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4TRANA STORIA QUELLA DELLA “MARSIGLIESE”, strana e av-venturosa come del resto s’addice a un inno, considera-to giustamente tra i più belli, nato in un periodo dram-matico e oggi tornato drammaticamente d’attualità e cantato ovunque.

Gli inni russo e americano sono più solenni, quello te-desco deve la sua melodia a Joseph Haydn, quello euro-peo è un adattamento dell’*OOP�BMMB�(JPJB di Beetho-ven, quello italiano ha versetti scritti da un ragazzo di nemmeno vent’anni poi morto nella difesa della Repub-blica romana del 1849. E quello francese? La .BSTJHMJF�TF deve parole e musica — salvo il possibile equivoco

che vedremo più tardi — a un ufficialetto di guarnigione a Strasburgo in Alsazia. Il sindaco della città — più volte contesa tra Francia e Germania, oggi una delle sedi del parlamento europeo — chiese a Claude Joseph Rouget de Lisle, capitano del ge-nio, di scrivere un inno guerresco per l’armata del Reno. Era il 1792 e la Francia ri-voluzionaria aveva appena dichiarato guerra al re di Boemia e d’Ungheria. Il capi-tano si mise al piano e, vuole la leggenda, buttò giù la trascinante melodia in poche ore: ritmo di 4/4 “alla marcia”, facile tonalità di sol maggiore. Versetti così pieni di ardore bellico da risultare ancora oggi molto violenti. Già nella prima strofa, dopo le parole che tutti conoscono (i"MMPOT�FOGBOUT�EF�MB�1BUSJF��-F�KPVS�EF�HMPJSF�FTU�BSSJ�WÏ�”), il tono cambia: i/PO�TFOUJUF�OFMMF�OPTUSF�DBNQBHOF�NVHHJSF�RVFTUJ�GFSPDJ�TPM�EBUJ �"SSJWBOP�GJOP�BMMF�WPTUSF�CSBDDJB�QFS�THP[[BSF�J�WPTUSJ�GJHMJ�F�MF�WPTUSF�DPNQB�HOF”. Da questo incubo l’invito del ritornello: i"VY�BSNFT�DJUPZFOT��'PSNF[�WPT�CB�UBJMMPOT��.BSDIPOT �NBSDIPOT��2V�VO�TBOH�JNQVS��"CSFVWF�OPT�TJMMPOTw��ovvero�iDIF�VO�TBOHVF�JNQVSP�JNCFWB�J�OPTUSJ�TPMDIJ”.

La storia dell’inno però era solo co-minciata nella notte alsaziana. Fra-nçois Mireur, volontario in un batta-glione dell’Hérault, riesce ad avere una copia del canto e alla fine di un ban-chetto che si tiene nella vicina Marsi-glia comincia a cantarlo subito imitato dal coro dei presenti. Quando i batta-glioni marsigliesi, agli ordini di un cer-to Barbaroux, si mettono in marcia ver-so Parigi cominciano anche loro a into-nare quelle note gagliarde che allevia-no la fatica del cammino e animano gli incontri di villaggio in villaggio. Scrive-rà Barbaroux nelle memorie: «Ricordo con tenerezza che all’ultima strofa dell’inno, quando si canta l’amore sa-cro per la patria, tutti i presenti si mise-ro in ginocchio. Io mi trovavo in piedi su una sedia: Dio, che spettacolo, gli oc-chi mi si empirono di lacrime». Giunti a Parigi (luglio 1792), alla fine della loro lunga marcia attraverso la Francia, i reggimenti dei marsigliesi riprendono ovviamente a cantare a gran voce. Il pe-riodico -B�$ISPOJRVF�EF�1BSJT scrive: «Cantano con un possente insieme; il momento in cui agitano i loro berretti e le sciabole gridando tutti a gran voce “AVY�BSNFT �DJUPZFOT�” mette vera-mente i brividi». Brividi di tale intensi-tà da far dimenticare l’originaria desti-nazione dell’inno: l’armata del Reno è cancellata, tutti ormai parlano di .BS�TJHMJFTF diventata una specie di 5F �

%FVN laico, come dimostra un partico-lare episodio. Il generale Kellermann era riuscito a fermare a Valmy (a est di Parigi) l’armata prussiana diretta ver-so la capitale. Rientrato in città chiede al ministro della guerra di far eseguire un 5F�%FVN di ringraziamento. Il mini-stro — Joseph Marie Servan de Gerbey — risponde che non è più aria di 5F�%FVN, bisogna far eseguire qualcosa che risponda meglio allo spirito dei tempi. Aggiunge: «La autorizzo, gene-rale, a far cantare con la stessa solenni-tà che avreste chiesto a un 5F�%FVN l’inno dei marsigliesi».

La popolarità dell’inno, agevolata dalla trascinante melodia, cresce velo-cemente. Poche settimane dopo l’ese-cuzione alla maniera di un�5F�%FVN, siamo nell’ottobre 1792, viene addirit-tura messa in scena da François-Jose-ph Gossec, buon musicista, autore tra l’altro di un apprezzabile 3FRVJFN. Il buon Gossec la inserisce in una compo-sizione intitolata significativamente 0GGFSUPSJP�BMMB�-JCFSUË.

Molti altri compositori, se ne conta-no circa venti, sfrutteranno quella me-lodia. Hector Berlioz, per esempio, nel 1830 ne elabora una versione per soli doppio coro e orchestra. Partitura son-tuosa ricca di colpi di timpano e rulli di tamburo. Alcune battute — siamo nel 1880 — vengono inserite da Pëtr Il’ic Cajkovskij nella sua 0VWFSUVSF����� che celebra la fallita invasione della Russia da parte di Napoleone. Composi-zione resa molto fragorosa dall’inseri-mento in partitura di alcuni autentici colpi di cannone. Poi i Beatles ovvia-mente, che con le note di questo inno aprono la loro "MM�:PV�/FFE�JT�-PWF; e il film $BTBCMBODB in una delle sue scene più intense, con i patrioti francesi che sfidano gli ufficiali nazisti cantando a piena gola il loro inno. Sempre la .BSTJ�HMJFTF risuona in sottofondo, per così di-re, nel famoso dipinto di Delacroix -B�MJ�CFSUÏ�HVJEBOU�MF�QFVQMF che celebra la rivoluzione del luglio 1830 che mise sul trono Luigi Filippo.

La .BSTJHMJFTF è stata dichiarata in-no nazionale due o tre volte seguendo le convulsioni e i tumulti della politica. Una prima volta nel luglio 1795, ma con Napoleone viene abolita salvo esse-re riammessa dopo la rivoluzione del 1830. Di nuovo abolita durante il Se-condo impero, nuovamente ammessa dal 1876; ancora una volta abolita nel-la Francia occupata dai nazisti, ricon-fermata come inno nazionale nel 1946, poi nel 1958 con la V repubblica dise-gnata da de Gaulle.

Al termine di queste complesse vi-cende resta una domanda di tipo musi-cale: il capitano Rouget de Lisle quella notte inventò davvero da solo la melo-dia? Il dubbio s’è affacciato più volte. Il gagliardo motivo affiora nel secondo te-ma del primo movimento del $PODFSUP�QFS�QJBOP�F�PSDIFTUSB�O�����,��� di Mo-zart (1786). Si può ascoltare tale e qua-le nel brano 5FNB�F�WBSJB[JPOJ�JO�EP�NBHHJPSF del compositore piemontese Giovan Battista Viotti datato 1781, dunque di ben undici anni anteriore a quella notte del 1792. La questione non è stata mai completamente risol-ta, e i francesi ovviamente negano. Re-sta che il capitano quella partitura non la firmò, al contrario di quanto faceva di solito. L’idea che l’inno dei cugini d’Oltralpe sia un dono “Made in Italy” è affascinante. Basta andare su :PV5V�CF e confrontare.

/EGLI INNI IL COMPOSITORE CONTA POCO. E poco importa che la

“Marsigliese” nasca da un netto, indiscutibile e volontario

plagio del francese Claude De Lisle ai danni, si fa per dire,

del piemontese Giovan Battista Viotti, nato a Fontanetto

Po. La musica del suo “Tema con variazioni” scritto undici

anni prima è identica a quella dell’attuale inno nazionale di Francia.

Altra questione è la somiglianza col tema del concerto in do di Mozart,

affine sì a quello di De Lisle, ma sostanzialmente distante: portato in

tonalità minore, con pochi tratti della magistrale penna mozartiana,

diventa un capolavoro sublime.

Il plagio De Lisle-Viotti è indiscutibile, ma irrilevante: gli autori di un

inno sono coloro che, sul campo, cantandolo e associandolo a imprese

eroiche, danno a quella musica una potenza emotiva che lo spartito,

spesso elementare, in sé non saprebbe esprimere. Gli autori di fatto della

“Marsigliese” sono i giovani combattenti arrivati a Marsiglia che nel 1792

la cantavano, mentre combattevano per le strade di Parigi, rischiando e

sacrificando la vita per la libertà. Senza di loro quel canto, che ad

ascoltarlo oggi ci commuove e ci dà i brividi, sarebbe forse una

canzonetta dimenticata.

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MILANO

$HE COSA RIMANE DELLA VITA A NOVANT’ANNI quando ci pieghiamo su noi stessi fin quasi a sentire l’odore delle radici dalle quali siamo venuti? Lo domando a Umberto Veronesi che i novant’anni li raggiungerà sabato e che ha questo tempo lunghissimo scavato nel-la carne e nel volto, non nello sguardo. «La riflessione», risponde. «A volte il desiderio di morire».

Novant’anni, una data da festeggiare?«Certo. Lo farò con tutta la mia famiglia. Siamo una tribù di quasi trenta persone, dai

novanta ai due anni. Un’era geologica».Quando era giovane riusciva a immaginarsi da vecchio, ha provato qualche volta a proiettarsi fin qui, nel posto dove il passato e il futuro si sono invertiti i ruoli, tanto da desiderare di più quanto ci siamo lasciati alle spalle che ciò che abbiamo davanti?«Quando sei giovane non pensi alla vecchiaia e man mano che invecchi il confine fra

“giovane e anziano” si sposta sempre più in là. Semmai si pensa alla morte, questo sì. Io ci ho pensato molto perché sono un sopravvissuto. A diciott’anni in guerra sono saltato su una mina e sono rimasto vivo per caso. O per miracolo, qualcu-no direbbe. Da allora ogni giorno di vita per me è una conquista. Ho deciso che avrei colto la bellezza dell’esistenza a pie-ne mani, finché vita ci fosse stata. E così è avvenuto. Non mi sono fatto mancare nulla».

Lei ha detto: se esiste il diritto alla vita, esiste anche il diritto di morire. Si chiama eutanasia. Sarebbe pronto a farvi ricorso?«Senza la minima esitazione. Se una malattia mi privasse della mia dignità di persona chiederei l’eutanasia. Ho fatto

anche il testamento biologico che contiene le mie volontà sulla fine della mia vita, in caso mi accadesse di essere incapa-ce di esprimerle di persona».

È sicuro di non essere sfiorato in alcun modo da un ripensamento sull’abbandonata fede?«Perdere Dio mi ha obbligato a cercare valori morali dentro di me. Sono sufficienti a darmi forza. L’impegno etico è

la sola cosa che mi ha lasciato Dio. Non ho avuto e non avrò alcun ripensamento, ma ho continuato a studiare le reli-gioni. È un viaggio affascinante che aiuta a capire la storia, perché le religioni sono il risultato delle circostanze e della cultura di un popolo in un determinato periodo».

La religione ai tempi della sua adolescenza era l’unica cornice della vita. L’avvertiva addosso?«Non mi pesava perché rientrava nei riti familiari di mia madre, una donna che io adoravo incondizionata-mente. I suoi gesti mi rassicuravano: recitare il rosario, preparare la tavola, mettermi a letto con lo scaldino

per i piedi, accendere una candela in chiesa. Quando ho sviluppato un mio senso critico e la cornice ha ini-

ziato a gravarmi, l’ho subito abbandonata. Mia madre ci ha parecchio sofferto, ma mi ha capi-

to».Come laico ha mai cercato di costruirsi un

suo Dio privato e succedaneo oppure, per dir-la con Nietzsche, Dio è morto e nulla più?

«Sto con lo scienziato Peter Atkins, che di-ce che Dio non è mai esistito».Se si guarda indietro, qual è il suo più gran-

de senso di colpa?«Non aver fatto abbastanza per salvare l’u-

manità dal cancro».Meglio Derrida: imparare a vivere signifi-cherebbe imparare a morire, a considera-re, per accettarla, la finitezza assoluta della vita, senza salvezza, resurrezione o redenzione. O Cioran: chiunque non muore giovane presto o tardi se ne pen-tirà.«Derrida dalla prima all’ultima parola.

Vivere più a lungo permette di produrre più idee e le idee rappresentano la nostra im-

mortalità. Il senso della vecchiaia è questo. E il senso della vita, in fondo».

Un’altra sua citazione: mi preparo a morire senza accorgermene. Che cosa significa?

«Considero la morte un dovere e un imperativo biologico. Fin da ragazzo ho pensato che la vita deve

finire e non ha alcuna dimensione metafisica. Chi cre-

de nella finitezza assoluta della vita è sempre pronto a morire. Non c’è da perdonare né da chiedere perdono dei peccati o redimersi per garantirsi un buon soggiorno nell’aldilà. Se le nostre idee sono la nostra immortalità, con la nostra vita di pensiero, ogni giorno ci prepariamo a morire».

La sua definizione di vecchiaia?«La vecchiaia del corpo è un massacro.

Quella della mente no, se si è fortunati».Quando ha cominciato a dirsi oggi sono diventato vecchio? Voglio dire, quando comincia l’età della nostra manutenzio-ne?«La manutenzione del corpo c’è sempre, o

almeno dovrebbe esserci, ma mentre da gio-vane è un dettaglio della vita, da vecchio di-venta un’attività prioritaria. La vecchiaia è an-che questo: il corpo che non sta più dietro alla mente».

Quali sono i privilegi degli anziani, se ne esi-stono?«Il potersi esprimere liberamente senza paura

di rovinarsi la carriera, il matrimonio, la famiglia, i rapporti sociali profittevoli».

Tutto si perde, restano solo i ricordi?«Sì. Dell’infanzia il sorriso di mia madre Erminia, il calo-

re dell’amicizia degli animali. Degli anni della guerra le urla di dolore dei moribondi, gli sguardi increduli dei sol-dati di fronte alla follia della violenza. La prima donna che

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ho baciato, non rammento chi fosse, ma ricordo il suo pro-fumo e la sensazione dello sbocciare di un sentimento. Il primo grande dolore, la morte di mio padre, Francesco. Avevo sei anni. Le persone scomparse delle quali conti-nuo a evocare il nome, un gesto, le forme del viso o del cor-po: mia madre, mia sorella Franca, i miei fratelli Pino, Li-no e Antonio, Don Giovanni il prete-filosofo di campagna. Intorno ai diciotto anni ho vissuto sesso, amore e dolore. La mia vita è continuata così, in sovrapposizione perma-nente».

Qual è il tempo più crudele?«Quando si perde la lucidità, a qualsiasi età avvenga».Ha finto spesso di essere felice?«Più che felice, ho finto di essere ottimista, per dare

speranza ai miei malati».Pensa di essere riuscito a dare un significato al suo pas-saggio su questa terra?«L’esistenza in generale non ha alcun senso. La terra è

un granello in un universo indifferente, è destinata a scomparire per la seconda legge della termodinamica. Ep-pure ho cercato anch’io di dare un senso alla mia vita e l’ho trovato nel trasmettere un pensiero che spero possa contribuire al miglioramento concreto delle generazioni future che per circa due milioni di anni ancora vivranno su questo pianeta».

Quali sono i traguardi raggiunti di cui va orgoglioso?«I progressi nel controllo del cancro prima di tutto e poi

qualche battaglia vinta nell’avanzamento civile e sociale. Come la fecondazione assistita, per fare un esempio. Poi ho creato, con l’aiuto di molte persone straordinarie, del-le istituzioni, che, spero, terranno vive molte delle mie idee. L’Associazione italiana per la ricerca contro il cancro, l’Istituto europeo di oncologia e la mia Fonda-zione per il progresso delle scienze».

Lei è stato spesso, diciamo così, un provocatore: dalla chirurgia sul seno all’eutanasia, dal nuclea-

re agli Ogm, dalla posizione sull’ergastolo fi-no al riconoscimento parziale delle ragioni dell’Is. Mai un pentimento?«Nessuno, quelli che lei cita come se fosse-

ro errori sono stati gli impegni scientifici e civili più importanti della mia vita. Non so-no un provocatore a meno che per provoca-re si intenda indurre a una visione diversa delle cose che si distacca dai luoghi comuni e

dalle posizioni più popolari. Pensi che non sop-porto neppure lo scontro verbale dei talk show.

Mi sento piuttosto un anticonformista e credo di averlo dimostrato pagandone le conseguenze, ve-nendo preso di mira da critiche feroci. Vede, c’è un doppio fil rouge che lega tutte le mie lotte di pensie-ro. Il primo è il bisogno di infrangere i retaggi e le veri-tà acquisite per sviluppare un sistema di idee e valori propri. Il secondo è la convinzione che tutti i fenomeni hanno una causa e solo agendo sulle cause si possono risol-vere anche le situazioni più dolorose e tragiche. Questo è anche il senso delle mie parole sull’Is. Opporre violenza al-la violenza non fa che alimentare una spirale di sangue, morte e paura. Esattamente ciò che l’Is vuole. Occorre in-vece capire le ragioni della follia jihadista e su queste in-tervenire dopo averle, non legittimate, ma decodificate».

Che cosa resterà di noi dopo la morte? Non saremo più nulla com’era prima di nascere?«Noi non saremo più nulla ma rimarranno le nostre

idee. Ce l’ha insegnato Socrate che infatti resta nel nostro pensiero anche dopo duemilaquattrocento anni».

Quali sono stati i suoi comandamenti privati?«Credo nella libertà, nella giustizia, nella solidarietà e

nella tolleranza».E la sua fedeltà assoluta?«Al principio dell’autodeterminazione della persona».Siamo noi ad avere una vita o è la vita che ci possiede?«Siamo parte di un disegno biologico codificato nel no-

stro Dna che ci impone di conservarci, riprodurci e poi mo-rire».

L’aldilà è dell’anima o del pensiero?«Non c’è aldilà. Il pensiero può sopravvivere al corpo

ma in modo immanente. Il nostro pensiero può continua-re a vivere sulla terra attraverso chi ci pensa».

Ricordo una sua battuta: “Ti annuncio che sono mori-bondo”. Perché? “In questi giorni non ho voglia di fare l’amore”. In una classifica personale delle priorità in quale posizione mette il sesso?«Altissima. Il sesso è un’espressione vitale positiva e ir-

rinunciabile. Oltre a essere, lo ripeto, un imperativo del Dna, che ci ordina di riprodurci».

È stato più Casanova o più Don Giovanni?«Casanova. Ho sempre amato l’eterno femminino».

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#ASTA GUARDARSI INTORNO O ALZARE LA TESTA verso il Monte Bian-co. Ogni passo, ogni colpo d’occhio, ti porta alla montagna. Vici-no al Bistrot des Sports e alla Maison de la Montagne, sede della Compagnia delle Guide, è un viavai di alpinisti e sullo sfondo svettano l’Aiguille du Midi e il Dôme du Goûter. Solo qui a Cha-monix Michel Guérin poteva fondare la piccola casa editrice che dal 1995 pubblica la collana di “libri rossi” dedicati all’alpinismo. Il primo titolo fu la ristampa de *�DPORVJTUBUPSJ�EFMM�JOVUJMF di Lio-nel Terray, uno dei maggiori protagonisti dell’alpinismo france-se e mondiale, arricchita da più di quattrocento foto in gran par-te inedite, cui seguirono decine di altri testi in lingua francese che sono diventati oggetti di culto tra gli amanti della narrativa

di montagna, dall’autobiografia dell’arrampicatore Patrick Edlinger al libro fotografico 1SF�NJFSF�EF�$PSEÏF di Roger Frison-Roche. Nonostante la morte di Guérin, nel 2007, l’attività del-la “maison d’édition en altitude”, per usare una definizione coniata da Jérôme Garcin su -�0CT, è andata avanti senza sosta. Proprio ieri ha raggiunto il traguardo dei vent’anni festeg-giando con una serata di gala, alla presenza di tanti alpinisti e scrittori, la pubblicazione di un volume straordinario e unico nel suo genere intitolato ����"MQJOJTUFT. «Abbiamo immaginato questo libro come una cordata alpinistica e letteraria», spiegano i curatori Charlie Buffet e Christophe Raylat, quest’ultimo anche direttore della casa editrice, «in cui cento scrittori rac-contano altri cento alpinisti che hanno contribuito con le loro scalate a cambiare la storia della montagna. In alcuni casi gli stessi autori sono scalatori o arrampicatori e hanno scelto loro il personaggio da raccontare. Per esempio Joe Simpson che ricorda Walter Bonatti, o Pierre Ma-zeaud, un mito dell’alpinismo francese, che ci offre un ritratto di Gary Hemming. O ancora Rei-nhold Messner che ha voluto presentarci la figura di Hermann Buhl». Uomini e donne che han-no fatto o stanno facendo la storia dell’alpinismo, da Maurice Herzog, l’autore di 6PNJOJ�TVMM�"OOBQVSOB, a Toni Egger e Giusto Gervasutti, da Lydia Bradey a Lynn Hill fino a Kurt Diemberger, Patrick Gabarrou, Ueli Steck e David Lama. Cento cordate di stelle alpine. Alcu-ne ve le proponiamo qui a fianco in anteprima.

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*L SUO NOME è tra i primi alpinisti che ho tenuto a mente. Lessi di lui una biografia scritta da Severino Casara. Paul Preuss ebreo non si è potuto iscrivere al club alpino austriaco. La

Vienna illuminata da grandiosi ebrei, Freud, Kraus, Mahler, Hoffmanstahl, Schnitzler, li evitava.

Oggi confondo la sagoma di Preuss con quella di Buster Keaton, le loro facce assorte in una sola. C’è in loro la medesima tenacia pura e l’estremismo della solitudine. Furono atleti di un’arte che scopriva le sue possibilità tramite loro. Quando scalava con un compagno, si legava in vita la corda con un nodo che si sarebbe sciolto in caso di caduta, per non coinvolgere il secondo. Ma questo era un accorgimento già usato da alcuni primi di cordata. Era integro con se stesso senza integralismi. Non voleva stabilire regole né accogliere seguaci. Non fu profeta ma esempio da tenere a bada come una tentazione. Scalare senza alcuna protezione, scendere la stessa linea imponendosi lo stesso vuoto ma guardando in basso: no, non voleva essere seguito. Sapeva di stare da tutti a una distanza incolmabile. Conosco un alpinista di oggi che scala come lui, in su e in giù slegato per gli stessi appigli. Fa cordata con Preuss.

Cent’anni dopo la sua salita in Lavaredo, una mattina sono stato dov’era passato lui. Altre volte andando a scalare la Nord di Cima Grande ero passato sotto la Piccolissima, incisa come una ferita da una

fessura che l’apre da cima a fondo, slabbrandosi in alto a canna fumaria. “Preuss”: questo soffio di lettere mi usciva di bocca in segno di saluto e appuntamento. Volevo aspettare la centesima estate della sua scalata. È arrivata. Sono stato dove lui è passato. È una roccia solida, scura, di umore variabile secondo umidità e colate d’acqua. È una parete nord che ancheggia a est, a prendere e perdere subito una spalmata di luce. La fessura iniziale rimanda in faccia il fiato di chi scala, glielo stringe. In alto dove si dilata la roccia, diventa cassa di risonanza. Immagino il violoncello di Mario Brunello in una delle soste della spaccatura. Preuss non era lì, nessun segno di passaggio, chiodi non ne batteva. Era passato qualche ora prima di cent’anni fa. C’era una volta che era stato lì. Quello fu per lui il 1900, un saliscendi di superfici vergini. Non era ancora il secolo delle rivoluzioni, delle guerre mondiali concentrate addosso al più piccolo dei continenti. Gli restavano ancora due estati, in quel settembre del 1911. Non avrebbe fatto parte della gioventù insaccata nelle trincee tra i picchi delle Dolomiti. “Quando cadi, passi il resto della tua vita a precipitare”: disse qualcosa del genere, secondo Casara. Sì, quando cadi, il resto della tua vita dura il tempo che cadi.

Chissà perché era aperto il il suo coltello, trovato accanto a lui, scaraventato giù dal Mandlkogel. Chissà perché penso che lo sapesse che doveva smettere così.)

ERMANN BUHL non si preoccupava di essere “il migliore”. E gli importava poco di essere il “miglior alpinista del

mondo”, “il più veloce” o “il più modesto”. Queste qualifiche gli sono state attribuite da pseudo-alpinisti per tentare di misurare ciò che non si può misurare. Una serie di cifre non può qualificare le nostre azioni. Certo, c’è il giovane scalatore che un giorno si auto-attribuisce il titolo di “campione del mondo”, lamentandosi del fatto che al grande alpinismo non si riconoscano titoli mondiali o medaglie d’oro. Ma l’alpinismo non potrà mai essere misurato in secondi o in punti. Il successo, nell’alpinismo, dipendeva, anche per Hermann Buhl, dalla capacità di sopravvivere in un contesto sempre più delicato.

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3ICORDO UNA DISCESA a corda doppia dopo le Flammes de pierre verso l’attacco del Pilier Bonatti, alle

Aiguilles du Dru. Ian Whittaker e io seguiamo una fila di chiodi su delle pareti sempre più a strapiombo, e ci chiediamo se poteva averli piantati lui, Bonatti. Poi le pareti scure della gola risuonarono di colpo del tuono di una valanga di sassi. Ripensai allora al racconto di Bonatti. Raccontava della farfalla che aveva trovato agonizzante sul ghiaccio, delle sue ali che battevano fievolmente, portata lì da qualche corrente ascensionale per morire in quel regno oscuro e ghiacciato. Scriveva della solitudine che aveva provato in quel momento, ossessionato dalla possibilità di morire da solo come quel povero insetto.

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ª3*130%6;*0/&�3*4&37"5" 2UANDO IL NOME DI CATHERINE Destivelle comincia a farsi notare saranno sufficienti pochi anni perché non si

possa mai più compararla a nessun’altra perché raggiunge una posizione che sfugge alla categorizzazione maschile/femminile. Quali doti sono necessarie per fare di un essere umano un buon alpinista? Resistenza fisica e mentale, attitudine a sopportare la fatica, intelligenza, prontezza di analisi, conoscenza dell’ambiente, del materiale che si usa, ma anche di sé, delle proprie possibilità e limiti, forza fisica, agilità, equilibrio. Nulla che sia specificamente maschile o femminile, e ciò che distingue il buon alpinista dall’alpinista eccezionale è che tali qualità sono in quest’ultimo, uomo o donna che sia, spinte all’estremo.

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2UANDO JEAN ANTOINE CARREL nacque nel 1829, la tesi che il Cervino non potesse essere salito e che quella

cima a forma di piramide fosse dannata, non era solo una credenza dei valligiani. Ma Carrel, che dopo aver passato un’infanzia felice sui pascoli della Valtournenche fu arruolato per combattere nelle guerre d’indipendenza, imparando a sue spese il significato delle parole coraggio, paura, istinto, intuito e sopravvivenza, si convinse del contrario. Non solo nel 1857 organizzò il primo tentativo di scalata al Cervino ma per tutta la vita si dedicò a esso. Eppure è solo oggi, a distanza di centocinquanta anni dalla conquista della Gran Becca, che emergono i valori di quest’uomo. Un montanaro dalla fisionomia scolpita con l’accetta, come il Cervino.

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.ARCELLO MARCHESI è stato l’Omero infor-male della nuova lin-gua italiana nata dal boom economico, quella lingua rigene-rata dal vigore creati-vo della pubblicità e della nuova voglia di spettacolo e disimpe-gno emersa prepo-tente già dal dopo-

guerra. Di un Omero informale, non ufficiale e ben poco cele-brato si è trattato: solo così poteva essere per un uomo che ha speso le risorse infinite del suo ingegno linguistico dissi-pandole in più di quattromila caroselli, diciannove libri, una cinquantina di sceneggiature cinematografiche (tra cui il primo film comico italiano, *NQVUBUP �BM[BUFWJ�, del 1939 con protagonista Macario, e tanti film di Totò), una trentina di spettacoli di rivista (compresa la prima commedia musi-cale italiana, nel 1955: 7BMFOUJOB �VOB�SBHB[[B�DIF�IB�GSFU�UB) e testi di canzoni (tra cui la hit #FMMF[[F�JO�CJDJDMFUUB). E tanta satira giornalistica, per i gloriosi #FSUPMEP e .BSD�"V�SFMJP. Marchesi è stato per la parola quello che Jacovitti è sta-to per il fumetto: un genio incontenibile, infaticabile e gene-rosissimo. Un big bang della creatività — capace di genera-re universi divertenti e improbabili — nascosto sotto i panni di un gentleman compassato come quel TJHOPSF�EJ�NF[[B�FUË a cui diede corpo, mente e voce per la Rai.

Oggi noi tutti usiamo le frasi di Marchesi, a ognuno può capitare di dire “Il signore sì che se ne intende”, o “Con quel-la bocca può dire ciò che vuole” o “Anche le formiche, nel lo-ro piccolo, si incazzano” ma ancora troppo pochi sanno che sono tutte frasi sue, del primo e ancor’oggi inarrivabile copy-writer italiano. Per aiutarci a colmare la lacuna, ci voleva un’opera dal taglio quasi enciclopedico come l’"HFOEB�.BS�DIFTJ curata da Mariarosa Bastianelli e Michele Sancisi. Una strenna zeppa di saggi inediti che svelano l’artista e l’uomo — compresi gli affettuosi ricordi di chi collaborò con lui, co-me Enrico Vaime, Guido Clericetti e Paolo Villaggio — e ma-teriale d’archivio ormai introvabile, come foto e locandine dei suoi spettacoli e gli scritti di corsa, più che corsari, che Marchesi vergava su bloc notes e fogliettini ogni volta che, avuta un’illuminazione improvvisa per qual-che nuovo lazzo, aforisma, o sketch da affidare a Walter Chiari, sorgeva il bisogno di fermarla su car-ta per strapparla all’oblìo.

Marchesi è stato un genio indaffaratissimo, felice-mente perseguitato dal tempo e dagli impegni. «Se ri-tardo una mezza giornata è la fine del mondo, se muoio non se ne accorge nessuno» aveva appuntato su un fo-glio questo stakanovista del varietà che, quando doveva vedersi con un collaboratore, lo avvisava: «Domani matti-na vediamoci sul tardi. Facciamo alle otto». Già, era pro-prio milanese Marchesi, per nascita e senso del dovere. Ma si era presto innamorato di Roma, dove passò gli anni del suo felice sodalizio con Vittorio Metz, coautore di quei film di Totò allora vilipesi dalla critica e oggi rivalutati, ma sem-pre amati dal pubblico. Metz e Marchesi affittavano una stanza all’albergo Moderno con due macchine da scrivere — una sul letto e l’altra nella ritirata — e un perpetuo svolazzo di fogli e amenità. Scrivevano tanto, e qualche battuta l’affi-davano a “ragazzi di bottega”: Ettore Scola, per dirne uno, iniziò così. Ma sono tante le carriere che si sono impennate verso l’alto grazie a Marchesi, anche ottimo talent scout — e basterà citare Walter Chiari, Mike Bongiorno, Gino Bramie-ri, Mario Riva, Ugo Tognazzi, Paolo Villaggio, Gianni Moran-di, Age e Scarpelli. Un’eredità, quella che ha lasciato, molte-plice e caleidoscopica: riempie di sorrisi l’intero tessuto del-lo spettacolo italiano dagli anni Trenta a quel triste 1978 in cui, a soli sessantasei anni, Marchesi sbatté la testa su uno scoglio per far divertire con un tuffo il figlio di un anno. Far sorridere gli altri, solo questo: la missione serissima di tutta un’impareggiabile vita.

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4ONO NATO MENTRE in tutta Italia si cantava “Tripoli, bel suol d’amore”. Quando arrivai, non ero atteso proprio per quell’ora e,

nella confusione che seguì, mi legarono l’ombelico col nastrino tricolore di un pacco che conteneva un panettone.

Scrivo dalla mattina alla sera, ma non ho archivio. Mi illudo che i testi che non riesco a trovare siano piuttosto belli. Mi piace solo quello che farò.

Riepilogando: ho quarantotto anni, ottanta chili, cento delusioni, mille desideri. Fra questi, quello di fischiare un motivo dixieland accompagnato da una grande orchestra. Forse ci riuscirò. Per ora, dopo aver fumato sessanta sigarette al giorno, chiuso in una stanza con Metz per quattordici anni (lui fumava, io respiravo semplicemente il suo fumo) a scrivere riviste, sceneggiature e canzoni, mi dedico alla pubblicità. Lavoro per non lavorare, ma non ci sono ancora riuscito (a non lavorare). Per disintossicarmi dai formaggini, dai detersivi, dai dentifrici, peraltro utilissimi, in cui sono immerso, scrivo delle poesie. Più che altro, vado a capo ogni tanto. È un’abitudine che ho preso durante la guerra, quando mancava la carta, e scrivevo sul bordo bianco del giornale; per cui tutto, anche un indirizzo, assumeva l’aspetto di una poesia. Anche se non vi piacciono, hanno un pregio, sono inedite e voi siete i primi a leggerle, dopo, s’intende, i miei famigliari.

Ah, dimenticavo: ho un altro desiderio; mi piacerebbe non morire per vedere come va a finire.

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Mia madre era una medium. Una sera mia madre, appena caduta in “trance”, si mise a parlare con voce da uomo. Attraverso di lei si stava manifestando una “presenza” molto simpatica e cioè: Luigi Lucatelli, scrittore, giornalista, umorista, morto nel 1915. Lucatelli parlò subito… di me. Disse che sarei diventato uno scrittore, un umorista, e che lui sarebbe stato sempre al mio fianco. Io mi spaventai un po’. Mi ero da poco laureato in legge. Al mio primo intervento davanti al giudice conciliatore, smarrii la cambiale sulla quale verteva la causa. Segno premonitore?

Un mese dopo, da un palchetto del Teatro Lirico di Milano, Angelo Rizzoli mi vide recitare in una rivista goliardica. Perché mi chiamò subito alla fondazione del “Bertoldo” insieme con Mosca, Metz, Manzoni, Marotta, Molino? Mah! Da allora non ho mai smesso di scrivere, cercando di combinare le parole in maniera che facessero ridere. Spesso, quando in copisteria detto a un velocissimo dattilografo pagine e pagine di sceneggiatura, direttamente in bella copia, senza correzioni o ripensamenti, oppure quando mi scappano dalla bocca battute improvvise quasi prima che io possa averle pensate, ho il sospetto che qualcuno mi suggerisca ciò che dico.

Sarà Luigi Lucatelli che mantiene la promessa fatta nel 1936 a una sua amica medium?

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Fa troppo bene il “Marc’Aurelio” qui. Quando arriva, un portaordini corre di centro in centro per farlo leggere a tutti e le risate sconcertano il nemico.

Ieri ero seduto in terra. Un collega del genio mi ha domandato quanti chili pesassi. Gli ho risposto che ne pesavo ottantacinque, ma a furia di massaggi, di volontà e di scuole serali ero arrivato a sessantotto.

Bene — mi ha risposto quello con calma — ti sei seduto su una mina che salta alla pressione di settanta chili.

Mi sono alzato di scatto.

— No, no adesso puoi anche rimanere — ha ribattuto il geniere — ti mancano due chili.

— Già — e mi sono riseduto. -FUUFSB�EBMM�&HJUUP�

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La battuta, questa sfilza di parole meccaniche, costruite in modo da provocare comunque il riso, mi ha sempre ossessionato fin dall’inizio della mia lunga carriera di umorista (così lunga, pensi, che alcuni mi credono mio figlio). Eppure sono “nato alle lettere” con una “freddura” che fu pubblicata nel ’36 sul settimanale umoristico “Bertoldo”: «Io non credo all’amore a prima vista. — Scettico? — No: miope». Freddina, no? Da allora, sulle colonne dei giornali, sullo schermo, alla radio e in teatro, ovunque lavorassi, fui condannato sempre alla secca, ritmata, funzionale battuta. Era cominciata la mia triste carriera di scrittore tutto da ridere…

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STOCCOLMA

i#ENVENUTI A BORDO del trasporto veloce a emissio-ne zero. In venti minuti, a 205 orari vi porteremo nel centro di Stoccolma”. Silenzioso missile giallo e bianco con schermi per OFXT�OFUXPSLT a bordo, il supertreno Arlanda Express esce accelerando alla superficie, si lascia alle spalle il megagalatti-co aeroporto, che usa anch’esso solo le rinnovabi-li, e le due stazioni sotto i cinque terminal, profon-de come rifugi antiatomici perché la pace è fragi-le, e sfreccia verso la vivace “Londra del Grande Nord”. Ecco, la scommessa-rivoluzione chiamata “Svezia 2050” ti viene subito incontro, appena at-

terri. E quando il supertreno rallenta e entra nei bei quartieri borghesi, non vedi fumo nero di gaso-lio da riscaldamento o di olio combustibile uscire dai camini di eleganti palazzi o moderne industrie. L’obiettivo è ambizioso, gli svedesi sono decisi a non mancarlo: «Entro il 2050», hanno spiegato il premier socialista Stefen Loefven e la sua vice, la ministra dell’Ambiente e leader dei Verdi Asa Romson, «saremo il primo paese industriale avanzato a emissioni zero. Senza danneggiare cresci-ta, occupazione e qualità della vita, anzi dando loro nuove forze». Con questa sfida, il regno delle tre corone chiede coraggio di scelte dure all’imminente vertice mondiale sul clima di Parigi, «e anche se altri non ci seguiranno noi andremo avanti».

Ispiratrici della sfida Made in Sweden sul clima, le brave, attivissime donne al potere: prima di tutte Margot Wallstroem, agli Esteri, teorizzatrice della «superpotenza col cuore», poi la Romson stessa, poi la titolare delle Finanze. E infine ma non ultima Kristina Persson: nelle stanze accanto a

quelle del premier, a Palazzo Rosenbad, lei gui-da l’unico “ministero del Futuro” del mondo. Co-me una maga buona di Harry Potter, insieme a politici d’ogni colore, imprenditori, sindacati, ong, progetta e ripensa ogni giorno il mondo in cui vivremo.

A un primo sguardo superficiale, passeggian-do in centro, non penseresti a tanta fretta d’ad-dio al Co2 e a ogni altra emissione fossile. Se non altro perché dal lusso delle boutique adorate da una borghesia colta quanto elegante alla luce che illumina DBWFT, discoteche e internet café di Soedermalm e centri culturali giorno e notte, Stoccolma non ti fa pensare subito a una città che taglia o risparmia energia. Meno che mai, se ricordi che qui la musica rock, prima di essere sentita ad alto volume nei locali, è sovvenziona-ta perché parte della cultura d’oggi. Ma la scelta è fatta, insistono gli esperti a Rosenbad. «E pos-siamo farcela, non è utopia da visionari», mi di-ce il giovane Fredrik Hannerz, uno dei padri del piano Svezia 2050, ricevendomi al ministero dell’Ambiente a un passo da Kungstraedsgar-den e dall’Opera.

«Chiunque governi, qui siamo pragmatici», spiega il professor Kjell A. Nordstrom, economi-

sta anticonvenzionale di grido, spesso consulta-to dall’esecutivo, e precisa: «Se un’idea ci appa-re eticamente a posto, efficiente, pratica, utile, tentiamo tutto per applicarla, che sia nostra o che venga da Usa, Israele o altre location di pun-ta delle high tech di domani». Difficile, a prima vista, ridurre le emissioni in un’economia indu-strializzata e ipertecnologica, dove metà del Pil viene dall’export di beni d’eccellenza: auto co-me aerei, elettronica e marchi internet come Skype o Spotify. «Ma non è impossibile», insiste Hannerz. E il consenso sulla rivoluzione delle emissioni zero è bipartisan, tra socialdemocrati-ci e verdi al governo e i quattro partiti “borghe-si” (qui si dice così in senso buono) del centrode-stra. Stoccolma, ieri tempio dell’utopico sociali-smo liberal di Olof Palme e Tage Erlander, pro-pone oggi al mondo ricco un altro sogno: la sal-vezza solidale e sostenibile di clima e ambiente.

«Finora ce l’abbiamo fatta ad andare avanti, anche veloci», dicono al ministero: la carbon tax introdotta nel 1991 è di cento euro a tonnellata, contro la media di cinque-dieci nel resto dell’U-nione. Chi compra un’auto elettrica riceve l’e-quivalente di oltre diecimila euro in contanti, più parcheggi e pedaggi gratis e altri GSJOHF. Gli

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autobus di tutta la Svezia usano solo etanolo, e i comodi treni delle sette linee della Tunnelbana, la bella metro della capitale con stazioni decora-te da artisti (profondissime, antiatomiche), vanno anche loro a rinnovabili, come gli X-2000 dell’alta velocità. S’illumina di luce prodotta so-lo dalle rinnovabili anche il magnifico mercato coperto fin-de-siècle di Ostermalstorg, location d’eccellenza gastronomica e di struscio e spunti-ni nei bistrò interni per la borghesia locale. «Dall’introduzione della carbon tax a oggi, ab-biamo ridotto le emissioni del 40 per cento, men-tre l’economia cresceva del 105; i carburanti fos-sili sono scesi dall’80 per cento del totale a ben meno di un terzo, meno delle rinnovabili». Obiettivo: una flotta di veicoli privati e pubblici liberi dai carburanti fossili. Non finisce qui: co-me si comincia a fare anche negli Usa e in Israe-le, i migliori ricercatori sono al lavoro per svilup-pare ecocarburanti anche per i jet di linea, e già oggi, ricordano alla Flygvapnet, l’aviazione rea-le, «i nostri caccia supersonici Gripen con cui pri-ma che il grande vicino si unisse alla guerra con-tro il Daesh respingevamo le visite dei suoi bom-bardieri, volano senza perdita di prestazioni con carburante da jet civili, molto più pulito di

quello degli aerei militari di tutto il mondo».La domanda maliziosa ti viene in mente,

inevitabile: e se fosse solo un bel sogno da “Fa-bian society” o da “Città del sole”? «No, guardi, possiamo farcela», insiste Fredrik Hannerz, «chiunque ci possa governare è d’accordo». E ri-corda un elemento-chiave: «Le foreste sono il no-stro oro verde. Addio alla deforestazione selvag-gia dell’alba della rivoluzione industriale, ades-so l’ordine prioritario è riforestazione massic-cia, e uso sostenibile dell’industria del legno». Mica male, per la patria di Ikea e del design. «Le foreste», continua, «sono il polmone da estende-re, e non solo: i loro “avanzi”, dagli alberi che muoiono agli scarti della produzione di legna-me, vengono e verranno sempre più gasificati e così utilizzati come fonti d’energia pulita, per le industrie o per il riscaldamento delle case». In-sieme alla biomassa, alla geotermica nazionale e ai fiumi sotterranei della vicina Norvegia, al fo-tovoltaico. «Non è utopia, vogliamo essere do-mani esportatori-leader di tecnologie per l’ener-gia pulita, come oggi con le auto premium, gli aeroplani, le Hasselblad e internet». La scom-messa c’è tutta, auguri cara Svezia.

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i$IBO INTEGRALE: RIFERITO AD ALIMENTI molto nutrienti e di facile digeribilità, fatti con tutti gli elementi co-stitutivi del grano e di altri cereali, senza burattare la farina, e cioè con semola e crusca”. Semplice ed efficace, la definizione della Treccani lascia poco spazio ai fraintendimenti. Il cibo integrale vero è co-sì, prendere o lasciare. Peccato che tra vocabolario e realtà, sfumature, traccheggi e informazioni pre-carie rosicchino il concetto dall’interno, come un dolce svuotato dalle dita di un bimbo goloso. Sotto il vestito (integrale) niente, a parte un pallido ricor-do di colore, il marketing spinto e il prezzo maggio-

rato. Eppure, l’integrale dilaga. Sugli scaffali, nei menù, a corredo di mille elenchi di ingredienti, tra le buone intenzioni dei dannati della dieta, incensato da nutrizionisti e diabetologi, impalmato dai guru del-la pancia piatta e dagli stakanovisti del fitness. La nuova dittatura della farina povera si è tradotta in crois-sant e pan carré, torte e biscotti, fino alla macinatura ruvida per il panettone del prossimo Natale.

Gli scienziati non hanno dubbi: oltre la metà dei carcinomi potrebbe essere evitata con un’alimentazio-ne ricca di verdure e cibi integrali. I benefici sono infiniti, dalla conservazione del germe con il suo carico di potenti micronutrienti alla presenza di fibre che contribuiscono a tenere l’intestino in forma, e poi vita-mine e sali minerali, basso indice glicemico e alto indice di sazietà.

Produrre integrale costa tempo e attenzione. Se andate a Roddino, Langhe, dove Roberto Marcari-no ha scambiato una confortevole carriera da fun-zionario di banca con l’indomito mestiere del forna-io biodinamico, lo troverete facilmente a parlare con l’impasto messo a riposare sotto un telo cana-pa. «Dormi ancora un po’, ne hai bisogno», suggeri-sce alla pagnotta in lievitazione, ben sapendo che quella ricambierà la gentilezza restando morbida e fragrante per giorni. Altro campione del pane in-tegrale, Eugenio Pol, milanese trapiantato in alta Valsesia, dove segale e monococco la fanno da pa-droni e un profumo irresistibile battezza i due gior-ni della settimana dedicati alla cottura.

Ma c’è integrale e integrale, dato che per definir-la tale secondo legge, una farina deve contenere al-meno l’1,3 per cento di ceneri (di sali minerali) sul-la sostanza secca: un po’ di crusca a puntinare il biancore della super raffinazione, e il gioco è fatto. E soprattutto, l’integrale ha senso solo se fa rima

con naturale, nel senso di biologico. Perché dove so-no stati usati additivi chimici, molto meglio com-prare prodotti raffinati, almeno ripuliti dell’involu-cro intriso di pesticidi.

Al contrario, la farina doppio zero bio è un totale controsenso, visto che il meglio è annidato tra invo-lucro e chicco. E poi lo zucchero, che nasconde die-tro l’aggettivo grezzo un prodotto raffinato e colo-rato col caramello, mentre i due veri integrali — muscovado e panela — si riconoscono per l’odore penetrante e la consistenza particolare. O il miele, che solo api felici di volare su fioriture intatte e una lavorazione senza eccedere la temperatura del so-le d’estate rendono vergine e integrale. In caso di dubbi, tagliate una fetta del pane di cui sopra e spalmatela con un miele adeguato. Annusate, pri-ma di addentare, per godere di una felicità a tutto tondo. Integrale.

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. ettete a bagno il grano spezzato in acqua fredda per ven-tiquattr’ore. Cuocere a vapore nella cuscussiera o nel forno per 45’ a 100°C, poi sgranare con una forchetta.

Mettere in padella 150 grammi di succo e l’acqua. Raggiunta l’e-bollizione, aggiungere il grano e far bollire a fuoco dolce, conti-nuando a mescolare. Togliere dal fuoco, raffreddare e con-servare in frigo. Versate gli altri 300 grammi di succo in un sauté d’alluminio a fiamma moderata, ridurre a metà, raf-freddare e conservare in frigo. Grattugiare il pecorino, me-scolare col latte e frullare aggiungendo il miele fino a ren-derlo cremoso. Raffreddare quattro ore in frigo. Sbuccia-re i cachi, riducendo la polpa a salsa. Su ogni piatto, due quenelle di cuturro e sopra un cucchiaino di riduzione. A co-té, tre acini di uvetta ammollata in uno sciroppo metà miele e metà acqua e due quenelle di crema di pecorino. Rifinire con purea di cachi.

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INGREDIENTI:

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450 G. DI SUCCO CENTRIFUGATO DI FICO D’INDIA; 80 G. DI PECORINO

DEL CASEIFICIO “LA PECORA NERA”; 100 G. DI LATTE DI PECORA O VACCINO

40 G. DI MIELE DI FIORI D’ARANCIA; 90 G. DI CACHI FRESCHI E MATURI

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*NTEGRALE O INTEGRALISTA? Questo è il problema. Almeno per quelli che fanno della sana alimentazione una questione di fibra. Alimentare, ma anche

morale. Perché nella domanda crescente di cibi naturali e incontaminati, puri e depurativi, c’è sicuramente una sacrosanta ricerca di salute nel piatto. Ma c’è anche un desiderio di purificazione del corpo e insieme di drenaggio dell’anima. Insomma un cammino di redenzione della carne che trasforma pane e frutta, verdura e yogurt in strumenti di normalizzazione di appetiti e desideri. Modi per darsi una regola.

Nell’attuale trend salutista riaffiora sempre più frequentemente un ascetismo secolarizzato. Un pauperismo cool. Un sussulto etico e dietetico. Che tenta una problematica quadratura del cerchio fra il peccato e il carboidrato. Roba che ricorda gli anatemi di padri della Chiesa come Clemente e Tertulliano, passati alla storia per il loro rigorismo morale e per la loro messa al bando dei cibi troppo raffinati. Come le farine bianchissime e le carni elaboratissime. Che snaturavano la nutrizione trasformandola in piacere. Addirittura i due consideravano cuochi e pasticcieri dei riprovevoli ministri di Satana perché corrompevano, con salse, creme e fondi di cottura, la semplicità degli alimenti che il Signore ci ha dato, eliminandone la parte più nutriente. Come dire cibi sofisticati uguale costumi rilassati. Di fatto questi venerabili bacchettoni hanno anticipato la recente santificazione degli alimenti integrali che l’homo dieteticus contemporaneo ha elevato a emblemi supremi di salute e salvezza. Ecco perché molti di noi, da epuloni buonisti e politically correct, cerchiamo di conciliare edonismo e temperanza, comprando alimenti da poveri a prezzi da ricchi. L’importante è che queste panacee — dai cereali integrali al tè verde, dal kamut ai semi di chia, dalla quinoa al farro — siano circondate da un’aura preindustriale, che le trasforma in garanzia di purezza incontaminata e d’innocenza primigenia. È quel che facciamo nel nostro piccolo un po’ tutti, ricorrendo al tofu come esorcismo proteico, alle bacche di goji come mantra antiage. E alla curcuma come spezia salvavita. Il nostro è un atto di resipiscenza, un mea culpa choosy, che segue anni di consumismo esasperato. Un movimento di rigenerazione delle anime. E soprattutto delle animelle. Cui si aggiungono anche giuste esigenze di sicurezza, fremiti morali, istanze ambientali. E così torniamo a mangiare come facevano i nostri nonni prima che il miracolo economico spalmasse l’abbondanza su tutto il calendario. Di fatto abbiamo rifondato il partito della quaresima. La differenza è che loro lo facevano per necessità, noi per virtù.

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MONZA

6N UOMO BEN VESTITO CON UN CAPPELLACCIO nero da contadino en-tra di fretta in un bar. In mano ha uno skateboard blu. È Marco Ca-stoldi, in arte Morgan, classe 1972. «Vuoi venire a vedere come funziona? È uno di quelli di nuova generazione». Sale sullo skate-board e con una serie di movimenti di rotazione del bacino e del

busto corre veloce sul marciapiede. Siamo a Monza, in un bar a poche centinaia di metri da casa sua. Tranquilli-

tà di una periferia: cielo grigio da copione autunnale lombardo, cemento, un bar come un altro, che niente ha di trendy. Non è il posto dove ti aspetteresti di trovare un personaggio che tutta l’Italia conosce, uno di quelli che “vanno in tv”. È subito un fiume in piena. «Stamattina ero in questo paesino in Puglia e sono passato davanti a una chiesa. Ho deciso di confessarmi. Era la prima volta da vent’anni». Mentre racconta, improvvisa arriva la fame: una pizza, presto! «C’era quest’uomo in mezzo alla chiesa che leggeva. Gli ho chiesto: sei il pre-te? Si è messo una stola, mi ha messo una mano in testa ed è rimasto così per un bel po’: doveva finire di leggere il Vangelo di Giovanni. Ma non andiamo nel confessionale? “No. Dimmi i peccati, anche quelli involontari”. Gli ho detto che sono sempre stato ferventemente ateo ma che in questo momento sento il bisogno di un riavvicinamento alla spiritualità e che pur non credendo ho sem-pre sofferto per la figura di Cristo perché era stato ingiustamente punito. Mi ha interrotto e mi ha detto: ”Questo è un buon pensiero. Tu vuoi sollevare Cri-sto: fallo dentro di te ogni volta che senti nascere qualcosa che non è buono”. Ha colto il mio bisogno» . Ma l’assoluzione poi è arrivata? «Un’Ave Ma-ria, l’abbiamo detta insieme e io ho anche sbagliato l’inizio». Molta acqua è passata sotto i ponti da quando con i Bluvertigo cantavate -�FSFUJDP e litigaste con Monsignor Tonini da Red Ronnie… «Tonini era un uomo coltissimo, incaricato della comunicazione presso i gio-

vani: lui ha avuto decisamente la meglio. Citava Foucault, un espediente massimo di retorica: usare l’argomento che avrei dovuto usare io, contro di me, l’avversario. Non ave-vo speranza». I Bluvertigo hanno sempre citato riferimen-ti esoterici. Non a caso i loro primi tre album si intitolano rispettivamente "DJEJ�F�CBTJ, .FUBMMP�OPO�NFUBMMP e ;FSP e compongono quella che loro stessi definivano come una “trilo-gia alchemica”. «La spiritualità è qualcosa di magico, il mate-rialista non la può comprendere ma se la si accoglie è ispirante. C’è un momento, dice Bertrand Russell, in cui finisce la cono-scenza e inizia la fede: se quest’ultima ti è stata inculcata ne sei schiavo ma se è una libera scoperta allora può coesistere»..

La pizza è arrivata: non è niente di che ma invece Morgan ini-zia a sbocconcellarla con un certo piacere. «Anche la musica è

un mistero. Partiamo dalla classica che dopo tanto tempo sono ritornato ad af-frontare: sto per far uscire il primo volume de *M�DMBTTJDP�.PSHBO���.PSHBO�TVPOB�#BDI �7PMVNF�* �-F�TVJUF�JOHMFTJ. La reinterpreto in un modo che al con-servatorio non avrei mai potuto: il 1SFMVEJP per esempio è un sirtaki, l’"MMFNBO�EB una bossanova, la #PVSSÏF è techno!». Con grande fiducia dal momento che si tratta di un inedito, prende un disco dalla borsa e me lo porge. «Ascoltalo: è l’unica copia. Poi mi dirai». Ma a che età Morgan ha incominciato con la musi-ca? «A due anni quando mia mamma metteva su un disco smettevo di piange-re. A sei anni la prima chitarra, ma non ho imparato subito perché ero manci-no. Bisogna tener duro nonostante le delusioni, è faticoso ma i premi sono grandi: si diventa persone realizzate. La conoscenza armonica è importante: molti dei nostri musicisti sanno fare solo quattro accordi e magari pure bana-li». Non bisogna aver paura di essere diversi. «Pensa che da piccolo io parlavo in via quasi esclusiva con un ragazzo sordomuto: mi hanno portato all’ospeda-le per fare dei controlli. Risultato: forse ero problematico, ma avevo anche un quoziente intellettivo superiore alla media». Il suo papà ha messo fine alla sua vita quando era giovane. «Già. Anche lui era problematico. Però molto buono. Io avevo sedici anni e mia sorella Roberta diciassette: un’età del cazzo perché quello è proprio il momento in cui la mamma smette di essere affascinante e scopri il papà. Come dice Luigi Zoja ne *M�HFTUP�EJ�&UUPSF, la mamma porta il fi-glio dentro di sé ma il papà lo butta nel mondo. Ecco, nostro papà è venuto a mancare proprio nel momento in cui serviva».

Stappa una lattina di Coca Cola. «Devo fumare una sigaretta. Andiamo fuo-ri». Usciti, Morgan confida: «Non ti nego una cosa: sono distrutto. Devo andare a casa, dormire, farmi una doccia. Vediamoci domani». Parto, dico, e poi abbia-mo quasi finito. Andiamo a casa tua. «No, no, no, non è presentabile. Domani. Oppure vengo io a Roma, da Massimo Ranieri con cui devo fare una trasmissio-ne: colgo l’occasione». Rientriamo. Morgan si dimentica di essere stanco. «Io sarò un po’ disordinato ma sono uno stakanovista, non seguo i ritmi comuni. Poi però magari vado in certi ambienti e non hanno uno straccio di idea». Cosa è successo a 9�'BDUPS? È stata una sorta di estromissione? «Hanno avuto paura della verità. Non sono una persona che indora le pillole e questo non piace. Pe-rò sono nel (VJOOFTT�EFJ�QSJNBUJ come il più grande vincitore di talent show al mondo. Ne ho vinti cinque su sette e gli artisti con cui ho vinto io sono gli unici che sono rimasti al di là del talent: Marco Mengoni, Noemi, Antonio Maggio, i Cluster. Il fatto che a me poi invece non interessi usare il canone del pop e pre-ferisca cose più complesse è una mia scelta. Lo faccio perché posso». Morgan viene dalla scena indipendente di gruppi come gli Afterhours o Verdena ma si è prestato alla tv generalista. «Andare in diretta tv è come fare jazz. Non è una cosa facile: io sono capace. Ho interpretato 9�'BDUPS come una condivisione di conoscenza ma non tutti amano spendersi, mettersi in gioco». Ma c’è un copio-ne? «No, non c’è: c’è un format. I tempi più belli infatti sono stati i primi con Si-mona Ventura e Mara Maionchi perché era un Far West». Si interrompe per chiedere un gelato: «Lo vuoi anche tu? Massì dai che sono gli ultimi, quando fa freddo non è che hai voglia di mangiare il gelato!». Eravamo a 9�'BDUPS. «Ecco, siccome non si sapeva bene come farlo l’abbiamo fatto come ci pareva. Oggi

ogni tanto uno mi veniva a dire: “bisogna fare così”. L’avevo fatto così io l’anno prima a istinto e adesso ecco che era diventata una regola, ma io alle regole non ci sto, le cose devono andare sempre avanti altrimenti si perde morden-te». Tra i grandi amici di Morgan da sempre c’è Battiato. «Una volta venne a trovarci a Montreux mentre stavamo incidendo ;FSP e passammo con lui due giorni meravigliosi in cui ci insegnò tantissimo. Io, poi, sono sempre alla ricer-ca di un padre. Ci portò a un ristorante mediorientale, ordinava in arabo. Noi però, non so come, siamo riusciti a portarlo da McDonald’s: non c’era mai sta-to. Gli abbiamo fatto assaggiare le patatine col ketchup. All’inizio era sospetto-so, prende la patatina la intinge nel ketchup: “Ragazzi, è buonissima! Che cosa mi sono perso!”». A proposito dei Bluvertigo: adesso rinascono, c’è un disco

nuovo previsto per febbraio. «Sì, perché oggi ha senso. Quello degli anni Novanta è stato un laboratorio di idee fantastico. Facevamo tutto: dal-la copertina al progetto luci. Ora che nella musica si respira un po’ di aria stantia è un sacrilegio buttare via quell’esperienza, una band è co-me una famiglia e ci si può ritrovare. I Bluvertigo sono miei fratelli, i miei simili: il prossimo disco si intitolerà 5VPOP���5POP �5FNQP �4VP�OP e sarà un caleidoscopio di idee, un’esplosione di combinazioni. Non vogliamo celebrare il passato ma fare una cosa che non c’è».

Al nostro tavolo arriva un tipo in tuta: «Tu chi sei? Ah sei Mor-gan. Adesso facciamo una foto», dice con tono minaccioso. Non ci mollerà più. Due cose colpiscono. Una: tutta Italia conosce Morgan ma lui sembra non rendersene conto. Vive in un mondo suo. Due: è un insieme di opposti. È al tempo stesso arguto e ingenuo, astuto e empireo, vicino e lontano, talentuoso e dissipatore. Paradossalmen-te non sembra fregargli assolutamente nulla né del denaro né della fama. Però sa come funziona. È “l’uomo che cadde sulla terra” di Da-vid Bowie e l’alieno Ziggy Stardust e c’è, naturalmente, anche un po’ di Kurt Cobain. Se ne va con lo skateboard quasi senza salutare. Un’ombra scura che si fa sempre più lontana, zigzagando nella notte.

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“Quando avevo due anni se mia mamma metteva su un disco io

smettevo di piangere”. A sedici la morte del padre: “Anche lui era

bello problematico. È venuto a mancare proprio nel momento in

cui sarebbe servito. Lo sto cercando ancora”. Poi la fama con i Blu-

vertigo, la tormentata storia con Asia Argento e infine la rinascita

e il successo con “X Factor”: “Andare in diretta tv è come fare jazz.

Non è facile: ma io sono capace. Se me ne sono andato è perché lì

dentro hanno paura della veri-

tà. E io non sono uno che indora

la pillola”. Oggi torna al primo

amore con un nuovo disco: “I Blu-

vertigo sono miei fratelli, i miei

simili, la mia famiglia”

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