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4.1 RITUALE TERAPEUTICO PER FAVORIRE LA DIFFERENZIAZIONE: LO ZAINO Sto praticando da molti anni tecniche per favorire la psicoterapia di un adulto, individuale o di coppia. Durante queste mie ricerche ho creato una tecnica esperienziale (Canevaro 1999) per permettere di esprimere i sentimenti riguardanti la fase di differenziazione di un giovane adulto dai suoi genitori, che ho chiamato LO ZAINO. 1 Durante la crescita di un individuo nel seno della sua famiglia, e per un lungo periodo, è necessario proteggerlo e prendersene cura, per crescere e sviluppare un senso di appartenenza e nel contempo un’identità originale, prodotta dalla sua predisposizione filogenetica e dalle molteplici identificazioni di base con i suoi oggett i primari. Sebbene l’uomo sia la specie vivente più sviluppata, che culmina con l’acquisizione del linguaggio, nel contempo è la specie più vulnerabile biologicamente. Un cane o un gatto riescono ad essere adulti biologicamente tra uno e due anni, e possono riprodursi ed acquisire il dominio del territorio. Nell’essere umano sono necessari tra i quindici e i diciotto anni per avere la maturità biologica, circa venticinque trenta per avere una maturità 1 Durante una supervisione, la Dr.ssa Alessandra Gritti ha riportato un caso, dove di fronte all’impossibilità di sperimentare questa tecnica con i genitori di un paziente poiché erano morti, lo fece con il fratello maggiore con ottimi risultati prima che il suo matrimonio lo avesse portato a vivere altrove. Io non l’ho mai fatto, ma penso che possa essere una variante utile e interessante purché esista una reale impossibilità di farlo con i genitori: non poter convocarli perché non vogliono venire, non è ovviamente lo stesso, giacché non si può paragonare la relazione con un fratello a quella con i genitori. Nel caso di morte dei genitori, l’elaborazione del lutto suppone la ricollocazione emozionale di queste figure nel mondo interno del figlio e un eventuale spostamento sul fratello per effetto del transfert di certe qualità e caratteristiche dei genitori, può far sì che la tecnica abbia buoni risultati. Lo stesso mi è stato chiesto se si può applicare alla coppia. In questo caso, mai fatto da me, può esserci la stessa spiegazione, fermo restando che la tecnica è sempre utile per favorire la differenziazione soggetto - oggetto. La metafora del “lungo cammino nella vita” che può favorire il distacco del figlio non è ovviamente applicabile alla coppia. L’unica indicazione possibile è che quando una coppia si trova in un processo di separazione, non riesce a farlo perché rimangono inespressi gli aspetti positivi del legame che mantengono l’attaccamento sofferto e ambivalente. In questo caso adopero la tecnica promossa da Florence Kaslow (1987), quando prende dall’ebraismo antico il rituale del divorzio (l’uomo davanti a tre rabbini può iniziare il processo del divorzio conosciuto con il nome di Beth Din, rinnegando la moglie) per costruire ad hoc una cerimonia terapeutica. Fa venire in terapia ogni membro della coppia che si separa, accompagnato ciascuno da un familiare o amico intimo. Accudiscono anche i figli, se vogliono. La psicoterapeuta invita i membri della coppia a ricordare le cose positive che hanno condiviso durante il matrimonio. Ogni testimone promette di sostenere il proprio amico o parente, in caso di bisogno, dopo la cerimonia. “La cerimonia è abitualmente commovente e porta la gente oltre la rabbia, risentimento o voglia di vendetta, ad affermare il valore che il matrimonio ebbe per molti anni e alla consapevolezza che non sono stati anni persi” (pag. 230). Io propongo questo esercizio alle coppie nel mio studio quando avveratasi già la separazione, continuano a soffrire perché in realtà non possono accettare che tutto sia stato negativo e invano. Chiedo allora ad ognuno alternativamente di ringraziarsi reciprocamente per il bene che si sono dati. Dopo che ciascuno enumera e descrive le cose buone ricevute dall’altro, chiedo loro di darsi u n abbraccio, in silenzio. Questo esercizio, di solito molto commovente, permette loro di vivere con tenerezza questo incontro ed è molte volte un balsamo per le loro sofferenze. “Ci sono anche lacrime dolci” diceva una paziente per descrivere questo momento. Di solito quasi immediatamente riescono a continuare le fasi della separazione superando quella impasse.

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Page 1: 4.1 RITUALE TERAPEUTICO PER FAVORIRE LA ......ad affermare il valore che il matrimonio ebbe per molti anni e alla consapevolezza che non sono stati anni persi” (pag. 230). Io propongo

4.1 RITUALE TERAPEUTICO PER FAVORIRE LA

DIFFERENZIAZIONE: LO ZAINO

Sto praticando da molti anni tecniche per favorire la psicoterapia di un

adulto, individuale o di coppia. Durante queste mie ricerche ho creato una

tecnica esperienziale (Canevaro 1999) per permettere di esprimere i

sentimenti riguardanti la fase di differenziazione di un giovane adulto dai

suoi genitori, che ho chiamato LO ZAINO.1

Durante la crescita di un individuo nel seno della sua famiglia, e per un

lungo periodo, è necessario proteggerlo e prendersene cura, per crescere e

sviluppare un senso di appartenenza e nel contempo un’identità originale,

prodotta dalla sua predisposizione filogenetica e dalle molteplici

identificazioni di base con i suoi oggetti primari. Sebbene l’uomo sia la

specie vivente più sviluppata, che culmina con l’acquisizione del

linguaggio, nel contempo è la specie più vulnerabile biologicamente.

Un cane o un gatto riescono ad essere adulti biologicamente tra uno e due

anni, e possono riprodursi ed acquisire il dominio del territorio.

Nell’essere umano sono necessari tra i quindici e i diciotto anni per avere la

maturità biologica, circa venticinque – trenta per avere una maturità 1 Durante una supervisione, la Dr.ssa Alessandra Gritti ha riportato un caso, dove di fronte all’impossibilità di

sperimentare questa tecnica con i genitori di un paziente poiché erano morti, lo fece con il fratello maggiore con ottimi

risultati prima che il suo matrimonio lo avesse portato a vivere altrove. Io non l’ho mai fatto, ma penso che possa

essere una variante utile e interessante purché esista una reale impossibilità di farlo con i genitori: non poter convocarli

perché non vogliono venire, non è ovviamente lo stesso, giacché non si può paragonare la relazione con un fratello a

quella con i genitori. Nel caso di morte dei genitori, l’elaborazione del lutto suppone la ricollocazione emozionale di

queste figure nel mondo interno del figlio e un eventuale spostamento sul fratello per effetto del transfert di certe qualità

e caratteristiche dei genitori, può far sì che la tecnica abbia buoni risultati.

Lo stesso mi è stato chiesto se si può applicare alla coppia.

In questo caso, mai fatto da me, può esserci la stessa spiegazione, fermo restando che la tecnica è sempre utile

per favorire la differenziazione soggetto - oggetto. La metafora del “lungo cammino nella vita” che può favorire il

distacco del figlio non è ovviamente applicabile alla coppia. L’unica indicazione possibile è che quando una coppia si

trova in un processo di separazione, non riesce a farlo perché rimangono inespressi gli aspetti positivi del legame che

mantengono l’attaccamento sofferto e ambivalente.

In questo caso adopero la tecnica promossa da Florence Kaslow (1987), quando prende dall’ebraismo antico

il rituale del divorzio (l’uomo davanti a tre rabbini può iniziare il processo del divorzio conosciuto con il nome di Beth

Din, rinnegando la moglie) per costruire ad hoc una cerimonia terapeutica. Fa venire in terapia ogni membro della

coppia che si separa, accompagnato ciascuno da un familiare o amico intimo. Accudiscono anche i figli, se vogliono. La

psicoterapeuta invita i membri della coppia a ricordare le cose positive che hanno condiviso durante il matrimonio. Ogni

testimone promette di sostenere il proprio amico o parente, in caso di bisogno, dopo la cerimonia.

“La cerimonia è abitualmente commovente e porta la gente oltre la rabbia, risentimento o voglia di vendetta,

ad affermare il valore che il matrimonio ebbe per molti anni e alla consapevolezza che non sono stati anni persi” (pag.

230).

Io propongo questo esercizio alle coppie nel mio studio quando avveratasi già la separazione, continuano a

soffrire perché in realtà non possono accettare che tutto sia stato negativo e invano. Chiedo allora ad ognuno

alternativamente di ringraziarsi reciprocamente per il bene che si sono dati.

Dopo che ciascuno enumera e descrive le cose buone ricevute dall’altro, chiedo loro di darsi un abbraccio, in

silenzio.

Questo esercizio, di solito molto commovente, permette loro di vivere con tenerezza questo incontro ed è molte

volte un balsamo per le loro sofferenze. “Ci sono anche lacrime dolci” diceva una paziente per descrivere questo

momento. Di solito quasi immediatamente riescono a continuare le fasi della separazione superando quella impasse.

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psicologica, molti di più per una maturità emozionale, a volte mai raggiunta.

In una recente ricerca dell’OCSE (2003) i giovani di 30 anni che rimangono

a vivere in casa con i genitori raggiungono in Italia il 73,5% nei maschi e il

48,5% nelle femmine, in testa alla classifica europea davanti a Grecia,

Portogallo e Spagna.

In Francia e Gran Bretagna le cifre sono del 23% per i maschi e del 12,5%

per le femmine.

Come si vede, apparteniamo al bacino mediterraneo dove la tradizione di

vivere intorno alla famiglia di origine è molto più sviluppata che nei paesi

del Nord Europa, dove si stimola presto il movimento esogamico. Il

sentimento di appartenenza è molto importante e la famiglia gioca un ruolo

fondamentale nello sviluppo dell’identità, prodotto di un movimento

dialettico tra la fusionalità con gli oggetti primari e la complementarietà

reciproca e la differenziazione relazionale, che permette una buona

identificazione.

Buber (1958) concepisce l’uomo come definito dall’incontro con l’Altro:

“Io divengo attraverso le mie relazioni con il Tu, nel momento in cui dico

Tu divengo Io , ogni vita reale è un incontro”.

La transitorietà dalla fusione inter-soggettiva, non dialettica, alla

differenziazione che acquisisce nel dialogo la forma più sviluppata di

relazionalità, è stata ben studiata da Boszormenyi-Nagy (1976)

“L’individuazione o il significato del Sé possono essere accentuati sia

dall’antitetica contrapposizione all’oggetto, sia dalla fusione con un co-

soggetto. La contrapposizione soggetto - oggetto è uno dei requisiti di base

del dialogo, e una famiglia sana ha una rete di relazioni di tipo dialogico,

piuttosto che di tipo fusionale” (pag. 71).

“Il Noi amorfo si fonda principalmente sulla fusione inter-soggettiva di tutti

i membri della famiglia, il Noi differenziato, invece, su posizioni soggetto -

oggetto distinte (dialogo) fra membri di una famiglia sana” (pag. 76). Per

l’espletamento del bisogno di differenziazione, curiosità innata che permette

di acquisire il dominio del territorio extra-familiare, occorre il nutrimento

affettivo e la conferma del Sé che proviene dai familiari significativi,

fondamentalmente i genitori, ed anche la fiducia e la sicurezza con cui questi

genitori permettono e spingono i figli a realizzare il proprio progetto

esistenziale. Le carenze emozionali e psicologiche dei genitori o i conflitti

incombenti nell’area coniugale o genitoriale fanno sì che spesso la

differenziazione del figlio minacci l’equilibrio disfunzionale raggiunto,

provocando attive manovre per impedire quel movimento esogamico con

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una gamma infinita di tonalità come la colpevolizzazione, il vittimismo ed

anche il sabotaggio economico o il ricatto. Senza arrivare a questi stadi

altamente disfunzionali, il momento del distacco da casa, o della vera e

propria differenziazione, è un momento agrodolce dove si mescolano

sentimenti di allegria con sentimenti di perdita.

Per agevolare questa fase l’esercizio esperienziale dello zaino permette

l’interscambio emozionale e la ridefinizione positiva della relazione genitori

- figli ridando a ciascuno quello che gli spetta: al figlio la conferma di sé e

il permesso per esplorare il mondo, al genitore il compimento di una

mansione inscindibile dal suo ruolo.

Passate le prime fasi della definizione del problema e della convocazione

dei familiari in seduta, siamo nel pieno della terza fase, centrale, del

protocollo, cioè dell’incontro terapeutico che permette il chiarimento dei

malintesi e il raggiungimento degli obiettivi terapeutici. Dopo questa

esplicitazione e quando c’è l’accordo dei genitori per aiutare il figlio/a a

superare le sue difficoltà, si invitano tutti e tre a fare l’esperienza. Per

meglio capire l’esercizio e contestualizzare l’esperienza, commenterò un

caso clinico, quello di Antonio, la sua famiglia consulta il terapeuta per i

comportamenti molto ansiosi del loro unico figlio, di 22 anni, che dopo aver

fatto un tratto di università nella corso di Disegno Industriale, abbandona gli

studi e passa un periodo di depressione, confusione e chiusura in se stesso.

Nel primo incontro, in cui sono venuti anche i genitori, molto in ansia, la

madre, di professione psicologa, porge al terapeuta un genogramma di più

generazioni familiari dove si vede una traccia che inizia nella generazione

dei suoi nonni: un fratello del nonno con diagnosi di psicosi, poi ripetuta

nella generazione seguente, fino ad arrivare a una sua cugina, trattata per

anni per schizofrenia.

Il padre, Cristiano, architetto, interviene poco e racconta piuttosto come la

loro famiglia nucleare sia stata sempre molto sotto l’ala della famiglia di

origine di sua moglie, e dove la figura di spicco è suo suocero, persona molto

stimata da tutta la famiglia e a cui sua moglie è molto attaccata. Cristiano,

grande lavoratore e piuttosto assente in famiglia, non ha avuto molti contatti

con Antonio, lasciandolo per lo più a carico di sua moglie.

Antonio ascolta i suoi genitori, interviene poco, e parla di un suo viaggio

all’estero dov’è stato colto da un attacco di panico che gli impediva di

visitare i posti scelti. Per il secondo incontro, il terapeuta chiede ad Antonio

e a suo padre di venire da soli e “permettere” così alla madre di fare un

piccolo viaggio con due sue colleghe.

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Durante il secondo e terzo incontro, il terapeuta indaga sugli aspetti della

relazione padre - figlio e individua chiaramente la mancanza di complicità

tra di loro. Il padre, comunque, dice ad Antonio che l’unico a non

preoccuparsi durante il soggiorno all’estero è stato lui, dimostrando fiducia

nelle capacità di Antonio di cavarsela da solo.

Tra la seconda e la terza seduta, padre e figlio fanno un viaggio in una città

vicina dove il padre dirige un cantiere, e Antonio lo aiuta nel suo lavoro

facendogli dei disegni molto utili.

Cresce l’intimità tra di loro, e Antonio segnala come suo padre sia molto

stimato dai collaboratori e clienti, per lui un aspetto prima sconosciuto.

Arriviamo così alla quarta seduta, dove la madre commenta con grande

sollievo il suo viaggio con le colleghe, simultaneo a quello di Antonio e suo

padre, dicendo che le ha permesso di rilassarsi, confidando che suo marito

stava conducendo bene le cose con Antonio, che intanto trova grande

interesse nel riprendere gli studi in un campo complementare a quella di suo

padre.

In questa seduta, una volta stemperata l’ansia di Antonio e dei suoi genitori,

si incomincia a parlare del futuro di Antonio e arriva il momento giusto per

iniziare l’esperienza dello zaino. La formula è più o meno questa:

“In questo momento sarebbe molto utile fare un’esperienza insieme.

Mettetevi voi (i genitori) di fronte a vostro figlio/a e uno per volta inizierà

questa esperienza, mentre l’altro si siede accanto e aspetta il suo turno

guardando quanto succede, in silenzio.

Cominciamo da Lei, Laura. Si sieda di fronte a suo figlio,con le ginocchia

che si toccano e senza accavallare le gambe. Prendetevi le mani e guardatevi

negli occhi.

In questo momento Antonio sta per iniziare un lungo viaggio nella vita e

porta con sé uno zaino. Cerchi, Lei, di trovare due o tre cose importanti di

sé che Lei sia riuscita a coltivare, di cui ne sia orgogliosa, per darle ad

Antonio; lui le metterà nello zaino e quando ne avrà bisogno, nel lungo

cammino della vita (ripetere) le prenderà e le farà sue. Vediamo, per

esempio, un aspetto del Suo carattere che Le sia servito nella sua vita e di

cui Lei sia fiera.” Laura, allora, prendendo le mani di Antonio con molta

determinazione e guardandolo intensamente negli occhi, gli dice:

- Ti do il mio entusiasmo, perché nella vita mi ha permesso di superare le

difficoltà e intraprendere nuove strade.

(Il terapeuta prende un foglio, lo divide a metà e segna con cura quanto

Laura dice, da una parte il concetto e dall’altra le spiegazione dello stesso).

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-Ti do la mia fiducia nella donna, perché mi è sempre parso giusto

l’equilibrio e la collaborazione tra i sessi.

-Ti do il mio amore per i figli, perché sempre ha guidato il mio

comportamento.

Il terapeuta dice “brava, Laura, ricapitoliamo di nuovo queste tre cose…”.

Ripete i concetti e li fa ripetere da Laura, cercando di definirli in una sola

parola, o in brevi parole per poi spiegare il perché di queste parole.

Una volta ripetuti i concetti, il terapeuta chiede ad Antonio, che intanto si è

molto emozionato e guarda sua madre con occhi lucidi, di lasciare di sé

qualcosa alla madre prima di partire per il lungo viaggio, qualcosa che lui

reputi possa far piacere alla madre di tenere per sé, sentimenti, hobbies,

aspetti del carattere,ecc.

Allora Antonio parla alla madre con voce commossa ,dicendole:

-Ti lascio la mia protezione che ci sarà sempre

-Ti lascio una sensibilità diversa, anche se entrambi abbiamo una creatività

simile.

E infine

-La mia capacità di osservare e intuire chi è davanti a me, una porta verso

il mondo.

Il terapeuta rilegge quanto detto da Antonio e glielo fa ripetere.

Dopodiché chiede ad entrambi di abbracciarsi senza parole, riposando la

testa di ognuno sulla spalla dell’altro. Così fanno, in un lungo abbraccio

che si conclude con un bacio. Cristiano guarda commosso e in silenzio

quanto è successo tra di loro e si appresta a sedersi di fronte ad Antonio. Il

terapeuta gli dice: “Adesso Cristiano, tocca a Lei. Si sieda di fronte ad

Antonio e come Laura scelga due o tre cose di sé di cui sia fiero per darle a

suo figlio, per il suo lungo cammino nella vita”.

Le parole scelte e le metafore utilizzate per questo esercizio svegliano

profonde emozioni in tutti i partecipanti che contribuiscono a creare

un’atmosfera molto calda e coinvolgente.

Il padre sceglie con cura le sue parole, aiutato dal terapeuta a definire

chiaramente i concetti.

-Ti do il mio senso di libertà intellettuale che mi ha permesso di non farmi

condizionare da niente e nessuno.

-Ti do il mio dubbio, perché nella vita mi ha permesso di analizzare meglio

le cose.

- Ti do il mio coraggio di spendermi nella vita per andare fino in fondo alle

cose.

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Antonio, molto commosso, prende entrambe le mani del padre e - tremando

- se le porta verso la sua faccia, tenendole ferme sul viso, in un silenzio

molto pregnante.

Poi dice:

-Ti lascio un nuovo spazio in cui abbassare la guardia e divertirti

spensieratamente!

-Ti lascio il mio modo di vivere il tempo, lasciandolo fluire soavemente. Una

volta finito, il terapeuta gli fa ripetere i concetti, dopodiché chiede ad

entrambi di abbracciarsi, senza parole, appoggiando ciascuno la sua testa

sulla spalla dell’altro.

Così fanno, in un lungo ed emotivo abbraccio. Laura assiste in silenzio, con

gli occhi lucidi.

Poi interviene il terapeuta:

“Questi momenti che avete vissuto con intensa commozione, lasciateli fluire

dentro di voi, senza chiedervi spiegazioni e godendo di queste sensazioni…”

Circa un mese e mezzo dopo l’esperienza dello zaino, Antonio viene in

seduta, dopo le vacanze.

È molto più disteso e sorridente, e dice che è stato molto bene in campagna

con la sua famiglia e il nonno. Dopodiché è stato al mare con gli amici e si

è divertito molto.

“Ero aggrovigliato su me stesso. Ho superato aspetti molto complessi di

autosservazione che mi portavano a una crudezza e a una frammentazione.

In quest’ultimo periodo c’è stato un recupero.”

Terapeuta: “E i tuoi come stanno?”

“Mi sembra bene. Le cose sono sensibilmente migliorate. Il rapporto con

loro si è disteso, c’è più accettazione. Dopo la seduta dello zaino ho messo

due giorni per riprendermi. Avevo bisogno di elaborare quanto mai detto

prima. C’è stata come una virgola, che mi ha fatto cambiare tema. È stato

molto violento. Ho amato e odiato questo momento. Mi sono reso conto che

sono una persona delicata, non forte, ma molto emotiva. Quello che mi ha

più colpito è stato un barlume d’amore negli occhi di mio padre. L’ho visto

in un modo in cui non l’avevo mai visto. Vedo che sta attingendo a riserve

fisiche, mentali ed economiche che non può più andare avanti. Spero che

con la mia partenza riesca a ritrovare gioia e leggerezza” (si riferisce a un

suo progetto di andare a vivere da solo nel suo studio).

E’ tornato un mese dopo per l’ultimo incontro e ha raccontato che ha

intrapreso Disegno Grafico con molta dedizione. Sente di aver trovato la

sua strada, studia

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È molto contento dell’esperienza terapeutica e molto riconoscente col

terapeuta che gli ha permesso di passare a una tappa molto più autonoma e

creativa della sua vita.

Le sfumature tecniche di questo esercizio sono tante e bisogna che il

terapeuta sia vicino, non solo emozionalmente, ma anche fisicamente (la

distanza è quella che permette al terapeuta di toccare con la mano la spalla

del figlio quando dice:” e porta con sé uno zaino...”) rimanendo in un ascolto

attento e silenzioso mentre scrive su un foglio quanto essi dicono.

1) È importante aiutare il genitore ad esprimere un concetto chiaro dentro

il fiume di parole che a volte dice, cercando di afferrare il concetto o di

sintetizzarlo in una parola, per poi chiedere il perché di ogni cosa. Ad

esempio:se il padre dice al figlio: “Devi essere te stesso senza pensare agli

altri e avere una personalità forte, non intaccata”, lo si porta a definire:

“Ti do la mia determinazione ad essere me stesso, perché ti serva per avere

una personalità forte non intaccata dagli altri”.

2) Cercare di evitare che diano raccomandazioni o suggerimenti, ma si

sforzino per tenersi in contatto, per trovare una qualità o un aspetto del

carattere per donarlo al figlio. Anziché dire: “Devi essere forte nella vita”,

dire “Ti do la mia forza perché nella vita ti serva per superare momenti di

sconforto e superare momenti di difficoltà ecc...”. O anziché dire:”Spero che

tu possa rivolgerti a me in momenti di difficoltà, il padre che hai perso

fisicamente da piccola c’è, è qui”, dire: “Ti do la mia presenza, perché possa

servirti nei momenti importanti e di difficoltà”.

3) Cercare di essere attento a che si guardino negli occhi mentre si parlano,

ricordando questo, anche se sorgono le lacrime e cercano di evitare questa

effusione.

4) Evitare il parlare in terza persona, per esempio rivolgendosi al terapeuta

parlando del figlio, ma parlarsi reciprocamente.

5) Far ripetere una o due volte quanto ognuno ha detto e, se necessario, far

leggere quanto il terapeuta ha trascritto sul foglio diviso verticalmente in

due, la prima parte a sinistra con quanto il padre o la madre danno in dono,

e a destra quanto il figlio lascia di sé.

Quando finiscono, gli si chiede di “abbracciarsi, in silenzio, il tempo

necessario, riposando ognuno la testa sulla spalla dell’altro.

Questo è un momento importante, di solito molto emotivo, che oltre ad

essere molto rilevante per i partecipanti, fornisce numerose informazioni al

terapeuta.

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C’è chi a stento si abbraccia e scioglie immediatamente l’abbraccio. In

questo caso, se possibile, chiedere di stare più a lungo a contatto.

In un caso, un padre mi disse: “Dottore non mi faccia fare queste cose che

non mi piacciono, preferisco parlare a una certa distanza!”. In questo caso,

a dire il vero poco frequente, non si insiste, ma si segnala che questa è una

difficoltà di contatto del padre, che è molto diverso di non farlo per rifiuto

verso il figlio, con la conseguente disistima di costui.

La forma di come si produce l’abbraccio, le mani che possono accarezzare

la schiena o la testa, il movimento del respiro o le lacrime sono informazioni

preziose per il terapeuta.

L’effetto di questo esercizio è di solito molto grande, non solo

nell’espressione di sentimenti (a volte per la prima volta) di questa intensità

e significato simbolico, ma anche nell’effetto duraturo di demarcazione dei

confini relazionali. È come una lente sfocata che dopo che i confini

interpersonali diventano più netti e le funzioni vicarianti non hanno più

senso di continuare, si mette a fuoco.

Si vede chiaramente come i genitori danno al figlio quello di cui ha bisogno

per completare la sua crescita e “partire per il lungo viaggio nella vita”. È

altrettanto chiaro vedere come le cose che il figlio lascia di sé, sono gli

aspetti complementari che il padre o la madre non hanno e che il figlio

produce, la stragrande maggioranza delle volte in forma inconsapevole, per

sostenere il genitore o compensare le sue carenze.

Mariano, ragazzo di 28 anni, è stato due anni all’estero cercando un lavoro

diverso da quello che aveva nell’azienda familiare dei nonni, dalla quale è

uscito scoraggiato per la mancanza di cambiamento. Tornato in Italia,

continua la ricerca di un progetto proprio, mettendo in piedi un’attività

creativa imperniata sul suo lavoro autonomo. Il padre gli dà la sua speranza

nel futuro perché “ti serva per avere una meta da raggiungere per il gusto di

vivere e il valore di vivere”. “Ti do la mia fede, perché ti dia la forza e il

motivo di vivere”. “Ti do il mio carattere non intaccato dagli altri”. In realtà

sono cose che il padre sente inconsciamente, che a Mariano mancano per

realizzare i suoi progetti esistenziali. La fede che lui ha e Mariano no, e il

carattere autonomo non intaccato dagli altri che in realtà Mariano stenta ad

avere, sempre molto sensibile e influenzato dalla madre e dalla sorella.

Quando Mariano lascia di sé al padre la fiducia negli altri, per vivere meglio,

la forza psicologica di combattere fino alla fine e il rispetto per le altre

persone... gli sta dando cose che reputa manchino al padre, il quale ha

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sostenuto psicologicamente il figlio mentre svolgeva un mestiere opaco e

senza entusiasmo che l’ha portato a chiudersi in se stesso, in una fase

depressiva della sua vita (figura 2).

figura 2

Dopo l’esercizio, la tendenza è quella di riappropriarsi dei sentimenti,

funzioni psicologiche e valori propri, depositati nell’altro in una funzione

vicariante (figura 3).

figura 3

In questo modo, l’invischiamento silenzioso che toglieva energie a Mariano

per il suo progetto e al padre per fare un’autocritica della sua posizione nella

vita, diminuisce, dando luogo a un dialogo che continua una relazione con

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una più grande differenziazione inter-generazionale e con una reciproca

solidarietà senza confusione. L’importanza di questo lavoro esperienziale è

che si fa dentro alla relazione e che la metafora del “lungo cammino della

vita” non suppone necessariamente una separazione fisica, ma solo

psicologica, quanto basta per permettere un dialogo che può durare sempre.

“Passare dall’intimidazione inter-generazionale all’intimità inter-

generazionale” è una frase felice di Donald Williamson (1982) che illustra

molto bene questo passaggio. Quando questo esercizio si fa con entrambi i

genitori presenti, c’è un gioco interrelazionale diverso di quando si fa con

uno solo dei genitori. Nei primi anni di esperienza di questa tecnica, la

facevo sempre e comunque con la presenza di entrambi i genitori. Diverse

situazioni in cui l’inesistenza di uno dei genitori o in cui c’era una

separazione coniugale mi hanno portato a farlo separatamente, e quando c’è

la possibilità di avere il tempo sufficiente per una programmazione

terapeutica, preferisco farlo alternativamente, per dare il tempo di

elaborazione che chiarifichi la relazione interpersonale. La presenza di

entrambi i genitori dà una “blindatura” al ruolo genitoriale che diluisce la

relazione “persona a persona”, che conviene stimolare. Quando sono

presenti entrambi i genitori è importante, con la coda dell’occhio, registrare

il comportamento dell’altro genitore, che a volte si commuove

silenziosamente, a volte esprime fastidio o gelosia di quell’interazione, a

volte rimane indifferente. Questo esercizio è nel contempo un test che

permette di avere informazioni non verbali preziose, per confermare o

smentire le dichiarazioni espresse di solidarietà genitoriale nel compito di

favorire la differenziazione del figlio. Questo esercizio ci dà ovviamente

informazioni molto importanti sul funzionamento mentale dei partecipanti.

Per esempio, il padre di una mia paziente, facoltoso imprenditore

considerato da tutti onnipotente, di fronte alla figlia e alla richiesta di dare

qualcosa di sé in dono, balbetta e non trova di sé niente di valido da dare

alla figlia, o un giovane depresso che può solo ripetere quanto il padre gli

ha dato senza trovare in sé niente di originale. Gli stati depressivi, la bassa

autostima o i disturbi del pensiero si evidenziano chiaramente in questo

esercizio. L’esperienza dello zaino, fatta in quel momento del percorso

terapeutico, ha un effetto sinergico che abbrevia il passaggio a volte molto

sofferto di quella fase del ciclo vitale della famiglia, giacché coinvolge tutti

i partecipanti alla relazione e permette di sperimentare le intense emozioni

legate a quel vissuto di differenziazione che è a doppia via. I genitori

sentono che possono assolvere il loro compito e hanno il permesso di

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mostrare i loro sentimenti senza ritegno, il che è senza dubbio una spallata

molto importante per il figlio/a che ha bisogno di una conferma,

dell’approvazione dei suoi genitori per la sua crescita.

Aiuta anche i genitori a reimpostare la loro vita meno in funzione del figlio

e ad affrontare la fase del nido vuoto, probabilmente il momento più difficile

della vita della coppia genitoriale, giacché nella nostra cultura mediterranea

la coppia vive quasi esclusivamente in funzione della capacità di

procreazione e molto meno in funzione di un’intimità che va costruita ed

insegnata. Solo negli ultimi due decenni si sta mettendo più enfasi su questo

aspetto della coppia, aiutati forse da una più grande longevità (è aumentata

nel secolo scorso di 25 anni!) che mette la coppia di fronte all’eventualità,

dopo l’emancipazione dei figli, di vivere ancora venticinque – trenta anni

da soli. Si assiste, grazie a una mancata prevenzione di ogni tipo di

patologia, a crisi coniugali, separazioni, malattie, infedeltà, dissesti

economici che segnano questa fase a volte dolente della vita di una coppia

che sarebbe molto mitigata se solo si facesse più attenzione Ogni persona

più o meno informata sa che se non porta la macchina a un collaudo, ogni

tanto, rischia di rimanerne senza. Quante volte si suggerisce a una coppia di

fare un collaudo almeno una volta all’anno? Invece no. È forse l’istituzione

più castigata della vita umana, giacché non solo deve affrontare le peripezie

della vita condivisa senza fiatare, (coniugi deriva dal latino Cum-iugo, col

giogo…come i buoi che portano la carretta finché uno dei due non cade). E,

invece, deve essere la trave portante dell’intero sistema trigenerazionale.

Proprio la fase dello svincolo dei figli coincide con la fase del declino della

prima generazione, quella dei nonni, in cui o già qualcuno è morto o malato

e pesa sulla seconda generazione, quella della coppia, che si vede sollecitata

sia da una generazione che dall’altra che chiedono, dando poco. In sostanza,

il lavoro terapeutico con i sistemi familiari di origine contiene un elemento

altamente paradossale: “ritornare per partire meglio”. La ricerca di una

migliore differenziazione si ottiene nutrendosi fino a raggiungere la

maturità, come un frutto quando si distacca dall’albero al momento giusto e

non, per continuare con la metafora, come quando lo si taglia ancora verde

per conservarlo meglio nel frigorifero: “Fare un passo indietro per farne due

avanti”, significa prendere forza da quella energia usata male per tentare di

neutralizzare le disfunzioni dei legami relazionali e utilizzarla per un

inserimento creativo nella società. L'elemento centrale di una simbiosi è un

mancato incontro emozionale. La frustrazione del passaggio da una

generazione all’altra di elementi affettivi, psicologici e funzionali, che

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caratterizzano reciprocamente la conferma dell’identità dell’altro, è ciò che

contribuisce al blocco transgenerazionale, fonte di numerosi conflitti.

Questo blocco è ciò che toglie funzionalità a un sistema, impedendogli di

avanzare nel processo della vita.

Nell’armonia intergenerazionale, nella quale ognuno compie il ruolo

assegnato dal suo momento evolutivo, sta il segreto della funzionalità di un

sistema familiare. La trasmissione generazionale dei valori affettivi e

culturali è ciò che garantisce la sopravvivenza delle persone oltre la morte

fisica. Come tutte le persone in età avanzata in questa scala generazionale

hanno diritto a questa sorta di “trascendenza”, così anche tutti coloro che

seguono hanno diritto a sentirsi nutriti da quella forza che proviene dalle

proprie radici. Quando un uomo e una donna formano una coppia, in realtà

uniscono i due sistemi familiari di appartenenza, i quali interagiscono

attraverso questo vincolo, lo influenzano e lo modificano in un patto sancito

dalla società. Questo vincolo di alleanza ha un valore antropologico e

culturale, ed è diverso dal vincolo di filiazione che unisce i coniugi con i

propri genitori e con i figli che insieme a loro formeranno una famiglia.

Questi due vincoli sono essenzialmente differenti, antitetici e allo stesso

tempo complementari fra loro (figura 4): uno è biologico ed endogamico,

l’altro è culturale ed esogamico. Tutti e due esistono in una relazione

inversamente proporzionale, e cioè più il vincolo di alleanza si consolida

creando una serie di regole proprie, transazionali, in un certo clima di

complicità propria di quella coppia, più tendono a indebolirsi i legami che

uniscono i due coniugi ai rispettivi sistemi familiari di origine e la

complicità sviluppata con questi attraverso tanti anni di convivenza. Con la

nascita dei figli si estende il vincolo di filiazione in un asse diacronico che

consente il passaggio transgenerazionale di quel filo conduttore biologico e

culturale che permette la sopravvivenza della specie. La tensione dinamica

che esiste tra questi due assi, in una complementarietà degli opposti,

costituisce il punto nodale del sistema trigenerazionale (figura 4).

Dicevamo prima che il vincolo di alleanza è inversamente proporzionale al

vincolo di filiazione. E perciò che la coppia, nello stabilire questo vincolo

di alleanza e stringerlo ogni volta di più, va marcando una maggior distanza

prima con ambedue le famiglie di origine e poi con i propri figli. Questo è

ciò che segna la differenziazione intergenerazionale che, come tutti

sappiamo, quando è turbata provoca quei sintomi disfunzionali per i quali

siamo consultati.

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figura 4. Intersezione degli assi di alleanza e di filiazione. Punto nodale del

sistema trigenerazionale

La chiave del nostro lavoro è capire come questo asse di vincolo regola il

fluire del tempo e la crescita sia dei sistemi come delle persone che li

compongono. Il rafforzamento di questo vincolo di alleanza è fondamentale

per la differenziazione dei sistemi intergenerazionali nella linea del vincolo

di filiazione, tanto con una generazione come con l’altra permettendo la

progressiva autonomia dei figli. Quando questo sistema è inverso, cioè

quando s’indebolisce il vincolo di alleanza e si rinforza il vincolo di

filiazione, si producono le coalizioni intergenerazionali, espressione di un

appiattimento o di una scissione di questo asse primario descritto, e

l’emergenza di sintomi in una qualsiasi delle tre generazioni, secondo il

problema predominante. La mancanza di armonia tra le generazioni e la

presenza di certi blocchi evolutivi impediscono il vissuto del fluire del

tempo e la trasmissione di sistemi di valori attraverso le persone stesse

Quando siamo capaci di favorire lo sblocco e la fluidificazione di questo

asse, i sintomi scompaiono, poiché sono l’espressione della perturbazione

del flusso della vita stessa e della conseguente difficoltà dell’inserimento

creativo degli individui nella cultura circostante, scopo essenziale della

famiglia. Per questi motivi ritengo che l’obiettivo terapeutico dell’armonia

intergenerazionale dei sistemi osservati sia anche etico, dato che una terapia

deve essere anche un beneficio per tutti e non per alcuni a discapito di altri.

Per questo è necessario l’incontro emozionale che dia calore e forza al

processo di differenziazione, giacché le simbiosi occultano una profonda

mancanza d’incontro.

Dice un vecchio proverbio cinese che si può distaccare solo ciò che è stato

precedentemente unito. Questo è l’obiettivo terapeutico: permettere di

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ritornare per poter partire meglio. L’esercizio dello zaino è un’esperienza

terapeutica che facilita la differenziazione e nel contempo un test che ci

mostra l’andamento della relazione genitoriale e la capacità di

funzionamento mentale del figlio. Dalla loro capacità di simbolizzazione

(una sola volta, nelle decine di volte fatto, mi capitò che dei genitori

mettessero nello zaino del figlio un po’ di salame e affettati vari!) e di

accettazione di questo congedo reciproco può dipendere l’andamento futuro

della loro relazione e del progetto esistenziale del figlio/a. Ci sono situazioni

in cui emergerà più chiaramente, dopo questo esercizio, una crisi nel sistema

genitoriale, dopo l’assestamento prodotto; ma in generale non occorre un

intervento terapeutico, giacché i sistemi familiari sono molto forti e si

ricompongono rapidamente dalle perturbazioni terapeutiche

(contrariamente a quanto temono molti terapeuti, e in quei rari casi si può

fare un invio a un collega della stessa filosofia terapeutica). Un’altra

metafora convincente, in questi casi, è chiedere ai genitori se hanno mai

visto come gli uccelli insegnano ai loro figli a volare : “I genitori passano

insieme in volo radente, una, due, cinque volte, finché il piccioncino inizia

a stento a volare, le volte necessarie finché spicca il volo dietro ai genitori.

Ma devono volare insieme…” Si sottolinea così l’importanza dell’accordo

genitoriale perché questo passaggio abbia una valenza positiva per il figlio.

A volte solo durante questa esperienza si mettono in evidenza problemi

irrisolti che stanno alla base della disfunzionalità. Per esempio, come nel

caso di Mattia, un giovane studente di 21 anni che viene in terapia a causa

di un intenso sentimento di ansia che lo blocca negli studi che segue in una

città vicina. Figlio unico di due genitori anziani, viene concepito ad hoc per

rimediare al vuoto lasciato da Antonio, un fratello morto a 12 anni di

leucemia. Il grande dolore dei genitori viene parzialmente lenito con la

nascita di questo bambino, che cresce bene e non mostra particolari

problemi, finché deve partire per l’università. In quel momento si blocca e

non riesce a progredire negli studi, né a stabilire contatti con i sui coetanei.

Fatta qualche seduta e affrontato il tema del fratello morto, dopo un certo

miglioramento di Mattia, e nonostante l’ansia invadente del padre Pasquale,

che lo controlla nei minimi dettagli, arriviamo alla proposta di fare

l’esercizio dello zaino. Inizia Aurora, donna molto pacata e tranquilla, che

dà al figlio la sua correttezza, la sua onestà e la sua perseveranza nella lotta

per la vita. Quando tocca al padre, costui inizia a piangere disperatamente e

cammina per la stanza senza potersi sedere di fronte al figlio. Calmatosi,

dopo alcuni minuti di pianto straziante, Pasquale riesce a sedersi dopo

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avermi detto: “Dottore, non mi potevo sedere, perché di fronte a me vedevo

Antonio!” Malgrado avessimo affrontato il tema di Antonio in sedute

precedenti, solo l’esercizio esperienziale ha permesso di evidenziare il

grande travaglio emotivo di questo padre per la perdita del figlio.

Ogniqualvolta scompariva Mattia dalla sua presenza, il padre iniziava una

frenetica ricerca e gli telefonava parecchie volte al giorno per sapere più che

altro dove stava. Dopo l’esperienza dello zaino fu più chiaro per tutti la

sostituzione di una figura con un’altra, nel vano tentativo di placare il

dolore. Solo dopo essersi guardati negli occhi ed essersi obbligati a ri-

conoscersi, Mattia e Pasquale iniziarono una nuova tappa delle loro vite più

impostata sulla conoscenza reciproca, offuscata per tanti anni dalla

presenza-assenza di Antonio.Riporto qui, di seguito, parte di un articolo2 di

Ilenia Adamo, scelto come la tesi migliore dell’anno 2002 del Centro Studi

di Terapia Familiare e Relazionale diretto dal Prof. Luigi Cancrini. Descrive

la psicoterapia di una ragazzina di 17 anni con comportamenti

autolesionistici e caratteriali che denotano un grande disagio per il quale ha

abbandonato gli studi, con grande sofferenza della sua famiglia.

La storia di Silvia:voglio avere l’anima come se non l’avessi”

Intervento sulla famiglia nucleare

Il caso vuole che debba tenere un Seminario presso il nostro centro il prof.

Alfredo Canevaro per proporci un intervento sulle famiglie trigenerazionali.

In altra occasione avevo potuto apprezzare la validità del suo originale

contributo allo sviluppo di un contesto terapeutico trigenerazionale.

In accordo con il mio supervisore, colgo allora l’occasione per avere una

sua consulenza (temo che il sistema mi stia mangiando...). L’incontro

diventa un’occasione di verifica di tutto il lavoro terapeutico fatto sino ad

adesso: quanti messaggi sono arrivati, se sono state acquisite nuove letture,

quali risorse sono state attivate.

Siamo presenti io, il supervisore ed il prof. Canevaro oltre che la famiglia al

completo.

Alla presenza di questa nuova figura si chiede una definizione del problema

della famiglia dal punto di vista di ciascuno.

La madre afferma di provare un’enorme sofferenza nel vedere interrotto o

mai iniziato il rapporto con la figlia, sostenendo che in lei questa situazione

ha fatto riaprire le ferite della sua infanzia e la fatica a resistere a questo

misconoscimento di ruolo. Dice di essere preoccupata per l’insofferenza che

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Silvia ha nei suoi riguardi e della famiglia in generale, e della

preoccupazione che possa fare scelte sbagliate determinate da risentimento

o rabbia. Afferma ancora che Silvia considera i comportamenti di entrambi

i genitori come interferenze nella sua vita mentre essi sono motivati dal

desiderio di sostenere bene la sua crescita.

Parla il linguaggio delle emozioni e della relazione, le sue parole sono

congruenti con il suo vissuto così come lo è tutto il suo aspetto. Pasquale

riferisce invece della difficoltà nel rapporto che si è venuto a creare negli

ultimi due anni, da quando non ha più cominciato ad essere corretta e leale

con lui. Dice che hanno difficoltà di dialogo e che Silvia non si fida

dell’esperienza dei genitori ma vuole sperimentare tutto in prima persona.

Afferma ancora la difficoltà a riconoscere in Silvia la presenza di un

problema, che con l’uso della ragione potrebbe rivelarsi tutto quanto. Questa

posizione del padre – più volte emersa nel corso degli incontri precedenti e

spesso duramente ed esplicitamente contestata dalla moglie (Tu non vuoi

vedere il problema e non sei convinto di venire) – viene ancora una volta

confermata: la “malafede” rappresenta una controindicazione alla terapia

perché nel padre non sembra esserci un genuino desiderio di cambiare la

situazione e Silvia lo ha molto idealizzato sin da bambina.

L’influenza che lui esercita su Silvia è ancora molto forte e la moglie non

riesce a contrastarlo.

Queste le parole di Silvia alla domanda “Secondo te qual è il problema?”

“È che alla fine ciascuno di noi ha un suo mondo, papà il suo, mamma il

suo, io il mio e sono tutti separati, anche quando dico qualcosa non so se

non capiscono loro o sono io a non sapermi esprimere”.

Canevaro comincia a proporre una lettura dei problemi legata al momento

dello svincolo ed alla difficoltà della coppia di accettare questa nuova

organizzazione. La madre afferma che la nascita di Silvia e la sua crescita

hanno messo in evidenza le molte diversità esistenti tra lei ed il marito e che

probabilmente senza questa presenza ci sarebbe stata meno tensione.2

Si propone una rilettura di questa osservazione ma a volte due persone non

hanno tensioni perché ognuno è sul proprio binario, quindi non si

incontrano. Conoscete la leggenda del re Salomone? Dato che Silvia non si

può spezzare in due può però farlo con la sua testa, metà mamma e metà

papà e questo potrebbe essere parte di quello che succede, una parte è

quando sta insieme a voi, l’altra quando è lontana da voi.

2 2 ADAMO;I“La storia di Silvia: voglio avere l’anima come se non l’avessi”.

Ecologia della mente, vol.25, n° 1, Giugno 2002.

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Come possiamo fare perché questa Silvia si unifichi? I figli mettono

inevitabilmente in luce le nostre contraddizioni, noi cresciamo i figli perché

possano permetterci di migliorarci.

Durante questa parte dell’incontro Silvia muove nervosamente una gamba

Vedo che la tua gamba non è d’accordo con tutta questa pacatezza e

razionalità, cosa vorrebbe dirci?

Silvia risponde che lei non ha mai avuto un buon rapporto con la psicologia,

che questa è stata sempre un’esigenza della madre che è stata sempre fissata

e noi abbiamo cominciato a litigare quando io avevo 15 anni perché lei

aveva letto che a quell’età i figli litigano con i genitori;le si chiede allora di

avvicinarsi alla madre e di prenderle la mano. Silvia si avvicina e si siede

sulle sue gambe. La madre è pronta a scoppiare in lacrime, c’è un lungo e

commovente abbraccio.

La madre dice sono così contenta, vorrei urlare a Silvia quanto la amo.

Anche il padre è emozionato, guarda intensamente la figlia negli occhi

penso a come potrebbe essere gratificante questo rapporto se non si

trattassero come cani e gatti...io ho difficoltà ad esprimere le mie emozioni.

Canevaro sottolinea la necessità che il padre sostenga la madre malgrado le

difficoltà: sarebbe importante che lei mettesse un braccio attorno alle spalle

di sua moglie per farle sentire la sua presenza.

È in questa scena, in questi corpi che entrano in contatto, in questa emozione

condivisa, in questo sentire l’urgenza delle lacrime e della commozione che

riconoscono appieno il bisogno di Silvia, l’angoscia della madre, la

posizione difensiva del padre. È un attimo magico in cui le isole nell’oceano

della solitudine si incontrano. Ma per fare una frittata bisogna rompere le

uova... e questa realtà affettiva per poter continuare nel tempo comporterà

che ciascuno di loro ceda qualcosa. Si propone quindi un’esperienza con

questa consegna: Facciamo finta che Silvia debba partire per la vita,

l’aspetta un lungo cammino e ciascuno di voi può darle tre cose che lei

porterà nello zaino per esserle d’aiuto. Quindi Silvia lascerà qualcosa di

sé.

La madre dice tenendole le mani e guardandola negli occhi: Io ti do la mia

capacità di riflessione, il mio amore per l’umanità, la mia capacità di non

dissipare quello che ho dentro, affetti e conoscenze.

E Silvia alla madre: Ti lascio la mia voglia di trovare un equilibrio nella

vita e l’amore per la vita; ti lascio il desiderio di cercare di fare molte più

cose per te stessa che per gli altri.

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Quindi il padre dice a Silvia: Io ti lascio la mia lealtà, la capacità di pensare

più di una volta alle scelte importanti della vita e la serietà con cui le

affronto.

E la figlia al padre: Io ti lascio un po' del mio istinto, ti lascio la mia capacità

di comprensione e ti lascio soprattutto il mio amore per l’aria.

Segue un lungo, intenso abbraccio tra il padre e la figlia, che la madre

commenta: tra loro c’è sempre stato un rapporto particolare.

L’intensità e la qualità di questa interazione fisica confermano in noi

l’ipotesi di un’erotizzazione del legame tra padre e figlia che motiverebbe

almeno alcuni dei comportamenti di Silvia, come la sua difficoltà di vivere

a casa. Compiuto il rituale del saluto, Silvia viene invitata a cambiare posto,

sedendosi accanto ai terapisti e lasciando di fronte a sé i genitori seduti

vicini. Questa concreta manovra spaziale segna il cambiamento dei rapporti

di prossimità fra i membri della famiglia. L’utilizzo di questa tecnica di

demarcazione del confine consente di segnalare l’appoggio al sottosistema

figli, contenendo la paura di Silvia di lasciare i genitori da soli ed inviando

a questi ultimi il messaggio della loro possibilità di avere una buona qualità

di vita anche lasciando andare via Silvia. Il farla collocare tra i terapisti

costituisce inoltre uno sbilanciamento, un’associazione terapeutica che

mette in risalto le forze di Silvia e diviene per lei una significativa fonte di

autostima. Sostenendo la solidarietà dei terapisti, infatti, Silvia potrà

cominciare a contrastare la posizione che le è prescritta in seno al sistema.

Viene pertanto contestato il suo ruolo di paziente designata, proponendola

agli occhi dei genitori come colei che sta aiutando l’intero sistema familiare

ad entrare in una nuova fase. Il messaggio inviato da questi movimenti è

subito colto dai genitori, in particolare il padre afferma Lo so che adesso

siamo soli! Abbracciando la moglie. Alla domanda Sei fiduciosa che

mamma e papà siano in grado di occupare quella parte di affetto che tu stai

lasciando? Silvia annuisce consentendo di offrirle una nuova lettura del suo

comportamento disfunzionale; allora se sei tranquilla sulla loro capacità di

stare insieme non c’è bisogno di creare tanti problemi. Infatti i processi

relativi alla mutua separazione ed alla “negoziazione” di nuove posizioni

nel sistema familiare concernenti l’autonomia e lo svincolo da parte dei figli

adolescenti possono essere resi difficili da modelli rigidi di funzionamento

descritti da Stierlin (1979) come “patterns centripeti e centrifughi” per

indicare appunto due “costellazioni” familiari tipiche del periodo

dell’emancipazione dell’adolescente. Essi riflettono le forze delle famiglie

che sono dirette all’interno (centripete) o all’esterno (centrifughe). In

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particolare nelle situazioni “centripete” le difficoltà alla separazione ed allo

svincolo emotivo sono legati al fatto che spesso i genitori hanno comunicato

tra loro attraverso il figlio.

L’inizio del processo di individuazione del figlio minaccia l’unità e la

coesione del sistema familiare ed il ragazzo può “stabilizzare” la sua

famiglia sviluppando “un qualche problema instabilizzante che ne faccia un

fallito” (Haley, 1980). In altre parole ciò che rende così arduo realizzare i

compiti di sviluppo specifici dell’adolescenza è ciò che Haley chiama

“triangolo perverso” tra i genitori e figlio, in quanto con tale modalità di

relazione l’adolescente introietta la regola di dover continuare a fare da

tramite nei rapporti tra i genitori per evitare la frattura della coppia

genitoriale. Per tutto questo tempo la gamba di Silvia è rimasta irrequieta,

malgrado il clima emotivo di vicinanza che si è venuto a creare. Il prof.

Canevaro glielo fa notare dicendo: L’unico problema è la gamba! Se tu la

lasciassi andare cosa direbbe? Silvia dice che non è significativo, lei muove

in continuazione le gambe, poi - cambiando espressione – afferma di essere

preoccupata perché vede nei suoi genitori una certa malinconia e mestizia.

Racconta di loro, che nessuno dei due ha avuto una vita molto facile, ma che

soprattutto sente la tristezza della madre e questo la fa soffrire. La sua

gamba, per tutta la durata di questa interazione, rimane immobile.

La madre conferma questa visione della figlia, dicendo di non essere stata

particolarmente fortunata sin dall’infanzia: alla sua nascita ci sono state

delle complicazioni al momento del parto (forse un’anossia cerebrale) per

cui ha riportato conseguenze I miei genitori non si sono accorti subito di

questa cosa, hanno fatto il possibile.

Per diverso tempo non aveva potuto camminare bene e questa diversità

rispetto agli altri l’aveva fatta sentire “diversa” soprattutto durante

l’adolescenza. Racconta della sua disperazione e totale solitudine in questa

fase della vita tornando poi a parlare del penoso vissuto della madre ala sua

nascita e del suo senso di responsabilità rispetto a tutto questo. La gamba di

Silvia riprende ad agitarsi, non riesce a tollerare la sofferenza della madre e

quindi deve necessariamente tenerla lontana pur avendo bisogno del suo

sostegno. Chiudiamo la seduta con la proposta di incontrarci dopo due

giorni, alla presenza delle donne della famiglia e delle tre generazioni. Silvia

è molto perplessa sulla possibilità di portare lì la nonna materna (è malata e

sofferente) e sull’utilità di quell’incontro (La nonna è inutile che venga, non

lo capirebbe!). E invece...

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Intervento sulla Famiglia Trigenerazionale

Il consulto tra terapeuti ci vede concordi sulla necessità di attivare altre

risorse in questa famiglia, partendo dalla comune opinione

dell’inadeguatezza del padre da un punto di vista affettivo e

dall’impossibilità di fare esclusivo riferimento alla madre considerato il suo

vissuto del rapporto genitoriale. In particolare il padre ha provocato in tutti

noi sentimenti di rifiuto, dobbiamo fare i conti con questo dato ed utilizzarlo

a fini terapeutici.

L’idea che ci viene in mente è quella di attivare un “fluido

intergenerazionale femminile” (nonna ↔ madre ↔figlia) per consentire a

Silvia di riscoprire la possibilità di essere adeguatamente compresa,

sostenuta e contenuta. Nell’apertura di questa nuova possibilità decidiamo

di “servirci” del padre: il suo ruolo sarà quello di farsi portavoce della nostra

richiesta a suocera e cognata, di accompagnarle lì ed aspettare per tutta la

durata dell’incontro.

In tal modo ci prefiggiamo di ridimensionare il potere che lui ha nei riguardi

di Silvia che – sostenuta dalle altre donne della famiglia e da un punto di

vista femminile – finalmente potrà iniziare a contestarlo funzionalmente.

All’incontro la nonna si presenta appoggiandosi ad un bastone,

dichiarandosi contenta di essere stata invitata perché avrebbe potuto

rendersi utile alla nipote e – soprattutto – alla figlia. È presente anche Gina,

unica sorella di Marta, più piccola di 15 mesi, madre di due figlie

adolescenti.

La definizione del problema che la nonna fornisce è centrata su Silvia, sul

suo comportamento disobbediente e non riconoscente in merito a ciò che

per lei è stato fatto. La sua forza e determinazione nell’iniziare a muovere

accuse alle nipoti, e particolarmente a Silvia, ci fa quantomeno dubitare

delle sue effettive precarie condizioni di salute! Assistiamo alla capacità di

manipolazione di questa donna nei confronti delle figlie che vengono lodate

per quella fase della loro vita in cui – essendo più semplice per loro

organizzarsi – andavano spesso a trovarla (facevano il dovere di figlie)

mentre adesso... Dopo tanti sacrifici per le figlie non c’è più unione con il

crescere di queste ragazze! (piangendo).

Questo gioco ha congelato il tempo nei rapporti tra queste generazioni: la

nonna è inamovibile perché sofferente e perché, per definizione, è colei che

adesso dovrebbe ricevere e non dare di più, le figlie sono caricate dalla

doppia responsabilità della madre e delle loro stesse figlie in crescita, le

nipoti – tutte e tre in fase di svincolo – hanno difficoltà a differenziarsi da

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queste madri con un vissuto così penoso. L’incontro con tre generazioni

consente il superamento della visione di interazione della rete relazionale

appiattita in una dimensione orizzontale per privilegiarne una nuova,

articolata su tre dimensioni, lungo due assi orizzontali ed uno verticale.

Questa nuova visione tridimensionale offre la possibilità di cogliere le

differenze, nonché di creare le connessioni tra le varie dimensioni storiche

delle relazioni. È infatti possibile una lettura del sintomo quale prodotto

finale di una storia non solo personale, ma trans generazionale, che si

mantiene ed elabora nel tempo, sulla base di debiti e crediti

intergenerazionali di cui ogni individuo diventa portatore. È necessario

sbloccare questa staticità dei rapporti: il prof. Canevaro fa alzare la nonna

dicendole

Questo bastone lo prendo io! e la fa alzare e sedere di fronte alle figlie

dandole la consegna di parlare a cuore aperto con ciascuna di loro dopo

aver preso le loro mani tra le sue.

Nonna, lei ha messo il freno a mano nella vita! Deve toglierlo per aiutarle

ad andare verso la vita! dice Canevaro mentre Marta comincia a piangere...

La ascolti questa figlia, adesso lei sta soffrendo, le chieda il perché...

Nonna: “Perché da una parte è dispiaciuta per me, e dall’altra per questa

figlia con cui non va d’accordo”.

Marta: “Io voglio essere consolata, mamma! Mi aiuti? Io ti ho dato

dispiaceri, ma poi tutto è passato, e vorrei che tu mi dicessi così...che tutto

è passato...una volta è stato il tuo turno, ora è il mio: la crescita è dolore,

mi devi dire passerà.

Madre e figlia si abbracciano: non so perché mi viene in mente una storia

letta in un libro (La morale della favola?) intitolata “Una volta al polo nord”,

in cui si narra che un giorno questo piccolo essere sconosciuto ed

incomprensibile a tutti gli abitanti del polo nord era spuntato sull’enorme

distesa di ghiaccio, sterile e inutile, a segnalare – con il suo profumo e la sua

straordinaria bellezza e semplicità – l’arrivo della primavera e della

speranza. Così Silvia per lungo tempo ha parlato un’altra lingua cercando di

portare la speranza di un cambiamento in questo mondo familiare così

segnato dall’amarezza e dalla solitudine. La nonna prende l’impegno di fare

qualcosa di piacevole con le figlie cercando di condividere con loro un

“tempo buono”, ritagliandosi degli spazi di serenità per tutte loro. Silvia la

coinvolge nell’organizzazione della festa del suo diciottesimo compleanno:

prima di concludere l’incontro le facciamo prendere per mano: Io penso che

la nonna ha una tale grinta da andare via di qui senza bastone!

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Gina e Marta non credono che questa madre sia così forte: ma Marinella

(la nonna) quando non può prendere lo scettro in mano si mette a

piagnucolare, così voi vi disperate e lei trionfa. Oggi invece esce da qui

senza bastone e camminerà sola, e dovrete imparare a capirla e chiederle

il segreto della sua forza. Prendetevi tutte per mano e passatevi le energie.

Alla fine della seduta, mentre ci salutiamo, il prof. Canevaro nasconde dietro

alle spalle il bastone della nonna...che a un certo punto lo reclama: Ora però

il bastone me lo dà...

Però cammina benissimo anche senza!

Il tentativo di recuperare il rapporto nonna - madre ci sembra fondamentale,

perché è possibile leggere gli acting-out di Silvia come un raccogliere le

fantasie suicide della madre: Silvia non è in pericolo immediato, ma

raccoglie come un radar questo pericolo nella madre. Dal “manifesto di

Whitaker”: Penso che la depressione, che viene considerata una patologia

individuale, sia invece la risposta alla concreta percezione della patologia

negli altri. È il riconoscimento dell’inutilità di qualsiasi sforzo per alleviare

il dolore del mondo...

4.2 EVENTUALE RIENTRO DEL PAZIENTE COME

COTERAPEUTA NEL SISTEMA FAMILIARE

Passate le prime fasi della psicoterapia, è molto frequente che il paziente,

ormai detriangolato da situazioni disfunzionali, la maggior parte conflitti

tra i genitori o tra i genitori e un fratello, “rientri” nel sistema familiare per

collaborare meglio. Questa volta lo fa in una dimensione coterapeutica,

giacché si discute in seduta la strategia più adeguata per rientrare senza

rimanerci invischiato.

Uscito da una posizione che io chiamo di “terapeuta fallito”, in cui ogni

tentativo di riuscita nell’aiuto spesso veniva disarticolato dagli stessi attori

del conflitto (come se la richiesta di aiuto fosse stata in realtà il bisogno di

avere un depositario delle proprie ansie ), vive la conseguente frustrazione

come motivo per tentare e ritentare la missione impossibile.

Quando, invece, è “addestrato” dal terapeuta, il paziente riesce a rimanere

vicino a chi soffre ma senza invischiarsi, rimanendo se stesso e con una

posizione affettuosa ma distaccata, adempie a un ruolo positivo senza

soffrire un’ennesima frustrazione.

Non è una posizione semplice da raggiungere, e soprattutto da mantenere,

poiché il non invischiarsi viene criticato come egoismo e abitualmente

colpevolizzato. Se il nostro paziente riesce a spiegare la sua posizione senza

Page 23: 4.1 RITUALE TERAPEUTICO PER FAVORIRE LA ......ad affermare il valore che il matrimonio ebbe per molti anni e alla consapevolezza che non sono stati anni persi” (pag. 230). Io propongo

entrare in una lite quando viene provocato, bensì metacomunicando il

proprio parere e la propria posizione, possiamo dire che svolge una funzione

positiva di aiuto e di conforto.

Molte volte, soprattutto le mamme, “distinguono” un figlio con questo ruolo

terapeutico, scegliendolo come confidente, quando in realtà, e molte volte

inconsapevolmente, lo trattengono dalle sue giuste necessità di

emancipazione.

Federica, per esempio: Venuta in terapia con il manifesto desiderio di

lavorare sulla sua famiglia di origine, abbastanza disfunzionale, e facendo

di professione la psicologa, si lamenta dei suoi fallimenti come terapeuta

dei suoi.

Primogenita, sette anni più grande del fratello, prova sentimenti di vergogna

riguardo a sua madre che nella famiglia di origine passa come diversa e un

po’ matta.

Federica, senza rendersi conto, si è associata alla lettura della situazione che

il padre dà, appartenendo ad una famiglia più ricca che svaluta e critica

permanentemente sua moglie, di famiglia contadina e meno abbiente.

Federica cresce con la sensazione di avere questa madre diversa, e malgrado

il suo affetto per lei, non la considera molto. Il padre critica in Federica

aspetti della madre e la madre critica in lei aspetti del padre (sei orgogliosa

come loro...).

Questa difficile posizione fa piangere Federica, che si sente molto

impotente. Nel primo incontro con la madre è molto importante la

ridefinizione che il terapeuta dà delle stranezze della signora dicendo che è

molto furba e fa finta di essere matta per controllare meglio la situazione.

La donna accusail colpo e si apre di più confidando che, sebbene critichi in

Federica l’orgoglio paterno, la vede simile a lei e con buone possibilità di

essere mamma, criticando invece le ragazze di oggi che pensano solo alla

professione. Descrive alcuni conflitti col marito e la sua famiglia di origine,

ma emerge un chiaro affetto positivo tra entrambe, che finisce con un

abbraccio molto emotivo.

Dopo una seduta di elaborazione, facemmo l’incontro con il padre. Ci ha

parlato molto del suo conflitto di coppia, della sua frustrazione come

marito, ma non come padre (“Mia moglie vorrebbe riavvicinarsi, io no.

Dicevo sempre che quando i figli fossero diventati grandi me ne sarei

andato...”).

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Sia in questa seduta che in quella con la madre, il terapeuta connota la

posizione di Federica tra i genitori, con il tentativo di aiutarli, come

“missione impossibile”, e suggerisce una riflessione di coppia senza

coinvolgere i figli.

Federica, dopo l’incontro con la madre, dice che la seduta è stato un punto

di svolta. È più genuina nella relazione e si prende più libertà con la madre,

essendo più spontanea nel contatto. Considera il comportamento della

madre di provocatrice passiva come una risposta all’atteggiamento del

marito.

Dopo l’incontro col padre si è resa conto che non può essere terapeuta dei

genitori. “I miei bisogni vengono sempre dopo quelli degli altri. Non posso

parlare delle mie sofferenze”.

Dopo questi incontri si deprime un po’, sentendo che i genitori non hanno

uno spazio mentale per lei.

Se ne va per qualche giorno a casa di un’amica, provando come si sente

lontana dai suoi. Pian piano si riprende, concentrandosi molto sul lavoro e

sullo studio. Dopo alcune sedute dedicate a lei e al suo progetto esistenziale,

va avanti bene in una relazione sentimentale ed è più forte riguardo alle crisi

familiari. Di fatto, dopo una grande litigata dei suoi genitori, la madre tenta

di coinvolgerla e lei non entra nel merito, defilandosi dalla posizione

abituale, ma chiarendo questo alla madre, con un buon tono affettivo.

Questo la fa sentire meglio. Il padre, per un po’ di tempo si cucina da solo,

ma - a differenza di altre volte - non se la prende con i figli. Riesce a parlare

da sola con il padre dei suoi progetti, e quando lui tenta di parlare dei suoi

problemi di coppia, lei riesce a spiegargli che malgrado l’amore che ha nei

loro confronti, non li può aiutare come farebbe un altro professionista, non

coinvolto come lei nella relazione.

Così, lentamente, inizia a mettere i suoi progetti in primo piano, mentre i

genitori stanno considerando la possibilità di una terapia di coppia. Nei mesi

seguenti, Federica intensifica molto la sua relazione affettiva con il

fidanzato e insieme fissano una data di matrimonio. Federica parla con i suoi

di questo progetto e di come avrebbe bisogno di un aiuto per comprarsi una

casa, aiuto che loro le promettono.

In tutto questo ribaltamento strategico riguardo alla problematica dei suoi

genitori e “all’egoismo” di occuparsi dei fatti suoi, Federica viene molto

sostenuta dal terapeuta che la aiuta con piccoli “compiti a casa” in relazione

con i suoi, riuscendo a sviluppare una relazione personalizzata con ognuno

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dei suoi genitori; e, pur rimanendo affettivamente nella relazione, riesce ad

introdurre argomenti riguardanti la sua vita e i suoi progetti.

Contrariamente a quanto pensava, i genitori sono più tranquilli e

apparentemente migliorano la loro comunicazione.

In questo ribaltamento della strategia, Federica riesce a rientrare nel sistema

familiare come coterapeuta, senza rimanere invischiata ed essendo più

affettuosa nei loro riguardi.

La differenziazione si produce rimanendo lei nel sistema familiare e non

mettendo ulteriore distanza fisica o emozionale. Riuscire a detriangolarsi

dopo il lavoro terapeutico permette di trovare un’adeguata distanza

emozionale, e addirittura essere più efficaci nell’aiuto ai familiari, giacché

si può essere solidali, dando affetto e sostegno, senza il compito di dover

risolvere i problemi degli altri, altrimenti si prova ansia e ci si sente

inefficaci .

Quando il problema presentato da uno dei familiari è importante si può fare

una seduta congiunta, a richiesta del familiare, per affrontarlo insieme con

il paziente in qualità di coterapeuta

Se il problema non si risolve, si suggerirà un collega competente a cui

ricorrere e mai il terapeuta dovrebbe prendere il familiare in cura giacché

verrebbe meno la fiducia del suo paziente. Questa strategia non solo evita

eventuali manipolazioni da parte del familiare, ma è anche utile per attutire

loro frequenti colpevolizzazioni, quando sentono che il figlio o fratello

migliora “solo per sé”, egoisticamente.

Proporzionare un valido aiuto terapeutico al familiare può essere il

complemento giusto per avviare e consolidare un processo terapeutico di

cambiamento del sistema familiare che, a volte, si avvera con successive

“onde terapeutiche”, come quando si getta un sasso nello stagno.