citazioni scritturistiche dal V an­gelo e da S. Paolo, e integrato esplicitamente nel trino­mio paolino « fides-spes-caritas ».

amore-carità) il peccatore non il peccato (cfr. il cap. XXVII, 28): « Omnis peccator in quantum peccator est, non est diligendus »).

Il passo del cap. XXXV, 39 (riportato sopra, p. 106 s.), che oltre alla « dilectio rei qua f ruendum est (Iddio), et rei quae nobiscum ea re frui potest (il prossimo) », diceva essere oggetto di una « dilezione » obbligatoria la stessa economia redentrice (« ... dispensatio temporalis, qua debemus uti, non quasi mansoria quadam dilectione atque delectatione, sed transitoria potius... »), cioè un oggetto non personale, invece di far ricredere l ’Istace sulla sua interpretazione che esclude l ’amare da ogni « uti » non inter­personale, lo conduce — proprio in virtù di tale premessa — ad un’affermazione piuttosto strana: qui « si parla effettivamente di amore (il sostantivo ‘diligere’) a proposito di cose di cui bisogna usare. Ma noi abbiamo visto che ‘usare’ non deve accompagnarsi con amore che quando si tratta di cose che possono fruire di Dio insieme con noi. Si potrebbe dunque pensare ad un’indeter­minazione nel pensiero di Agostino. Invece non ve n’è alcuna. Per convincersene basta osservare che qui l ’idea di obbligazione non è espressa (?!). Oltre a cose che bisogna amare obbligatoriamente, sia d’un amore di ‘fruizione’ che d’un amore di ‘uso’, Agostino non ha mai escluso né vietato un amore di fatto (?!) per l ’economia redentrice... » (0. c., p. 318).

Tutto invece si chiarisce facilmente ricorrendo ancora una volta al « diligere » in senso stretto, riservato ai soli amori inter­personali prescrittrici dal doppio precetto evangelico, ma che non esclude ogni altro amore umano retto ed obbligatorio, benché non interpersonale (diligere in senso lato): l ’amore per l ’economia re­dentrice (obbligatorio per Agostino: « ...qua debemus uti... »; ed amore: « ...dilectione atque delectatione... transitoria»), anche se questo amore non derivi la sua obbligatorietà da quel precetto, da Agostino interpretato nel senso di un amore-carità rigorosa­mente interpersonale.

1. Cfr, 1. I, nn. 14. 39-44; 1. I l i , 15-16, 20.2. Cfr. 1. I l i , n. 16.3. Cfr. Prol. 6; 1. I, nn. 15, 39-4r, 44; 1. I l i , 15-16, 20, 24.

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Col termine « cupiditas » Agostino designa nel « De

doctr. christ. » l ’amore contrario alla « caritas »:

Chiamo carità il moto dell’animo a fruire di Dio per se stesso, e di sé e del prossimo per Iddio; cupidità invece, il moto dell’animo a fruire di sé, del prossimo e di qual­siasi corpo non per Iddio.1

È questa la definizione più completa che troviamo

nel De doctr. christ, su cosa sia la « cupiditas » : un amore umano moralmente disordinato che ha per og­getto sia le persone (sé e il prossimo) che gli esseri corporei impersonali (« qualsiasi corpo »). Disordine che consiste appunto nel pervertire in indebito fruire l’« uti », unica fruizione in senso proprio dovendo essere l ’amore di Dio per se stesso, in senso improprio l’amore di sé e del prossimo per Iddio. Cupidità è quindi pervertire la carità.

In numerosi altri passi Agostino ci parla della cupi­dità, talvolta anche senza attribuirle espressamente il suo nom e:2 tutti sono però illuminati e completati dalla

1. L. I l i , cap. X, 16; col. 72.2. Per es. 1. I, cap. XII, r2; col. 23: « cupiditate fruendi

prò ipso Creatore creatura, homines configurati huic mundo, et mundi nomine congruentissime vocati ». Altrove quest’amore di­sordinato è descritto come un voler fruire di ciò che invece deve essere usato, come un amore delle cose inferiori, ritardante o revocante dalla fruizione debita riservata a Dio solo, all’eterno, per fermarci sul transeunte, sul temporale, sui veicoli, su questo mondo insomma: « ...si ea quibus utendum est frui voluerimus... ut ab his rebus quibus fruendum est obtinendis vel retardemur, vel etiam revocemur, inferiorum amore praepediti » (1. I, cap. III, 3; coi. 20). Cfr. cap. IV , 4 (riferito sopra, p. 103 s.); « posteriora atque inferiora sectantes, quam illud quod esse melius atque praestantius confitentur» (cap. IX, 9; coi. 23); «Libidines enim male utentes corpore, id est consuetudines et inclinationes animae ad fruendum inferioribus » (cap. XXIV, 24; coi. 23). Nel libro I'I: « ...de appetitu inferiorum conceptis sordibus... » (cap. V II , 11; coi. 40); « amore huius saeculi, hoc est, temporalium rerum

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definizione testé riferita, che allarga espressamente il

significato di « cupidità » a designare l ’amore indebito dell’uomo verso qualsiasi essere inferiore a Dio. Mentre allora « cupiditas » nel De div. quaest. 83 1 designa l ’amore disordinato dell’uomo verso le cose a sé infe­riori, qui si tratta dell’identico disordine, ma esteso anche all’indebito fruire di sé e del prossimo, non subor­dinatamente a Dio. « Cupiditas », cioè, ha qui la stessa estensione attribuita nel De div. quaest. alla « cupiditas », e in più alla « superbia » (cfr. sopra, pp. 31-32).

Il termine « superbia » nel D e doctr. christ, si trova molto meno frequentemente di quello « cupiditas »,2 e praticamente non è altro che un termine meno generale di quest’ultimo, di cui designa due casi particolari: l ’am­bizione di dominio sui propri sim ili3 e, in ultima analisi, il costituire se stesso come un bene, un fine, indipendente da Dio.4 Non differisce perciò dal significato di « super­bia » nel D e div. quaest. 83.

implicatum» (cap. V II, 10; col. 39); «ab omni mortifera iucun- ditate rerum transeuntium sese extrahit, et inde se avertens con­vertit ad dilectionem aelernorum, incommutabilem scilicet... Tri­nitatem » (ivi).

1. Cfr. q. 35, 1: «E st enim et turpis (amor), quo animusse ipso inferiora sectatur, quae magis proprie cupiditas dicitur... »(riferito sopra, p. 26).

2. Cfr. Prol. 5-6; 1. I, cap. XIV, 13; XXIII, 22-23; XXXIII, 36.

3. Cfr. cap. XXIII, 23; coi. 23: «Magnum autem aliquid adeptum se putat, si etiam sociis, id est aliis hominibus, dominari potuerit. (..) Cum vero etiam eis qui sibi naturaliter pares sunt, hoc est hominibus, dominari affectat, intolerabilis omnino su­perbia est ». Cfr. anche cap. XXXIII, 36.

4. Cfr. cap. XXIII, 22; coi. 27: Fugax enim animus abincommutabili lumine (Iddio) omnium regnatore, id agit ut ipse sibi regnet et corpori suo». Cfr. anche XXIII, 23; col. 27: « Inest

Su uti e frui, dopo quanto detto nei due ultimi para­grafi, è inutile soffermarci ancora: come nel D e div. quaest, 83 essi qui hanno un senso non morale, ma psi­cologico, intenzionale. Sono usati perciò per ogni specie di amare (diligere) il fine o il mezzo, sia ordinato che disordinato (« caritas » o « cupiditas »).

Da notare solo che nel D e doctr. christ, è esplicita­mente riconosciuto un « frui » in senso improprio, giac­ché « cum delectatione uti » è strettissimo parente di « frui » (« vicinissime dicitur frui »).] Poiché il diletto, il piacere è implicato in ogni amore — essendo pro­dotto nell’amante dalla presenza stessa dell’am ato2 — questo « frui » in senso improprio si verifica in ogni « uti ». Per tale motivo il « frui » improprio potrebbe, di diritto, essere attribuito ad ogni « uti »; Agostino invece non lo attribuisce di fatto altro che agli « uti » umani interpersonali,3 mai ai nostri « uti » di oggetti non personali.

V . Relazioni tra amare e conoscere.

Benché su quest’argomento il De doctr. christ, sia teoreticamente meno ricco del De div. quaest. 83, vi ri-

enim vitioso animo id magis appetere, et sibi tanquam debitum vindicare, quod uni proprie debetur Deo. Talis autem sui dilectio melius odium vocatur ».

1. Cfr. cap. XXXIII, 37; cit. sopra, p. u t .2. Cfr. ivi; e il § prec.3. Cfr. la definizione di « caritas » nel 1. III, X, 16 (sopra,

p. 121), in cui precisamente l ’amare (frui) sé e il prossimo senza fermarsi in esso (propter Deum), è intenzionalmente, psicologica­mente un « uti », è perciò un « frui » solo in senso improprio. Il contrario avviene invece nella « cupiditas » che, fermandosi disor­dinatamente ad oggetti che di loro natura sarebbero mezzo e non fine (perché non il Bene, il fine ultimo), intenzionalmente ne fruisce in senso proprio, amandoli « non propter Deum », ma come fini.

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troviamo l ’affermazione che la conoscenza del bene da amare è prerequisito necessario all’amore.

Lo si desume da parecchi testi, più o meno espliciti; ad es.:

Perciò dovendo noi fruire di quella verità che vive immutabilmente (...); bisogna purificare il nostro animo, affinché possa percepire quella luce e, percepitala, inerirvi.1

Quanto all’amore fruitivo verso Dio, dunque, si pre­richiede il conoscere, il « perspicere » intellettivo (perché dell’« animus »). Questo testo lo implica anche nel con­cepire Dio come « verità » e come « luce », vocaboli ambedue di ordine conoscitivo. Ancora:

di cui (Dio) non temiamo affatto che, conosciuto, possa di­spiacere ad alcuno.2

Ma vacillando la fede, languisce la stessa carità. In­fatti se uno cade dalla fede, cade necessariamente anche dalla carità, poiché non può amare ciò che non crede esista.3

Anche se ormai in un ordine espressamente sopran­naturale, in cui amare e conoscere sono designati rispet­tivamente come carità e fede, è sempre 1’« ignoti nulla cupido » che torna ad essere ripetuto. Q uest’ordine ha due stadi, terrestre il primo, escatologico l ’altro: la cono­scenza soprannaturale di Dio nel primo è fede, nel secondo visione, « species »; e, rispettivamente, nel pri­mo stadio oggetto d ’amore è il Dio conosciuto per fede,

:c. « Quapropter, cum illa veritate perfruendum sit, quae in­commutabili ter vivit (..); purgandus est animus, ut et perspicere illam lucem valeat, et inhaerere perspectae » (cap. X, ro; col. 23).

2. « de quo nihil metuimus, ne cuiquam possit cognitus displicere » (cap. XXIX, 30; coi. 30).

3. « porro fide titubante, caritas etiam ipsa languescit. Nam si a fide quisque ceciderit, a caritate etiam necesse est cadat; non enim potest diligere quod esse non credit » (cap. XXXVII, 41; coi. 35).

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nel secondo il Dio visto in se stesso, « per speciem ». Anche nella vita futura dunque il conoscere sarà preri­chiesto dal nostro amore consumato:

Ma alla fede succede la visione, che vedremo; e alla speranza succede la felicità stessa, a cui saremo giunti. La carità invece, dal venir meno di quelle sarà accresciuta, piuttosto. Se, infatti, credendo amiamo ciò che ancora non vediamo, quanto più quando avremo cominciato a vederlo?1

Che solo la conoscenza ci faccia possedere il bene conosciuto, oggetto del nostro amore, è nel D e doctr. christ, un dato certamente molto meno esplicito che nel De div. quaest. 83; tuttavia lo si potrebbe già arguire dagli ultimi testi citati, specialmente dal loro presentarci Iddio, l ’oggetto d ’amore fruitivo, come Verità o come Luce. Chi, infatti, se non l ’intelletto può afferrare, im­possessandosene conoscitivamente, la Verità, la Luce spirituale?

Agostino lo fa capire quando, affermato che in que­sto nostro terrestre viaggiare verso la patria, di tutto dobbiamo solamente usare e non fruire, conclude:

Se allora in questa vita mortale pellegrinando lontani dal Signore (II Cor., V, 6), vogliamo tornare nella patria in cui possiamo esser felici, dobbiamo usare di questo mondo, e non fruirne; affinché gli attributi invisibili di Dio, compresi attraverso il creato, possano essere scorti (Rom. I, 20) da noi, cioè affinché dalle cose corporee e temporali possiamo afferrare (capiamus) le eterne e spiri­tuali.2

1. « Sed fidei succedit species, quam videbimus; et spei suc­cedit beatitudo ipsa, ad quam perventuri sumus: caritas autem etiam istis decedentibus augebitur potius. Si enim credendo diligimus quod nondum videmus, quanto magis cum videre coepe­rimus? » (cap. XXXVIII, 42; coi. 35). Cfr. anche 1. II, cap. V II, 11; col. 40.

2. Cfr. cap. IV, 4; riferito sopra, p. X04.

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La citazione paolina (« invisibilia Dei, per ea quae facta sunt, intellecta conspiciuntur »), d ’indole nettamen­te conoscitiva, serve qui ad Agostino per affermare la funzione possessiva (sottolineata dal verbo « capio ») del conoscere rispetto all’oggetto conosciuto. Non soltanto infatti l ’amare è cieco senza il conoscere, non avendo dove dirigersi, ma è unicamente attraverso la presa intel­lettuale che esso può darsi affamato.

Di questo mutuo richiedersi di amare e conoscere, troviamo un esempio tipico nella descrizione del cammino verso la perfezione, suddistinto in sette gradini successivi, nel cap. V II del II libro. La perfezione della nostra atti­vità spirituale, di cui qui si parla, è sempre quella rela­tiva, attingibile in questa vita, non con le sole forze naturali, ma con l ’aiuto dei doni dello Spirito Santo: ebbene, tale perfezione è sintetizzata nella parola « sapien­tia », parola di chiara indole intellettuale, conoscitiva. « Sapientia » è « la conoscenza perfetta »/ il culmine della vita contemplativa dell’uomo, perché esercitantesi verso l ’oggetto supremo, Iddio,2 anche se visto ancora attraver­

1. Così F. C a y ré , La contemplation augustinienne (Bruges- Paris, 19542), p. 66. A questo passo agostiniano (De doctr. christ., 1. II, cap. V II) è dedicato il § IV del cap. II (pp. 65-69), Les grandes étapes de la marche vers la sagesse, studio prezioso e illuminante per un’esatta comprensione del testo, in tutta la sua ricchezza mistico-soprannaturale.

2. Cfr. M arrou H-L, S. Augustin et la fin de la culture antique, Appendice, Note B, Scientia et Sapientia dans la langue de S. Augustin. Marrou vi distingue 13 accezioni agostiniane del termine «sapientia» (pp. 564-569): anzitutto una «sapientia» divina, Dio stesso, ed una umana, partecipazione di quella divina. Di questa seconda l ’accezione più generale — e che più ci interessa qui — è quella da lui enumerata come quinta: « possesso della vita beatificante, ossia — non essendo quest’ultima altri che Dio — contemplazione di Dio; conoscenza che è nello stesso tempo amore, certezza razionale, apprensione diretta, contatto » (pp. 565-566).

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so la fede e non nella chiarezza abbagliante e saziante della visione.1 A questo vertice conoscitivo — e conse­guentemente anche amoroso, — l ’uomo giunge attraverso un progressivo purificare la sua vita spirituale, il suo « oculum cordis »: una cognizione sempre più pura gli permette un amore sempre più elevato, salendo sempre più su, di grado in grado, da una prima purificazione a

una illuminazione maggiore, verso un’ulteriore purifica­zione in vista di un’illuminazione ancora più alta. Così fino alla « pacata e tranquilla fruizione » della raggiunta « sapientia » che contempla Iddio, con un possesso (l’ele­mento conoscitivo) amoroso che è pienezza di conoscere e di amare: la perfezione stessa, cioè, della nostra vita

spirituale.

I. ...Et spe iam plenus atque integer viribus, cum pervenerit usque ad inimici dilectionem, ascendit in sextum gradum, ubi iam ipsum oculum purgat, quo videri Deus potest, quantum potest ab iis qui huic saeculo moriuntur quantum possunt. Nam in tantum vident, in quantum moriuntur huic saeculo; in quantum autem huic vivunt, non vident. Et ideo quamvis iam certior, et non solum tolerabilior, sed etiam iucundior species lucis illius incipiat apparere, in aenigmate adhuc tamen et per speculum videri dicitur (I Cor. X III, 12), quia magis per fidem quam per speciem ambulatur, cum in hac vita peregrinamur (II Cor.V, 6, 7), quamvis conversationem habeamus in coelis (Philip. III, 20). In hoc autem gradu ita purgat oculum cordis, ut veritati ne ipsum quidem praeferat aut conferat proximum: ergo nec seipsum, quia nec illum quem diligit sicut seipsum. Erit ergo iste sanctus tam simplici corde atque mundato ut neque hominibus placendi studio detorqueatur a vero, nec respectu devitandorum quorum­libet incommodorum suorum, quae adversantur huic vitae. Talis filius ascendit ad sapientiam, quae ultima et septima est, qua pacatus tranquillusque perfruitur » (1. II, V II, 11; coi. 40). Tutti i termini sottolineati sono conoscitivi: non fanno certo difetto!

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V I. Amare e felicità.

Ogni amore tende al bene; raggiuntolo ne prova dilet­to, piacere, felicità. Non però ogni diletto è saziante, proprio perché ogni bene posseduto è capace di ulteriore subordinazione a un bene più alto, rispetto al quale non può che diventare veicolo, mezzo, strumento. Se, in altre parole, ogni amore cerca la felicità del possesso, e se non ogni possesso — ogni bene posseduto — esaurisce la dinamicità dell’amore verso un ulteriore e più saziante possesso; come fine ulteriormente irriferibile, ossia come fine ultimo della tendenza al bene, alla felicità, potrà porsi soltanto quel bene che sia totalmente bene, perché « sommo » e con ciò stesso « beatifico ».*

Se, dunque, ogni amore è del bene, l ’amore-desiderio non è ancora felicità: felicità è invece l ’amore presenzia­le, l ’amore del bene posseduto. Ë implicito in un passo

ormai noto:2 « Quando infatti è presente ciò che è ama­to, necessariamente esso comporta del diletto... ». Vari i beni, vari conseguentemente i piaceri, le felicità che essi ci arrecano, sia usati come oggetti di transito, sia fruiti con un permanervi come in oggetti-fine.

Solo fine che sia esclusivamente e unicamente fine, perché di sua natura non ulteriormente finalizzarle, irri­ducibile cioè a mezzo di un fine più alto, è Iddio, bene supremo: possederlo allora significherà non il possesso di un bene, ma del bene, di conseguenza sarà non una feli­cità, ma la felicità. Dio infatti, essendo « l ’Essere primo e sommo », perché «l’Essere sussistente stesso »,3 è anche

1. « tanquam beatificum bonum » (cap. XXIX, 30; col. 30. Già citato sopra, p. 109). Cfr. anche tutti i passi citati nelle note di p. 108.

2. Cap. XXXIII, 37; cfr. sopra, p. i n .3. « Ille enim summe ac primitus est, qui omnino incom­

mutabilis est, et qui plenissime dicere potuit ‘ Ego sum qui

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il Bene sommo e immutabile »;‘ non il transitorio ma « l ’eterno »;2 capace percio, con tale sua « bonitas » onto­logica,5 di essere il nostro « premio eterno »,4 la nostra « somma mercede »,5 « tutto il nostro bene »,6 il nostro « lume beatifico »;7 il solo saziante quest’anima nostra fatta per « l ’eternità », come per sua « vera e certa se­

de »,8 e che anche quaggiù in Lui solo può arrestarsi, finalmente « placata e tranquilla » nel contemplarlo.9

Anche per il « De doctr. christ. » la felicità, possesso di Dio, è attività supremamente spirituale, implicante conoscere e amare d ’ordine spirituale, intellettivo, essen-

sum et, ‘ Dices eis, Qui est, misit me ad vos ’ (Exod. I l i , 14). » (Cap. XXXII, 35; col. 32).

1. Dio è detto « bonum incommutabile » e « incommuta­bilis » nel cap. XXII, 21; « summum et incommutabile bonum » nei capp. XXXIII, 37 e XXXIV, 38.

2. « aeternum (cioè Dio) autem ardentius diligitur adeptum, quam desideratum » (cap. XXXVIII, 42; col. 35)

3. « u t Dei honitate perfruamur » (cap. XXXII, 35; col. 32).4. « ut eis qui diligunt, aeternum praemium conferatur, hoc

est ipse quem diligunt » (cap. XXIX, 30; col. 30).5. « Haec autem merces summa est ut ipso perfruamur »

(cap. XXXII, 35; coi. 32).6. « Omne enim bonum nostrum vel ipse, vel ab ipso est »

(cap. XXXI, 34; coi. 32).7. Cfr. nota 1, p. 128.8. « Inter temporalia quippe atque aeterna hoc interest, quod

temporale aliquid plus diligitur antequam habeatur, vilescit autem cum advenerit; non enim satiat animam, cui vera est et certa sedes aeternitas: aeternum autem ardentius diligitur adeptum, quam desideratum: nulli enim desideranti conceditur plus de illo existimare quam se habet, ut ei vilescat cum se invenerit; sed quantum quisque veniens existimare potuerit, plus perveniens in­venturus est» (cap. XXXVIII, 42; coi. 35-36).

9. « Talis filius ascendit ad sapientiam (cioè alla contempla­zione di Dio) — qua pacatus tranquillusque perfruitur » (1. II,V II, n ; cfr. sopra, nota 1. p. 127).

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do Dio essere supremamente incorporeo, intelligibile. Si richiamino i testi citati nel § prec. sui rapporti tra cono­scere e amare, tutti riferentisi a Dio come oggetto delle nostre due forme più elevate d ’agire, conoscenza e amo­re, sia nello stadio terrestre che in quello escatologico.

Li conferma un passo dai capp. XIX-XX che, riferen­

dosi alla vita gloriosa dei beati dopo la resurrezione dei corpi, afferma la felicità come dote dell’anima e non del corpo, dall’anima ridondando sul corpo risorto:

si deve credere e sperare che al tempo della resurrezione, dopo questa morte a cui tutti siamo debitori per il vin­colo del peccato, anche il corpo sarà mutato in meglio, non affinché la carne e il sangue posseggano il regno di Dio, cosa impossibile, ma perché questo corpo corruttibile rivesta l ’incorruzione, mortale l ’immortalità (I Cor. XV, 50, 53); non recando più molestie giacché non soffrirà più di alcuna indigenza, vivificato ormai con somma quiete dal­l’anima beata e perfetta. L ’animo invece di colui che non muore a questo secolo, e non comincia a configurarsi sulla verità, con la morte del corpo sarà condotto a una morte più grave.1

Come cioè la vita perfetta anche in terra è attività d ’ordine intellettivo, perché dell’« animus » che cerca di « configurarsi sulla verità », così anche nello stadio ultraterreno sarà l ’anima ad essere « beata perfectaque », perché in possesso di Dio. D all’anima poi ridonderà anche nel corpo risorto — e come tale da essa di nuovo vivifi­cato, animato — quella partecipazione di felicità di cui esso è capace: l ’assenza cioè della corruttibilità, della

morte, della passibilità.Che sia la parte spirituale in noi, e non quella cor­

porea, a poter fruire di Dio, è osservazione incidentale,

ma chiarissima, di un testo trattante del retto ordine

i . Capp. XIX-XX, 18-19; c°l- 26.

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degli amori, che proprio su tale superiorità dell’anima sul corpo si basa per preferire l ’amore del prossimo a quello del nostro corpo:

Parimenti gli altri uomini devono essere amati più del nostro corpo. Poiché, dovendo noi amare tutti questi esseri per Iddio, mentre gli altri uomini possono fruire di Dio insieme con noi, non lo può il corpo; il corpo infatti è vivificato dall’anima, con la quale fruiamo di Dio.1

Quanto al « Volontarismo » agostiniano, anche nei « De doctr. christ. », accanto a testi che accennano alla felicità trattando del termine dell’amore, del « frui »,2 ve ne sono altri più completi che includono, per il possesso di Dio, anche il conoscere,3 e che anzi parlano della beati­tudine non come di fruizione del sommo Bene, ma piut­tosto come di possesso della Verità, della Luce.4 C ’è allora oscillazione, in Agostino, tra un volontarismo ed un intellettualismo nei mutui rapporti tra amare e cono­scere, con la prevalenza ora dell’uno, ora dell’altro?

1. « Item amplius alius homo diligendus est quam corpus nostrum; quia propter Deum omnia ista diligenda sunt, et potest nobiscum alius homo Deo perfrui, quod non potest corpus; quia corpus per animam vivit qua fruimur Deo » (cap. XXVII, 28; coi. 29-30).

2. Cfr. ad es. cap. III, 3 (p. 99); IV, 4 (p. 103 s.); XXII, 20 (p. 108); XXXI, 34 (p. 108); XXXIII, 36 (p. 106); ecc.

3. Cfr. i testi delle pp. 124-5.4. Cfr. cap. X, 10 « cum illa veritate perfruendum sit, quae

incommutabiliter vivit (..); purgandus est animus ut et perspicere illam lucem valeat, et inhaerere perspectae » (p. 124); cap. XX, 19 «cuius autem animus non (..) incipit configurari veritati» (p. 130); cap. XXXIV, 38 « a quo (cioè dal Cristo-Via, dal Verbo incarnato in quanto Incarnato) tamen aggrediendum et exordiendum iter est omnibus qui ad veritatem pervenire et in vita aeterna permanere desiderant. Sic enirn ait, ‘ Ego sum via, et veritas, et vita ’ (Jo. XIV, 6); hoc est, per me venitur, ad me pervenitur, in me permanetur » (p. 105); cap. IV, 4, in fine (p. 99); e specialmente il cap. V II , 11 del Libro II (nota 1, p. 127).

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Anche per il De doctr. christ., ci accontentiamo di sottolineare di nuovo la falsità di una concezione esclu­sivistica ai danni o dell’amore o del conoscere, ambedue parti integranti, e completantesi reciprocamente, della

nostra attività suprema verso l ’oggetto supremo, Dio. Si potrebbe forse aggiungere che mentre i testi che dicono oggetto di fruizione quanto ci fa felici, includono nella

perfezione del nostro agire anche l ’amare, astraendo sem­plicemente — senza né affermarla né negarla — dall’atti­vità conoscitiva; i testi che ricordano la necessità del conoscere per poter amare sembrano sfociare in una pre­minenza del lato conoscitivo su quello amoroso, fino a descrivere la perfezione attingibile dall’uomo come una « sapientia », come un contemplare amoroso, fiuitivo, il Dio-Verità, Luce suprema.1

La felicità, possesso di Dio, è raggiungibile in questa vita? Il « De doctr. christ. » conferma in pieno la rispo­sta data nel cap. II (§ V i l i d), seguendo il Boyer: con quest’opera infatti è già passato un decennio dalla con­versione, ed il clima esplicitamente cristiano del « De doctrina christ. », — non più filosofia pura e cristiane­simo ancora iniziale —- si riflette anche nel nostro pro­blema. Esplicita e ripetuta ritroviamo infatti la distin­zione di questa vita da quella eterna, e della perfezione

relativa quaggiù raggiungibile nell’oscurità della fede, da quella piena e perfetta nella chiarità della visione bea­tifica.

La felicità piena non si avrà che lassù: così tutti i testi che chiamano « patria » la vita eterna; via (via)

— viaggio (iter) — cammino (deambulatio) — naviga­

i. Cfr. 1. II, cap. V II , r i (riferito sopra, nota r, p. 127),e quanto diciamo a proposito di esso.

zione (navigatio) — pellegrinare (peregrinari, peregrina­tio), questa vita.1

Così anche i testi che riconoscono esplicitamente lo stadio terrestre come vita soggetta alla mortalità del corpo, alla passibilità, alla concupiscenza, di contro a quello escatologico in cui finalmente il corpo risorto godrà anch’esso di « somma quiete », libero ormai da tutte quelle miserie.2

Così soprattutto quei passi che contrappongono espli­citamente l’imperfetta fruizione terrestre di D io attra­verso la fede, nella speranza del gaudio futuro, alla pie­nezza della visione che soppianterà per sempre fede e speranza, nella realtà (res) del possesso di Dio,3 ormai acquisito in una carità « accresciuta » perché corrispon­dente ad un conoscere svelato, faccia a faccia.4 Contrap-

1. Cfr. ad es. i capp. IV , 4 (p. 103 s.); IX-X, 9-10 (p. 104); XI, 11 (p. 105); XVII, 16 (nota 2, p. 106); XXXIV, 38 (p. 105); ecc.

2. Cfr. capp. XIX-XX, 18-19 (p. 130); nel cap. XXIV, 25, dopo riferito il passo paolino sulla concupiscenza (Gal. V, 17), prosegue: « ...Quia enim hoc erit post resurrectionem, ut corpus omnimodo cum quiete summa spiritui subditum immortaliter vi­geat, hoc etiam in hac vita meditandum est, ut consuetudo carnalis mutetur in melius, nec inordinatis motibus resistat spiritui ».

3. « Quod enim propter se diligendum est, in eo constituitur vita beata; cuius etiamsi nondum res, tamen spes eius nos hoc tempore consolatur » (cap, XXII, 20; coi. 26).

4. « Illo (cioè Dio) enim fruentes, etiam ipsi (angeli) beati sunt, quo et nos frui desideramus: et quanto in hac vita fruimur vel per speculum vel in aenigmate (I Cor. X III, 12), tanto nostram peregrinationem et tolerabilius sustinemus et ardentius finire cupimus » (cap. XXX, 31; coi. 30-31). Ma soprattutto i capp. XXXVIII, 42 (riferito sopra, pp. 125 e 129) e XXXIX, 43: « per­fectum sane quantum in hac vita potest; nam in comparatione juturae vitae nullius iusti et sancti est vita ista perfecta. Ideo ‘manent’, inquit ‘fides, spes, caritas, tria haec: maior autem horum est caritas’ (I Cor. X III, 13); quia et cum quisque ad aeterna pervenerit, duobus istis decedentibus caritas auctior et certior permanebit» .Cfr. anche 1. II, V II, 11 (p. 127).

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posizione che porta Agostino a concludere appunto che anche la perfezione raggiunta quaggiù dai più virtuosi, è « una perfezione certo quale può aversi in questa vita: a confronto della vita futura infatti la vita di nessun giusto e santo è perfetta ».

Anche per il secondo interrogativo già postoci nel cap. II (§ V i l i e), se cioè la felicità sia raggiungibile colle sole forze naturali, la risposta negativa è qui ancora più esplicita.

In tutta la sezione del libro I, capp. XI-XXI (11-19), che presenta come oggetto utendo l ’intera economia re­dentrice 1 è frequentissima infatti l ’asserzione esplicita che Dio stesso, meta del nostro viaggio terrestre, si è incar­nato — facendosi così anche nostra via, — perché pos­siamo giungere a Dio: aiuto che è via, esempio, model­lo;2 attrazione da parte dello Spirito Santo;3 infusione 4

1. Cfr. Istage, art. cit., pp. 296-298.2. Cfr. cap. XI, 11 (col. 23): « Quod non possumus, nisi

ipsa Sapientia tantae etiam nostrae infirmitati congruere digna­retur, et vivendi nobis praeberet exemplum, non aliter quam in homine, quoniam et nos homines sumus. (..) Cum ergo ipsa sit patria, viam se quoque nobis fecit ad patriam ». Cfr. anche i capp. XII, 11-12; XVII, 16; e soprattutto XXXIV, 38 (riferito nell’essenziale a p. 105).

Del resto senza impetrare la «consolationem divini adiutorii», non si giunge alla perfezione neppure in questa vita. (Cfr. 1. II, cap. V II , 10).

3. « vinolente et tanquam agglutinante nos Spiritu Sancto, quo in summo atque incommutabili bono permanere possimus >> (cap. XXXIV, 38; col. 33).

4. « Quibus autem verbis, aut qua cogitatione capi potest praemium, quod ille in fine daturus est; quando ad consolationem huius itineris de Spiritu suo tantum dedit, quo in adversis vitae huius fiduciam caritatemque tantam eius, quem nondum videmus, habeamus, et dona (..) ut id quod ostendit esse faciendum (..) etiam cum delectatione faciamus? » (cap. XV, 14; coi. 25).

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del dono della carità per poter amare Dio che non vedia­mo; medico e medicina nello stesso tempo.1

Per tutte queste ragioni l ’intera economia salvifica, opera della Divina Provvidenza (tota prò salute nostra per divinam providentiam dispensatio temporalis), si con­figura come il veicolo (tamquam vehiculorum) che ci porta verso Dio, termine ultimo del nostro viaggio.3 « È cioè Iddio ad avere misericordia di noi, affinché noi

possiamo fruire di Lui ».3

1. « sic sapientia Dei hominem curans, seipsam exhibuit ad sanandum, ipsa medicus, ipsa medicina » (cap. XIV, 13; col. 24).

2. Veicolo da usarsi appunto per amore di Colui a cui esso ci porta: « ut ea quibus ferimur, propter illud ad quod ferimur, diligamus » (cap. XXXV, 39; cfr. sopra, p. 106 s.).

3. « id est, ille nostri miseretur, ut se perfruamuï » (cap, XXX, 33; col. 32).

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C a p i t o l o V I

Morale dell’amore

I. L ’amore verso Dio e le sue implicazioni.

Conosciamo ormai sotto l’aspetto teoretico il signifi­cato del binomio « uti-frui », ed abbiamo anche visto

il legame strettissimo di « frui » con la felicità:1 la no­zione stessa di fruire, dell’amare cioè un oggetto per se stesso, come fine, si giustifica infatti e tutta si costruisce

sul nostro dinamismo naturale verso la felicità. Come potrei infatti amare un oggetto fruitivamente, cioè come fine, se esso non mi attirasse? Ma come mi attirerebbe se io stesso non fossi inclinato al bene dalla mia stessa natura; se cioè non si trovasse in me un’inclinazione, una facoltà, un dinamismo naturale che mi orienti natu­ralmente, e quindi necessariamente, al bene? E non a un bene qualunque, giacché io, capace di conoscere ogni bene, sono per ciò stesso capace di amare ogni bene, inappagabile quindi da un bene partecipato, saziabilesolo dal Bene che realizzi pienissimamente tutta la bontà, tutta la perfezione, che sia cioè il Bene stesso imparte­cipato, Dio.2 Supposta dunque la nostra tendenza natu-

1. Cfr. cap. prec., §§ II (specie pp. 107-9), H I (speciepp. 113-4), V I (specie pp. 128-130).

2. « Poiché infatti egli è bene, noi siamo; ed in quantosiamo, siamo beni. (..) Colui invero è sommamente e il primo,che è totalmente immutabile e che ha potuto dire pienissitna- mente ‘ Io sono Colui che sono ’, e, ‘ Dirai loro, Colui che è mi ha mandato a voi ’ (Exod. I l i , 14). Sicché le altre cose che sono, non possono essere che da Lui, ed in tanto sono beni, in quanto hanno ricevuto l’essere » (cap. XXXII, 35; col. 35).

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raie alla felicità, la supremazia ontologica di Dio lo pone

subito come oggetto unico ed esclusivo del nostro « frui », come fine ultimo, senza ulteriore riferibilità ad altro fine. Soltanto il Bene supremo e immutabile è per­ciò stesso bene-fine in senso pieno, capace di darci non una felicità, ma la felicità stessa.

Tra i nostri amori la preminenza spetta perciò al­l'amore verso Dio, l ’unico bene che debba essere fruito con un « frui » in senso stretto, in se stesso e per se stesso. D i D io dunque, e soltanto di Dio, si deve fruire: questa l ’asserzione continua di Agostino nel I libro del De doctr. Christ. ’

Q uest’obbligatoria fruizione del Bene sommo e im­

mutabile è sancita anche dal precetto evangelico della carità;2 la carità verso Dio in se stesso (e il prossimo per Iddio) costituisce anzi il fine cui tende quel precetto.3 Il cristiano Agostino non poteva tacerlo nella sua espo­sizione « de doctrina christiana ». Ma ancor prima di invocare esplicitamente quel precetto rivelato, di legge divina positiva, egli ripetutamente aveva insistito sull’ob­

bligatorietà ed esclusività del nostro fruire di Dio.4 Q ue­st’amore allora è obbligazione meramente positiva o è obbligo di natura, per Agostino?

Quel precetto positivo non fa che sanzionare un ob­bligo primordiale di natura, perché scaturente dall’eude­monismo connaturato al nostro essere. La nozione stessa di fruire riposa tutta su quella di felicità, ed Agostino

1. Cfr. i capp. V, 5; X, 10; XXII, 20-21; XXIII, 23; XXVII, 28; XXIX, 30; XXXI, 34; XXXIII, 37; XXXV, 39; 1. II, cap. V II , 10.

2. Cfr. capp. XXII, 21; XXVI, 27; XXX, 33; XXXV, 39;I. II, cap. V II , 10.

3. Cfr. capp. XXXV, 39; XXXVI, 41; XL, 44.4. Per persuadersene basta confrontare le referenze di nota

i con quelle di nota 2: il precetto evangelico cioè viene a confermare un’asserzione già ripetuta più volte in precedenza.

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non può iniziare a parlarci della prima senza correlarla ipso facto alla seconda:

Le cose dunque alcune sono da fruire, altre da usare. Quelle di cui fruire, ci fanno felici. Di queste da usare invece ci aiutiamo e quasi ce ne sosteniamo, tendendo alla beatitudine (tendentes ad beatitudinem adiuvamur, et qua­si adminiculamur) per giungere, e poter loro inerire, a quelle che ci fanno felici. Se poi noi..., vorremo fruire di ciò che dev’essere usato, impediamo il nostro cammino e talvolta lo deviamo così che, impediti dall’amore degli og­getti inferiori (inferiorum amore praepediti), siamo ritar­dati o revocati dall’ottenere ciò che dev’esser fruito.1

Noi tutti non siamo che dei « tendentes ad beatitu­dinem », degli esseri cioè inclinati al bene, ad ogni bene,

da un dinamismo profondo, radicantesi nella nostra stes­sa natura. Appunto perché capaci di tutto conoscere e di tutto amare, siamo sempre assetati di vero e di bene, mai

paghi dai veri e dai beni, oltre i quali continuiamo a tendere al bene. Questo viverci, questo percepirci in perpetua tensione al bene — e al bene posseduto, alla felicità — è dunque un percepirci inclinati, attratti non da questo o quel bene, ma dal bene stesso, sussistente perché Sommo e Immutabile. In Lui, solo nel possesso di Lui, troverà requie questo nostro eterno tendere, per­ché tendere al Bene eterno.

Fuori di Lui non avremo « la » felicità, ma delle felicità, transeunti e precarie come i beni che ce le offro­no. Fuori di Lui ci troveremo e vivremo sempre in via, sempre pellegrini, lontani dalla Patria, senza requie né pace: stornati dalle attrattive dei beni amabili, ■— attraen­ti appunto perché partecipi dell’Amabilità stessa, ossia del Bene sussistente e impartecipato — , siamo in rischio continuo di uscire di strada, fermandoci come a meta ultima a un bene non ultimo, perché non « il » Bene.

1. È il cap. I l i , 3, riferito integralmente sopra, p. 99.

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Pena di ciò è la miseria, la perdita cioè della felicità,

della beatitudine: il supremo male fisico, naturale. Con­temporaneamente però, nell’ordine etico, si avrà la su­prema violazione della natura delle cose, avendo noi ca­povolta la gerarchia ontologica elei valori, avendo amato di più ciò che doveva esserlo di meno, appunto perché inferiore (inferiorum amore praepediti); e di meno ciò che doveva essere amato sommamente di più, perché il Bene « Sommo ».

Non il solo testo citato, evidentemente, fonda ed autorizza, in tutta la sua ampiezza, l ’esegesi fattane; la fonda però se visto alla luce di tutto il I Libro, suo vi­tale contesto.

Il capitolo immediatamente seguente,1 infatti, con­clude lo stupendo paragonare questa vita ad un’unicagrande via verso la beatitudine della Patria, esplicitan­do che Patria nostra non è altri che l ’invisibile Iddio (invisibilia Dei), « l ’eterno e spirituale » (aeterna et spiritualia). Egli solo, quindi, potrà appagare l ’anima nostra fatta per l ’eternità, « cui vera est et certa sedes aeternitas », come dice altrove.2

Subito dopo si inizia col cap. V una grande sezio­ne su Dio (capp. V-X, 5-10), geniale sintesi degli attri­buti divini: risalta così in modo solare la supremazia onto­logica di Dio, l ’unico oggetto di fruizione. D io infatti è « summa res »; la causa « ex quo omnia, per quem

omnia, in quo omnia »; di lui è propria 1’« aeternitas » e 1’« incommutabilitas ».3 Pensando a questo suono di due sillabe, De-us, noi pensiamo una natura « excellen-

1. Cap. IV , 4; riferito sopra, p. 103 s.2. Cap. XXXVIII, 42; cfr. sopra nota 8, p. 129 (la si

rilegga).3. Cfr. cap. V, 5.

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tissimam immortalemque »;1 « aliquid quo nihil me­lius sit atque sublimius », preferibile a tutte le nature

visibili e corporali, anzi alle intelligibili e spirituali, per­ché tutte mutevoli. Comunque non si potrebbe trovare nessuno che creda essere Dio una cosa di cui se ne tro­vi un’altra migliore, ma tutti consentono nelPanteporre Dio a tutto il resto.2 Dio vive, ma non di una vita vegeta­tiva come gli alberi, sensitiva come gli animali, bensì intellettiva come gli uomini; non mutevole però come la nostra: vita immutabile d ’ordine intellettivo la sua, cioè la stessa Sapienza.3 Come tale è una realtà preferi­bile ad ogni altra, appunto come l ’immutabile dev’essere preferito al mutevole:4 di questa Verità appunto, che vive immutabilmente, si deve fruire.5

È dunque la stessa supremazia ontologica divina ad esigere verso di sé un amore adeguato, un fruire cioè scevro di qualsiasi « uti »: Agostino lo implica col fatto stesso di presentare soltanto Iddio sotto la categoria delle « res quibus fruendum est ».6 Nella sezione imme­diatamente seguente (capp. XI-XXI, 11-19) del resto si affretta sì ad aggiungere che il Dio uno e trino non riusciremmo mai a raggiungerlo con possesso fruitivo se

r. Cfr. cap. V I, 6.2. Cfr. cap. V II, 7 (col. 22): « Illi autem qui per intelli-

gentiam pergunt videre quod Deus est, omnibus eum naturis visibilibus et corporalibus, intelligibilibus etiam et spiritualibus, omnibus mutabilibus praeferunt. Omnes tamen certatim pro excel­lentia Dei dimicant; nec quisquam inveniri potest qui hoc Deum credat esse quo melius aliquid est. Itaque hoc omnes Deum consentiunt esse, quod caeteris rebus omnibus anteponunt

3. Cfr. cap. V III, 8.4. Cfr. cap. IX, 9.5. Cfr. cap. X, 10.6. Così appunto inizia Ia sezione su Dio ora esaminata:

« Res igitur quibus fruendum est, Pater et Filius et Spiritus Sanctus, eademque Trinitas...» (cap. V , 5; col. 21).

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I'-gli stesso, incarnandosi, non si facesse nostra Via (Dio infatti non è una cosa, ma il sommo Vivente: essere per­sonale che liberamente si dona, come persona a persona), togliendo l ’ostacolo del peccato ed istituendo nella Chie­sa i mezzi di redenzione. D i tutta quest’economia reden­trice però, anche se d ’origine divina — anzi perfino di Dio stesso, in quanto incarnato (è il Cristo-Via, del cap. XXXIV, 38)/ — dobbiamo solamente usare, il fruire essendo riservato, tra tutte queste cose, a quelle sole che sono eterne ed immutabili:

In his omnibus rebus (Dio e l ’economia redentrice) illae tantum sunt quibus fruendum est, quas aeternas atque incommutabiles commemoravimus (cioè le tre persone di­vine); caeteris (l’economia redentrice) autem utendum est, ut ad illam perfectionem pervenire possimus.2

D i nuovo cioè Agostino torna a motivare l ’obbligato­rietà dell’amore di Dio, fruizione unica ed esclusiva, con l’unicità ontologica conferitagli dalla sua natura stessa di Ente immutabile ed eterno; motivazione che ricorre molte altre volte nel I libro,3 e che pone Iddio come il termine ultimo del nostro tendere alla felicità.

1. Cfr. sopra, p. 10y, cfr. anche il cap. XXXV, 39, riferito a p. 106 s.

2. Cap. XXII, 20; col. 26.3. Che la supremazia ontologica di Dio, sia il motivo che

gli riserbi la nostra fruizione, oltre che dall’ultima citazione (nota prec.) e dal cap. X, 10 (nota 5, p. 149), risulta anche dal cap. XXII, 21: « Tunc est quippe optimus homo, cum tota vita sua pergit in incommutabilem vitam, et toto affectu inhaeret illi: si autem se propter se diligit, non se refert ad Deum; std ad seipsum conversus, non ad incommutabile aliquid convertitur. Et propterea iam cum defectu aliquo se fruitur; quia melior est cum totus haeret atque constringitur incoìnmutabili bono, quam cum inde vel ad seipsum relaxatur»; dal. cap. XXIII, 23: «sanitasautem animi est firmissime inhaerere potiori, hoc est incommu­tabili Deo »; dal cap. XXIX, 30: « ...quid nos in societate dilec-

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È dunque la natura stessa delle cose ad imporci, come imperativo etico supremo, di fruire unicamente di Dio: la natura stessa di Dio, Ente e Bene supremo, da una parte e, correlativamente, la nostra natura, inclinata al bene, dall’altra. Il precetto positivo cristiano della carità verso Dio non fa quindi che sanzionare il primo precetto dell’etica naturale, di quell’etica cioè che scaturisce dalla natura stessa delle cose, imponendo ad ogni natura di agire conformemente alla realtà delle cose, all’ordine naturale, alla gerarchia ontologica dei beni.

tionis Dei agere convenit, quo perfrui, beate vivere est; et a quo habent omnes qui eum diligunt, et quod sunt et quod eum diligunt; de quo nihil metuimus, ne cuiquam possit cognitus displicere; et qui se vult diligi, non ut sibi aliquid, sed ut eis qui diligunt, aeternum praemium conferatur, hoc est ipse quem, diligunt? (..). Ad quem si conversi fuerint, et illum tanquam beatificum bonum, et nos tanquam socios tanti boni necesse est ut diligant »; dal cap. XXXI, 34: « Omne enim bonum nostrum vel ipse, vel ab ipso est »; dal cap. XXXII, 35: « Quia enim bonus est sumus; et in quantumsumus boni sumus. (..) Ille enim summe ac primitus est, qui omnino incommutabilis est, et qui plenissime dicere potuit:' Ego sum qui sum ’ et ‘ Dices eis, Qui est, misit me ad vos Ut caetera quae sunt, et nisi ab illo esse non possint, et m tantum bona sunt, in quantum acceperunt ut sint, (..) Haec autem merces summa est ut ipso perfruamur »; dal cap. XXXIII, 37: « Illo enim frueris quo efficeris beatus (..): quod non faciendum est nisi in illa trinitate, id est summo et incommutabili bono »; dal cap. XXXIV, 38: « vinciente et tanquam agglutinante nos Spiritu sancto, quo An summo atque incommutabili bono perma­nere possimus »; dal cap. XXXVIII, 42: « Inter temporaliaquippe atque aeterna hoc interest, quod temporale aliquid plus diligitur antequam habeatur, vilescit autem cum advenerit; non enim satiat animam cui vera est et certa sedes aeternitas: aeternum (cioè Iddio) autem ardentius diligitur adeptum, quam desideratum: nulli enim desideranti conceditur plus de illo' existimare quam se habet, ut ei vilescat cum minus invenerit; sed quantum quisque veniens existimare potuerit, plus perveniens inventurus est ».

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C ’è un testo esplicito al riguardo, quello sull’ordine deontologico degli amori, corrispettivo esatto dell’ordine ontologico dei beni:

Quegli poi vive giustamente e santamente, che è spas­sionato estimatore della realtà (rerum integer aestimator): quegli cioè che ha un amore ordinato, sì da non amare ciò che non deve essere amato, o da non amare di più ciò che dev’essere amato di meno, o da non amare con egua­glianza ciò che dev’essere amato di meno o di più, o da non amare di meno o di più ciò che dev’essere amato con eguaglianza. Ogni peccatore, in quanto peccatore, non de­v’essere amato; ed ogni uomo, in quanto uomo, dev’essere amato per Iddio; Dio invece per se stesso. E se Dio deve essere amato più di ogni uomo, ognuno deve amare Dio più di se stesso. Parimenti gli altri uomini devono essere amati più del nostro corpo, poiché tutti questi esseri dobbiamo amarli per Iddio. Mentre però gli altri uomini possono fruire di Dio insieme con noi, non lo può il corpo; il corpo infatti è vivificato dall’anima, con la quale fruiamo di Dio.1

Con questa geniale sintesi Agostino non solamente conferma tanti altri passi implicanti anch’essi l ’ordine naturale come fondamento dell’obbligatorietà morale,2

1. « Ille autem iuste et sancte vivit, qui rerum integer aesti­mator est: ipse est autem qui ordinatam dilectionem habet, ne aut diligat quod non est diligendum, aut non diligat quod est diligendum, aut amplius diligat quod minus est diligendum, aut aeque diligat quod vel minus vel amplius diligendum est, aut minus vel amplius quod aeque diligendum est. Omnis peccator in quantum peccator est, non est diligendus; et omnis homo in quantum homo est, diligendus est propter Deum, Deus vero propter seipsum. Et si Deus omni homine amplius diligendus est, amplius quisque debet Deum diligere quam seipsum. Item amplius alius homo diligendus est quam corpus nostrum: quia propter Deum omnia ista diligenda sunt, et potest nobiscum alius homo Deo perfrui, quod non potest corpus; quia corpus per animam vivit qua fruimur Deo » (cap. XXVII, 28; coi. 29-30).

2. Oltre al cap. I l i , 3, già riferito (cfr. pp. 139 e 99). cfr. il cap. IV 4 (riferito sopra, p. 103 s.): data la nostra ten­denza alla felicità, Patria è solo Dio, il resto veicolo; e fruire del veicolo invece di usarne è « perversione » (perversa suavitate)

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ma estende esplicitamente la normatività dell’ontologico sul deontologico non solo al nostro amore verso Dio, bensì ad ogni nostro amore.1 Riconferma inoltre i dati etici acquisiti nel De div. quaest. 83: la virtù stessa infatti è data dall’esercizio ordinato dell’amore (« Ille

della natura delle cose, abuso (« nam usus illicitus, abusus potius vel abusio nominandus est »). I capp. VIII-IX, 8-9 poi ci ammo­niscono che riconoscere l ’immutabile (Dio) come migliore del mutabile è una «regula veritatis »; non vederla è cecità, vedeila e rifuggirne è pravità morale di uomini « posteriora atque inferiora sectantes, quam illud quod melius atque praestantius confitentur ». Infatti la cupidità è proprio un capovolgere l’ordine reale, fruendo della creatura invece del Creatore (« cupiditate fruendi pro ipso Creatore creatura»), come afferma il cap. XII, 12. Se allora soltanto siamo ottimi quando amiamo e aderiamo totalmente a Dio, vita immutabile, allontanandocene per volgerci a noi stessi «iam cum defectu aliquo» fruiamo di noi (cap. XXII, 21).

Che vi sia un precetto positivo circa l ’amore di Dio e del prossimo, non esclude affatto che esso sia già precetto di natura, ma mostra solo la convenienza del ribadire la « vera realtà (veritas) » delle cose nella sua integralità. Lo si deduce da quel « Quantumlibet enim homo excidat a veritate, remanet illi dilectio sui et dilectio corporis sui », che implica appunto che quel­la «veritas » da cui si può cadere è costituita nella sua totalità dall’obbligo naturale di amare Dio e il prossimo, ol­tre che da quello di amare noi stessi, obbligo di natura che non aveva bisogno di precetto positivo proprio perché parte che sempre « remanet », pur venendo noi meno dal resto (cap. XXIII, 22). Amare Dio sopra ogni cosa, sopra se stessi anzitutto, non è altro quindi che rispettare l’ordine naturale, restare nella norma, nella « sanità » morale, appunto perché nella natura; come del resto è pervertire l ’ordine naturale il voler dominare i « naturaliter » nostri pari: « sanitas autem animi est firmissime inhaerere potiori, hoc est incommutabili Deo. Cum vero etiam eis qui sibi naturaliter pares sunt, hoc est, hominibus, dominari affectat, intolerabilis omnino superbia est » (cap. XXIII, 23).

1. Così almeno in linea di diritto, con quella dialettica degli amori maggiori, minori, o di eguaglianza, conforme al grado del­l’oggetto amando. Il testo stesso però esemplifica di fatto rife­rendosi solo ad oggetti interpersonali, obbedendo anche qui alle esigenze del contesto, di cui non vuol essere che una digressione illustrativa, attenentesi sempre al doppio precetto evangelico (cfr. sopra, p. 97).

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milem insto et sancte vivit ... qui ordinatam dilectio- ucm habet... »); l ’etica agostiniana è cioè un’etica del­l ’amore.1 Etica razionale però, perché presuppone il di- scernimento normativo della retta ragione, che prescriva l ’ordine degli amori conformemente alla gerarchia dei beni (« Ille autem iuste et sancte vivit, qui rerum integer aestimator est: ipse est autem qui ordinatam dilectionem habet »).2 Etica razionale, ma oggettivistica, fondata sulla nozione di « partecipazione », giacché la ragione è norma a sua volta normata: contemplando senza pregiudizi, spas­sionatamente la realtà (« rerum integer aestimator »), essa promulga la diversa obbligatorietà degli amori in esatta corrispondenza con il loro grado di maggiore o minore partecipazione del Bene.3

Né manca qui un indizio rivelatore dell’antropocen- trismo dell’etica agostiniana,4 di quell’antropocentrismo che vede l ’uomo al vertice del creato, ma creatura an- ch’esso.5 L ’uomo infatti non riconosce nelle altre creature che inferiori od eguali a sé; si subordina però pienamente a chi gli è sopra, a Dio: « E se Dio dev’essere amato più

di ogni uomo, ognuno deve amare Dio più di se stesso ». Nel piano cioè più prossimo, immediato, tutto s’incentra nell’io; nel piano ultimo, totale, anche l ’io si sottomette a Colui di cui non è che immagine, la più alta. Una volta di più il teocentrismo6 dichiara il proprio predominio nell’etica di Agostino.

1. Cfr. sopra, cap. I l i , § III,2. Cfr. ivi, § IV.3. Cfr. ivi, § V.4. Cfr. ivi, § V I.5. « Magna enim quaedam res est homo, factus ad imaginem

et similitudinem Dei, non in quantum mortali corpore includitur, sed in quantum bestias rationalis animae honore praecedit » (cap. XXII, 20; coi. 26).

6. Cfr. sopra, cap. III ,S V II.

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L ’analisi sull’amore verso Dio nel « De doctr. christ. »

ha posto in piena luce tutta la centralità che l ’amore verso Dio ha tra gli amori umani, rivoli tutti d ’una me­desima corrente che non può avere altro sbocco che in Lui.1 Vertice ontologico, Dio non può non polarizzare verso di sé il dinamismo più profondo del nostro essere, quello eudemonistico: dalla natura di Dio, Ente supre­mo, e da quella dell’uomo, fatto per la felicità, scaturisce il supremo imperativo morale, quello della fruizione unica ed esclusiva di Dio. L ’ordine deontologico corri­sponde così a quello ontologico, ed il primo precetto evangelico ha trovato in Agostino il pensatore geniale che ha saputo assumere i dati filosofici dell’etica classica per farne il sostrato razionale della teologia cristiana.

D i Dio solo si deve fruire, usare di tutto il resto, dunque. L ’abbiamo già visto quanto all’aiuto stesso dato­ci da Dio con la redenzione, anzi col suo stesso incarnarsi; vediamolo ora riguardo agli altri « uti » dell’uomo, verso se stesso e il prossimo.2

1. « ... totam dilectionem sui et illius refert in illam dilec­tionem Dei, quae nullum a se rivulum duci extra patitur, cuius derivatione minuatur» (cap. XXII, 21; cfr, sopra, p. 110). An­cora: « ... Rullum rerum diligendarum genus in his duobus prae­ceptis praetermissum est. Cum enim praecurrat dilectio Dei, eiusque dilectionis modus praescriptus appareat, ita ut caetera in illum confluant... » (cap. XXVI, 27; coi. 29).

2. « ...caeteris autem utendum, ut ad illatum perfructionem (cioè delle realtà eterne, delle persone divine) pervenire possi­mus » (cap. XXII, 20). A dispetto del suo universalismo di diritto, la dialettica d’« uti » e « frui », non trova altra appli­cazione di fatto che nei soli dati rivelati: Dio e l’economia redentrice, noi stessi, il prossimo e gli angeli. Esattissima quin­di l ’osservazione di G . I s Tack al riguardo (o.c., p. 300).

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II. L ’amore verso noi stessi.

Non certo secondario è il molo giocato dall’uomo nell’amore verso Dio e l ’economia redentrice: ne è il soggetto fruente ed utente, rispettivamente. Agostino però, dopo aver trattato di ciò di cui l ’uomo deve fruire (Dio) ed usare (l’aiuto divino), volge esplicitamente la sua attenzione al soggetto stesso di tali obbligazioni amo­rose, chiedendosi quale ne sia il ruolo anche come ogget­to del suo proprio amore:

Ma noi pure che fruiamo ed usiamo delle altre cose, siamo deile cose (res aliquae). Gran cosa infatti è l’uomo, fatto ad immagine e somiglianza di Dio, non in quanto è racchiuso da un corpo mortale, ma in quanto precede le bestie per la dignità della sua anima razionale. E così è questione di grande importanza se gli uomini tra di loro debbano fruire o usare o tutt’e due le cose insieme. Ci è prescritto infatti di amarci a vicenda, ma ci si chiede se l ’uomo debba essere amato dall’uomo per se stesso o per altra cosa. Se dev’esserlo per se stesso, fruiamo di lui; se per altra cosa, ne usiamo. A me pare debba essere amato per altra cosa. Infatti è in ciò che deve essere amato per se stesso, che si colloca la felicità, di cui nel tempo presente ci consola la speranza, benché non ancora la realtà. Male­detto però chi ripone la sua speranza nell’uomo (Jerem. XVII, 5).1

i . « In his igitur omnibus rebus illae tantum sunt quibus fruendum est, quas aeternas atque incommutabiles commemo­ravimus; caeteris autem utendum est, ut ad illarum perfruc­tionem pervenire possimus. Nos itaque qui fruimur et utimur aliis rebus, res aliquae sumus. Magna enim quaedam res est homo, factus ad imaginem et similitudinem Dei, non in quantum mortali corpore includitur, sed in quantum bestias rationalis animae honore praecedit. Itaque magna quaestio est utrum frui se homines debeant, an uti, an utrumque. Praeceptum est enim nobis ut diligamus invicem; sed quaeritur utrum propter se homo ab homine diligendus sit, an propter aliud. Si enim propter se, fruimur eo; si propter aliud, utimur eo. Videtur autem mihi propter aliud diligendus. Quod enim propter se diligendum est, in eo constituitur vita beata; cuius etiamsi

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La risposta è ormai scontata: dell’uomo, l ’uomo non deve che usare. L ’unica felicità in senso pieno essendogli offerta dal Bene sommo, di questo solo fruirà, in ordine

ad esso amando — con « uti », quindi, e non con « frui » — ogni altro essere umano, se stesso anzitutto:

Ma nessuno deve fruire neppure di se stesso, a pen­sarci bene, giacché non deve amare se stesso per se stesso, ma per Colui di cui si deve fruire. Allora è ottimo l ’uomo, quando tutta la sua vita si dirige verso la vita immutabile, e vi inerisce con tutto l ’affetto; se invece ama sé per se stesso, non si riferisce a Dio, ma volgendosi a se stesso, si volge verso qualcosa che non è immutabile. In tal caso fruisce di sé con difetto, giacché è migliore quando tutto aderisce e si stringe al bene immutabile, che quando se ne scioglie sia pure verso se stesso. Se dunque devi amarti non per te stesso, ma per Colui in cui è il fine rettissimo del tuo amore, nessun uomo si sdegni, se anche lui tu ami per Iddio. Questa infatti è la regola dell’amore stabilita da Dio: « Amerai il tuo prossimo come te stesso; Dio invece con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente » (Levit. XIX, 18; Deut. VI, 5; e Matt. XXII, 37, 39); affin­ché tu dedichi tutti i pensieri, la vita e l ’intelligenza a Co­lui, da cui hai questi stessi beni che dedichi.1

nondum res tamen spes eius nos hoc tempore consolatur. Male­dictus autem qui spem suam ponit in homine (Jerem. X VII, 5) » (cap. XXII, 20; coi. 26).

1. « Sed nec seipso quisquam frui debet, si liquido advertas, quia nec seipsum debet propter seipsum diligere, sed propter illum quo fruendum est. Tunc est quippe optimus homo, cum tota vita sua pergit in incommutabilem vitam, et toto affectu inhaeret illi: si autem se propter se diligit, non se refert ad Deum; sed ad seipsum conversus, non ad incommutabile aliquid convertitur. Et propterea iam cum defectu aliquo se fruitur; quia melior est cum totus haeret atque constringitur incommu­tabili bono, quam cum inde vel ad seipsum relaxatur. Si ergo teipsum non propter te debes diligere, sed propter illum ubi dilectionis tuae rectissimus finis est, non succenseat alius homo, si etiam ipsum propter Deum diligis. Haec enim regula dilec­tionis divinitus constituta est: ‘Diliges’ , inquit, ‘proximumtuum sicut teipsum; Deum’ vero ‘ex toto corde, et ex tota anima et ex tota mente’; ut omnes cogitationes tuas et omnem

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È quindi anche qui l ’ordine ontologico a normare il retto amore di sé: essendo io un essere dipendente da Dio, da cui ricevo ciò che sono — la mia vita, la mia

intelligenza, i miei pensieri, — non debbo amarmi altro

che secondo la mia vera natura; come un relativo, quindi, e non come un assoluto; con un « uti » cioè e non con

un « frui », non amandomi per me stesso ma riferendomi a Dio, da cui sono e da cui partecipo quanto sono. Solo

bene da amarsi in modo assoluto, non relato ulteriormen­

te ad altro bene, è il Bene assoluto: Dio stesso. In Lui dobbiamo dirigere tutta la nostra vita, affinché essa non patisca difetto, non venga meno in perfezione ontologica

— e conseguentemente anche morale, — staccandosi da Colui in cui solo si trova il nostro ottimo, la nostra per­fezione. Con ogni rigore si può quindi affermare che:

sanità dell'animo è inerire fermissimamente al migliore, cioè alPimmutabile Iddio.1

Questo dunque, e soltanto questo, il vero amore di sé, il vero volere il proprio bene: ricevendo noi da Dio il nostro bene, la nostra « bonitas » ontologica, non pos­

siamo amarci veramente che aderendo con tutto l ’affetto a Colui da cui di continuo partecipiamo. Nessuna con­traddizione allora tra l ’amore autentico di sé e l ’amore

supremo verso Dio, quest’ultimo anzi essendo postulato necessariamente perché l ’uomo possa amarsi veramente

come è. Verso l ’Ente supremo da cui tutti partecipano,— pur in una distinzione ontologica infinita, quale inter­corre tra l ’Immutabile e i mutevoli (l’agostinianesimo, fi­losofìa della partecipazione, è tutto l ’opposto di un pan-

vitam et omnem inellectum in illum conferas, a quo habes ea ipsa quae confers» (cap. XXII, 21; col. 26-27).

1. « sanitas autem animi est firmissime inhaerere potiori, hoc est incommutabili Deo » (cap. XXIII, 23; col. 27).

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teismo!), — s’incanalano dunque necessariamente tutti gli amori: nessun partecipato può amarsi come tale, se

non amando con ciò stesso il partecipante. È la natura stessa della realtà, che lo comporta. L ’uomo, essere libe­ro, può però non riconoscere il senso stesso più profondo della sua naturale dinamica d ’amore,1 non percependo (per ignoranza) o non volendo percepire (per malizia) che amando sé, partecipazione, non ama in fondo altro che

Dio da cui partecipa; e che arrestandosi in se stesso come in fine ultimo, con tale intenzionalità amorosa per­verte l ’ordine delle cose, facendo del relativo (perché partecipato) un assoluto.

D ’altro canto, essendo noi il bene che di continuo è

presente a noi stessi — e la presenza del bene attrae, polarizza verso di sé — non possiamo non esserne at­tratti di continuo; non possiamo non tendere, inclinare di continuo verso noi stessi. È, questa, la stessa forza

centripeta di coesione che tiene uno in se stesso ogni essere, affinché non si disgreghi, ma persista nel proprio essere. Ogni essere possiede tale inclinazione, con la sua stessa natura: ogni natura ama se stessa. È un fatto, una

legge naturale imprescrittibile: è l ’ordine ontologico stesso, dinamicamente considerato. Quando però il grado ontologico di un essere lo dota di conoscenza, cioè di una presenza a se stesso non più meramente ontologica,

• ma psicologica (lo psicologico è l ’esistere stesso dell’ente

spirituale, consapevole, autocosciente), ecco allora che anche lo spontaneo amarsi, l ’inclinare centripeto verso di

sé, diventa un conscio amarsi, un’inclinazione che segue il conoscere, un’intenzionalità non più soltanto ontolo­

gica, ma psicologica.

i. « ...illu c rapiatur, quo (verso Dio) totus dilectionis im­petus currit » (cap. XXII, 21; col. 27).

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Si potrà allora avere nell’ente personale e libero, co­noscente e cosciente, un qualcosa che non potrà mai veri­ficarsi negli esseri inferiori, dal minerale al vegetale

all’animale: mentre in questi la tendenza verso di sé, fatto naturale, sarà sempre e totalmente secondo natura, nell’uomo invece la tendenza centripeta, — che continue­

rà sempre ad esserci, e ad essere secondo natura per quello che è dinamismo spontaneo, prescindente dall’intenzio­nalità consapevole e libera, — proprio in quest’ultimo aspetto potrà essere ora secondo natura, ora contro na­tura. N ell’amor proprio umano cioè, si potrà verificare il disordine, il male morale, la perversione dall’ordine retto: la si avrà appunto quando la nostra intenzionalità libera non accettando di riconoscersi partecipato, farà di noi stessi un fine, un assoluto, oggetto di fruizione e non di uso, non relato a Colui cui siamo ontologicamente relativi, in viva continua partecipazione.

Con una terminologia (intenzionalità ontologica e psicologica libera) che non è di Agostino abbiamo appro­fondito implicazioni e virtualità certamente agostiniane: difendendo l ’universalità di contenuto del doppio pre­cetto evangelico, riferentesi esplicitamente solo all’amare Dio e il prossimo, egli pone infatti tutto un seguito di osservazioni al riguardo:

Quattro essendo dunque le cose che devono essere amate, una che è sopra di noi [Dio], la seconda che siamo noi, la terza che è accanto a noi [il prossimo], la quarta che è sotto di noi [il nostro corpo], riguardo alla seconda ed alla quarta non c’era bisogno di alcun precetto. Per quanto infatti l ’uomo cada dalla verità, gli resta l’amore di sé e del proprio corpo. Chè lo spirito (animus) fuggia­sco dalla luce immutabile che regna su tutto, lo fa per regnare su se stesso e sul proprio corpo: perciò non può non amare e sé e il proprio corpo.1

i. Cap. XXIII, 22; col. 27.

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Proseguendo, Agostino precisa che un tale amore di sé è più esatto dirlo un odiarsi, disordine che produrrà altro disordine. Il non amare rettamente l ’altro da sé, riconoscendone la superiorità (Dio) o l ’eguaglianza (il prossimo) nei nostri riguardi, è un indebolire la nostra stessa interiorità. Distrutta infatti la rettitudine della

volontà verso l ’esterno, essa verrà meno anche nell’inter­no — la rettitudine, « la sanità dell’animo » o c ’è o non c’è,— e in noi la sfera superiore non riuscirà più a man­tenersi sovrana della sfera corporea inferiore:

(L’uomo) ritiene d’altronde d’aver acquistato gran cosa, se riuscirà a dominare sui suoi compagni, cioè sugli altri uomini. È insito infatti nell’animo vizioso di appetire di più e di rivendicare come suo, ciò che propriamente è dovuto a Dio solo. Un tale amore però è meglio dirlo odio. Ingiusto d’altro canto pretendere che gli serva l ’inferiore [il corpo], quando egli non vuole servire al superiore [Dio]; con piena ragione è stato detto allora: «Chi ama l’iniquità, odia la propria anima » (Psal. X, 6). Per questo l’animo inferma e viene tormentato dal suo corpo mortale: è necessità infatti che l’ami e venga aggravato dalla di lui corruzione. L ’immortalità infatti e l ’incorruzione del corpo deriva dalla sanità dell’animo, sanità che consiste nell’ìne- rire fermissimamente al migliore, cioè all’immutabile Iddio. Del resto quando esso (l’animo) desidera dominare su co­loro che naturalmente gli sono uguali, cioè sugli uomini, questa è intollerabile superbia.1

In noi, dunque, resta sempre un qualche amore di noi stessi, anche se errato nel modo; nessuno cioè si odia mai con una intenzionalità che voglia il proprio male totale, sotto tutti gli aspetti, la propria distruzione in quanto tale. Eppure il tragico dell’amor proprio disordinato è proprio qui, e Agostino l ’ha appena finito di dimostrare: il volersi bene staccandosi da Dio, fuggiaschi dalla Luce

1. Cap. XXIII, 23; col. 27.

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per essere a se stessi la propria luce, è un vero distrug­

gersi intenzionale perché, staccata da Colui di cui parteci­pa, la partecipazione, il partecipato più non è, né più possiede il bene, la felicità. D io allora, per aiutare la

povera umanità vittima così spesso della propria igno­ranza e della propria malizia, ha promulgato per rivela­

zione quel doppio precetto d ’amore che, essendo piena­mente naturale, potrebbe e dovrebbe essere da noi cono­sciuto con la sola ragione. Ipso facto che ci viene pre­scritto che (e come) dobbiamo amare Dio e il prossi­mo, ci viene anche prescritto il modo vero di amare noi stessi, ridimensionando verticalmente ed orizzontal­

mente l ’autentico amore dell’io: con tutto me stesso ame­rò Dio, gli altri come me stesso. Non resta così in me inclinazione alcuna che possa finalizzarsi ultimamente in me: con tutto me amo Dio; né fuori di me se non in Dio: gli altri li amo come me, trascinandoli in quest’unica grande corrente d’amore verso il comune fine ultimo, Dio. La carità verso il prossimo e Dio, si configura così come

un implicito prescriverci anche il vero amore di sé, il modo autentico di volere il nostro bene, « modo » che è insieme la piena realtà del « fatto » di amarci, rivela­

toci nella totale sua integralità:

Nessuno dunque si odia: su ciò non c’è mai stata questione con setta alcuna. Ma neppure alcuno odia il pro­prio corpo, essendo vero il detto dell’Apostolo « Nessuno mai ebbe in odio la propria carne » (Ephes. V, 29)...'

A ll’uomo perciò deve essere prescritto il modo di ama­re, ossia come amarsi per giovare a se stesso; dubitare, in­fatti che ami se stesso e voglia giovarsi, è da pazzi. Deve essergli prescritto anche come amare il suo corpo, affinché

1. « Nemo ergo se odit. Et hinc quidem nulla cum aliqua secta quaestio fuit. Sed ncque corpus suum quisquam odit: verum est enim quod ait Apostolus, ‘Nemo unquam carnem suam odio habuit’ (Ephes. V, 29) » (cap. XXIV, 24; coi. 27-28).

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provveda ad esso ordinatamente e prudentemente; giacché è parimenti evidente che ami anche il proprio corpo e lo voglia sano ed integro. Del resto taluno può amare qual­cosa più che la salute e l ’integrità del proprio corpo, poi­ché si trovano molti che hanno sopportato dolori e mu­tilazioni volontarie di qualche membro, per conseguire al­tri beni che amavano di più. Per il fatto stesso però che uno ami di più qualche altra cosa, non si deve dire che non ami la salute e l ’integrità del proprio corpo. Infatti anche l ’avaro, benché ami il denaro, tuttavia si compra il pane; facendolo dà via il denaro che ama molto e che desi­dera accrescere, ma (lo fa) perché stima di più la salute del proprio corpo, sostenuta da quel pane. Superfluo d’al­tronde discutere ancora di un fatto evidentissimo, al che tuttavia ci costringe l ’errore degli empi.1

i. « Modus ergo diligendi praecipiendus est homini, id est, quomodo se diligat ut prosit sibi. Quin autem se diligat et prodesse sibi velit, dubitare dementis est. Praecipiendum etiam quomodo corpus suum diligat, ut ei ordinate prudenterque con­sulat. Nam quod diligat etiam corpus suum, idque salvum habere atque integrum velit, aeque manifestum est (...). Supervacaneum est diutius de re manifestissima disputare, quod tamen plerumque nos facere cogit error impiorum » (cap. XXV, 26; coi. 28-29).

Come però c’è un vero e un falso amor proprio, così c’è un vero e un falso amore del proprio corpo: criterio distintivo è anche qui l ’ordine naturale, esigente la sottomissione dell’infe­riore — il corpo — , al superiore — l’anima, e non la distru­zione deU’inferiore, del corpo stesso. Tale criterio Agostino aveva esposto nel passo tralasciato, tra le due ultime citazioni; eccolo, benché non integralmente: « V i sono taluni che concontinenza e fatiche sembrano quasi perseguitare il proprio cor­po; ma coloro che lo fanno rettamente, non lo fanno per non avere il corpo, bensì per averlo sottomesso e pronto alle opere necessarie. Con una specie di faticoso combattimento contro il proprio corpo, essi desiderano estinguerne le libidini che usano male del corpo stesso, cioè le consuetudini e le inclinazioni dell’anima a fruire deU’inferiore. Così non distruggono se stessi, ma hanno cura della propria salute» (cap. XXIV, 24; col. 28). « Quelli invece che lo fanno in modo perverso, fanno guerra al loro corpo quasi ad un loro naturai nemico. In questo li inganna ciò che leggono: ‘La carne concupisce contro lo spirito e lo spirito contro la carne; queste cose infatti si avversano a vicenda’. (Galat. V, 17). Ciò però è stato detto a causa dell’indo­mata consuetudine carnale, contro cui concupisce lo spirito, non

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Insomma, poiché non c ’è bisogno di precetto affinché ognuno ami sé e il proprio corpo, poiché cioè quanto noi siamo e quanto è sotto di noi, e purtuttavia ci appartiene [il nostro corp o], lo amiamo per inconcussa legge di na­tura che è stata prom ulgata anche per le bestie (anche le bestie infatti amano sé e il proprio corpo); ci restava solo di avere il precetto quanto a ciò che è sopra di noi e quanto a ciò che è accanto a noi. « Am erai il Signore D io tuo con tutto il tuo cuore, — esso dice — , con tutta la tua anima e con tutta la tua mente; e amerai il tuo pros­simo come te stesso. In questi due precetti è compresa tut­ta la Legge e i Profeti » (M att. X X II, 37-40). Fine dunque del precetto è la carità (I Tim . 1,5), e questa duplice: verso Dio cioè e verso il prossimo. Che se tu ti consideri total­mente, ossia animo e corpo, e totalmente anche il pros­simo, ossia animo e corpo ( l ’uom o infatti consta d ’animo e corpo), con questi due precetti non è stato trascurato nes­sun genere delle cose da amare. Precedendo infatti l ’amore verso D io, e apparendoci prescritto il modo di amarlo, co­sicché tutto il resto confluisca in quello, sembra che non sia stato detto nulla quanto all’amore di te; ma quando è detto « Am erai il tuo prossimo come te stesso », non è stato trascurato insieme l ’amore di te per te stesso.’

per distruggere il corpo, ma affinché, domatane la concupiscenza, cioè la consuetudine cattiva, lo si assoggetti allo spirito, come richiede l’ordine naturale (quod naturalis ordo desiderat), Giac­ché poi dopo la resurrezione il corpo immortale vivrà totalmente soggetto, in quiete somma, allo spirito, ciò si pratichi anche in questa vita, affinché la consuetudine carnale si muti in me­glio, e non resista allo spirito coi suoi moti disordinati. Finché ciò non avverrà, la carne concupisce contro lo spirito, e lo spirito contro la carne; ma lo spirito non resiste (al corpo) a motivo d’odio, ma della propria supremazia (non per odium..., sed per principatum), giacché preferisce che l’amato sia soggetto al mi­gliore » (cap. XXIV, 25; col. 28). L ’amore ordinato del proprio corpo dunque, ne ama sì la sanità e l’integrità fisica, ma ne mortifica gli appetiti disordinati. È quindi odio solo apparente; odio reale è invece l ’amore disordinato di coloro che acconten­tano sempre il proprio corpo, anche nel suo' ribellarsi allo spirito.

1. « Ergo, quoniam praecepto non opus est ut se quisque et corpus suum diligat, id est, quoniam id quod sumus, et id quod infra nos est, ad nos tamen pertinet, inconcussa naturae lege diligimus, quae in bestias etiam promulgata est (nam et bestiae

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A conferma di questi testi e, insieme, della nostra esegesi, miglior commento non si potrebbe addurre che quello di Agostino in un Sermone al popolo:

D ue sono dunque i precetti, tre tuttavia gii oggetti da amare. D ue precetti [ t i] sono stati dati: ama D io e ama il prossimo; tre oggetti da amare vedo tuttavia. In fatti non Lti] sarebbe detto, « e il prossimo come te stesso» (M t. 22,39), se tu non amassi anche te stesso. Perché dunque se tre sono gli oggetti da amare, i precetti sono due? Per­ché? Ascoltate. D io non stimò dovertisi ammonire di ama­re te stesso: non c ’è alcuno infatti che non si ami. Ma poiché m olti amandosi male perdono se stessi, col dirti di amare D io con tutto te stesso ti è stata data la regola di come amare te stesso. Vuoi amarti? Ama Dio con tutto te\ in Lui infatti troverai te, per non perdere te in te stesso. Se ami te in te stesso, cadrai anche da te e cerche­rai molte cose oltre te. Per questo l ’Apostolo ha fatto deri­vare tutti i mali di lì: « vi saranno uom ini amanti di sé » (II T im . 3,2). Ecco, hai scelto di amare te: vediam o se resti ancora in te. Falso, non ci resti: caduto da D io, cadi anche da te. Iv i è il tuo sostegno: lì avresti dovuto aderire, fartene luogo fortificato e casa di rifugio. Invece hai sciolto il vincolo d ell’amore di te, o lo hai strappato da L u i a te: non resti neppure in te. A scolta infine l ’apostolo; dopo aver detto « v i saranno uom ini amanti di sé », soggiunge subito: « amatori del denaro ». Non ti avevo detto che non

se atque corpora sua diligunt); restabat ut et de illo quod supra nos est, et de ilio quod iuxta nos est, praecepta sumeremus. ‘Diliges’, inquit, ‘Dominum Deum tuum ex toto corde tuo, et ex tota anima tua, et ex tota mente tua, et diliges proximum tuum tanquam teipsum. In his duobus praeceptis tota Lex pendet et Prophetae’ (Mt. XXII, 37-40). Finis itaque praecepti est dilectio (I Tim. I, 5), et ea genuina, id est Dei et proximi. Quod si te totum intelligas, id est animum et corpus tuum, et proximum totum, id est animum et corpus eius (homo enim ex animo constat et corpore), nullum rerum diligendarum genus in his duobus praeceptis praetermissum est. Cum enim praecurrat dilectio Dei, eiusque dilectionis modus praescriptus appareat, ita ut caetera in illum confluant, de dilectione tua nihil dictum videtur; sed cum dictum est, ‘Diliges proximum tuum tanquam teipsum’, simul et tui abs te dilectio non praetermissa est » (cap. XXVI, 27; coi. 29).

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saresti rimasto neppure in te? Forse che il denaro sei tu? Ecco, sei perito anche da te, tu che ti sei allontanato da Dio. Che ti resta se non di dissipare tutto il patrim onio della tua mente, vivendo da prodigo con le meretrici, cioè con le libidini e con le varie cupidità, si da essere costret­to dall’indigenza a pascere i porci, ossia, una volta posse­duto d a ll’immonda avarizia, che di te si pascano immondi demoni? M a quel figlio (il prodigo), patendo la miseria e contrito dalla fame, « rientrato in se stesso disse » (Le. 15-17) — rientrato in sé, giacché era perito da sé, e si era trovato povero in se stesso; dovunque aveva cercato la fe­licità, e in nessun luogo l ’aveva trovata, — rientrato in se stesso che disse? « M i alzerò e andrò ». D ove andrò? « D al padre » (ivi, 18) (...). T i è stata stabilita dunque la regoladì come amarti-, ama il migliore di te, e troverai te stesso.Il m igliore dico per natura, non per volontà. M olti uo­mini in fatti v i sono m igliori di te per volontà, ma Iddio solo per natura: creatore, costitutore, fattore non fatto da alcuno. Iv i fissa te stesso. Com prendi una buona volta e dì: « P e r me p o i» . Per te poi, che cosa? (...) « P e r m e poi è bene l ’aderire a D io » (Ps. 72,28), cioè non forni­care da D io, non toglierm i via da D io. V u o i vedere che cosa ti è promesso in questo? « C h i poi aderisce a D io è uno spirito solo » (I Cor. 6 ,17). Questo è dunque l ’amoretuo 0 amore di te, l ’amore cioè con cui ti ami per amareDio.1

1. « Duo sunt ergo praecepta; tamen tria sunt diligenda. (...) Non iudkavit deus monendum te, ut diligas te: nemo est enim, qui non diligat se. Sed quoniam multi male se diligendo perdunt se, dicendo tibi ut diligas deum ex toto te, ibi dbi data est regula quemadmodum diligas te. Vis diligere te? Dilige deum ex toto te: ibi enim invenies te, ne in te perdas te. Si te in te diligis, casurus es et a te, et multa quaesiturus es praeter te. (...) Ecce elegisti amare te: videamus si remanes vel in te. Falsum est, non ibi remanes: a deo lapsus, et abs te laberis. (...) Ergo constituta est tibi regula, quaemadmodum te diligas: dilige meliorem te et dilexisti te. Sed meliorem dico natura, non voluntate. Multi enim homines inveniuntur meliores te voluntate, sed solus deus natura: creator, institutor, factor a nullo factus. Ibi te fige (...). Haec est ergo dilectio tua vel dilectio tui, id est, dilectio qua te diligis, ut deum diligas ». (Sermo Wilntart II, 4; in Miscellanea Agostiniana, Vol. I: S. Au­gustini sermones post Maurinos reperti, Roma 1930, pp. 676-677).

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Si dissolve così pienamente, sotto la penna eli Ago­stino, l ’apparente antinomia tra l ’amore di Dio e quello dell’io. Io non posso amarmi veramente, se non amando­mi « in Dio », amandomi cioè come realmente sono:

viva, continua partecipazione da Dio; partecipazione che è niente « in sé », da sé sola, ma è tutta totalmente da Lui. Se mi arresto in me stesso, perdo la felicità; se amo Dio per se stesso, amo anche me in Lui. In quest’unica grande corrente d ’amore sboccante in Dio, non posso amare Lui, senza anche amare me stesso: « Questo è dunque l ’amore tuo o amore di te, l ’amore cioè con cui ti ami per amare Dio ». Con una intenzionalità polariz- zantesi in Dio, come in fine ultimo, intendo anche il mio bene, me stesso, come fine intermedio e viale: tale la mia natura ontologica di partecipato — e relativo quin­

di, — tale la retta psicologia, l ’ordine intenzionale essen­do normato da quello ontologico.

Nuova luce acquistano allora tutti quei testi che defi­niscono l ’amore obbligatorio nostro verso Dio come un « frui », sotto l ’aspetto intenzionale, ed ogni altro amore— verso me e il prossimo anzitutto — come un « uti ». Questo è l ’amore vero, la carità; cupidità il contrario:

...Dio deve essere amato per Iddio, e il prossimo per Iddio (...), cioè che tutto l’amore del prossimo, come anche di noi stessi, venga riferito a Dio.1

Chiamo carità il moto dell’animo a fruire di Dio per se stesso, e di sé e del prossimo per Iddio; cupidità invece, il moto delPanimo a fruire di sé, del prossimo e di qualsiasi corpo non per Iddio (...). Quanto più poi si distrugge il regno della cupidità, tanto più cresce quello della carità.2

1. «...diligendum esse Deum propter Deum, et proximum propter Deum (...), id est, ut tota proximi, sicut etiam nostri, dilectio referatur in Deum » (1. II, cap. V II, 10; coi, 39).

2. « Caritatem voco motum animi ad fruendum Deo propter ipsum, et se atque proximo propter Deum: cupiditatem autem,

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Così, rovesciata la tirannide della cupidità, regna la carità con le leggi giustissime d e ll’amore di D io per Iddio, di sé e del prossimo per Iddio.1

Nello stesso totale disinteresse intenzionale che ri­

serva la fruizione esclusivamente a Dio, si trova anche il nostro pieno interesse ontologico (cfr. § prec.). Perden­

doci in Dio, non possiamo non ritrovarci:

Similmente quando il Signore dice « C hi ama la sua anima, la perderà» (jo . X II, 2 5 ) ,'n o n si deve ritenere che vieti l ’utilità, con cui ognuno deve conservare la pro­pria anima. « Perda l ’anima » è detto in senso figurato: cioè perda e lasci l ’uso che attualmente ne fa, perverso ed a rovescio, che lo inclina ai beni temporali sì che non cer­chi gli eterni.2

III . L'amore verso il prossimo.

Oltre Dio e noi stessi, l ’amore umano interpersonale

ha per oggetto anche il nostro prossimo: così esige il precetto evangelico della carità, che ancora una volta non fa che proclamare un imperativo di etica naturale.

Sull’amore del prossimo, il punto di partenza nel « De doct. christ. » è, né potrebbe essere altrimenti, il

motum animi ad fruendum se et proximo et quolibet corpore non propter Deum (...). Quanto autem magis regnum cupiditatis destruitur, tanto caritatis augetur » (1. III, cap. X, 16; coi. 72).

1. « Sic eversa tyrannide cupiditatis, caritas regnat iustis- simis legibus dilectionis Dei propter Deum, sui et proximi propter Deum » (ivi, cap. XV, 23; coi. 74).

2. « Item cum ait Dominus, ‘Qui amat animam suam, perdet eam’ (Jo. XII, 25), non utilitatem vetare putandus est, qua debet quisque conservare animam suam; sed figurate dictum, ‘perdat animam’ id est, perimat atque amittat usum eius quem nunc habet, perversum scilicet atque praeposterum, quo incli­natur temporalibus, ut aeterna non quaerat » (ivi, cap. XVI, 24; coi. 75).

160

fatto della legge evangelica che impone ad ognuno di

amare il suo prossimo come se stesso:1 studiandone i

motivi e ritrovandoli nella nostra eguaglianza naturale, che ci fa tutti capaci di fruire di Dio, consociandoci così

in questa mirabile « società d ’amore — in societate dilec­tionis Dei »,z Agostino dimostra implicitamente essere la carità del prossimo un'obbligazione derivante dalla natura stessa dell’uomo.

« Gran cosa è l ’uomo, fatto ad immagine e somiglian­za di Dio ... per la dignità della sua anima razionale », esclama Agostino, cominciando a chiedersi come l ’uomo, fin lì considerato solo come soggetto d ’amore (verso Dio e l ’economia redentrice), sia a sua volta oggetto del no­stro reciproco amore:

E così è questione di grande importanza se gli uomini tra di loro debbano fruire o usare o tu tt’e due le cose in­sieme. C i è prescritto infatti di amarci a vicenda...3.

Se una questione sarà da porre non sarà certo sull’esi­

stenza o meno di tale obbligazione, ma solo sul modo di amarci: simili a Dio, oggetto supremo del nostro amore, noi non possiamo non essere a nostra volta ogget­to d ’amore. La nostra altissima dignità ontologica di viva « immagine e somiglianza » di Dio, perché partecipi di vita intellettuale, ci pone come beni, valori elevatissimi

in noi stessi, e conseguentemente come oggetto amabile e amando in modo adeguato a tale sublime partecipare l’amabilità di Dio.

1. «Diliges proximum tuum sicut teipsum» (Mt. XXII, 39): più volte Agostino riferisce questo passo evangelico, o si richiama esplicitamente all’esistenza di tale precetto. Cfr. capi­toli XXII, 20 e 21; XXIII, 22; XXVI, 27; XXX, 32; 1 II, c. V II, 10.

2. Cfr. cap. XXIX, 30.3. Cfr. cap. XXII, 20; riferito sopra, p. 148.

1611 1

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Capaci di tutto conoscere ed amare, inquieti sempre e

infelici se non nel possesso del Bene stesso, di Dio, noi non potremo certamente amarci come fine ultimo, che frustreremmo il nostro dinamismo più profondo:

...ci si chiede se l ’uomo debba essere amato dall’uomo per se stesso o per altra cosa. Se dev’esserlo per se stesso, fruia­mo di lui, se per altra cosa, ne usiamo. A me pare debba es­sere amato per altra cosa. Infatti è in ciò che deve essere amato per se stesso che si colloca la felicità.1

Come allora questa radicale nostra esigenza eudemoni­

stica ci impedisce di fermarci in noi stessi, pena l ’infeli­cità, la perdita del « bene immutabile », così ci impedisce

di fermarci in coloro che, simili a noi, non possono perciò

saziarci neanch’essi:

Se dunque devi amarti non per te stesso, ma per Colui in cui è il fine rettissimo del tuo amore, nessun uomo si sdegni, se anche lui tu ami per Iddio.

Poste queste necessarie premesse scaturenti dall’ordine

stesso di natura, Agostino può subito citare quella « re­gola stabilita da Dio », di cui ha ormai fondata la razio­nalità: « Amerai il tuo prossimo come te stesso; Dio

invece con tutto il cuore... ».2L ’ordine ontologico quindi, col porre sopra ed accan­

to a me degli esseri superiori rispettivamente ed eguali

a me, Dio cioè e il mio prossimo, norma ancora una volta l ’ordine deontologico:

Quattro essendo dunque le cose che devono essere ama­te, una che è sopra di noi [Dio], la seconda che siamo noi, la terza che è accanto a noi [tertium quod iuxta nos est; il prossimo], la quarta che è sotto di noi [il nostro corpo], riguardo alla seconda e alla quarta non c’era bisogno di alcun

1. Ivi.2. Cfr. cap. XXII, 21; riferito sopra, p. 149.

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precetto.1 Ergo, poiché non c’è bisogno di precetto affinché ognuno ami sé e il proprio corpo, (...); ci restava solo di avere il precetto quanto a ciò che è sopra di noi e quanto a ciò che è accanto a noi (et de ilio quod iuxta nos est). Diliges... Dominum Deum tuum... et diliges proximum tan­quam teipsum.2

Amando dunque Dio, che è sopra di noi, con tutto noi stessi — con il nostro amore più alto, aedguato alla sua unicità ontologica, — e il prossimo nostro « come »

noi — con un’eguaglianza amorosa, esattamente rispon­dente alla nostra eguaglianza ontologica, — il nostro amore resta nella rettitudine sia verticalmente che oriz­zontalmente, sia verso il « summe ac primitus » Bene,3 sia verso i beni « naturaliter pares » 4 nostri. Si applica così anche al nostro eguale la retta ordinazione degli amori, sintetizzata in un passo già esaminato:

Quegli poi vive giustamente e santamente, che è spassio­nato estimatore della realtà: quegli cioè che ha un amore ordinato, sì da (...) non amare di meno o di più ciò che dev’essere amato con eguaglianza. Ogni peccatore in quanto peccatore, non dev’essere amato; ed ogni uomo, in quanto uomo, dev’essere amato per Iddio; (...). Parimenti gli altri uomini devono, essere amati più del nostro corpo, poiché tutti questi esseri dobbiamo amarli per Iddio. Mentre però gli altri uomini possono fruire di Dio insieme con noi, nonlo può il corpo; il corpo infatti è vivificato dall’anima, con la quale fruiamo di Dio.5

D ’altronde è proprio questa eguaglianza di natura ad associarci su piano di parità nella nostra relazione verso Dio, comune oggetto della nostra fruizione: « eademquè trinitas, una quaedam summa res, communisque omnibus

1. Cap. XXIII, 22; riferito sopra, p. 152.2 ;'Cap. XXVI, 27; riferito sopra, p. 156.3. Cfr. cap. XXXII, 35.4. Cfr. cap. XXIII, 23; riferito sopra, p. 153.5. Cap. XXVII, 28; riferito sopra; p. 144.

163

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fruentibus ea ».! Tale consocialità in uno stesso fine ulti­

mo, cui tutti parimente tendiamo, norma immediatamente

anche il nostro reciproco amore, il nostro scambievole volerci bene: che altro bene volerci, infatti, se non il nostro ultimo perfezionamento, l ’appagamento stesso del­l ’anelito più essenziale del nostro io, nel possesso fruitivo di Dio, nostra comune felicità? Voler bene agli altri, non

sarà quindi altro che un cooperare al loro tendere verso Dio: aiutandoli a raggiungerlo se in via; riistradandoli verso di Lui se sviati; riposandoli in noi, se stanchi, ma perché rifocillati riprendano con più lena il cammino verso la Patria; evitando ad ogni costo il desiderio per­

verso (proprio della superbia) di voler porre noi stessi a loro ultimo fine. I l peccatore, in quanto tale si è allon­tanato da Dio, perdendo irrimediabilmente la felicità: amarlo come tale non sarebbe che volerne l ’infelicità;

odiarne il peccato è un riportarlo a Dio, un riavviarlo

alla sua felicità.L ’eudemonismo, il desiderio di Dio, è la nostra stessa

struttura ontologica dinamicamente considerata: da que­sta deriva, quindi, la deontologia naturale non solo del

nostro amare Dio e noi stessi, ma anche del nostro amare il prossimo. La sua natura, spirituale e intellettuale come la nostra, lo rende capace di fruire di Dio: gli uomini

infatti non sono solo corporei, ma dotati di anima « con la quale fruiscono di Dio ».2 Questo fatto associa subito il prossimo — uomo e angelo (sicuti est homo vel angelus) -— a noi, nell’unico orientamento verso Dio: « nobiscum societate quadam referuntur in Deum ».3

1. Cap. V, 5; col. 21.2. Citato or ora, nota 2, p. 163.3. Cap. XXIII, 22; col. 27. Cfr. anche cap. XXXV, 39:

« Legis et omnium divinarum Scripturarum plenitudo et finis esse dilectio lei qua fruendum est (Iddio), et rei quae nobiscum ea re frui potest (il prossimo) ».

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Staticamente come noi, « iuxta nos », gli uomini sono

conseguentemente nostri eguali anche dinamicamente: « con una certa consocialità si riferiscono a Dio insieme

con noi ». Dal fatto, Agostino deriva subito la norma del reciproco comportamento:

Chiunque ami rettamente il suo prossimo, deve compor­tarsi con lui in modo che anch’esso ami Dio con tutto il suo cuore, con tutta l ’anima. Amandolo come se stesso, egli rife­risce così tutto l ’amore di se stesso e di lui (del prossimo) a quell’amore di Dio, che non sopporta si storni da sé alcun rivolo, la cui deviazione lo sminuirebbe.1

O ancor più concisamente ed esplicitamente:

Dobbiamo volere tuttavia che tutti amino Dio insieme con noi, e la totalità dell’aiuto che noi rechiamo loro, o che essi ci rechino, deve essere riferita a quell’unico fine.2

Tutto il nostro reciproco volerci bene si riduce così all’aver « scambievolmente misericordia di noi, affinché possiamo fruire di Lui ».3

A questo reciproco aiuto in vista della comune felicità, si riduce dunque ogni forma concreta di amore fraterno. Per sottolineare e imprimere meglio questa sua nuova intuizione, Agostino usa un’altra stupenda immagine de­sunta da quanto avviene talora agli entusiasti di un attore teatrale:

Tra tutti coloro poi che possono fruire di Dio insieme con noi, parte ne amiamo che aiutiamo noi stessi, parte da cui siamo aiutati, parte del cui aiuto abbisognamo noi e che insieme aiutiamo a nostra volta nel loro abbisognare, parte a cui né noi atrechiamo alcun vantaggio, né ci attendiamo

1. Cap. XXII, 21; riferito sopra, p. 109 s.2. « Velle tamen debemus ut omnes nobiscum diligant

Deum, et totum quod vel eos adiuvamus vel adiuvamur ab eis, ad unum illum finem referendum est » (cap. XXIX, 30; coi. 30).

3. « nos vero invicem nostri miseremur, ut illo perfruamur » (cap. XXX, 33; coi. 32).

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ce lo arrechino essi. Dobbiamo volere tuttavia che tutti amino Dio insieme con noi, e la totalità dell’aiuto che noi rechiamo loro o che essi ci rechino, dev’essere riferita a quell’unico fine. Se allora nei teatri d’iniquità chi ama un istrione e gode (perfruitur) della sua arte come di un grande o anche di un sommo bene, ama gli altri che insieme a lui amano l’istrione, non per se stessi, ma per colui che tutti parimenti amano; e quanto più ferve d’amore per lui, in tanti più modi procura che sia amato da molti e tanto più desidera mostrarlo a molti; e quelli che vede piuttosto freddi, li eccita quanto può con le sue lodi; che se poi trovi un oppositore, odia in lui con veemenza l ’odio del suo amato e si dà da fare come può per togliergli tale odio: che cosa conviene di fare a noi nella società dell’amore di Dio, la cui fruizione è viver felici e da cui tutti coloro che lo amano hanno e l ’essere e l ’amarlo; di cui non temiamo affatto che conosciuto possa dispiacere ad alcuno; e che vuol essere amato non per acquistarsi qual­cosa, ma per conferire a coloro che l’amano un premio eter­no, ossia Se stesso, oggetto del loro amore? Di qui deriva che noi amiamo anche i nostri nemici: non li temiamo in­fatti, perché non possono toglierci ciò che amiamo, ma li compatiamo piuttosto, poiché tanto più ci odiano, quanto più sono separati da Colui che amiamo. Che se a Lui si rivol­gano, necessariamente ameranno sia Lui come bene beatifico, che noi come compartecipi di tanto bene.1

Questa bellissima comparazione ci fa comprendere

meglio tutta la forza unificativa, associativa2 di questo nostro comune amore per la beatitudine — e quindi per Iddio, sommo Bene, — iscritto nelle radici più profonde

del nostro essere: il coincidere in un medesimo amore, il tendere cioè ad uno stesso oggetto supremo, opera su­bito una comunione tra coloro che si trovano a condivi­derlo. Dio infatti è quell’« unica somma realtà », che può

1. Cap. XXIX, 30; col. 30.2. Cfr. le acute osservazioni di E. G i l s o n , a riguardo di

questo passo, da lui parafrasato precisamente per mostrare l’ori­ginarsi stesso della vita sociale nel suo fieri {Introduction..., pp. 225-226).

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divenire oggetto « comune » di fruizione « per tutti co­

loro che la fruiscono »/ senza con questo patire alcuna divisione, senza cioè che l ’altrui fruizione sottragga qual­cosa al mio fruire: il Bene sommamente spirituale non si divide come le cose materiali.2 Nessuna invidia reciproca è quindi possibile, in questa comune tensione al bene;

anzi, giacché si tratta di un essere eminentemente perso­nale, che dopo averci donato e l ’essere e l ’amarlo, vuol donarci se stesso, non possiamo amarlo se non. come

il Bene che vuol diffondersi e comunicarsi a tutti gli io, facendo nostra tale sua volontà onnibeatifica. Amando Dio dunque, « bene beatifico » per antonomasia, non possiamo non immetterci in questa sua corrente di amore

che vuol comunicarsi a tutti. Non basta cioè trovarci tutti passivamente soci di un medesimo tendere alla stessa felicità: tale consocialità d ’amore richiede da noi il mutuo aiutarci, Tesser soci cioè anche attivamente. Questo il senso ultimo del constatarci tutti partecipazione da Lui: l ’essere e l ’agire che da Lui partecipano coloro che Lo amano è l ’espressione stessa della sua volontà che noi tutti esistiamo per amarlo; nient’altro quindi ci si addice (nos... agere convenit) se non il conformarci

1. Cfr. sopra, p. 163 s.2. « non enim eos (inimicos) timemus, quia nobis quod dili­

gimus auferre non possunt ». Di questo aspetto della questione non si potrebbe fare commento migliore di quello di Agostino stesso, nel Sermone già cit. (sopM, p. 157 s.), che così prosegue: « Iam committo tibi et proximum, quem diligas tamquam teip­sum; video enim quia coepisti diligere teipsum. Quem diligis ergo tamquam teipsum, duc quo duîdsti teipsum. Si enim aurum diligeres et aurum haberes, et proximum tuum diligeres tam­quam teipsum, diligendo divideres quod habebas, et faceres eum auri tui participem. Sed dividendo minus haberetis ambo. Quare non ergo illum (Iddio) possides, ubi nullas cum coherede patieris angustias? Quantiscumque potueris persuadere, quotquot potueris incitare, vocare, cogere ad diligendum deum, et omnibus totus est, et singulis totus est» (ivi, p. 677).

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attivamente a tale sua ontologica volontà di donarsi, aiutandoci gli uni gli altri a parteciparne pienamente.

Tutti gli altri amerò quindi non per se stessi, ma per Lui,1 perché Egli possa diffondersi in loro come bene beatifico. In essi odierò solo l ’odio di Lui, che è insie­me la loro stessa infelicità: ecco il significato ultimo dell’odiare il peccatore in quanto tale!2 Dal mio amore del prossimo non escluderò nessuno, neanche i nemici, giac­ché il mio amato, Dio, nessuno esclude dal suo amore.

Questo stesso riportare tutti a Dio, sarà un voler in­sieme il mio bene: convertendosi a Lui, infatti, essi non potranno non voler bene a me, oggetto io pure dell’amore di Colui che ora amano anch’essi; non potran­

no cioè non ritrovare nell’oggetto del proprio amore, insieme al Bene beatifico, anche i consoci di un tale amore.3 Ciò del resto ridonderà in mio bene anche perché Iddio non lascerà senza ricompensa l’aver così aiutato il prossimo:

Quanto a colui poi che noi compatiamo ed a cui provve­diamo, lo facciamo per utilità sua, ed a questa miriamo; ma

1. Proprio come lo spettatore entusiasta del suo attore « omnes diligit qui eum diligunt secum, non propter illos, sed propter eum quem pariter diligunt ». Ecco allora pienamente giustificata dall’intuizione eudemonistica, la definizione della ca­rità verso il prossimo, come verso un amando amato « non propter seipsum, sed propter Deum », che tante volte abbiamo visto ricorrere sotto la penna di Agostino (cfr. ad es. i testi ci­tati alle pp. 159-160).

2. Cfr. sopra, p. 163: « Omnis peccator in quantumpeccator est, non est diligendus »; proprio come il nostro spet­tatore: « si autem contravenientem invenerit, odit in illo vehe­menter odium dilecti sui, et quibus modis valet, instat ut au­ferat ».

3. « tanto magis nos oderunt, quanto ab illo quem diligimus separati sunt. Ad quem si conversi fuerint, et illum tanquam beatificum bonum, et nos tanquam socios tanti boni necesse est ut diligant ».

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in non so che modo ne consegue anche l ’utilità nostra, giac­ché Dio non lascia senza mercede la misericordia che noi impieghiamo verso chi ne abbisogna.1

Da questa piena comunione di amore, in una Gioia

superiore amata egualmente da tutti, e cui tutti — ten­dendoci essi stessi — aiutano gli altri a raggiungere, non

può non originarsi un reciproco gioire, nella consapevo­lezza di amarsi realmente, volendo ognuno il vero bene dell’altro. L ’ultimo testo cit. prosegue:

Questa somma mercede poi consiste nel fruire di Lui stesso, e che tutti noi che fruiamo di Lui, in Lui fruiamo anche vicendevolmente di noi stessi.1

Il Dio-felici tà è il Centro convergente attorno a cui si sono sviluppate dialetticamente tutte le considerazioni di Agostino sui nostri amori, il Polo magnetico che in sé polarizza ogni uomo, facendogli trovare il proprio bene e procurare insieme quello dei suoi simili: amando Lui

per se stesso, ci amiamo scambievolmente per Lui; fruen­do di Dio usiamo di noi. La dialettica di « uti » e « frui »,

con cui Agostino ha finora espresso questo mirabile ma­gnetismo universale verso il Dio-felicità, si completa ora con l ’introduzione di un termine nuovo, perché quel bi­

nomio si adegui con aderenza ancora maggiore alla realtà che esprime, soprattutto al suo aspetto comunitario, alla

sua consocialità. Dio infatti ci attira; attratti da Lui, noi trasciniamo anche gli altri verso di Lui, in Lui ritrovan-

1. « Cuius autem nos miseremur, et cui consulimus, ad eius quidem utilitatem id facimus, eamque intuemur; sed nescio quomodo etiam nostra fit consequens, cum eam misericordiam quam impendimus egenti, sine mercede non relinquit Deus » (cap, XXXII, 35; coi. 32).

2. « Haec autem merces summa est ut ipso perfruamur, et omnes qui eo fruimur, nobis etiam invicem in ipso perfruamur » (ivi).

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cioci consociati a doppio titolo, passivo e attivo: in Dio, cioè, non solo fruiamo di Lui per se stesso, ma anche di noi stessi in Lui. È una nuova accezione di « frui », se­condaria e impropria, accanto a quella primaria riservata

esclusivamente all’amore di Dio per se stesso e in se stesso: fruire dell’uomo in Dio e per Iddio. In questa « società d ’amore per Iddio », che ci associa fra noi coi vincoli di un reciproco amore, fonte di reciproca gioia per la presenza vicendevole degli amati — « cum enim

adest quod diligitur, etiam dilectionem secum necesse est gerat », — la nostra felicità primaria, causataci dal pos­sesso di Dio (parziale ora, totale lassù), ridonda anche in quella felicità subordinata che ogni bene presente e ama­to procura a chi ama: in Dio fruiamo di Dio, e in Lui di noi; uniti in un Terzo, siamo uniti tra noi; felici in Dio, lo siamo vicendevolmente.

... in Lui fruiamo anche vicendevolmente di noi stessi. Infatti se lo facciamo in noi, restiamo in via, e collochiamo la speranza della nostra felicità in un uomo o in un angelo. Questo si arrogano l ’uomo superbo e l ’angelo superbo, go­dendo che la speranza degli altri si collochi in loro. L ’uomo santo invece e l ’angelo santo, quando stanchi desideriamo riposare e fermarci in essi, ci rifocillano piuttosto con quei beni che hanno ricevuto per noi o anche per loro stessi, ma che han ricevuto nondimeno; e così rifocillatici ci spingono ad andare a Colui, della cui fruizione siamo noi pure beati (...). Quando allora fruirai dell’uomo in Dio, tu fruirai di Dio piut­tosto che dell’uomo. Di Quello fruirai da cui sei fatto felice, ed a Colui ti rallegrerai di essere giunto, in cui riponi la spe­ranza di giungere. Perciò Paolo dice a Filemone: « Così, fratello, io di te fruirò in Domino » (Philem. 20). Che se non avesse aggiunto « in Domino », ma avesse detto soltanto « fruirò di te », in lui avrebbe collocata la speranza della propria beatitudine. Benché l ’usare con diletto, sia detto anche, in un senso assai vicino, fruire. Quando infatti è presente ciò che è amato, necessariamente esso comporta del

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diletto. Se tu lo attraverserai, riferendolo a ciò in cui si deve permanere, userai di esso (diletto) e abusivamente e impro­priamente si dirà che ne fruisci. Se invece ti ci fermerai, ponendo in esso il fine della tua letizia, allora si dirà che ne fruisci in senso vero e proprio; il che non si deve fare se non in quella Trinità, cioè nel bene sommo e immutabile.1

L ’etica agostiniana sull’amore del prossimo ci si è dunque rivelata nel « De doct. christ. » come una grande sinfonia, ricca di variazioni, sempre sull’unico tema della

felicità: la giustificazione razionale del precetto positivo d’amare il prossimo si fonda infatti sulla nostra stessa natura, con la sua innata esigenza eudemonistica, che tutti ci associa e unifica tra noi « in Domino », termine ultimo di quel dinamismo. Per questo suo fondamento eudemo­nistico « naturale », l ’amore del prossimo rientra nella legge naturale, partecipando della sua immutabilità. A go­stino, nel 1. III , lo rivendica come un dato di prima evidenza, contro ogni relativismo morale:

Colpiti da questa varietà di costumanze innumerevoli, taluni sonnecchianti, per così dire, né profondamente asso­piti nel sonno degli stolti né capaci di vegliare alla luce della sapienza, hanno ritenuto che non esista giustizia alcuna per se stessa, ma che ad ogni nazione appaia giusta la pro­pria consuetudine; essendo poi quest’ultima diversa per ogni popolo, e dovendo invece la giustizia restare immutabile, è evidente che non esisterebbe da nessuna parte la giustizia. Essi non hanno capito, per non fare che un esempio, che il « Non fare ad altri ciò che non vuoi sia fatto a te stesso » (Tobia, IV, 16; Mt. VII, 12.) non può affatto variare a mo­tivo di alcuna loro costumanza nazionale. Quando poi tale sentenza è riferita all’amore verso Dio, muoiono tutte le tur­pitudini; all’amore del prossimo, tutte le iniquità. Nessuno infatti vuole che sia contaminata la propria dimora: non corrompa dunque la dimora di Dio, cioè se stesso. Nessuno

1. Cap. XXXIII, 36-37 ; col. 32-33 .

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vuole gli si faccia del male: non faccia dunque male ad alcuno.1

Precetto di natura, l ’amore del prossimo è obbliga­zione immutabile ed universale nell’estensione, anche ai nemici, anche agli angeli;2 nell’applicazione concreta poi, prossimo essendo un nome relativo — « proximi enim nomen ad aliquid est, nec quisquam esse proximus nisi proximo potest »,3 — la maggiore o minore prossimità in cui verrò a trovarmi con gli altri miei simili, normerà l ’ordine di precedenza nell’estrinsecare loro quell’amore

che in me porto ad ogni uomo, volendone la felicità.

IV . L ’amore di Dio verso di noi.

Agostino ha già parlato dell’amore che Dio ci porta, esponendo i dati rivelati sull’economia redentrice, sul­

l’aiuto cioè che il Dio personale ci ha voluto dare, do- nandocisi liberamente come Via — nell’incarnazione, — affinché lo potessimo raggiungere come Patria — nella

vita eterna.4 — Iddio ci è apparso così, non come cosa

1. L. I l i , cap. XIV, 22; col. 74.2. La « de angelis nonnulla quaestio » non è infatti che

una riprova delTuniversalità estensiva di questo precetto naturale d’amore, verso coloro che possono partecipare insieme con noi, in Dio, della felicità. Oltre agli accenni in proposito nei testi già citati (cfr. note 1, p. 163 e 1, p. 171), cfr. la esplicita « quaestio de angelis », nel 1. I, cap. XXX, 31-33.

3. Cap. XXX, 31; col. 31. Cfr. anche il cap. XXVII, 29; col. 30: « Omnes autem aeque diligendi sunt (l’amore interiore è universale): sed cum omnibus prodesse (l’estrinsecazione di quell’amore) non possis, his potissimum consulendum est, qui pro locorum et temporum vel quarumlibet rerum opportunita­tibus, constrictius tibi quasi quadam sorte iunguntur ».

4. Come già esposto, riassumendo il contenuto del I li­bro (cfr. sopra, pp. 96-98), all’economia redentrice, oggetto del nostro uso, Agostino dedica i capp. XI-XXI, 11-19; al Verbo incarnato, Via verso la Trinità, il cap. XXXIV, 38; cfr. anche

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da possedere, ma come un essere personale che libera­mente si dona a noi, come persona a persona. « Egli (il

Verbo) infatti (...) non solo ha voluto offrirsi come pos­sesso a chi lo raggiunga, ma anche come via... »;' come Colui che liberamente ha voluto aiutarci, per metterci in grado di raggiungere in Lui la nostra felicità: « È cioè Iddio ad aver misericordia di noi, affinché noi possiamo fruire di Lui » 2

Con quest’ultima affermazione, Agostino conclude la sua trattazione sull’amore del prossimo (includente anche gli angeli, giacché nostri benefattori), ravvisando come prossimo chiunque sia oggetto del nostro dovere di mise­ricordia, o sia misericorde verso di noi: per quest’ultimo titolo, Dio stesso ci si presenta come nostro prossimo. « Poiché però — egli prosegue — la sostanza divina è troppo eccellente e sopra la nostra natura, il precetto per

cui amiamo Dio è distinto dall’amore del prossimo »; proprio come nettamente, infinitamente distinti, sono i motivi per cui noi siamo beneficati da Dio o dall’uomo: « Egli (Dio) infatti ci usa misericordia per la propria bontà; noi, scambievolmente, per quella di Lui: Egli cioè ha misericordia di noi, affinché noi fruiamo di Lui stesso; noi invece ci usiamo misericordia, per poter fruire di Lui ».3

i nostri capp. V, § V I (specie pp. 105-7) e V I, § I (specie p. 142)1. « Ille quippe qui non solum pervenientibus possessionem,

sed etiam viam praebere se voluit venientibus... » (cap. XXXIV. 38; cf. sopra, p. 105).

2. « id est, ille nostri miseretur, ut se perftuamur » (cap. XXX, 33; coi. 32).

3. « Sed quoniam excellentior ac supra nostram naturam est divina substantia, praeceptum quo diligamus Deum, a proximi dilectione distinctum est. Ille enim nobis praehet misericordiam propter suam bonitatem, nos autem nobis invicem propter illius: id est, ille nostri miseretur, ut se perimamur; nos vero invicem nostri miseremur, ut illo perfruamur » (ivi\ coi. 31, 32).

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Di qui Agostino prende l ’avvio per una digressione, notevolissima nel suo contenuto metafisico, sulla diffe­renza tra l ’amore umano e quello divino; digressione che gli dà modo di collaudare su un’altra pista tutta la vali­

dità del binomio « uti-frui ».Dio dunque ci ama. In che modo: usando o fruendo

di noi? Agostino esamina e scioglie la questione con due brevi, densissimi capitoli:

Per questo sembra esserci ancora un’ambiguità quando noi diciamo di fruire di ciò che amiamo per se stesso, e che dobbiamo fruire soltanto di ciò che ci rende felici, usare di tutto il resto. Dio infatti ci ama, e la Scrittura ci raccomanda molto il suo amore per noi: come dunque ci ama? per usare di noi o per fruirne? Ma se fruisce ha biso­gno del nostro bene, il che non affermerebbe nessun sano di mente. Tutto il nostro bene infatti o è Lui stesso o è da Lui: per chi mai è oscuro o dubbio che la luce non ha bisogno del nitore delle cose che illumina essa stessa? Anche il pro­feta lo dice molto chiaro: « Ho detto al Signore: tu sei mio Dio, poiché non hai bisogno dei miei beni » (Psalm. XV, 2). (Dio) dunque non fruisce, ma usa di noi. Se infatti non fruisse né usasse, non vedo come ci amerebbe.1

Ma neppure usa come noi (usiamo): noi infatti ciò che usiamo lo riferiamo a questo, al fruire della bontà di Dio; Dio invece riferisce l ’usare di noi alla sua propria bontà. Poiché infatti Egli è bene, noi siamo; ed in quanto siamo,

1. « Quapropter adhuc ambiguum esse videtur, cum dicimus ea re nos perfrui, quam diligimus propter seipsam, et ea re nobis fruendum esse tantum, qua efficimur beati, caeteris' vero utendum. Diligit enim nos Deus, et multum nobis dilectionem eius erga nos divina Scriptura commendat: quomodo ergo diligit? ut nobis utatur, an ut fruatur? Sed si fruitur, eget bono nostro, quod nemo sanus dixerit. Omne enim bonum nostrum vel ipse est, vel ab ipso est: cui autem obscurum vel dubium est, non egere lucem rerum harum nitore quas ipsa illustraverit? Dicit etiam apertissime propheta: ‘Dixi Domino, Deus meus es tu, quoniam bonorum meorum non eges’ (Psal. XV, 2). Non ergo fruitur nobis, sed utitur. Nam si neque fruitur neque utitur, non invenio quemadmodum diligat» (cap. XXXI, 34; col. ^2).

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siamo beni. Inoltre essendo Egli anche giusto, noi non siamo cattivi impunemente; ed in quanto siamo cattivi, in tanto anche siamo di meno. Quegli infatti è sommamente e il primo, che è totalmente immutabile, e che ha potuto dire in tutta pienezza: « Io sono Colui che sono » e « Dirai loro, Colui che è, mi ha mandato a voi » (Exod. I l i , 14); cosicché le altre cose che sono, non possono essere se non da Lui, ed intanto sono beni, in quanto hanno ricevuto l ’essere. Quel­l’uso dunque che diciamo di Dio, nei nostri confronti, si riferisce non alla sua, ma alla nostra utilità, (riferendosi) soltanto alla sua bontà. Quanto a colui poi che noi compa­tiamo ed a cui provvediamo, lo facciamo per utilità sua, ed a questa miriamo; ma in non so che modo ne consegue anche l’utilità nostra, giacché Dio non lascia senza mercede la mi­sericordia che noi impieghiamo verso chi ne abbisogna. Que­sta somma mercede poi consiste nel fruire di Lui stesso, e che tutti noi che fruiamo di Lui, in Lui fruiamo anche vicen­devolmente di noi stessi.1

Dio, dunque, ci ama: con un « frui » o con un

« uti »? Agostino è reciso: « non fruisce di noi, ma usa. Se infatti non fruisse né usasse di noi, non vedo come ci amerebbe. Ma neppure usa come noi usiamo ».

1. « Sed neque sic utitur ut nos: nam nos res quibus utimur, ad id referimus, ut Dei bonitate perfruamur; Deus vero ad suam bonitatem usum nostrum refert. Quia enim bonus est, sumus; et in quantum sumus, boni sumus. Porro autem quia etiam iustus est, non impune sumus mali; et in quantum mali sumus, in tantum etiam minus sumus. Ille enim summe ac primitus est, qui omnino* incommutabilis est, et qui plenissime dicere potuit: ‘Ego sum qui sum’ ; et, ‘Dicés eis, Qui est misit me ad vos’ (Exod. III, 14). Ut caetera quae sunt, et nisi ab illo esse non possint, et in tantum bona sint, in quantum acce­perunt ut sint. Ille igitur usus qui dicitur Dei, quo nobis utitur, non ad eius, sed ad nostram utilitatem refertur, ad eius tantum­modo bonitatem. Cuius autem nos miseremur, et cui consulimus, ad eius quidem utilitatem id facimus, eamque intuemur; sed nescio quomodo etiam nostra fit consequens, cum eam misericor­diam quam impendimus egenti, sine mercede non relinquit Deus. Haec autem merces summa est ut ipso perfruamur, et omnes qui eo fruimur, nobis etiam invicem in ipso perfruamur » (cap. XXXII, <5: coi. 32).

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Il problema era dunque reale, e ben posto: se uno

ama qualcosa, infatti, non può che amare l’oggetto o come fine, per se stesso (fruì), o come mezzo, per qualcos’altro (uti). Altro modo non esiste, sarebbe non tendere in alcun modo all’amato, ossia non amare.

Molla profonda d’ogni amore è l ’inclinazione al bene,

alla felicità; se allora per noi uomini l ’unico oggetto ca­pace di finalizzarci ultimamente in se stesso, con esclusio­ne di qualsiasi ulteriore riferibilità ad altro bene, è Dio, Bene sommo, come potrebbe aversi il contrario in Dio? Proprio Dio cioè, Bene sommo in se stesso, troverebbe il suo fine fuori di sé — « fuori » ontologico, non locale: si tratta dell’Essere sommamente spirituale! — , sarebbe attratto, finalizzato ulteriormente da qualcos’altro, da noi uomini?

Ma se fruisce di noi ha bisogno del nostro bene, il che non affermerebbe nessun sano di mente. Tutto il nostro bene infatti o è Lui o è da Lui: « Omne enim bonum nostrum vel ipse, vel ab ipso est ».

« Nessun sano di mente » potrebbe allora affermare

quest’assurdo: se Dio, l ’Essere perfettissimo, avesse biso­gno di un altro, non avrebbe in sé tutta la perfezione, la bonitas ontologica; Dio cioè sarebbe non-Dio, perfet­tissimo e non-perfettissimo insieme e sotto lo stesso ri­spetto. Così, riguardando le cose dal polo divino; ma dal polo umano lo stesso assurdo. Noi, beni partecipati, dobbiamo infatti tutto noi stessi a Lui: « Omne enim bonum nostrum vel ipse (in quanto nostra felicità, nostro fine ultimo), vel ab ipso (in quanto nostro creatore, da cui abbiamo tutto ciò che siamo) est ». Non siamo, se

non da Lui; non siamo beni, se non in continua parteci­pazione dal Bene che è Lui: « Poiché infatti Egli è bene, noi siamo; ed in quanto siamo, siamo beni (...); cosicché

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le altre cose che sono, non possono essere se non da Lui, ed intanto sono beni, in quanto hanno ricevuto l ’essere ». Come potremmo, quindi, dare qualcosa di nuovo a Colui da cui totalmente ci riceviamo, partecipiamo. La parteci­pazione cioè, il partecipato, sarebbe insieme e sotto lo

stesso rispetto il non partecipato; il totalmente dipen­dente — partecipare è dipendere nella pienezza di tutta la propria ontologicità — sarebbe insieme indipendente; eteronomo e relativo e, nello stesso tempo, autonomo ed assoluto; che riceve e che, insieme, dà proprio ciò che riceve ed in quanto lo riceve; luce illuminata, partecipata, e illuminante insieme la Luce da cui è luce; creatura creata e non-creata, non-creatura. Solo in una mente ma­lata potrebbe coesistere un tale nido di contraddizioni: « il che non affermerebbe nessun sano di mente. Tutto il nostro bene infatti o è Lui stesso o è da Lui: per chi mai

è oscuro o dubbio che la luce non ha bisogno del nitore delle cose che illumina essa stessa? Anche il profeta lo

dice molto chiaro: ‘ Ho detto al Signore: tu sei il mio

Dio, perché non hai bisogno dei miei beni ’ ».Sovranamente autonomo, Assoluto sciolto da ogni

dipendere, da ogni relatività ad altri che a Se stesso, è solo Dio: « Quegli infatti è sommamente e il primo, che è totalmente immutabile, e che ha potuto dire in tutta pienezza ‘ Io sono Colui che sono ’, e ‘ Dirai loro, Colui che è, mi ha mandato a voi ’ ». Dio cioè non ha l ’essere,

ricevendolo da altri per partecipazione; è l ’Essere stesso.

La sua essenza stessa si definisce come l ’Est per eccel­

lenza; senza cangiamenti quindi da ciò che non si era

a ciò che si è, da ciò che si è a ciò che non si era. « Egli è »: questo il suo nome, perché questo il suo

essere stesso, la sua struttura costitutiva; l ’Eterno quindi, fuori del tempo; il sempre presente, senza il nostro continuo scorrere da un presente che si fa passato, a un

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futuro che si fa presente, per un istante, sprofondandosi anch’esso in ciò che non è più che un ricordo. In Dio, unico tempo è il presente, il « nunc », 1’« est »; non il « fuit » né P« erit », non il passato o il futuro; in Dio il tempo è senza tempi, senza mutazioni; il non-tempo quindi, la non-successione, ma il «pienissime (...) Qui est », 1’« omnino incommutabilis ».'

Questa sovreminenza ontologica è pienezza di essere, se la consideriamo staticamente; dinamicamente non può non essere che un perfetto aderire a se stesso, Bene som­mo che conoscendosi e amandosi si possiede e si fa felice, che è anzi la Felicità sussistente, la perfetta beatitudine in se stesso e per se stesso; sovrana autonomia nell’essere e nell’operare: amore di sé che è l ’Amore sussistente, il Fruire stesso in sé perfettamente concluso. Amandosi in se stesso e per se stesso, fruendo perfettamente e puris­simamente di Sé solo, in un totale disinteresse senza alcun’altra seconda mira, senza nessun desiderio di qual­cos’altro, Iddio pienamente si basta. Eudemonisticamente

autosufficiente, perché l ’Eudomonia stessa, non ha né potrebbe avere altro fruire che quest’unico ed esclusivo fruire di Sé.

Ma Dio ama anche noi: « Dio infatti ci ama, e la Scrittura ci raccomanda molto il suo amore per noi: come dunque ci ama? per usare di noi o per fruirne? Ma se fruisce ha bisogno del nostro bene, il che non affer-

i. La meditazione metafisica sul testo dell’Esodo « Ego sum qui sum » è carissima ad Agostino, che vi ritorna volentieri, im- mergendovisi con tutta la penetratività del suo genio; cfr. al riguardo il breve ma denso scritto di E. G i l s o n , Philosophie et Incarnation selon saint Augustin (Montréal 1947), raccolta e studio di vari passi agostiniani al riguardo.

Cfr. anche il prezioso opuscolo di A. T r a p è , La nozione del mutabile e dell’immutabile secondo sant’Agostino (Tolentino !959)> specie le pp. 67-77 e 105-110.

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merebbe nessun sano di mente ». Il suo amore per noi, realissimo, non è dunque un assurdo fruire di noi.

«(Dio) dunque non fruisce, ma usa di noi. Se infatti non fruisse né usasse di noi, non vedo come ci amereb­be. Ma neppure usa come noi usiamo ». Dio usa di noi, ci ama cioè non per noi stessi, ma per qualcos’altro: fin qui il suo « uti » degli uomini è simile al nostro « uti » interpersonale, al nostro amare gli altri uomini. Anche noi infatti, almeno se e finché restiamo nell’ordine, amiamo il prossimo non per se stesso ma per qualcos’altro, per Iddio; per Colui cioè che ci è totalmente Altro, infinita­mente distinto da noi per la sua unicità ontologica di Essere « summe ac primitus », da cui tutto il resto riceve e partecipa. Ma amarci per qualcos’altro, detto di Dio, si identifica con Dio: Dio infatti, usando di noi, non si riferisce che a Se stesso; ci ama non per noi stessi, ma per Iddio, « come » noi ci amiamo scambievolmente per Iddio. Quel « come » sta dunque ad indicare una somi­glianza infinitamente dissimile: amando gli uomini per Iddio, noi ci riferiamo ad un fine ultimo totalmente altro da noi, Dio invece si riferisce ad un fine ultimo totalmente identificato con Se stesso:

Ma neppure usa come noi usiamo: noi infatti ciò che usiamo lo riferiamo a questo, al fruire della bontà di Dio [intesa come perfezione ontologica]; Dio invece riferisce l’usare di noi alla sua propria bontà [ontologica sempre]. Poiché infatti Egli è bene, noi siamo; ed in quanto siamo, siamo beni.

Agostino risolve così, implicitamente, una delle tante apparenti antinomie poste al nostro intelletto dal­l ’Essere primo e infinito: amandoci per Se stesso, Dio esce in qualche modo da Sé — ci ama infatti, e noi non siamo Lui, — ed insieme resta perfettamente in Se stesso — ama noi, ma per Se stesso. — Noi non siamo

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Lui, siamo però da Lui, nell’integralità ontologica nostra:

amandoci dunque come noi siamo, Dio non esce da Se stesso, non ha un fine ultimo che non sia Lui stesso, non perde la sua sovrana trascendente autonomia.

L ’amore verso l ’uomo cioè, detto di Dio e di noi, è reale sia in Dio che in noi, ma non è identico. È simile, e perciò stesso infinitamente dissimile, come tutto ciò che è nei riguardi di Dio l ’uomo, questa viva « immagine e somiglianza » di Dio. Poiché noi siamo beni solo perché partecipiamo dal Bene, solo perché riceviamo l’essere e la bontà nostra ontologica da Lui, questo significa che Dio amandoci non vuole il bene « di » qualcuno che già c ’è, di un oggetto cioè preesistente al suo amore. È il suo voler bene a crearci: noi stessi cioè siamo quel bene che Egli vuole che siamo. Questa la portata ultima dell’amore con cui Dio usa di noi, implicata in quel « Dio invece riferisce l ’usare di noi alla sua propria bontà ».

« Poiché infatti Egli è bene, noi siamo — prosegue Agostino; — ed in quanto siamo, siamo beni. Quia enim bonus est, sumus; et in quantum sumus, boni su­mus ». Dio dunque ci ama, ci vuol bene: purificando da ogni antropomorfismo il nostro concetto di amare, sì da poterlo riferire a Dio, l ’amore con cui Dio ci ama non è che un suo libero donarci il bene, l ’essere che noi siamo:

cosicché le altre cose che sono, non possono essere se non da Lui, ed in tanto sono beni in quanto hanno ricevuto l ’essere.

Quando noi amiamo, il termine del nostro amore preesiste già in sé, come un bene che noi troviamo di fronte a noi; per Iddio invece, cui niente preesiste e da cui è tutto ciò che è, l ’amarci è un amare creativo del­l ’oggetto amato. Perché termine del suo amore, perché

da Lui amati, noi siamo; perché amati da Lui, cominciamo ad essere quei beni che Egli vuole che siamo. Tra il no­stro amore per l ’uomo, quindi, e quello di Dio intercorre l ’abisso che separa l ’amore creatore da quello non crea­tore: Creatore e creatura, Dio e l ’uomo sono tali sempre, anche nell'amare.

Essendo dunque in se stesso la pienezza ontologica, la Bonitas sussistente, Dio ci ama non per acquistar qualcosa che Egli già non sia, ma perché qualcos’altro che non è, cominci ad esserlo: noi balziamo così all’es­sere, beni dal Bene. Creandoci, Dio, l ’Est immutabile, nulla acquista; se acquistasse qualcosa, infatti mute­rebbe. Ma cosa può acquistare « Colui che è », total­mente? In Lui, dunque, nessuna mutazione; « fuori » dì Lui, sì: noi, passati dal non essere all’essere; divenuti beni, perché partecipanti dal Bene; perché amati dal­l ’Amore immutabile.

Ecco allora una seconda differenza tra l ’amore di Dio e il nostro: l ’Amore creatore, crea senza mutarsi, senza acquistare, in pieno disinteresse ontologico; l ’amore della creatura invece né crea, né ci lascia immu­tati, senza acquisto. Amando infatti l ’uomo muta, acqui­sta qualcosa che non aveva, il suo amare stesso, l ’aderire

all’oggetto del proprio amore, oggetto che trova e non

fa, e dal cui possesso amoroso riceve una felicità o la

felicità stessa.

« Q uell’uso dunque che dicevamo di Dio, nei nostri

confronti, si riferisce non alla sua, ma alla nostra utilità,

(riferendosi) soltanto alla sua bontà ». Uso reale, l ’amar­

ci da parte di Dio non. acquista a Dio nulla che Egli non

abbia o, piuttosto, che non sia immutabilmente; la sua

Bonitas ontologica però, pur permanendo immutata, senza perdite né accrescimenti, acquista diffusione, partecipan­

dosi ad altri beni. Ma, ancora una volta, tale Bontà che

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si diffonde è un diffondersi che non soffre mutazione in se stesso: la Bonitas infinita « è » già, totalmente per­fetta e conclusa, « blocco senza fenditure », secondo l ’ar­dita immagine di Gilson.1 Mutazione si avrà invece ai di « fuori », nei diffusi, nei partecipati. D ’altronde, con­siderando questa stessa diffusione dal polo creato, cosa può aggiungere a « Colui che è », ciò che non è che da Lui? Lo potrebbe solo se avesse in sé qualcosa di irri­cevuto, d ’impartecipato; ma che cosa, se esso non è che partecipazione? Dio cioè, amandoci per Se stesso, non ama che Sé, la propria Bonitas da partecipare, da diffon­dere; a tale suo amore, che non esce da Sé, risponde al di « fuori », misteriosamente per noi ma non contraddi­toriamente, una bontà partecipata: le creature, i beni, noi stessi.

Soggetto di utilità, rispetto alla divina Bontà che si diffonde, è così, in modo misterioso, la Bonitas stessa. Ma di utilità senza acquisto! Soggetto di utilità, d ’acqui­sto è, invece, solamente l ’uomo, l ’amato, balzante all’es­sere.

Questa l ’ontologicità statica degli amati, dei beni; ma tale loro perfezione gli uomini la ricevono affin­ché possano ulteriormente tornare a Colui donde si ricevono. Luce nella Luce, bene nel Bene, in Lui amato in se stesso e per se stesso, possederanno così la felicità

consumata. Il nostro testo lo accenna nel finale; più espliciti due passi già citati:

.. .la cui fruizione è viver felici e da cui tutti coloro che lo amano hanno e l ’essere e l ’amarlo; (...) e che vuol essere amato non per acquistarsi qualcosa, ma per confe­rire a coloro che l ’amano un prem io eterno, ossia se stesso, oggetto del loro amore.2 E gli infatti ci usa misericordia

X. Cfr. -Philosophie et incarnation, cit., p. 44.2. Cap. XXIX, 30; riferito sopra, p. 166. Cfr. il nostro

commento.

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per la propria bontà; noi, scambievolm ente, per quella di Lui: E gli cioè ha misericordia di noi, affinché noi fruiamo di Lui stesso; noi invece ci usiamo misericordia per poter fruire di Lui '.

Tutto il nostro essere dunque l ’abbiamo da Dio, sia staticamente che dinamicamente: da Lui « tutti coloro che lo amano hanno e l ’essere e l ’amarlo ». Amandolo, fruendo di Lui, acquistiamo la beatitudine: Lui stesso che ci si dona in fruizione. Ecco l ’ultima differenza tra l ’amore con cui Dio e l ’uomo amano gli uomini, ne vogliono il bene consumato: noi, perché gli altri giungano a fruire di Dio; Dio, perché fruiscano di Se stesso.

Usciti dal suo amore, favilla di luce dalla Luce, beni immagini del Bene, in Lui dobbiamo tornare, per amarlo in Se stesso più di tutto. Partecipazioni da Lui però, amandolo ritroviamo insieme anche noi stessi, nella fonte da cui siamo e riceviamo l ’essere e l ’amore. Né possiamo amarci, senza ritrovare in noi, partecipazioni, Lui che ci si partecipa. Così dal polo umano; da quello divino, egualmente, il cerchio si chiude e conclude in Dio. Aman­do noi per Se stesso, Dio ha diffuso in noi la propria bontà partecipata, che vuole sia da noi amata come è, partecipata e relativa: fatti da Lui, siamo fatti per Lui, infelici altrove, quieti in Lui solo. Da tale ritorno ade­sivo, amoroso, di noi in Lui, non Lui acquista, ma noi: una volta di più l ’amore divino ci mostra il mistero d ’un donarsi che, pur non intendendo altro bene che se stesso (da diffondere), nulla acquista per sè, ma tutto per noi: gli amati da Lui in vista di Sé. Meravigliarcene? No certo, se già nell’analisi del nostro vero amor proprio vede­vamo che l ’uomo non può amare veramente se stesso se non amando in sè Dio, da cui è, e che fruito in sè e per sè costituisce tutta la nostra felicità. Se così è dunque

i . Cap. XXX, 33; riferito sopra, p. 173.

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per noi, diversamente sarebbe per Iddio nei nostri ri­guardi? « Nessun sano di mente » oserebbe affermarlo.

Studiando l ’amore divino, abbiamo constatato, così, una volta di più, come ogni amore esprima e segua l ’es­sere: come si è, così si ama. E come si è, così si deve amare: l ’ontologia norma anche la deontologia degliamori. Disinteresse ontologico può solo aversi da parte di Dio; pretesa assurda, sarebbe, da parte nostra. Nostro stretto dovere è, invece, il disinteresse intenzionale {frui) verso Dio, Bene sommo e perciò Fine ultimo, irrelato, del nostro fruire.

Conclusione

L ’aver usato uno schema simile, almeno nelle grosse linee, nell’analizzare le due opere, ci ha già permesso, ripetendo l ’indagine sul De doctr. christ., di coglierne via via le somiglianze e le differenze rispetto al De div. quaest. 83.

Ne è risultata così, sempre più chiara, una sostan­ziale continuità nel pensiero filosofico sull’amore dell’Ip- ponese, per il decennio precedente le Confessioni. Non certo mera ripetizione, invariata e immutata, ma conti­nuità vitale, nell’evidente progressivo penetrarsi e compe­netrarsi tra il patrimonio personale già acquistato dal genio d ’Ippona prima della conversione (anno 386) e il graduale suo impadronirsi delle immense ricchezze dot­trinali da lui ritrovate nel Cristianesimo, e di cui il I libro del « De doctrina christiana » aveva appunto voluto for­nire una piccola sintesi. Continuità vitale perché espres­sione e frutto dell’attività di un pensatore tipicamente aderente alla vita, concreto e integrale, qual è Agostino, che sempre, anche se in diversa misura, riflette e media nel suo scritto la vita stessa del suo spirito.1

Il clima interiore sempre più esplicitamente cristiano dell’ardente Ipponese, cercatore e ricercatore instanca­bile del Dio finalmente trovato dieci anni prima in M i­lano, per ritrovarlo sempre di nuovo, non poteva quindi non colorare di sè, ancor più fortemente, il De doctr. christ., composto nel 396-397. Rispetto alle anteriori

1. È Agostino stesso a dircelo nell’Epistola 143, 2 (cfr. P.L., t. 33, col. 585): « Ego proinde fateor me ex eorum numero esse conari, qui proficiendo scribunt, et scribendo proficiunt ».

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questioni 30, 35, 36, oggetto precipuo dell’indagine sull’amore nel De div. quaest. 83, — probabilmente tra le prime anche per data di composizione, — è ovvio perciò che l ’identità di fondo, filosofica diciamo, sul tema dell’amore, sia nel De doctr. christ, sempre meno isolata da quella teologica; che cioè la soggiacente filosofia del­l ’amore sia col passare degli anni sempre più esplicita­mente « in servizio » dell’accresciuto interesse teologico- cristiano del Nostro, anche su questo, come su ogni altro

tema.Oltre ad un nucleo comune, invariato, che costituisce

la sostanza stessa del pensiero agostiniano sull’amore nelle due opere studiate, ognuna di esse ci offre anche un di più e di un meno rispetto all’altra. Una conseguenza infatti dell’approfondito clima cristiano nel De doctr. christ, è appunto, in esso, la minor ampiezza data alla psicologia dell’amore, e il prevalere invece dell’indagine etica; mentre, reciprocamente, il De div. quaest. 83 ab­bonda di più quanto alla psicologia, meno quanto all’etica dell’amore.

Questo in generale, notando sempre però che il di più e il di meno di un’opera sull’altra non fa che arricchirne e integrarne, in un’esplicitazione e un approfondimento sempre maggiore, l ’identità di base. Se poi si consideri in particolare la « psicologia dell’amore » risultante dal­l ’analisi del De div. quaest. 83, la sua maggior ricchezza di dati (ad es. sulla definizione di amare, sugli oggetti dell’amore, sui rapporti tra conoscere e amare) non toglie che su qualche punto, specialmente quanto ad « uti » e « frui », il D e doctr. christ, sia più esauriente ed accurato.

L ’interesse più esplicitamente cristiano di Agostino nel De d.octr. christ, fa sì che la « morale dell’amore », più completa rispetto a quella dell’opera precedente, com­porti anche un prevalere dell’aspetto teologico su quello filosofico. Nella totalità della costruzione etica, cristiana

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di Agostino, presentataci dal De doctr. christ., infatti, il sostrato filosofico resta più sommerso; più difficile, quin­di, da evidenziare nelle proprie, distinte strutture. Per questo stesso motivo però i dati etici più completi del De doctr. christ. — e i problemi nuovi rispetto al De div. quaest. 83 (soprattutto l ’amore di Dio verso di noi e, in gran parte, anche quello di noi verso noi stessi), — non eliminano l ’interesse notevole di tanti singoli dati etici, più accentuatamente filosofici, della prima opera rispetto alla seconda.

Ciò premesso ricapitoliamo, integrando tra loro in un’unica sintesi, i dati psicologici ed etici sulla filosofia dell’amore nell’Agostino pre-Confessioni, emersi dall’ana­lisi dei due campioni-sonda prescelti.

Conosce ed ama, lo spirito umano. Conosciuti, gli es­seri l ’attraggono a sé, lo muovono affettivamente; aman­do, r uomo appetisce l ’amato, quieto solo ad esso ineren­do. Realtà bipolare è infatti l ’amore: attività d’un sog­getto che ama e si muove verso un oggetto; che dall’og­getto è mosso ed attratto affettivamente.

Molti i termini che designano l ’attività amorosa, e verbi e sostantivi: amare e amor, diligere e dilectio, ca­ritas e cupiditas (e superbia), frui ed uti. Ancor più nu­merosi i termini usati a descrivere l ’amare: muoversi e moto (movere e motus), affettare di sé (afficere ex se), appetire (appetere e appetitus), inerire amorosamente (1amore inhaerere), prendere voluttà (capere voluptatem), dar diletto (delectationem gerere), ecc.

« Un moto è l ’amore » (83 qq., q. 35, 1): muoversi, insieme, ed esser mosso. Moto non locale, ma affettivo: è infatti un « moto dell’animo » (caritatem voco motum animi; doctr. christ. I l i , 10, 16), per una via non spa­ziale ma affettiva (nec via ista locorum est, sed affectuum; I, 17, 16). Ed è moto a qualcosa (ne que ullus sit motus

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nisi ad aliquid; 83 qq., q. 35, 1), a cui e da cui realmente ci muoviamo e siam mossi.

Se poi l ’oggetto amato è fine del nostro amore, ecco il frui; se è soltanto mezzo che attraversiamo, 1’«//. Ama­re in senso proprio, però, è solo il fruire di qualcosa per se stessa; in senso improprio (non recte, q. 35, 1; abusive, non proprie, doctr. christ. I, 33, 37), l ’usare di qualcosa per qualcos’altro.

« La presenza del bene amato comporta necessaria­mente del diletto » (cum enim adest quod diligitur, de­lectationem secum necesse est gerat; I, 33, 37); ecco spiegato perché l ’amato ci attrae, ci finalizza in sé, ci muove affettivamente verso di sé, ci affetta di sé (polo oggettivo). Ecco insieme perché, di fronte al bene, noi ci sentiamo attratti fuori di noi, estasizzati, mossi, affètti, finalizzati (polo soggettivo).

Strana causalità, questa dell’amato! È la causalità « finale » stessa: il movimento che provoca nell’amante,lo provoca quasi passivamente, appunto perché « bene », « fine » dell’amore; appunto perché « amato-appetito ».

Percepire un bene, infatti, è un tutt’uno col perce­pirmene attratto; percepirmi attratto, amante, è un tut­t’uno con il conoscere l ’oggetto, l ’essere come « bene », come « amabile, attraente, movente ». Perciò « nessun bene è conosciuto perfettamente (come tale), se non è perfettamente amato » (83 qq., q. 35, 2); perciò solo di coloro che perfettamente amiamo, « in amicizia », perce­piamo tutte le doti e l ’intimo valore (nemo cognoscitur nisi per amicitiam) che loro ci tiene uniti e presi nono­stante i loro immancabili difetti (Et ideo amicorum mala firmius sustinemus, quia bona eorum nos delectant et tenent; q. 7 1 , 5).

Conosce ed ama, lo spirito: tra conoscere ed amare v’è mutuo richiedersi, interazione ed integrazione. Anzi­tutto, non si può amare senza conoscere: se l ’oggetto re-

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sta sconosciuto, infatti, non può esercitare la sua attività finalizzante-attraente derivantegli dall’« amabilità » sua costitutiva di « bene », che ha in sé come « essere ». Ogni « essere » infatti è, come tale, un « bene »: omne autem quod est, in quantum est, bonum est (q. 24). Percepirlo nella sua consistenza di essere è un coglierlo insieme co­me essere e come bene, valore; è un percepirmi di fronte ad un in-sé a me presente, da me possduto conoscitiva­mente, ed a sé attraentemi per quello appunto che in-sé è, per la sua validità di « essere », per il suo esser « va­lore ».

L ’io, lo spirito umano, è cioè costitutivamente attivo, dinamico, per mezzo di conoscere insieme e di amare. Per il conoscere l ’oggetto ( l ’altro da sé, ma anche se stes­so) è reso presente intenzionalmente, è da noi inteso nel suo esser-sé; è da noi « capito » (capere; q. 9), afferrato, captato in interiore possesso. Funzione « possessiva », in cui consiste appunto il conoscere stesso: « il possedere non è altro che il conoscere — nihil est aliud habere quod nosse » (q. 35, 1).

Posseduto, afferrato, a sé presenzializzato interior­mente, il conosciuto fa subito scattare verso di sé l ’altro nostro dinamismo costitutivo: la capacità d ’amare, il vo­lere. « Cum enim adest (e non può « esserci presente » se non conoscitivamente) quod diligitur, delectationem se­cum necesse est gerat »: 1’« essere », a noi presente, subi­to provoca in noi diletto. Il suo valore ed amabilità, pre- senzializzatoci mediante il conoscerlo nella sua inseità, a sé ci attrae, ci affetta di sé (id quod amatur afficiat ex se amantem necesse est; q. 35, 2), ci affeziona a sé, facen­doci uscire da noi verso di sé. « È un moto l ’amore », e la sua direzione è esattamente inversa a quella conosci­tiva: intussuscettivo, possessivo, centripeto, il conoscere; centrifugo, estatico, oblativo, l ’amare.

Conosciuto, un essere ci attrae, perché bene; non

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posseduto, ci si fa desiderare; raggiunto, ci diletta e quie­ta in sé, fruitivamente. La sua maggiore o minor « par­tecipazione » d ’essere e di bene, però, lo pone ipso facto come più o meno saziante il nostro dinamismo appetitivo. La nostra volontà, la capacità nostra d ’amare « il bene », ogni bene, esattamente rispondente all’apertura nostra conoscitiva sull’essere, su ogni essere, mai poserà su « un bene » trovandosene esaurita. Finalizzata, attratta da « un bene » appunto perché « bene », in esso e da esso non sarà esaustivamente quietata perché non « il bene »: nei beni sarà il Bene che continuerà ad attrarla; oltre i

valori partecipati, sarà al Valore impartecipato ed illi­mitato che continuerà a tendere, senza fine tesa al Bene senza fine.

C ’è una gradazione ontologica tra gli « esseri », tra i « beni », intrinseca al loro stesso « essere»: ogni essere infatti « è » più o meno, a seconda che più o meno « par­tecipi » di perfezione ontologica, di « essere ». « Tutto ciò che è, in quanto è, è bene. M a sommamente è (sum­me est) quel Bene per cui partecipazione sono beni gli altri beni. E tutto ciò che è mutabile, in quanto è, è bene, non per se stesso ma per partecipazione al Bene immuta­bile. Invero quel Bene, per cui partecipazione sono beni le altre cose qualunque siano, non per altro, ma per se stesso, è Bene » (q. 24). Partecipare (attivamente) qual­cosa a qualcuno lo può solo chi già abbia quanto dà a partecipare; colui invece che ne partecipa (passivamente), in tanto ne partecipa in quanto riceve il proprio parteci­pare da un altro; ultimamente da Colui che ha ed è in se stesso ciò di cui può, « per partecipazione », far parte agli altri. Ogni ente « mutevole » infatti, proprio perché mutevole, è sì un bene, ma « per partecipazione », non per e da se stesso. Se fosse « essere, bene » da se stesso, già avrebbe in sé 1’« essere » che via via acquisisce, mu­tando appunto nell’essere: è ciò che « non-era », « non-è »

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più ciò che era (Omne praeteritum iam non est-, omne futurum nondum est-, omne igitur et praeteritum et futurum deest; q. 17). Se avesse in sé il proprio essere, non dovrebbe mutare per acquisirlo, non avrebbe « acqui­sto di essere » da fare, non muterebbe neH’essere, ma già sarebbe « tutto insieme », immutevole, il proprio essere: « Apud Deum autem nihil deest: nec praeteritum igitur nec futurum, sed omne praesens est apud Deum » (ibid.). La temporalità di un essere, il suo continuo mutare in essere, è spia del suo « avere » e noli « essere », ciò che è;

mentre in « Colui che è » per essenza l ’Essere stesso, in Colui la cui natura è di essere l ’Essere stesso (doctr. christ. I, 32, 35), nulla scorre ma tutto permane, eterno Presente: « neque quidquam praeteritum quasi transie­rit, neque quidquam futurum quasi nondum. sit, sed quidquid est, tantummodo est » (83 qq., q. 19). La « mutevolezza », la « mutabilità » degli esseri mutevoli è l ’indizio inequivoco del loro « partecipare », e non « es­sere », l ’essere stesso; e del loro parteciparlo da Colui che, fuori di essi (« fuori » ontologico), è la Ragion Sufficien­te del loro essere, necessariamente esigita dalla loro in­trinseca insufficienza: « Quia enim bonus est, sumus; et in quantum sumus, boni sumus. (...) Ille enim summe ac primitus est, qui omnino incommutabilis est, et qui plenissime dicere potuit: ‘ Ego sum qui su m ’ (...). Ut caetera quae sunt, et nisi ab illo esse non possint, et in tantum bona sint, in quantum acceperunt ut sint. » (doctr. christ. I, 32, 35).

La « partecipazione » è dunque, nell’agostinianesimo, l ’ontologia stessa degli esseri « mutevoli », che li gerar- chizza « staticamente » a seconda del loro maggiore o minor « partecipare » di essere e di bene, di essere che è bene, e di bene che è essere. Gerarchia ontologica « statica » che non soltanto costituisce ogni essere nel suo vario graduato « in sé », nel suo diverso « valore » on-

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tologico, ma che lo rende insieme variamente amabile ed attraente, capace di maggiore o minor attrazione finale: ontologia dinamica « psicologica ». La presenza d’un « bene » maggiore attrarrà di più, infatti, che quella di un bene minore, producendo voluttà e diletto maggiori. Essendo poi l ’amore relazione (cum amor motus quidam sit, neque ullus sit motus nisi ad aliquid; 83 qq., q. 35,1 ) d ’un soggetto ad un oggetto, l ’amore deriverà e dall’io e dall’oggetto. Valore in sé, il tal bene lo è anche relati­vamente a me, mi conviene, mi si addice « propter seip­sum ». È cioè anche « honestum » morale (ontologia di­namica « etica »), proprio perché « honestum » ontolo­gico, perché ontologica corrispondenza tra il suo valore e il mio essere o valore, tra la sua inseità (esser ciò che è) e la mia, appetibile da me o attraente me perché a me consono, perché perfezionante me perfettibile. Perciò stesso « ogni onesto è utile e ogni utile è onesto ...l’one­sto e l ’utile non si contraddicono in nessun modo »

(q-3°)-« Moto a qualcosa », che mi attrae perché bene-in-sé,

che attrae me perché insieme bene-per-me, l ’amore resta specificato dal suo oggetto sia psicologicamente che mo­ralmente. La stessa natura ontologica del bene amato, la sua costitutiva gradazione di bene, lo rende più o meno amabile insieme ed amando; bene-mezzo, se ancora su­bordinabile, bene-fine se termine d’un amore che non ab­bia altro bene che « ulteriormente » lo attragga. Gerar- chizzati ontologicamente, i beni lo sono anche nella loro dinamicità psicologica ed etica insieme; un bene inferio­re sia amato di meno, perché meno amabile; un bene superiore, lo sia di più; il Bene massimo lo sia massima­mente, sommo Amando perché Amabile sommo. Per re­stare nella verità insieme e nella giustizia, nell’amore ordinato, si conoscano e riconoscano i beni nella loro in­trinseca varia bontà, né più né meno: « quegli vive giu-

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stamente e santamente che è rerum integer aestimator. che ha cioè un amore ordinato, sì da non amare ciò che non deve essere amato, 0 da non amare di più ciò che dev’essere amato di meno, o da non amare con eguaglian­za ciò che dev’essere .amato di meno o di più, o da .non amare di meno o di più ciò che dev’essere amato con eguaglianza » (doctr. christ. I, 27, 28).

Intellettualismo e volontarismo insieme, perché <,< spi­ritualismo », l ’agostinianesimo richiede l ’uso sinergico ed integrantesi di conoscere ed amare di fronte alla realtà, di. sé come degli altri da sé, e lo richiede sia psicologica­mente che eticamente. Conoscerci e riconoscerci come sia­mo, e conoscere e riconoscere gli altri come sono, è in­sieme la verità per l ’umana ragione e la retta norma del- l ’amare, la « perfecta ratio » che rende « ordinato » ogni amore. L ’etica agostiniana è etica dell’amore, in cui ogni virtù non è che lo strumento della carità, la sua concre­tizzazione e attuazione circa questo o quell’oggetto speci­fico, affinché tramite prudenza, fortezza, temperanza, giu­stizia, pazienza... (cfr. 83 qq., q. 61, 4 e q. 3o) sia sempre l ’ordine nell’amore e dell’amore a realizzarsi. Ma etica « razionale » dell’amore, giacché è la ragione stessa a pre­scrivere l ’ordine degli amori in conformità all’ordine on­tologico dei beni, in spassionata contemplazione ed accet­tazione della realtà nel suo graduato « partecipare » l ’es­sere e la perfezione. Razionalità oggettivistica che è in­sieme ordine etico, amore ordinato: « perfecta hominis ratio, quae virtus vocatur... » (q. 30); sicché il retto cono­scitore è insieme retto amatore: « ille autem iuste et sancte vivit, qui rerum integer aestimator est: ipse est autem qui ordinatam dilectionem habet » (doctr. christ. I, 27, 28).

« Gran cosa infatti è l ’uomo! — magna enim quae­dam res est homo, factus ad imaginem et similitudinem Dei » (I, 22, 20): vertice dei beni « partecipati », l ’uo-

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ino è così alto che « di tale creatura nessuna è migliore » (83 qq., q. 51, 2). Prima di tutte le altre creature dovrà perciò amare se stesso, e gli altri come sé (Utitur autem caeteris rationalibus animantibus ad societatem)', tutto il resto subordinandolo a sé (irrationalibus ad eminentiam; q. 30). Ma la piramide dei « partecipati » deriva tutta se stessa da Dio; per non distruggersi « intenzionalmente » l’uomo dovrà adeguarsi liberamente alla sua partecipazio- nalità, così solo evitando la « miseria » insieme e la per­versione stessa del proprio essere, ch’è « esser-partecipa- to », in sé ed a sé insufficiente, da Dio riceventesi ed a Dio orientato in doverosa essenziale gratitudine. Piena- mente conforme a ragione e natura è quindi il doppio precetto rivelato, « regola dell’amore stabilita da Dio affinché tu dedichi tutti i pensieri, la vita e l ’intelligenza a Colui da cui hai questi stessi beni che dedichi » (doctr. Christ. I, 22, 21).

Antropocentrismo immediato nel teocentrismo ultimo, è l’etica agostiniana. V i si giunge analizzando l ’ordine degli e negli amori dal polo oggettivo-, per la gerarchia ontologica dei beni, amabili ed amandi coerentemente al­la gradazione del loro partecipare bontà ed amabilità. Be­ne che sia soltanto Fine non può essere che il « primitus Bonum » (83 qq., q. 51, 2), il « summum Bonum », « bea­tificum Bonum » (doctr. christ. I, 29, 30) appunto perché sommamente Bene. A conclusione analoga si arriva anche dal polo soggettivo, considerando cioè l ’amore del bene nell’insoddisfazione sua radicale per ogni bene finito: la realtà del nostro desiderio naturale di felicità richiede un termine altrettanto reale (q. 35). Eudemonismo « natu­rale » che è insieme eudemonismo « etico », ed etico pro­prio perché naturale: « quando si ami Dio più che l ’ani­ma, sì che l ’uomo preferisca essere di Lui più che di se stesso, allora si provvede veramente e sommamente al­l ’anima, e di conseguenza anche al corpo » (q. 36, 1).

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Viverci in perenne tensione al bene è dunque viverci tesi al Bene perenne, attratti da Lui attraverso ed oltrei beni finiti. Attraverso gli amori ai partecipati, è l ’amore al Bene impartecipato che dobbiamo realizzare per non perderci, pervertendoci « inferiorum amore praepediti » (doctr. christ. I, 3,3). L ’ordinata dialettica degli amori (fruendum est autem honestis, utendum vero utilibus; 83 qq-, <3- 3°) esige perciò che l ’unico « frui », puramente ta­le, sia riserbato solamente a Dio, al resto soltanto un « uti »: « la sua stessa vita (la perfecta hominis ratio) la riferisce al fine di fruire Dio: così appunto è felice. Perciò usa anche di se stessa, ella che certamente, qua­lora si riferisca a se stessa anziché a Dio, comincia con la superbia la propria infelicità » (q. 30).

La supremazia ontologica di Dio lo pone, con ciò stesso, come oggetto unico ed esclusivo di mera fruizione, per quei « tendentes ad beatitudinem » (doctr. christ. I,3, 3) che sono, per essenza, gli uomini. Solo Dio, « sum­ma res; quo nihil melius sit atque sublimius » (I, 5, 5 e 7, 7), è Bene capace di finalizzare in sé ultimamente, senza ulteriore riferibilità, il nostro dinamismo alla feli­cità; è Realtà cui la sua stessa natura esige sia amata in se stessa e per se stessa, Fine ultimo e supremo.

D ell’uomo invece l ’uomo non deve che usare, sia di sé che degli altri « come sé », sicché ogni altro suo amore non confluisca che in Dio: « ita ut caetera in ilium con­fluant » (I, 26, 27). Di continuo presenti a noi stessi,il nostro essere ( = bene) di continuo ci attrae, amore di sé che è la forza centripeta coesiva di noi con noi stessi, legge di natura imprescrittibile: « Per quanto in­fatti l ’uomo cada dalla verità, gli resta l ’amore di sé e del proprio corpo. Ché lo spirito fuggiasco dalla luce immutabile... non può non amare e sé e il proprio corpo » (I, 23, 22); « non c’è bisogno di precetto affinché ognuno

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ami sé e il proprio corpo, poiché quanto noi siamo ... lo amiamo per inconcussa legge di natura » (I, 26, 27).

Inclinati a noi stessi necessariamente, inconcussa na­turae lege, in quanto esseri liberi noi possiamo non rico­noscere il senso ultimo di tale autoinclinazione: ontologi­camente essa terminerà sempre in Dio, giacché in Dio continuiamo a restare, partecipati nel partecipante; in­tenzionalmente invece essa pretenderà fermarsi a noi co­me autonomi. Se l ’Essere da cui ci riceviamo ratificasse la nostra pretesa, ipso facto ci spegneremmo nel nulla: « sa­nità dell’uomo è perciò inerire fermissimamente al mi­gliore, cioè all’immutabile Iddio » (I, 23, 23).

Il doppio precetto rivelato dell’amore di D io con tut­to sé e degli altri come se stessi, ci aiuta perciò ad amarci autenticamente, rettificando la nostra intenzionalità sia verticalmente: non mi fermo in me, ma mi amo in Lui; che orizzontalmente: i miei eguali li amo come me stesso. « Vuoi amarti? — ci ripete Agostino, come ai suoi buo­ni Ipponesi — Ama Dio con tutto te: in Lui infatti troverai te, per non perdere te in te stesso. (...) Questo è dunque l ’amore tuo o di te, l ’amore cioè con cui ti ami per amare Dio » (Sermo W ilmart II, 4), nel totale disinteresse intenzionale trovando insieme il tuo pieno interesse ontologico.

Precetto evangelico, l ’amore del prossimo è anch’esso determinazione positiva di un precetto d’etica razionale: eguali a noi, i « come noi » vanno amati « con eguaglian­za », né più né meno di noi. Come noi capaci di fruire Dio, in Lui solo beati, se in noi li fermassimo li prive­remmo di Dio; se in loro ci fermassimo, resteremmo in­felici. Anche loro perciò rapiremo insieme con noi verso Dio, Bene comune che la comune fruizione non divide; unico Amato in cui tutti ci ritroviamo, gli uni gioendo degli altri in Dio e per Iddio: « Questa somma mercede poi consiste nel fruire di Lui stesso, e che tutti noi che

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fruiamo di Lui, in Lui fruiamo anche vicendevolmente di noi stessi» (I, 32, 35).

L ’ontologia dei beni norma cioè la deontologia degli amori, di tutti gli amori, anche del prossimo: « Qualun­que altro oggetto d ’amore mi venga nell’animo, là sia rapito dove corre tutto l ’impeto dell’amore. Chiunque al­lora ami rettamente il suo prossimo deve comportarsi con lui in modo che anch’egli ami Dio con tutto il cuore, con tutta l ’anima, con tutta la mente. Amando il prossimo come se stesso, egli riferisce così tutto l ’amore di sé e di lui a quell’amore di Dio che non sopporta si storni da sé alcun rivolo, la cui deviazione lo sminuirebbe » (I, 22, 21).

Come l ’uomo, anche Dio ama. Oggetto dell’amore umano, l ’uomo lo è anche dell’amore divino. Tale amore da parte di Dio è, anzitutto, ciò che permette all’uomo di entrare in rapporto amoroso con Dio stesso. Essere so­vranamente personale, Iddio può essere posseduto dal­l’uomo solo se Egli stesso all’uomo si apra e liberamente si doni. La beatitudine dell’uomo nel possesso di Dio, su­prema perfezione dell’uomo, è, insieme, il massimo Dono divino, Dio che dona all’uomo Se stesso: Dio infatti « compie da se stesso le cose che sono degne solo di Lui e che a Luì solo convengono, come..., offrendosi loro in fruizione, rendere le anime sapienti e felici » (83 qq., q. 53, 2). Senza Dio, fattosi nostra Via verso di Lui, nostra Patria, Dio ci resterebbe irraggiungibile: « è cioè Iddio ad aver misericordia di noi, affinché noi possiamo fruire di Lui » (doctr. christ. I, 30, 33).

L ’indagine agostiniana sul « come » Dio ci ami apre allora vertiginosi spiragli su abissi metafisici, collaudando insieme il binomio « uti-frui » e la piena validità della dottrina della « partecipazione » analogica, sia statica che dinamica (psicologica ed etica), tra il Bene e i beni, tra l ’Amore divino e gli amori umani.

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Dio dunque ama l ’uomo: fruendone od usandone? « Non fruisce, ma usa di noi » (I, 31, 34). « Come » cioè l’uomo usa dell’uomo, così Dio usa di noi. Infinitamente Bene, Dio è con ciò a Sé il proprio Fine infinito. Eude- monisticamente piena Autosufficienza, l ’Essere divino « è » in Sé sommamente tutto il Bene, la Perfezione, il Valore che, possedendosi ed amandosi, si fa felice, è la Felicità stessa sussistente. Bene in sé tutto chiuso e con­cluso, non ha bisogno di altri beni. Se ama altri, i suoi « amati » esistono appunto come i beni che Egli vuole essi siano: non preesistenti, ma conseguenti al suo Amo- re creativo.

Quando noi rettamente ci amiamo (uti), ci amiamo in Dio e per Iddio. Anche Dio non fruisce ma usa di noi; non per un Altro però, ma per Sé. Esce quindi da Sé, amandoci, e non esce. Poiché « omne bonum no­strum vel ipse est, vel ab ipso est » (ibid.), Tessere-amati da Lui è per noi il nostro stesso essere esseri-partecipati; ed è per Lui l ’amare Se stesso come partecipando. I l vo­lere la nostra perfezione e bontà ontologica, il bene che noi siamo, per Iddio è volere la Sua stessa « bonitas » ontologica come partecipanda e diffondenda: « Ma nep­pure usa come noi usiamo: noi infatti ciò che usiamo lo riferiamo a questo, al fruire della bontà di Dio; Dio in­vece riferisce l’usare di noi alla sua propria bontà. Poi­ché infatti Egli è Bene, noi siamo; ed in quanto siamo, siamo beni » (I, 32, 35).

Utilità di acquisto, da questo Amore diffusivo di Sé, l ’avrà solo l ’uomo, che da esso riceve sia il bene che in se stesso è, sia l ’inclinazione a tornare a Colui da cui è ed ha tutto sé, come il partecipato nel Partecipante da cui tutto si riceve, « da cui tutti coloro che lo amano hanno e l ’essere e l ’amarlo » {I, 29, 30).

Simile a Dio nell’essere, l ’uomo gli è simile anche nell’amare; con quella stessa infinita dissimilitudine nel-

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la somiglianza che distingue appunto, nella « partecipa­zione », il mutevole « essere-partecipato » dall’immuta­bile « Essere impartecipato », che dona agli esseri mu- tevoli la « partecipazione » ch’essi sono, nell’essere e nell’agire.

Tutto il lento lavorio d’analisi e sintesi intorno alle due opere scelte come campioni-sonda del pensiero ago­stiniano sull’amore, nella vasta sua produzione prece­dente le Confessioni, ci ha così fornito le desiderate te­stimonianze, qualificatissime ad introdurci e interpretar­ci il suo pensiero al riguardo nell’Opera maggiore.

Sul tema dell’amore infatti, dai primi anni dopo la conversione e fino all’immediata vigilia della composi­zione delle Confessioni,1 ormai sappiamo parecchio di come la pensasse Agostino. Una linea dopo l ’altra, un aspetto dopo l ’altro — a prezzo di un continuo tornare e ritornare sullo stesso passo per illuminarne paziente- mente tutta la plurivalenza, — ci si sono venute chia­rendo man mano e la « psicologia » e 1’« etica » deì- l ’amare, cosa cioè sia, per l ’Agostino pre-Confessioni, l ’amore e quali ne siano le obbligazioni; come anche lo sfondo metafisico su cui la sua filosofia dell’amore — co­me in genere tutto il suo sistema — si fonda, la nozione cioè e la realtà della « partecipazione ». È infatti proprio per la « partecipazione » che si può parlare, in Agostino, di una « metafisica dell’amore », articolantesi nell’esisten­za, diversa e simile, di vari beni e di vari amori, con il conseguente riverbero sulla psicologia e la deontologia dell’amare.

1. Nelle Retractationes infatti Agostino elenca, tra il De doc­trina christ, e le Confessioni, un’opera solamente, i Contra partem Donati libri duo (cfr. Retract. II, 4-6; P.L., t. 32, col. 631-632), oggi perduti.

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Bibliografia

I) OPERE DI S. AGOSTINO

Abbiamo citato i testi di S. Agostino da:

S a n c t i A u r e l i i A g u s t in i ...o p e r a o m n ia , edite da J. P. M ig n e nei tom i 32-47 della sua Patrologia Latina, Pa­rigi 1865 (abbreviazione: P . L .). Tale edizione ripro­duce l ’edizione curata dai M a u r in i (Benedettini della Congregazione di S. M auro), pubblicata a Parigi fra il 1679 e il 1700 e che, nel suo complesso, resta ancora insuperata. Abbiam o anche tenuto presenti le moderne edizioni:

B ib l io t h e q u e A u g u s t in ie n n e , Oeuvres de saint Augustin (abbr.: B. A .), prevista in circa 85 voli., ancora in corso di pubblicazione a Parigi (testo d e ll’ed. benedettina e trad. francese);

B i b l i o t e c a d e a u t o r e s c r is t i a n o s , Obras de San Agustin(abbr.: B .A .C .) in 18 voli, (non completa), Madrid(testo d ell’ed. benedettina e trad. spagnola).

a) De diversis quaestionibus LXXXIII-.

P .L., t. 40, col. 11-100.Nella B. A . è nel voi. 10 (I série), Paris 1952. Trad. frane,

(e talune Note) di J. A . B e c k a e r t ; Introd. e Notecomplementari di G . B a r d y .

Nella B.A.C. manca.

b) De doctrina christiana:

P.L., t. 34, col. 15-212.Nella B. A. è nel voi. 11 (I série), Paris 1949. Trad. frane.,

Introd. e Note di J. F a r g e s .N ella B.A.C. è nel t. 15 , M ad rid 19 4 7 . T ra d . spagn. e

In trod . d i F. B a l b in o M a r t in .N .B. E ’ nostra la traduzione letterale italiana delle citazioni

da ambedue le opere.

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II) OPERE SU S. AGOSTINO

Per una bibliografia più completa sul tema dell’amore in S. Agostino rimandiamo alla Bibliografia dell’altro nostro volume, L ’inquietudine dett'anima. La dottrina dell’amore nelle « Confessioni » di Sant’Agostino (Abete, Roma 1964), pp. 188-^93.

Qui ci limitiamo a citare o quanto si riferisca esclusi­vamente al periodo pre-Confessioni sul tema dell’amore, anche se il punto di vista non sia soltanto (o affatto) quello filosofico; o quanto, pur riguardando il tema in generale in tutto Agostino, possa essere utile a comprenderne il pen­siero anche per quel periodo.

d e A l c o r t a (E c h e v a r r ia ), J.-I. - El mensaje agustiniano del amor, in Augustinus Magister. Congrès International Augustinien (Paris, 21-24 sept. 1954), vol. III, Paris1955, PP- 357-364-

A r e n d t , H. - Der Liebesbegriff bei Augustin. Versuch einer philosophischen Interprétation, Berlin 1929 (studia l ’amore del prossimo).

B o u l a r a n d , E. - voce Désintéressement (co l. 556-571) del Dict. de Spiritualité, t. III (Paris 1957): § 6. L ’Eudé- monisme augustinien (col. 566-571).

B o y e r , C . - L ’Idée de vérité dans la philosophie de saint Augustin, Paris 1920 (cfr. cap. V La vérité béatifiante, pp. 220-252: breve, ma fondamentale, su amare e cono­scere, amare e felicità).

— Saint Augustin (Collect. Les Moralistes Chrétiens), Paris 1932.

d e B r o g l ie , V. - De fine ultimo humanae vitae. Tractatus theologicus, pars prior positiva, Paris 1948 (pp, 70-118 su S. Agostino).

C a y r é , F. - Erui et Uti, in L ’Année théologique augusti- nienne, ro, 1949, pp. 50-53; ripubblicato in B.A., vo­lume 11, pp. 558-561.

C o m b é j-, G. - La charité d’après saint Augustin, Paris 1934 ( teologico-ascetico ).

C u e s t a , S. - La concepción agustiniana dei mundo a través del amor, in Augustinus Magister, vol. I, pp. 347-356.

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D e m a n , T. -Le traitement scientifique de la morale chré­tienne selon saint Augustin, Paris 1957 (sul farsi di una teologia morale come scienza, assumendo Ag., nel Cri­stianesimo, la filosofia precedente. Cfr. in particolare il cap. IX per beatitudine e virtù; il cap. XI per « uti- frui », pp. 107-109 nel De div. qq. 83, e pp. 99-107 e 110 nel De doctr. christ.),

D o u m a in , G. - Charité et vertu d’après saint Augustin, Mémoire di licenza in teologia, Lilla 1953 (ciclostilato).

F a r g e s , J. - V i l l e r , M. - voce Charité, II, Chez les Pères, in Dict, de Spiritualité, t. II (Paris 1953), col. 523-569 (passim su S. Ag.).

F a b o z z i , E. - La carità illuminante nella dottrina e nella vita di S. Agostino, in Vita e Pensiero, 1930, pp. 530-541.

F e r r a z - De la psychologie de saint Augustin, Paris 1862, (cap. X, De l’amour, pp. 291-319).

GilsoNj E. - Introduction à l’étude de saint Augustin, Paris 1949 " (opera classica sulla filosofia di S. Ag.; cfr. in par­ticolare P. II, cap. II, sull’amore).

H a r t m a n n , N. - Ordo amoris. Zur augustinischen Wesens- bestimmung des Sittlichen, in Wissenschaft und Weisheit. 18, 1955, pp. 1-23 e 108-121.

H u l t g r e n , G. - Le commandement d’amour chez saint Au­gustin. Interprétation philosophique et théologique d’après les écrits de la période 386-400, Paris 1939.

I s t a c e , G. - Le livre Ia du « De doctrina christiana » de saint Augustin. Organisation synthétique et méthode mise en oeuvre, in Ephemerides Theologicae Lovanienses,1956, pp. 289-330 (cfr. sopra, p. 95, nota 1).

L o r e n z , R. - « Fruitio Dei » bei Augustin, in Zeitschrift für Kirchengeschichte (Stuttgart), 63, 1950, pp. 75-132.

M a l g o ir e s , I . - Ethica christiana in amore Dei fundata exS. Augustini operibus excerpta, Romae 1672.

M a r t in , J. - Saint Augustin (Collect. Le grandes philoso­phes), Paris 1923 2 (cfr. pp. 234-246 su bene, amore, felicità).

M a u s b a c h , J. - Die Ethik des heiligen Augustinus, 2 voli., Freiburg in Breisgau, 1929 2 (lavoro fondamentale per la teologia morale di S. Ag.).

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N y g r e n , A. - Eros et agape. La notion chrétienne de l’amour et ses transformations (trad. di P. Jundt), t. I l i , Paris 1952 (cfr. pp. 5-130 su S. Ag.).

P o r t a l ié , E. - voce Augustin {Saint), in Dict. de Théol. Cath., col. 2268-2472 (Paris 1909). E ’ una vera mono­grafia, valida tuttora (cfr. specialmente col. 2432-2443: Morale de S. A.: le docteur de la charité).

vo n R i n t e l e n , F. - Bonitas creationis - Bonitas Dei, in

Giorn. di Metaf., 9, 1954, pp. 523-541.R o l a n d -G o s s e l in , B. - La morale de saint Augustin, Pa­

ris 1925 (specialmente pp. 73-125 sulla volontà e la virtù).

— Les fondements de la morale de saint Augustin, in Revue de Philosophie, 30, 1930, pp. 519-538.

S o l ig n a ç , A. - La conception augustinienne de l ’amour, Nota complem. a Les Confessions (II, pp. 617-622), in B.A., vol. 14, Paris 1962.

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IN D IC E DELLE C IT A Z IO N I A G O ST IN IA N E

Il numero rimanda alla pagina; l’esponente alla nota.

a) De diversis quaestionibus L X X X IIl

q- 5 : 48, 491, 51. q. 8 : 561, 571. q. 9 : 189. q. 17 : 191. q. 19 : 191. q. 24 : 82-83, 189, 190. q. 30 : 19, 24, 28', 29-32,

3°” 34, 36, 40, 47, 49-51, 53, 67-75, 78- 80, 85, 87, 102, 114-5,186, 192, 193, 194, 195-

q. 31 : 191.q. 35 : 19, 21, 29, 34, 48, 51,

53, 102, 120, 186, 194. 1: 21-24, 26, 272, 31, 33,

42-44, 62-63, 66, 122*.187, 188, 189, 192.

q- 35,2: 21, 23, 26, 28% 29,3°, 33 , 35-38, 42> 44 .461, 47 , 50, 58, 63-65, 86-87, 188, 189.

q- 36 : 19, 29, 34 , 53 , 120,186.

1: 27, 3° , 72, 76-77:,194-2: 77-3 : 77-

1 322 , 77-4 : 3° 2:

q- 40 : 34, 40, 57-58.q- 51,1: 40.

2: 83-:34, 86, 194.q- 53 ,2: 55 , 197.q- 54 : 47-'48, 51.

q- 61,4: 75-:76, 193-q- 71 ,5 : 45 , 188.

b) De doctrina chrisliana

Prol. 9 , 1222.116,

Libro I

ï ,12.23.3

4,4

92-.926.99,1212,193,101,117 ',I 3 3 1,

1033, 1081,X3I2, 1391, 195-

103-4, 1081 1212, 125-6,

1442.1 4 0 ,

1 1 7 ,I442,

1152:1312,4,

5.5 : 100, 138 , 140 ,163-4, 167, 195.

6.6 : 1411.7.7 : 1412, 195.8.8 : 1413, 144s.2.9.9 : 1212, 1414, 144s.2.

10,10: 100, 1131, 124,1381, I4is, 1423.

5-10, 5-10: 140.9-10, 9-10: 104, 1331. 11,11: 105, 1331, 1342. 12,11:

141'

12:14,13:

134 ■ 1212, 1222,

1 3 4 .

I3 5 2-

144s/

131 .

205

Page 101: ALBERTO Di GIOVANNI La Dialettica Dell'Amore

1 ■>,' 4 1 2o', Ï 351. 3i , 34 : IOO1, I023, 108, 1092,

■6,15 ii6 s . J I 203 IIO2, I l8 4, I29È, 1312,17,16 I062, 113 , I 331. I 342,

I381, 142s. , 174-9,

187. 198.

20,19 4 24-31, 25-34: I I 7 2.131 . 2

29-3 30-34: 117 •19-20 18-19 130, 1331. 32,35: IOO1, 1023, 1184, 128s.311-21 11-19 100, 134, 141, 1293,5 I3 72, 142s.3 1633,

1724. 168-9 174-5, i 77-8i ,22,20 102, io8 , 109, H 7> 191, 1963., 198.

13 I2, I333, 1381, 1422, 30-32, 33-35 : IOO, IOO1.I4 65, I472, 148, 16 11, 33,3*5: 106, I08‘ , I223 1312,161-2 , 193- 170-1

21 I 001, 102, 107, 109-110, 37: IOO1, 10 63, IO7, n i ,115s. 2, 117 1181, 129 , 113, 115-6 123, 128,I381-2, I42'î, 144s.2 I471, I291, I381 142s.3, 170-1,149, 15 11, 16 11, 162, 188.165, 194, 197. 34,38: TOO, IOO1, 105, 1291,

23,22 I lo ', 119 1 1222*4, 144s,. I3 I4, Ï 331. 134= 142,152, 16 11, 163-4 197- 142s.3, 1724 173 '

23 II8 1, 1222-4 138’, 1423, 35 ,39 : 106-7 n o 2, n i 2, 114 1,

144s. , 150 153, 1634, I I 72, 119s. , I 353,196. I381-3 142 , 164’.

22-23 20-23 117 2 36,40: IIO3.

24,24 I 2 I 2, 154, I 551.41: I383.

25 ~ » 2 35-36 , 39-41 : 1203.I 33 , 155s.1

37 ,4 i : 1 1 7 1-2 124.25,26 1183, 154-5 38,42: 125, 129V, 133*. 14 0',26,27 n o 2, 1 17 2, I l8 5, 1382, 142s.3

I 471, 156, l 6 l ‘, 163, 36-38, 41-42: n 72.

27,28

195s.39 ,4 3 : I 334, 134-

IIO2, 117 2 II9S.1, 131, 40,44: « 72, 1203, 1385.1381, 144-6, 163-4 1682, 35-40 , 39-4 4 : 1201.I93-

29 1723.Libro II

29,30 1001, 1091, IIO2, 1182,124, 1281, I294, 1381, 7,10: IIO2, 1 ■>

1 1 7 - , 121S. 12 6 ,1423, 16 12, 165-6, 1672, I381-2 159, 16 11.1681-3, 182, I94 , 198. 11: I I 72, 12 12, 1251, 1 2 7 ',

30,31 IOO, 1334, 1722-3. I299, I 3 I 4, 1321, I 334.32 100, i 6 i *, 1722. 10,15: 931-33 100, n o 2, I 354, 1382 11,16: 931-

165, 1722, 173, 182-3, 14,21: 93*-197. 16,23: I I 72-

Libro III

i,x : 931.10,14: n o 2, 1 17 2.

1 5 : I 2 0 1’3,

l 6 ; I I O ! , 1 1 2 , I 2 0 1.5. 1 2 1 ,

I 2 3 J, 1 5 9 , 1 8 7 .

1 2 , 2 0 : I 2 0 V \

1 4 , 2 2 : 1 7 1 - 2 .

c) Atre

De Civitate Dei

IV , 22: 74.

XIX, 3, 1: 28’ .

Confessiones

I , 1 , 1 : 8 - 9 .

V I II , cc. 5,8-10: 581.

X, 27, 38: 82.

40,65: 53.

X III, x i , 12: 81.

Epistolae

1 4 3 , 2 : 1 8 5 1.

Conira Faustum manichaeum

XXII, 27: 82,

1 5 , 2 3 : n o 2-3 , 1 6 0 .

16,24: 1203, 160.17,25: 1 17 2.19,27: 1 1 71.10-21, 14-31: 1 17 1.

Libro IV

1,1 : 92s.

Opere

Retractationes

I, 26: 17, 19, 4 12.II, 4,1: 912, 925.

6: I991.

De quantitate animae

33,76: 52.

Sermones

W ilmart II, 4: 156-8, 1672,196.

Soliloquia

I, i , 2: 9.

De "Trinitate

IX, 2, 2: 33s.3.XV, 2, 2: 9.

207

Page 102: ALBERTO Di GIOVANNI La Dialettica Dell'Amore

IN D ICE DEGLI A U T O R I C IT A T I

Il numero rimanda alla pagina, l ’esponente alla nota.

Si om ettono tutti i nomi ricorrenti nella sola Bibliografìa

Altaner, B. 17 s .3, 9 1 3.

Bardy, G. 17 17 s.3, 18 19 2,

35 52 54 ■, 77 \ 9 1 3.9 3 2-3.

Beckaert, J.-A. 13 ', 1 7 1 8 2, 82 2.

Boyer, C. 17 s.3, 32-34, 65

9 1 3, 1 3 2 .

Capànaga, V. 17 s.3, 91 3.

Capello, G . 58

Casamassa, A. 17 s.3, 9 1 3.

Cayré, F. 17 s.3, 18 2, 3 5 5 2 ' , 9 1 3, 9 4 2, 126 \

Cicerone, 28

Deman, T. 28 87 2. 9 1 3, 113 3.

di Giovann1, A., 12 13 ’-2.

Farges, J. 91 '- 3, 92 J, 93 2 3.

Gilson, E. 35 s.1, 32 166 2,178 ', 182.

Guzzo, A. IO 1.

Hultgren, G. 18 !, 35 ‘ .

Istace, G. 9 1 3, 92 2> 93 2, 94 1 95 \ 96 '> 98 .1:19 s.1, 134 11 4 7 2.

Jolivet, R. 33 ■.

Marrou, H. 17 s.3, 18 9 1 3, 9393 4, 94 S 126 1.

Martin, F. B. 91 S3.

Martin, J. 17 s.3, 9 1 3.

Masnovo, A. 7

Maurini, 9 1 3, 92, 93 \

Moricca, U. 17 s.3, 9 1 3.

Panezio, 28 \

Pincherle, A. 18 \

Sciacca, M. F. 17 s.3, 91 3.

Trapè, A. 178 ■.

Varrone, 28 1.

Zarb, S. 1 7 3, 9 1 3.

208

I N D I C E

I n t r o d u z i o n e ................................................................Pag. 7

P a r t e I - A n a l i s i d e l « D e d i v e r s i s q u a e ­

s t i o n i b u s L X X X I I I » . . . . » 15

C a p . I - Cronologia, carattere e co n ten u to » 17

C a p . I I - Psicolog ia d e ll ’am ore . . . . » 21

I. L ’amore è un appetito, un moto . . . . » 21

II. a) ... verso un oggetto a cui tendere, daappetire ....................................................» 21

b) ... per se stesso 0 in ordine a un altro » 22

c) tale oggetto è il « bonum » . » 23

d) tale bene viene chiamato onesto 0 utile, a seconda che sia amato per se stesso (frui) o come mezzo in ordine a un altrobene ( u t i ) ............................................ » 23

e) dai diversi beni (onesto o utile) vengono specificati gli amori, sia psicologicamenteche m oralmente.................................... » 23

f) Analisi del rapporto tra i due binomi-,« uti-frui » e « caritas-cupiditas » . . . » 28

III. L ’amore presuppone anche un soggetto, que­gli cioè che ama il « bonum » . » 33

IV. L’amore è relazione tra il soggetto e l’og­getto; relazione non necessariamente di al­terità .......................................................... » 33

V. Nell’uomo vi sono varie specie di amori, in corrispondenza con le varie «parti » della suaa n im a .......................................................... » 33

VI. Caratteristiche proprie dell’amore . ' . » 37

a) Nell’amore l’oggetto amato « afficit exse » il soggetto a m a n te ..................... » 37

b) Carattere estatico dell’amore . . . » 39

209

Page 103: ALBERTO Di GIOVANNI La Dialettica Dell'Amore

V II. Relazioni tra amare e conoscere . . . Pag.

a) la conoscenza del bene da amare, prere­quisito necessario all’amore . . . . »

b)- solo la conoscenza ci fa possedere il bene. co n o sciu to ...................................................... »

c) amare e conoscere, benché distinti, sicompenetrano l ’un l ’altro . . . . »

V i l i . Amare e f e l i c i t à ..................................... , »

a) L ’amore del bene posseduto si chiama fe­licità: la felicità e le felicità . . . . »

b) La felicità, possesso di Dio, è attivitàsupremamente spirituale, implicante co­noscere e amare intellettivi . . . . »

c) Volontarismo agostiniano? . . . . »

d) La felicità, possesso di Dio, è raggiun­gibile in questa vita? .............................. »

e) La felicità è raggiungibile con le sole for­ze naturali?.................................................... »

IX. Amare e volere si identificano per Agostino »

C a p . I l i - Morale dell’am ore.......................... »

I. Cosa bisogna amare? Quanto ci farà felici:Dio. E ’ un dato primo, non solo naturale, ma anche m o r a le ............................................. »

II. Significato dell’eudemonismo agostiniano . »

III. Etica dell’amore, quella agostiniana . . . »

IV. ... ma etica razionale ..................................... »

V. Etica razionale, ma oggettivistica, fondatasulla nozione di « partecipazione » . . »

V I. Etica antropocentrica, secondo il suo fineim m ediato ........................................................... »

V II. Teocentrismo ultimo dell’etica di Agostino »

P a r t e II - A n a l i s i d e l « d e d o c t r i n a

CHRISTIANA » ...................................... »

Cap. IV - Cronologìa, carattere e contenuto »210

40

40

C a p . V - Psicologia dell’amore . . . Pag

I. Soggetto e oggetto nell’amore . . . . »

II. L ’amore: « uti » e « fruì » ................ »/41 III. Cos'è l’amare e sue caratteristiche . . . »

IV . Questioni di vocabolario: significato dei44 termini designanti l'amare nel « De doctrina

christiana » ............................................. ............. »

4-6 V. Relazioni tra amare e conoscere . . . »

V I. Amare e f e l i c i t à ................................ »46

Cap. V I - Morale dell’amore . . . . »47 I. L ’amore verso Dio e le sue implicazioni

-51 II. L ’amore verso noi stessi.......................................

III. L ’amore verso il prossimo . . . .

IV. L ’amore di Dio verso di noi . . . .52

53

56 Conclusione

61

61

69

74

78

B ib l io g r a f ia ............................

Indice delle citazioni agostiniane

Indice de eli autori citati .

99

99101

109

117

123

128

137

1-37

148

160

172

185

201

20J

208

89

9 1211