43 titien saint marc entre les saints sébastien, roch, côme et damien-piavento
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Orso Maria Piavento Scuola Normale Superiore
Il san Marco in trono di Tiziano
Descrizione
L’opera, dipinta ad olio su tavola (dimensioni 218x149 cm), raffigura un s. Marco assiso su un alto
trono, ai cui piedi sono disposti, quasi come quinte sceniche, i santi Cosma e Damiano (a sinistra),
Rocco e Sebastiano (a destra). San Marco siede avvolto in ampi panni blu e rossi, reggendo un libro
(il Vangelo) fra mano e ginocchio destro; volge il viso, lasciato completamente in ombra, verso il
medesimo lato. Il trono poggia sulla base di una colonna nella cui parte superiore si intravede un
frammento di fregio istoriato; dalla sommità della colonna pende un lungo drappo verde ritmato da
fini decorazioni a strisce rosse. Il pavimento, a mattonelle di colore rosso e bianco, inframmezzate
in senso longitudinale da altre di colore grigio, è raccordato con la base della colonna da uno
scalino, sempre di colore grigio. I santi Cosma e Damiano sono disposti uno di profilo, l’altro
frontale rispetto all’osservatore, vestiti di un panno rosso e di un mantello in broccato giallo. Il
secondo, inusualmente rappresentato come un uomo maturo, quasi completamente calvo, indossa
anche una veste nera e una camicia bianca, sopra la quale si vede un prezioso collare dorato.
Dall’altra parte il san Rocco additante il bubbone pestilenziale è posto di tre quarti rivolto verso i
propri “dirimpettai”, mentre san Sebastiano, l’addome avvolto da un panno bianco cadente dietro i
suoi piedi, si volge più direttamente verso l’osservatore, ma con lo sguardo introspettivamente
rivolto verso il pavimento; ai suoi piedi giace una freccia, simbolo del martirio subito. Alle spalle
dei santi Rocco e Sebastiano si ergono, avvolte da un’ombra livida, tre colonne (di cui
s’intravedono i capitelli compositi) sulla cui funzione torneremo più avanti. Sullo sfondo del dipinto
si staglia un cielo nuvoloso, che filtra la nitida luce solare, proveniente dalla destra dello spazio
pittorico.
Contesto e storia conservativa
L’opera venne realizzata per la chiesa agostiniana di S. Spirito in Isola: non molto sappiamo della
sua sistemazione originaria. Probabilmente si trovava nella cappella absidale a destra dell’altare
maggiore: una visita pastorale del 1581 ricorda la dedicazione di quello spazio a S. Marco e che tale
vano era illuminato da una finestra sulla parete destra (Humfrey 1993, p. 242): questo particolare
mette in risalto l’abile gioco illusionistico di Tiziano, che fa provenire la fonte luminosa della
figurazione pittorica proprio da quel lato; le tre colonne che chiudono la scena sulla destra tengono
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inoltre conto del punto di vista dello spettatore posizionato al centro della navata, che avrebbe
osservato la cappella obliquamente da sinistra: funzionano dunque da finta cornice architettonica,
che probabilmente giocava un ruolo illusivo in rapporto all’architettura reale.
Nel 1656 l’ordine agostiniano venne soppresso, la chiesa abbandonata (andò poi demolita nei secoli
successivi e ad oggi non ne rimane più alcunché) e i suoi arredi spediti alla chiesa della Salute per
ordine del Senato (26 gennaio 1656, 1657 more veneto; Tiziano 1990, p. 255): insieme al s. Marco
giunsero nel nuovo edificio progettato da Longhena altre opere di Tiziano, come la Pentecoste (già
sull’altare maggiore) e i dipinti realizzati per la decorazione del soffitto (Sacrificio di Isacco; Caino
e Abele; Davide e Golia). Il s. Marco venne alloggiato nella sacrestia dell’edificio: in questa
collocazione è ricordato per la prima volta da Boschini nel 1664 (p. 350), entrando a sinistra;
Ridolfi nel 1648 (p. 153) e lo stesso Boschini nel 1660 (pp. 186-187) la registrano ancora nella sua
collocazione originaria. Successivamente (Zanetti 1733, p. 336) venne appesa fuori dalla sacrestia e
infine dentro di essa, sopra la porta a destra dell’altare (Ragguaglio…, 1819, p. 17). Dopo il 1856 fu
posta sopra l’altare stesso: a seguito di questa sistemazione risalgono le aggiunte in basso di 2 cm
ed in alto di 6 cm, mentre la cornice che la inquadra oggi è certamente settecentesca, poiché venne
riprodotta in un’incisione del 1781 (Tiziano 1990, p. 153).
L’arrivo nel nuovo edificio, col suo diverso microclima e, probabilmente, alcuni incauti interventi
di restauro, minarono seriamente la tenuta dell’opera, che negli anni precedenti godette di buone
condizioni di salute, stando alla testimonianza del vicario del convento (1545) nel processo che vide
Tiziano contro i monaci agostiniani: “El ghe se la nostra pala vechia la qual è assai tempo che l’è lì
et è stata e non ha patito mai umidità alcuna.” (Sambo 1980, p. 393). Nel 1787 Pietro Edwards, in
una lettera ai Provveditori al Sal, ne segnalava “l’estremo disordine” e si riservava qualsiasi
pronostico sul restauro, nonostante la “ricchezza sufficiente del colore originale” desse qualche
speranza sul buon esito dell’intervento. Il restauro venne affidato a Giuseppe Bertani e Giuseppe
Diziani. Nel XIX secolo subì diversi interventi: nel 1849 venne avviato il restauro a cura di Paolo
Fabris, ma nel 1851 non risultava ancora terminato, mancando ancora le integrazioni laddove erano
state tolte le ridipinture più antiche. Nel gennaio del 1882 Guglielmo Botti (ispettore delle Gallerie)
riscontrava che il dipinto era “divenuto molto opaco ed in vari punti il colore è sollevato, e sotto i
piedi dei SS. Cosma e Damiano manca in qualche punto”. Ancora una volta il restauro integrativo
venne affidato a Fabris. L’intervento di restauro moderno (1978-85, A. Michieletto, A. Santori
Merzagora) ha rimosso lo spesso strato di biacca sul retro dell’opera, ha eliminato tutte le traverse e
le castagnole rigide, integrando le lacune con listelli di pioppo stagionato. Nonostante i gravi guasti,
soprattutto nel cielo (che aveva sei strati di ridipinture), e l’irreversibile alterazione di alcuni
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pigmenti, l’opera ha riguadagnato quello splendore pittorico che ricordava già Boschini (Tiziano
1990, pp. 109-110).
Iconografia e possibile committenza
La più comune interpretazione dell’opera (ad es. in Tiziano 1990, p. 151), riconduce la
commissione del dipinto (non documentata) ad una pestilenza, vista la presenza dei santi Rocco e
Sebastiano, numi tutelari invocati in queste tragiche occasioni; per di più essa è rafforzata dalla
presenza dei santi medici Cosma e Damiano (allusione, forse, alla cura del contagio). La presenza
di san Marco farebbe pensare ad una commissione pubblica.
Questa lettura presenta però alcuni punti non chiari: come mai un’opera dal significato tanto
importante viene “confinata” in una piccola chiesa conventuale della laguna? Data la lontananza
della chiesa dalla città e l’assenza di connessioni con le confraternite locali Peter Humfrey
(Humfrey 1993, p. 242) ha ipotizzato che la cappella fosse stata destinata a monumento funebre di
un committente privato che, come nel caso dell’altare Surian (attribuito a Giovanni Buora, nella
chiesa di S. Stefano a Venezia) esercitasse la professione di medico. Humfrey propone anche di
identificare il donatore con s. Cosma o s. Damiano, vista la precisione ritrattistica dei loro volti. A
questo punto i santi Rocco e Sebastiano sarebbero un riferimento alla sempre presente minaccia
della pestilenza (piuttosto che ad un evento preciso) e alla professione medica. Lo stesso contrasto
di luci ed ombre, secondo alcuni, alluderebbe alla precarietà e all’imprevedibilità della vita terrena.
Datazione
A partire da Cavalcaselle (Cavalcaselle-Crowe 1877, p. 117) l’opera viene datata al 1512 sulla base
del confronto con gli affreschi della Scuola del Santo a Padova (1511), a cui la tavola con il s.
Marco è ritenuta successiva per ragioni stilistiche; per la maggior parte della critica la pestilenza del
1510, a cui la pala potrebbe essere legata da ragioni votive, costituirebbe un argine post quem non
sembra possibile retrocedere. A questo filone, maggioritario, si ascrivono, tra gli altri, Suida,
Longhi, Tietze, Zampetti, Berenson, Valcanover, Pallucchini, Humfrey. Di questo gruppo fa parte
anche Morassi, il quale ritiene tuttavia che il dipinto sia stato realizzato prima degli affreschi del
Santo. Credono invece in una datazione più precoce Gronau (post 1504) e Rosand (1508-09), per
ragioni di ordine stilistico.
Fortuna critica e stile
La prima menzione dell’opera risale alla Vita di Tiziano di Vasari (Vasari 1568, vol. 6, p. 157):
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e in quella di Santo Spirito fece in una piccola tavoletta un San Marco a sedere in mezzo a certi Santi, ne' cui volti sono
alcuni ritratti di naturale, fatti a olio con grandissima diligenza: la qual tavola molti hanno creduto che sia di mano di
Giorgione.
Il riferimento a Giorgione è riconosciuto unanimemente da tutta la critica: innanzitutto la
composizione dell’opera, con l’alto trono e i santi disposti ai suoi piedi in una monumentale
costruzione piramidale richiama direttamente la pala di Castelfranco (1504-06; tav. 1). In secondo
luogo, le stesse fisionomie dei santi richiamano alla memoria quella capacità introiettiva e di
esprimere gli affetti propria di Giorgione, al cui fianco Tiziano lavorò nei suoi primi anni veneziani.
Dal punto di vista cromatico, Tiziano esprime, come riconosciuto già da Vasari, capacità
straordinariamente espressive: così lo descrive Roberto Longhi nel Viatico del 1946 (p. 23):
In tutto Tiziano giovane è veramente qualche cosa di fidiaco: il suo impasto stesso ha il tepore vivente del marmo
greco: e la medesima sensualità sublimata, incolpevole, in confronto a quella troppo carica e flagrante del Giorgione
ultimo.
Ma è certamente utile un confronto con Giovanni Bellini per comprendere da dove Tiziano abbia
potuto trarre ispirazione per quelle accensioni cromatiche così vigorose: in particolare dalla pala di
S. Zaccaria (Tiziano 1990, pp. 151-153). La straordinaria qualità del colore tizianesco è sottolineata
ancora da Francesco Sansovino (Sansovino 1581, p. 83v): “Titiano vi lavorò [nella chiesa di S.
Spirito], nel primo vigor della sua gioventù (…) un’altra tavola appresso, con atti tanto viventi, con
panni e coloriti così belli, che sono mirabili a risguardare.” Anche Marco Boschini (Boschini 1660,
pp. 186-187) riconobbe il rapporto con Bellini, in una chiave di imitazione-emulazione:
Oh che bela figura è quel San Marco
(Come vedemo) in su quel pedestal!
Tesori sigurissimo la val!
Qua sì Tician, ch’ha teso dreto l’arco!
Là in alto quela nìola batimenta
Con tal gracia la testa de quel Santo,
Che anzi la ‘l fa resplender tuto quanto,
E in artificio ecelso la ‘l sustenta.
San Cosmo e Damian pur comparisce,
Parto de quel penel così ecelente,
In moti spiritosi, che la mente
Resta confusa, e l’ochio si stupisce.
San Roco e San Bastian da l’altra parte
Se vede in vive positure, e pronte,
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Da cusì natural limpida fonte
Xe scaturia la perfezion de l’arte.
[Ec.] Me par che sto conceto sì divin,
ste forme d’atizar, ste positure,
E i movimenti de quele figure,
Staga sul far del nostro Zambelin.
[C.] No ghe xe dubio che sta pala degna
Xe su l’idea del mistro de Tician
(Come la dise) e par che quela man
D’imitar Zambelin qua no se sdegna.
Però, se vede che gh’è un certo misto,
Che supera el Maestro in maestà,
Un far (per cusì dir) più solevà,
Che forsi in Zambelin no fu mai visto.
È molto interessante come Boschini descriva il frastagliato procedere della luce sulle figure della
tavola, per tagli improvvisi ed estremamente teatrali (tav. 2). Quel lasciare in ombra la testa del
santo patrono sembra quasi aumentare l’autorità della figura, portandolo ad un livello di elevazione
ancor maggiore di quello delle figure sottostanti, veri mediatori fra divino e terreno. Per questa
soluzione stilistica e compositiva vi è un ulteriore riferimento di confronto: il dipinto raffigurante il
Giudizio di Salomone, ormai riconosciuto a Sebastiano del Piombo, a Kingston Lacy (1508-10, tav.
3). Nel dipinto di Luciani c’è però una maggiore dispersione delle figure nell’economia del quadro:
viceversa, Tiziano tesse una struttura ad impianto rigoroso ed immediatamente monumentale, che
funziona come precedente “sperimentale” per l’architettura più elaborata della pala Pesaro
(terminata nel 1526; Meilman 2004, p. 62). Inoltre, Humfrey (Humfrey 1993, p. 242) ritiene che
Tiziano abbia tenuto come riferimento compositivo anche la pala di Giovanni Bellini per la chiesa
di S. Giovanni Crisostomo (1513), successiva al S. Marco in trono, ma che il pittore di Cadore
potrebbe aver visto nello studio di quest’ultimo. Allo stesso modo, anche Sebastiano del Piombo
avrebbe usato lo stesso modello belliniano per il suo dipinto raffigurante S. Giovanni Crisostomo
nella chiesa omonima (tav. 4).
Infine, vanno segnalate le copie di questo dipinto, testimonianza tangibile della fortuna dell’opera:
ve n’è una nella chiesa di San Francesco ad Alto in Ancona (con varianti) e un altro esemplare,
limitato alle figure dei santi Rocco e Sebastiano, presso il monastero di Praglia (Venezia…1979, p.
238).
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