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3.1.3/1 3.1.3. FRANCESCA DA RIMINI 51 Giorgio Barini, Riccardo Zandonai e la “Francesca da Rimini”, «Nuova Antologia» L/1037, 1.4.1915 - pp. 458-60 Pochi anni fa, nel 1908, trovandomi a Milano, lessi nei giornali la notizia che al Politeama Chiarella, a Torino, andava in scena un’opera nuovissima di un giovane sconosciuto, un trentino che aveva studiato nel Liceo musicale di Pesaro con Pietro Mascagni, e nel quale si avevano grandi speranze: l’opera era Il grillo del focolare, dal poetico racconto di Carlo Dickens; l’autore Riccardo Zandonai. L’impressione indimenticabile in me destata da quello spartito vivace, spigliato, elegantemente scritto, fu profonda: rare volte un esordiente si è presentato al pubblico tanto sicuro del fatto suo, dimostrando subito di possedere un temperamento così felicemente dotato, come apparve fin dal primo momento lo Zandonai. Vennero poi Conchita e Melenis, due nuove eloquenti dimostrazioni del valore non comune del giovane maestro: e, all’Augusteo, due opere sinfoniche gustose e caratteristiche, una Serenata medioevale ed un Poema sinfonico. Quest’anno, pure all’Augusteo, Riccardo Zandonai ha diretto una sua serie di impressioni sinfoniche dal titolo complessivo Primavera nella valle di Sole [sic]: ricordi della sua terra natale, visioni campestri, dolci alla memoria e al cuore e dolorose insieme perché non scindibili dal pensiero angoscioso delle tristi condizioni di quella terra tormentata. Alba triste, Primavera nel bosco, Il ruscello, L’eco, Sciame di farfalle sono i titoli delle cinque parti in cui è diviso il ciclo sinfonico: cinque quadri, cinque paesaggi ricchi di colore magistralmente, organicamente composti, freschi e luminosi. Quadri ho detto: la forza pittorica che in essi è racchiusa è ammirevole; Riccardo Zandonai possiede una tavolozza musicale inesauribile; la sua orchestra ha una stupenda varietà di tinte; la sua scrittura è sicura e scorrevole; il disegno nitido ed equilibrato. Pochi elementi tematici tra loro affini e spesso derivati l’uno dall’altro gli bastano per un discorso musicale sviluppatissimo. Nella facilità del comporre e nella molteplicità delle risorse armonistico-contrappuntistiche e strumentali si cela però qualche carattere negativo: premesso che il soggetto scelto e la forma con cui è attuato hanno un vizio d’origine consistente nel fatto che nei particolari e nell’insieme la ragione costantemente descrittiva esclude troppo risolutamente slanci passionali e momenti emotivi mantenendo in tutta la vasta composizione ciclica un certo carattere di impassibilità persistente che diffonde nell’uditorio un senso di freddezza; d’altra parte il compositore nel calore della elaborazione musicale si lascia vincere dal suo temperamento ed è portato dalla sua stessa meravigliosa abilità a dare al pezzo uno svolgimento organico, quasi perdendo di vista a un certo punto lo stesso movente del suo lavoro: così lo schema formale si sovrappone quasi meccanicamente alla vaghezza indefinita della visione: il tema, inquadrandosi, assume atteggiamenti alquanto forzati ed esagerati, giungendo per ragioni esterne di euritmia a sonorità non rispondenti al significato iniziale. In tal guisa alla esteriorità sostanziale si aggiunge la esteriorità formale: ed è evidente che la genialità dello Zandonai è davvero assai forte, visto che ciò non ostante egli è riuscito a scuotere e avvincere l’uditorio, che ha applaudito vivacemente queste impressioni sinfoniche colorite e fresche. Pochi giorni dopo al teatro Costanzi è andata in scena la più recente opera dello Zandonai, Francesca da Rimini, sulla tragedia di Gabriele d’Annunzio, che Tito Ricordi ha ridotto alle dimensioni volute per un libretto d’opera, sfrondandola da moltissime superfluità descrittive,

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3.1.3. FRANCESCA DA RIMINI

51 Giorgio Barini, Riccardo Zandonai e la “Francesca da Rimini”, «Nuova Antologia» L/1037, 1.4.1915 - pp. 458-60

Pochi anni fa, nel 1908, trovandomi a Milano, lessi nei giornali la notizia che al Politeama

Chiarella, a Torino, andava in scena un’opera nuovissima di un giovane sconosciuto, un trentino che aveva studiato nel Liceo musicale di Pesaro con Pietro Mascagni, e nel quale si avevano grandi speranze: l’opera era Il grillo del focolare, dal poetico racconto di Carlo Dickens; l’autore Riccardo Zandonai. L’impressione indimenticabile in me destata da quello spartito vivace, spigliato, elegantemente scritto, fu profonda: rare volte un esordiente si è presentato al pubblico tanto sicuro del fatto suo, dimostrando subito di possedere un temperamento così felicemente dotato, come apparve fin dal primo momento lo Zandonai. Vennero poi Conchita e Melenis, due nuove eloquenti dimostrazioni del valore non comune del giovane maestro: e, all’Augusteo, due opere sinfoniche gustose e caratteristiche, una Serenata medioevale ed un Poema sinfonico.

Quest’anno, pure all’Augusteo, Riccardo Zandonai ha diretto una sua serie di impressioni sinfoniche dal titolo complessivo Primavera nella valle di Sole [sic]: ricordi della sua terra natale, visioni campestri, dolci alla memoria e al cuore e dolorose insieme perché non scindibili dal pensiero angoscioso delle tristi condizioni di quella terra tormentata. Alba triste, Primavera nel bosco, Il ruscello, L’eco, Sciame di farfalle sono i titoli delle cinque parti in cui è diviso il ciclo sinfonico: cinque quadri, cinque paesaggi ricchi di colore magistralmente, organicamente composti, freschi e luminosi. Quadri ho detto: la forza pittorica che in essi è racchiusa è ammirevole; Riccardo Zandonai possiede una tavolozza musicale inesauribile; la sua orchestra ha una stupenda varietà di tinte; la sua scrittura è sicura e scorrevole; il disegno nitido ed equilibrato. Pochi elementi tematici tra loro affini e spesso derivati l’uno dall’altro gli bastano per un discorso musicale sviluppatissimo.

Nella facilità del comporre e nella molteplicità delle risorse armonistico-contrappuntistiche e strumentali si cela però qualche carattere negativo: premesso che il soggetto scelto e la forma con cui è attuato hanno un vizio d’origine consistente nel fatto che nei particolari e nell’insieme la ragione costantemente descrittiva esclude troppo risolutamente slanci passionali e momenti emotivi mantenendo in tutta la vasta composizione ciclica un certo carattere di impassibilità persistente che diffonde nell’uditorio un senso di freddezza; d’altra parte il compositore nel calore della elaborazione musicale si lascia vincere dal suo temperamento ed è portato dalla sua stessa meravigliosa abilità a dare al pezzo uno svolgimento organico, quasi perdendo di vista a un certo punto lo stesso movente del suo lavoro: così lo schema formale si sovrappone quasi meccanicamente alla vaghezza indefinita della visione: il tema, inquadrandosi, assume atteggiamenti alquanto forzati ed esagerati, giungendo per ragioni esterne di euritmia a sonorità non rispondenti al significato iniziale. In tal guisa alla esteriorità sostanziale si aggiunge la esteriorità formale: ed è evidente che la genialità dello Zandonai è davvero assai forte, visto che ciò non ostante egli è riuscito a scuotere e avvincere l’uditorio, che ha applaudito vivacemente queste impressioni sinfoniche colorite e fresche.

Pochi giorni dopo al teatro Costanzi è andata in scena la più recente opera dello Zandonai, Francesca da Rimini, sulla tragedia di Gabriele d’Annunzio, che Tito Ricordi ha ridotto alle dimensioni volute per un libretto d’opera, sfrondandola da moltissime superfluità descrittive,

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da molti tratti di colore non necessari allo sviluppo scenico-drammatico: sintetizzandola cioè e rendendola snella e sobria. Già fu scritto di questo spartito nella Nuova Antologia quando fu eseguito la prima volta al teatro Regio di Torino lo scorso anno: ora il pubblico di Roma ha accolto con feste grandi il nuovo lavoro del maestro trentino, che è apparso solido, brillante, armonioso e a tratti di ammirevole efficacia drammatica. Certamente il poema influisce sensibilmente sulla musica: per ciò il primo atto è nella prima parte tutto colori e armonie vivaci, senza molta profondità fino all’ultima scena, allorché cioè con Paolo giunge amore e porta seco un alito di vita vera; una più calda e fremente atmosfera invade la corte polentana; una nota di sentimento si leva al di sopra delle belle ornamentazioni e fa palpitare i cuori.

Nel secondo atto il fragore della battaglia predomina: gli episodi che vi si intrecciano ne restano ombrati, quasi offuscati: v’è un gridore affannoso, sapientemente organizzato perché nell’apparente furiosa incompostezza giunga a poderosi effetti di sonorità prepotente: gli effetti sono trovati, ma in tanti suoni non molta è la musica. Più musica è nel terzo atto: musica delicata e gentile che si accoppia alla canzone di calendimarzo cui presiedono le rondini... impagliate; musica affettuosa e talvolta ardente nella scena d’amore tra i due cognati: ma qui l’ombra di Dante ottiene il solito risultato smorzatore che fatalmente diminuisce tutte le Francesche e tutti i Paoli che da tempo immemorabile si aggirano sulle scene drammatiche e liriche: quell’amore che giunge dall’uno all’altro cuore attraverso un libro, e nel libro per interposta persona; che va dall’uno all’altro dei «duo cognati» non direttamente, ma riflesso dalle pagine distese sul tranquillo leggio, è eccessivamente letterario, e per ciò anche la musica che ne riproduce gli atteggiamenti sa di letteratura: per fortuna è buona letteratura, e nei suoni delicati si rivela un sentimento che ha in sé calore e forza espansiva sufficiente per avvincere l’uditorio, che dimentica allora gli episodietti (tutti letterari) intesi ad apportare colori e colori, senza che l’azione drammatica e psicologica se ne avvantaggino.

Eccoci al primo quadro del quarto atto: qui veramente la letteratura e i riempitivi scompaiono: la scena tra l’insidioso e perverso Malatestino e l’angosciata Francesca procede animosa e fiera, benché interrotta ad ogni momento dai lontani urli strazianti di Montagna de’ Parcitadi: qui passioni ardenti cozzano forte tra loro, e la musica ha impeti e accenti vigorosi. Ancor più animato e tragicamente scandito è ogni motto del dialogo tra Gian Ciotto e Malatestino: la gelosia feroce che tempestosamente dilania il cuore dello sposo tradito e la viperesca arte torturatrice del minor fratello scattano con fremebonda violenza, commentate superbamente dalla musica, tutta spezzature subitanee e scorci affannosamente vibranti. Qui il temperamento drammatico di Riccardo Zandonai si afferma in tutta la sua efficacia; ma il pubblico, malato di letteratura, preferisce l’amore librario e le rondinelle pellegrine e rimane esitante e freddo al termine della scena poderosa. La seconda parte dell’atto si dilunga ancora nel chiacchierio delle ancelle, nei ricordi del passato, nei ragionamenti sulla piccola statura di Biancofiore e altre divagazioni ornamentali; ma vien Paolo e con lui riappare il tema dell’amore, che è la più ampia e sentita frase melodica dello spartito, e vale a diffondere luci subitanee e calde nel grigio minaccioso che avvolge gli adulteri: e rapida piomba su loro la vendicatrice furia omicida di Gian Ciotto.

Inutile è ripetere quanto ho già accennato circa la maestria ammirabile di Riccardo Zandonai e le qualità e attitudini straordinarie che fanno di lui uno dei più forti musicisti italiani viventi: inutile rilevare qualche neo, messo in maggior rilievo dagli episodi riempitivi che ancora rimangono nel dramma non ostante i coraggiosi morsi delle forbici affilate: né poteva esser diversamente perché se si eliminava tutto il superfluo non si arrivava a serbar vivi due atti. Basti ricordare che con Francesca egli fa ancora un gran passo innanzi nell’arringo musicale drammatico: e questo suo procedere con passo sicuro alla conquista

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delle più alte cime dell’arte è nuova e valida conferma delle speranze che in lui si ripongono per un nuovo rifiorire del teatro lirico italiano.

NOTA. – La Francesca da Rimini ha avuto al teatro Costanzi una esecuzione eccellente sotto ogni aspetto, e nel complesso e in ogni particolare di attuazione. Protagonista ammirabile Rosa Raisa per voce pura e calda di bellissimo timbro, per accento efficacissimo, per azione espressiva; buon Paolo il tenore Pertile dalla voce estesa, solida, flessibile; ottimo Gian Ciotto il baritono Danise, eccellente cantante, attore coscienzioso; Malatestino eccezionale il tenore Nardi che impersona alla perfezione la torbida figura del giovine malvagio. Impetuoso Ostasio il basso Berardo Berardi dalla voce calda e robusta; delicata e finissima Samaritana la graziosa Olga Matteini; valente Smaragdi Flora Perini; abili e disinvolte le quattro ancelle di Francesca: Maria Verger, Maria Galeffi, Ines Serracchioli, Ida Manarini; ottime le altre parti, e l’orchestra e il coro. Ammirato l’allestimento scenico nella sua complicazione forse non assolutamente necessaria; ottimi i costumi e gli attrezzi.

52 Nicola Cilenti, La “Francesca da Rimini” di R. Zandonai, «La Vittoria», 11-12.3.1915 - p. 5, col. 1-2-3-4-5-6 (con foto di Zandonai, E. Vitale, R. Raisa, A. Pertile, G. Danise)

L’OPERA DI POESIA

La tragedia di Gabriele d’Annunzio ha quindici anni di vita. Rappresentata per la prima volta al Costanzi il 9 dicembre 1901, essa doveva tornarci, sulle stesse scene, iersera, nella nuova veste musicale creatagli dal maestro Zandonai, e nella quale ha trovato, a Torino come a Milano, a Londra come a Modena e a Pesaro, già quelle lietissime accoglienze che non s’ebbe al suo primo affacciarsi alla vita scenica.

La Francesca da Rimini tuttavia, pur contenendo in sé i difetti di esuberanza e quelli più specifici del teatro dannunziano, resta ancor oggi opera altissima di poesia, fra le meglio pensate ed espresse dall’autore delle Laudi e della Figlia di Jorio. Sappiamo con quale amore, con quanta vigile diligenza il poeta abbia frugato nello studio del costume, derivando la verità del senso storico e d’ambiente «dal padre Dante, dal Barberino, dai poeti bolognesi, dai cronisti, dai novellatori, dai miniatori, dai documenti più rari e più diversi». E sappiamo quanto a lui piacque la parola d’elogio del suo giudice più onesto e più dotto, Isidoro Del Lungo.

Alla Francesca dannunziana nocquero però la sua stessa vastità, la sua stessa ricchezza di particolari, la sua stessa paziente religiosità di ricerca, che la resero pletorica come opera di teatro, in un paese dove passano per autori fortunati di teatro Giannino Antona-Traversi, Alfredo Testoni, Domenico Tumiati, e dove un purchessia autore francese di pochades e di vaudevilles, a traverso la ditta di Dina Galli e Ci, può tenere innumerevoli sere il cartellone, mentre il pubblico oblia e diserta autori nostri forti e pensosi come Butti e Bracco.

La Francesca da Rimini ha inoltre un atto, il secondo, artificioso e convenzionale, che devia un po’ l’opera dal suo senso d’umanità e di verità. Ma anche nell’episodio della battaglia il poeta ebbe intera la visione del quadro scenico; e via, diciamolo forte, questa tragedia dannunziana non è solamente opera originale e magnifica di poesia, ma opera schietta di teatro, in cui le figure centrali di Paolo e di Francesca, di Gianciotto e di Malatestino son vigorosamente scolpite e vivono la loro vita reale, drammatica: d’amore e di passione, d’angoscia e di vendetta. E chi non senta ancor oggi la bellezza essenziale del primo, del terzo e del quarto atto della Francesca da Rimini è destinato per sempre ad esser cieco di fronte alle più pure espressioni d’arte.

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Riccardo Zandonai, affrontando la nobilissima fatica di musicare l’opera di Gabriele d’Annunzio, trovò in Tito Ricordi il riduttore felice e sapiente del libretto. Dei quattromila versi all’incirca in cui la tragedia si componeva non ne son rimasti nella sua riduzione che un mille e duecento; e se molti episodi lirici e scenici sono stati aboliti o limitati, il centro vivo dell’azione è rimasto integro.

I versi, le didascalie, le scene, se ben ridotte, non sono state toccate né offese. E il poeta vi parla ancora, col suo linguaggio inimitabile, ricco e armonioso.

Delle persone del dramma non ritroviamo più Bannino né il mercatante, il fanticello, il medico, l’astrologo, che formavan tanta parte episodica nel terzo atto. E così son spariti alcuni fra i partigiani di Guido Minore da Polenta e altri di quelli di Malatesta e qualcuna delle donne di Francesca.

Il primo atto si è quindi alleggerito di tutta la lunga scena di violenza fra Ostasio e Bannino; e la gente di contorno e di sfondo ai quadri scenici dice più brevi parole.

Il terzo atto, senza gli episodî del mercatante, dell’astrologo, ecc. corre più spedito. Anche la dolce, soavissima canzone di calendimaggio è stata abbreviata di qualche strofe.

Il quarto e quinto atto ne formano uno solo diviso in due quadri, poiché l’antico atto quarto finisce ora con la breve, drammaticissima scena tra Gianciotto e Malatestino, essendo stata completamente tagliata via quella ultima fra Paolo, Malatestino e Gianciotto. Ma, nella nuova veste, sarebbe desiderabile l’abolizione pressoché completa dell’inutile secondo atto (che nulla dice all’azione necessaria della tragedia, se se ne tolga l’episodio cruento di Malatestino) e una più vasta rappresentazione del quarto atto, ch’è appunto il più vivo d’azione, il più tragico, il più fosco. Riccardo Zandonai non ha invece voluto rinunziare agli effetti sonori della battaglia e al comento orchestrale del «màngano» poderoso.

Così come n’è risultato, il libretto della Francesca da Rimini è tuttavia agile, drammatico, liricissimo, atto ad ispirare veramente un’anima di musicista poeta. E Riccardo Zandonai ha senza dubbio, per questo lato, avuta più fortuna che non Pietro Mascagni con la Parisina, dove l’azione ristagna spesso in esuberanze verbali e pur dove molto invece il compositore avrebbe potuto tagliare e sorvolare se ingenuamente non avesse accettato il poema con dedizione assoluta.

Come Riccardo Zandonai è riuscito a dare un’anima musicale a Francesca da Rimini? Come e fin dove è egli riuscito ad aderire al poema tragico di Gabriele d’Annunzio?

LA MUSICA

Il successo che l’ultima opera dell’autore di Conchita e di Melenis ha ottenuto dovunque si sia rappresentata e le critiche e le cronache abbondanti che il successo determinò ci risparmiano ora una lunga analisi.Basterà dunque accennare, per la prima rappresentazione romana di iersera dello spartito di Zandonai, a qualche elemento specifico della musica dei quattro atti della tragedia e procedere poi sinteticamente a una conclusione generale dell’opera.

La scena del primo atto rappresenta una corte nelle case dei Polentani, che si ravviva subito del gaio cicaleccio delle Donne di Francesca intorno al Giullare. Ma la musica di tutta la prima metà di quest’atto procede senza interesse, tagliata via in fretta dal compositore sopra recitativi informi che non danno affatto il senso d’ambiente e non riescono a rappresentarci la vivacità scherzosa del dialogo. Il primo momento di interesse sorge alla canzone accennata su la viola, dal Giullare: «Or venuta che fue l’alba del giorno...» che s’interrompe con l’irosa minaccia di Ostasio; e le parole di costui sono comentate dal musicista con indubbia efficacia. Ma il dialogo seguente fra Ostasio e Ser Toldo ci riporta a un recitativo noioso e scolorito che dura fino alla scena seguente, dove il coro delle donne

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annuncia l’entrata di Francesca e di Samaritana. Da questo momento sino alla fine dell’atto Riccardo Zandonai ci appare veramente compenetrato nello spirito della tragedia, coloritore sapientissimo e ricco di gusto. E se il canto di cui egli ha inteso di rivestire la giovanile dolcezza di Samaritana, su note esageratamente acute, non ci convince e ci sembra anzi inadeguato al soave personaggio, la figura di amore e di passione di Francesca è data intera e non ci abbandonerà più. Il finale dell’atto è mirabilmente suggestivo. La scena s’è coperta un poco d’ombra. Le donne annunziano la presenza di Paolo che viene dalla parte del giardino, mentre i tre donzelli sulla loggia suonano e comentano così il carattere dolce e triste di tutta la scena. E Paolo entra, quasi immobile, dal cancello, adesso che il coro s’attenua sulle parole della canzone Per la terra di maggio... L’atto si chiude sulla scena quasi muta dell’offerta della rosa. Samaritana risale alle logge piangendo; certo, basta qui la sola bellezza del dramma, e la liricità del quadro, a suscitare la più grande commozione; ma il musicista ha saputo seguire e sentire, appunto, tutta la bellezza del momento scenico e adattarvi i suoi colori sottili con raro senso di aderenza. La melodia che in orchestra si sprigiona ad esprimere il fato d’amore e d’angoscia di Francesca e i motivi della canzone arcaicamente trovati sul violoncello e la viola sono perfettamente intonati ora a quel senso d’ambiente che sembrava prima smarrito o evitato. Il finale del primo atto è dunque, fra gli episodî musicali della Francesca, uno dei più felici e dei più indovinati.

Il secondo atto, com’era nella tragedia dannunziana il più manchevole, lo è anche dal lato musicale. Qualche àttimo di sincerità nel dialogo fra Paolo e Francesca non basta a coprire il vuoto desolante ond’è espresso. Si accoglie quasi con un senso di liberazione quindi la apparizione irata di Gianciotto, che risulta significativa e ben definita. Ma la scena seguente di Malatestino, che dovrebbe far fremere e metter brividi di drammaticità, non riesce a scuotere né ad avvincere. Riccardo Zandonai, se ha intesa la figura di Gianciotto, è passato accanto a Malatestino senza neppure sfiorarne il carattere e l’essenza drammatica. Non lo ha capito, non lo ha sentito affatto. Ed anche per ciò il secondo atto, che poteva avere in questo episodio un valore notevole di arte, si conclude com’era cominciato: in mezzo a un fragore assordante di legni, d’ottoni e di timpani che, insieme alle grida dei balestrieri e degli arcieri, vorrebbero significarci l’impeto e l’ardore della battaglia. La pagina orchestrale è indubbiamente scritta bene e le voci diffuse della folla sulla scena son trattate da un maestro sicuro dei suoi mezzi; ma tutto ciò non basta a farci mutare il giudizio generale sul secondo atto.

L’atto terzo è il migliore, il più ispirato dei quattro musicati da Riccardo Zandonai. È tutto pervaso di lirismo, ed è sempre contenuto in una linea purissima di melodia e di strumentale. Il compositore ha tratto in parte dai nostri settecentisti quel vago sapore arcaico di cui frequentemente si compiace quando affida la sua ispirazione in prevalenza agli archi: violini, viole, violoncelli con sapientissima combinazione dei clarini e dell’oboe, e quando ritma le cadenze in forma d’arpeggi sottili. Quest’atto ha due scene principali: quella delle donne echeggianti in ritmo di danza la bellissima Canzone alla Primavera e quella del bacio di Paolo e Francesca sul leggìo dov’è aperto il libro della Historia di Lancillotto del Lago. La canzone è cosa delicatissima, piena di stile, tutta compenetrata della ingenua freschezza dei musicalissimi versi di Gabriele d’Annunzio; e meriterebbero maggior rilievo di quello che s’ebbe ier sera.

Ma il momento di culminazione musicale, dove lo Zandonai aderisce perfettamente al testo e dimostra di vibrare a contatto delle anime della tragedia, è tutto il duetto d’amore di Paolo e Francesca, così acutamente preparato dallo stato d’animo della donna.

La frase di congedo di Francesca alle sue ancelle, Felice primavera!, smorza, in forma di perorazione, la scena precedente d’allegrezza canora e l’orchestra comenta

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appassionatamente l’episodio, finché una nuova frase dell’oboe annunzia la venuta di Paolo. Segue il colloquio d’amore che, ripeto, è la pagina più efficace e ispirata di tutta l’opera. Ma, si badi, la melodia neppur qui si conclude nei confini dell’aria o del motivo vero e proprio; fluisce invece libera e densa d’emozione dal fluir medesimo delle parole del poema, le contrassegna e le accompagna; le rivive pienamente. È qui la dimostrazione più chiara della capacità di Riccardo Zandonai ad esprimere la materia lirica, con una eleganza e una sincerità di gusto che pochi dei moderni hanno, in confronto di lui. Peccato che la scena meravigliosa del bacio trovi, verso la fine dell’atto, attenuata in un momento la purezza della sua linea: quando l’orchestra riempie la pausa con eccessiva ed irritante sonorità!

Nel quarto atto la materia drammatica incalza. Ma il musicista ci riappare stanco e scialbo. La scena infatti è qui tutta superata dal sarcasmo bieco e dalla ferocia tragica di Malatestino. Ma questi nemmeno ora riesce a caratterizzarsi, a specificarsi lucido e aguzzo come una spada, tal quale il poeta lo ha visto e significato. L’episodio del Montagna prigioniero non ci dà alcun guizzo di terrore; né, più tardi, in confronto dell’ira e della vendicativa collera di Gianciotto, Malatestino trova mai veramente un accento di verità e di forza: ché anzi talora la musica, credendo di renderlo ironico e sottilmente maligno, lo veste d’un innaturale colore dolciastro ed elegiaco.

Questa prima parte del quarto atto, se trova verso la fine qualche momento di forza e di vigor tragico, lo deve alla figura di Gianciotto che, come già dissi, è stata dal musicista compresa e quasi sempre rivelata. Ed eccoci all’ultima parte della tragedia, che s’apre sul sonno angoscioso di Francesca, mentre le donne parlano sommessamente vegliando nella sua camera. Il chiacchierio delle ancelle e il risveglio improvviso di Madonna non contengono nulla di notevole. Solo quando Francesca, avendo congedate Donella, Garsenda ed Altichiara, s’indugia con Biancofiore a parlar di Samaritana, la musica si rifà soave e tenera e nell’orchestra trema veramente qualche lacrima, dopo che il violoncello ha accennato il tema intorno alle parole: O Biancofiore, piccola tu sei! Ma il nuovo duetto fra Paolo e Francesca e l’amplesso ardente che precede la uccisione degli amanti non convincono pel modo onde il musicista ha voluto renderli. Si torna all’artifizioso, all’enfatico, all’insincero. Perché tutta quella sonorità di strumentale? Il compositore ha creduto forse di significare la potenza ultima del dramma, e non è riuscito invece che a un superficiale clamore d’ottoni e di timpani. Si capiva un pieno vibrante d’archi sulla meravigliosa scena d’amore; ma non il fragore esasperato, che ricorda forse il discepolo malaccorto di Pietro Mascagni. Tutto il resto dell’atto, quindi, e la finale vendetta dello Sciancato si perdono in questo fragore che può ottenere il suo effetto sul pubblico ma non s’eleva per nulla alla grandezza possente della tragedia.

Da questa rapida scorsa alla musica dei quattro atti della Francesca da Rimini possiamo conclusivamente stabilire che Riccardo Zandonai è riuscito assai meglio a ravvivare dell’opera sua le parti liriche anziché quelle drammatiche. Perciò la fine del primo e tutto il terzo atto rimangono affermazioni nobilissime d’un artista che merita comunque il diritto al consentimento del pubblico e della critica. E se il musicista non è stato altrettanto felice nella scelta dei mezzi al secondo e al quarto atto, bisogna tuttavia riconoscere che egli ha sbagliato ma non ha ceduto mai alle vecchie forme volgari, e veramente per lui superate, del melodramma italiano. Egli, questo giovane della nostra più seria e più colta e più attenta generazione, vale dunque ad indicarci una via nuova, poi che porta in sé i segni certi di una più chiara sensibilità e d’una più moderna elevazione delle forme dell’arte sua. Ché, s’egli si muove ancora nei limiti d’un sapiente ecclettismo, egli vuole pur manifestarlo con un raro talento e con una personale visione, scegliendo ed elaborando tra i vari elementi di coltura e di studio quelli che poi sa rivivere e trasformare a traverso il proprio temperamento. L’avere

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scelto intanto per soggetto della più recente fatica l’opera eccelsa di Gabriele D’Annunzio ed essere riuscito in gran parte a contenerla in sé e nella sua anima per riesprimerla musicalmente dimostra in Riccardo Zandonai l’assoluta potenzialità e la degna preparazione al compimento di altre così nobili fatiche d’arte, ma più totali e più organiche e più decisive.

L’INTERPRETAZIONE

La Francesca da Rimini è tale opera che non abbisogna solo di cantanti valorosi ma di artisti intelligentissimi, si attori efficaci. Il cantante infatti non si trova di fronte al solito libretto melodrammatico in cui le parole abbiano valore soltanto se riferite alla musica, oltre di che sarebbero trascurabili, ma deve qui invece sentire continuamente la bellezza della forma onde s’esprime il contenuto della tragedia e dar quindi la massima vita scenica alle vicende dell’azione. Diciamo subito che la prova fu ieri sera quasi completamente vinta dai bravissimi interpreti del Costanzi.

Rosa Raisa fu una Francesca perfetta. La sua voce bellissima, sicurissima di timbro e d’intonazione si contenne sempre in una linea di passionalità aderente al personaggio alto e difficile. La sua figura fisica, il suo intuito mirabile di attrice, tutto, del resto, concorse a che la Raisa esprimesse con la più chiara forma il dramma profondo dell’eroina dantesca. Nessuna esagerazione in lei, come nessun momento di assenza dalla visione totale del dramma. Fu soave e tenera, e angosciosa e fremente secondo lo richiedeva l’azione. Si vede, si sente ch’ella è innamorata della sua parte, che l’ha studiata con grande amore, con commossa anima, che l’ha accettata intera e intera le si è donata. E ciò è degno indubbiamente d’una grande artista. Chi, iersera, non s’è sentito penetrare il cuore alle parole di Francesca e Samaritana nel primo atto, Anima cara, piccola colomba; e a quelle del duetto del terzo atto, Paolo, datemi pace!, dette dalla Raisa con la più sincera emozione?

Ottimo Paolo apparve il tenore Aureliano Pèrtile. La sua parte, specialmente nel secondo e nel quarto atto, è aspra di difficoltà; ma il Pertile seppe superarla con onore. La sua voce ebbe momenti di grande efficacia nel magnifico declamato del terzo atto, Perché volete voi – ch’io rinnovi nel cuore la miseria – di mia vita?

Il baritono Giuseppe Danise, cara conoscenza del pubblico del Costanzi, era nelle vesti di Gianciotto. La parte di Giovanni lo Sciancato, così piena di rilievo sia dal lato teatrale che da quello musicale, trovò in questo artista una magnifica espressione. Sin da quando lo Sciancato appare nel secondo atto per la botola, tutto in arme, su la scala della Torre Mastra, il Danise dimostrò di possedere a pieno il violento e feroce personaggio. Egli disse con magnifico impeto la minaccia Per Dio, gente poltrona, razzaccia sgherra e fu efficacissimo nella breve serrata scena del quart’atto fra Gianciotto e Malatestino.

Il quale Malatestino, già sacrificato dalla musica di Zandonai, non trovò nel tenore Nardi l’interprete adeguato. Manca al Nardi la figura fisica di Malatestino, che dovrebbe vivere d’una vita ardentissima sulla scena. Iersera il più scolpito dei personaggi della Francesca dannunziana era irriconoscibile: senza corpo e senz’anima. Però, ripeto, la colpa non è tutta del Nardi che, se anche fosse riuscito a lavorar astutamente di scena, non poteva costruire una parte che il musicista non gli ha dato.

Un magnifico Ostasio fu invece il Berardi. La parte è breve e dura quanto metà del primo atto, ma è chiara, decisa, vigorosa. Il Berardi la espresse con la sua maschia voce e con l’intuito scenico che lo distingue. Giova poi notare che il valoroso basso si adattò a una parte scritta per baritono, per la sua viva deferenza al maestro Zandonai e alla Impresa. Ma il personaggio di Ostasio, mercé la sua validissima opera, non fece che guadagnarne.

Bene la Matteini nelle vesti di Samaritana, che presenta non lievi difficoltà di canto. E bene nelle loro parti secondarie la Perini (una Smaragdi, la schiava, assai dolce e piena di

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grazia), la Galeffi (Donella), la Verger (Altichiara), la Manarini (Garsenda), la Seracchioli (Biancofiore), il tenore Sabatano (Ser Toldo Berardengo) e il basso Gironi (il Giullare) e il Pastorelli e il Lanzi.

Le masse apparvero ben fuse e distrubuite; forse troppo numerose e affollate da non potersi agevolmente districare nella scena del secondo atto (sulla cima della torre malatestiana), che in ogni modo riuscì d’un effetto grandioso. Non molto armoniosa sembrò invece la danza delle donne di Francesca, nella canzone alla Primavera (terzo atto).

Ma i costumi, ma gli scenarii: una gioia acutissima per gli occhi. Le scene non possono essere più sapienti, intonate più perfettamente al senso d’ambiente. E gli effetti di luce, specie nell’episodio della battaglia, riuscitissimi.

Di tutto ciò l’Impresa del Costanzi, coadiuvata da Tito Ricordi, da Carlo Clausetti e dai suoi migliori elementi di coreografia, di scena, di macchinari, merita la più sincera, la più alta lode. Questo spettacolo è stato allestito con degnissimo senso d’arte, con profusione completa di mezzi; e non poteva dunque non ottenere il caldo successo di ammirazione del grande pubblico di Roma.

La Francesca di Riccardo Zandonai trovò il migliore dei suoi collaboratori nel maestro Edoardo Vitale, che la concertò con lungo e paziente studio, con sincerissimo amore; e la diresse iersera con tutta la sua anima di artista coscienzioso e valorosissimo. Edoardo Vitale riuscì a comunicare il suo sacro fuoco all’orchestra, che se ne compenetrò perfettamente, e ci diede un’esecuzione dell’opera veramente ammirevole per fusione e calore drammatico.

LA CRONACA DEL SUCCESSO

L’enorme folla convenuta in teatro si dimostrava, fin dall’inizio dello spettacolo, ansiosa e impaziente.

Ma non appena il maestri Vitale è comparso sul podio, il silenzio s’è fatto religioso, solo interrotto dalle proteste contro i soliti pervicaci ritardatarii.

Lo spettacolo è cominciato alle 8.30 precise. Tutto il primo atto è stato ascoltato con appassionata attenzione, che s’è alla fine, dopo la scena meravigliosa che lo conclude, mutata in consentimento unanime, spontaneo, pieno. Vi sono tre chiamate agli interpreti valorosissimi, poi altre due al maestro Vitale che appare insieme a Riccardo Zandonai, acclamato fervidamente; e ancora altre due chiamate in cui il musicista ritorna solo alla ribalta.

Nell’intervallo, che dura più di tre quarti d’ora per metter sù la magnifica scena del secondo atto, è notata la presenza, in un palco di secondo ordine, di Sua Eccellenza il presidente del consiglio on. Salandra, che si mostra sereno e attento. Ciò vale a determinare nella sala, fra le discussioni sulla Francesca, i più varii commenti di neutralisti e... interventisti. Ma in prevalenza si conclude con l’intuire che la situazione italiana si va... rischiarando.

Il secondo atto, com’era da prevedersi, non è stato accolto con lo stesso entusiasmo del primo. Tuttavia, poiché il finale prende, se non per la musica per la originalità del momento scenico, si hanno tre chiamate: una agli interpreti, una in cui Zandonai si presenta col maestro Vitale, e l’ultima in cui il musicista torna solo.

Il successo ha culminato grande e schietto al terzo atto. Il pubblico lo ha seguito e ne ha ammirata tutta l’intima bellezza.

La Raisa e il Pèrtile hanno d’altra parte dato il rilievo più felice al grande duetto di Paolo e Francesca. Non si poteva far meglio; non si poteva meglio esprimere per virtù di canto e d’arte scenica il bellissimo squarcio lirico. Il Pèrtile è stato salutato da un grande applauso a scena aperta, che s’è rinnovato caldissimo, per lui e per la Raisa, alla fine dell’atto. Si

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numerano dodici chiamate agli artisti, a Zandonai, al Vitale, che ha diretto con magnifico senso d’arte.

L’autore è costretto infine a presentarsi solo, fra deliranti acclamazioni. Il quarto atto, se attenua un po’ il successo magnifico del terzo, non toglie nulla al fervore

con cui generalmente la Francesca ha iersera trionfato. Alla fine della prima parte v’è stato un lungo applauso, e alla fine dell’opera altre cinque

chiamate complessive agli artisti, al Zandonai, al maestro Vitale. Il successo è dunque stato completo. Lo spettacolo è finito alle 12 e tre quarti.

53 Alberto Gasco, Francesca da Rimini di Zandonai al Teatro “Costanzi”, «La Tribuna», 12.3.1915 - p. 3, col. 3-4-5

C’è da tremare nell’imprendere a rivestir di note un poema drammatico di Gabriele

d’Annunzio. Si sa che canone fondamentale di ogni buon libretto d’opera è la chiarezza dell’eloquio, l’incisività del periodo, la sintesi del pensiero. Sotto questo triplice aspetto un lavoro teatrale del d’Annunzio sembra precisamente l’opposto di quel che deve essere un dramma per musica. Si sa infatti che il nostro massimo poeta vivente ama cesellare il verso adornandolo di parole peregrine, smaltandolo di aggettivi rari, e prodiga senza freni le immagini, le similitudini, i ricordi storici e mitologici, anche quando il dramma giunge al parossismo e la necessità stringe le anime eroiche. La sua poesia, carica di fiori e di orpelli, obbliga il musicista ad un lavoro minuto di analisi: non basta rendere l’idea, il sentimento, bisogna mettere in rilievo ad una ad una le parole se non si vuol essere infedeli al testo prezioso. E allora si corre il rischio di fare come Pietro Mascagni per «Parisina»: comporre cioè un’opera di valore artistico non dubbio ma di effetto teatrale incerto.

Il maestro Zandonai sarebbe forse annegato nel pelago letterario dannunziano se l’editore Ricordi, assumendo l’ufficio di collaboratore del poeta, non fosse sopraggiunto in tempo a salvarlo. Tito Ricordi non ha avuto soverchi (e dannosi) riguardi verso il testo della tragedia. Con un coraggio leonino ha tagliato via brani interi, episodi lunghi a base di narrazioni desunte dalle annose cronache, geniali divagazioni poetiche, scene di colore e di ambiente, diradando la selva fitta sino a farne un’oasi nella quale le persone, non più celate dalle troppe fronde, potessero apparire in tutta l’avvenenza loro, agili e pronte all’opera di amore e di morte.

Dalla opulenta e farraginosa «Francesca» di Gabriele d’Annunzio è stato così tratto un libretto di forza drammatica insueta e pur sempre dovizioso di bellezze poetiche. Non sarà facile allo Zandonai trovare un altro poema che possegga l’ideale armonia, la robustezza e la varietà di questo. Egli può ringraziare il sommo Iddio – e specialmente l’editore Ricordi – di aver potuto mettere le sue forze di operista a profitto di un’opera letteraria e teatrale di merito insigne. Il successo che la «Francesca da Rimini» ha ottenuto iersera sulle scene del “Costanzi” – successo non artificioso e duraturo – deve attribuirsi in parte assai ragguardevole alla tragedia. La musica del maestro trentino, applicata ad un libretto mediocre, non avrebbe potuto conquistare l’applauso clamoroso che ieri suonò giulivo dopo la conclusione di ogni atto.

Ad ogni modo, dalla «Conchita» e dalla «Melenis» alla «Francesca da Rimini» il cammino compiuto da Riccardo Zandonai ci sembra assai notevole. Il compositore si è accorto del danno derivante dal continuo frastagliamento del discorso musicale e ha cercato di introdurre nelle scene capitali della nuova opera periodi melodici di buon respiro. In tal guisa quel senso

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di pena che si avvertiva ascoltando tanti e tanti brani di «Conchita» e «Melenis», costituite da una pluralità di frammenti industriosamente collegati fra loro, è diminuito di assai. Il discorso asmatico permane soltanto in qualche scena dialogata che, appunto, riesce fredda e mediocremente espressiva all’audizione in teatro.

Fra tutti gli episodi della «Francesca» quello che si innalza ai vertici dell’ispirazione è l’arrivo di Paolo Malatesta nella casa dei signori di Ravenna. In questa scena – che chiude l’atto primo – lo Zandonai ha cantato liberamente e con una emozione genuina. Il momento è squisito. L’ansia che stringe il cuore di Francesca nell’ora nuziale si dilegua a un tratto e cede a un senso di voluttuoso abbandono quando il bellissimo Paolo appare, al di là della cancellata fra gli arbusti fioriti. Una “viola pomposa” – vetusto e disusato strumento che partecipa della “viola da gamba” e del violoncello, pur avendo una speciale risuonanza – inneggia a la sospirata felicità con una lunga melodia che freme di tenerezza. L’orchestra accompagna morbidamente il motivo senza adombrarlo: le donne della Ravennate, disposte in corona su la loggia, mormorano insinuanti: «Per la terra di maggio...» e il loro canto si disposa a quello della viola. Francesca coglie una rosa dall’arca scolpita e la porge a colui che ella crede il suo sposo... Quadro gentile e nuovo: festa d’amore e di poesia che la musica dello Zandonai colorisce d’incanto e che dà a chi guarda e ascolta una soddisfazione intera.

Lo Zandonai, con il suo accorgimento finissimo, ha saputo valutare in giusta misura la potenza espressiva della melodia scaturita dall’animo suo in un istante di estasi rara e non l’ha abbandonata. Così il motivo amoroso svolto nel finale del primo atto ricompare in ognuno degli atti successivi. Lo ritroviamo nella scena della battaglia quando i due cognati si scambiano le prime parole torbide, evocando il ricordo del loro incontro nel crepuscolo di maggio; lo riudiamo nella scena della dedizione di Francesca e poi ancora nell’ultimo duetto mentre Gianciotto è all’agguato. Si può dire che questa melodia rischiari magicamente tutta la vicenda d’amore: peccato che sia sola...

Se nella «Francesca da Rimini» ci fossero state soltanto tre o quattro idee melodiche altrettanto belle, l’opera avrebbe in sé una forza vitale sorprendente.

Invece (perché negare l’evidenza?) il materiale tematico della «Francesca da Rimini» non è cospicuo. Le scene iniziali del primo atto fluiscono rapide ma non avvincono perché la musica che [si] accompagna ad esse è povera di disegni originali. Nel secondo atto il fragore persistente non riesce a nascondere l’assenza quasi totale di temi vibranti e scultori quali il dramma richiederebbe. Nel terzo episodio, per gran ventura, lo Zandonai ritrova un soffio vivido di ispirazione e così la sua vittoria diventa sicura. Tutta la scena tra Francesca e le ancelle – che cantano e danzano nel giorno in cui la Primavera ritorna con il suo corteo di rondini – ha grazie leggiadre di melodia. Qui si respira a pieni polmoni: nell’aria è la frescura dell’Adriatico e il profumo delle prime viole. I musici intonano sui loro strumenti un ritornello incantevole: Biancofiore, Garseda [sic], Adonella e Altichiara ci regalano una “canzone a ballo” un po’ monotona ma piena di carezze. La scena è seducente, la musica spontanea. Dei tormentosi clamori di guerra appena resta in noi un ricordo ingrato...

Il terzo atto termina con la famosa lettura del libro e il conseguente bacio di Paolo a Francesca. Lo Zandonai ha sentito profondamente l’episodio e lo ha reso con una dignità degna della massima approvazione. Il progresso degli effetti, nello svolgersi della scena, è splendidamente ottenuto.

Si giunge per gradi alla erotica conclusione che solleva in orchestra un’ondata fragorosa, subito placata. Mentre Francesca, vinta, s’accascia, la musica si fa mite, suadente, perfida consigliera...

Non è possibile restare inerti dinnanzi alle vaghezze multiple della musica che avvolge questo terzo atto, nel quale la umana passione prorompe e Primavera esulta. E di fatti iersera,

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appena calato il velario, il pubblico con uno scatto sincero acclamò poderosamente il maestro e volle che egli si ripresentasse al proscenio sei o sette volte. Fu un successo schietto e giusto, al quale ognuno recò lietamente il proprio fervido contributo.

Il quarto atto, per converso, non ebbe un esito smagliante. La scena tra Malatestino e Francesca e quella tra i due fratelli interessarono grandemente per la vigoria superba dell’accento e il cupo colore orchestrale, ma per la scarsità di temi espressivi non consentirono un giudizio entusiastico. I vari momenti drammatici di questo atto sono più coloriti dall’orchestra che musicalmente tradotti. Il motivo di Gianciotto – motivo alquanto wagneriano ma disegnato fermamente – si trova a far da solo le spese di un lungo brano di musica e sopporta con fatica la dura bisogna. Tuttavia l’acerbo colloquio fra l’odioso Malatestino e il tradito Gianciotto lascia una impressione tragica indelebile per le appropriate sonorità strumentali [e] la incisività della declamazione. Il musicista, che ha saputo efficacemente commentare una tale scena, possiede indiscutibilmente le più belle qualità di compositore drammatico che si possano desiderare in un giovane operista.

L’ultimo episodio della tragedia, a nostro parere, mostra qualche segno di stanchezza. Il poetico motivo iniziale, soavemente susurrato a più riprese dall’orchestra, piace immensamente; non altrettanto può dirsi della lunghissima scena tra Francesca e Biancofiore e dell’angoscioso duetto degli adulteri cognati. Il vero calore comunicativo non c’è che nell’a due finale condotto sul già sfruttato motivo dell’incontro di Paolo e Francesca. E la susseguente catastrofe tragica scatena nella massa strumentale un’acre tempesta di suoni e nulla più.

Da quanto abbiamo scritto sin qui è facile concludere che la Francesca da Rimini di

Riccardo Zandonai deve essere giudicata come opera non perfetta ma sotto vari aspetti bella, fascinosa e significativa. Del resto anche là dove l’estro inventivo del compositore non dà frutti copiosi la bravura eccezionale del tecnico basta a tenere avvinta l’attenzione dell’ascoltatore.

Lo Zandonai conosce l’orchestra intimamente e ne usa da saggio signore. A citare uno ad uno gli episodi strumentali ammirevoli della nuova partitura si penerebbe non poco, tanto essi sono numerosi. Si può affermare che per quanto riguarda la veste orchestrale della Francesca da Rimini tutti iersera fossero concordi nel rilevarne la mirifica ricchezza e il buon gusto esimio.

Resta a vedere qual posto convenga assegnare all’opera dello Zandonai nella produzione contemporanea. Su questo punto non sarà facile mettere d’accordo i critici i quali, se bene ugualmente affetti dalla mania di classificare, hanno ciascuno per proprio conto un sistema di classificazione. E poi, in realtà, la tragedia lirica della quale andiamo discorrendo, pur senza avere una individualità piena, si distacca alquanto dalle solite forme del melodramma italiano contemporaneo. Si nota in essa una maggiore dignità di stile, una maggiore ricchezza sinfonica, oltre a un quasi totale abbandono delle viete formule retoriche...

Wagner fa di tanto in tanto capolino ma non spadroneggia: nel tessuto armonico e orchestrale si avverte l’influenza dei modernissimi maestri tedeschi e francesi, ma tale influenza non diventa mai tirannica. Così lo Zandonai riesce a mantenersi abbastanza indipendente e a conservare la fisionomia di musicista italiano, malgrado egli non si palesi come un vero e proprio innovatore. La «Francesca da Rimini», per chi ben veda, è l’opera egregia di un periodo di transizione. Melodica quanto basta per sedurre il pubblico, armoniosa senza ricercatezze peregrine, irrobustita ma non appesantita da una molteplicità di elementi sinfonici, essa ha un merito precipuo: quello di essere equilibrata ed euritmica. Nella

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«Francesca» tutto è dosato, calcolato con uno scrupolo meraviglioso del compositore, cauto e guardingo quanto altri mai.

Si può criticare unicamente la tendenza dello Zandonai a sforzare le voci dei cantanti sino all’ultimo limite, costringendoli a gridare, talora senza una plausibile ragione. V’è più di un passo che deve dar da pensare alla protagonista dell’opera, qualora essa non sia una cantatrice abile e resistente... Per fortuna iersera questa parte era affidata alla signorina Rosa Raisa, la quale seppe superare ogni ostacolo, ogni insidia, rivelandosi artista destinata a certa gloria.

La Raisa ha voce stupenda e cuore appassionato. Il suo canto è morbido, commovente, sicurissimo; la sua figurazione scenica è nobilmente espressiva e originale. Ella fu iersera una trionfatrice e il pubblico le diede attestati solenni del suo favore.

Il tenore Aureliano Pertile affrontò con successo la parte di “Paolo” e si fece largamente apprezzare per la chiarezza del timbro e la forza squillante della voce. Buono il Danise nella parte di “Giovanni lo sciancato”; valorose e soavissime le signore Olga Matteini e Flora Perini nelle rispettive parti di “Samaritana” e “Smaragdi”. Il basso Berardi fu un “Ostasio” robusto ed anche il Nardi (Malatestino) e il Gironi (giullare) meritarono lode.

Gli altri artisti – tra i quali ci piace rammentare Maria Verger, Maria Galeffi, Ines Serracchioli e Ida Manarini, le quattro ancelle di Francesca – cantarono efficacemente.

L’orchestra, diretta dal maestro Vitale in modo magistrale, ebbe a volta a volta la maschia violenza e la squisita dolcezza desiderate dal compositore. Il Vitale fu un amico ingegnoso ed un alacre collaboratore dello Zandonai: a buon diritto egli comparve al proscenio accanto al compositore, insistentemente evocato dal pubblico.

I cori furono impeccabili, l’allestimento scenico, oltremodo lussuoso, parve superiore ad ogni previsione. In complesso, si tratta di uno spettacolo di ordine elevatissimo, al quale tutta Roma accorrerà plaudente. È da sperare che la nostra cittadinanza non si lascerà sfuggire l’occasione di onorare Riccardo Zandonai, il forte musicista che rapidamente incede verso la fama lusinghiera, scortato dalla sorridente fortuna.

54 Alberto De Angelis, La “Francesca da Rimini” di R. Zandonai al Costanzi, «Il Tirso» XII/11, 14.3.1915 - p. 1, col. 1-2-3-4-5-6 (con foto di Zandonai, A. Pertile, G. Danise, F. Perini, O. Matteini, R. Raisa, B. Berardi)

Rileggendo prima della rappresentazione il libretto della Francesca tratto dalla tragedia di

Gabriele d’Annunzio, serrato, incisivo, drammaticissimo, io m’era domandato sgomento se era possibile che un compositore avesse potuto aggiungervi una maggiore musicalità, raggiungere un più alto lirismo, trarre da quel profondo scandaglio di anime un più evidente disegno di caratteri. Non era forse possibile – mi dissi poi, dopo aver ascoltato la partitura dello Zandonai, la quale ha pure ottenuto dal pubblico del Costanzi un’accoglienza entusiastica, in alcuni momenti trionfale. Successo ben meritato, se si pensi alla meravigliosa sapienza del giovanissimo musicista trentino, all’innato dono del senso degli effetti e delle esigenze teatrali che nessun altro giovane musicista italiano certamente possiede al pari di lui. – Ma una maggiore efficacia era però possibile raggiungere. Critici e pubblico, pur dimostrandosi lieti ed orgogliosi di una sì alta affermazione del valoroso musicista irredento, quasi unanimemente riconobbero essere i pregi dell’opera più nella forma che nella sostanza, più nella sensazione della dinamica esteriore dell’ambiente e dei personaggi che in quella intima spirituale, più nella descrizione che nella penetrazione, più nel colore che nel disegno.

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Sopratutto ammirarono dello Zandonai la ricchezza, la varietà, la spigliatezza dell’istrumentale, armonizzazione delle voci con l’orchestra di una costante eleganza.

Trovare nell’opera dell’Autore di Conchita pretesti per una critica alla sua struttura teatrale e ai suoi procedimenti tecnici sarebbe quindi se non impossibile assai difficile. La Francesca da Rimini è anzi un’opera che dà un senso di soddisfazione compiuta. Ma essa non riesce quasi mai a destare nello spettatore una commozione profonda, a trascinarlo a mezzo di un atto all’applauso entusiastico. Gli è che la musica segue la tragedia quasi sempre nella sua superficie, difficilmente la interpreta o la penetra; dirò di più: in alcuni punti la efficacia della poesia sorpassa quella della musica e pur ne è da questa svalutata.

Questo giudizio può riferirsi ad esempio alla scena del bacio alla fine del III atto, ed a quella della morte dei due amanti: scene culminanti della tragedia e che non trovarono interpretazione musicale adeguata. Non già che manchi adesione tra poesia e musica: la connessione è anzi fra di essi intimissima, ma è una intimità quasi esclusivamente di forma e di colore. Neppure vi serpeggia per entro una prepotente vena di ispirazione personale e di ideazione melodica la quale valga a sedurre di per sé stessa l’ascoltatore. Sarebbe arrischiato negare allo Zandonai una sua personalità musicale; ma sarebbe non meno facile non riconoscergliene una ben distinta. Ricca di tutti i procedimenti tecnici di cui la musica s’è accresciuta dalla metà del secolo scorso in poi, lo Zandonai sa estrarre da essa i più vaghi ed i più efficaci, sa trasformarli, plasmarli, assorbirli, imprimendo anche loro un suo proprio carattere. Né diverso metodo egli usa nelle manifestazioni delle sue ideazioni. Studioso profondo ma sopratutto dotato di una intelligentissima e rara facoltà di assimilazione, ad ogni scuola, ad ogni autore specialmente del periodo di tempo sopra detto egli si abbevera; e pure, sebbene qualche sua speciale predilezione per questo o per quel sommo autore possa talvolta a sprazzi apparire, mai di nessuno egli reca le particolari stigmate impresse, mai di nessuno ripete non dico le idee ma neppure lo stile. Eppure la sua originalità è scarsa; difficilmente egli offre all’ascoltatore impressioni di stupore per il carattere particolare di un’idea; al contrario questo quasi s’acquieta nella sua musica come nella compagnia di fidatissimi amici: la sua personalità, in quanto ispirazione, sembra se mai come l’estratto di disparate personalità e scuole d’arte accomunate in un crogiuolo e passate quindi in uno spesso filtro adoperato da un artefice onesto e scrupoloso ed espertissimo nella sua arte: non è musica di un’epoca.

Questi giudizi potranno sembrare un po’ duri, e potranno anche essere un poco esagerati – lo sono anzi come tutti quelli i quali tendono a incidere un’affermazione particolare – ma se anziché riferirli al brillantissimo successo di una serata essi sono attribuiti alla considerazione di un’opera in una epoca storica non sembreranno arrischiati, come non sono nelle intenzioni malevoli. Il difetto dello Zandonai è il difetto di quasi tutti i giovani d’oggidì, ricercatori in ogni campo dell’arte: nutriti di studi, tormentati dall’ansia del nuovo, essi raggiungono spesso una invidiabile perfezione tecnica ma non sempre fa in essi egualmente riscontro la ispirazione, o la ispirazione è soffocata dagli studi, dall’amor della novità, dall’attrazione di questo o di quel maestro. Essi daranno complessivamente al nostro tempo il carattere di un periodo di transizione, di preparazione dolorosa, di una ricerca paziente di stati di spirito, di una rinnovazione di forme. Preoccupazioni lodevolissime, le quali impedendo però talvolta all’animo di espandersi liberamente ostacolano la creazione di opere di bellezza assoluta o di secolare fama. Rallegriamoci nel constatare che lo Zandonai è in queste file fra i primi, fra i più valorosi.

Se egli – la sua grande giovinezza ne dà ragione a sperarlo – cercando più a fondo nel suo animo riuscirà a raggiungere le fonti più pure ed intime della sua sensibilità, noi potremo in lui annoverare uno dei più grandi musicisti dell’Italia moderna.

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L’esserci dilungati a considerare nel suo complesso la personalità di Riccardo Zandonai quale si manifesta nella Francesca ci impedisce di seguire l’opera nei suoi particolari.

La esecuzione avutasene al Costanzi è stata perfettissima per merito del M. Edoardo Vitale, il quale ha diretto la partitura con vero amore, e degli artisti, alcuni dei quali avevano già rappresentato la loro parte nelle precedenti esecuzioni dell’opera in altre città d’Italia. Conoscenza nuova per Roma era la signorina Rosa Raisa la quale interpretò la parte della protagonista e che, efficacissima nella scena, fece sfoggio di una voce morbida e gagliarda. Nella stessa interpretazione la Raisa aveva già riportato un successo memorabile al Teatro Comunale di Modena, tanto che lo Zandonai stesso volle suggerirla come la più degna interprete per il nostro massimo teatro. Il Danise, un rude Gianciotto, si conquistò la intera ammirazione dell’uditorio per la sua arte interpretativa, a cui aggiunse carattere la sua voce robusta; e piacquero senza riserve il tenore Aureliano Pertile (Paolo), un giovane che possiede delle superbe qualità di voce, prescelto anch’esso dal Maestro Zandonai per avere eseguito la stessa parte al Regio di Torino riportando un successo caloroso e significativo; il basso Berardi (Ostasio), attore correttissimo e cantante di grandi mezzi; il Nardi, un Malatestino sghignazzante e sinistro; il giullare – Gironi – e le signore Olga Matteini, una giovane che ha dimostrato possedere dei mezzi vocali eccellenti, e Flora Perini, simpaticamente nota al nostro pubblico, nelle rispettive parti di Samaritana e di Smaragdi. Anche bene le parti minori.

La mise-en-scène, curata dal Cav. Clausetti venuto espressamente da Milano, non avrebbe potuto essere più signorile e grandiosa. Ogni particolare fu minuziosamente curato.

Direttore d’orchestra ed artisti furono fatti segno alle più calorose dimostrazioni di ammirazione, ma naturalmente la mèsse maggiore degli applausi andò a Riccardo Zandonai, il trionfatore della serata, il quale, vivamente acclamato, comparve più volte alla ribalta a ringraziare con la sua simpatica aria serena e disinvolta, additando cordialmente al pubblico i suoi interpreti e facendo gesti come se egli, l’artefice principale di quel magnifico successo, non vi avesse contribuito e come a dire di non averne... colpa!

55 T[ommaso] Montefiore, Francesca da Rimini di Gabriele d’Annunzio e Riccardo Zandonai, «La Concordia», 12.3.1915 - p. 2, col. 3-4

Il tragico caso di Francesca dei Polenta ha spesso tormentato il desiderio dei compositori

musicali dopo che Silvio Pellico, destando largo sebbene brevissimo successo di popolarità, volle trasportarlo sulla scena. Le opere imbastite su quel soggetto sono infatti parecchie: se ne registrano una quindicina, fra cui talune dovute a maestri illustri come il Generali, che aprì la serie nel 1829, Mercadante, Cagnoni, Ambroise Thomas e Luigi Mancinelli. Nessuna di queste opere ebbe vita lunga e se ne imputò spesso la colpa alle difficoltà dell’argomento, giacché tutto l’interesse si concentra nella scena d’amore e di morte così da scemare l’importanza dell’azione foggiata per giungere fin là. Gabriele d’Annunzio, affrontando come drammaturgo l’arduo compito, seppe condurre la tragedia con abile artifizio, vi introdusse possenti elementi di emozione; più ancora, la circondò di un’atmosfera suggestiva e conquistatrice, in guisa che l’onda armoniosa della parola sembra quasi attendere il suono musicale per completare il fascino sottile e misterioso.

Per rendere adatta la tragedia alla veste musicale occorreva sfrondarla. L’operazione fu compiuta senza risparmio e spesso vi si scorge la voluttà del chirurgo che non bada a deformare qualche figura come ad esempio quella di Malatestino del quale il D’Annunzio ha

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cura di far conoscere l’animo perverso al primo presentarsi, o a mozzare qualche episodio di cui rimane troppo evidente la manchevolezza.

Per buona ventura la musica del Zandonai rende quasi invisibili tali difetti, in parte forse inevitabili date le vaste proporzioni della tragedia dannunziana. Innanzi tutto egli ne ha penetrata tutta la poesia; ha circonfuso l’ambiente di un colore soave, tenero, appassionato, per cui i due principali personaggi Paolo e Francesca effondono dintorno una seduzione irresistibile. L’onda sonora si sprigiona dall’orchestra fra mille trovate d’impasto spesso originali, avvolge il dramma e si fonde con esso per comporre opera d’arte di altissimo valore.

Il nostro pubblico che apprezzò l’ingegno promettentissimo del Zandonai in «Conchita» e in «Melenis» ora con «Francesca da Rimini» lo saluta trionfatore in linea prima fra i più acclamati compositori del teatro lirico nazionale. Sopratutto lo saluta con gioia maestro schiettamente italiano, non inquinato da infiltrazioni o da lusinghe straniere, quasi baluardo d’italianità fra le balze del suo Trentino. Il progresso della tecnica orchestrale, veramente prodigioso, non impedisce dunque alla voce di essere sovrana nel dramma in musica; la caratteristica fondamentale della nostra scuola non dovrà dunque sommergere nella evoluzione dell’arte: l’opera del Zandonai è di ciò nuovo inoppugnabile esempio e, non fosse che per questo, si impone come modello ai giovani dubbiosi. Infatti l’orchestra non è mai sopraffatrice: essa incornicia l’azione, la commenta; sostiene, accenta il canto vocale. Nondimeno la polifonia risulta sempre piena: fattore massimo del doppio risultato è l’impiego magistrale degli strumenti ad arco le cui risorse sono inesauribili.

La novissima opera del Zandonai, che giunge al Costanzi dopo i brillanti successi riportati prima, un anno fa, al Regio di Torino, poi a Modena, a Pesaro, e confermati clamorosamente iersera tra noi da un pubblico elettissimo ed imponente, è cosparso di bellezze d’ogni ordine.

Nell’atto primo in cui si svolge l’antefatto della tragedia è ammirevole la scena che l’apre, scoppiettante di gaiezza femminile; il dialogo fra Ostasio e Ser Poldo [sic], dove si ferma l’inganno teso a Francesca, va rilevato per l’opportunità di quella forma del “recitar cantando”, antica tradizione italica istaurata dagli stessi inventori dell’opera, per cui si afferra ogni parola scandita dall’attore-cantante. Dolcissima è l’affettuosità fraterna che si rivelano Francesca e Samaritana per il prossimo distacco. La sopravvenienza di Paolo, atteso dalla corte dei Polenta fra festosi concenti, dà luogo a un quadro musicale pieno di suggestione commovente. Già la fatalità si disegna nell’onda armoniosa tenerissima che avvolge i personaggi. Un applauso scrosciante dà la misura dell’effetto prodotto sugli astanti dalla magnifica introduzione.

L’atto secondo è un poco greve invece; l’affannosa descrizione della fervida battaglia offusca le grazie profuse nella scena tra Paolo e Francesca, dove va notata una purissima frase melodica che la signoreggia.

Il fragore e l’ansietà dei combattenti è schiacciante per la soverchia insistenza. Il terzo atto si offre come gemma preziosa: vago è il coretto delle donzelle salutanti il sole

di marzo e la loro danza leggiadra; la passione di Francesca è ritratta con angoscia penetrante; il duo di lei con Paolo contiene frasi vibranti da ricercare le intime fibre. Il maestro Zandonai è acclamato con entusiasmo e deve presentarsi più volte al proscenio coi collaboratori degnissimi di lui.

Nell’atto quarto scoppia il dramma con una robustezza che fa contrasto felicissimo coll’atto precedente. La scena tra Gianciotto e Malatestino è di una violenza selvaggia e si segnala come una delle migliori pagine della nobilissima partitura. Le fa seguito il riboccante fremito dell’ultima scena d’amore, dalle frasi calde e quasi disperate, poi la rapidissima catastrofe.

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Il Zandonai ha compiuto con la sua Francesca da Rimini un lavoro di grande bellezza e di grande sincerità, lavoro che sarà sempre più gustato nelle successive rappresentazioni. Il pubblico l’ha tuttavia interamente compreso manifestando il compiacimento con uno di quegli slanci che rendono pallida la solita claque importuna, per ventura quasi immota iersera. Fu insomma un successo pieno, ardente, un successo reale che onora l’artista e l’arte.

Per dire dell’esecuzione basterebbe una frase: fu all’altezza dell’opera. Il maestro Vitali [sic] riuscì interprete sommo; i cantanti superbi per mezzi vocali e per valore scenico. Raramente s’incontra un insieme simile e siamo lieti di constatarlo senza le restrizioni cui tanto spesso siamo costretti. Avemmo nella Raisa (Francesca) e nel tenore Pertile (Paolo) due interpreti veramente insuperabili; voci fresche, bene educate: due artisti misurati che cantano e non strillano mai. Il Pertile possiede poi una mezza voce deliziosa e riesce spesso incantevole.

Tutti gli altri ottimi nelle loro parti: il Danise (Gianciotto), il Nardi (Malatestino), il Berardi (Ostasio), la Verger, la Matteini colle donzelle del coro, il Gironi nella parte di Giullare.

L’orchestra filò alla perfezione. Le masse corali, l’allestimento scenico concorsero alla riuscita dello spettacolo eccezionale.

56 Enrico Boni, “Francesca da Rimini” del M. R. Zandonai, «Il Popolo romano», 11.3.1915 - p. 2, col. 3-4

Il libretto della nuova opera del m. Riccardo Zandonai non ha bisogno di essere

soverchiamente illustrato, ché a tutti è noto come codesta Francesca messa in musica dal maestro triestino [!] altro non è se non la Francesca dannunziana, alleggerita di una notevole quantità di versi e sfrondata di tutti gli episodi secondari che non avevano vincolo di necessità con la vicenda drammatica.

È sparito Bannino, scomparso l’astrologo; è stato soppresso quel mercatante che alla prima rappresentazione del poema sollevò le proteste del pubblico per la interminabile enumerazione di stoffe preziose, ed egualmente soppresse sono state le figure minori di partigiani di Guido e dei Malatesta.

La parte di Smaragdi, la schiava di Francesca, è stata ridotta ai minimi termini. Quanto a una delle ancelle, Alda, è stata licenziata.

Il libretto ha perduto magnifici versi e non poche sottigliezze. Sarà forse diventato più agile; ma il sacrifizio ha giovato solamente in parte, ché codesta Francesca, pur ridotta ad una psicologia sommaria, rimane tuttavia, considerata musicalmente, opera di dimensioni eccessivamente ampie.

Ora non si scrive più come il cuore detta ma secondo le formule più astruse della scienza fonica. E come gli autori, anche perché a corto di idee, tendono a farsi sempre più complicati, l’andare a teatro dopo una giornata di lavoro intenso al quale ci costringe la vita moderna e rimanervi per quattro o cinque ore per ascoltare musiche prevalentemente cerebrali finisce col diventare una fatica vera e propria.

Certo, il poema dannunziano aveva in sé elementi tali di bellezza da tentare un musicista; e Riccardo Zandonai, scegliendolo, fu più felice che nello scegliere un soggetto di antipatico verismo come Conchita o una banalità come Melenis.

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L’opera non costituisce una novità nel senso assoluto della parola, poiché dopo la prima rappresentazione al Regio di Torino ha già percorso vari teatri dell’Italia e dell’estero. Vediamo quindi brevemente quale sia stato il lavoro del musicista.

Francesca da Rimini non ha preludio. Pochi accordi di viola e il velario si apre sulla corte della casa dei Polentani.

La prima scena è formata dal gaio cinguettio delle donne motteggianti il giullare. L’arrivo di Ostasio con Ser Toldo è caratterizzato rudemente. Con l’uscita dei due la calma torna in orchestra, e il maestro si rivela coi suoi caratteristici tratti nel coretto delle donne, sorretto da un pedale di liuto.

La scena tra Francesca e Samaritana è improntata a una mestizia dolente. La musica tende ad assumere calore e spesso vi riesce. Il dialogo tra le due sorelle è interrotto dal coro che irrompe festosamente. Meno efficace è la ripresa del duetto, costruito su tessiture acutissime. E siamo alla parte più notevole dell’opera, il finale del primo atto.

Il tramonto accende di bagliori il giardino che si scorge al di là della corte. Dall’alto delle logge le donne di Francesca si sono aggruppate graziosamente. Un musico svolge sulla viola pomposa una larga frase suggestiva – che riapparirà nei momenti capitali della tragedia – , sostenuta da pizzicati del liuto e dal piffero. Paolo appare dal giardino e s’avanza. Francesca coglie per lui dal rosaio fiammeggiante ch’è nell’arca in mezzo alla corte una rosa vermiglia e che con gesto soavemente lento l’offre al sopravvenuto.

La carezza della frase della viola passa come un fremito nell’orchestra e conchiude mirabilmente l’atto – il migliore dell’opera – comunicandogli una impronta di arte severa e nobilmente espressa.

Azione e musica si fondono qui nella più perfetta resultanza, e il maestro raggiunge finalmente la commozione testimoniando ancora una volta della sua grande coltura e del suo buon gusto.

Il secondo atto ci porta in piena battaglia sulla torre dei Malatesta. Dopo un breve dialogo di Francesca con l’Armigero, s’inizia col sopraggiungere di Paolo

un lungo duetto che avrà più riprese. Specialmente notevole è la vibrante frase della donna: «Questo cimento è il giudizio di Dio

per la saetta» che sarà poi riudita a traverso il fragore del finale. Ben colorito è l’irrompere del coro degli uomini d’arme e assai ben caratterizzata la rude figura dello Sciancato.

La musica si fa tumultuosa con l’arrivo di Malatestino, e finalmente la rumorosità che a più riprese è apparsa in quest’atto si scatena nel modo più assordante, mentre la battaglia riprende con rinnovato furore.

Atto, codesto, piuttosto debole. Ché se lo strepito può impressionare un ascoltatore superficiale, non trarrà certo in inganno uno che abbia qualche dimestichezza con l’arte della musica. Qui ci troviamo appunto nello stesso caso del secondo atto di Melenis, in cui il frastuono non riesce a mascherare la esiguità del contenuto musicale. L’episodio finale della battaglia è condotto orchestralmente con grande perizia ma ha un valore musicale assai relativo.

Per contro, il terzo atto contiene pagine di indiscutibile bellezza, specie nella seconda metà.

Dopo la canzone a ballo, contenuta in forme bene appropriate, l’arrivo di Paolo è preparato con sapienza.

Il duetto s’inizia felicemente e subito si fa notare la frase di Francesca: «Paolo, datemi pace!», cui fa degnamente seguito il leggiadro movimento che fiorisce con le parole di Paolo: «Inghirlandata di violette m’appariste ieri».

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Il dialogo si svolge, nobilmente ispirato, con rari momenti di stanchezza, fino alla fine dell’atto, che rinnova la stessa commozione del primo episodio e pel quale non si possono avere che parole di elogio.

Nell’atto seguente il maestro non si mantiene alla stessa altezza. Il quarto quadro a malgrado di pregi orchestrali non risulta molto convincente. Il primo duetto tra Francesca e Malatestino interrotto dagli urli del prigioniero non ha grande evidenza, anche per la mancata figurazione musicale del tipo di Malatestino. Né molto persuasive appaiono le scene seguenti, a contrasti vivi di luci e d’ombre ma forse troppo inutilmente fragorose.

Meglio è l’ultima parte dell’atto che ci riconduce nella stanza di Francesca, e s’inizia con uno dei soliti procedimenti orchestrali cari al m. Zandonai.

L’atto culmina nel nuovo duetto d’amore tra Paolo e Francesca, che si snoda con ricchezza di colore ma non con altrettanta sincerità di calore.

Il finale, breve e tragico, è comentato da un nuovo scatenarsi di tutte le forze dell’orchestra.

Che cosa rappresenta codesta Francesca nella produzione artistica del m. Zandonai? Senza dubbio un passo notevolissimo, un indiscutibile progresso. Il m. Zandonai è musicista di bella sapienza tecnica, e questa magnifica padronanza orchestrale egli riafferma brillantemente. Basterebbe il primo atto della nuova opera, il modo dignitoso, bene appropriato col quale egli ha saputo rivestire musicalmente il quadro dannunziano per meritare al giovine maestro gli onori della vittoria.

Riccardo Zandonai, come abbiamo già accennato, si mostra anche qui con tutti i suoi caratteri essenziali: pregi e difetti.

Egli è sempre l’artefice esperto dei più svariati e audaci impasti, delle più strane sovrapposizioni polifoniche. Nella Francesca, come in Conchita, come in Melenis, ricorrono frequentemente le spezzettature in piccoli periodi, quegli speciali disegnini d’archi scanditi da pizzicati e avvivati qua e là da lievi tocchi di legni.

Ma qui più che altrove, a causa della maggior mole del lavoro, si delinea quello che è sempre stato il punto debole del m. Zandonai: la povertà delle idee melodiche; o meglio la povertà di idee melodiche efficaci e persuasive.

L’insolita rumorosità onde si riveste qua e là questa nova fatica d’arte del maestro non copre le manchevolezze melodiche dell’opera.

Il discorso si svolge con procedimenti preziosi, avvalorandosi di tutte le risorse di una tavolozza smagliante e di una capacità tecnica che non è comune; ma, ove si tolgano quegli episodi cui abbiamo accennato, questo discorso appare meglio adatto a suscitare il compiacimento nell’ascoltatore che a parlare alla sua anima.

Non è qui il caso di tornare sulla questione estetica da noi già altre volte trattata: se cioè in un’opera moderna debba la melodia palesarsi nelle forme tradizionali o debba meglio ricercare quei mezzi espressivi che più le convengono. E quindi, nel caso specifico del m. Zandonai, se egli dovesse esprimersi in un modo piuttosto che in un altro, tenuto anche conto del libretto che s’era accinto a musicare.

La questione di forma è per noi di secondaria importanza. L’opera d’arte deve dare una commozione, qualunque sia il mezzo adoperato dall’artista per conseguire questo fine essenziale.

Ciò che nella musica del m. Zandonai, ad onta di pregi veramente peregrini, troppo raramente avviene.

E allora, dinanzi a questo continuo affannarsi delle nostre più belle energie giovanili dietro delle forme d’arte meravigliose ma che possono considerarsi come tessuti smaglianti gittati a ricoprire vacuità di ossature troppo scheletriche, vien fatto a noi, che pur aneliamo con tutte le

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forze dell’anima a un rinnovamento artistico, di arrestarci sfiduciati e di chiederci se abbiano poi tutti i torti coloro che, riferendosi all’essenza divina della musica, preferiscono quella commossa sincerità di espressione, vanto tutto italiano, la quale per un fato malevolo sembra non possa riuscire ad accordarsi che imperfettamente con l’evoluzione delle forme musicali moderne.

57 A[driano] B[elli], Il successo della “Francesca da Rimini” di R. Zandonai al Teatro Costanzi, «Corriere d’Italia», 11.3.1915 - p. 3, col. 1-2-3-4

L’opera s’apre con un brevissimo brillante preludio in cui appare subito affidato ad una

viola dietro il velario il tema del giullare. La prima scena tra le quattro ancelle di Francesca e il Giullare procede rapida e spigliata sotto forma di cicaleccio che si svolge sopra rapidi ed eleganti ritmi di danza. È una pagina gaiamente spensierata che si segue con vero diletto e che mostra subito la mirabile mano di colorista nel suo autore. Nel dialogato, agli accenni dei personaggi principali della tragedia rispondono in orchestra come un presagio, cupi attraverso la garrula vivacità del cicaleccio, i temi dei protagonisti e delle situazioni salienti dell’opera. Attraverso la scena dialogata tra Ostasio e Messer Toldo in cui si rivela l’intrigo teso per il matrimonio di Gianciotto, si giunge all’arrivo di Francesca.

La pagina di delizioso sapore arcaico è formata di uno sfondo soave e squisito affidato al coro interno delle donne sul quale si muove e si svolge il dialogo tra Francesca e Samaritana.

Qui la melodia ispirata e nobilissima assurge a una dolcezza di espressione veramente toccante specie quando sulle parole «E si vivrà, oimè – si vivrà tuttavia!» le voci delle due donne si riuniscono e si fondono con effetto magnifico. L’avvicinarsi di Paolo e il suo sopraggiungere dà modo allo Zandonai di continuare nella sua ascesa con pagine sempre più forti e complesse. Il tema incisivo di Paolo affidato agli ottoni è quasi subito sopraffatto da un’onda travolgente di squisito e delizioso lirismo.

È l’ora della gioia mista a profonda commozione. Le ancelle inneggiano alla bellezza degli sposi, Francesca trepida si avanza verso Paolo per offrirgli una rosa, Samaritana singhiozza da un lato. Il quadro suggestivo è commentato da un mormorio leggerissimo dell’orchestra che sorregge la melodia affidata a tre istrumenti all’antica che sono in alto sulla balconata (una viola pomposa, un piffero e un liuto), mentre il coro delle donne mormora sommesso «A convito selvaggio – in contrada lontana – Uno cor si domanda...». Il pezzo si svolge soavissimo fino alle ultime note che si perdono come un sospiro. L’effetto è irresistibile. Quando si chiude il velario, il pubblico che ha seguito tutto l’atto con crescente ammirazione scoppia in un applauso calorosissimo che si muta in vera ovazione all’apparire dello Zandonai. Si hanno tre chiamate agli artisti e quattro all’autore.

L’impressione unanime è favorevolissima. Si nota il grande progresso fatto dal musicista, la nobiltà della forma, la ricchezza della sua tavolozza orchestrale. Il successo di questo primo atto è stato assolutamente trionfale.

Il secondo atto è in forte contrasto col primo. È l’atto della battaglia. Se il primo era tutta serenità, questo è come una violenta chiazza scarlatta sulla quale si muovono tutte le principali figure del dramma.

Alla scena realistica della battaglia in cui si palesa tutto il valore sinfonico del geniale maestro trentino si avvicendano episodi non privi di valore come il duetto tra Paolo e Francesca con la impressionante scena del giudizio di Dio, il sopraggiungere di Gianciotto e l’entrata di Malatestino sopra uno strano e insistente ritmo che caratterizzerà poi sempre

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durante tutta l’opera il tristo personaggio. Il quadro grandioso si chiude con una violenta ripresa della battaglia resa attraverso la sinfonia orchestrale, il coro su declamato libero, il suono delle buccine, gli urli delle donne, gli insistenti rintocchi delle campane in modo violento e veramente impressionante. Al chiudersi del velario lo Zandonai è chiamato tre volte.

L’atto, di grande ardimento, è stato affrontato dal giovane musicista con sicura coscienza di riuscita.

È stato costruito con una veduta di linea ampia e vigorosa. La prima volta appare però oscuro nei suoi procedimenti all’ascoltatore che rimane come abbagliato da una grande luce e stordito dal grande fragore dissonante; ma non esitiamo nell’affermare che questo atto dà la misura del valore di Riccardo Zandonai.

Il terzo è pervaso da una profonda melanconia e da un indefinibile senso di dolore. Le prime scene scorrono rapide col canto delle ancelle, con le frasi tristi di Smaragdi e i richiami di Francesca fino a giungere ad una delle pagine meglio riuscite del lavoro: la canzone della primavera, affidata a due soprani e due contralti e accompagnata da un’orchestrina all’antica posta sul coretto dei musici. La pagina è ispirata, fresca e di un indovinatissimo sapore arcaico, e propaga all’uditorio un grande senso di soave melanconia. L’episodio appare però un po’ troppo lungo ripetendosi integralmente due volte. Tagliare tutta la ripresa affidata ai contralti crediamo sarebbe di grande vantaggio alla scena. Il duetto finale tra Paolo e Francesca si svolge sopra frasi veramente ispirate. Qui il musicista si abbandona liberamente alla melodia, una melodia semplice, pura, italianissima. Non è un’onda melodica travolgente e impetuosa che s’imponga per larghezza di linee e che si alzi e si allarghi in un’imponente parabola: la melodia dello Zandonai è intima, tenera e appassionata con un irresistibile e sempre sicuro effetto di commozione. Le frasi «Paolo, datemi pace!» e «Inghirlandata di violette m’appariste ieri» sono di effetto irresistibile. L’atto però diminuisce d’interesse alla lettura del libro ove il dialogato non ha la forza di rimanere all’altezza delle pagine precedenti; ma riprende poi alla chiusa commentata con grande abilità e profonda poesia dall’orchestra e dalle voci in lontananza che ripetono «Primavera! Primavera!».

Al chiudersi del velario il pubblico prorompe in un applauso scrosciante, calorosissimo. Il maestro è evocato alla ribalta ben otto volte tra un’ovazione delirante. Il pubblico della platea è tutto in piedi inneggiando al musicista che ha vinto una grande battaglia. L’atto è giudicato il migliore di tutti. Il successo dell’opera è ormai assicurato.

Il quarto atto è diviso in due parti: la delazione di Malatestino e la morte di Paolo e Francesca. La prima è tutta di tinte fosche. Il dramma sta per scoppiare. Il duetto tra Francesca e Malatestino scorre rapido verso la scena principale dell’atto: la rivelazione di Malatestino a Gianciotto.

La situazione drammaticissima è resa ancora più potente dalla musica. Il dialogato tra i due fratelli è commentato dall’orchestra con effetto teatrale immancabile e il velario si chiude infatti tra applausi vivissimi.

La seconda parte ci trasporta nella camera di Francesca. Il primo duettino tra Francesca e Biancofiore, soave nell’espressione e squisito nella fattura, appare un po’ lungo.

La scena ultima tra Paolo e Francesca è piena di passione e di grande effetto, non solo per il valore della melodia ma anche per il pregio del commento orchestrale. Le voci prima disgiunte si avvicinano a poco a poco, si sovrappongono con disegni diversi per fondersi poi in un unisono grandioso e travolgente. L’entrata di Gianciotto è rapidissima e rapida la catastrofe. L’atto si chiude con quattro chiamate all’autore.

***

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Volendo far seguire all’analisi sommaria qualche impressione sul valore del nuovo lavoro, diremo anzitutto come con questa Francesca Riccardo Zandonai veda consacrata definitivamente la sua fama di operista. Fino ad ora ci era apparso quasi esclusivamente come sinfonista; con questa nuova opera ha mostrato di saper anche toccare la corda del sentimento e in alcune scene ha raggiunto infatti un irresistibile effetto di commozione. Il suo commento melodico è tutto intimo e personalissimo. La frase – come sopra accennavamo – è breve, ma incisiva e convincente. È una melodia plasmata sul dramma e sulla stessa parola, fino a raggiungere la più perfetta rispondenza. Il dramma dannunziano, meravigliosamente ridotto da un grande competente: Tito Ricordi, ha trovato nella musica dello Zandonai una veste quale migliore non avrebbe potuto desiderare. Lo Zandonai è un aristocratico dell’arte musicale; e nel suo lavoro infatti tutto è squisito e rifinito, tutto eletto ed elevato dalla forma melodica all’istrumentazione, dalla armonizzazione all’espressione di ogni minimo dettaglio. Riccardo Zandonai ha dal Grillo del focolare a questa Francesca, attraverso Conchita e Melenis compiuto un cammino veramente colossale. Il giovane musicista trentino, che salutammo con entusiasmo fin da Conchita, mostra di voler trovare una via propria e forse le è vicino. Egli procede da Wagner, da cui ha appreso la potente polifonia, e da Debussy alla cui smagliante tavolozza hanno attinto non pochi dei suoi colori; ma non volendo essere un imitatore ha saputo assimilare la virtù di quei grandi cercando di dare alla sua arte un’espressione nuova e tutta personale. Ha usato il leit-motiv, non alla maniera wagneriana ma solo per rievocare rapidamente e quasi istantaneamente un personaggio, un’idea, un motivo d’emozione; si è servito qua e là delle formule debussiane non per fare dell’impressionismo musicale ma per creare in certi determinati momenti una soavissima atmosfera armonica intorno ai suoi personaggi. Le formule di Wagner e di Debussy sono state italianizzate e riscaldate con una forma melodica veramente sentita e aristocraticissima.

Lo Zandonai è riuscito a scolpire in modo magnifico i suoi personaggi; ogni figura – meno forse quella di Paolo – ha i suoi mirabili e decisi contorni che non si perdono più in tutta l’opera; e così Francesca, Gianciotto, Malatestino e le donne balzano fuori musicalmente con un risalto stragrande. Ma (è strano!) di fronte a tutta questa perfezione di concezione e aristocrazia di forma si prova specie verso la fine dell’opera come un senso di stanchezza. È la forma del discorso melodico e della sua veste armonica poco varia e uniforme che genera il fenomeno; o è invece la tensione di fronte alle molteplici bellezze che si presentano una dopo l’altra rapide, sì che appena si giungono a percepire? Non sappiamo; certo è che ad un certo momento l’attenzione dell’uditore appare come satura e si genera un senso di stanchezza.

In ogni modo questa Francesca rimarrà come un documento prezioso non solo per qualità tecniche ma per nobiltà, per dignità, per elevatezza di concezione artistica. Le formule melodrammatiche di sicuro successo, i soliti effetti di immancabile riuscita sulle masse sono stati nobilmente aboliti dallo Zandonai il quale ha evitato ogni accenno a volgarità, e là dove il libretto glie lo consentì ha trovato anche accenti appassionati ed espressivi.

Francesca non è ancora l’opera perfetta, qualcosa le manca; ma non ci fa velo la ammirazione per la squisita opera d’arte e per l’ingegno fervido del suo autore nello affermare che da Riccardo Zandonai l’arte italiana può a buon diritto attendere il capolavoro.

*** L’esecuzione è apparsa sotto ogni rapporto pregevole. Protagonista era Rosa Raisa che è

stata per tutti una vera rivelazione. Questa giovanissima artista possiede una voce calda, intonata, che sale con facilità agli acuti e che sa modularsi con metodo mirabile a tutte le esigenze della parte. Ma quando la scuola è ottima la riuscita è sempre sicura, e la Raisa è allieva della celebre Barbara Marchisio! Scenicamente compose con bella linea la figura di “Francesca” e riuscì così nelle dolci e soavi scene del primo atto, come in quelle di sgomento,

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di dolore, di passione e di disperazione del resto dell’opera sempre efficace e seppe farsi ammirare ed applaudire dall’imponente ed esigentissimo uditorio di ieri sera. La sua è stata un’affermazione artistica che le aprirà la via per una carriera brillantissima.

Nella parte di “Paolo” si affermò un artista anch’esso nuovo per Roma: Aureliano Pertile, che disse tutta la sua parte con bella voce e con giusta espressione facendosi meritatamente applaudire.

Il baritono Giuseppe Danise diede per voce robusta e per vigoria di slancio un ottimo risalto alla parte di “Gianciotto”, e così anche efficacissimo si mostrò Luigi Nardi in quella molto difficile vocalmente e scenicamente di “Malatestino”. Il basso Berardi (Astasio) [sic] in una parte baritonale mostrò come sempre di essere artista coscienzioso e dotato di voce bella e poderosa. Ottime le altre parti minori, la Matteini (Samaritana), la Seracchioli (Biancofiore); la Manarini (Garsenda), la Verger (Altichiara), la Galeffi (Donella), la Perini (la schiava), e così Sabatano (Ser Toldo), Gironi (il Giullare), Pastorelli (il Balestriere) e Lanzi (il Torrigiano).

Edoardo Vitale ha concertato l’opera con grande coscienza artistica, con impegno e con vero entusiasmo riuscendo a dare grande ed efficace risalto a tutte le finezze armoniche e strumentali che costituiscono uno dei grandi pregi del lavoro. Ottimi i cori istruiti dal maestro Nepoti.

Riuscitissime le scene dello Stroppa e di bellissimo effetto il movimento delle masse, specie al secondo atto; merito questo di Carlo Clausetti che ha curato con grande competenza e con energia inesauribile la messa in scena.

[...]

58 T. O. Cesardi, Francesca da Rimini al “Costanzi”, «La Vita», 11-12.3.1915 - p. 3, col. 1-2-3

Bisogna risalire, io credo, nei fasti del Costanzi a venticinque anni addietro, alla prima

rappresentazione di Cavalleria rusticana, per trovare un termine di confronto al successo unanime, sincero, profondo di quest’opera di Riccardo Zandonai.

Sì, unanime, perché tutto il pubblico è stato avvinto, preso, dominato dall’alta poesia del dramma musicale, e trasportato come in un’atmosfera di sogno e d’ideali: sincero perché l’applauso prorompente veniva da ogni ordine di palchi, da ogni ordine di cittadini, da tutto insieme un pubblico commosso e maravigliato, e profondo altresì perché l’impressione che ognuno ha risentito da questa nobile manifestazione d’arte è di quelle che non si cancellano perché segnano un solco nell’anima.

L’opera ha già avuto altri pubblici che l’hanno esaltata e la critica ha già lietamente constatato il passo gigantesco fatto dall’autore di Conchita, quantunque a far passi di tali proporzioni le sue gambe non appaiano ciclopiche.

Il maestro Zandonai con questa sua Francesca da Rimini è ormai entrato in prima linea nella scarsa pattuglia dei nostri maggiori che o sembrano stanchi o deviano come vinti da incertezze fastidiose o da affannose e disfortunate ricerche. La sua forte giovinezza lo difende da questi pericoli che avvertono i primi segni dell’esaurimento e forse del decadimento.

La sua arte è vibrante, appassionata, la sua musica è sopratutto onesta e sincera. Impresa ardua quant’altre mai tradurre e comentare le mille imagini del poema

dannunziano, rendere la multiforme figurazione del suo pensiero: ma poiché il dramma è tutto nell’anima di Paolo e di Francesca, i due atti più intensi di commozione e di sentimento musicale sono senza dubbio il primo ed il terzo. L’attesa per l’arrivo di Paolo

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vestito d’una veste che si chiama frode nel dolce mondo

e il ritorno dell’amato con la prima rondine sono le due soste profonde dell’amore che nasce, che si rafferma e che finirà con la morte come quello di Tristano per Isolda sua.

E in questi due atti la musica dello Zandonai è così profondamente espressiva, ha una così viva ed immediata significazione umana, da aggiungere nuova magnificenza alla poesia di Gabriele d’Annunzio. Il secondo atto invece è una chiazza di colore, uno squillo di battaglia, un episodio d’ambiente. Ma quale ricchezza di tavolozza! Che barbaglio di colori, che freschezza di tinte, che vivacità di contrasti!

Perché lo Zandonai, oltre ad avere pensiero eletto, è un musicista profondo, grandissimo signore dell’orchestra da cui trae polifonie maravigliose con instancabile opulenza. Ben potrebbe di lui ripetere il Carducci che «mille anime infonde ai sonanti metalli». E l’orchestrazione è un po’ come la moda dei vestiti: il pensiero è di tutti i tempi, essa invece invecchia e tradisce [l’]età implacabilmente. Lo Zandonai, senza le astruserie dello Struss [sic], senza le ricercatezze del De Bussy, senza pedissequi servilismi a Riccardo Wagner, è di una squisita modernità unicamente perché sa riuscire nuovo, inattesamente, imprevedutamente nuovo.

*** Ma non è alle tre di notte che posso cominciare a riordinare le mie modeste impressioni

critiche: scrivo soltanto, e di fretta, note di cronaca sulla serata lieta e festosa, una di quelle serate come raramente accadono in teatro, quando una corrente immediata si stabilisce fra palcoscenico e uditorio, e allo spettacolo presiede un buon genio tutelare.

Una interprete eccezionale è stata la signorina Rosa Raisa, magnifico temperamento lirico e superba figurazione della mesta eroina dantesca. Ella ha cantato tutta la sua difficile parte con la nobiltà di linee e di stile di una grandissima artista, mentre ha dato alla interpretazione drammatica tutta la eccellenza della sua figura, l’ampiezza del gesto, la squisitezza del sentimento. Vero e ammirabile soprano drammatico, la signorina Raisa è anche un attrice di altissima classe, di quelle che nobilitano ed elevano un personaggio. L’impressione da lei destata è stata profonda, e l’ammirazione suscitata si è tosto tradotta in fervido entusiasmo.

Valoroso compagno le è stato il Pertile, un tenore dalla voce nervosa, che egli sa spendere con arte finissima, ottenendo effetti di forza ed insieme di dolcezza veramente deliziosi. Ebbe applausi a scena aperta nel grande duetto del terzo atto e divise colla bellissima Francesca gli onori del trionfo.

Di tutti gli altri interpreti non posso dire che bene. Occorrerebbe tutto il libro delle laudi del buon Gabriele... che nessuno ancora ha messo in musica.

Il Danise ha cantato con potenza e con grande carattere la parte di Gianciotto e il Nardi è stato un magnifico Malatestino dall’Occhio, così come il bravo Berardi ha saputo dare il più grande rilievo alla parte di Ostasio.

Fresche e chiare e dolci le voci delle donne di Francesca, tra le quali per gentilezza squisita cantava la Verger, così come la devota Smaragdi era impersonata dalla valente ed elegante Perini.

Non mi è possibile ricordare tutti – ma tutti hanno fatto egregiamente il loro dovere, dal giullare (il buon Cironi [sic] che è un fedele del Costanzi) all’ultimo corista, all’ultima comparsa.

Il maestro Vitale ha trasfuso tutto il fuoco dell’autore alla sua eccellente orchestra ed ha veramente meritato le feste che il pubblico gli ha largamente tributate.

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L’allestimento scenico sontuoso e ogni più minuta cura d’ogni più minuscolo particolare tradiva la diligenza grande, lo studio grandissimo e l’amore infinito che Emma Carelli ha dato a questo magnifico spettacolo.

Chi ha potuto numerare le chiamate all’autore? E a che vale la statistica di fronte a una sola parola che è la più lieta constatazione del risultato conseguito ed è insieme augurio amorevole e presagio sicuro di altre nobili e ugualmente fortunate battaglie?

Quella parola si chiama trionfo – e, per una volta tanto, risponde a schietta verità.

59 f[ranco] rain[eri], Il grande successo della Francesca da Rimini di Gabriele d’Annunzio e Riccardo Zandonai al Teatro Costanzi, «Il Piccolo», 11-12.3.1915 - p. 3, col. 2-3-4-5 (con foto di Zandonai; foto di E. Vitale; disegno grande di R. Raisa in mezzo alla pagina e in basso medaglioni-caricatura di C. Clausetti e di G. Danise)

I più vecchi frequentatori del Costanzi hanno dovuto far appello ai loro ricordi più lieti e

più annosi per ritrovare un successo degno di star al paragone con quello che ha raccolto iersera la Francesca da Rimini di Zandonai. Successo grande, pieno, completo, entusiastico nel quale la nota caratteristica si deve dire sia consistita nella assoluta unanimità dei consensi. E sì che gli applausi, alla fine di ogni atto, erano così prolungati da dar tempo ai meno persuasi di titubar nella fede...

Fede la quale accoglieva in sintesi il parere e il sentimento – cervello e anima – di tutti gli spettatori adunati in folla nella sala sfolgorante di luci e di bellezza: assistere finalmente, e contribuire, al trionfo di un’opera italiana. Così, senza aggettivi: ché guasterebbero la purità e la semplicità della gioia iersera provata e trasparente da tutti i volti, oltre che lietamente espressa nel rapido e fitto scambio d’impressioni, consueto ad una prima rappresentazione.

Si pensava in fondo, iersera, che il teatro sarebbe dopotutto una gran bella cosa se l’orizzonte del palcoscenico e della platea – cui l’arcoscenico dovrebbe servire da... arcobaleno – non fosse invece così di sovente coperto di nuvole minacciose...

Dunque serata solenne e solennemente trionfale. La cronaca, quella ch’è ricercata quando si riduce ad una semplice espressione aritmetica, segna un numero... imprecisabile di chiamate: saranno state, in complesso, trenta o più? Certo è che il nostro pubblico, prima soddisfatto poi convinto poi commosso, si è abbandonato a manifestazioni tali da farlo rassomigliare – almeno se le cronache transoceaniche non mentono – ad un pubblico americano!

Per essere esatti soggiungiamo che il momento culminante del successo fu dopo il terzo atto; il primo ebbe pure molte chiamate per gl’interpreti, per il maestro Vitale, per Zandonai.

Vennero poi, per ordine di suffragi crescenti, il quarto atto nelle sue due parti e il secondo, del quale peraltro si apprezzava altamente la poderosa struttura sinfonica e l’efficace e vivace evidenza del quadro scenico.

Ma parlando del magnifico successo con una certa commozione, quale è data anche dalla rarità del fatto da tempo in qua e dalla compiacenza per la nuova e questa volta clamorosa vittoria del più forte dei giovani compositori nostri, non si può esimersi – come accade appunto a chi... è commosso – dal rivolgere subito un pensiero alle persone che hanno contribuito ad ottenere quel successo e a darci il raro godimento artistico e spirituale che l’ha accompagnato e l’ha seguìto.

E ricordiamo anzi tutto Vitale. Ecco un direttore, già per tante ragioni stimato ed amato dal pubblico romano, che iersera – se fosse lecito dir così a chi della carriera artistica ha già

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percorsa tutta la florida via – ha ancora fatto un passo innanzi: l’esecuzione impeccabile, diremo meglio l’interpretazione vivida, colorita, smagliante, efficacissima di Francesca da Rimini si deve per la massima e miglior parte a lui, e costituisce davvero un titolo di merito insigne per un artista l’aver saputo condurre con così splendido risultato al conspetto del pubblico giudicante un’opera, una partitura complessa, spesso ardua nelle intime significazioni, sempre richiedente una cura minuziosa e intelligente in particolari, che la maggior parte delle volte accolgono delicate e sottili intenzioni artistiche, preziose per l’effetto dell’insieme.

Di siffatti meriti si accorse del resto prima d’ogni altro il pubblico, che volle largamente, affettuosamente rimunerare l’illustre direttore chiamandolo un’infinità di volte al proscenio e tributandogli grandi feste.

Non vogliamo, dopo Vitale, graduare il conferimento dei premi e dei castighi (castighi per verità non ve ne possono essere...); ma tuttavia ci sembrerebbe di peccare contro un elementare senso di giustizia non rilevando subito che la signorina Rosa Raisa e il tenore Pertile furono entrambi protagonisti eccellenti della vittoriosa opera, veramente all’altezza di essa e della solenne circostanza. Erano, l’una e l’altro, sconosciuti al pubblico nostro. Non si potrebbe davvero farsi conoscere meglio di così. La Raisa, che ha una voce bellissima, dolce e forte, vellutata e squillante, fresca ed estesa, intonatissima, la adopera con arte consumata, mirabile tanto più in una cantante giovane com’ella è; e per giunta dimostrò iersera d’aver inteso il personaggio dell’eroina dantesca componendolo in una nobile linea d’interpretazione. Il Pertile è stato anch’egli una rivelazione graditissima, poiché canta con maestria e fraseggia con vigore d’intenzioni e con splendida chiarezza: si ebbe – ricordiamolo a cagion d’onore – un bell’applauso a scena aperta durante la scena d’amore del terzo atto.

Ottimo a fianco dei protagonisti apparve il Danise nella parte importantissima di Gianciotto, ch’ebbe in lui specialmente magnifico rilievo vocale; dopo la prima parte dell’ultimo atto gli spettò col Nardi – Malatestino, buon cantante e coscienzioso artista – un particolare tributo di applausi.

Assai apprezzate anche la Flora Perini nella parte della schiava Smaragdi, la Matteini (Samaritana) e le quattro donne di Francesca; e poi il bravo basso Berardi (Ostasio) e il Gironi (Giullare).

Bisogna infine lodare senza riserve il coro, egregiamente istruito dal maestro Nepoti, e l’orchestrina di strumenti antichi che suonava sul palcoscenico, nonché l’orchestra più vera e maggiore. Assai decorosi parvero gli scenari e assai belli i costumi: il tutto, parte artistica e parte scenica, fatica particolare del cav. Clausetti, il ben noto animatore e... tutore di spettacoli.

Ma... non si può terminare in buona coscienza un resoconto, sia pure affrettato, della serata di ieri senza avere assolto il dovere di dire esplicitamente una parola di lode – ciò che non siam soliti di fare – all’Impresa. La quale ha il merito d’aver voluto e saputo condurre alla scena, durante una stagione che si svolge in circostanze difficili ed anormali come questa, e con grande decoro artistico, uno spettacolo di grande importanza artistica come questa Francesca.

Non solo, ma ha il merito d’aver creduto nel talento e nella fortuna di Zandonai ai tempi men felici e men leggiadri per lui e per le opere sue, le quali, pur ricche di pregi, non costituivano certo allora una cospicua risorsa per la cassetta.

È venuta ora Francesca, e il pubblico si propone di far larga ammenda della sua apatia. Farà benissimo.

[...]

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Franco Raineri, Il grande successo di Francesca da Rimini di d’Annunzio e Zandonai, al Costanzi, «Il Giornale d’Italia», 12.3.1915 - p. 3, col. 3-4-5-6/p. 4, col. 1-2 (con foto di R. Zandonai, E. Vitale, R. Raisa)

Mentre – calato il sipario su la duplice vendetta di Gianciotto – la bufera infernal che mai

non resta menava già con la sua rapina gli spiriti danteschi di Paolo e Francesca, la gran folla magnifica s’avviava alle uscite recando nel cuore e nella mente, per la prima volta dopo tanto tempo, una persuasione confortante e concorde: quella d’aver ascoltata una nuova opera italiana bella e commovente, d’essersi infine trovata di fronte un musicista giovane e geniale, cui la Provvidenza – e sia lode a Lei, per l’arte e per noi – ha voluto largire, oltre la sapienza, la scintilla.

E davvero che, per chi pretenda i critici di mestiere sempre in contrasto nel giudizio con la maggioranza del pubblico, questa volta il resoconto suscita un atroce disinganno. Perché mai forse così come oggi la critica spassionata deve procedere d’accordo con la cronaca lietissima dello spettacolo, per concludere insomma che iersera Roma, a un anno circa di distanza dalla prima vittoriosa apparizione della «Francesca» a Torino, ha conferito meritatamente a Zandonai e a questa sua più recente e nobilissima creatura d’arte gli onori del trionfo. Onori, poi, che – si passi il bisticcio – onorano assai il nostro pubblico romano, dimostratosi iersera giudice sereno ed intelligente, disposto sì alla severità ma anche al più commosso e sincero entusiasmo quando... ci sia qualcuno capace di destare nei petti la sacra fiamma da troppo tempo sopita.

Così è avvenuto che – a traverso le melodie fascinose di questo piccolo e fecondo maestro trentino cresciuto da pochi anni con tenacia di nobili sforzi nell’arringo del teatro musicale fino a conquistarsi un posto fra i primissimi – è avvenuto, dico, che si sia pienamente verificata, sotto il controllo di una moltitudine, una profezia apparsa su le colonne di questo giornale all’epoca di «Conchita»8, una profezia che torna tanto più opportuno ricordare oggi, con i tempi che corrono...

Disse allora il nostro Nicola d’Atri che non gli pareva lontano il giorno nel quale si sarebbe compiuta, sa un irredento, la redenzione del dramma musicale italiano. «Conchita» si è fatta seguire a breve distanza da «Francesca», e «Francesca» è per l’appunto – o noi c’inganniamo (ma in tal caso saremmo in parecchi, anzi in moltissimi) – l’opera che segna, nel teatro italiano di musica, la redenzione del canto, antica e autentica gloria nostra, dalle soperchierie dello straniero, la redenzione del dramma lirico dalle influenze della nebbiosa concettualità moderna o, come si dice ora di nuovo, dal giogo della “Kultur”. I destini politici della più grande patria, poi, sebbene si trovino in pieno fermento d’angoscia, fanno sì che Zandonai è oggi ancora un irredento. Per quanto tempo?

Ma, poi che abbiamo citato una profezia, ci sia concesso di ricordare anche dello stesso profeta – il d’Atri è stato davvero, e non fu piccola audacia qualche anno fa, il “profeta” del compositore trentino oggi illustre – un giudizio sintetico su l’opera che iersera ha conseguito così clamorosa vittoria. In occasione della “prima” di «Francesca da Rimini» al Regio di Torino il nostro eminente collega scriveva che «il temperamento musicale coloristico dello Zandonai, già rilevato nella “Conchita”, trova nella nuova opera esplicazione altamente poetica e si completa con l’affermazione di un altro temperamento che è in lui: quello del melodista, che lirizza e canta. Tutta la “Francesca”, salvo alcune scene come quella della

8 Cfr. n. 3.

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battaglia, è materiata di musica melodica e cantabile: le voci secondo la grande tradizione italiana regolano la condotta musicale del dramma, non l’orchestra; l’orchestra dipinge, descrive con frammenti ad essa apprestati dalle melodie vocali».

Tale giudizio, sorto dalle impressioni del momento che la consuetudine ha ormai consacrato come l’unico giusto per le critiche teatrali – e cioè subito dopo la prima comparsa dell’opera in teatro – ci sembra ancor oggi esprimere felicemente, almeno in genere, i caratteri di questa «Francesca», arrivata a noi dopo una serie di sentenze, tutte favorevoli.

Basterebbe, crediamo, il primo atto della tragedia dannunziana, così com’è stato visto dal musicista, per farci dire: ecco, veramente, un quadro musicale. E non intenderemmo riferirci affatto, con questo, a quel tipo di musiche modernissime che specialmente all’estero si raccomandano come “tableaux” o come “exquisses” alla buona volontà e alla fantasia dell’ascoltatore dopo averle eccitate con certi titoli stranamente naturalistici e di gergo pittorico.

No: questo primo atto di «Francesca», tra la corte di logge e di cancelli delle case dei Polentani e il giardino di maggio fiorito e solatio, è quadro nel senso che ci apparisce come una figurazione sonora delle immagini liriche ond’è intessuta la trama del paesaggio poetico disegnato da Gabriele d’Annunzio. Su quelle immagini lo Zandonai, con animo di musicista moderno, ha dipinto nei suoni un paesaggio musicale arcaico. Negate, se potete, di non aver rivissuto iersera, per virtù di suggestioni dolci e penetranti, una scena del duecento nostro misterioso e pittoresco, di non averla vista e di non averla sentita culminare nel quadro della rosa vermiglia offerta dalle mani della vergine sposa a Paolo il Bello, mentre la canzonetta gentile delle donne intona la sua cadenza sul ritmo della viola pomposa, del piffero e del liuto.

Un paesista, dunque, di vera efficacia descrittiva; ma anche e soprattutto un lirico animato dalla voce fremente dell’estro e un drammaturgo capace delle più solide e più geniali strutture.

Zandonai – si rallegrino quanto lacrimavano ormai la morte del canto melodico – canta: se pure le sue opere precedenti non ce ne avevano convinti abbastanza, «Francesca» ce ne dà la prova invincibile. E canta con libertà, con sincerità, con italianità di sentimento; canta creando, senza averli preordinati su schemi formali, periodi melodici che assumono valore drammatico e senso musicale da una fonte purissima di bellezza artistica: l’inspirazione. Periodi che s’accordano mirabilmente sul sonante splendore dei versi dannunziani e che, musicalmente, si direbbe talora, e proprio quando la lirica è più alta e vibrante, si atteggiano finanche in rime, coi riflessi di certe caratteristiche risoluzioni e il reiterarsi strofico di determinate figurazioni e cadenze.

Tutto ciò é, se non erriamo, poesia: poesia nella sua espressione più artistica, vale a dire in un momento che supera di gran lunga quel certo stato di vaga concitazione che serve a fantasticare poeticamente, ma non a concepire un poema e neppure soltanto un sonetto degni di tal nome. Poesia, insomma, che trascendendo in un mondo superiore, quello dei suoni, i modi e le forme proprie ai poeti e ai grandi poeti, non nega né offusca gli uni e le altre, e anzi ne fa disciplina al libero esprimersi dello spirito creativo.

Del resto, qual meraviglia se un artista della tempra di Riccardo Zandonai venuto finalmente in contatto con un artista della tempra di d’Annunzio si sia lasciato tutto compenetrare dalla nobiltà formale e dalla bellezza ideale del poema di lui, conferendo a questo, “alitante deo”, il fascino d’una musica più che animatrice, integratrice? Non è in tal modo che si compie la fusione miracolosa della poesia e della musica, sognata troppo spesso invano da musicisti e poeti e... dal pubblico?

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E di elementi lirici che s’inseguono e si sviluppano e si snodano con una freschezza e una esuberanza tali da apparire come linfa vitale è percorsa tutta l’opera e n’è pervasa fin nelle fibre che si direbbero più ascose, fin nelle persone che si direbbero più secondarie e meno significative: è l’ambiente che Zandonai ha liricamente visto, con sguardo acuto e penetrante d’artista, è l’atmosfera di quel dramma di ferocia e di lussuria in cui egli ha soffiato l’alito possente del suo lirismo, che accarezza e che scuote, che riscalda e che agghiaccia, che blandisce e che trascina, nei sospiri d’amore, nelle fiamme del desiderio, nel tripudio della passione: amore, desiderio, passione, tre volte amore come nelle tre terzine dantesche, amore protagonista, dominatore fatale nella tragedia di Paolo e Francesca.

Ma se in tutto e per tutto, sempre, ciecamente, il musicista si fosse dato in braccio al suo spontaneo sentimento lirico, quello – tanto per intenderci – che iersera, com’era naturale, ha trovato più immediata rispondenza negli animi degli spettatori e che sprigiona dall’opera tanto poter di fascino, l’opera, il dramma musicale non ci sarebbe stato. E la tragedia stessa dannunziana sarebbe stata tradita nella ragione della sua dinamica ed irresistibile potenza. Ond’è che lo Zandonai, cervello sereno di montanaro oltre che anima appassionata di poeta, ha posto a frutto le sue doti naturali e la sua tecnica di drammaturgo e ha concepito, ha organizzato il dramma, che pertanto risulta, in musica, mirabilmente chiaro ed efficace com’è in versi.

Ché anzi questi, sfrondati appunto per necessità della scena musicale e ridotti quantitativamente ad una classica solennità, appaiono essi stessi, così, d’assai più efficaci e più chiari di quel che sia il bellissimo testo originale...

Prendete, se avete voglia di far passare al musicista... drammaturgo un esame, prendete il secondo atto – tutto, così com’è – e la prima parte dell’ultimo, cioè la scena nella quale Malatestino, bieco e brutale amante respinto, svela perfidamente a Gianciotto la colpa dei due cognati. Ebbene: in quel secondo atto che sembra con le sue rudi sonorità e i suoi accesi colori quasi una stonatura fra le delicatezze del primo e il calor passionale del terzo, Zandonai ha riposto, come un nobile scultore che si vale d’ombre e di luci, il segreto della bellezza del primo e del terzo: ha trovato, in d’Annunzio, un quadro vasto e a fragorose tinte con nel mezzo un tenero episodio fatto di gentilezza e d’intimità; e l’ha musicalmente sbozzato alla brava, mantenendo alla battaglia il ruolo di protagonista, affermando in orchestra la sua sapienza di sinfonista e di colorista e, infine, giovandosi abilmente del contrasto nell’economia del lavoro.

La scena, poi, fra lo Sciancato e quel “dall’Occhio” – ch’è, per il dramma, la scena necessaria da cui deriva la catastrofe – ha acquistato nella musica, per il gioco e lo sviluppo dei temi gagliardi e tipicamente ritmici dei due interlocutori, un rilievo di magnifica evidenza, al tempo stesso che in scena il musicista rivela un nuovo aspetto dell’arte sua, trattando il recitativo melodico con intenzioni realistiche e con poderoso vigore.

Tuttavia il paesista, il lirico, il drammaturgo che si contengono nell’esile e minuscola persona – ormai anch’essa avviata, proprio come persona, alla popolarità – non bastano a caratterizzare la figura del maestro né la sua musica, iersera così unanimemente applaudita. Che dunque?

Si è che la musica di Riccardo Zandonai, tutta ma specialmente «Francesca», è – come accennavamo in principio – francamente e modernamente italiana nel sentimento, nel gusto, nella estetica stessa per cui s’esprime su la scena divisa finora fra verdiani, wagneriani ed ora debussyani: musica d’un italiano che non ignora certo siffatti movimenti d’arte ma che di essi ha assimilato nel proprio temperamento originale le conquiste tecniche.

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È – penso – caso bizzarro o categorico ammonimento quello che rivela, proprio di questi giorni, alla capitale d’Italia, al cervello della nazione, una ricca, limpida, impetuosa fonte d’italianità, scaturita là su le balze del fatidico Trentino?9

61 Edoardo Pompei, “Francesca da Rimini” di R. Zandonai al “Costanzi”, «Il Messaggero», 11.3.1915 - p. 5, col. 2-3-4

La prima rappresentazione di Francesca da Rimini del maestro Zandonai costituiva

l’avvenimento più atteso dell’attuale stagione lirica al Costanzi, pertanto il miglior pubblico di Roma erasi raccolto ieri sera nella sala magnifica per intendere e giudicare la recente produzione del giovane e valoroso compositore trentino. Il successo che all’opera decretarono a suo tempo Torino, Pesaro, Modena, trovò prima conferma ieri sera: ogni atto ebbe accoglienze festose e al calar del velario il maestro Zandonai e gli interpreti vennero evocati innumerevoli volte al proscenio. Né il giudizio del pubblico – pure attraverso le difficoltà di sorprendere in una sola audizione le mille bellezze profuse nello spartito, e fra le inevitabili nervosità di una prima prova – poteva essere diverso: quel pubblico avvertiva nello svolgimento degli episodi musicali una grande serietà artistica, una sincera nobiltà di intendimenti, i segni squisiti di una tempra di musicista ricca di originalità, di buon gusto e di coltura.

Fra i giovani musicisti in Italia non v’ha alcuno che possa eguagliare lo Zandonai nel difficile magistero strumentale. Egli possiede non solo il dominio assoluto della dottrina e la sapienza e la coscienza degli effetti orchestrali noti più o meno a quanti hanno consuetudine coll’orchestra, ma ha lo spirito audace della ricerca, la sicurezza della dinamica del grande organo orchestrale. Egli conosce e sa tutte le forze strumentali, espressive ed intime di ogni singolo strumento, di ogni famiglia di strumenti; ha un criterio particolarmente adatto a rendere ogni colore nelle infinite varietà dei toni, dei chiaroscuri, dei contrasti. Egli è sopratutto un colorista, e il suo strumentale saldo, vario, ricco di sfumature acquista nella trattazione, tutta personale, un carattere profondamente suggestivo.

E tutto è colore in questa Francesca da Rimini. Il maestro stesso così ha definito i suoi atti: il primo è serenità; il secondo, con la battaglia, i fragori, gli urli, le campane, è a forti tinte scarlatte; il terzo, quello della lettura e del bacio, è di colore azzurro; la prima scena del quarto, la delazione di Malatestino, è in grigio ferro; il quadro finale, dove la tragedia precipita, ha il colore dell’acqua stagnante. E chi ascolta la musica sente che queste definizioni coloristiche hanno veramente un significato.

Altro segno particolare dell’orchestrazione dello Zandonai è questo, che le sonorità non raggiungono gradi d’intensità soltanto per raddoppio di parti, per sovrapposizione di suoni, ma per peculiari atteggiamenti, per varietà di impasti e di timbri, per ingegnosissimi accoppiamenti. Vi è nello strumentale di Francesca da Rimini un senso spontaneo di ricerca che dona ad essa freschezza e direi quasi originalità, e per entro le figurazioni schematiche circola sempre in abbondante copia lo spirito che vivifica le movenze e i sentimenti, e l’orchestra racconta e discorre, proietta luce e tenebre nelle persone del dramma a seconda delle significazioni psicologiche che esse hanno nella loro vita scenica.

Ma in tutto questo ricco trapunto orchestrale, fra tanta bellezza di sottili disegni musicali l’idea melodica non ha quasi mai un respiro ampio e profondo, e si ha tutta la impressione che

9 L'articolo prosegue uguale – con solo due brevi varianti – a quello riportato sul «Piccolo», 11-12.3.1915 - cfr. n. 59.

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il compositore miri piuttosto, nell’abbondanza esuberante dei mezzi a sua disposizione, a trascurare di proposito o per una invincibile deficienza del suo temperamento il periodo largo, senza raggiungere nel declamato quella intensità di espressione, quel soffio potente e largo della vera ispirazione che giustificano il voluto ostruzionismo di quelle idee melodiche che costituiscono e costituiranno sempre l’essenza di ogni opera destinata a vincere gli urti del tempo.

Al primo atto l’entrata di Francesca è annunziata da un coro leggiadrissimo delle sue giovani donne. Ella appare sulla loggia insieme a Samaritana, la «piccola colomba» che implora la sorella di non andare sposa, e tra una varietà di piccoli episodi, la delicatezza di taluni impasti orchestrali, il guizzare di qualche frase felice, si arriva all’apparizione di Paolo, appoggiata al suono di tre strumenti antichi: una viola pomposa a cinque corde con sotto altre corde metalliche di risonanza, un piffero e un liuto. Paolo non dice parola, Francesca rimane immobile ed egli si ferma, e stanno l’una contro l’altro guardandosi senza parola e senza gesto. Poi ella si separa dalla sorella, coglie una grande rosa vermiglia e la offre a Paolo. E sulla scena – profondamente suggestiva – e sul dolce canto che si sprigiona dalla viola e dall’orchestra cade il velario.

Il secondo atto è il meno felice dell’opera. La scena della battaglia, pure trattata con mirabile sicurezza, non ha musicalmente corrispondenza cogli episodi guerreschi.

La padronanza di tutti i meccanismi, di tutti gli effetti istrumentali, di tutte le sonorità non rendono la scena immaginata dal poeta: tutti i valori particolari di ogni strumento, tutte le prepotenze del pieno orchestrale non dànno che frastuono, che rumore; manca, attraverso il poderoso lavoro orchestrale, la frase, il motivo che susciti l’impressione esatta del momento che si vuol descrivere. E nemmeno il duetto tra Paolo e Francesca, nel lungo declamato, ha ricchezza d’ispirazione geniale, quel senso di calore, di vigore e di passione che lo stato d’animo dei due personaggi farebbe supporre in quell’istante in mezzo al divampare della battaglia.

Il terzo atto è veramente superbo per la signorilità della forma e la bellezza del canto. Qui l’ispirazione si innalza e tutta la musica si anima e si riscalda. La leggiadra canzonetta delle quattro donne, ravvivata da squisite figurazioni di danza, il canto appassionato di Paolo e la frase di Francesca, dolcemente melodica, e tutto il duetto fra Paolo e Francesca, vibrante di passione e di impeto lirico, suscitarono nell’uditorio la più schietta ammirazione.

Ed eguale successo ebbe la prima parte del quarto atto, così vigorosamente scultorio ed incisivo, e così pure l’ultima parte, riboccante di sentimento.

Dal Grillo del Focolare, l’opera con ma quale iniziò la sua carriera di compositore, a questa Francesca da Rimini, attraverso la Melenis e la Conchita, lo Zandonai ha compiuto meravigliosi progressi. La sua personalità artistica si è affinata, individualizzata, ed egli procede ormai sicuro nella sua via colla certezza magnifica di chi ha un nobile ideale da raggiungere. E del successo di ieri, successo sincero ed entusiastico, lo Zandonai, che ha un temperamento musicale di primo ordine, virtù di sentimento, virtù di cultura, ha il diritto di andare orgoglioso.

L’esecuzione della nuovissima opera riuscì conforme all’avvenimento artistico. Tutti gli

interpreti si rivelarono degni dell’ardua prova, e in singolar modo il maestro Vitale, che tutta la sua vigile cura, tutta la sua grande coscienza d’artista sereno e forte portò alla concertazione e alla direzione dell’opera. E mai applauso fu più meritato di quello che con unanime consenso volle più volte decretargli l’uditorio imponente.

Una gradita rivelazione fu per ognuno degli spettatori la signorina Raisa Rosa, un’artista sconosciuta al nostro pubblico ma meritevole veramente di figurare nel nostro massimo

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teatro. La sua voce bellissima, fresca, estesa, squillante ella profuse senza risparmio nei quattro atti, cantò con passione, con calore, con un senso d’arte mirabile, mentre nella espressione scenica riuscì ad essere un’interprete di non comune valore. E fu – è superfluo aggiungerlo – entusiasticamente applaudita, insieme al tenore Pertile, anch’egli fin qui ignoto a noi ma per la potenza dei suoi mezzi vocali capace di superare le non lievi difficoltà della partitura. Il Danise impersonò con grande arte la figura di Gianciotto e fu come sempre cantante nobilissimo; il Berardi, nella breve parte di Ostasio, dette una nuova prova della gagliardia della sua voce; ottimo Malatestino per efficacia scenica il Nardi; squisita cantante ed interprete valorosa Flora Perini nella parte della “Schiava”. E poi tutti gli altri, e cioè: la Matteini, la Verger, la Seracchioli, la Menarini [sic], la Galeffi, il Sabatano, il Gironi, il Pastorelli, il Lanzi concorsero colla loro bravura al successo dell’opera.

L’allestimento scenico, curato con particolare amore dal comm. Tito Ricordi e da Carlo Lausetti [sic], e i costumi sfarzosi apparvero degni del lietissimo avvenimento artistico.

[...]

62 Fausto Torrefranca, La “Francesca da Rimini”, «L’Idea nazionale», 12.3.1915 - p. 6, col. 1-2

La Francesca da Rimini di Tito Ricordi e Riccardo Zandonai, che abbiamo sentita ieri sera

al Costanzi, ha avuto successo. E aggiungiamo che da un certo punto di vista – che non è di certo il nostro, decisamente contrario al solito operismo commerciale di marca ricordiana – merita il successo che ha avuto. Il quale non è stato per tutti gli atti entusiastico ed unanime né di uguale intensità, sebbene unanimemente si giudichi che l’opera nel suo complesso sia vitale e possa correre, almeno per qualche tempo, le scene italiane e straniere. Ma è bene astenersi dal fare profezie, che con la critica non hanno mai avuto e non avranno nulla da fare. Più tosto è necessario che io vi confessi che, nella mia qualità di critico musicale, ho assai poco da dirvi su questa Francesca.

Avrei molto da dirvi se, uscendo dal mio campo – cosa che sarebbe assai di mio gusto – mi ritraessi all’anno nel quale sentimmo qui a Roma la Francesca nella sua genuina veste di pura poesia e... non la capimmo. Fu la letteratura, si dice. Ma fu invece la – come dire? – la cafonaggine di gran parte del pubblico che non era capace di accettare tutte le squisitezze del lavoro dannunziano e, se anche ne fosse stato capace, non avrebbe voluto a nessun patto fare a Dante Alighieri il torto di ammirare Gabriele D’Annunzio. Non so se siamo ancora un po’ cafoni in quanto spettatori di opere di poesia, non è mio compito di dirlo né tantomeno di dimostrarlo, ma so bene che siamo ancora tali in quanto ascoltatori di musiche; e so che fra qualche tempo, quando ci si accorgerà, migliorando, che questa è la dolorosa verità, si penserà con un pochino di simpatia a coloro che hanno il coraggio e, se meglio vi piace, la faccia tosta di dirlo.

E allora forse ci accorgeremo che questa Francesca ha avuto successo perché essa è una di quelle finzioni drammatiche che, pur potendosi reggere da sé, possono comportare un accompagnamento di musiche in grazia di tutta la veemenza e di tutto lo struggimento dell’anima lirica che vi restano come sospesi fra parola e parola, fra verso e verso, tra momento e momento del fatale andare dell’azione tragica.

La Francesca da Rimini dannunziana è un lavoro di altissima stilizzazione poetica ma, a punto e per ciò che la stilizzazione di ogni elemento vi ha aggiunto la sua massima espressione, si sente ancora al di là del nitore della frase, al di là della chiarità dell’immagine, al di là dello splendore di ogni minima frattura del verso, tutta la complessa ed accesa intimità

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lirica, tutta la solare luminosità figurativa che hanno imperiosamente voluto quella stilizzazione. Stilizzazione può essere – anzi più spesso è – povertà, ma può anche essere, come qui, ricchezza, dirittura, densità. Neve delle cime che avvalla e forma ghiacciai, si rassoda, si addensa, si fa cristallina e trasparente, si fa verde come di una vaga nostalgia di prato, sonora, ma come degli echi dell’interno fervore musicale della terra, liscia e lucida come il più alto pensiero specchio del mondo; una si frantuma anche, si lacera per mille ferite e invita verso l’oscuro fondo dei suoi crepacci, là dove serpeggia la vena dell’acqua perenne, dell’acqua che anima di musica le cime silenziose e di vita le piane più lontane.

*** Diciamo dunque la verità vera. Gabriele d’Annunzio è stato il vero trionfatore della serata,

proprio come, scusate il paragone che sembra e non è irriverente, il Sardou è il vero autore della Tosca pucciniana. Aggiungiamo che il grande Verga è quello della Cavalleria mascagnana. La giovane scuola italiana, da venticinque anni a questa parte, non ha fatto altro che aggiungere della musica ad opere di poesia – o più semplicemente di teatro – che già si reggevano da sé e da sole avevano conosciuto il successo. Il fenomeno si ripete identico a se stesso ad ogni nuovo autore che casa Ricordi o casa Sonzogno mettono in valore. L’ultimo è lo Zandonai, e lo Zandonai non è sostanzialmente diverso dagli altri. È più colto del Puccini, più fine e più scaltro di orecchio per quel che ha riguardo all’orchestra, è meno proclive del lucchese ai motivetti ballabili; è meno istintivo del Mascagni ma anche di lui meno grossolano. Tuttavia è sempre, suo malgrado, “marca Ricordi”. E questo – faccia pure gli scongiuri di rito il giovane maestro trentino – questo lo rovinerà. Sappiamo ad esempio che il Finale del quarto atto era diversamente scritto e che il Ricordi non lo ha accettato; e sentiamo senza che nessuno abbia bisogno di dircelo che certe cadenzacce, certi effettoni, certe banalità romanzettaie che troppo spesso intervengono a prendere per il collo gli spettatori o a solleticarli sotto il ganascino son “articoli di smercio sicuro” voluti dal direttore della casa Ricordi. E sino a quando avremo, come abbiamo, non due case ma una casa e mezza editrice di musica in Italia le cose non potranno non peggiorare. Oggi come oggi non si può fare del nuovo in Italia. Un giovane musicista, fosse anche un genio, è sempre una vittima, mai e poi mai un trionfatore.

Applauditelo, se vi piace, ma abbiate anche un po’ di compassione per lui che è “come lo schiavo al remo, nella galèa che ha nome Disperata”.

*** Voi capite benissimo come io non possa essere del parere di tutti quegli idioti che

giudicano che in quest’opera dello Zandonai mancano il periodo largo, la frase italianamente melodica, il motivo commovente.

Siccome è acquisito oramai, alle patrie tradizioni di cultura, che un critico non debba sapere un ette né di tecnica musicale né tanto meno di storia, così è anche naturale che tanti egregi ed illustri colleghi pensino che la musica italiana sia stata sempre caratterizzata da quello che essi chiamano melodia. Anzi, ingenuamente pensano che, all’infuori dell’opera, nulla ci sia stato di veramente notevole nella nostra storia, se si eccettui, per la musica sacra, il Palestrina.

Provate, amici miei, a chieder loro se sanno di che tipo fossero le musiche, ad esempio, del trecento, ossia quelle che ieri sera lo Zandonai avrebbe voluto riprodurre negli episodi del primo atto (l’arrivo di Paolo) e del terzo (canzonetta delle donne), e se stessero bene insieme, per quell’epoca storica, la viola pomposa, il piffero e il liuto che le eseguivano.

Provatevi a chieder loro se non sarebbe stato utile allo Zandonai studiare un po’ le musiche dell’Ars nova fiorentina per trarne degli elementi stilistici da idealizzare; e fare con ciò il

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massimo onore all’opera poetica dannunziana nella quale lo stesso processo è evidente per quanto riguarda la lingua, ed ha raggiunto tanta efficacia espressiva.

Ma a che pro aprire tutte queste questioni? Io non finirei più di parlarvene, voi vi annoiereste e poi sarebbe fatica buttata al vento: non avrei infatti nessun contraddittore.

Ma riassumerò le mie impressioni dicendo che alla viola pomposa avrei preferito l’organetto portativo, l’organetto a tastiera con ventiquattro canne che, collocato sul ginocchio sinistro, si suonava con la destra, mentre l’altra mano si manovrava un piccolo mantice posto dietro le canne. È l’organetto che vediamo nelle mani della Santa Cecilia del Raffaello, è l’organetto che adorna, insieme al salterio, al piffero, al monocordo, alcuni fregi dei della Robbia, strumento dolcissimo e intenso di suono, strumento casalingo che fa, nel trecento, quello che il liuto nel cinquecento, il cembalo nel sei-settecento e quello che il pianoforte oggi.

E se a questi due episodi io penso, a preferenza degli altri di questa Francesca, non è soltanto perché io, facendo professione di storico della musica, sento e vivo queste cose più degli altri, ma perché si tratta delle scene meglio riuscite della partitura, ed esse mi fanno pensare a quello che lo Zandonai avrebbe potuto fare con il suo talento di assimilatore e di stilizzatore se si fosse deciso d’essere in tutta l’opera più umanista e meno uomo del suo tempo. Uomo del suo tempo non solo ma, ahimè, uomo della sua ditta.

Sono queste le qualità che mi fanno sperare che lo Zandonai, povero e secco quale sinfonista, possa invece contribuire ad innalzare il medio livello del gusto presso il pubblico dei teatri lirici: cosa che oggi importa assai più della creazione di capolavori. I capolavori sono sempre sorti da terreno lavorato da una finissima cultura o rinverginato da una fresca barbarie di vita; ma non possono sorgere in un’epoca di fiacchezza, di incertezza e di cafonaggine quale è ancora la nostra.

Per ciò io mi compiacerò nel vedere lo Zandonai abbandonare, sia pure per insufficiente ispirazione melodica, che del resto è segno, buon segno, dei tempi, le vie della facile melodietta che sviene o che singhiozza. La melodia pendolare che è la sola risorsa del Puccini in lui quasi non esiste più. Se casa Ricordi gliene fa esplicita ordinazione egli vi regala quell’inghirlandata di violette m’appariste ieri che ha mandato in sollucchero tutta la beozia pucciniana della galleria e della platea e che è invece, per un uomo anche solo di gusto mediocre, semplicemente irritante. O vi infligge quella orribile cadenza di: mostrava ella nudato al mio dolore, dello stesso atto.

Egli invece preferisce il lavoro fitto e frequente delle allusioni orchestrali: giuoco di timbri, di brevi ritmi, di passaggi rapidi o lenti che rinforzano volta per volta il tono di una parola, che rallentano o accelerano l’abbrivio di un verso, che sospendono talora una sola parola come in un centro di luci riflessa da cento specchietti.

In questo lavoro di pure intenzionalità egli riesce assai spesso efficace, come nel brano Nemica ebbi la luce, dello stesso terzo atto. Ma a lungo andare questo procedimento induce un senso di sazietà. Gli è che lo Zandonai manca di qualità propriamente sinfoniche – ciò che abbiamo visto fin troppo nelle Impressioni sinfoniche di fresca memoria – ossia manca di quelle qualità che sole potrebbero rendere continuative, logiche, discorsive quelle intenzionalità e quei momenti allusivi e, se meglio vi [ ]gestivi che l’arte sua di orchestratore va sperperando in qua e in là.

La sua declamazione è sempre studiata e ricca di una sensibilità specifica piuttosto rara a trovarsi: quella dell’intervallo melodico, donde la frequenza di modulazioni più o meno passeggere. Ma anche qui l’arte di connettere insieme in un tutto che non sia né puccinescamente banale né francesemente prezioso gli manca. Basti per tutti l’episodio che avrebbe dovuto essere uno dei più intensi della lettura del libro, dove Paolo comincia col dire:

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Ah le parole che i miei occhi incontrano, e che è privo di carattere. Migliore è la lettura di Francesca: Certamente, ella dice, io vi [sic] prometto.

Un’altra caratteristica assai significativa delle musiche dello Zandonai è questa, che certi elementi stilistici sono portati volta per volta all’esasperazione. Così, nel primo atto, il brano di Francesca: Anima cara, piccola colomba è tutto fatto di note lunghe attraverso le quali il ritmo si snoda stentatamente affaticando cantante e spettatori. È in tono con la poesia questa curiosa stilizzazione fatta tutta di tensioni? Rileggetela e vedrete di no.

Ma insomma, riassumendo affrettatamente il buono e il meno buono che ci è dato di riscontrare in quest’opera dello Zandonai, concludiamo col dire che noi lo vorremmo libero da due servitù: la prima quella di casa Ricordi, la seconda quella dell’Austria che ancora domina la città che l’ha visto nascere. Noi lo vogliamo più nostro come artista e come cittadino. Come cittadino innanzi tutto: perché così vuole l’ora pregna di futuro che l’Italia attraversa. Nostro non per trattato ma con la guerra: con la guerra che varrà a rigenerare presso di noi tante cose decadute e degenerate e, prima di ogni altro, la musica.

*** Degli interpreti dirò brevemente. La signorina Rosa Raisa è ottima attrice e buona

cantante. È un’allieva della Marchisio, del conservatorio di Napoli. L’autore deve esserle grato dell’arte con la quale riuscì a vivere, anche nei momenti meno felici, il personaggio di Francesca.

Il tenore Pertile (Paolo) e il Danise (Gianciotto) furono anch’essi efficaci. Quest’ultimo non ha certamente superato tutte le difficoltà mimiche delle quali è piena la scena con Malatestino (quarto atto) ma è doveroso riconoscere che la scena sarebbe difficile anche per un attore.

A tutti gli altri una parola di lode: se la meritano tutti. Buono l’allestimento scenico. Quanto al maestro Vitale, chi si contenta gode. Noi non godiamo. Perché siamo gli eterni scontenti? Già, proprio così.

63 Goffredo Bellonci, Impeto di musiche nuove sovra una passione eterna – “Francesca da Rimini” del M. Zandonai, «Orfeo», 14.3.1915 - p. 1, col. 1-2-3-4 / p. 2, col. 1-2-3

L’opera d’arte

Riccardo Zandonai l’han salutato innovatore della nostra musica e del nostro melodramma, liberatore dell’Italia dalla schiavitù tedesca: e sono scherzi della retorica alla moda, in questi giorni di furiosa rivolta dell’ignoranza contro la cultura. Bastava dire che la Francesca da Rimini è una bella opera, una sicura testimonianza di un prossimo, qui da noi, rifioramento musicale. Ma codesta faccenda dell’antitesi a Riccardo Wagner e ai musicisti di Germania incomincia ad essere insopportabile: un secolo di germanesimo, del pensiero e dell’arte, non possiamo liberarcene se non a patto di assimilarlo, di farlo nostro, di riviverlo in noi, di ucciderlo in noi, e d’andar oltre. È un momento spirituale, il germanesimo, che come tutti i momenti dello spirito umano saltarlo non si può: se volessimo ignorare il pensiero tedesco e la musica tedesca, a pensare e comporre come se il Kant e l’Hegel, il Beethoven e il Wagner non fossero stati al mondo, penseremmo e comporremmo assai poveramente, su la falsariga dei classici. Le idee e le musiche di codesti uomini sono state per un secolo le idee e le musiche di tutto il mondo civile: in esse il nostro spirito ottocentesco s’è manifestato intero, e non c’è dunque rimedio: occorre, ad andare innanzi, rifar questa via con nuova lena e con nuovi propositi, e non veder il cammino chiusoci innanzi a codeste forme, anzi largo ed

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aperto. Il problema è qui: non rimanerci chiusi dentro, che sieno per noi un’alta siepe la quale ci nasconda la vista e ci argini in un errore ignoto; ma saperne l’ingresso e l’uscita, vederle dall’alto della propria libertà spirituale, e potere liberamente segnar a sé la mèta senza paura e senza pericolo di restarci presi, da quelle forme, di restarci smarriti, in quell’errore. Speditezza di movimenti che non l’acquisti se non riesci a sentire lo spirito di quei filosofi e di quei musicisti distaccato da te, chiaro innanzi la tua conoscenza, se dopo averlo vissuto, codesto spirito, non riesci, con un atto di volontà, a veder nella tua coscienza te, che sei uno, ed esso ch’è un altro. Così anche si conosce il mondo, e nel mondo, avendolo conosciuto, ci si muove, e con tanta più libertà quanto più frequente fu la nostra adesione e il nostro distacco dalle cose: che non si avrebbe se non volessimo conoscerle, le cose, e ci stessimo contenti alla nostra accidia o se, desideratele e possedutele, ci lasciassimo dominare dalla passione e smarrissimo la coscienza di noi stessi. Voglio dire che la musica tedesca non si può ignorarla e non si deve praticarla: poveri coloro che non lo seppero, e poveri coloro che vivono prigionieri del suo spirito.

Lo Zandonai non è di questi: il suo Wagner, e anche il suo Strauss, li conosce bene. Si sente ch’egli è di quelli spiriti maschi, i quali si levano più forti da ogni abbraccio, da ogni abbandono; e vuol veder chiaro in quel che fece ieri, e il cieco istinto illuminarlo, e la sensitività bruta assottigliarla. Nelle sue opere c’è volontà, c’è ascesi; ha voluto al caos delle forme che egli aveva innanzi, alle reminiscenze, ai fantasmi d’altrui che facevano impeto nella sua anima dar ordine, organismo proprio. Ha affermato sé stesso, con un atto di coscienza, contro codeste forme e codeste scuole. Certo, a volte in questa sua coscienza c’è buio, e c’è smarrimenti nel suo spirito; ma nessuno può negare allo Zandonai una dirittura artistica, uno sforzo continuo di ascensione, una progressiva conquista di uno stile ond’è singolarissimo tra gli altri musicisti italiani. In questa Francesca da Rimini lo stile è quasi raggiunto: se dicessi che è già formato e che si snoda coerente in ogni episodio dell’opera mentirei: molte volte, troppe volte sentiamo che c’è soluzione di continuo, che il musicista, toccato un vertice suo, ricasca giù stanco e smarrito nelle foreste sapute, che insomma spesso dopo aver conquistato con uno sforzo supremo sé stesso (e che altro significa aver stile se non essere coerentemente e inimitabilmente sé stesso?) s’illude e ci illude con una mirabile ma intellettuale e superficiale sapienza tecnica. Ma che progresso! In Conchita e in Melenis i più diversi modi d’arte, da quelli del Wagner a quelli del Mascagni, da quelli dello Strauss a quelli del Debussy, erano – direi – sofferti dallo Zandonai: gli sgusciavan di mano e gli crescevano innanzi come il tema magico allo stregone novizio del Dukas; ed egli s’affannava invano a volerli ridurre sotto la propria potestà. Dunque, non c’era verso che egli individuasse un personaggio e sapesse dare al discorso musicale una coerenza stilistica, poi che le diverse forme s’individuavano da sé e soverchiavano il suo spirito. Ma la sua esperienza era così vasta, e così pronta la sua forza d’assimilazione, e così impetuoso e parvente lo sforzo di non lasciarsi soverchiare, che si comprendeva ch’egli sarebbe giunto a dar ordine alla sua orchestra e organismo alle sue melodie. La Francesca da Rimini non è già più una promessa.

Tragedia, ch’è senza dubbio la meglio equilibrata del d’Annunzio, fu essa composta in quelli anni felici dell’arte d’annunziana che han nome dalle Laudi. Ed è ricca di abbandoni lirici ma povera di drammaticità: le persone non raccolgono nelle parole il loro spirito profondo, anzi si distendono e si smarriscono nelle frasi e nelle strofe. C’è abbondanza di architettura e di decorazioni: quadri, quadri, quadri, e poca sostanza d’anima: ricchezza di colori e di suoni, e miseria di parole; l’organismo di questa tragedia non si manifesta nei contrasti delle persone, ma nelle strofe dei canti, nella distribuzione dei colori, nella conchiusa levigatezza delle architetture. Non si ricorda una sola parola di quelle eterne, che, espressesi da un urto drammatico, rivelano una verità dello spirito, e nemmeno un

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personaggio nella sua viva umanità: non Paolo, non Francesca, non Malatestino: le scene, sì, quelle si ricordano, le ancelle con il giullare, la battaglia, la canzone della primavera... E son belle davvero, di una loro chiusa bellezza strofica, che dobbiamo ammirare anche noi, se bene desiderosi di altra più intima arte da questa. Ma il musicista, trovandosi innanzi un libretto così fatto, non avrebbe forse dovuto sminuirne i difetti? metter la drammaticità dove mancava, e attenuar la lirica dove era troppa? Riccardo Zandonai ha invece seguito punto per punto Gabriele d’Annunzio, ed ha abbellita l’opera del poeta nei luoghi belli, senza rafforzarla nei luoghi deboli. Gli è che lo Zandonai ha un concepimento strofico dell’arte: la sua musica non può andare innanzi per lungo tempo da sola, sorretta da una forza intima ond’essa sgorghi diversa e coerente, anzi c’è bisogno che ritorni armonici e ritmici le dieno da fuori una organicità che da dentro non potrebbe sempre avere. Difetto, codesto, che si muta in pregio quando lo Zandonai riesce a manifestare tutto sé stesso come nella seconda metà del primo atto e nella prima metà del terzo: allora sentiamo che egli può, che egli sa portare nel melodramma un senso nuovo della “scena” musicale, ben diverso da quello dei nostri operisti dell’ottocento, e tuttavia schiettamente italiano. Qui non abbiamo più le distese melodie romantiche che davan ordine intorno alle “arie” a tutta l’opera musicale: c’è brevi melodie, grande abbondanza di modulazioni che le spezzano con molta delizia nostra, e mirabile ricchezza di ritmi. Tutte codeste cose, composte insieme da un uomo che possiede la tecnica modernissima come pochi e che ci si muove per entro senza impaccio, essendosi anche fatta una orchestra sua propria per virtù di accostamenti strumentali originalissimi, dànno all’opera un sapor nuovo e nello stesso tempo antico: s’ha l’impressione di un innesto della musica post-wagneriana sul tronco della nostra musica romantica.

Il male è che un tale innesto, ad esser fecondo, ha bisogno di quella continuità che vi ho mostrata in principio; se no, se dunque si ricasca nei ricami tecnici o peggio ancora nei frusti schemi melodici dell’opera italiana, la struttura strofica mette in luce la povertà inventiva piuttosto che dare ad essa valore. Il secondo atto non persuade proprio per questo: il d’Annunzio l’aveva disegnato con arte superficialissima; e quei suoi uomini d’armi strillavano senza riuscir mai a comunicare un brivido della battaglia, comparse e non attori. Lo Zandonai ha rivestito i versi con una ricchezza armonica e ritmica da meravigliare, ottenendo effetti di sonorità molto belli; ma non ha saputo trovare un motivo, una frase che desse una vera sostanza musicale alla battaglia. Per giunta, ha costrutto l’atto con due riprese del pandemonio bellico, le quali lo serrano, sì, e lo conchiudono, e tuttavia non riescono che a far sentire di più il suo vuoto. E badate che la ripresa non può conferir in nulla all’effetto perché quella descrizione materialistica, estrinseca della battaglia, dispiegò la forza e la violenza dei suoi colori sin dal principio e appar anzi menomata dal ritorno strofico.

Lirico piuttosto che drammatico, lo Zandonai ha una natura di sensuale e preferisce al discorso intimo l’abbandono sensibile, che è sempre breve. La sua arte, di necessità, è dunque frammentaria, come l’arte del d’Annunzio, e deve cercar l’organismo in quella struttura strofica che ho detto: coerenza vera e propria, melodica o sinfonica non può averla, e con questo non voglio notare un difetto ma darmi ragione dei limiti di codesto musicista nostro. La via che egli s’è dato a percorrere fu aperta gloriosamente dal Verdi con il Falstaff, dove le “arie”, le larghe frasi melodiche del melodramma mancavano affatto, ed era invece una meravigliosa collaborazione del canto e dell’orchestra: l’orchestra manifestava con ricchezza di ritmi e di temi inconsueta all’opera italiana, e con potente continuità, la pienezza spirituale dei personaggi, e la declamazione accentuava la parola con prodigiosa fusione del ritmo verbale col suo ritmo musicale. Lo Zandonai vuole anch’egli “parlare” le sue melodie e intensificarle con un complesso lavoro armonico e melodico; ma non sempre riesce: a volte nello sforzo esaspera le voci o l’orchestra senza ottenere nessun effetto profondo. Quando la

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sua vena s’apre più felicemente, allora sì egli ci dà pagine nuove e davvero sue, le quali bastano a far della Francesca da Rimini la più singolare, forse, di tutte le opere della nostra giovane scuola: intendo, sovra tutto, della seconda parte del primo atto e del terzo atto intero. Qui anche le influenze wagneriane, straussiane e debussiane non s’avvertono più, che pur si notano negli altri atti: anche se egli si giova di modi che son propri a Wagner (progressioni annunciano Paolo come annunciarono Tristano) senti che si son fatti sostanza sua, si son fusi organicamente nello spirito dell’artista. Dal coretto delle donne «Oimè che adesso io provo...» sino alla fine del primo atto l’incanto non si rompe mai: le bellezze si succedono continue, in un’onda lirica larga e meravigliosa. Il canto lamentevole di Samaritana e il trepido declamato di Francesca rendono con evidenza, e comunicano a chi ode, il sentimento delle due creature che s’annuncia. Il discorso volubile delle donne che gridano l’arrivo di Paolo e quella prorotta invocazione di Francesca alla sorella «Ah, tu ora, tu ora pigliami» mettono in tutta la scena un’ansia di attesa sovra la quale il bel tema d’amore proposto dalla “viola pomposa” si eleva con una improvvisa tenerezza, con un profondo calore che persuadono e trascinano. Ma guardate: lo Zandonai ha raggiunto l’espressione compiuta in un momento lirico e per virtù di mezzi lirici, non drammatici. Lo svolgimento dell’atto è corale e sinfonico: la parola musicale, dove si distende tutto lo spirito, tace. Il terzo atto è lo stesso: se ben considerate esso è racchiuso dalla canzone della Primavera che lo fiorisce nel mezzo e l’inghirlanda alla fine, quando ritorna lontana; e si svolge per gradi, crescendo, dopo pause ed arresti durante la scena tra Paolo e Francesca, sino al prorompere di tutta l’orchestra nel bacio. Ed ogni episodio di quell’appassionato dialogo d’amore non tanto vale per sé (e vi hanno certo bellezze inconsuete e nuove, specie nel canto di Paolo) quanto per l’insieme: elementi, sono, di una pagina lirica piuttosto che drammatica, che si giova anche qui di mezzi sinfonici e corali. Il punto più debole dell’atto è proprio quello che avrebbe dovuto essere, in una concezione drammatica, più forte, quello dove la parola avrebbe dovuto giungere alla sua massima virtù musicale: intendo la lettura del libro galeotto.

La scena che mostra invece una notevole potenza drammatica è quella del quarto atto, tra Gianciotto e Malatestino: c’è violenza, c’è brutalità, ma badate che questa brutalità e questa violenza sono raggiunti meglio per forza di ritmi e colori orchestrali che per intima musicalità del dialogo tra i due fratelli. Lo Zandonai ha sentito, egli, il cupo orrore della scena infame e ce l’ha dipinto, ce l’ha reso sensibile con la sua tavolozza ricca e mirabile, ce l’ha insomma descritto.

In questa analisi rapida ho voluto piuttosto studiare la natura del musicista che non la sua opera. La Francesca da Rimini non bisogna giudicarla secondo un ideale dramma musicale, che molti augurano e che il Pizzetti persegue: è un’opera concepita e resa liricamente, a larghi respiri, a lunghe onde strofiche; un’opera dove l’antitesi tra il melodramma italiano e il dramma wagneriano si parifica in una sintesi, che certo ha una vera e propria originalità, un suo proprio organismo. Ed è bella: c’è innumerevoli piccoli episodi orchestrali che fermano il nostro gusto e lo incantano un momento, anche in quel secondo atto che è il meno felice. E se le persone non si manifestano nella loro individualità per una profonda virtù drammatica, sono ad ogni modo, ciascuna, descritte con molta evidenza: ciascuna ha suscitato nel musicista un diverso brivido musicale che egli risente e fa sentire a noi con i colori della sua orchestra e con i modi della sua melodia. Malatestino, Smaragdi, Samaritana si individuano mirabilmente nel nostro spirito.

Gli interpreti diedero del resto alle parti un forte risalto drammatico: la signorina Rosa Raisa non solo canta con morbidezza di voce e con forza straordinaria, ma anche recita da grandissima attrice: rare volte mi è occorso di vedere espressi con tanta intelligenza i più sottili trapassi drammatici. E bene cantarono e recitarono accanto a lei la signorina Olga

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Matteini (Samaritana) che ha una voce assai dolce e singolar gusto di atteggiamenti, e la signorina Flora Perini (Smaragdi). Il tenore Pertile (Paolo), il basso Berardi (Ostasio), il Danise (Gianciotto), il Nardi (Malatestino) e il Gironi (giullare) furono applauditi dal pubblico, e lo meritarono.

E tutti seppe muovere, a tutto seppe dar vita piena – alle musiche e agli artisti – il maestro Vitale.

Credo dunque che la Francesca da Rimini debba essere annoverata tra le nostre belle opere contemporanee, e che vi si riveli finalmente libero e compiuto Riccardo Zandonai. Dire che egli ha rinnovato la musica e aperte vie nuove al genio italiano non si può, senza ingiuria al più cotennoso buon senso; ma sarebbe da stolidi negare che codesto artista italiano si è conquistata una originalità, e la manifesta con sicurezza di mezzi. Egli è oramai su la via che conduce all’opera perfetta.

La cronaca dello spettacolo – Il grande successo – Vitale – I cantanti

Al geniale saggio critico di Goffredo Bellonci – che per l’occasione eccezionale di questo grande avvenimento d’arte ha accolto l’invito di scrivere per l’Orfeo una pagina d’impressioni e di osservazioni estetiche sulla Francesca da Rimini, nella quale non si sa se più ammirare la forma smagliante o l’acutezza e l’originalità della disamina di tutto lo spartito, riuscita severa e serena ad un tempo – facciamo seguire qualche breve nota di cronaca.

La sala del Costanzi era sfolgorante, ricolma di pubblico magnifico e imponente: non un posto vuoto. Nelle alte gallerie una vera moltitudine; nel parterre e nei palchi tutto l’olimpo dell’aristocrazia, della politica, della letteratura. In un palco di seconda fila si notava il Presidente del Consiglio con la famiglia.

Ogni atto si chiuse fra applausi, acclamazioni entusiastiche. Fin dal primo atto, col finale così suggestivo, si delineò il successo schietto e imponente, senza che una voce discorde fosse sorta ad attenuare l’unanime consenso.

[«]Bisogna risalire – scrive T. O. Cesardi – nei fasti del Costanzi a venticinque anni addietro, alla prima rappresentazione di Cavalleria rusticana, per trovare un termine di confronto al successo unanime, sincero, profondo di quest’opera di Riccardo Zandonai.

Sì, unanime, perché tutto il pubblico è stato avvinto, preso, dominato dall’alta poesia del dramma musicale, e trasportato come in un’atmosfera di sogno e d’ideale: sincero perché l’applauso prorompente veniva da ogni ordine di palchi, da ogni ordine di cittadini, da tutto insieme un pubblico commosso e maravigliato, e profondo altresì perché l’impressione che ognuno ha risentito da questa nobile manifestazione d’arte è di quelle che non si cancellano perché segnano un solco nell’anima[»].

La Francesca da Rimini del maestro Zandonai segna dunque una data memorabile nella storia del teatro d’opera italiano, tanto il nuovo melodramma ha una forma espressiva di carattere singolare e originale e una profonda e immediata significazione umana.

Ogni pagina, ogni episodio, diremmo quasi ogni nota, ebbe il suo risalto e suscitò quella somma di emozioni che sogliono rimanere incancellabili nella memoria e nella fantasia degli spettatori. Sicché alla fine dello spettacolo, chiusosi con una ovazione magnifica, in una calda esplosione d’entusiasmo, in una di quelle manifestazioni di solenne apoteosi, rimase in quanti vi parteciparono l’impressione di aver consacrato alla popolarità, e definitivamente, un altro giovane musicista italiano, del quale le prime prove come il Grillo del focolare, Conchita e Melenis facevano presagire la odierna e grande vittoria.

E dopo l’illustre compositore sia reso omaggio all’animatore dello spettacolo, a Edoardo Vitale, a cui dovette riuscir caro, insieme alle feste tributategli dal pubblico in una forma così

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solenne quale da tempo immemorabile non si aveva esempio, il giudizio del comm. Tito Ricordi, il quale – dopo la prova generale – ebbe a significargli tutto il suo pieno consentimento per la mirabile e impeccabile concertazione. Fu quella di Edoardo Vitale una nobile fatica, cui soccorse, oltre il vivido ingegno, una sensibilità squisita, un gusto aristocratico e una fraterna solidarietà per il giovane musicista. L’orchestra parve trovare tutte le sue voci, tutti i suoi slanci, tutte le sue più dolci sfumature, in un’armonia e in una precisione ritmica, come dalle canne di un organo perfetto. Il maestro Vitale comprese e intese così profondamente il poema d’annunziano e la musica dello Zandonai, che le mille imagini, le multiformi figurazioni, i disparati stati d’animo ebbero una vivida rappresentazione, con magnificenza di contrasti e varietà di colori. Avendo dinanzi a sé una partitura complessa e meravigliosa per polifonia e per spunti melodici di carattere schiettamente italiano, l’eminente direttore volle esserne l’interprete severo e geniale, l’animatore sicuro e profondo. E il pubblico lo volle nelle venticinque chiamate al proscenio, a fine d’ogni atto, accanto a Riccardo Zandonai, come per significare la stretta indissolubile intimità tra il creatore e chi diede forma e anima espressiva alla Francesca da Rimini. Ogni applauso a Edoardo Vitale era un saluto e un omaggio incondizionato, un tributo d’onore e di stima, una prova di non comune simpatia.

Rosa Raisa fu una protagonista come non crediamo possa trovare emulazioni: una Francesca compiuta in atteggiamenti poetici e patetici e dalla voce morbida, suggestiva, ampia, sicura, educata a quella scuola della Marchisio da cui uscirono tante insigni cantatrici. Pel suo temperamento versatile, privilegiato, squisito, ella cantò con nobiltà e con quel sentimento ch’è tanta parte dello stile di una musica.

Il tenore Pertile, un Paolo di “stile” quale D’Annunzio lo scolpì nel poema, fraseggiò con arte deliziosa, con purezza d’accento, con impeccabile intonazione; e cantò con voce limpida e squillante, così che i suoi acuti ebbero un risalto magnifico. Egli è, oltre che cantante magnifico, sicuro, vigoroso, interprete sovrano, signore nelle figurazioni sceniche, campione del bel canto.

Il baritono Danise, un artista che in questa stagione al Costanzi ha dato la prova di quanto valga un vigoroso temperamento accoppiato a una bella voce, a traverso opere di carattere l’una diversa dall’altra, fu un Gianciotto caratteristico. Nel quarto atto, nella scena con Malatestino, ebbe momenti truci e spiccatamente drammatici, a cui il canto, irto di difficoltà e profuso di note acutissime, accrebbe significazione.

Tutti gli altri cantarono con slancio e sicurezza: Flora Perini, che cantò con la sua armoniosa calda voce di mezzo soprano, la Matteini, una Samaritana piena di dolore, di gentilezza, il Berardi, che cantò con la sua bella voce di basso, il Gironi, la Verger, il Nardino [sic] caratteristico Malatestino, la Galeffi, la Seracchioli, la Manarini, il Lanzi, il Sabatano e il Pastorelli.

La mesa in scena fu curata in tutti i suoi dettagli: una vera opera d’arte: vi presiedette con quell’autorità che ormai gli è universalmente riconosciuta il cavaliere Carlo Clausetti, venuto espressamente da Milano.

La Casa Ricordi, oltre che dal Clausetti, era rappresentata dal comm. Tito Ricordi. E infine una parola di lode incondizionata all’illustre signora Emma Carelli, che è riuscita

a porre in scena la Francesca con vera munificenza.

64 “Francesca da Rimini” di Zandonai al Costanzi, «Musica» IX/6, 15.3.1915 - p. 1, col. 4 / p. 2, col. 1-2 (con un ovale raffigurante Rosa Raisa)

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La nuova opera di Riccardo Zandonai, preceduta da due altri successi a Torino e a Pesaro,

ha dato occasione al nostro pubblico di mostrare le sue simpatie e il suo gusto, sicuramente ed altamente, verso un tipo di melodramma che non è lo straussiano, non è il debussiano, ma è l’italiano, il tradizionale italiano che va da Monteverdi a Verdi. La Francesca di d’Annunzio e di Zandonai è una schietta manifestazione d’italianità, con i suoi mezzi e meriti gloriosi, con i suoi pregi e difetti irreducibili: una manifestazione che proviene dal vecchio ceppo, ma che nel nascere, crescere e maturare è andata raccogliendo quegli elementi di necessario progresso che la rendono vigorosa, efflorescente, vitalissima. Tali manifestazioni il maestro trentino ha sempre dato dal Grillo del focolare e prima ancora con i suoi nostalgici poemetti lirici; ma esse non erano compiute ed integrate da un dramma umano e da una poesia smagliante come questa di Gabriele d’Annunzio. Il quale, più che con gli altri poemi tragici da teatro, con la Francesca ha fatto opera musicale e musicabile. Senonché il penetrare e riprodurre ed esaltare la musicalità più che di verso di sentimento dannunziano non era compito lieve, e averlo assolto, anzi superato – come non è accaduto alla frigidità del Franchetti e al disequilibrio (sebben talora geniale) del Mascagni – è titolo encomiabile di Riccardo Zandonai.

Non esamineremo l’opera musicale segnalando le bellezze del canto, le intenzioni e la dovizia della strumentazione, e anche la caducità e qualche concessione al cattivo gusto: è già stato fatto largamente dalla loquacità dei quotidiani. Diremo solo e a mo’ di conclusione che oggi, così stanti i valori musicali, Zandonai raccoglie tutte le eredità della nostra grande opera ed agita solo, nel suo pugno, la fiaccola che riprende e continua il cammino vittorioso della genialità latina.

*** La esecuzione è stata nel complesso efficace, in grazia del consueto amore ed acume col

quale concerta e dirige Edoardo Vitale: la protagonista Rosa Raisa ha prodigato, affermandosi artista di primissimo ordine, tutta la sua dolce voce e la sua azione scenica, e gli altri han tutti sentito la varia importanza della parte.

65 f[ranco] rain[eri], “Francesca da Rimini” di Zandonai al Costanzi, «Il Giornale d’Italia», 29.3.1916 - p. 3, col. 5

Quante volte è accaduto ad un’opera nuova di tornare appena a un anno di distanza su le

stesse scene, desideratissima, e – meglio ancora – di ritrovarvi più calde, più unanimi, più commosse le già magnifiche accoglienze che la salutarono un anno prima al suo apparire? Questa è stata – né più né meno – la sorte della Francesca da Rimini, la quale ieri sera, in virtù della sua meravigliosa avvincente bellezza e di una esecuzione quanto mai efficace, ha conseguito nuovamente, e per decreto concorde della folla adunata in teatro, un autentico grande successo.

Qui, registrando con sincero compiacimento le fortune sempre più vaste ed ormai incontestate della splendida opera di Zandonai, saremmo tentati di ricordare che le nostre previsioni d’un anno fa erano giuste: Francesca, scrivemmo, è piaciuta, ma più e meglio piacerà quando il pubblico, scendendo dal seggio riservato ai giudici togati, si lascierà persuadere dalla sottile e penetrante malìa di quella musica passionale e geniale, dalla potenza di quella tragedia dannunziana che nulla invidia ai greci, dal fascino di poesia e d’umanità, infine, che la tragedia musicale così com’è stata espressa dal Zandonai emana e che la

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circonda della luce propria ai capolavori. Era questa, per chi avesse già goduta l’avventurata sorte d’intuire le bellezze della meravigliosa creatura, una facile profezia. E il voto, formato l’anno scorso da una gran parte degli spettatori, di riavere presto Francesca era già un segno di ciò che iersera s’è avverato: il pubblico, sceso di cattedra, è divenuto, qual è, un’accolita di persone mortali dotate d’un’anima semplice e d’un cervello ben coltivato, accessibili ai più elevati sentimenti che l’arte possa suscitare, pronte ed anzi desiderose, innanzi all’opera celebrata [e] seppur deferentemente discussa da critici e da musicisti, di riacquistar fede nell’asserita rinascita del melodramma nostro, italiano e genuino, vissuto dalla voce umana e sorretto e colorito dalla sinfonia orchestrale. Ridotto alla sua più nobile e più propria funzione, il pubblico iersera ha tratto – come l’unanime entusiastico consenso degli applausi e dei commenti dimostrava chiaro – godimenti artistici rari intensi profondi dall’opera migliore del genialissimo musicista trentino: e l’opera, dalla serata trionfale di ieri, si è elevata, nella impressione comune, alle maggiori altezze che oggi siano concesse in teatro. Appunto ieri l’altro, a proposito di Primavera in Val di Sole, la suite sinfonica del Zandonai rieseguita domenica scorsa all’Augusteo, preferivamo esprimere la nostra fiducia nel “uomo teatrale” per eccellenza: Francesca è sopraggiunta subito a confermare quanto quella fiducia sia ben fondata. E l’arditezza di quest’uomo teatrale, che innestando nel vecchio ma vivo tronco del melodramma italico il sangue giovane ed ardente dell’arte sua nobilissima ed austera ma tutta moderna e palpitante, ha aperto alle nostre speranze una vita nuova, ha assunto nelle valide sue mani la riaccesa fiaccola della tradizione evoluta e trasformata, e proseguendo con cosciente baldanza nel cammino sul quale già illustri maestri nostri han tanto progredito in questi ultimi tempi, sta compiendo felicemente la non facile impresa d’elevare e nobilitare e rinvigorire il gusto del pubblico, del “popolo teatrale”, insomma, di verdiana e gloriosa memoria.

Dell’esecuzione di iersera abbiam già detto che fu mirabile: di essa il merito precipuo, oltre che all’illustre maestro Vitale il quale a Francesca ha votato con vera anima d’artista un vivo amore e riesce a trasfonderlo in tutti gli elementi dello spettacolo, oltre che – insomma – al direttore incomparabile, venne riconosciuto a Rosa Raisa, protagonista superba e magnifica per la bellezza della voce e il vigore dell’espressione scenica. Ella fu, iersera, una vera trionfatrice e il pubblico volle tributarle le più affettuose manifestazioni di incondizionata ammirazione.

Eccellenti compagni le furono, per ogni riguardo, il tenore Pertile e il baritono Rimini, quest’ultimo nuovo per Roma nella parte di Gianciotto; efficacissimo parve il Nardi nella parte del perfido Malatestino. Lodevoli le parti minori e cioè la Morano, la Lauri, la Martino, la Caravaglia [sic]; il Paci. Splendido l’allestimento.

Si tentò iersera una novità: al terzo atto, nella “canzone a ballo” ch’esalta l’avvento della primavera, dovrebbero le ancelle di Francesca danzare mentre cantano; e invece esse iersera si limitarono a cantare, mentre Erminia Gerla, la leggiadra aggraziatissima danzatrice, e quattro sue compagne componevano vaghi quadri d’una delicatezza e d’un gusto squisiti che ricordavano, senza copiarli, i capolavori pittorici del nostro Quattrocento. La novità merita ogni più ampia lode perché oltre tutto le cantatrici, libere dalla preoccupazione della danza, cantarono meglio e le danzatrici danzarono ch’era un piacere a vederle.

Francesca da Rimini, riconsacrata quest’anno dal più completo e più meritato dei successi, avrà numerose repliche.

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A[lberto] G[asco], “Francesca da Rimini” al Teatro Costanzi, «La Tribuna», 30.3.1916 - p. 3, col. 1

La Francesca da Rimini, apparsa fulgidamente al “Costanzi” un anno fa, aveva lasciato di

sé vivo desiderio. I molti schietti ammiratori della magnifica tragedia dannunziana vestita da Riccardo Zandonai di musica spesso melodiosa e sempre ben colorita, vagheggiavano il ritorno dell’opera prediletta. Il loro voto è stato felicemente soddisfatto. Francesca si è ripresentata col marito sciancato e con l’amante bellissimo su quel palcoscenico romano che già era stato per lei un vittorioso agone. E il nuovo saluto rivolto alla gentile dama dai suoi fedeli ha avuto un carattere di affettuosità assai particolare. Ogni atto del dramma lirico si è chiuso fra applausi più o meno calorosi, ma sempre ispirati a simpatia profonda.

I consensi sono stati unanimi riguardo al delicato episodio finale del primo atto – la gemma della partitura – e al terzo episodio che termina con la fatale lettura del libro erotico. Il secondo quadro invece ha lasciato un po’ freddo l’uditorio ed anche la prima parte dell’ultimo atto non ha sedotto il pubblico. Ma alla fine dell’opera l’ovazione rivolta agli interpreti ed al valoroso Vitale ha sanzionato il successo dell’importante e piacente lavoro.

Non possiamo che accogliere il giudizio dettagliato espresso dal pubblico: è un giudizio saggio e ponderato. Le parti migliori dell’opera sono effettivamente quelle in cui predomina una nota di mite elegia. Per quanto egli ami grossir sa voix e scatenare bufere orchestrali clamorose, Riccardo Zandonai ci sembra sincero soltanto quando canta con semplice e fluida melodia le soavi pene d’amore di una creatura eletta e il fascino sottile di una snervante primavera. Egli appartiene alla famiglia dei Catalani e dei Puccini: anzi, precisamente come Puccini talora usa violenza al proprio stile, indugiando nella descrizione di scene torve che nell’anima sua di sentimentale poeta non possono dare eccitazione feconda. Malgrado la scena della tortura di Tosca e le risse violente della Fanciulla del West, il vero Puccini si trova soltanto nel tenero addio di Mimì e di Rodolfo; malgrado gli urli degli armigeri malatestiani che rendono corrusco il secondo atto della Francesca, Riccardo Zandonai si svela a noi per intero soltanto quando dà a una “viola pomposa” una melodia nella quale la dolcezza alquanto melanconica di un crepuscolo amoroso è magicamente espressa.

L’atto della fragorosissima battaglia non solo è povero di musica realmente sentita e originale ma grava come un esorbitante carico di zavorra su la nave infiorata e armoniosa. È un vero peccato ch’esso non possa venire soppresso.

Basta: le impressioni del pubblico e le nostre su questa Francesca sono perfettamente concordanti e perciò non occorre insistere troppo in proposito. Si tratta di un’opera non ugualmente felice in ogni sua parte, non riboccante di ampie idee musicali ma, nell’insieme, attraente, nobile e composta con infallibile intuito teatrale: un’opera – insomma – che merita alti encomi e che la critica ha il dovere di collocare tra le migliori manifestazioni artistiche della giovane scuola italiana.

Lieti del successo iersera decretato alla Francesca dal pubblico più elegante di Roma, riconosciamo che non piccola parte di esso si deve all’interpretazione squisita degli artisti e alla vigorosa direzione del maestro Edoardo Vitale. La signorina Rosa Raisa ha superato se stessa – è tutto dire! – nella grande scena d’amore dell’atto terzo. Il suo canto così pieno di malìe ha indotto a commozione tutti gli ascoltatori. Quanta grazia in ogni gesto di questa artista incomparabile ma pervenuta a celebrità dopo appena tre anni di carriera teatrale. Noi non riusciamo ad immaginare una “Francesca” diversa da lei. Alla Raisa iersera il pubblico rivolse approvazioni entusiastiche. Ella trionfò come una regina ammirata ed amata.

Eccellente “Paolo” il tenore Aureliano Pertile, artista stimatissimo per robustezza dei mezzi vocali e il calore passionale dell’accento. Il Pertile, insieme con la Raisa, ebbe i primi

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onori. Quanto al baritono Rimini, possiamo affermare che la sua interpretazione del personaggio di “Gianciotto” abbia ottenuto lodi incondizionate; ottimo “Malatesta” [sic] il tenore Nardi, a noi già da tempo favorevolmente noto.

La parte di “Samaritana” ebbe dalla signorina Morano tutto il desiderabile rilievo e la Zinetti seppe essere una garbata “Smaragdi”. La canzone delle ancelle di “Francesca” fu resa dalle signorine Martino, Lauri, Torelli e Garavaglia in modo delizioso.

I cori del Costanzi si dimostrarono all’altezza della loro fama; ricca e di buon gusto la messa in scena. Uno spettacolo dunque di pregio elevato, la cui fortuna presso il gran pubblico appare sin d’ora sicura.

67 Bruno Barilli, La “Francesca da Rimini” di Riccardo Zandonai al Teatro Costanzi, «La Concordia», 30.3.1916 - p. 3, col. 4-5

La réprise della fascinosa Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai al nostro Costanzi ha

segnato un nuovo grande memorabile trionfo per il geniale maestro trentino. Nella sala sfolgorante, prima che Edoardo Vitale salisse al suo posto di battaglia e di

vittoria, era il fremito dell’attesa; dell’attesa calda, fervida di alcune ore di oblio, di bellezza, di gioia; dell’attesa che ci arde l’anima nell’imminenza di rivedere una creatura amata. E quando Francesca apparve ai nostri occhi mortali nelle non mortali forme di Rosa Raisa, ci sentimmo presi nel cerchio d’amore che Riccardo Zandonai seppe foggiare nel raro metallo della sua ispirazione, del suo fervore d’arte e della sua sapienza.

Non vogliamo qui riesaminare con critica meticolosità l’ultima opera dello Zandonai, che porta ormai impresso l’indelebile suggello della fama.

Noi qui vogliamo soltanto con sincero cuore dare il tributo di calda ammirazione ch’egli merita a questo giovine che reca nuovi lauri al nome italiano; a questo singolare artista che a trentadue anni si gloria di cinque opere, tutte belle e vitali; che nel volgere di poche settimane diede qui, nell’eterna Roma, prova luminosissima di ciò ch’egli valga e possa, facendosi ammirare nei tre più disparati generi della produzione musicale che sia dato immaginare: musica religiosa10, sinfonica11 e teatrale: a questo grande figlio della nuova Italia, redenta con l’amore e col sangue.

L’esecuzione dell’opera insigne fu superiore ad ogni elogio; superiore sotto certi riguardi a quella della decorsa stagione. E non vi è in ciò da stupirsi.

Non è dato tutti i giorni, infatti, di trovare un’accolta di artisti del valore e della nobiltà di quelli che iersera impersonarono gli scultorei caratteri partoriti dal mito e dalla altissima fantasia di Gabriele D’Annunzio.

Rosa Raisa, Aureliano Pertile, il Rimini, il Nardi! Nomi che avranno in arte un’eco perenne; spiriti che seppero vivere, rivivere la tragedia mirabile con una evidenza impressionante.

La Raisa, a cui gli Dei consentirono i loro doni più rari, bellezza di volto e voce da meravigliare, celebrò iersera un altissimo trionfo. Con ineffabile soavità seppe rendere le ansie dell’anima amante del primo atto, così ricco di prodigiosa suggestione, così sottilmente languido e sensuale; seppe gridare la passione tumultuosa nell’atto secondo, mirabile prototipo di tragedia corale, pagina magnifica della partitura, purtroppo incompresa dal

10 Allude alla Messa da requiem in onore dei reali Savoia, eseguita al Pantheon il 14.3.1916. 11 Non si conoscono concerti sinfonici dati da Zandonai nel 1916.

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pubblico; fu immensamente grande nell’atto terzo, materiato di dolcezza, di voluttà e di frenesia; fu sublime nel quarto, così denso di contrasti, così profondo nell’esaltazione dell’Amore di donna mortale.

Degno compagno le fu il Pertile, la cui voce meravigliosa ha ancora acquistato in limpidezza e in forza. Attore corretto se non sempre disinvolto, dette della sua parte un’interpretazione dignitosa e armoniosa. Divise con la Raisa gli onori del memorabile trionfo. Scultoreo, imponente, tout-à-fait dans sa peau, il Rimini, baritono di grande stile, artista consumato, che della dura parte di “Gianciotto” seppe fare una vera creazione.

Parea balzato su da una mischia medievale; fortissimo cantante, raccolse anche egli larga mèsse di plausi e di allori. Prezioso cantante, genialissimo attore il Nardi (Malatestino) così caro al maestro Zandonai che giustamente ne apprezza le elette e rare qualità d’artista. Nella mirabile scena tra i fratelli all’inizio del quarto atto, squarcio drammatico che basterebbe da solo a dare la misura del singolare ingegno di Riccardo Zandonai, egli raggiunse non comuni altezze e fu freneticamente applaudito. Eccellenti il Paci (Ostasio), la signora Zinetti, deliziosa “Smaragdi”, la signorina Morano, soavissima “Samaritana”, le donne di Francesca (signore Lauri, Martino e Garavaglia), Arturo Pellegrino, ottimo giullare.

Maestro e donno fra cotali artisti Edoardo Vitale, che a questa novella esecuzione di Francesca dedicò tutto il suo fervore, tutta la sua sapienza e probità, fu evocato alla ribalta ad ogni fine d’atto fra applausi interminabili, doveroso tributo d’ammirazione, d’affetto e di stima per la sua infaticabile attività.

Belli gli scenari – gli stessi dell’anno scorso – e splendidi i costumi, specie quelli della Raisa, degni delle Mille e una notte; molto discussa e, secondo noi, a ragione condannata l’introduzione delle danzatrici nella canzone a ballo del terzo atto: stonatura di pessimo gusto, cacciata non si sa perché in un quadro di suprema bellezza.

Facciamo voti perché le cose tornino in pristino, come l’anno scorso. Numerose repliche avrà certo questa Francesca trionfale, che segna una data memoranda

nell’aureo libro dell’arte italiana.

68 d. o., Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai al Teatro Costanzi, «L’Idea nazionale», 30.3.1916 - p. 3, col. 4-5

Il felice successo che conseguì lo scorso anno quest’opera di Riccardo Zandonai iersera

ebbe a rinnovarsi: alcuni spettatori affermavano essa piacesse ancora di più: certamente piacque assai e i frequenti e caldi applausi assunsero quel carattere di convincimento che si riconosce subito e non inganna alcuno. Il destino dell’opera è dunque segnato e la Francesca del giovane maestro trentino è fra le poche contemporanee che sopravvivranno alla tumultuosa stagione dell’esordio? La cosa pare probabile, i lieti presagi cominciando ad avverarsi, quei lieti presagi innanzi ai quali si trovarono disarmati persino i critici che hanno fama di severità grande e invitta.

Qualche dubbio può far sorgere il secondo atto, quello del bellicoso episodio dell’alta torre, in cui il fragorosissimo motivo descrittivo della battaglia soffoca i partiti drammatici e passionali e necessari all’azione: il dramma è nello sfondo e non nella prima linea, o almeno i due drammi, il principale e il sussidiario, non sono così fusi come dovrebbero essere: la musica poteva forse correggere e superare l’errore evidente della tragedia ed è da supporre che il senso teatrale di Giuseppe Verdi avrebbe risoluto l’arduo quesito. E ancora, dopo l’ammirabile scena d’amore colla quale si chiude il terzo atto, il dramma musicale scema di

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pregio, cioè è sempre pieno di vita e robusta, ma non dice più quello che aveva detto “la pietà dei due cognati”. Pare che Dante vieti eternamente di procedere oltre, dopo che scrisse:

Quel giorno più non vi leggemmo avante. Tuttavia il Zandonai volle mostrarsi scrupolosamente fedele al poema del d’Annunzio e la

sua è stata definita, e con perfetta giustizia, un’opera dannunziana, un’interpretazione di quello ch’era l’arte del nostro poeta allorché concepì ed espresse la Francesca, interpretazione che si rivela nell’elegantissimo e profondo e melanconico sensualismo di queste note, nella cura paziente d’ogni elemento di descrizione, nell’affetto a ogni particolare, nell’analisi instancabile da cui risulta la ricchezza del quadro, in quel tanto di prezioso, di raffinato, di esteticamente compiuto che pare attenui la sanguigna violenza delle persone e del tempo evocato in un’atmosfera di bellezza. Quest’aria si respira negli istanti salienti del dramma musicale: la fine del prim’atto ch’è incantevole, la scena d’amore del terzo che ha reale potenza dominatrice. Ed è vano dire che questa non è quella di Dante; lasciamo Dante da parte; la Francesca che qui si vede non è la Francesca di Dante, è un’altra donna, ed è altra cosa la scena che narrano le quattro immortali terzine del quarto [sic] canto dell’«Inferno». Dimentichiamo: dimentichiamo persino che lo spunto di questo momento drammatico è nella Divina Commedia. Consideriamo questi due innamorati, che non sono nemmeno più due colpevoli, quasi si presentassero a noi per la prima volta: quanta tenerezza e che fremito di desiderio non disegna e non canta la nuova musica e con quale dolcezza e con quale passione le voci non s’alternano e non cospirano e come l’orchestra le seconda e le colorisce!

Questa se non è la scena dantesca è veramente la scena del d’Annunzio, elevata alla potenza massima: questo è il dramma musicale del tempo nostro, una schietta cooperazione, geniale talvolta, come nel caso nostro, e pertanto dobbiamo fissarne anzitutto il tipo artistico, diciamo pure letterario, rinfrescando l’antico precetto: omnes artes cognatione quadam inter se continuantur.

Rosa Raisa, in tutto il fulgore della sua giovane bellezza slava, riebbe il trionfo con quale di già fu salutata quando la canora Francesca cominciò a vivere fra noi: alla fresca sua voce, al suo magnifico accento ch’è veramente quello di questa musica declamata, si raccomanda in grande parte la fortuna dell’opera, il cui valore ella intende mercé la forte intelligenza e la rara squisitezza dell’anima.

Esagererei se dicessi che gli altri interpreti sono di tempra eguale, tuttavia sarei anche ingiusto se negassi al tenore Pertile e al baritono Rimini il contributo che hanno recato a questa prima salda confermazione dell’opera vittoriosa: il canto del Pertile e il vigore drammatico del Rimini parvero e sono degni di encomio. Così col maestro Vitale loderò l’orchestra e gl’interpreti delle parti minori: il Nardi, selvaggio Malatestino, e la Martino, la Lauri, la Garavaglia, la Torelli, la Zinetti, ch’erano le ancelle, buone cantatrici e donne graziose.

Il pubblico fu contento, anche s’era occupato da pensieri maggiori, ché le notizie le quali giungevano dal campo sotto Gorizia lo richiamavano ad altra realtà: tuttavia plaudendo al d’Annunzio e al Zandonai, al poeta-soldato e ferito [e] al maestro che oggi rappresenta pel suo ingegno italiano e per le speranze che suscita la patria comune, gli spettatori erano sempre nel glorioso e tragico clima della guerra liberatrice.

69 “Francesca da Rimini” del M. Zandonai al “Costanzi”, «Il Popolo romano», 30.3.1916 - p. 2, col. 3

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La Francesca da Rimini del m. Zandonai era attesa e desiderata. Oramai l’opera si è solidamente affermata tra le più significative e vitali apparse in questi

ultimi anni ed ha ammiratori numerosi e ferventi: sì che cotesta ripresa costituì un successo largo e spontaneo, decretato da un uditorio folto ed elegantissimo.

L’esecuzione fu impeccabile. I due maggiori interpreti erano gli stessi, ammiratissimi, dello scorso anno: la signorina

Raisa e il tenore Pertile, ed a loro spettarono le maggiori feste. Rosa Raisa, insuperata creatrice del personaggio della protagonista, destò ancora una volta

grande ammirazione. La bellezza della voce si completa con una interpretazione scenica delle più felici. Ell’è una Francesca deliziosa, volta a volta illanguidita di melanconia o ingenuamente soave o vibrante di passione, ma sempre personale, sempre efficacissima.

Accanto alla signorina Raisa trionfò Aureliano Pertile, l’acclamato tenore salito rapidamente a grande rinomanza. Il Pertile, che in questa stagione ha avuto largo campo di sfoggiare le sue ottime qualità interpretando con grande successo parecchie opere, riportò il più lusinghiero giudizio nella parte di Paolo, che è uno dei suoi cavalli di battaglia.

Egli è cantante di grandi mezzi, che sa tuttavia disciplinare con una ottima scuola, tanto da potere ottenere bellissimi effetti così nel declamato drammatico come nel canto piano, susurrato a mezza voce, colorito ed animato di commosso sentimento.

Il geniale artista, seguito dal pubblico con costante interesse, ebbe lunghi e meritati applausi.

Il racconto del terzo atto gli valse speciali feste, che si rinnovarono calorosamente al chiudersi del velario, dopo lo squisito duetto d’amore.

Il Rimini, e vocalmente e scenicamente risultò un ottimo Gianciotto, come il Nardi fu un caratteristico Malatestino.

La signora Zinetti seppe farsi ammirare nella parte di Smaragdi, e la signorina Morano rese con grazia quella di Samaritana.

Le donne di Francesca formarono una fresca e simpatica corona. Ricordiamo le signore Martino, Lauri, Garavaglia e Torelli.

Lo spettacolo fu guidato con altissimo intelletto d’amore dal m. Vitale, il quale a questo nuovo vittorioso cimento ha dato tutto il fervore della sua anima d’artista. Il pubblico volle esprimere al maestro illustre la propria ammirazione e lo evocò numerose volte alla ribalta tra scroscianti applausi.

Magnifico l’allestimento scenico e bene affiatate le masse. Nell’odierna riproduzione abbiamo notato due piccole novità, entrambe discutibili. L’una,

quei quattro trombettieri che nell’infuriare della battaglia si presentano col loro bravo passo di musica applicato sulle trombe come se si trattasse di una parata, e l’altro la visione coreografica nel terzo atto la quale, pure essendo eseguita benissimo, svisa nondimeno tutto il carattere della canzone a ballo che deve essere svolta con gaia semplicità dalle donne di Francesca, e in tutti i casi mai con quei costumi non rispondenti al tempo né all’ambiente.

[...]

70 g[iuseppe] m[aria] v[iti], “Francesca da Rimini” al “Costanzi”, «La Vittoria», 29-30.3.1916 - p. 2, col. 5

Le “prime” – prima nella stagione – si seguono e s’inseguono al Costanzi con un ritmo

disperato. Non si ha tempo di assaporare una Manon che l’altra viene a darle lo sgambetto:

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non appena Puccini crede di aver messo radici nel repertorio ecco che il glorioso Verdi gli contende... la percentuale. Ma nemmeno Verdi può dormire tranquillo. Fra l’Aida e l’Otello, Zandonai ha fatto capolino. Un saluto di sfuggita: il tempo di stringergli la mano per esprimergli ancora una volta la nostra ammirazione per il suo nobile sforzo di innestare sulle grandi e innegabili conquiste fatte dai genii autentici d’oltralpe – in fatto di polifonia e di colorito musicale – il buon ramo della melodia di nostra razza. L’innesto Zandonai ha verzicato che è un piacere. I germogli hanno una soavità primaverile che innamora. Si presenta la fioritura. Lasciate che questa terribile tormenta della guerra si dilegui, lasciate che ritorni un poco di calma nell’atmosfera, e il roseto non tarderà a dare le sue più rosse rose. Del resto, il tenero verde dei germogli ci piacque pur ieri: ci piacque ancora. Segno buono.

Ci sono delle opere che dopo due anni dalla nascita portano rughe nauseose. Non è la veneranda vecchiaia: è il decadimento brutale per libertinaggio senza amore.

La Francesca da Rimini di Zandonai non ha altre rughe che quelle prodotte dalla meditazione profonda sulle giovani fronti pensose. La meditazione profonda: ecco già un buon correttivo per il ramo troppo selvaggio della melodia nostrana. La sorveglianza severa sulle sorgenti abbondantissime delle melodie nostrane: ecco già un innesto di sicura riuscita. Bastò questa disciplina su sé medesimo perché Giuseppe Verdi potesse giungere al capolavoro perfetto di Aida, di Falstaff, di Otello.

Ma i giovani hanno voluto tentare un altro correttivo: le applicazioni su vasta scala delle nuove conquiste nel campo della tecnica musicale. Non hanno avuto torto. Zandonai ne ha dato, ripeto, una prova luminosa con questa Francesca che il pubblico ha apprezzato fin dal suo primo apparire e apprezza e ama e, in fondo, predilige ancora oggi.

Ieri sera, per questa réprise, il miglior pubblico di Roma s’era dato convegno al Costanzi per applaudire il giovane maestro, mirabilmente servito (servire è un verbo che qui va preso nella sua migliore e più religiosa accezione: è il servire di Kundry) dai suoi interpreti.

I quali, ad eccezione del baritono Rimini, erano poi quelli che già udimmo lo scorso anno su queste stesse scene, con lo stesso identico piacere.

La parte della protagonista è stata ancora una volta affidata a Rosa Raisa. L’altr’anno ella fu una rivelazione: quest’anno ella non ci fece pentire delle nostre lodi osannanti. C’è sempre pericolo di cadere sull’iperbole quando ci si trova dinnanzi a un fatto nuovo. Non poche “montature” trovano la loro spiegazione in questa psicologia della critica. Rosa Raisa ha rinnovato in noi la fresca meraviglia.

Gli è che la Raisa ha delle qualità essenziali: ha una voce che può contare fra le più belle del nostro teatro lirico. Nulla le manca: limpidezza, espressione, ampiezza. Il gesto, forse, è ancora un poco troppo stilizzato. Nell’Aida ella rievoca una figura di Mestrovic. Ieri sera nella Francesca ella ebbe la rigidezza d’una figura preraffaellita.

Del resto, il leggendario personaggio del dugento può bene sopportare una riproduzione scenica squisitamente arcaica.

Il tenore, Aureliano Pertile, è un cantante correttissimo. Egli sa animare con un soffio di passione travolgente il suo “ruolo” d’ardore. A volte, col canto e col gesto egli seppe trascendere i limiti della figura umana di Paolo. Seppe essere l’Amore irresistibile: il fato d’amore. Fu un’ondata di soavità avvolgente.

Il baritono Rimini è stato magnifico nella parte di Gianciotto, in cui egli ha prodigato le sue qualità di cantante e di interprete.

Efficacissimo il Nardi che fu tutto ferocia e perversità. Qualche suo accento ci agghiacciò. Tutte le altre parti furono “tenute” a meraviglia. Vitale fu, come al solito, un collaboratore fraterno di Zandonai.

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71

[Giuseppe Maria] Viti, “Francesca da Rimini” de M. Zandonai au Costanzi, «L’Italie», 30.3.1916 - p. 5, col. 2

Les premières – premières dans cette saison lyrique – se suivent et se poursuivent d’un

rythme désespéré. Une des deus Manon chasse l’autre et tous les deux se font flanquer à la porte par un opéra de Verdi, qui à son tour est vaincu par un autre opéra de Verdi. Mais l’Immortel Chantre ne réussit pas non-plus à rester maître du camp.

Entre Aida et Othello, M. Zandonai fait son apparition: le temps de se faire applaudir par ses admirateurs enthousiastes, qui sont déjà une légion. Désormais M. Zandonai est au nombre des personnalités les plus marquantes du monde musical. Il a droit de cité dans l’Olympe artistique: dans cette partie de l’Olympe, du moins, où habitent les Muses Lyriques.

C’est pourquoi le public d’élite, habitué des premières romaines, s’était donné rendez-vous, hier soir, au Costanzi, pour la première de Francesca da Rimini.

Nous avons déjà eu l’occasion de parler de la valeur esthétique et musicale de cette œuvre remarquable lors de ses représentations à Rome, l’an dernier. Nous nous contenterons donc de faire la chronique de cette soirée exceptionnel qui a confirmé les succès déjà obtenus par le drama de MM. d’Annunzio et Zandonai.

Le rôle de la protagoniste avait été confié, encore une fois, à Mlle Rosa Raisa. L’année dernière elle fut une révélation pour le public. Hier elle ne nous fit pas repentir de nos applaudissements enthousiastes. Lorsqu'on fait nous éblouit pour la première fois, nous risquons presque toujours d’exagérer nos impressions admiratives. Nombre d’emballements n’ont d’autre source que dans cette psychologie collective. Or, Mlle Raisa, hier soir, nous a ravi tout comme l’année dernière. la charmante artiste a une voix qui peut compter parmi les plus belles: rien ne lui manque: limpidité, harmonie, ampleur, justesse, expression, école impeccable, viennent s’ajouter à un jeu parfait et à une élégance et une grâce exquises. Peut-être son geste est-il quelquefois un peu stylisé. Dans le rôle d’Aida elle nous rappellait Mestrovic. Dans le rôle de Francesca elle évoquait quelques tableaux de préraphaélite. D’ailleurs le personnage légendaire qu'elle incarnait pouvait bien supporter la stylisation si chère aux peintres primitifs. Mlle Raisa est bien en tout cas l’héroïne légendaire telle que nous nous l’imaginons el te public, qui a compris encore une fois qu'il se trouvait en présence d’une grande artiste, le lui a prouvé par ses ovations enthousiastes.

Le ténor, M. Aureliano Pertile, est un chanteur des plus corrects, qui a animé d’un souffle de passion ardente le rôle plein de difficultés de Paolo. Il a remporté le même succès que l’an dernier, dans ce même rôle.

M. Rimini a été excellent dans le rôle de Gianciotto, où il a prodigué ses grandes qualités de chanteur et d’interprète.

Mlle Morano a été une exquise Samaritana et ella a brillamment surmonté toutes les difficultés techniques dont son rôle est [ ]mé.

M. Leone Paci a été très apprécié dans le rôle d’Ostasio, ainsi que Mme Zinetti dans celui de Smaragdi et M. Nardi dans celui de Malatestino. Un bon point aux “donne” de Francesca que le public a fort admirés.

La mise en scène était splendide, les chœurs excellents. Le maestro Vitale a dirigé l’orchestre avec beaucoup d’entrain et de virtuosité. Il a été un

collaborateur fraternel de M. Zandonai.

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72 f. c., La stagione al Costanzi, «Musica» X/7, 10.4.1916 - p. 3, col. 1

[...] È andata poi in scena la Francesca da Rimini di Zandonai, non troppo desiderata dopo

questa edizione, che è peggiore di quella dell’anno scorso. Valenti interpreti ne sono stati la Raisa e il Rimini, sempre a posto nelle parti selvaggie e violente. Non così il Pertile il cui timbro di voce non si adatta all’alto e talvolta possente lirismo dell’amante infelice. Le masse, corale e orchestrale, che ben conoscono dopo i cimenti di un anno fa la difficile partitura dello Zandonai, hanno assolto egregiamente al loro compito sotto la esperta direzione del maestro Vitale

[...]

73 “Francesca” e R. Zandonai al Costanzi, «Il Giornale d’Italia», 25.12.1921

L’inaugurazione della stagione lirica al “Costanzi” avverrà dunque lunedì prossimo alle

20.30 precise, nella sera tradizionale di Santo Stefano, con la Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai, opera che è tra le più acclamate di questi ultimi tempi e che per la bellezza della concezione artistica e l’ampiezza delle sue linee teatrali costituisce uno spettacolo di grande attrattiva.

La scelta di quest’opera, così italiana nella musica, il soggetto stesso, i nomi degli autori – Riccardo Zandonai, nativo di Rovereto ora redenta e di Gabriele d’Annunzio che ideò la magnifica tragedia – daranno all’inaugurazione quel carattere d’italianità che era da tante parti invocato: poiché, mentre nei teatri dell’estero si fa ora un’aspra guerra ad opere ed artisti nostri, è giusto che in Italia almeno avvenga la “valorizzazione” della produzione italiana. E l’inaugurare la grande stagione lirica della Capitale con la Francesca vuol dire consacrare anche davanti agli occhi degli stranieri la continua vitalità dell’opera italiana, che si rinnova ed assume, come appunto in Francesca, le forme più moderne senza divenire astrusa per il gran pubblico; e significa anche consacrare il nome del nuovo e genialissimo operista che viene, giovane, ad aggiungersi al gruppo famoso che fa capo a Pietro Mascagni, a Giacomo Puccini, a Umberto Giordano, al Cilea, al Montemezzi.

Valori d’arte e valori teatrali sono questi nomi, che molto significano all’estero. Se altri nomi, come questo di Riccardo Zandonai si aggiungono, ascriviamolo a fortuna. Ed è necessario che il massimo teatro della Capitale assuma anche questa funzione di utile propaganda, quando le circostanze lo consentano.

Così lunedì sera il pubblico di Roma saluterà sul podio del “Costanzi” Riccardo Zandonai – che si affermerà anche come direttore di singolari attitudini, del resto già rivelate altrove – subendo il fascino della sua musica; e saluterà in lui il giovane ed operoso artista vissuto finora lungi da ogni scalpore, solo intento al proprio lavoro.

E nel corso della stagione il pubblico di Roma, come già per quasi tutte le nuove opere dei nostri più amati ed acclamati autori viventi, fino al Trittico di Puccini, fino al Piccolo Marat, sarà chiamato giustamente a dare il primo giudizio sulla novissima opera dell’autore di Francesca, l’opera che s’intitola anch’essa italianamente alla nostra popolarissima ed affascinante leggenda di Giulietta e Romeo.

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74 R[affaello] De Rensis, “La Francesca da Rimini ” di Zandonai, «Il Messaggero», 28.12.1921 - p. 3, col. 4-5-6

All’inaugurazione solenne e austera dei concerti all’Augusteo è seguita l’inaugurazione

solenne e brillante del teatro Costanzi. Intorno all’uno e all’altro una fioritura rigogliosa di canti, suoni e balli, ovunque. Navighiamo in pieno oceano musicale e la nostra barchetta si lascia dolcemente trascinare dalle ondate incessanti. I tormenti della esistenza sociale, politica, intima, specie dopo il già troppo prolungato dopo guerra, sono stati investiti dalla marea musicale che li attenua, li annulla letificando animi, spiriti e corpi.

S’aggiunga che tanto l’Augusteo quanto il Costanzi, i due massimi istituti della vita artistica romana, hanno riaperti i loro battenti con lavori di autori nostri soddisfacendo un desiderio generale. Nulla di più logico, del resto, perché non si comprende la ragione di inaugurare, come si faceva per il passato sospinti da un falso snobismo, le nostre più cospicue cerimonie artistiche con il riconoscimento e l’esaltazione del genio altrui, quando di genio la nostra razza ne ha ancora da vendere. Né sostenendo e tutelando questo diritto dell’arte nostra, come noi abbiamo fatto in ogni occasione e da quando l’infatuazione esotica annebbiava le menti della generazione di cui facciamo parte, facevamo del conservatorismo servile dal quale, vivaddio, eravamo e siamo ancora lontani; ma si trattava di una sensibilità natìa (non usiamo a bella posta l’aggettivo nazionale o patriottico) ottusa nei più ed oggi per virtù reattiva decisamente trionfante.

In un giro non lungo di anni abbiamo avuto la fortuna di assistere alla nascita e al decadimento dell’anzidetta infatuazione esotica, col sano ritorno ad un sentimento di razza invano conculcato e rinnegato.

Per circostanze indipendenti da ogni volontà si stava per iniziare le rappresentazioni al Costanzi con i Maestri Cantori. Noi di quest’opera siamo ammiratori caldi e convinti, ma ci sarebbe immensamente dispiaciuto se avesse dovuto prendere il posto della Francesca di Zandonai, la quale, a parte ogni paragone non possibile, aveva il compito di caratterizzare la cerimonia inaugurale, appunto come l’ha caratterizzata e significata.

E poi, guardate un po’ com’è interessante la figura di questo nostro rude montanaro trentino: tozzo e quadrato, con l’occhio acuto e fisso verso un punto lontano, forse non percettibile, cammina calmo, sereno, senza soste, senza tornare indietro preoccupandosi appena quanto basta di ciò che avviene intorno a lui, guadagnando terreno, attingendo vertici; baldo e sicuro di giungere. Dove e quando, egli non lo sa e forse non vuol saperlo: sa soltanto che cammina diritto.

Guardate invece gli altri nostri maestri giovani e di eterne belle speranze: corrono e toccano un primo scalino, si arrestano, cadono, ricorrono e ricadono, esercitando questo loro acrobatismo sempre nello stesso cerchio... o circolo vizioso. E poi si piegano a destra e a manca, innanzi e indietro, cogliendo e raccattando la materia o gli elementi di materia per riempire la bisaccia e riversarla un bel giorno, in forma di note e accordi, sul paziente pentagramma. Vi sono altri maestri ancora che logorano il loro talento nella ricerca laboriosa del nuovissimo, lasciandosi abbagliare dai trovati senza dubbio geniali ma altrettanto personali e di natura eccezionale provenienti d’oltr’Alpe. Essi si tengono deliberatamente discosti dall’anima e dal canto del popolo e perciò partoriscono un’arte di eccezione e quindi di decadenza. Sono i cosiddetti avveniristi e internazionalisti, in buona o mala fede non importa, che si scalmanano per importare una merce ostica al nostro palato e che da venti anni (ormai l’esperimento dura da troppo tempo per insistervi) non ancora ottengono una sola vibrazione della psiche collettiva.

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Zandonai invece è della stirpe evoluzionista tipo immortale Verdi, e dal tenue romanticismo del Grillo del focolare alla passionalità luminosa di Conchita, dalla coreografia ellenica di Melenis alla tragica umanità di Francesca, è tutto un procedere verso la conquista dell’espressione, che a traverso un magistero tecnico indiscutibilmente formidabile deve accostare l’opera d’arte alla folla. E questo accostamento, questa penetrazione, avvengono lentamente, sicuramente. La personalità in germe, latente nelle prime opere, va man mano crescendo, fiorendo e diramandosi, e con Francesca quasi carpisce quella fiaccola del genio musicale italiano... che per buona ventura non è ancora spenta.

Zandonai, tra i suoi colleghi e coetanei di cui abbiamo fatto cenno, è il solo o quasi che della rinascita in Italia della musica strumentale – fenomeno importantissimo e nobilissimo – con tendenze decisamente e giustificatamente moderniste (perché nessuno oggi s’azzarda più a sostenere che si debba retrocedere nel passato) abbia saputo profittare con senso squisito di misura e di equilibrio. Questa rinascita della musica strumentale doveva influire fortemente sull’indirizzo dell’opera teatrale; ma che il sinfonismo sia proprio quello destinato a risolvere l’eterno conflitto fra la parola e la musica sovrapponendosi e dominando, non abbiamo mai creduto neppure quando il fanatismo degli strumentatori in Italia inneggiava vittorioso all’egemonia dell’orchestra.

Ora questa fase è per nostra fortuna superata e la necessità di un’arte più rispondente all’indole di nostra gente va affermandosi giornalmente. Chi questa necessità istintivamente sentì subito e praticò è appunto il maestro Zandonai che, se nel momento acuto dell’orgia strumentale per poco non venne ricacciato nel branco dei passatisti, oggi si trova, perché ha camminato rapido, anche più innanzi di coloro che per voler saltare su secoli di tradizioni si sono spezzati l’osso delle reni.

Egli ha sempre ascoltato la voce immensa e multiforme del popolo, pur non sapendola o volendola riprodurre: vi si opponeva la crisi tormentosa di una musicalità in fieri.

L’opera

Anche dalla Francesca emerge evidente il dissidio tra la materia ancora poco duttile e il sentimento umano schietto, ingenuo e profondo. Ed il dissidio non è di facile risoluzione, poiché dove il dramma d’anime leva il suo grido più alto e trova più diritte le vie del cuore delle masse, è là che l’artista ricorre, inconsapevolmente o trascinatovi dall’istinto, a forme meno libere, più strofiche e, diciamolo pure ché nessuno più ormai se ne offende, tradizionali. Così alla fine del primo atto, in quasi tutto il terzo atto, nel recitativo di Gianciotto e nel duetto di questi col Malatestino, ecc.

Ma noi non dobbiamo giudicare in appello l’opera, che rivede per la terza volta le scene del Costanzi e che gira per tutti i teatri. Non dobbiamo segnalare nuovamente la bellezza poetica di tutto il primo atto e di tutti [i] numerosi quadri descritti con mano maestra e irresistibilmente seducenti.

Quella signorile gentilezza di ambiente ricondotta sul teatro da Gabriele d’Annunzio non solo è stata perfettamente intesa da Zandonai ma intensificata, illuminata con i suoi smaglianti e delicatissimi ricami sonori.

Non dobbiamo notare la manchevolezza del secondo atto, in cui è stato ripetuto ed aggravato l’errore dannunziano che nella riduzione del poema drammatico a libretto avrebbe potuto essere evitato con la successione dei due episodi: ma si capisce come anche a Zandonai, che non disdegna le audacie, abbia sorriso la sovrapposizione del colloquio dei due cognati sullo sfondo fragoroso della battaglia, fecondo di effetti musicali... però non raggiunti. Né, infine, dobbiamo indicare all’ammirazione del pubblico, che li ha compresi, ammirati, l’intero delizioso terzo atto, la scena impressionante tra l’orbo e lo sciancato del

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quarto atto, quella angosciosa e sensuale tra Paolo e Francesca. A noi non resta che il gradito compito di registrare la lieta accoglienza fatta all’opera e all’autore e la cronaca dell’esecuzione. La quale è apparsa assai accurata sia dal lato musicale che da quello scenico. Il maestro Zandonai è anche un’eccellente bacchetta che sa scoprire e mettere in rilievo non solo le ossature tematiche e strumentali ma anche i dettagli, gli ornamenti e i colori più tenui. E la sua opera che è, per quanto finemente e limpidamente, assai elaborata ha bisogno appunto di una bacchetta indagatrice, sicura, scrupolosa come la sua. Aggiungasi che la falange orchestrale, pronta e agguerrita, gli ha ubbidito con mirabile esattezza.

Anche gl’interpreti hanno gareggiato per valentia e volontà, a cominciare dalla protagonista Gilda Dalla Rizza, che sebbene afflitta da una lieve indisposizione ugolare si è mantenuta, tranne nel primo atto, all’altezza della non facile incarnazione. Nel terzo atto, per gentilezza e stile di movimenti, per dolcezza di canto emesso con vigile distribuzione di respiri, ella ha data novella prova della versatilità interpretativa che le ha reso la rinomanza di cui gode.

La voce tersa, vigorosa, rotonda del tenore Michele Fleta si è effusa con fluidità ed ha perfettamente seguite le ondulazioni della sua parte; mentre non sempre il carattere di Paolo il bello, che ce lo immaginiamo contenuto e pensoso anche nei momenti di fervida passionalità, è stato reso tale da lui. Piccola menda, alla quale se vuole il Fleta, che è intelligentissimo, può facilmente riparare.

Una figura fortemente scolpita è stata quella di Gianciotto, riprodotta dal giovane baritono Maugeri con opportuna brutalità e violenza. Nel colloquio, che non vogliamo chiamare duetto, tra lui e Malatestino la drammaticità della scena si è scatenata col più turbinoso vigore.

Degni di encomio il tenore Palai nei panni di Malatestino perverso e feroce, e il baritono Besanzoni nella parte di Ostasio: meritevoli di menzione il Malfatti (ser Toldo), De Vecchi (il Giullare), la Vitulli, dolcissima Samaritana.

Le donne di Francesca, corrette, vivaci, rispettose, malinconiche a seconda delle situazioni, hanno contribuito validamente alla riproduzione storica e politica dell’ambiente. Le lievi danze del terzo atto non son sembrate rispondenti e intonate al momento psicologico; mentre i piccoli e deliziosi cori sparsi qua e là per la partitura e il gran coro finale del secondo atto (che però per la distribuzione delle masse hanno un po’ del vecchio melodramma) si son diffusi nell’aria armoniosi e affiatati, del che va data lode all’istruttore maestro Consoli.

Quando avremo nominati il régisseur Francioli e il direttore scenico Ansaldo avremo forse non dimenticato alcun cooperatore del riuscitissimo spettacolo inaugurale della stagione, che in tal modo si apre sotto i più favorevoli auspici.

Alla fine di ogni atto il maestro Zandonai da solo e insieme ai principali interpreti è stato ripetutamente evocato ed acclamato.

[...]

75 R[oberto] Forges-Davanzati, La “Francesca da Rimini ” al Costanzi, «L’Idea nazionale», 28.12.1921 - p. 3, col. 2-3-4

Di aver finalmente scrollata l’inesplicabile consuetudine di inaugurare la stagione d’opera

con Wagner o con altro repertorio straniero, l’impresa del Costanzi può esser soddisfatta. Senza discutere qui del cosmopolitismo in arte, e anche accettandolo, si può esser facilmente

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d’accordo nel dire che in casa nostra per far bene gli onori di casa dobbiamo cominciare con rispettare noi stessi.

Di avere scelta Francesca da Rimini, lo spartito più giovanilmente sano della nova generazione musicale, come spettacolo di inaugurazione, può essere ancor più soddisfatta.

Iersera, nella sala del Costanzi, il gran pubblico che si ritrovava non soltanto col desiderio di ascoltare e riascoltare Francesca ma con la affettuosa disposizione di celebrare un rito d’arte e di buona mondanità, s’è raccolto volentieri con slancio spontaneo nell’applauso cordiale e ripetuto al maestro Zandonai che era sul podio a dirigere la sua musica.

Iersera nella sala c’è stato buon calore di italianità. L’ovazione piena e pronta che ha salutato il Re, la Regina, il Principe ereditario; le salve d’applausi che hanno accompagnato la musica fragorosa e sussultante dell’inno reale, si sono mirabilmente fuse con tutto il sentimento del pubblico, felice di riconoscere nella Francesca i segni di nobiltà di un’arte italiana. Nel grido: viva l’Italia, ch’è stato gettato dalla galleria, non si è concluso un cerimoniale di acclamazioni ma è stato quanto era nei cuori.

Quando Francesca era venuta sulle scene del “Costanzi”, il suo autore, italiano, italianissimo, aveva tuttavia nel petto l’amarezza dell’esule. La sua terra, il Trentino, era Italia ed era tuttavia un cuneo straniero di prepotenza austriaca, a continua minaccia dell’Italia bella. Oggi Riccardo Zandonai sale sul podio a inaugurare la stagione della Capitale, di Roma che è finalmente capitale anche per la sua terra: e, prima che il velario si apra sul fragore dell’antica contesa guelfa e ghibellina, egli può finalmente, attaccando le note dell’inno, salutare il suo Re che è Re anche sulla sua terra, fino al Brennero.

Viva l’Italia! E nel grido era salutata la poesia di Dante, che primo diede a Francesca l’immortalità, era salutata la poesia di Gabriele d’Annunzio, il poeta-soldato, era salutata la musica dell’autore redento e che, appunto in questi accenti di italianità, aveva, prima della guerra vittoriosa, gettato un’altra voce della stirpe.

Viva l’Italia! E tutte le cose dette e non dette, pensate e non pensate, consapevoli o istintive, sono state raccolte da quel grido, mentre davano a questa prima rappresentazione un’intimità appassionata che altre volte era mancata.

E non per questo è stato sforzato il valore artistico dell’opera, il valore dell’esecuzione. Gli applausi agli artisti e al maestro Zandonai, ripetutamente chiamato da solo al proscenio, sono stati quali dovevano essere: schietti, spontanei, calorosi. Per una musica che ha soprattutto una virtù di misura stilistica; che anche dove cede alla sonorità riesce a sfuggire la banalità retorica; che ha grazie di atteggiamenti canori, languori accorati di passione, squisite tristezze di presentimenti.

Fra Puccini, che aveva nella Fanciulla del West ceduto ad un esotismo violento, e Mascagni che con Isabeau s’era abbandonato ad una esasperazione sonora ed esteriore, questa contemporanea Francesca da Rimini del giovane trentino della nova generazione musicale si presentò con virtù proprie, innegabili. Virtù di espressione più che di inspirazione. Ché anche oggi, in una riposata e tranquilla accoglienza come quella di ieri sera, le idee e gli accenti e i sentimenti musicali dell’autore appaiono fragili, limitati. L’ampiezza sonora, alla quale, come nel primo e nel terzo atto è possibile abbandonarsi, è più di sviluppo decorativo che di intimità e di linguaggio melodico, anche nei momenti di passione.

La musica non raggiunge mai profondità vive di emozione, ché anzi perde le virtù di levità e di tenuità squisite dei momenti migliori dell’opera quando vuol essere travolgente come nella passione durante la battaglia, come nel colloquio finale dei due amanti prima della morte cruda. Ma quanta grazia di accenti luminosi, quanta dolcezza triste è nel femminile primo atto, tra le ancelle gaie e festose, l’attesa contenuta di Francesca, l’improvviso tenerissimo sbigottimento di Samaritana! Quale vaghezza di canto, quale atmosfera di amore

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e di morte è nel femminile terzo atto, nell’ingenuità di Biancofiore, nella misteriosa complicità di Smaragdi, nel colloquio d’amore in cui Paolo stesso è tutto languore e smarrimento!

Queste virtù sono state iersera pienamente intese dal pubblico con una sensibilità di gusto veramente confortante. E l’opera ha avuto la riconsacrazione di un successo senza sottintesi.

Sotto la direzione esperta dell’autore ha prevalso, nel canto e nell’orchestra, l’elemento decorativo di quest’opera, che si presenta ad affreschi chiari e trasparenti, dolci e armoniosi negli episodi d’amore, esteriore e fiacco in quello della battaglia, abile di luci e d’ombre nell’episodio della denunzia rabbiosa di Malatestino. Questa Francesca più che dramma di persone vive, travolte di passione in un’ora di fosca vita e di duro battagliare, appare con una sua magia di antica istoria. Effigiata in quadri espressivi, che improvvisamente si anima e si muove in una luce lunare, così come Heine imaginava ripetersi il mito di Gianfredo Rudello su dagli arazzi del vecchio castello, fluttuanti al vento notturno.

Riccardo Zandonai, cui l’orchestra ha obbedito docilmente, è riuscito a mantenere sempre l’incanto di questa evocazione e dare carattere agli episodi, che pretendono a robustezza e incisione di accenti, come il soliloquio di Gianciotto e di Malatestino, fortemente eseguito dal baritono Maugeri e dal tenore Palai. Francesca era Gilda dalla Rizza, la cui voce rotonda e disegnata era iersera velata nelle note alte per un’incresciosa indisposizione. Paolo il tenore Fleta, un artista che ha accenti di forza e di grazia vocali da farlo piegare alle più diverse interpretazioni. Il pubblico li ha chiamati, con gli altri, ad ogni fine d’atto, salutandoli di applausi meritati. Né noi sapremmo rimproverare un difetto di drammaticità nei protagonisti, poiché, se mai, lo stile decorativo dell’opera ci fa credere più interessante quella parte della loro interpretazione che è sobria di gesti, rifugge dalle espansioni canore e preferisce l’accentuazione armoniosa e la dizione scandita.

Ci parvero una stonatura le danze al terzo atto, soprattutto per quelle ballerine in maglia e scarpini rosa, anacronistici e fastidiosissimi. Possibile che non ne abbia per primo sentito il fastidio il maestro Zandonai?

Tutti gli atti furono applauditi; con maggior fervore il primo e il terzo e l’episodio di Gianciotto e Malatestino.

È nel cuore di tutti che la nuova opera di Riccardo Zandonai, Giulietta e Romeo, sia quale merita l’arte italiana, né morta né moritura.

76 m[atteo] i[ncagliati], “Francesca” al Costanzi, «Il Piccolo», 27-28.12.1921 - p. 3, col. 1

[nb: l’articolo riproduce, con solo qualche piccola modificazione, il paragrafo “Lo

spettacolo” dall’articolo, dello stesso Incagliati, riportato dal «Giornale d’Italia» del 28.12.1921 – cfr. n. 79]

77 La sala

Ecco – per le lettrici che non hanno assistito a questo spettacolo del Costanzi, dove ogni anno nella serata di Santo Stefano si celebra la maggior festa dell’eleganza – ecco com’erano vestite le signore che apparivano numerosissime in ogni ordine di posti.

Non farò una rassegna particolare delle personalità e delle loro toilettes – la sola lista dei nomi richiederebbe uno spazio grande. Contentiamoci di uno sguardo sintetico gettato nei

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palchi e nelle poltrone per fissare le caratteristiche degli abbigliamenti come appaiono nei loro colori e nelle loro linee generali. Nelle serate che seguiranno, a teatro meno affollato, avremo agio di rendere più interessante questa rassegna della eleganza con descrizioni particolareggiate.

Ma incominciamo dal notare la presenza nei palchi di Corte della famiglia reale. Il Re e la Regina siedono nel palco di proscenio, ed alla fine del primo atto, quando il pubblico s’accorge della loro presenza, scoppia un’ovazione prolungata con evviva al loro indirizzo: i Sovrani, il principe ereditario e le principesse si alzano e s’inchinano. Il Re veste in borghese. La Regina aveva un abito di satin mauve chiaro e portava sulle spalle una volpe grigia. Semplice e modesto come sempre l’abbigliamento delle principesse nei loro corsages di tinte sobrie.

Nella sala è tutto un luccichìo di paillettes, di perle di jais e di lamés nei colori nero, granata e grigio-perla su fondi di tessuto nero e di toni armonizzanti.

Erano drappeggiati di velluto, di satin, di crespo marocain, di chiffon, di mantilly che mostravano ornamenti di frangie di cordonetto o di perle di jeis, ornamenti costituiti in gran parte da panneaux ricamati di paillettes, pendenti dai fianchi e strascicanti. Erano centurati di nastro ciré, di fiori artificiali e di catene di metallo, e di galaliithe.

Nessun cappello, o pochissime toques minuscole, drappeggiate a turbante e portate specialmente nelle poltrone. Nelle pettinature predominava lo stile semplice, rotondo, a ondulazioni, con acconciature di verreries nere, bandeaux di perle e semplici nastri cingenti la fronte. Poche le pettinature artistiche drappeggiate a volute e adorne di pettini di ultima novità.

Fra le signore che ricordo di avere veduto erano degne di ammirazione la P.ssa Giovannelli, in nero, Donna Elsie Torlonia in abbigliamento grigio, la marchesa Godi di Godio. La marchesa Misciatelli. La contessa Antonelli, signora Pavoncelli, signora Ceresa marchesa di Bagno. Donna Ruspoli Maria Contessa di Samnuj. Marchesa Patrizi. La signora Nicolaj in un elegante abbigliamento di duvetyne bianco adorno di astrakan nero. La baronessa Compagna. Contessa Ceriano-Grazioli. Signora Falbo, Contessa e contessine Andreozzi. Marchesa Serlupi, donna Corinna dall’Ongaro Fabris, donna Bianca Varvaro, Principessa Maria Antici-Mattei. Marchesa di Bagno, signora Vurtz, contessa Guardi, duchesse Sforza Cesarini. Contessa Ceresa. Signora Tabanelli, contessa Rossi, signora Montorsi, signorina Moglia, signora Romano, ecc.

g. n.

78 [Cronache romane] – Costanzi, «Rivista nazionale di musica» II/58, 30.12.1921, p. 304

Francesca da Rimini. – Con gli auspici del Poeta fiorentino, di cui tutto il mondo ha testé

onorato la memoria nel secentenario della nascita (ché gli amori di Paolo e Francesca ispirano alcune fra le pagine immortali di Dante Alighieri); nel nome del Poeta-Soldato abruzzese cui l’Italia nuova deve non piccola parte delle sue invano prima sognate riconquiste e della sua gloriosa vittoria, nel nome, dico, di Gabriele D’Annunzio che plasmò con gli spunti della leggenda più volte secolare dei due giovani amanti romagnoli la trama di un dramma fra i più forti e passionali che siano stati scritti per il teatro; e nel nome del trentino Riccardo Zandonai che il dramma stesso ha saputo intensificare e completare con appropriata espressione musicale si è italianamente inaugurata la stagione lirica romana. Come a Milano con il Falstaff, capolavoro della commedia musicale non soltanto nostrana, diretto da A. Toscanini,

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così a Roma con Francesca da Rimini, nobile ed equilibrata opera di un ingegno meritevole della nostra maggior considerazione e del nostro più profondo affetto, il Santo Stefano è stato festeggiato italianamente.

R. Zandonai ha diretto personalmente la sua Francesca anche al Costanzi dopo d’averla condotta ai trionfi degli altri teatri nostri, ed anche sulle scene romane l’autore illustre, il direttore interprete autentico, unitamente ai suoi collaboratori è stato acclamatissimo. In verità rare volte si era accorsi ad una rappresentazione inaugurale con tanta serenità di spirito come a questa di cui riferisco. Nota ormai la capacità, anzi la forza dello Zandonai nel dirigere i suoi lavori teatrali e sinfonici, memori perfettamente del successo che Francesca aveva riportato or son parecchi anni sulle stesse scene del Costanzi, desiderosi di ribattezzare non soltanto all’Augusteo il fratel nostro già da tre anni redento, ognuno di quanti convenimmo all’atteso spettacolo aveva la certezza di poter assistere ad una festa, ad una grande festa dell’intelletto e dell’animo oltre che dei sensi. E l’aspettativa non è stata delusa. L’orchestra ha suonato, specie nei momenti di maggiore responsabilità, come meglio non avrebbe potuto suonare; i cori, intonatissimi e disciplinatissimi, hanno fatto onore al loro maestro Consoli, concorrendo sensibilmente alla bellezza totale dello spettacolo; ben date e distribuite le luci sugli scenari appropriati ed armonizzantisi pienamente con i costumi degli attori, fra i quali Paolo il bello impersonato dal tenore Fleta degnamente; Gianciotto rivissuto dal baritono Maugeri con tanta fierezza di accenti e con così nobile e sicuro portamento da esser giudicato con voti plebiscitari non solo un verosimile Gianciotto ma un artista di prim’ordine per virtù canore e sceniche; Malatestino perfettamente a posto nei panni e nella voce del giovane tenore Palai; Samaritana fedelmente piagnucolosa nelle vesti della brava Vitulli ed intelligente confortatrice – con il valido aiuto delle altre fide impersonate dalla Donati, dalla Peroni [sic], dalla Porter, dalla Rettore, ecc. – della protagonista del dramma. Della quale avrei preferito tacere se ciò facendo non venissi meno al mio dovere.

E volentieri ne avrei taciuto perché ad eccezione del giuoco scenico, mirabile sempre e non soltanto in questa fatica, null’altro avrei da lodare di una Francesca reincarnata da Gilda Dalla Rizza. Essa infatti non ci ha fatto intendere una sola delle bellissime frasi dannunziane, né il difetto della dizione è stato velato da purezza di timbro della voce, che, forse per la inadattabilità alla parte, aveva perduto ogni freschezza, ogni limpidezza, ogni pieghevolezza: se fosse stata meno piacente e meno flessuosa Paolo il bello non se ne sarebbe innamorato più per la millesima volta ed il pubblico non le avrebbe nascosto neppure in parte la sua delusione. C’è da augurarsi che l’impresa voglia aggiungere ai sacrifici compiuti per allestire un così decoroso spettacolo anche quello di mutar vesti a Francesca. L’autore per il primo ne sarà lieto, benché egli non possa che gloriarsi del trionfale successo rinnovatogli la sera del 28.

[...]

79 M[atteo] Incagliati, “Francesca da Rimini” di G. D’Annunzio e R. Zandonai al Costanzi, «Il Giornale d’Italia», 28.12.1921 - p. 3, col. 1-2-3

Non si riascolta questa Francesca senza che la fantasia evochi le pagine che intorno

all’episodio immortalato dalle terzine dantesche scrisse in un lampo di genialità Francesco De Sanctis.

Perché nella visione poetico-musicale di Riccardo Zandonai Francesca è quale la scolpisce il grande critico napoletano – un’opera tutta irradiata di luci e di fulgori, di sorrisi e di

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leggiadrie, un’opera nella quale vigila e tormenta il fato sinistro della sciagura. Lo spirito dantesco è presente, e par quasi alimenti tutta l’essenza del contenuto musicale.

Il fascino dantesco

La Francesca dugentesca con la musica di Zandonai e con la poesia di Gabriele d’Annunzio è dunque rinata all’arte. Vi fu nel giro dei secoli chi tentò l’ardua ricostruzione artistica ma con tale aridità d’ispirazione e con tale pesantezza intellettualistica che lo sforzo, e meglio il tentativo riuscito inane, non servì che a diminuire la luminosa creazione del divino Poeta. Ben altro occorreva possedere per vincere la prova; occorreva che un poeta come d’Annunzio rivivesse dopo Dante la passione di Paolo e Francesca traducendola in dramma e in scene reali, le creasse intorno una realtà fatta di poesia ed anche un ambiente quasi di segno poetico o di visione tragica. Occorreva poi che un cuore di musicista inspirato non rimanesse sordo alla voce che proveniva dall’anima del poeta divino e colorisse di suoni le immagini della fantasia dannunziana.

Un lavoro geniale dunque, che, a distanza di secoli, prende motivo dal tema dantesco e ripete il miracolo che per lo innanzi la storia non aveva registrato e per il quale la gloria di Francesca si rinnova e s’illumina di luce nuova.

Il volo è prodigioso: dalle terzine immortali alla musica nata dalla comunione di due nobili spiriti, in nome della bellezza e dell’arte.

Una musica che ha ormai conquistata nella universale estimazione degna rinomanza, malgrado i lai di una critica... cesarea che non si sa se sia più denigratrice dei veri valori musicali nazionali o più partigianamente fautrice dei precetti e forme d’arte che il progresso del tempo e la mutata sensibilità ha ormai sorpassati.

Peggio per quella critica, come sopra, la cui sensibilità è ottusa a questi nuovi accenti. Ormai la Francesca è bene e definitivamente giudicata; e nel centenario dantesco come del

resto negli anni che lo precedettero essa porta in giro il segno della non spenta genialità italica, con quel grido della passione umana che è di tutti i tempi, se pure espresso con nuovi accenti e più ampii sospiri.

Ma nel seguire le vicende della rappresentazione di iersera – ed era nel breve giro di pochi anni, pel Costanzi, la terza riapparizione di questa opera italianamente ideata e italianamente canora – sembrò che la Francesca stavolta destasse e accarezzasse con più molle abbandono le sottili patetiche emozioni e tendesse a disegnare più nettamente, più decisivamente, con il moto della tragedia gentile e truce insieme, la poesia – amore e morte – dei due amanti infelici...

Perché, se la tragedia di Francesca è, secondo il De Sanctis, la tragedia della donna – eternità d’amore, eternità di martirio – , la musica di Zandonai è la musica di Francesca, di cui rispecchia compiutamente l’anima e profila gli aspetti esteriori, psicologicamente, esteticamente.

L’insistente motivo musicale che pervade la tragedia e tutta la investe e la colora, fa risuonare il sottile senso di speranza, di nostalgia, di angoscia che ne forma l’atmosfera. La melodia si profila, s’inarca e s’inabissa – è il grido affannoso dell’amore, è l’urlo spaventoso della paura – con tratto di una individualità ben distinta. Come Francesca appare in scena la musica parla di lei, disvela il suo interno affanno; ma poi, con l’incanzare della tragedia, quella melodia si ripete, si rinnova, si amplifica. Tutte le voci dell’orchestra si fondono nelle voci dei due amanti come ad esaltarne la passione – una passione di vita e un presentimento di morte. Poi la tragedia gonfia e straripa...

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Come in Dante, nell’opera di d’Annunzio e di Zandonai Francesca porta segnato sulla fronte il suo destino. Questo destino – ed è qui che si rivela la genialità del musicista – traspare attraverso la musica della Francesca.

Il motivo di Francesca

Il fato di Francesca! Non diversamente di come intese ed eternò l’amore della dolente dolce creatura il De Sanctis.

«Sembra – scrive il De Sanctis – che nell’anima di Francesca non possa farsi adito altro sentimento che l’amore. Amore, Amore, Amore! Qui è la sua felicità e qui la sua miseria!».

Ora, senza ricorrere a temi conduttori, senza la petulanza di formule viete, senza scambiare l’arte per una esercitazione di sterile speculazione – di questa fatalità Riccardo Zandonai par che nella sua musica sia riuscito a cogliere e a fissare tutto il concitato palpito. Una fatalità – la fatalità della passione, ch’è nell’anima turbata e sconvolta di Francesca, e che la musica disegna con il libero volo della fantasia, con la espressività cioè di una voce inascoltata per lo innanzi – una voce che non ne ricorda altre. Tale e tant’è la forza creatrice dell’artista.

Ma – prosegue il De Sanctis – «Francesca niente dissimula, niente ricopre. Paolo – ella dice – mi ha amato perché io ero bella, ed io l’ho amato, perché mi compiaceva di essere amata, e sentivo il piacere del piacere di lui... Chiama «bella persona» quello di che s’invaghì Paolo, chiama «piacere» il sentimento che ancora non abbandona; e quando Paolo le baciò la bocca «tutto tremante», certo la carne di Paolo non tremava per paura. Qui hai propria e vera passione, desiderio intenso e pieno di voluttà».

A tant’aura di tenerezza e di dolcezza che alita nell’anima della Francesca dantesca s’inspira e assume tono l’incanto della musica di Zandonai, liberamente, agilmente, ma sempre con una nota di nostalgia, con una eco di dolente angosciosa musicalità, di commossa psicologia intima – sino a che la passione:

Amor ch’a cor gentil ratto s’apprende... Amor ch’a nullo amato amar perdona... Amor condusse noi ad una morte...

non prorompe, e il fremito della voluttà e la gioia del piacere non si liberano in una melodia nuova così da divampare in fiamme ardenti da tutte le voci dell’orchestra...

Francesca è il leit-motif, [sic] italianamente, inteso così nelle terzine dantesche come nella musica di Zandonai. «Ella – è il De Sanctis che parla – riempie di sé tutta la scena. Paolo è l’espressione muta di Francesca; la corda che preme quello che la parola parla; il gesto accompagna la voce, l’uno parla, l’altro piange, il pianto dell’uno è la parola dell’altro: sono due colombe portate dallo stesso volere...».

Con quella intuizione ch’è propria degli artisti geniali, di Francesca anche Riccardo Zandonai, è bene ripeterlo, riempie tutta la scena. Francesca ha un motivo – ed è motivo d’amore e di dolore; ha un sorriso – ed è sorriso che desta insieme il piacere e la pietà; ha un fascino di vita, ma ahimè velato dal presentimento della sciagura. Ricordate la voce di Francesca? «Smaragdi, lo sparviero torna?!».

La tragedia balza viva e possente dalla musica che ne illustra e ne commenta le vicende. La voce di Francesca ha come una misteriosa rispondenza sentimentale, e l’umanità di lei assurge subito all’universale. E quanta umiltà, quanta bontà, quanto terrore nell’espressività lirica dei canti ch’ella trae dalla sua anima, un’anima che l’artista colse in tumulto d’amore. E le altre voci, sian voci di allegrezza e sian voci di cupo terrore, e siano echi di lontani delitti, e siano tumulti di battaglia e turbamenti di ardori, hanno tutte la loro peculiare espressività

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secondo la propria anima: individualità di caratteri, figure secondo un disegno, secondo un criterio d’arte con impronta di valore estetico. Ah, come respira in così alterna vicenda la fantasia del musicista! Singolare e profonda psicologia umana, di contro alla ricostruzione dell’epoca della quale il musicista riesce a dare l’impressione caratteristica di un determinato ambiente ch’egli ha sognato e che ha realizzato attingendo ispirazione alle fonti della sua fantasia. Perché la Francesca ha una sua vita umanissima il cui senso trascende l’atmosfera storica della tragedia per assurgere al pathos di tutte le passioni, senza mai lasciare che nel folleggiare di spiriti diversi vada confuso lo spirito che domina ogni istante dell’opera d’arte: lo spirito di Francesca.

E basta ciò per perdonare al musicista talune insistenze e predilezioni strumentali. L’opera è ormai penetrata nel gusto del pubblico.

Lo spettacolo

La inaugurazione dunque della stagione lirica al Costanzi si è svolta iersera con un tono di solennità e di orgoglio; la solennità insita alla data ormai memoranda del Santo Stefano – e che è una tradizione tipicamente italiana – e l’orgoglio di avere iniziato la serie degli spettacoli con un’opera nazionale di un maestro nato su quei monti del Trentino che la guerra ha restituito definitivamente all’Italia, e di un Poeta che è tra i più nobili spiriti dell’arte. Riccardo Zandonai e Gabriele d’Annunzio parvero così veramente, dinanzi a un pubblico imponente – la sala era radiosa di tutte le bellezze e di tutte le notabilità artistiche e politiche e ospitava nel palchetto di Corte la Regina Elena, elegantissima, il Re in frak, il principe Umberto e la principessa Mafalda –, parvero rappresentare un simbolo – il simbolo della genialità.

La cronaca è presto fatta. Il maestro Zandonai, accolto al suo primo apparire sul podio direttoriale da una calorosa dimostrazione, fu festeggiato con significative e calorose dimostrazioni lungo il corso di tutta l’opera. Duce dello spettacolo, alla sua bacchetta obbedirono con un senso di collaborazione ammirevole e l’orchestra e i cantanti. E quando, al chiudersi del velario, il maestro illustre era invocato a gran voce, l’omaggio assumeva forma di affettuosa confidenza, tanta e così diffusa era nell’animo degli spettatori la gioia di partecipare a una festa dell’arte e di tributare a chi n’era l’esponente tutto il suo legittimo orgoglio.

Certo, sotto la guida dell’autore, lo spettacolo non poteva non riuscire fuso e colorito, improntato cioè a una espressività di austera bellezza. Ogni interprete contribuì dunque al trionfo che arrise alla Francesca. E prima d’ogni altro una fervida lode all’orchestra che suonò con slancio e con un senso di suggestiva poesia e nella quale emerse, al finale primo, un violoncellista insigne, il maestro Gaetano Morelli.

Di Francesca Gilda Dalla Rizza mostrò innanzi tutto d’intendere il personaggio, che modellò in una sobria e artistica linea ed espresse con un senso di poesia e di femminilità – con quella femminilità che durante il terzo atto parve dare una nota di passione e di ardore e di contenuta voluttà alla tragedia musicale. Il suo canto, ch’è sempre nobile frutto di studio e di meditazione, si sciolse con tutto il fascino di accenti carezzevoli e caldi. Ogni frase si delineò con pura bellezza e ogni frammento d’amore trovò il suo motivo melico.

Ma ciò che valse a dare un’individualità a questa nuova e pur ardua fatica di Gilda Dalla Rizza fu lo spirito di commozione da cui era pervaso il suo canto che, trionfando di ogni difficoltà, passò agilmente dalla linea lirica alla linea drammatica. E con un senso di gioia ella parve sciogliere, in ultimo, le più ardite e alte note della sua gola, sensibile com’è la voce alla intima espressività del canto.

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Il tenore Fleta, un tenore ormai che ha conquistato un posto d’onore sulla scena lirica, intese di Paolo il bello il fascino esteriore e interiore. La sua voce è doviziosa, ha largo respiro e una disciplina così ferrea ch’essa può passare da una tessitura all’altra con un senso di misura e con un criterio di buon gusto. Paolo iersera cantò con le sue più belle doviziose note, e sciolse una mezza voce così dolce da evocare il tempo in cui – ed era in teatro Alessandro Bonci, un tenore glorioso, un maestro – la fortuna di un artista non era riposta solamente nelle note acute. Una mezza voce e una profusione di acuti che dissero ed espressero tutta la passione di Paolo il bello.

Il baritono Maugeri fu un Gianciotto superbo: cantante e attore vigoroso. Cantante dalla voce disciplinata e ricca di risorse; attore drammatico di impeto e di ardore. La Willaume, nella parte di Smaragdi, profuse la sua voce pastosa. La Vitulli fu una patetica Samaritana, e cantò con voce sicura e con fine buon gusto. Il bravo tenore Palai nella parte di Malatestino fu superiore ad ogni elogio per l’agilità e la resistenza della voce. La Rettore espresse il personaggio di Biancofiore con un senso di dolce poesia. Fuso e di bell’impeto il coro istruito dal maestro Consoli.

Magnifico, sontuoso lo scenario, cui presiedette quel grande artista ch’è Pericle Ansaldo, il quale riuscì a dar colorazione alla scena dell’ultimo atto con effetti di rara suggestione.

Ed ora che la Francesca porti fortuna alla stagione del Costanzi iniziatasi così lietamente.

80 Edoardo Pompei, “Francesca da Rimini” di Riccardo Zandonai, «Il Paese», 28.12.1921 - p. 2, col. 2-3-4 (con una foto di Zandonai)

Lo spettacolo col quale si è iniziata la stagione lirica al Costanzi ha assunto quest’anno un

carattere d’italianità che per uno sterile omaggio alla moda esotica da parecchio tempo era stato bandito dalle solennità inaugurali. Bisogna sinceramente rallegrarcene, tanto più che la scelta della Francesca da Rimini, di un’opera così vasta e complessa che congiunge insieme in una stessa visione possente di amore e di ardore, di passione e di morte il nome del nostro più grande poeta e del più insigne dei nostri più giovani musicisti, non poteva riuscire per la profondità del suo contenuto poetico e musicale, per l’ampiezza delle sue linee architettoniche, più gradita al pubblico eletto che raccoglievasi ieri sera nella sala magnifica del Costanzi e che le vicende sceniche, i canti e le novità di pensieri, di forme, d’impasti, di figurazioni sonore, seguì col più vivo interesse, se pure non sempre con profondo ed intimo convincimento.

Tra i giovani musicisti in Italia non vi è alcuno che possa eguagliare lo Zandonai nel difficile magistero strumentale. Egli possiede non solo il dominio assoluto della dottrina e la sapienza e la coscienza degli effetti musicali, ma ha lo spirito audace della ricerca, la sicurezza dinamica del grande organo orchestrale, conosce tutte le forze sentimentali, espressive ed intime di ogni singolo strumento e di ogni famiglia di strumenti, ed ha un temperamento particolarmente adatto a rendere ogni colore nella infinita varietà dei toni, dei chiaroscuri, dei contrasti.

Ma in tutto questo trapunto orchestrale, fra tanta bellezza di sottili disegni e di arabeschi musicali, l’idea melodica non ha mai respiro ampio e profondo e si ha la impressione che il compositore illustre, come già nelle sue opere precedenti, miri piuttosto, nella esuberanza dei mezzi a sua disposizione, a trascurare di proposito, per una invincibile tendenza del suo temperamento, il periodo largo, senza raggiungere nel declamato quella intensità di espressione, quel soffio possente ed ampio di ispirazione che talora le situazioni sceniche

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richiedono e che costituiscono e costituiranno sempre l’essenza di ogni opera destinata a vincere gli urti del tempo.

La Francesca da Rimini ha valore di un antico affresco giottesco in cui la rappresentazione pittorica si trasfiguri per un prodigio della fantasia umana in armonia musicale. E in verità la potenza di quest’opera, più di ogni altra sua precedente rivelatrice delle superiori qualità del compositore, non si palesa nel disegno vigoroso dei caratteri, concepiti ed espressi con un taglio netto, con un impeto melodico tale da costruire la loro personalità unica e diversa, bensì con la varietà delle tinte e con la ricchezza sinfonica.

Riccardo Zandonai non vede e non sente il profilo caratteristico di ciascun personaggio ma intende e rende i colori degli abiti e dei fondi sì che le figure sono spesso ombre che si muovono in una atmosfera di colorazioni sapienti, leggiadre, tenui, dolcissime. Ma quando dall’arazzo devono emergere le persone, e le passioni umane prendere membra e voci, quando dal sogno si discende nella vita, questa appare minore del sogno, minore, più fiacca, meno suadente: le figure erano più vive nell’affresco velato che non sulla scena ove deve risuonare il grido, la parola, il canto della loro passione.

Il sogno che domina nella serenità fiorita del primo atto, quando il destino sembra clemente alle due giovinezze che «amor condusse ad una morte», cade aspramente nella realtà del secondo atto, allorché il contrasto di guerra e quello delle anime in pena dovrebbe essere espresso con ben più grande robustezza di rilievi.

La battaglia è intorno per le case e per le strade e infuria e insanguina Rimini. Ma una battaglia più violenta, un duello a vita e a morte si combatte nelle anime di Paolo e di Francesca tra il fragore delle arme, il saettìo dei dardi, le vampe inestinguibili del fuoco greco sulla torre dei Malatesta. Le lotte dei partigiani dei guelfi e dei ghibellini è colore; l’urto delle anime è vita.

Ma il colore non è efficace, non suscita la visione, non ha quel sicuro carattere guerresco che trasporta gli spiriti più calmi nell’ardere della mischia. L’orchestra ha fragori improvvisi, dissonanze sapienti, abilità tecniche di contrappunto, ma non ha un ritmo netto, un valore melodico che solo poteva dare l’illusione e la sensazione.

Così le due anime di Francesca e di Paolo, in cui l’amore arde occulto e terribile, pronto a divampare se ode la parola che dona e perdona, se scorge il gesto che consente; le due anime che diverranno i simboli eterni della passione sovrumana, non hanno un accento singolare, una espressione chiara, netta, precisa, uno di quei movimenti melodici con cui Verdi scolpiva l’ansia, l’angoscia, la gioia, ma sono voci fioche nel fragore della lotta atroce.

E pure quel giudizio di Dio innanzi alla finestra imbertescata, quel Pater proferito lentamente fra il dardeggiare fitto, quel perdono concesso da Francesca con una parola di donazione piena, potevano assurgere a valori significativi musicali ed umani. La situazione scenica supera l’espressione musicale. Tra i rumori della battaglia, solo le due anime dovevano emergere. Il quadro del combattimento doveva essere il fondo su cui i due profili si disegnavano taglienti come in una pittura di Giotto, e nessuna accademia imitativa avrebbe dovuto turbare la bellezza e la potenza di quella scena di perdizione.

In una situazione eguale e contraria Riccardo Zandonai è stato salvato dalla potenza del contrasto drammatico che si determina sopra uno sfondo di stanza, un fondo opaco senza movimento di masse. Nel primo episodio del quart’atto, quando Malatestino rivela a Gianciotto la tresca della bella moglie, il musicista ha una certa terribilità tragica che impressiona profondamente.

I due fratelli, diversi di spirito ma egualmente segnati nel corpo, sono in urto. Malatestino, perfido, insinua il sospetto nel cuore del rude Gianciotto ed i loro accenti son melodici, hanno

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un severo ritmo di dramma ben comentato dai legni e dalle corde dell’orchestra. Violoncelli, violini, clarini ed oboe danno un colore cupo e sordo a tutta la scena.

Ma in tutti gli altri atti l’ambiente e la preoccupazione delle colorazioni musicali dominano il maestro. Colori chiari, melodie tenui e graziose, declamati eleganti ed armoniosi danno tinte musicali primaverili all’atto primo: vi è nelle voci e nell’orchestra come una fiorita gaia e delicata. Le modulazioni vocali ed il comento vario e leggero diffondono negli ascoltatori un senso di freschezza e di poesia che non sarà dimenticato. Nell’atto terzo, l’atto del sogno, l’atto del bacio tremendo e divino, i colori sono sparsi con ricchezza magnifica. Colori d’ambiente, non melodia di anime, atmosfera musicale, non grido schietto di passione, eleganze formali, non disegno sobrio e serrato. Arte decorativa, non sagoma di creature vive, impressa a punta di ferro sulla parete che deve essere accesa dalla pittura.

E la fosca tragedia, nell’ultimo episodio, si spegne nel sangue senza che il fiotto rosso fiammeggi sulla scena. Ombre e non persone. «Noi che tingemmo il mondo di sanguigno» grida Francesca nel verso immortale: qui non vi è il mondo ed il sangue non gronda.

L’abilità tecnica, il buon gusto, le eleganze formali, le armoniose accademie musicali non hanno energia di trasportare nella musica le persone del Canto V. I morti di Dante giacciono solitari e lontani!

L’opera ha avuto nel suo complesso una esecuzione magnifica. Dirigeva l’autore. Piccolo, pallido, magro, nervoso, con gli spiriti della vita raccolti e sfavillanti nelle pupille, il maestro Zandonai appare un animatore della scena e sorge gagliardo e impetuoso fra gli strumenti dell’orchestra in faccia al palcoscenico.

Il suo sguardo lucido sostiene la forza degli artisti, afferra nella sua rapina le musiche espresse dalle note, si solleva sull’orchestra vasta. Il gesto accompagna lo sguardo: gesto netto, sicuro, significativo, e al suo richiamo misterioso e possente tutte le anime vibrano come un’anima sola; tutte le volontà si tendono come una volontà sola, come l’anima, la volontà, il cuore di Riccardo Zandonai, che solo da poco tempo alle fatiche della composizione ha aggiunto quella della direzione, rivelando anche qui una bella energia comunicativa, un’anima ardente, appassionata, impetuosa, una nuova espressione della sua arte ammaliatrice, lusingatrice dei cuori umani.

Egli ha tradotto la sua visione nell’animo degli esecutori e degli ascoltatori, evocato le immagini, temperato i suoni, moderati i colori, ottenendo effetti non raggiunti nella edizione precedente.

Successo dunque assai lieto al quale ha notevolmente concorso la collaborazione preziosa dell’orchestra e degli esecutori rivelatisi tutti degni dell’opera d’arte e della solennità inaugurale.

Gilda Dalla Rizza, la cantante deliziosa, così cara al nostro pubblico, superò senza sforzo e con invidiabile sicurezza l’ardua e faticosa tessitura della sua parte, avvincendo come sempre l’uditorio col fascino della sua voce, coll’arte mirabile del suo canto. Né l’attrice apparve inferiore alla cantante poiché nel gesto, nella grazia e nella leggiadria della persona ella seppe rendere il personaggio con robusto rilievo.

Il tenore Michele Fleta per l’estensione e la duttilità della sua voce potente e vigorosa negli acuti, delicatissima nelle sfumature, vellutata nelle note medie, rese con grande efficacia la figura di Paolo, e il baritono Maugeri fu un Gianciotto eccezionale per potenza e bellezza di voce, per maestrìa di canto, per talento interpretativo. Ed ottimo Malatestino il tenore Palai, che si distinse specialmente nel grande duetto del quarto atto. Né vanno dimenticate la Vetulli [sic] nella parte di Samaritana e il gruppo delle quattro ancelle formato dalla Rettore, dalla Porter, dalla Peroni [sic] e dalla Donati.

I cori, guidati dal maestro Achille Consoli, si distinsero per bravura e per fusione.

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Ricchissimi veramente e improntati ad un grande senso d’arte i quadri scenici e i costumi. Interpreti e autore furono più volte evocati al proscenio alla fine di ogni atto fra

interminabili ovazioni. [...]

81 Alberto Gasco, “Francesca da Rimini” di R. Zandonai, «La Tribuna», 28.12.1921 - p. 3, col. 2-3-4

Un altro “Santo Stefano” con buona musica, cantanti pregevoli, dame seminude, uomini in

marsina, piccoli pettegolezzi e flirts magnifici, sentenze di conoscitori e sorrisi di snobs infrolliti. L’inaugurazione della stagione d’opera al “Costanzi” è sempre un gaio avvenimento d’arte e di eleganza, atteso dal pubblico con impazienza estrema. Coloro che hanno il portafogli ben guernito o che possono contare su qualche biglietto di favore si mostrano pieni di fiducia per la nuova stagione; gli altri affettano una diffidenza profonda od anche un olimpico disprezzo. È giusto che sia così. Per spiegazioni, rivolgersi ad Esopo.

Tout bien consideré, riconosciamo che il programma lirico di quest’anno si presenta copioso ed eclettico, sì da soddisfare alle generali esigenze. D’altra parte, notando come il massimo teatro d’opera della Capitale si trovi abbandonato a sé stesso in un periodo di crisi acuta in quanto esso non riceve aiuti dallo Stato, non ha mecenati su cui fare affidamento e riceve dal Comune di Roma una somma che fa pietà, dato il valore odierno della moneta, notando questo increscioso stato di cose, siamo tratti a dichiarare che la gestione del “Costanzi” costituisce un rischio tremendo per un’impresa che voglia conciliare le ragioni dell’arte con quelle dell’industria e allestire spettacoli degni d’alto rispetto come appunto quello che iersera ci è stato offerto.

Bene inteso, se questo eccellente inizio di stagione non avesse un seguito e l’impresa tradisse le sue solenni promesse, considerando il “cartellone” come un qualsiasi... atto diplomatico destinato ad essere strappato a tempo opportuno, noi protesteremmo e strilleremmo ad oltranza: tuttavia, per il momento, dobbiamo ritenerci paghi e soddisfatti. Il Santo Stefano del 1921 ha avuto tutta la giocondità mondana e la sontuosità artistica che desideravamo.

Riccardo Zandonai è venuto personalmente a ripresentarci la sua Francesca da Rimini che in questi ultimi anni ha girato il mondo sotto l’egida della fortuna. Abbiamo ritrovato Francesca prospera, formosa ed eloquente: quella, insomma, che già altre volte aveva destato in noi un interesse vivace. L’opera, ormai, si è imposta alla estimazione del pubblico internazionale ed è entrata a far parte del repertorio lirico moderno: sarebbe sterile e ingrata fatica rinnovare adesso l’esame meticoloso della partitura. Non tutto è oro, non tutto è luce: ma l’oro non è soltanto nelle chiome di Francesca e la luce del pomeriggio di primavera passa, a tratti, nell’orchestra fervida di vita e di grazia. I momenti di schietta poesia non sono rari – basta citare la conclusione del primo atto e tutto il terzo episodio che culmina con la lettura del libro galeotto – ma essi non vanno a discapito del dramma che, segnatamente nelle scene iniziali del quarto atto, prorompe con una violenza impressionante.

Come già altra volta abbiamo detto, l’opera dello Zandonai, pur senza avere una individualità piena, si distacca alquanto dalle solite forme del melodramma italiano contemporaneo. Si nota in essa una insolita dignità di stile, una ricchezza di dettagli sinfonici e un quasi totale abbandono delle viete formule retoriche che tanto hanno nociuto, presso gli aristarchi della critica internazionale, al buon nome dei nostri operisti.

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Se Wagner di tanto in tanto fa capolino, non mai si comporta da padrone e se nel tessuto armonico e orchestrale si avverte l’influenza dei modernissimi maestri d’oltralpe, è da escludersi tuttavia che lo Zandonai soggiaccia alla tirannia di costoro: egli riesce a mantenersi abbastanza libero, per quanto non possa aspirare alla qualifica di innovatore.

Lo ripetiamo: questa Francesca da Rimini, che trascorre giorni tanto felici, va considerata come l’opera egregia di un periodo di transizione: melodica quanto basta per accarezzare il pubblico, armoniosa senza ricercatezze stucchevoli, irrobustita ma non appesantita da una molteplicità di elementi sinfonici, varia d’accenti e spesso vaga di colori, ha sopra tutto il pregio dell’equilibrio e del buon gusto. Se Giulietta, che è prossima a venire al mondo, avrà il fascino di Francesca, saremo soddisfatti; se vincerà la sua maggiore sorella in abbondanza di concetti e di solidità di impianto tematico, canteremo a voce spiegata la nostra allegrezza.

Il giudizio espresso iersera dallo stupendo uditorio del “Costanzi” sulla musica di Francesca è stato di calorosa simpatia. Si è formato subito un corteo in onore della Ravennate e la bella peccatrice è passata tra acclamazioni di festa. Soltanto al secondo atto dell’opera, pieno di fracasso e non di peregrine idee musicali, il pubblico ha avuto un attimo di esitazione. È un peccato che Francesca non possa liberarsi da questa bardatura di guerra. Sembra che la botte di resina ardente manganata dagli armigeri di Gianciotto riversi sugli spettatori non fuoco ma ghiaccio. Per contro, il finale dell’atto primo – pagina così elevatamente poetica da far vibrare di tenerezza anche il cuore di un coccodrillo feroce –, il terzo quadro con i suoi delicati arcaismi orchestrali e le sue larghe ondate di melodia armoniosa, come pure la prima parte dell’ultimo atto, aspra, rombante di minaccie, superbamente drammatica, sono state apprezzate a giusto limite. Non abbiamo fatto il conto delle chiamate al proscenio: certamente però lo Zandonai e i suoi interpreti si debbono essere presentati almeno una ventina di volte a ringraziare l’uditorio plaudente. In complesso, dunque, una serata di esultanza. Ci è oltremodo gradito segnalare la vittoria incontestabile della musica di Riccardo Zandonai e l’assoluto trionfo della tragedia dannunziana, creazione d’arte schietta il cui valore col procedere degli anni e con il raffinarsi del gusto del pubblico appare sempre più sicuro. Paolo e Francesca, Gianciotto e Malatestino sono creature vere – grazie a Dio – e non simboli: il loro linguaggio, a volta a volta, ci incanta blandamente o ci atterrisce; il loro gesto ha non soltanto un’evidenza tragica ma una forza d’umanità che tutta avvince l’attenzione nostra.

Al successo dello spettacolo ha contribuito in larga misura l’esecuzione. Artisti scelti con singolare acume, orchestra volonterosa ed abile, massa corale potentissima, mise en scène di sfarzo regale. Ogni dettaglio è stato curato con la sollecitudine più scrupolosa. Questa edizione della Francesca da Rimini dimostra che l’impresa del “Costanzi”, quando vuole, può compiere prodigi, anche con i mezzi limitati dei quali le è dato disporre.

Gilda Dalla Rizza ci aveva fatto tremare, negli scorsi giorni, per la sua salute. Si diceva che ella giacesse in letto con la febbre a cinquanta gradi – o poco meno – vigilata da cerusici di vaglia. Invece doveva trattarsi di indisposizione assai passeggera poiché la bella e valente artista, riconquistate di colpo le forze, si è potuta presentare iersera nell’ardua parte di “Francesca” e conquistarsi l’applauso della folla unanime. Col procedere della serata la Della Rizza [sic] sembrava che acquistasse nuovo vigore; al terzo atto ella è stata letteralmente affascinante, sia per la soavità del fraseggio che per la sincerità degli scatti di passione, sia per la mirabile ricchezza dell’abbigliamento che per la signorile armoniosità del giuoco scenico.

L’interprete leggiadra e commossa ha trovato nel tenore Fleta un compagno di meriti non comuni. “Paolo il bello” è stato confortato iersera, al terzo atto, da un’ovazione a scena aperta. A sua volta, il baritono Maugeri, un “Gianciotto” formidabilmente espressivo, ha

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avuto nei brani culminanti dell’atto quarto, accenti di memorabile fierezza. Grande artista questo Maugeri, sbucato dall’ombra e impostosi d’un tratto, quasi con la violenza, alla generale considerazione.

Non dobbiamo essere avari di lodi verso il giovane tenore Palai, cantante e attore di infinite risorse, che ha impersonato “Malatestino” con vera perfezione. Buona la Vitulli nella parte piagnucolosa di “Samaritana” e oltremodo notevole la Willaume, una “Smaragdi” degna in tutto e per tutto di stare presso a Francesca e confortarla nell’attesa d’amore. Le altre parti, di minore rilievo, sono state sostenute, spesso con bravura, dalla Donati, dalla Peroni [sic], dalla Porter, dalla Rettore, ecc.

Scenarii di una magnificenza superlativa. Specialmente al primo e al terzo atto, il quadro scenico ha costituito una vera festa per gli occhi dei felici mortali presenti allo spettacolo. È facile, tirando le somme, concludere che questa Francesca da Rimini, artisticamente tanto pregevole e allestita senza risparmio di tempo e di spesa, avrà al “Costanzi” un largo seguito di rappresentazioni fortunate. Intanto, stasera i Maestri Cantori di Wagner ci chiamano all’appello. Nessuno fra gli intellettuali romani vorrà mancare al convegno. Siamo intesi: alle 20,15 precise! I ritardatari saranno linciati e appesi al lucernario del teatro.

Avvisiamo premurosamente di questo giusto ukase i tardigradi che iersera ci hanno funestato durante l’audizione di quasi tutto il primo atto della Francesca da Rimini...

82 a. d. d., Francesca da Rimini di R. Zandonai, «La Voce repubblicana», 28.12.1921 - p. 2, col. 1

Riccardo Zandonai è un musicista che sa il fatto suo. Diligente, esperto nell’uso sapiente

della tecnica orchestrale, accurato, misurato. Non ha esuberanze e non ha eccessive parsimonie; non ricerca facili effetti e non trascura tutte le risorse teatrali. Si sente che egli è padrone di una consumata esperienza, dalla quale ormai ha poco o nulla da imparare.

Ma questa sua Francesca è povera di idee, o per lo meno di idee notevoli. La vicenda tragica dei due amanti, trasumanati nel respiro oceanico della poesia dantesca e rievocati in una suggestiva riproduzione di ambiente dal virtuosismo pittorico di Gabriele D’Annunzio, parla all’anima delle folle con un fascino gagliardo. Riesprimere col linguaggio dei suoni la tragedia significa allargare ancora i confini della passione umana segnati dalla poesia e trarre scaturigini di sentimento capaci di creare intorno al cuore e alla fantasia dello spettatore una irresistibile gamma di sensazioni e di emozioni.

Riccardo Zandonai invece non ha né sconcertato né trascinato il pubblico: lo ha invitato a gustare graziosi motivi decorativi, colorite pennellate di sfondo, miniature e quadretti simpatici, ma la grande, prorompente anima del lirismo è rimasta sorda ai richiami del travaglio d’amore e dello schianto di morte.

Eppure la volontà del compositore sembra indirizzata verso la lampada della lirica, di cui fin’ora abbiamo soltanto una preziosa preparazione orchestrale. Il passaggio dalla Francesca a Giulietta e Romeo non può e non deve significare altro. Auguriamoci che il fuoco del canto d’amore nasca questa volta con uno sprazzo di faville che non si spegneranno.

L’insieme dello spettacolo allestito dall’impresa del Costanzi era decoroso. Cantanti ed orchestra sono apparsi fusi sotto la guida di una vigile e scrupolosa direzione. L’autore è stato secondato da un’orchestra valorosa; Gilda Della Rizza [sic] ha cantato con calore e la sua voce ha raggiunto tutti gli effetti di una difficile tessitura. Molto apprezzato il tenore Fleta per la sua voce calda ed estesa e per una chiara dizione che ha dato rilievo alla pallida e dolente

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figura di Paolo. Attore efficace e cantante robusto il baritono Maugini [sic] (Giannetto) [sic] e veramente ottimo il tenore Palai nella veste del perverso Malatestino.

Notevoli la Vetulli [sic], il baritono Besanzoni, il Malfatti, il De Vecchi e le donne di Francesca. Molto disciplinati i cori istruiti dal maestro Consoli, per quanto sarebbe opportuno non schierarli sul proscenio in primo piano al finale del secondo atto. Gli scenari buoni, specialmente quelli del terzo atto. Il maestro Zandonai è stato il piccolo prodigio animatore dello spettacolo che il pubblico numeroso ed eletto ha apprezzato ed acclamato ad ogni fine di atto.

[...]

83 F., “Francesca da Rimini” al Costanzi, «L’Epoca», 28.12.1921 - p. 3, col. 1-2-3 (con foto di Zandonai)

L’inaugurazione della “stagione” lirica al “Costanzi” può essere e non essere un notevole

avvenimento artistico, ma è sempre un eccezionale avvenimento mondano: la prima grande riunione di tutta l’élite della capitale dopo le vacanze estive ed autunnali, la prima grande esposizione di toilettes invernali, la prima rassegna delle “novità” della stagione: cronaca, critica, pettegolezzo, malignazioni...

Ho assistito iersera, ahimè, alla ventesima “inaugurazione” e ho sentito i medesimi discorsi degli anni passati, sebbene non abbia visto le stesse persone.

Le fanciulle, i giovinetti attendono la “serata” del Santo Stefano con una impazienza, con un’ansia singolarissima; hanno sentito ripetere cento volte, a casa, nelle famiglie amiche, al the danzante che quella è la seratissima per eccellenza, che esser notate, che avere un successo di eleganza e di grazia fra tanta esposizione di ricchezze e di bellezze è premio generoso per ogni più faticosa, costosa e intelligente “preparazione”. Ma le mamme dai capelli bianchi o grigi – quando non sono eternamente biondi o ramati – par che provino un gusto speciale a smontare i facili entusiasmi della figliuolanza anelante a dolci emozioni.

-La solita piena, si sa. I prezzi alti oggi non fanno più paura. Ma che sala, dio mio. Dove son più quelle eleganze raffinate, aristocratiche, mirabili degli anni scorsi? Gente nuova, gente grossolana, gente buffa, stasera.

-Ma c’è la principessa A, la duchessa B, la contessa C... -Eccezioni, figliuola mia. Quanta gente si conosce? Poca, poca, poca... La folla, la grande

folla, nei palchi e nelle poltrone, è fatta di nuovi ricchi, ottima clientela per il botteghino, magra soddisfazione per chi ricorda altri tempi, altre sale, altri sfolgorii di diademi e di collane; gioie degli occhi che non tornano più...

-Come la giovinezza, mammà! E segue la conversazione, con piccole variazioni sul tema ma che ripetono più o meno

esattamente le chiacchiere di due, di cinque, di dieci anni fa. Sempre deliziosi i tempi andati per le mamme non più giovani, dalle quali le fanciulle di oggi, le mamme e le nonne di domani, apprendono l’arte di dir male delle “nuove generazioni” che se ne infischiano e continuano a divertirsi come prima, meglio di prima...

*** Si comincia con un’opera di repertorio; e la critica cede il posto alla cronaca. -La «Francesca»! Ma perché non ce la fanno sentire tutti gli anni? È l’opera che prediligo

fra le ultime venute ad arricchire il repertorio italiano.

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È la marchesa Di Bagno che parla così. E n’è felicissimo Nicolino d’Atri – il diminutivo può continuare per altri cinquant’anni – perché Riccardo Zandonai è un poco “opera” sua: l’ha scoperto lui. Mascagni sostiene invece che l’aveva già scoperto da un pezzo, da quando l’ebbe discepolo al Liceo musicale di Pesaro.

E il rappresentante di Casa Ricordi sostiene che il merito principale è di don Giulio Ricordi che aiutò con sicura fede il giovinetto, malgrado i tiepidi successi del Grillo del focolare, di Conchita e di Melenis.

Zandonai ringrazia con commosso cuore. Ma forse pensa che si è aiutato soprattutto da sé, col suo talento, con il suo studio, con la sua fede. E noi auguriamo ch’egli vada ben lontano su la via de la fortuna artistica, perch’egli è certamente il migliore dei giovani musicisti italiani – nel mondo della musica si è giovani fino a cinquant’anni: ed è da pochissimo tempo infatti che non sentiamo più parlare della “giovane scuola italiana” quando si tratti di Puccini, Mascagni, Leoncavallo, Giordano – e non si concede riposi, così che anche quest’anno assisteremo ad una sua nuova opera, Giulietta e Romeo, alla quale si può fare l’augurio più lieto, sperando che le arrida il successo che dal suo primo apparire sulle scene ha accompagnato la Francesca da Rimini.

*** Un critico dei più severi, lodando nel suo complesso quest’opera di giovinezza che segna

tuttavia la compiuta maturità del talento musicale e della sapienza tecnica di Riccardo Zandonai, affermò che la Francesca avrebbe guadagnato in snellezza e in bellezza con la soppressione del secondo atto: inutile e farraginoso.

Il giudizio è certamente acre, per quanto tutti debbano riconoscere che il secondo sia l’atto meno felice dei quattro: poche idee e molto rumore. E tuttavia iersera anche il second’atto è stato ascoltato con deferenza e con interesse – ma quei trombettieri sul palcoscenico non potrebbero suonare l’inno di vittoria rivolti ai combattenti del... retroscena anziché rivolti al pubblico? – perché esso rivela nello Zandonai quel valente sinfonista che più tardi abbiamo meglio apprezzato nelle sale di concerti e perché il musicista trentino, pur quando la invenzione gli fa difetto, sa sfruttare con squisita abilità i temi che presceglie, tenendosi sapientemente lontano – anche quando l’occasione lo tenti come nell’atto della battaglia – da quella clamorosa banalità, da quel vuoto polifonismo orgiastico che altri maestri italiani, e non soltanto italiani, c’infliggono assai spesso con incosciente compiacenza.

Riccardo Zandonai è un maestro del colore; nella Francesca sono pennellate di una vivezza, di una freschezza, di una grazia che fanno pensare a un musicista consumato nei lenocini dell’Arte. E il colore non è a scapito della melodia che nel primo e nel terzo atto trabocca dal canto gentile delle ancelle come nel duetto del bacio, così vibrante di indomita passione.

Non canto quadrato, non melodia a lungo metraggio; ma declamato melodico, ma largo, ampio fraseggio melodico che segna in più punti la più felice fusione dell’espressione poetica e musicale: passo risoluto tra le antiche forme e le nuove dell’arte melodrammatica nostra, che può allontanarsi fino a un certo punto dalla tradizione melodica italiana e può concedere quel tanto che non offuschi la bellezza del discorso, del canto melodico al commento orchestrale.

*** Francesca da Rimini è stata ascoltata iersera con crescente diletto, dalla prima all’ultima

scena. E il gran pubblico che affollava il “Costanzi” è stato assai lieto di applaudire, oltre che l’autore, il concertatore e direttore d’orchestra pieno di energia, animatore eccellente di masse, pieno di nervi e di passione, coloritore efficacissimo della sua mirabile partitura.

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L’orchestra, a sua volta, ha ben risposto ai richiami vivaci, sottili, amorosi dell’insigne maestro; così come il coro è stato impeccabile sotto la guida del maestro Consoli.

Il pubblico ha appreso con schietto compiacimento che Gilda Dalla Rizza si era rimessa dalla lieve indisposizione che l’aveva colpita giungendo a Roma e che avrebbe indossato ancora una volta le vesti eleganti della celebre peccatrice.

La Dalla Rizza ci ha dato una nuova, mirabile interpretazione della Francesca. la sua voce stupenda, la sua dizione raffinata, il suo gesto signoreggiato da una non comune intelligenza artistica, dànno il più alto rilievo ad ogni scena, ad ogni frase. Spira dal suo volto una languida tristezza che solo nel bacio di Paolo si tramuta in gioia veemente tetragona ad ogni preoccupazione. E la tristezza o la gioia si trasfondono con magnifica trasparenza dal volto nella voce, così ch’ella ci dà l’impressione squisita di una vivente realtà scenica, non facile ad ottenersi sul teatro di prosa, assai più difficile a raggiungersi nel teatro di musica.

Il tenore Fleta ci è parso bene a posto nella parte di Paolo: bel giovane, ha perfezionato il suo canto togliendogli molte di quelle ineguaglianze che sminuivano il valore della sua bella voce. Sta in scena con signorile correttezza ed è certo uno dei più sicuri elementi di successo di questa interpretazione, che conta anche un ottimo Gianciotto, il Maugeri, baritono dalla voce potente ed attore efficacissimo, e un eccellente Malatestino, il tenore Palai, che potremo ancora meglio apprezzare in parti più importanti. La Vetulli [sic] – la Samaritana – e le quattro ancelle – le signorine Rettore, Porter, Pieroni [sic] e Donati – sono degne dell’insieme.

Elegante e accurato l’allestimento scenico. Gli applausi sono stati molti e calorosi. E fanno prevedere un gran numero di repliche

dell’opera di Zandonai. Intanto stasera in seconda recita di abbonamento, prima rappresentazione dei Maestri Cantori di Wagner, sotto la direzione del maestro Reiner. Lo spettacolo comincia alle 20.15. Niente paura: si va a cena un po’ prima. E, del resto, peggio per i ritardatari!

84 L. T., La serata inaugurale al Costanzi, «Il Popolo romano», 28.12.1921 - p. 3, col. 2-3

Non c’è da disperare nell’avvenire economico d’Italia. Iersera, malgrado i prezzi enormi, il

Costanzi era pieno. E tutta la gente intervenuta mostrava il volto ilare di chi non ha lasciato a casa nessuna preoccupazione.

C’erano più diamanti sul seno delle signore che non vi siano stelle nello zodiaco. E nel sorriso delle dame, che è sempre un po’ il termometro delle borse dei mariti, c’era l’augusta serenità di chi ha, appesa sul retropalco, una pelliccia da venticinquemila lire. Dopo di che andate a negare che la vita è bella e che i pallidi economisti non sono gli eunuchi dello spirito.

Signora Emma Carelli, voi potete ancor più calcare la mano sui vostri prezzi (per rifarvi, s’intende, del disastro finanziario dell’anno scorso); ci sarà sempre della gente che accorrerà fidente a voi, come belando inconscio l’agnellino allo scannatoio.

Tutta la più eletta aristocrazia e la borghesia dei più fini generi (assai notato in preponderanza il genere alimentare) era rappresentata alla cerimonia votiva di Santo Stefano. Tutti gli intenditori ufficiosi ed ufficiali della musica avevan preso posto per tempo sugli scanni del loro tribunale senza appello.

Allorché la marcia reale ha annunciato la Corte, la sala presentava veramente uno spettacolo che, per rimanere nella tradizione delle parole di etichetta, poteva dirsi imponente.

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A un tratto le lampade si spengono e nel silenzio azzurrognolo solcato di mobili iridescenze (sono le pietre preziose delle dame?) la bacchetta di Zandonai batte il colpettino di avviso. In un’atmosfera da mistero elusino la Francesca si inizia.

E si vivrà, oimè e si vivrà tuttavia e il tempo fuggirà, fuggirà sempre!...

O sì, spaventosamente su te sfugge il tempo, Francesca di Zandonai. Quanti anni son passati per te dal 1914? Innumerevoli. Sei vecchia. Questa è la sensazione dolorosa che io ho avuto di te iersera. Vecchia d’una vecchiezza spaventosamente precoce. Oimè, che i venditori di aromati, di pomate, di lavande hanno oggi tutto adulterato e sotto la loro patina falsa il fiore della carne viva non avrà più durata dell’emerocallide!

Ma è forse l’ora di abbandonare la perifrasi fiorita. Zandonai può dall’alto della ormai sua indiscutibile celebrità e del suo chiaro e fortissimo ingegno ascoltare le parole brevi e precise che, se non altro, manifestano una opinione onesta.

Francesca deve la sua vecchiezza precoce, secondo me, al suo respiro: respiro breve, poco ossigeno, senza di che la giovinezza muore per fatalità organica.

Anche le opere musicali sono un po’ come le creature umane: non c’è buon respiro senza una inspirazione profonda. È l’inspirazione profonda che manca a Zandonai, sempre. Egli tutto apprese dal suo maestro tranne che questo: il segreto dell’inspirazione.

Francesca non ha un’anima: ha dei piccoli frammenti di animule primordiali, saldati tra loro da un mastice caduco di cui, volatilizzate le resine tenaci, non rimane che creta friabile. Sette anni son bastati a render creta il mastice della forma; e la sostanza, eterogenea, si è dispersa. Troppo ha cercato un valore, Zandonai – e troppo vi ha confidato – nel lenocinio della forma armonica e strumentale come chi troppo si indugia a seguire nei suoi più minimi particolari una moda immanente. Ne viene di conseguenza – come ne è venuto all’autore di Francesca – che l’abito troppo aderente alla moda di un tempo non è più portabile quando, anche di poco, questa moda muti. E in sette anni la moda è mutata assai. Nuovi disegni, nuovi colori, nuove armonie di tagli e di scorci si stanno già da tempo negli ateliers della creazione musicale preparando.

Francesca senz’anima, con un vestito fuori tempo, chi più si volgerà ai tuoi richiami tra poco?

E si morrà, oimè e si morrà tuttavia E il tempo fuggirà, fuggirà sempre!...

Né ti fidare degli applausi di iersera, Francesca. I pubblici delle grandi occasioni sono infidi assai e se ne vanno via come “le gallinelle” per poco che la “stella Diana” della moda li attiri verso un altro quadrante del cielo musicale.

Zandonai: tutto il mio augurio fervido e sincero per la nuova battaglia imminente: Giulietta e Romeo.

*** La cronaca ha registrato iersera infinite chiamate ed entusiasmo delirante: per l’autore e

per gli esecutori i quali tutti, cori compresi, veramente hanno fatto il loro possibile per

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raggiungere il buono affiatamento. La Dalla Rizza – che ormai conosciamo da tempo immemorabile: non è forse divenuta una interprete inamovibile al Costanzi? – è sempre una elettissima artista anche quando come iersera il suo canto è lievemente nasale.

Il Fleta – nuovo cantore di moda – ha nella sua voce ancor non completamente trenata, elementi simpatici e promettenti.

Il Palai mostra di voler avere un personalissimo stile di canto, la qual cosa è oltremodo lodevole.

85 a[driano] b[elli], La Francesca da Rimini del maestro Zandonai, «Il Corriere d’Italia», 28.12.1921 - p. 3, col. 2

Lo spettacolo inaugurale della grande stagione lirica di carnevale-quaresima al Costanzi è

riuscito ottimo sotto ogni riguardo. I sovrani, insieme con il principe ereditario e le Principesse, hanno voluto assistere allo

spettacolo, ed il pubblico l’ha salutati con grandi applausi. L’ampia sala era uno splendore: ovunque una folla innumerevole che non lasciava libero il

minimo spazio: tutto un pubblico intellettuale, che ha seguito col massimo interesse l’opera dello Zandonai ed ha mostrato di gustarne ogni bellezza ed apprezzarne l’odierna pregevole esecuzione.

Francesca da Rimini, passata in sette anni di vita attraverso i più disparati pubblici suscitando ovunque i più schietti entusiasmi, è opera che oramai non si discute più. La musica dello Zandonai piace e piace molto, perché i suoni sono in sapiente armonia tra loro, perché ogni situazione risulta in modo scultoreo ed ha pagine che vi cullano in una vera atmosfera di sogno, e perché l’armonizzazione è moderna senza pedestri imitazioni, e l’orchestra robusta, completa in modo mirabile il dramma. La melodia ha respiro breve ma è sempre convincente e rende perfettamente il senso della parola. Alla tragedia medioevale il musicista è riuscito a dare il colore di cose remote che le si addice. Il primo atto è di una felice efficacia descrittiva e nel finale il musicista diviene un colorista impareggiabile. La melodia riboccante di tenerezze affidata alla “viola pomposa” e il canto dolcissimo delle donne «Per la terra di maggio...» sopra il morbido accompagnamento orchestrale sono di una suggestiva e trascinante bellezza che non si discute. Basterebbe il terzo atto con il suo continuo progresso di magnifici effetti per far decretare il trionfo all’autore genialissimo, padrone assoluto della tecnica e del teatro.

Il pubblico acclamò vivamente e calorosamente l’autore, tanto più che ieri sera si presentava sotto una veste nuova: quella di concertatore e direttore d’orchestra. E fu una vera e assoluta rivelazione. Lo Zandonai si è mostrato un concertatore poderosissimo. Il secondo atto così vario e complesso, così movimentato, che assurge al finale ad una strapotente sonorità corale ed orchestrale, ci apparve di una chiarezza mirabile per merito di lui, che seppe far risaltare ogni tema ed ogni attacco ed ogni frase in modo scultoreo. Riccardo Zandonai è un grande, grandissimo direttore di orchestra e il pubblico gli decretò così un doppio trionfo.

Protagonista Gilda Dalla Rizza, la quale, quantunque indisposta, non ha voluto negare il contributo della sua arte al grande avvenimento. La sua voce, animata sempre da un grande calore di espressione, rese la parte con grande efficacia. Scenicamente compose con bella linea la figura di Francesca e riuscì così nelle dolci e soavi scene del primo atto come in quelle di sgomento, di dolore e di passione e di disperazione del resto dell’opera, sempre

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efficacissima, e seppe farsi ammirare e applaudire dall’imponente uditorio. L’opera si presenta un po’ grave per lei e noi vorremmo che l’intelligentissima artista abbandonasse un genere che potrà esserle fatale.

Nella parte di Paolo il tenore Michele Fleta confermò la buona fama conquistatasi già lo scorso anno. Disse tutta la parte, irta di enormi difficoltà di tessitura, con grande arte e giusta espressione riuscendo a rendere con uguale perfezione la mezza voce e gli acuti più poderosi. Fu applauditissimo.

Il baritono Carmelo Maugeri diede per robusta voce e per vigoria di accento un ottimo risalto alla parte di Gianciotto e così anche efficacissimo si mostrò Nello Palai in quella molto difficile vocalmente e scenicamente di Malatestino.

Le parti secondarie tutte ottime: la Vitulli (Samaritana), la Rettore (Biancofiore), la Porter (Garsenda), la Zerovio [sic] (Altichiara), la Donati (Donella), la Willaume (la schiava), il Malfatti (ser Toldo), il Marcotto (il Balestriere), De Petris (il Torrigiano).

I cori benissimo istruiti dal maestro Achille Consoli, a cui per stasera nei Maestri Cantori è riservata la prova del fuoco.

86 La sera del Santo Stefano al Costanzi, «Il Tempo», 27.12.1921 - p. 3, col. 4

Ieri sera il Costanzi era bello a vedersi, pieno sino all’orlo, raggiante di luce e di bellezze

muliebri. Un pubblico enorme e sceltissimo s’era dato convegno nell’elegante e armoniosa sala per assistere, dopo molti mesi di silenzio, alla solenne riapertura della stagione lirica. Tutte le figure più note dell’arte e della mondanità erano presenti alla recita della Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai, che venne accolta con un continuo e spontaneo favore. La esecuzione, sotto ogni rapporto accurata e vivace, contribuì a rendere vittoriosa e felice questa serata dell’inaugurazione. Già fin dall’inizio, al suo uscire, il maestro Zandonai salito sul podio venne fatto segno ad una cordiale manifestazione di simpatia.

Alla fine del primo atto, che fu ascoltato come tutto il resto dell’opera con religiosa e deferente attenzione, il pubblico plaudente volle chiamare con grido unanime il giovane compositore trentino alla ribalta. Per parecchie volte il maestro Zandonai fu costretto a presentarsi, accolto da battimani fragorosi e incessanti, prima con gli artisti e poi da solo nella luce e nella gloria violenta. Uguali accoglienze ottennero il secondo, il terzo e il quarto atto; il successo insomma, decisamente delineato al principio della recita, si mantenne ugualmente caldo ed entusiastico sino alla fine.

La celebrata artista Gilda dalla Rizza, che sosteneva la parte della protagonista, assolse con grandissimo valore e incomparabile semplicità e chiarezza di mezzi il difficile compito che le venne assegnato. Questa artista che si dà sempre con passione, anima e corpo all’arte sua, non avrebbe potuto rappresentare con maggior delicatezza e con più calda intelligenza il personaggio di Francesca da Rimini. Essa suscitò naturalmente nel pubblico romano, che la conosce e la predilige anche per la squisitezza immacolata della sua intonazione, un entusiasmo senza limiti.

Il giovanissimo tenore Fleta, che si fece favorevolmente conoscere al Costanzi durante la scorsa stagione, fu, nella parte di Paolo il bello, cantante ed attore misurato e felice; la bellezza dei suoi mezzi e l’impeto ricco di giovinezza che egli mette nelle frasi più salienti dell’opera gli valsero le più lusinghiere accoglienze.

Il baritono signor Maugeri, Gianciotto, fu per noi una rivelazione lietissima: non conoscevamo nemmeno per nome questo cantante e questo attore dal temperamento così

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irruento e dall’intelligenza così ardente; non abbiamo qui il tempo di fare analisi, ci basti dire che egli possiede le più virili e autentiche qualità di un artista.

Il tenore Palai, Malatestino dall’occhio, fu anch’egli una vera e degna sorpresa di questa stagione appena incominciata: la sua maniera tagliente e precisa, il suo accento crudele e quel modo chiaro e violento di scoppiare con la voce valsero a dare il massimo rilievo al carattere che egli doveva rappresentare. Tanto egli che il baritono Maugeri contribuirono decisamente al successo della recita.

Anche la signorina Vitulli, il signor Malfatti e tutti gli altri di cui ora ci sfugge il nome, consorsero a completare la bellezza del quadro e la dignità della esecuzione musicale. L’orchestra, diretta con grande foga dallo stesso autore, fu spesso ammirevole; i cori fecero miracoli e le scene furono decorose.

Assistevano alla rappresentazione le LL. MM. il Re e la Regina, il Principe ereditario, la Principessa Mafalda, con i rispettivi seguiti.

[...]

87 Al Teatro Costanzi torna la “Francesca da Rimini” poema di vita e di passione, attraverso le possenti armonie di Riccardo Zandonai e nella magnifica interpretazione di Gilda Dalla Rizza, di Michele Fleta e di Carmelo Maugeri, «La Maschera» II/28, 28.12.1921 - p. 1, col. 1-2-3-4-5-6 / p. 2, col. 1-2-3-4 (a p. 1: ritratti fotografici di Zandonai, Fleta, Dalla Rizza, Donati, Maugeri, Besanzoni, Vitulli; a p. 2, a centro pagina: sonetto di RE-BECCHINO dedicato a Gilda Dalla Rizza:

Gilda Dalla Rizza

Tu che sprigioni, col gorgheggio alato,

la melodia ch’ogni fibra tocca, perdona se vogliamo celebrato il gran fastigio della grande bocca!

Dicci chi fu che modulò le note nella gola sublime, ammaliatrice? È un divino poter quello che puote fare il divino... ch’all’uman non lice.

Signora eccelsa di virtù preclari: nell’arte, fiera, ben sicura avanzi... Luce Tu sei fra tanti luminari!

I maestri s’inchinano d’innanzi a quei trilli canori, senza pari, che, perfetti, regali nel Costanzi!

L’opera È accaduto per la Francesca da Rimini di Zandonai quel che avviene per le opere migliori

di altri musicisti. Tornando – alla distanza di diversi anni – desideratissima – sulle scene del

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Costanzi – vi ha ritrovato le magnifiche accoglienze che la salutarono la prima volta al suo apparire. Gli è che la Francesca da Rimini è di quelle opere che – riascoltandole – danno modo di meglio gustare le varie bellezze in esse racchiuse. E ieri sera, in virtù di una esecuzione quanto mai efficace, l’opera dello Zandonai ha riportato nuovamente un autentico completo successo.

L’opera di Riccardo Zandonai – quarta di una produzione nobilissima – suscitò deferenti discussioni da parte di critici e di musicisti, i quali, incontentabili come sono, cercavano di scindere la personalità dell’autore: vale a dire separavano il sinfonista dall’autore di teatro, giacché per loro il valore poetico del primo atto non poteva amalgamarsi con quello drammatico del secondo e con quello passionale del terzo.

Se allora queste osservazioni potevano sembrare opportune, oggi invece, dopo aver udite con serenità di spirito le passionali melodie di Paolo e Francesca, la nostra impressione è di un’ammirazione incondizionata.

La musica di Zandonai nella Francesca da Rimini, al par di quella di Conchita, ha una vita tutta propria, ha caratteristiche tutte speciali che si estrinsecano in una lirica atmosfera musicale – di alto pregio –. Non ci si venga a dire che il sinfonista soverchia di gran lunga l’autore teatrale, poiché in Francesca da Rimini riscontriamo qualità dell’uno e dell’altro che procedono di pari passo e si fondono in un tutto inscindibile.

Zandonai è un semplice e puro illustratore del quadro scenico nel finale del primo atto, in cui l’incontro di Paolo e Francesca è degnamente accompagnato da strumenti imitanti la violetta, il piffero, il liuto; è un ottimo colorista nei coretti e nelle danze delle donzelle inghirlandate nel terzo atto; ma è soprattutto un melodista che lirizza e canta nel duetto tra Paolo e Francesca. Anzi, si può dire che la Francesca da Rimini contenga musica melodica e cantabile che riconduce le voci alla grande tradizione nostra, mentre l’orchestra si limita a descrivere, a commentare le melodie vocali.

Riccardo Zandonai nella Francesca da Rimini ha dato libero sfogo al canto. Distaccandosi dalle opere precedenti, egli canta con spontaneità, con sincerità, con vera sentimentalità italiana, sicché troviamo interi periodi melodici che assumono valore drammatico e senso musicale ispiratissimo.

Lo stridente contrasto che si rileva nel secondo atto che con le possenti sonorità e i suoi coloriti accesi sembra quasi una stornatura fra la squisita delicatezza del primo e la passionalità del terzo atto, è da ricercarsi nelle natura del libretto. Ed è appunto per secondare lo svolgimento dell’azione che lo Zandonai si rimette alla sua sapienza di sinfonista e di colorista. Infatti l’orchestra, dal primo tema grave e pesante per l’apparizione di Gianciotto, passa a descrivere l’impeto della battaglia in una fusione sinfonica perfetta, per poi riallacciarsi al tema di Paolo ed attaccare il quarto tema svolto sulla quarta corda degli archi, ritmicamente accompagnato dal battito del dorso degli archi sulle corde dei controbassi: accompagnamento caratteristico che fa rimanere perplesso il pubblico, il quale viene rianimato dalla fine dell’atto che è maestosa, imponente.

Senza più oltre attardarsi nell’esame dell’opera, dobbiamo riconoscere che Riccardo Zandonai nella sua opera ha saputo sposare, sapientemente sempre e spesso anche con commozione sincera, la ispirazione a quella del poeta in modo da porre in degno rilievo, forse anche accentuandolo, il disegno dell’opera d’arte.

Da questa pura e schietta ispirazione, Riccardo Zandonai trae l’arte sua che è profondamente umana: per cui la meravigliosa leggenda dantesca evocata con grande efficacia rappresentativa da Gabriele d’Annunzio appare molto più chiara e compiuta, poiché vi spira, attraverso melodie attraenti e potenti sinfonie, l’alito di una nobilissima anima musicale.

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Gli è che la musica di Riccardo Zandonai, specie in Francesca, è squisitamente e modernamente italiana, nel sentimento, nel gusto e nell’estetica stessa. Italianità che ci sarà dato apprezzare e considerare ancora di più nella nuova opera «Giulietta e Romeo». Dopo la rappresentazione della nuova opera potremo tornare a discutere della italianità della musica zandonaiana: per ora ascoltiamo, ammirando, la Francesca, racchiudendo la nostra sensibilità in una attesa febbrile. Forse dalle balze del fatidico Trentino scaturirà la ricca, limpida fonte d’italianità attraverso l’amore ed il desio accorato di Giulietta e Romeo.

L’esecuzione

L’esecuzione non poteva essere migliore. Sotto la vigile, sapiente, accurata direzione dell’autore, l’opera è stata presentata in una edizione nuova, diremmo quasi nuovissima. Riccardo Zandonai ha riconfermato la sua fama di un direttore fortissimo e mirabile per efficacia, per misura, per slancio, per sapienza di concertazione e di coloritore.

Egli è stato festeggiatissimo e come autore e come direttore d’orchestra. Duplice successo, adunque, che torna ad onore dell’illustre musicista. Serata solenne, questa della Francesca da Rimini, e solennemente trionfale per Riccardo Zandonai.

Il pubblico romano ha voluto riconfermargli tutta la sua stima ed esternargli tutta la sua riconoscenza evocandolo infinite volte al proscenio, insieme agli artisti tutti.

La bacchetta animatrice del maestro ha trovato magnifica rispondenza di valore e di entusiasmo in tutti gli elementi dell’esecuzione, a cominciare dall’orchestra, che ha suonato splendidamente.

E che dire degli interpreti tutti? Hanno gareggiato in bravura ed han fatto bene. Gilda Dalla Rizza, la mirabile artista che onora il teatro lirico italiano, reduce dalla

trionfale tournée americana, si è affermata ancora una volta interprete eccezionale. La Dalla Rizza, che ha una voce bellissima, dolce e forte, vellutata e squillante, fresca ed

estesa, intonatissima, la adopera con arte consumata. Per giunta, iersera, dimostrò d’aver inteso il personaggio dell’eroina dantesca, componendolo in una nobile linea d’interpretazione.

Gilda Dalla Rizza è troppo nota ormai per doverci ripetere sulle sue qualità artistiche. Non v’è musicista che non la prescelga a interprete delle proprie opere. Ciò torna ad onore dell’esimia cantante ed è un giusto riconoscimento dei suoi meriti.

Riascoltando Gilda Dalla Rizza dobbiamo constatare che la sua voce è sempre e più che mai la voce famosa che si piega a tutte le volontà della cantante, che ha sonorità ed estensione meravigliose, che in sé aduna la solidità del bronzo e la morbidezza del velluto e si erge arditissima nei punti più aspettati con note acute che sono raggi di sole in pieno meriggio.

Nella Francesca da Rimini ha riportato un successo personalissimo, inquantoché è la prima volta che si presenta al pubblico romano sulla parte della creatura zandonaiana. E bene ha fatto il pubblico romano a rimeritarla di vivi, calorosi, prolungati applausi.

Degno compagno dell’esimia artista è stato il tenore Michele Fleta. Anch’egli, apprezzato e conosciuto dal pubblico romano, ha cantato con maestria ed ha fraseggiato con vigore d’intenzioni e con splendida chiarezza.

Sono recenti i successi riportati dal tenore Fleta a Venezia e a Bologna ove è stato assai festeggiato e dove ha ottenuto successi lusinghieri. L’anno scorso al nostro Costanzi fu una rivelazione: nelle opere da lui eseguite seppe fare sfoggio della sua possente voce e della sua arte incomparabile. Fin da allora facemmo per lui le migliori previsioni. Ed infatti, nella prova di ieri sera, ha riconfermato le sue qualità d’artista valentissimo.

La Francesca da Rimini è un’opera nella quale può mostrarsi la virtù di chi possiede un grande volume di voce. Il tenore Fleta, oltre che portare la sua virtù alla massima espressione

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di potenza, fu anche aderentissimo al personaggio di Paolo. Ebbe impeti – di passione e di spasimo – esteriorizzati con bella incisività. Sin dalle prime frasi egli avvinse l’uditorio colla potenza dei suoi mezzi vocali, squillanti ed omogenei, dando una calda suggestione alle frasi – che scolpisce con sentita espressione – e sensazioni profonde al pubblico che poté apprezzare ancora una volta il talento preclaro del valentissimo artista.

Il tenore Fleta, in una parola, si è dimostrato un cantante superbo, il cantante dalle grandi risorse, dalle chiare note ampie e squillanti, che sa abilmente temperare la grande potenza del suo organo vocale colle delicate sfumature delle mezze voci e raggiungere così effetti canori felicissimi.

Noi siamo lieti di registrare il nuovo successo romano. Accanto a Gilda Dalla Rizza e a Michele Fleta, per completare il terzetto, è giusto

collocare il baritono Maugeri nella parte importantissima di Gianciotto. Il baritono Maugeri, nuovo per le scene del Costanzi, ha vinto una bella prova che l’ha posto magnificamente in luce. Egli ha fatto [della] tipica figura di Gianciotto uno studio assai accurato, lumeggiandovi le migliori doti della sua versatilità artistica.

Ha saputo alternare le più soavi morbidezze vocali agli impeti drammatici di una parte che ha difficoltà pericolosissime.

Si è dimostrato eccellente cantante per freschezza di voce e chiarezza di fraseggio, ornato di una voce intonata, bella, non priva di energia nell’accentuazione, vibrante nel registro più basso.

Il suo canto fu assai espressivo. La voce che egli sa rendere dolce e insinuante poté prodigarsi sempre nei punti anche più scabrosi della sua ardua partitura e resistere fino all’ultimo atto, dove nella prima parte, nel duetto con Malatestino, fu particolarmente ammirato.

Battesimo più felice e più propizio non poteva non [!] avere il baritono Maugeri: successo che sarà l’inizio di altri ancora migliori nell’attuale stagione lirica.

Il tenore Palai Nello, buon cantante e coscienzioso artista, ha fatto della parte di Malatestino una creazione speciale, meritandosi vive acclamazioni.

Altro successo da registrarsi nella lieta cronaca di questo spettacolo è quello del baritono Besanzoni. Il giovane e diggià provetto artista ha inaugurato le sue fatiche di quest’anno al Costanzi con una singolare interpretazione del personaggio di Ostasio.

L’anno scorso, quando debuttò nella Carmen sulle stesse scene del Costanzi, avemmo parole assai lusinghiere per il giovane baritono. Quest’anno poi, reduce da un fortunato giro nei migliori teatri americani, abbiamo riscontrato in lui qualità e pregi ancora maggiori.

La sua voce sana, uguale, estesa: voce sonora e ferma, di carattere adamantino, è adatta alle opere di grande sile che richiedono forza di accenti e una declamazione robusta e una espressività convincente.

Queste doti, il baritono Besanzoni ha dimostrate dinanzi al pubblico intelligente del Costanzi ed ha avuto in compenso accoglienze brillantissime.

Di questo giovane artista avremo modo di riparlare più a lungo durante la stagione. Per ora ci limitiamo a segnalare il vivo successo ottenuto.

Ed eccoci a Thea Vitulli, la Samaritana, l’artista bella e graziosa che si avanza per l’aspro sentiero dell’arte con passo rapido e sicuro. Thea Vitulli, l’anno scorso, ottenne uno schietto successo nell’opera del maestro Vittadini Anima Allegra. Alla distanza di un anno ha riportato un nuovo successo nell’opera del maestro Zandonai.

È veramente notevole come la gentile artista cerchi di farsi strada nel campo lirico ed è veramente degna di encomio l’accuratezza singolare che dimostra in ogni personaggio che

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interpreta. Dotata di un temperamento artistico eccezionale, porta in sé tutta la vividezza, tutta la grazia, tutto il fascino dell’anima latina.

La sua voce – di una purezza adamantina – ha trovato nella parte assegnatale dal musicista il mezzo più adatto per avere il proprio risalto. In tutta la parte – vibrante di vivo sentimento – essa fece sfoggio di una voce bellissima, calda, insinuante, di facile e pura emissione, felicissima nel registro acuto, confermando le sue doti di interprete versatile e perspicace.

Le feste schiette e fervide che il pubblico le tributò furono segni non dubbi e ben lieti dell’unanime consesso dell’uditorio.

Le quattro ancelle di Francesca erano impersonate dalle Sig.re Portes [sic], Peresio [sic], Donati e Rettore – Cantarono efficacemente. – La Sig.ra Donati ebbe modo di sfoggiare delle belle note che le accattivarono la simpatia del numeroso pubblico.

Gli è che la Sig.ra Donati ha una voce dolcissima, piena di risonanze, vellutata, che emette con singolare facilità.

Con la sua bella voce accompagnata da un’arte da provetta artista ha dato vivo rilievo alla parte di Donella, parte ardua e difficoltosa.

Una lode senza riserva spetta al coro egregiamente istruito dal maestro Consoli, il valente animatore di masse corali, prezioso ausilio di ogni spettacolo. Il maestro Consoli ha portato la massa corale alla migliore efficienza ed alla maggiore espressione di organicità e di ciò dobbiamo congratularci con lui.

L’allestimento scenico, oltremodo luminoso, è parso superiore ad ogni previsione. Pericle Ansaldo, l’infaticabile ed apprezzato direttore di ogni spettacolo, ha dimostrato ancora una volta il suo aristocratico buon gusto.

In complesso si tratta di uno spettacolo di ordine elevatissimo al quale tutta Roma accorrerà plaudente se non altro per onorare Riccardo Zandonai, l’illustre maestro trentino che rapidamente ascende verso la gloria lusinghiera.

Non possiamo chiudere queste note di cronaca senza rivolgere il nostro incondizionato plauso ed i nostri vivi rallegramenti ad Emma Carelli che ha prodigata tutta la sua attività perché lo spettacolo riuscisse degnissimo del Costanzi, né è da dimenticarsi l’infaticabile cav. Poggioli che coopera con illuminata saggezza al buon andamento di tutto.

Ottimi per voce e azione scenica il tenore Malfatti, il De Vecchi. [...]

[l’articolo prosegue con un profilo del baritono Carmelo Maugeri]

88 “Francesca da Rimini” du maestro Zandonai, heureusement choisie pour l’inauguration de la saison d’opéra au Costanzi, a marqué un triomphe magnifique et aristocratique d’art ed te beauté, «L’Italie», 28.12.1921 - p. 3, col. 3-4

Le public des grands événements scéniques se pressait hier soir dans la vaste salle du Costanzi. Les beautés féminines et les célébrités masculines les plus connues passaient dans le foyer et le long des couloirs suivies par un murmure d’admiration.

Cet hommage de Tout-Rome au maestro Zandonai et à ses interprètes était vraiment émouvant. Personne n’avait voulu manquer l’occasion de témoigner au grand musicien et à la célèbre artiste Gilda della Rizza [sic] toute [riga saltata, n.d.r.] public romain.

Lorsque M. Zandonai est monté sur le “podium” une vaste ovation lui a porté l’éclat du sentiment de sympathie des spectateurs. Et l’opéra a commencé tandis que la salle retentissait encore des applaudissements enthousiastes.

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L’opéra

La renaissance de la musique orchestrale et symphonique a marqué en Italie le passage définitif d’une époque à une autre. Les derniers échos du romantisme mourant, retentissaient dans les œuvres des premiers symphonistes et Arrigo Boito, à l’audace innovatrice et à l’esprit original duquel nous devons le commencement de la réforme, écrivait en même temps le «Mefistofele» en musique et le «Re Orso» en prose. Les premiers efforts pour rentrer dans une ligne classique et traditionelle, efforts qui aboutiront ensuite aux nouvelles écoles poétiques symbolistes et “verslibristes” sont facilement visibles dans le «Re Orso»; de même que les derniers cris du romantisme musical, ce romantisme qui produit toutes le œuvres de Verdi avant le «Falstaff», passent dans les harmonies de «Mefistofele». Et c’est à dessein que nous rappelons le nom d’Arrigo Boito au sujet de l’œuvre de Zandonai. On ne doit pas voir dans ce rapprochement une “diminutio capitis” pour la «Francesca da Rimini». Nous cherchons simplement à expliquer ainsi les raisons du contraste intime que la musique de Zandonai porte en son sein. C’est une œuvre née dans ces temps derniers, mais elle porte encore en elle les signes de cette lutte et de ces signes naît, étrange cas, une puissance de vie et d’humanité vraiment supérieure. Si la «Francesca da Rimini» avait été posée dans une formule, silencieusement, elle aurait été une œuvre morte. Ainsi, elle vit d’une vie puissante et originale, qui l’impose au public et à la critique.

L’interprétation

Nous avions annoncé hier que Mlle Gilda della Rizza à cause d’une indisposition avait dû renoncer d’interpréter le rôle de Francesca. Heureusement cette nouvelle était fausse: bien qu'un peu malade, Mlle della Rizza n’a pas voulu manquer cette superbe première et elle s’est présentée au jugement du public, sûre de sa compréhension. Mais sa voix, quoique un petit peu voilée, a triomphé de sa maladie et s’est répandue magnifique comme toujours dans la salle enthousiasmée. Elle a porté les vagues de l’harmonie la plus exquise dans un ensemble superbe; elle a su broder les soupirs et la volupté du troisième acte d’une façon absolument sans pareille. Son interprétation artistique, digne de nos plus grandes actrices, a donné à la figure de Francesca un relief tout particulier et une vie très humaine. Le triomphe de Mlle Della Rizza a été énorme. Le public l’a couverte de fleurs et les ovations des admirateurs se suivaient innombrables.

La voix du ténor M. Fleta a, elle aussi, très bien caractérisé la personnalité de Paolo et M. Maugeri (Gianciotto), M. Palai (il Malatestino), M. Besanzoni (Ostasio) et tous les autres ont été dignes de leur grands partenaire. On ne pouvait, en somme, s’attendre à rien de mieux, on ne pouvait espérer un succès plus complet pour cette inauguration, qui a vraiment marqué un triomphe aristocratique et sans pareil d’art et de beauté.

[...]

89

[Costanzi], «Musica» XVI/1, 15.1.1922 - p. 2, col. 5 Il Costanzi la sera di Santo Stefano era affollato, riboccante di tutto il miglior pubblico

artistico, letterario, mondano della capitale, accorso ad ascoltare una delle opere moderne che più si fanno applaudire per la severa concezione drammatica, per la poetica coloritura della musica e per il cesello orchestrale: cioè la «Francesca da Rimini» diretta dall’insigne autore Riccardo Zandonai.

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L’accoglienza fu quale siamo soliti a registrare in tutte le città d’Italia ove l’opera si era presentata. La musica dello Zandonai è come una ragnatela di soavissima malinconia, i cui fili iridati di rugiada avvolgono l’anima di una rete nostalgica e disperata. Non conosco autore che renda più pittoricamente quella vita medioevale intessuta di sfarzi e di povertà, di canti e di urli, di abbandoni e di lotte, di amore e di morte, quale ormai si dipinge la nostra fantasia assuefatta a sognare nelle viuzze sotto i portici entro le mura delle nostre antiche e gloriose città, quando i merli le altane. [?]

L’insieme degl’interpreti dell’opera è veramente pregevole: Gilda Dalla Rizza (Francesca), benché manifestasse specie nel 1. atto i segni della convalescenza, si mantenne all’altezza della sua fama; Michele Fleta (Paolo) fu un po’ rigido come attore ma cantò con squisito sentimento e buon gusto; ottimo sotto tutti i rapporti il Maugeri (Gianciotto) e molto bene a posto Nardi (Malatestino)

[...]

90 La settimana al Costanzi, «Le Maschere» IV/2, 16.1.1922 - p. 2, col. 2

Si sono alternate recite di «Francesca da Rimini», de «I Maestri Cantori» e di «Tosca». Ne

la «Francesca da Rimini» la parte della protagonista fu ripresa dalla valorosissima signorina Rinolfi, che – in verità – aveva cantato, vestita fin anco in costume, fino alla prova generale dell’opera. A noi sfuggono le ragioni per le quali ella non “montò”, come aveva fatto a Pesaro, l’opera dello Zandonai; ma giungiamo in tempo a proclamarla artista dai mezzi vocali poderosi e bellissimi e dalla dizione buona e corretta.

Saremo felici di giudicarla ancora in un’opera di repertorio [...]

91 Emanuele Girotto, Zandonai con la sua Francesca da Rimini al Costanzi, «L’Impero», 27-28.12.1925 - p. 5, col. 1-2

Domani 26 dicembre alle ore 20.30 in sera 1. d’abbonamento avrà luogo l’inaugurazione

della grande stagione lirica ufficiale di Carnevale-Quaresima 1925-1926 con l’opera: Francesca da Rimini, concertata e diretta dallo stesso autore Riccardo Zandonai ed assurgendo così un grande avvenimento d’arte.

Ne saranno principali esecutori artisti di grande valore quali la Pacetti Iva, la Gramegna Anna, il tenore Giulio Crimi, giunto al massimo della celebrità, il baritono Maugeri. Le altre parti sono affidate ad artisti di provato valore.

***

Riccardo Zandonai è veramente sommo. La sua vita si svolge giorno per giorno nella vastità della musica che discende fino a lui

dalla zona dell’Eterna Armonia e gli si svela come un miracolo per la felicità nostra e del mondo.

Non vi saprei dire che musica sia la sua: né lo potrei, volendo. In realtà sarebbe stupido aggettivare un’arte la cui essenza penetra e spiega la vita dell’universo.

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È un sacerdote della musica, sacerdote puro e attento che sa ascoltare, comprendere, esprimere le infinite voci spaziali che in lui trovano un cenno d’onde irradiarsi, espandersi, rivelarsi alle anime e non un cucinatore di note su misure di tempo cronomizzato.

I suoi canti non hanno fine: quando l’ultima nota è scaturita e la sentite vibrare, allontanarsi, disperdersi, il vostro spirito ne segue la scia luminosa [e] armoniosa e può raggiungere così, per mezzo di essa, la matrice dond’era uscita, misterioso, dolce fantasma rivelatore santo di noi e delle cose tutte a noi stessi e alle cose del creato.

Riccardo Zandonai, però, è tuttora quasi misconosciuto!! E questa verità ha ormai finito per convincermi che oggi si vive in un periodo di “sordità”; infatti il criticume parolaio e giornalistico odierno non ha azzardato ancora una parola che denoti comprensione piena, ampia e chiara delle composizioni del nostro musicista imperiale.

Giovane! Troppo nuovo, forse, per essere inteso. Questa rara qualità non può offrire termini precisi di riferimento ai giudici che tutto sanno pesare sulla bilancia delle formule fisse, perché la natura li ha inesorabilmente condannati alla vacuità e alla sterilità, così nessuno finora ha mostrato di accorgersi di questo magnifico e munifico signore dell’arte che tanto ha già donato e il doppio offrirà alla Patria nostra, orme indelebili scolpendo nella musica italiana per maggior vanto suo, nostro e d’Italia.

92 M[atteo] Incagliati, La “Francesca da Rimini” di Zandonai al Teatro Costanzi, «Il Giornale d’Italia», 29.12.1925 - p. 2, col. 2-3

Bisogna risalire a molti anni addietro per immaginarsi un “Santo Stefano” come quello

dell’altra sera al Costanzi, degno delle fulgide tradizioni teatrali e non solo per la magnificenza dello spettacolo ma anche per la gran folla adunata nella sala. Una folla imponente che gremiva ogni ordine di posti: una moltitudine che giustificava il “tutto esaurito” che faceva bella e pomposa mostra di sé fin dal giorno innanzi dalla prima rappresentazione della tradizionale stagione.

Né a soddisfare le molte richieste di posti valse l’avere accodato alle poltrone altre tre file e alle poltroncine altre due. Sicché la sala assunse l’aspetto solenne, a cui accresceva splendore l’eterno femminino regale, romano e straniero, nella vivacità e varietà di toilettes, nella espressività di tanti e suggestivi sorrisi.

Nel palco reale: la Regina Elena e le principesse Giovanna e Jolanda; del Governo: il ministro conte Volpi e l’on. d’Alessio; e poi il Governatore, il Prefetto e notabilità dell’arte e della politica.

E non conta, infine, citare tutto il mondo di bellezze muliebri: v’era, in una parola, tutto l’Olimpo romano.

Dinnanzi ad un pubblico così imponente e cospicuo si svolse con un successo magnifico, tra vivi schietti consensi di applausi e di acclamazioni, la prima rappresentazione della Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai, diretta dall’autore. E inaugurare la grande tradizionale stagione lirica con l’opera che dà nome e significazione a un nuovo capitolo della storia del melodramma parve felice ed opportuna ispirazione. Perché la Francesca sogna e insegue un ideale che si è disegnato ed ha assunto forma intuitivamente dalla fantasia del musicista attraverso quello scatto del genio senza il quale è vano proporsi di imprimere all’opera d’arte la individualità del musicista e il carattere distintivo di un’epoca. E dell’epoca post-pucciniana e post-mascagnana la Francesca rappresenta, senza dubbio ormai, l’espressione più tipica e più singolare.

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Spirito di italianità

Mercé Zandonai – il solo sorto, di salda tempra e di felice e ricca ispirazione fornito, a non interrompere la tradizione gloriosa del melodramma italiano dopo la fioritura della primavera della così detta giovane scuola, che lanciò il primo grido con Cavalleria rusticana – mercé Zandonai, dunque, l’Italia non abbandona, non diserta il campo che in ogni epoca fu suo, un primato che non conobbe nessuna eclissi, che non subì nessuna deviazione. Verdi col Falstaff parve indicare la nuova via da battere, i nuovi orizzonti cui mirare. E nel nome e attraverso lo spirito del gran padre della musica teatrale dell’800, Riccardo Zandonai sentì vibrare la sua anima, scattare la fantasia, esultare lo spirito.

Nata or son dodici anni, quando i sicofanti wagneriani attentavano alla verace espressione e rappresentazione dello spirito di italianità incitando alla soggezione dell’ideale della razza teutonica, e quando i timidi debussyani brontolavano, in tono minore, pretendendo altre rinuncie – la Francesca volle dare una parola nuova attraverso un antico ideale: la parola nuova della spiritualità della nostra epoca con quella melodia che sopravviverà a tutte le tendenze, a tutte le aspirazioni, a tutti gli ideali, a tutte le evoluzioni. Perché senza melodia la muisica è come un fantasma: ombra leggera e passeggera... E in questo Zandonai segue – e a sentire tutta l’onda melodica che fluisce e rifluisce in Francesca se ne ha prova – le orme di Verdi.

A Riccardo Zandonai, al quale sorrise l’idea di cimentarsi a musicare quell’episodio dantesco che già aveva fatto tremare le vene e i polsi a tanti operisti – oltre dieci, e tra questi dei grandi –, in virtù appunto di una sensibile fantasia e d’una schietta melodia – una melodia che ha un suo spirito, una sua atmosfera, una sua bellezza – toccò l’ambita fortuna di vincere la prova vittoriosamente. E così Francesca da Dante eternata, e nel libretto dell’opera da Gabriele d’Annunzio rievocata, ha ormai sulla fronte, oltre il suo destino fatale, la sua musica che s’insinua negli occhi, si scioglie nei capelli, tumultua nell’anima di colei che ritenne amor e cor gentile una sola trionfante spiritualità.

Un capolavoro di poesia in un capolavoro musicale, dunque? Ebbene, dopo oltre due lustri di vane dispute e di più strane riserve, diciamola pure la parola pomposa: sì, Francesca di Zandonai è un capolavoro. E prima d’ogni altro fu ad esprimere tale giudizio Ildebrando Pizzetti. Certo non conta adesso, dopo averne scritto a lungo in altre occasioni, procedere alla disamina dell’opera d’arte.

A fissare nella musica l’anima di Francesca con tutti i suoi turbamenti, con tutte le sue ansie e con gli abbandoni dell’amore e le angosce d’un cupo fosco destino, non era impresa facile, se – come afferma il De Sanctis – essa è la primogenita, la prima donna viva e vera apparsa sull’orizzonte poetico dei tempi moderni. Dalla onda lirica dantesca al commovente senso di umanità, questa donna si è, attraverso i secoli, divinizzata come l’espressione più dilettosa della voluttà, del piacere. Di fronte alla nudità della passione sono i dolci pensieri, il dolce peccato – così come nell’atmosfera echeggiano, quale sinistro presagio, i “versi galeotti”.

Il “pathos” della «Francesca»

Zandonai questa passione esprime e rivela – la tragedia delinea con tratti di musica originale, robusta e sensibile – e le figure della tragedia scolpisce con tratti ben definiti. Eternità d’amore ed eternità di martirio par che nella musica si avvicendino, si incapriccino e precipitino...

Il peccato, in Dante, è il più alto pathos della tragedia, e nell’opera di Zandonai questo pathos è nell’aria e nelle anime: è poesia, è concitazione, è paura, è sbigottimento, è

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esaltazione, è odio, è insomma l’immortale tragedia d’amore con tutti i più diversi ed esasperanti sentimenti di anime turbate e sconvolte.

Quest’opera, che balzò fresca e palpitante dalla fantasia dell’artista, rivela più che la speculazione mentale la intuizione felice, un’intuizione per cui fu possibile raccogliere in un’onda di suoni, in una musicalità nuova tutta la intima essenza poetica dantesca. La sorgente musicale della Francesca è nell’emozione. Il suo colore, la sua animazione ambientale è nei sogni realizzati dalla fantasia. Onde Zandonai canta con la suggestione della sua musica e il piacere e il turbamento dei sensi e dello spirito, attraverso tutte le fasi della tragedia. Uno sguardo, un bacio, un abbandono, un trillo giocondo di allodole, il volo sinistro dello sparviero, la battaglia che tumultua per la supremazia dei Malatesta, la vendetta, il sangue... ecco la tragedia alla quale il genio di Zandonai conferisce carattere di fantastica universalità, come Dante a quella del poema divino carattere di eternità.

Sicché, giunti alla catastrofe per cui amor condusse Paolo e Francesca ad una morte, par che riappaiano come una storia vissuta i versi di Dante:

Quanti dolci pensier, quanto disio Menò costoro al doloroso passo!

Questo – secondo il De Sanctis – è il fondo tragico della storia, la divina tragedia rimasta sulle labbra di Francesca, e che il “rêve” di Dante, immaginato in un modo così commovente, cava fuori e mette in azione.

La divina tragedia, dopo i vani tentativi di altri musicisti, doveva rinascere, risorgere auspice Riccardo Zandonai. E tanto basta perché la Francesca del musicista trentino sia apparsa e appaia non suscettibile di oblii.

Lo spettacolo e il successo

Se così non fosse, come spiegare la profonda schietta commozione provata da tutta la moltitudine adunata l’altra sera al “Costanzi”? Se altra impressione non dovesse prevalere, varrebbe questa: che l’illusione poetica e scenica si è trasformata musicalmente in un “argomento di sogno e di sospiro”, in una realtà di vita vissuta.

A fare rifulgere tutte le bellezze di cui è adorna la Francesca ha certamente concorso la scelta degli interpreti, la direzione dell’illustre e popolare autore, la ricostruzione ambientale della scena.

Riccardo Zandonai è, senza dubbio, un animatore delle sue opere così appassionato che l’orchestra – e quella del “Costanzi” si è rivelata di prim’ordine – ha ubbidito infallibilmente alla bacchetta di lui con ardore e intelligenza.

L’altra sera la partitura ha avuto tutto il suo risalto attraverso la fluidità dei suoni, le vibrazioni strumentali e la fusione di ogni accento e d’ogni voce.

Iva Pacetti, che l’autore ritiene tra le più sensibili protagoniste della sua opera, profuse con ardore e sentimento la sua bella voce. E così in ogni atto il suo canto trovò rispondenza felice nelle mutevoli figurazioni musicali. Nel terzo atto la voce della Pacetti si sciolse con tutta la commossa poesia e con accenti nei quali pareva vibrasse e l’ansia e la paura e lo sbigottimento.

Il tenore Crimi rinnovò, a sentire quelli che l’avevano ammirato a Torino, al “Regio”, quando fu data per la prima volta la Francesca, le stesse impressioni di allora. Di lui si disse ch’era un “Paolo” ideale. E tale egli apparve dopo quattordici anni [sic] dal battesimo dell’opera. Certo non è la sua di quelle parti che s’improvvisano a... suon di voce. Oltre la voce occorrono altri requisiti, e sovratutto quello spirito d’intelligenza e quella intuizione

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artistica, affinché il personaggio dantesco non abbia a precipitare nella volgarità. Giulio Crimi parve intonare la figura di “Paolo” in rispondenza dei versi di “Francesca”:

Questi che mai da me non fia diviso la bocca mi baciò...

in modo da non smarrire mai il senso di alta poesia, la nobiltà dell’atteggiamento, la evanescente espressione del suo destino. E così la sua voce, che conosce i segreti per insinuarsi nell’anima dello spettatore, artista qual egli è, in cui la gioia non si preoccupa della sola animazione fonica ma della multiforme espressività lirica – si spandeva come un canto di passione e di aspirazione verso la donna amata e desiata.

Dopo la concitazione espressa con voce ampia e vibrante al secondo atto, questo canto trovò ogni dolcezza, ogni abbandono, ogni languore nel terzo, così che l’artista sospirò con un fil di voce, dolce melodia canora, come suon di arpa eolia, quella gemma musicale: «Inghirlandata di violette»: per poi all’ultimo infervorarsi con un canto di esultanza.

Il grande artista, superstite cantante del periodo d’oro delle belle voci, fu acclamato a scena aperta e vivamente ammirato.

Il baritono Maugeri – che di “Gianciotto” è l’interprete maggiore e più ammirato – cantò con la sua vigorosa voce e con drammatica accentuazione. Nel primo quadro del quarto atto egli trovò accenti di tragico terrore e popolò la scena di tutta la sua possente arte interpretativa. Con una esplosione di canto resistente e ardito, di larga risonanza, il Maugeri raccolse alla fine del duetto con “Malatestino” un grande applauso.

Anna Gramegna, nella parte di “Smaragdi”, fu pari alla bella rinomanza conquistatasi per l’espressiva e morbida voce di mezzo soprano e per la vivida intelligenza. Nel suo canto parve riflettersi il presagio sinistro della tragedia di “Francesca”.

Una intelligente “Samaritana” la Caputo, piena di mestizia e di nostalgia. Superiore ad ogni elogio il tenore Nardi, che di “Malatestino” rese con la voce tutto lo

spirito perverso e cantò per ciò con foga e con vivacità singolare. Le donne di Francesca concorsero tutte al successo dell’opera e vanno citate: la De

Franco, la Bonetti, la Benincore [sic], la Donati. Ottimo “Ostasio” il baritono Bernardi, dalla bella ampia robusta voce. E apprezzati per valentia e intelligenza: il Pellegrino, il De Petris e il Barbieri.

Il coro, istruito da quel valoroso e fervido animatore di masse che è il maestro Consoli, cantò con slancio e con nitidezza di accento. Nell’atto della battaglia si fece vivamente ammirare per la foga e la fusione.

Nel terz’atto il corpo di ballo russo – una preziosa prerogativa scenica del “Costanzi” – inscenò talune figurazioni intonate ad alto spirito di arte e a suggestiva bellezza.

Nella scena finale del primo atto Tito Rosati nell’“a solo” fece cantare il suo violoncello con dolcezza poetica e nostalgica e con tale nitidezza e fluidità di suono e con tale calda espressività cui accresceva fascino la larga cavata, da giustificare il pieno consenso di ammirazione al chiaro istrumentista.

A fine d’ogni atto si ebbero molte chiamate alla ribalta alle quali parteciparono prima da soli gli artisti, poi questi con Riccardo Zandonai, e infine senza altri, fatto segno a clamorose manifestazioni di applausi.

Alla fine dell’opera all’illustre autore il pubblico tributò una triplice imponente ovazione. E sotto così augurali auspici la grande stagione d’opera si è iniziata al Costanzi. Che Santo Stefano porti fortuna ai nuovi spettacoli.

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a[driano] b[elli], “Francesca da Rimini” [...], «Il Corriere d’Italia», 29.12.1925 - p. 5, col. 1-2

L’inaugurazione della grande stagione lirica al Costanzi ha costituito sempre il più grande

avvenimento artistico e mondano: quest’anno poi l’interesse e la curiosità del pubblico eran per molte ragioni anche maggiori. Si era creduto infatti per molto tempo, e fino a poco fa, che il teatro quest’anno sarebbe rimasto chiuso, e la notizia, che circolava persistente, aveva addolorato tutti profondamente così che appena si seppe per l’intervento del Governatore di Roma e del Governo [che] la tradizione non avrebbe avuto interruzioni, tanto grande fu la soddisfazione del pubblico che gli abbonamenti andarono a ruba. I posti disponibili infatti, nelle serate di abbonamento, sono pochissimi e ne diamo avviso ai soliti... “sbafatori”, che quest’anno hanno poco da sperare! Più tardi, quando tutto era pronto per l’inizio delle prove, una malattia del m. Edoardo Vitale impose un immediato intervento chirurgico e l’illustre maestro fu costretto ad abbandonare il lavoro iniziato. Qualunque impresario si sarebbe scoraggiato. Emma Carelli, con un lampo di quella genialità che è sua caratteristica, prega Riccardo Zandonai, che gentilmente accetta, di dirigere quale spettacolo di inaugurazione la sua Francesca da Rimini e ottiene contemporaneamente un’altra adesione, quella del m. Leopoldo Mugnone. Ma mentre Mugnone è per partire per Roma, cade malato di bronchite ed ancora è costretto a rimanere a Firenze. Tutti questi... guai non sgomentano l’Impresa, la quale affronta serena la bufera e vince con la sua serenità e con volontà irreducibilmente tenace. Sa di un altro valoroso direttore simpaticamente noto al pubblico romano e lo scrittura. Il maestro Giulio Falconi così porterà alla ribalta il Don Carlos il 2 gennaio.

Tutte queste notizie, ora velate ora più aperte, ad arte esagerate dal soliti... amici di ogni manifestazione romana, avevano incredibilmente acuite la curiosità e l’aspettativa del pubblico, tanto che sabato sera la sala del teatro era rigurgitante dalla platea alle alte gallerie, e ovunque uno sfolgorio di toilette elegantissime e di gioie. Il mondo artistico, politico, finanziario erano al completo. Le barcacce affollatissime. Nel palco reale S. M. la Regina Elena con la Principessa Jolanda, la contessa Guicciardini e il conte Solaro del Borgo.

Rare volte, e nemmeno nelle eccezionali serate di beneficienza, si era veduto due giorni avanti allo spettacolo il tutto esaurito al botteghino del teatro!

L’inaugurazione con Francesca da Rimini aveva inoltre un alto segno di italianità; la presenza di Riccardo Zandonai, salutato al suo apparire da una imponente ovazione, costituiva una vera festa per tutti, giacché oggi il simpatico ed instancabile maestro trentino rappresenta il continuatore di quella scuola italiana intorno alla quale le speranze vanno ogni giorno sempre più diminuendo.

Francesca, che dal 1914 passa trionfalmente in tutti i teatri del mondo, è troppo oramai nota al pubblico romano, nella sua struttura e nei particolari, per parlarne diffusamente.

Lo Zandonai ha fatto con Francesca opera veramente bella e molto vicina al vero capolavoro. Da quel primo atto che è tutta serenità con quel finale, vera meraviglia di equilibrio e di buon gusto, al terzo del più alto lirismo, vero trionfo della poesia della primavera, sino alle ultime scene finali della delazione e della morte, Francesca costituisce una delle più belle vittorie nostre, una delle più potenti e più pure manifestazioni della inesauribile vitalità dell’arte italiana.

La esecuzione è stata eccellente da parte dell’orchestra, la quale sotto la direzione efficacissima dello Zandonai, che ha saputo guidare la massa a sonorità strapotenti e a sfumature di squisita finezza, ha posto in perfetta luce ogni pregio di insieme e di dettaglio

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della complessa e difficile partitura. Lo Zandonai, che già avevamo ammirato quale direttore delle sue opere nelle passate stagioni, fu fatto segno a grandi acclamazioni e venne evocato più volte alla ribalta solo ed insieme con gli artisti.

Alla chiusa del primo atto, in quello squisito quadro pieno di sfumature e mezze tinte che si svolge tutto sul tema cantato dal violoncello sull’alto della loggia, si affermò ancora una volta Tito Rosati, il cui suono caldo ed umano si spandeva nella sala destando brividi di emozione.

Protagonista era Iva Pacetti, che già apprezzammo lo scorso anno in Fanciulla del West e che ultimamente a Torino ha riportato un autentico successo nella stessa opera dello Zandonai. Essa possiede una bella voce, estesa, ben timbrata, sebbene un poco tremula; sa accentuare con vera drammaticità, e il personaggio attraverso la sua interpretazione nobilmente espressiva si rivela in tutta la sua efficacia scenica.

Il tenore Giulio Crimi, cara e simpatica conoscenza nostra, diede a Paolo il maggior risalto scenico. Cantante che conosce ogni segreto dell’arte sua, ha detto la sua parte da grande artista, specie al terzo atto ove ebbe espressioni dolcissime di mezza voce e scatti di grande passione, e fu applauditissimo anche a scena aperta. La frase inghirlandata di violette fu da lui detta da grande, e al duetto finale la sua voce si spandeva con vittoriosa sonorità.

Il baritono Maugeri ormai è divenuto il Giangiotto [sic] di cui ogni buona esecuzione non può fare a meno. Egli è riuscito con la robustezza della voce, con la vigoria dell’accento, con l’azione scenica sempre felice, a creare il vero, inarrivabile tipo del personaggio. naturalmente fu ammiratissimo e molto applaudito.

Notiamo inoltre: il tenore Luigi Nardi, il quale, come sempre, è stato perfetto nella difficile ed ingrata parte di Malatestino; il Bernardi (Ostasio), il Barbieri (Ser Toldo); la Caputo che nella difficile parte del primo atto si fece molto apprezzare; la Gramegna, la quale per omaggio allo Zandonai volle assumere la breve ma importante parte della Schiava. Ottimo inoltre sotto ogni aspetto il quartetto delle Donne di Francesca: De Franco, Benincori, Bonetti e Donati: le quali gareggiarono in intonazione, fusione e ritmo.

I cori, ottimamente, sotto la direzione del m. Achille Consoli, al quale inviamo i rallegramenti per la nomina avuta a Direttore Generale del Colón di Buenos Aires. Se ci duole di perdere un elemento preziosissimo per gli spettacoli romani, ci rallegriamo vedendo premiato in lui un valore veramente di eccezione e un lavoratore instancabile, colto e intelligente.

Non possiamo né vogliamo dimenticare in questa cronaca dello spettacolo il maestro Luigi Ricci, tornato anche quest’anno ad essere il vero collaboratore – non il sostituto – degli spettacoli del nostro massimo teatro. [...]

94 L[uigi] C[olacicchi], “Francesca da Rimini” di Zandonai al Costanzi, «Il Popolo di Roma», 27.12.1925 - p. 3, col. 3-4

Assistere a uno spettacolo di gala quale è sempre quello dell’inaugurazione d’una stagione

lirica ufficiale; assistervi in modo che l’occhio abbracci contemporaneamente la sala e la scena, ecco una cosa che a prima impressione ci fa domandare come mai la popolazione sfarzosa dei palchi e della platea, convenuta per ammirare ma anche per farsi ammirare, possa per tre ore rinunciare alla gioia dell’esibizione per goderne un’altra più intima, più intensa, certo, e più pura ma contenuta da non si sa quale pudore che la reprime in fondo all’animo. Diciamo quella gioia che viene attinta alle parole, ai gesti, ai costumi di quell’altra

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popolazione che vive in un mondo così diverso e lontano. Ci si domanda con quali invisibili fili le persone che agiscono attirino a sé le persone che assistono, e non s’avverte che le une e le altre cedono alla seduzione di passioni appartenenti a tutti gli uomini e a tutte le epoche. Non s’avverte che quella specie di fossato dove abitano le famiglie degli strumenti non solo non segna un confine tra i due mondi ma, coll’effondere suoni che invadono l’uno e l’altro, li avvicina, li costringe a incontrarsi, a penetrarsi in un’atmosfera unica.

In quel fossato rigurgitante di onde sonore, i fili che uniscono il pubblico alla scena ottengono la tempera necessaria a farli più tesi e più saldi.

Quando poi di tutto ciò ci rendiamo ragione e magari sorridiamo pel dubbio così sciocco, riconosciamo anche che questo consolidamento che va compiendo la musica nel corso d’un melodramma è lo scopo stesso della musica e se non viene raggiunto non si può dire che essa ha assolto il suo còmpito.

Se ci accostiamo appena alla partitura di «Francesca da Rimini» – senza analizzarla, ché altri a suo tempo lo fece già e certo meglio di quanto lo potremmo noi – constatiamo subito come essa tenda dal principio alla fine, tranne si capisce le pagine descrittive e di “colore”, a creare quel clima di tragedia che grava sull’episodio di Paolo e Francesca.

Zandonai ne ha sentito i sintomi fin dalle prime frasi, dai primi atteggiamenti dei protagonisti, sì che col profondere tinte quasi sempre cupe ha inteso raggiungere l’equilibrio fra parole e suoni. Anche gli struggimenti d’amore, anche i silenzi della scena colmati con le voci dell’orchestra, portano l’ombra dell’ala nera d’un destino ineluttabile.

Amore e morte canta «Francesca da Rimini», ma l’amore che già è al suo fiorire è segno di sciagura, principio di morte. Il senso del tragico, del fatale invade l’animo nostro fin dal primo atto dell’opera e noi non riusciremo a liberarcene che a spettacolo finito. Gli squarci chiari di poesia cortigiana, di leggiadre canzoni a ballo, di malinconia amorosa, di languida attesa, e quelli smaglianti di ardore bellico compongono come una tremolante via lattea che rompe quel cielo denso e tenebroso ma non ne vince la minaccia che incombe d’ogni parte.

Ecco quali sono – e di che materia son composti – quegli invisibili fili che ieri sera per tre ore buone riuscirono ad avvincere il pubblico enorme del Costanzi e a dargli quel diletto che è di qualche grado superiore alla gioia della vanità soddisfatta.

Al gran successo della serata ha contribuito l’esecuzione dell’opera che diretta dallo stesso autore non poteva risultare più convincente.

L’orchestra, sotto la bacchetta vigile e amorosa di Riccardo Zandonai, ha filato senza esitazioni in perfetto accordo con le voci. L’equilibrio fra strumenti e cantanti non venne mai turbato da eccessivi fragori orchestrali che furono invece contenuti entro i limiti d’una giusta sonorità.

Sul palcoscenico gli interpreti sfoggiarono tutti i mezzi canori ed espressivi forniti loro dalla natura e dallo studio e ognuno di essi, è doveroso riconoscerlo, diede alla propria parte un risalto notevolissimo.

La signora Iva Pacetti, dalla voce bella e vigorosa, compose una figura dolente e assorta di Francesca; forse il suo rapimento fu troppo continuo ed eguale, ma quando volle interromperlo con slanci appassionati ci riuscì assai bene.

Di Giulio Crimi (Paolo il bello) dobbiamo fare ogni elogio. La voce dolcissima e nel tempo stesso robusta, morbida e vellutata, facile a tutte le flessioni, ebbe accenti di languore e di fierezza che conquistarono l’uditorio. Un applauso a scena aperta gli fu tributato al terzo atto; il terzo atto dell’amore trionfante.

Il baritono Carmelo Mangeri [sic] nelle vesti di Gianciotto si comportò con valore. La sua voce è dura ma forte e queste qualità non disdicono al personaggio di Giovanni lo sciancato, guerriero impulsivo più che marito affettuoso.

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Anna Gramegna ha suscitato buona impressione nella parte di schiava e con lei s’è favorevolmente rivelata anche la signorina Guada [sic] Caputo (Samaritana).

Malatestino era Luigi Nardi: efficace, di voce chiara, dal fraseggio scandito e incisivo, fu perfido e astuto come lo era l’ultimo figlio di Malatesta da Verucchio.

Intorno ai protagonisti abbiamo notato una schiera di comprimari pregevoli, dotata di mezzi vocali e spigliata nel gioco scenico, di grande importanza in quest’opera come la Francesca. Le quattro ancelle (specialmente Lucia Bonetti, Margherita Benincori, Olga De Franco e Rosa [sic] Donati) furono piene di grazia e di espressione. Leggiadre, insomma, nonché provviste di voce. Il quartetto del terzo atto, fra le danze del corpo di ballo russo, suscitò sincera ammirazione. Questo quadro botticelliano, d’altra parte, non poteva esser composto con miglior buon gusto, perché atteggiamenti e costumi e movenze riuscirono appropriate.

Poche parole sul coro: fuso e colorito; qualche volta impacciato nei movimenti però, troppo attento alla bacchetta del Direttore; comunque cantò bene e fu vivace nelle acclamazioni e nelle imprecazioni guerresche. Di buon effetto la messa in scena, seppure qualche fondale (specie quello del secondo atto) apparve solcato da rughe.

Spettacolo degno, ad ogni modo, della serata inaugurale che fu onorata dalla presenza di S. M. la regina e dalle LL. AA. la Principessa Giovanna e la contessa Calvi di Bergolo.

Il successo, manifestatosi fin dal primo atto, si fece più vivo e più caldo in seguito e salì di tono alla fine del terzo atto, accolto con applausi scroscianti all’indirizzo degli interpreti e dell’Autore.

[...]

95 r[affaello] d[e] r[ensis], “Francesca da Rimini” di Zandonai, «Il Messaggero», 27.12.1925 - p. 2, col. 2-3 (con un disegno di Riccardo Zandonai e di un interprete [?] non identificato)

La sala del Costanzi, ieri sera, presentava il cosidetto colpo d’occhio delle grandi

occasioni. Si ha un bel dispregiare le consuetudini, ma queste resistono e mantengono viva la loro caratteristica, sempre cara agli uomini. Quando l’inaugurazione d’una stagione lirica coincide col vecchio S. Stefano sembra che essa assuma una maggiore solennità: e ieri sera si aveva appunto questa impressione.

Sono intervenute numerose personalità della politica, tra cui il Ministro Volpi, l’on. Alessio, il Governatore di Roma, senatore Cremonesi, dell’aristocrazia e innumerevoli elegantissime dame.

Durante il primo atto sono comparse nei loro palchi di sinistra la Regina Elena e la Contessa Calvi, a cui l’orchestra ha reso l’omaggio dell’inno reale.

L’opera indicata per l’apertura del Costanzi era il Don Carlos di Verdi, ma la malattia del maestro Vitale (ormai, per fortuna, pressoché risoluta) e la disponibilità di Riccardo Zandonai hanno indotto l’impresa a scegliere per la circostanza la Francesca da Rimini. Così nel 1921, mentre era stabilito di inaugurare la stagione con i Maestri Cantori, si dovette ricorrere, per ragioni inutili a ricordare, alla Francesca di Zandonai.

E dobbiamo essere grati al caso – un caso molto intelligente e quasi ammonitore – se oggi come allora si sia trovata pronta un’opera che non solo può star di fronte alle più rappresentative e spettacolose, ma che appunto dopo Wagner e Verdi, dopo Mascagni e Puccini, dopo Debussy e Strauss dice una parola propria, afferma un concetto evolutivo e moderno, assicura al nostro paese una continuità artistica e storica contro la quale, invano,

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per un quarto di secolo, hanno blaterato i rapsodi dell’Italia musicale contemporanea. Che cosa non han detto e scritto costoro contro il teatro italiano dell’ottocento, anche contro Rossini e Verdi? “Questo teatro, gridavano, è divenuto un arnese di ferravecchi e tutt’al più un mobile da museo”.

Pochi, pochissimi abbiamo reagito, indifferenti agli strali e alle ironie; oggi noi pochissimi abbiamo la soddisfazione di assistere alla malinconica ritirata di coloro che non vogliono essere più chiamati “avanguardisti”; oggi ascoltiamo dalla loro bocca, ripetutamente, la parola tradizione, che per essi era sinonimo di regresso e di ignoranza e per noi significò e significa – specie in materia di musica – l’indistruttibile legge della natura e della stirpe.

Se la Francesca, nata nel 1914, gira il mondo e vive florida si deve precisamente a quel mirabile senso di equilibrio nell’uso dei mezzi offerti dall’arricchita tavolozza moderna e dei mezzi che formano la ragion d’essere dell’opera italiana. Zandonai si è servito dei colori di questa tavolozza ma non ha rinnegato di Wagner quel tanto (specie in rapporto al gioco psicologico dei temi) che la logica, il genio, il tempo han reso immortale, e ancor meno di Verdi e della scuola italiana ciò che è pensiero canoro, melodismo sensuale, impeto prepotentemente drammatico.

Noi non dobbiamo rigiudicare in appello la Francesca – giudicata da un decennio di successi – ma dobbiamo e possiamo solamente oggi assegnarle il posto eminente nella storia del nostro melodramma ed attribuirle quella significazione che negli anni trascorsi facilmente sfuggiva alla critica e al pubblico.

Negli anni scorsi la Francesca scontentava un po’ tutti: quelli che non vogliono essere più chiamati avanguardisti le rimproveravano il lirismo svenevole, le ridondanze armoniche; i parrucconi le rimproveravano le preziosità armoniche, i fronzoli ambientali, i virtuosismi strumentali. Ora, proprio la fusione ammirevole di questi elementi, l’uno indispensabile all’altro, fanno di quest’opera di Zandonai, più di tutte le sue altre, un capolavoro pensato ed ispirato, frutto sagacissimo e lungimirante di opposte tendenze in un’epoca di transizione.

E questo ha intuito o ben compreso l’imponente pubblico di ieri sera che ha seguito e gustato l’opera dal principio all’epilogo.

La fine del primo atto, tra il sommesso bisbiglio degli archi, quando tenue e suggestivo s’eleva il tema d’amore, è apparsa ancora una volta una pagina meravigliosa di commozione e di poesia. Il macchinoso ma interessante secondo atto, i momenti drammatici del quarto hanno scosso ogni fibra; mentre il deliziosissimo terzo atto, dal preludio primaverile al bacio fatale, ha incatenato l’uditorio, suscitando le sensazioni e le emozioni più profonde e gentili.

Riccardo Zandonai, che ha diretto con cura scrupolosa e indagatrice, ha conseguito un autentico trionfo, un trionfo di pubblico quale la sua opera prima, per la sua particolare struttura, non poteva conseguire. Ed egli, che lo dicono impassibile ed estraneo anche a sé stesso, deve averne intimamente gioito.

Alla bella cerimonia hanno concorso, gareggiando in valentia, chi più chi meno, tutti gl’interpreti. Iva Pacetti si è mantenuta all’altezza della non facile incarnazione; ella per austerità e stile di atteggiamenti e per mobilità di canto ha dato novella prova delle sue belle virtù artistiche. Gualda Caputo è stata una dolce ed affettuosa Samaritana; la Gramegna una schiava come non si poteva desiderar meglio; le quattro donne di Francesca, la Bonetti, la Benincori, la De Franco e la Donati hanno cantato ed agito con brio moderato e con fine signorilità.

Tra gli uomini dobbiamo porre in prima linea Giulio Crimi. Egli è un Paolo ideale: il carattere di questo personaggio, che ce lo immaginiamo contenuto e pensoso anche nei momenti in cui la passione si scatena irrefrenabile, è costantemente disegnato tale dal Crimi, a diversità di altri interpreti pur egregi che perdono la linea per amore dell’effetto. L’effetto

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Crimi lo raggiunge irresistibile con la squisita melodiosità del canto. Ieri sera egli si trovava nello stato di grazia; la sua voce ha vibrato di soavità effondendosi nella sala attonita. Di Maugeri è inutile ripetere ciò che tutti sanno: egli è un Gianciotto senza paragoni, impressionante per la brutalità e violenza: la voce e il gesto, in perfetta comunione d’intenti, toccano i vertici della drammaticità. L’intelligente e versatile Nardi faceva da Malatestino e, come sempre, bene. Ottimo Ostasio, nella breve apparizione, il baritono Bernardi, e bene gli altri, cioè: Barbieri, Pellegrino e De Petris.

I piccoli e delicati cori sparsi qua e là per la partitura ricordano l’abilità straordinaria di Achille Consoli (ora assunto ai fastigi della direzione di un grande teatro sud’americano), le danze sono state elegantemente eseguite dal ben noto corpo di ballo russo.

Alla fine di ogni atto, tra clamori di soddisfazione, sono stati chiamati al proscenio i principali interpreti e il maestro Zandonai, persistentemente applauditi. L’illustre autore è stato evocato varie volte solo e fatto segno a particolare dimostrazione.

[...]

96 Alberto Gasco, “Francesca da Rimini” di Zandonai al Teatro Costanzi, «La Tribuna», 29.12.1925 - p. 3, col. 2-3-4 (con una caricatura di Zandonai direttore d’orchestra e un figurino)

Il giorno di Santo Stefano è passato lasciandoci un ricordo luminoso. Nel rigido inverno

abbiamo avuto una sosta di dolcezza. Per le vie non più il soffio rabbioso della tramontana o la sferza dell’acqua diaccia ma il tepore di una equivoca primavera: nella sala del Costanzi, ove si è svolta la tradizionale cerimonia artistica, un calore di entusiasmo addirittura torrido. Tutti contenti, dunque. L’impresa del teatro che ha visto andare a ruba i pochi biglietti disponibili, gli intervenuti che hanno goduto della vista di un’assemblea ultra-elegante quale non si ricordava da tempo e il critico, cui spetta oggi il gradito compito di registrare la nuova festosa vittoria della Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai.

Nessuno ignora che la stagione avrebbe dovuto inaugurarsi col Don Carlos, monumentale produzione lirica in cui la melodia italiana signoreggia e sfolgora: causa una malattia dell’illustre maestro Edoardo Vitale si è dovuto invertire l’ordine degli spettacoli e così la Francesca da Rimini è passata al primo posto. Saremmo in perfetta malafede se facessimo al riguardo la minima recriminazione. L’opera dello Zandonai è degna, per l’ampiezza delle linee, la fiera e intensa drammaticità, la ricchezza della veste orchestrale, di essere onorata e incensata. Non tutto in essa è da accogliersi senza riserve: ci sono talora verbosità aggraziate che celano una povertà di concetti, c’è poi un atto intero – il secondo – che risulta greve e opaco, ma – vivaddio! – quante scene palpitanti di lirismo amoroso e quanti episodi illuminati da tragici bagliori! La musica che orna l’episodio conclusivo del primo quadro induce nell’animo di chi la ascolta un senso di doletudine elisia e nel terzo atto si svela per intero l’anima di un artista che si strugge di tenerezza quando, nei placidi vespri primaverili, l’aria è greve dell’olezzo delle viole e dei sospiri degli amanti che non osano sperare in una felicità imminente. Questo terzo atto non sarà mai abbastanza lodato. Tutto in esso è gentilezza e passione. I motivi sono nitidi, l’orchestra vibra di allegrezza, susurra elegiache canzoni e infine irrompe con magnifico dispotismo. La progressione degli effetti è letteralmente prestigiosa. Ma, trattandosi di un’opera già varie volte rappresentata al Costanzi e perciò ben nota alla maggioranza del pubblico, non giova addentrarsi in analisi. Tuttavia, poiché un nuovo accenno ai pregi della Francesca è doveroso, dopo aver detto il bene che

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pensiamo delle scene in cui le donzelle di casa Malatesta inneggiano alla stagione dei fiori e di quella in cui i due cognati dopo un lungo segreto martirio cedono all’ebbrezza dei sensi, ci conviene segnalare ancora una volta la fosca coloritura e la violenza ansiosa della musica che commenta il fatale colloquio tra Malatestino e Gianciotto all’ultimo atto. Qui lo Zandonai s’impone come drammaturgo musicale. Pur avendo a propria disposizione un materiale tematico assai scarso, egli riesce a compiere vere prodezze. Sibili d’odio ed urla di dolore si alternano di continuo e alla fine si fondono in un rombo di procella.

L’antico nostro giudizio sulla Francesca resta immutato. Essa è «l’opera egregia di un periodo di transizione». Melodica quanto basta per tenere avvinto il pubblico, doviziosa di armonie ma senza ricercatezze peregrine, istrumentata con magistrale perizia, immune da qualsiasi volgarità e spesso anzi nobilissima, ha il merito preciso di essere equilibrata, multicolore e di recare una nitida impronta di italianità.

Ci rallegriamo quindi che essa, tornando per la quarta volta al Costanzi, abbia riscosso innumerevoli elogi.

*** Dopo il primo atto – che si è chiuso con sette clamorose ovazioni – ci siamo recati a

salutare il maestro. Riccardo Zandonai stava placidamente assiso nel camerino riservato ai direttori

d’orchestra e fumava non il solito virginia ma una sigaretta aromatica. Siamo rimasti sbalorditi. La rinunzia al virginia ci è parsa il sintomo di un nuovo orientamento artistico dell’operista consacrato alla fama...

-Non imprechi contro gli indiscreti e ci dica, caro maestro, a che punto si trova la sua Leggenda cristiana12.

-Rispondo subito. Il mio lavoro è ancora allo stato di progetto. Inutile quindi parlarne. -Ma il libretto almeno è pronto? -Neanche per sogno! Quanto poi alla musica, vi assicuro che non ne esiste neppure una

battuta. Ho trascorso in ozio perfetto l’estate e l’autunno. -Abbiamo capito. Gli svaghi cinegetici... -Niente affatto. Nessuna distrazione del genere. Per uno strano fenomeno, sulle mie

montagne quest’anno mancava la selvaggina. L’avifauna locale era rappresentata soltanto dalle galline e chi andava in cerca di lepri si doveva contentare di tirare a qualche povero gatto randagio...

-La sua inerzia è dunque un reato senza attenuanti. -È invece perdonabilissima. Prima di tutto, il “dolce far niente” allieta e rinfranca lo

spirito; in secondo luogo, se anche la mia Leggenda cristiana tardasse tre o quattro anni a venire alla luce non sarebbe un male. E poi...

-E poi... -Mi domando se sia proprio opportuno produrre nuove opere quando ce ne sono altre

scritte con fede e rappresentate con successo che giacciono miseramente abbandonate dagli editori e dagli impresari.

-Allude alla sua Conchita? -Precisamente. -I critici dei principali giornali italiani hanno ripetutamente chiesto che quest’opera

leggiadra fosse rimessa in circolazione, ma è stato loro risposto che attualmente non si trova una cantante che ne possa essere protagonista valorosa.

12 Allude all'opera Giuliano.

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-Affermazione ridicola!... Si è creata intorno alla mia Conchita una curiosa e deplorevole leggenda, facendola apparire come una produzione teatrale piena di insidie, trappole e gherminelle. Si va ripetendo che Conchita non può essere interpretata che da un’artista eccezionale, bella come Venere, acremente sensuale come una gitana, dotata di una gola di acciaio e di una voce d’oro. Esagerazioni!... Conosco più d’una artista italiana che potrebbe interpretare benissimo la Conchita. Si fa un torto immeritato al mio lavoro considerandolo come una di quelle produzioni che non stanno in piedi se non le sorregge un artista di talento superlativo e di fascino diabolico. Ma lasciamo le querimonie che purtroppo son vane. È ora di attaccare il secondo atto. Vi confesso che questa sera il pubblico del Costanzi mi intimidisce. Che sala meravigliosa!...

*** Il secondo atto piace un po’ meno del primo, ma al terzo l’applauso del pubblico risuona

trionfale e l’ultimo episodio della tragedia lirica interessa al massimo grado. Tirate le somme, oltre venticinque chiamate al compositore ed agli artisti. Francesca da

Rimini è stata ricevuta come una bella e piacente eroina del teatro lirico italiano contemporaneo.

Esecuzione orchestrale vivida e solerte, sotto la guida abilissima dello Zandonai. Ottimi i cori e sontuoso l’allestimento scenico. La signorina Iva Pacetti è stata una Francesca schiettamente commossa. Ella ha cantato con voce generosa e sicura la sua parte e ha avuto momenti di elevata espressività drammatica. Come attrice si è guadagnata la generale estimazione per la grazia e la correttezza. Il tenore Giulio Crimi, artista di prim’ordine, ha dato prove cospicue di bravura e resistenza. Dopo il grande racconto del terzo atto, reso da lui con franchezza e virile ardore, l’uditorio lo ha acclamato gioiosamente. Elogi solenni spettano al baritono Maugeri, interprete gagliardo della parte di Gianciotto e al tenore Nardi che ha raffigurato un Malatestino irrequieto e malvagio, odioso e interessantissimo.

Ostasio era impersonato dal baritono Luigi Bernardi, giovane artista che per le sue qualità di voce e di esatta dizione ha destato in noi una viva simpatia. La Gramegna – Smaragdi –, il Pellegrino – Cantastorie – e il De Petris – Torrigiano – sono apparsi come sempre coscienziosi e valenti. Le ancelle di Francesca – signore Bonetti, Benincori, De Franco e Donati – hanno agito e cantato con notevole disinvoltura.

La Francesca terrà lo scettro al Costanzi sino all’avvento del Don Carlos, che farà la sua apparizione sabato pomeriggio.

[...]

97 Ludovico Sarpi, La “Francesca da Rimini” al Costanzi, «La Voce repubblicana», 29.12.1925 - p. 2, col. 5

Il contenuto della tragedia dannunziana è noto. Francesca, figlia di messer Guido Minore

da Polenta, è promessa sposa a Giovanni Malatesta da Rimini. Il fratello di lei, Ostasio, per timore che la bruttezza di Gianciotto le repugni, le lascia credere che Paolo Malatesta – venuto a contrarre le nozze per procura – sia lo sposo destinatole. La bellezza di Paolo conquide Francesca – ma ben triste risveglio l’attende nella casa dei Malatesta.

A Rimini lottano Guelfi contro Ghibellini e dalla torre Mastra dei Malatesta i balestrieri mettono a fuoco le case dei Parcitadi. Sale alla Mastra anche Francesca, ed ivi la raggiunge Paolo, che cerca il colpo mortale che ponga fine alle sue pene. Un dardo rasenta il capo di Paolo, attraversandogli la chioma – e Francesca, credendolo ferito, accorre spaventata. Egli è

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salvo, ma quando appare Gianciotto per annunciare a Paolo che egli è stato eletto capitano del popolo a Firenze, egli rimane come impietrito dal dolore.

L’assenza di Paolo tortura Francesca: ma ecco che la schiava Smaragdi le annunzia misteriosamente il ritorno di lui. All’entrare di Paolo, Francesca cerca invano di padroneggiarsi; l’amore divampa, e la lettura del dolce poema di Lancillotto conduce lentamente gli amanti al bacio, primo nodo che avvincerà per sempre le loro esistenze.

Folle di amore per Francesca, Malatestino, altro fratello di Gianciotto, tenta invano di conquistare la cognata. Scopre la relazione di lei con Paolo e, pazzo d’amore e di gelosia, vuol vendicarsi. Gianciotto deve partire e Paolo e Francesca attendono ansiosi una notte d’amore. Francesca saluta il marito e si ritira nelle sue stanze, mentre Malatestino pensa a rivelare tutto al fratello. Giangiotto [sic] finge di partire, ma a notte alta ritorna, avviandosi alla camera di Francesca. Paolo cerca [di] fuggire in una botola, ma un ferro trattiene le sue vesti e Gianciotto lo trae a sé nel mezzo della stanza. Paolo snuda il pugnale per difendersi: un terribile colpo si abbatte su di lui, ma Francesca gli fa scudo e riceve la mortale ferita. Paolo amorosamente l’accoglie tra le braccia e spira anch’egli, colpito al fianco dal pugnale di Gianciotto...

Sin qui la tragedia. Sul commento musicale di Zandonai, udito nuovamente a tanta distanza di tempo, non abbiamo sostanzialmente mutato il primitivo e già espresso giudizio. Eviteremo per non ripeterci una disamina analitica dell’opera. Giudicando nell’insieme, possiam dire che Zandonai ha una mirabile conoscenza dell’impasto orchestrale e che la nobile ispirazione che gli detta dentro lo tiene costantemente lontano dalle banalità o volgarità di cui sono copiosamente infiorate le opere degli autori italiani di musica contemporanea. Fatto questo doveroso riconoscimento, dobbiamo senz’altro esprimere una parola di netto dissenso da quanti vedono in questa sua Francesca un autentico capolavoro, contenente pagine di potente originalità e di respiro nuovo e modernissimo. Noi diciamo con più semplice parola che questa Francesca, considerata nel suo insieme, è una nobile ed entro certi limiti riescita fatica di un uomo di sensibilità, di cultura musicale non comune. E detto questo, sentiamo di dovere fare punto e basta.

Gli allestimenti scenici e l’esecuzione sono stati mirabili. La Paccetti [sic] è stata una Francesca forse eccessivamente composta in un atteggiamento uniforme, ma ha superato i momenti più ardui della sua difficile “parte” con alta nobiltà e col più felice impiego dei suoi doviziosi mezzi vocali.

Bella la voce del Crimi (Paolo il bello), nonostante sia apparsa qua e là leggermente velata. Egli si ebbe anche un applauso a scena aperta al terzo atto. Ha nuociuto al Mangeri [sic] (Gianciotto), che si è – del resto – assai lodevolmente comportato, la eccessiva forzatura nell’aspro. La Gualda Caputo è stata una davvero mirabile Samaritana: perfetta nel recitativo, intonatissima nella voce, dolcissima ed efficace nell’espressione. Si distinsero anche la Gramegna (schiava) ed il Nardi (Valentino) [sic], che ha una dizione chiara, limpida, fluidissima. Di tutti gli altri che interpretarono parti di minore importanza non può dirsi che bene.

Discreto il coro, molto ammirato il quartetto del terzo atto, nel quale intervenne il corpo di ballo russo. Diresse con grande slancio l’autore, che fu evocato da solo e con gli interpreti più volte, entusiasticamente.

98 Silvio Mix, L’apertura della Stagione al Costanzi con la “Francesca da Rimini” di Zandonai, «L’Impero», 29-30.12.1925 - p. 5, col. 1-2

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Indubbiamente il geniale e fecondo musicista Riccardo Zandonai è un autore alquanto

fortunato (dico fortunato perché Schubert, per esempio, sta a dimostrare che per essere giustamente e prontamente apprezzati... avanti di morire non basta essere geniali!); difatti le opere del maestro trentino e specialmente la Francesca, con la quale ieri sera si è solennemente inaugurata la grande stagione lirica invernale al Costanzi, sono incluse in diversi cartelloni sia dei nostri teatri che di quelli esteri.

Siamo lieti di constatare e far rilevare questa cosa non solo quale decisa affermazione dell’opera nazionale, ma anche perché ciò dà a sperare che le “azioni” del gusto estetico del pubblico italiano siano in rialzo.

È un sintomo: se gli impresari preferiscono allestire delle opere difficili ad eseguirsi, e quindi costose, è segno che il pubblico s’interessa e frequenta i teatri.

Non so precisamente quante volte ho sentita e risentita la «Francesca da Rimini» e quest’opera mi ha sempre dato nuove sensazioni e quindi mi ha sempre interessato; ma non si creda che ciò dipenda solamente per certi effetti fonici ottenuti con delle trovate armoniche o strumentali... Riccardo Zandonai è riuscito a fondere molto felicemente lo svolgimento della linea melodica, italianamente concepita, con l’armonizzazione cromatica moderna; egli è poi un magnifico colorista: non si limita però al colore ambientale ma riesce a far rivivere psicologicamente i suoi personaggi, ed ha un senso non comune dell’equilibrio, cosa questa che ha molta importanza per la solidità di un’opera d’arte.

Dalla sua prima opera (veramente ce n’è un’altra avanti ancora di questa, ma è inedita) «Il Grillo del focolare» tratta dalla fiaba di Dickens alla poderosa concezione drammatica della «Francesca» quale passo magico! Questo lavoro, che conta ormai undici anni di vita gloriosa la quale va aumentando di anno in anno, è senza dubbio il migliore e il più tipico del maestro trentino; mi ricordo che Ildebrando Pizzetti, non facile ad accontentarsi specie della odierna produzione melodrammatica, quando la «Francesca» venne rappresentata la prima volta a Firenze la definì un “capolavoro”. Non riteniamo di compiere un’analisi dettagliata dello spartito poiché ciò è stato già fatto essendo quest’opera comparsa più volte sulle scene della nostra città: ci limiteremo bensì a ripetere che lo svolgimento della musica, pur essendo basato sul sistema del leitmotiv, non è affatto di stile wagneriano, come è stato erroneamente detto da qualcuno: se in qualche punto la linea melodica può sembrare mascagnana (di concezione, s’intende), in tal’altro vi si può intravedere la maniera irruente dello Strauss.

Unico difetto della «Francesca» (come ho già scritto altrove diversi anni fa) è se mai la mancanza di sintesi; ma questo va riveduto nella concezione d’annunziana della tragedia che, pur essendo stata modificata e riadattata da Tito Ricordi secondo l’esigenza melodrammatica, è tutt’ora prolissa: e si deve alla genialità del musicista se non riesce in qualche punto a stancare.

L’ultimo atto, dove ricompaiono e si fondono i principali “temi” dell’opera, è senza dubbio il migliore sia dal lato musicale sia come effetto teatrale.

La riapertura del massimo teatro lirico romano oltre che un notevole avvenimento artistico è anche una festa mondana di luci e d’eleganze; bisognerebbe fare sfoggio di tutto il frasario d’occasione per dare l’idea esatta del magnifico effetto del teatro esaurito completamente.

Hanno assistito allo spettacolo S. M. la Regina Elena e S. A. R. la Principessa Giovanna salutata dalla marcia reale.

L’esecuzione d’un’opera sotto la bacchetta animatrice dell’autore è una cosa sempre gradevole e interessante: ma il maestro Zandonai non è il direttore ideale delle sue composizioni che pur dirige “a memoria”; e se qualche pagina acquista in slancio lirico e passionale altre perdono di precisione ed elasticità.

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L’illustre autore e gl’interpreti sono stati molto festeggiati. Iva Pacetti ha reso assai lodevolmente la difficile parte di Francesca ed ottima la Gramegna; lodevoli il Crimi (Paolo), il Nardi (Malatestino) e specialmente il baritono Carmelo Mangeri [sic] che ha reso assai bene dal lato scenico la fosca figura di Giovanni lo sciancato.

Insomma un’esecuzione se non proprio perfetta ottima nel suo insieme. [...]

99 Bruno Barilli, La “Francesca da Rimini” al Costanzi, «Il Tevere», 28.12.1925 - p. 3, col. 1-2

Un pubblico enorme, elegante e sceltissimo s’era dato convegno, sabato scorso,

nell’armoniosa sala del Costanzi per assistere alla solenne riapertura della stagione lirica. Diciamo subito che la solennità fu più mondana che artistica. Essendo, per ragioni che faremo conoscere, l’interesse e il godimento capovolti, i veri

spettatori eran, sul palcoscenico, i coristi e i cantanti che potevano ammirare a sazietà il quadro vivace e grandioso della folla azzimata che gremiva i palchi e la platea.

Per la seconda volta nel giro di pochi anni alla Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai viene assegnato il compito e l’onore d’inaugurare la serie degli spettacoli invernali. Non possiamo tralasciare di muovere qualche obiezione personale a questo modo frettoloso e malpensato d’interrompere il sonno d’un teatro proprio il giorno dopo Natale.

Quest’opera che non è né fu mai nuova, o piuttosto questa rassegna di tutte le pleonastiche conseguenze che suol tirarsi dietro la mancanza di talento potevamo lasciarla ingiallire ancora un poco sul cartellone del 1925-26.

Dunque l’altra sera, per sgravio di coscienza, ci siamo cacciati fra le pagine incomode e smaniose di questo spartito nella speranza di scoprire, chissà forse in ritardo, un po’ d’ispirazione, un ditino di vena, un granello di sale, e abbiamo voltato e rivoltato tutto sopra e sotto con l’ansia di chi cerca una pulce in un letto matrimoniale.

A inventario finito, stendendo il nostro rapporto, comincieremo col dire che nel famoso lirismo di quest’opera abbiam creduto udire un affliggente frignare e uno sbraitare sguaiato di ragazzo che ha i vermi.

Per mettersi all’altezza della tragedia dannunziana il musicista (lo chiamiamo così senza la minima intenzione di fare il pince sans rire) il musicista si è messo i tacchi di gomma e non ha pensato che dai tacchi di gomma comincia l’ortopedia la quale non si sa poi dove vuol finire.

Ci sono oggi molti musicisti che per rubare non hanno l’uguale, saprebbero portar via l’ultima camicia a un disgraziato che dorme, e con una bravura e una leggerezza tale da assicurarsi la più assoluta impunità. Ma Zandonai non è di questa razza e non possiede la silenziosa competenza del mestiere. Quando arraffa, scompiglia, tira, strappa e fa saltare i bottoni, poi scappa a più non posso inseguito da tutto il vicinato, stringendo in pugno qualche lembo sbrindellato di stoffa che vale tutt’al più qualche soldo.

Ogni anno scrive un’opera. Ogni anno c’è una coalizione di abusivi ammiratori che lo rimette in sella gridando: Eccolo il successore di Verdi. Son già due lustri e più che assistiamo alle vicende curiose di questa sua forzosa equitazione; un giorno o l’altro forse lo sentiremo dire finalmente con aria stufa e indolenzita: Dovevo andare in cavalleria, ma il cavallo non ha voluto.

Per ora, tuttavia, egli ha il talento di avere della fortuna, mentre non ha la fortuna di avere del talento.

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Nel secondo atto della Francesca da Rimini, dove, checché si dica, emerge più spiccato il carattere della mentalità teatrale di Zandonai, quando cominciano a funzionare i mangani e a volar le pagnotte, quando i cantanti inerti e interdetti, fra gli urli dei guerrieri affaccendati, non han niente di più urgente da fare che difendersi con l’ombrello dal fracasso e dalla polvere di guerra, ché se domandan la parola sono bersagliati da innumerevoli proiettili istrumentali, durante il second’atto, l’altra sera, in mezzo all’aspra confusione dell’orchestra, il povero timpanista, nelle brevissime pause che gli concede la parte, si portava le mani alla testa con atto disperato. Anche dopo il clamoroso finale si portò di nuovo le mani alla testa, il povero timpanista, ma non ce la trovò più.

Senza fermarci alla scena d’amore, che l’autore declama con la sentimentalità d’un kaiser jäger, insistiamo col dire che nel secondo, proprio nel secondo atto si rivela l’indole specifica di Riccardo Zandonai. Egli ha bisogno di accumulare gente sopra gente che urli sull’orchestra, di far intervenire sul più bello anche la banda comunale a guernire gli spalti e così via. Più la sua testa si svuota più il suo palcoscenico si riempie.

Ma ora basta così. L’autore diresse lo spettacolo e lo diresse con quella foga tropicale che minacciava di far

precipitare il processo di decomposizione del suo capolavoro. Insomma non fu una gran fortuna per la Francesca da Rimini che Riccardo Zandonai tenesse la bacchetta.

Non ci permettiamo un giudizio sui cantanti che han sostenuto le parti principali; in un lavoro simile anche il più grande artista rischia di non sembrarlo e di far un pasticcio inverosimile.

Dobbiamo menzionarli: Iva Pacetti, Francesca, Gualda Caputo, Samaritana, la Gramegna, schiava, e fra le donne ancora la Bonetti, la Benincori, la Franco [sic] e la Donati. Poi vengono i signori Giulio Crimi, Paolo, Maugeri, Gianciotto e Nardi, Malatestino. Per ultimo Bernardi, Barbieri, Pellegrini [sic] e De Petris.

Tutti fecero del loro meglio e riscossero le più vive acclamazioni. Eccellente l’orchestra e buoni i cori. Alla fine di ogni atto gran chiamate all’autore e agli interpreti che ne furono lieti e sollevati oltre misura.

Domani sera la Francesca da Rimini si ripete.

100 Une élite éblouissante donne au magnifique spectacle d’inauguration de la saison lyrique au Costanzi la splendeur des grandes premières traditionnelles de plus noble des théâtres romains, «L’Italie», 29.12.1925 - p. 4, col. 3-4

Les différentes indiscrétions qui depuis quelque temps couraient sur la saison lyrique de

cette année au Costanzi nous avaient préparé d’avance à un spectacle vraiment supérieur et digne en tout du grand théâtre romain.

C’est avec une véritable joie que nous avouons que toute préparation psychologique a été insuffisante et que l’édition de Francesca da Rimini que nous avons écouté samedi soir a depassé toute attente. C’est un des plus beaux spectacles que nous ayons goûté ces temps derniers et le soin extrême qu'on y remarque, aussi bien dans les détails les plus minutieux que dans l’ensemble très bien bâti et harmonieux, témoignent d’une rare volonté de bien faire qui a atteint des résultats vraiment supérieur et parfaitement à la hauteur des intentions.

Cette fois c’est une réalisation et non un pieux désir: nous n’avons jamais cessé de lutter afin que le Costanzi reprenne ses traditions dont la noblesse est bien connue et rien ne pouvait nous réjouir autant que le spectacle d’hier soir qui témoigne que le beau théâtre lyrique

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romain a repris tout son éclat et toute sa sévère et sérieuse importance musicale, théâtrale, artistique et mondaine.

*** La Francesca da Rimini a été choisie avec beaucoup d’intelligence comme opéra

d’inauguration. Sans être un chef-d’œuvre, la Francesca du maestro Zandonai a tant de qualités qu'on peut

passer sous silence ses quelques défauts; mais ce qui compte le plus c’est que les qulités de cet opéra sont toujours plus claires chaque fois qu'on l’entend à nouveau. Ce sont donc des qualités réelles et bien solidement charpentées, si elles résistent à plusiers auditions.

En effet, si les beautés d’une partition peuvent parfois nous tromper à toute première vue, et si quelques accents mélodieux, quelques mouvements savamment construits nous donnent parfois l’impression d’un motif vraiment personnel et puissant, il arrive souvent que la deuxième fois qu'on écoute la même œuvre, ce motif saisi la première fois en son ensemble, se dissout en ses éléments et prend ses proportions réelles qui ne sont pas toujours les mêmes qu'on lui avait attribuées avant.

Cette désillusion qui est fréquente dans les opéras modernes, ne se produit pas pour la musique de M. Zandonai. Musique extraordinairement sobre en ses éléments d’inspiration et qui trouve dans l’expression une rare richesse et une ampleur de couleurs vraiment éblouissants. L’opéra de maestro Zandonai est franchement traditionnelle dans le sens le plus élevé du mot: c’est-à-dire qu'elle reconduit la musique à ses première source, qui est sans doute la forme chorale symphonique.

La musique scénique descend certainement de la musique religiueuse et en cette qualité elle prend une valeur toujours plus ample quand un véritable artiste sait faire revivre en elle les rythmes universels et trascendentaux qui l’unissent au symbole de la prière. Telle la musique du maestro Zandonai, qui est composée par un choral profond et sonore, dont les notes ne sont jamais fin à elles-mêmes, mais se rattachent aux racines des passions et des sentiments humains.

Francesca da Rimini reste donc une œuvre puissement vitale, dont on ressent toujours avec plaisir les motifs pleins de douloureuse souffrance ou d’ardente passion.

Le public l’écoute avec joie, et se presse à ses représentations, comme samedi. La salle du Costanzi était bondés par un public fort nombreux, qui réunissait le Tout-Rome mondain et intellectuel.

S. M. la Reine, S.A.R. la princesse Giovanna et S.A.R. la comtesse Calvi di Bergolo assistaient de la loge de la Cour, accompagnées de la comtesse Guicciardini. Elles ont été chaleureusement fêtées par le public imposant.

*** L’interprétaions a été vraiment excellente et digne et tout de cette inauguration d’élite. Mlle Iva Pacetti a donné à son rôle si âpre toutes les resources de son inépuisable voix; M.

Giulio Crimi, dont le chant très mélodieux a été admiré encore une fois hier soir, a vraiment ciselé les motifs de son rôle; M. De Maugeri [sic] a été un Gianciotto puissant et plein de vie; Mlle Caputo, très douce dans le rôle de La Samaritana; Mme Gramegna a offert son chant ample et sonore à la schiava qu'elle a vraiment animée.

Très bien tous les autres. Le maestro Zandonai a dirigé son opéra avec la profonde pénétration que lui seul pouvait

avoir et a reçu des ovations sans fin. Excellents les chœurs et les danses, et pleine de bon goût la mise en scène. [...]

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La 2. della “Francesca” al Costanzi - Grandi dimostrazioni al m. Zandonai, «Il Giornale d’Italia», 31.12.1925 - p. 3

Per la seconda della Francesca da Rimini in abbonamento la sala del Costanzi aveva un

aspetto magnifico: gremita la platea e le gallerie, e nei palchi – non uno vuoto – tutto un fulgore di bellezze muliebri in toilettes di squisita eleganza. Non bisogna ignorare che in questa stagione le serate d’abbonamento avranno, come del resto si è notato nei due primi turni, un tono di splendore come un ritorno ai lontani tempi del Carnevale tradizionale. E così anche per il Costanzi vige la legge dei ricorsi.

Tutto lo spettacolo iersera si svolse in un’atmosfera di fervido entusiasmo. Gli applausi non si attenuarono mai; e dopo il terzo atto assunsero forma di ovazione, così che durante l’uragano delle acclamazioni echeggiò più volte il grido di Viva Zandonai. E durante il terzo atto la Pacetti e il tenore Crimi cantarono con commossa passione e mirabile arte; dopo il racconto che il Crimi rese con foga e con fascino suggestivo un lungo applauso coronò gli ultimi accenti di larga risonanza. Ma oltre il terzo, tutti gli altri atti riscossero ammirazione e consensi unanimi per la eccezionale interpretazione. Sicché, oltre i due protagonisti, furono apprezzati il baritono Maugeri, la Gramegna, la De Franco, la Bonetti, il Nardi, il Bernardi. Piene di suggestione le figurazioni sceniche del corpo di ballo russo.

Come bilancio attestante il trionfale successo di questo primo spettacolo del Costanzi, noteremo con la eloquenza delle cifre: dopo il 1. atto Zandonai con gli interpreti ebbe sei chiamate al proscenio; dopo il 2. cinque; dopo il 3. atto otto e alla fine dell’opera ovazioni imponenti.

Una serata, come si vede, piena di fervido entusiasmo. Della Francesca si avrà la terza, nel pomeriggio di Capodanno, a prezzi dimezzati. Lo

spettacolo sarà diretto dall’illustre e popolare autore. [...]

102 La serata in onore di Zandonai al Costanzi – Il Ministro della P.I. al Maestro «Il Giornale d’Italia», 17.1.1926

La vasta sala del Costanzi era iersera, per lo spettacolo in onore di Riccardo Zandonai,

affollata in ogni ordine di posti. Lo spettacolo, per merito dell’ottima esecuzione affidata alla Pacetti, al Crimi e al

Maugeri, si svolse in un’atmosfera di schietta e fervida simpatia. La geniale opera d’arte13 suscitò così vivo interessamento e produsse tale diletto estetico che, a scena aperta, non potette frenarsi l’unanime consenso, espresso con applausi. Ma questi si tradussero in ben altra forma e assunsero tono di calda entusiastica ovazione alla fine d’ogni atto, per cui Riccardo Zandonai fu evocato alla ribalta ripetute volte: in complesso le chiamate furono oltre trenta. Dopo il mirabile terz’atto – un capolavoro di commossa nostalgica poesia lirico-drammatica – alle acclamazioni si associarono le grida di Viva Zandonai!, mentre i valletti di scena lo circondavano con cospicui doni, omaggio da parte della signora Carelli, del

13 Francesca da Rimini.

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Conservatorio di S. Cecilia, di artisti e di ammiratori. Dall’alto dell’anfiteatro, per iniziativa di alcuni gruppi di zandonaiani, s’inscenò una pioggia di fiori.

Allora tutto il pubblico che affollava il teatro si levò in piedi e volle ancora con una manifestazione delirante tributare al Maestro una dimostrazione di stima e di cordialità.

In un palco di 2. ordine assisté a tutto lo spettacolo il ministro della Pubblica Istruzione on. Fedele. Dopo il primo atto, il Ministro Fedele, accompagnato dal nostro collega Incagliati, volle recarsi sul palcoscenico per stringere la mano al maestro Zandonai. Il colloquio svoltosi tra i due illustri uomini fu quanto mai cordiale. Il ministro Fedele parlò di musica con alta competenza e rese omaggio all’italianità dell’illustre autore di Francesca. Comunicò poi al Maestro che, a manifestargli la sua schietta e profonda ammirazione, lo aveva insignito dell’alta onorificenza di Grande ufficiale. Riccardo Zandonai rispose commosso al Ministro dicendosi sensibile per la prova di stima e di onore a cui era stato fatto segno.

Dopo tanto disinteresse da parte della Minerva per tutto ciò che ha attinenza con la musica, è da segnalare con legittimo compiacimento l’atto compiuto dal ministro Fedele che, conscio della sua missione, mostra di tenere in pregio l’arte teatrale, cui l’Italia suole affidare la propaganda del suo buon nome all’estero. Il ministro Fedele, iersera come in occasione di altri avvenimenti musicali, ha mostrato di non ripudiare come la gran parte dei suoi predecessori il titolo di ministro delle Belle Arti.

103 Alberto Gasco, “Francesca da Rimini” di Zandonai al Teatro Reale dell’Opera, «La Tribuna», 22.1.1932 - p. 3, col. 3-4

La Francesca da Rimini di Gabriele d’Annunzio e Riccardo Zandonai è riapparsa –

crediamo per la quarta volta14 – sulle massime scene liriche di Roma ed ha ottenuto, senza la minima fatica, una quarta luminosa vittoria. L’esito era previsto: la vittoria può dirsi ben meritata. Quest’opera, che non vuol rinnovare ma soltanto modificare qua e là ingegnosamente la struttura dell’opera italiana moderna alla quale Giacomo Puccini ha dato un felice impianto, ha in sé tante pagine soavemente elegiache e drammatiche ed esuberanza da conquistare sia le persone che sognano estenuanti dolcezze d’amore che quelle avide di gesta marziali o desiderose di assistere a scene di truce vendetta. Da quasi un ventennio la Francesca da Rimini – composta dallo Zandonai con ardore di ispirazione genuina sul libretto tratto dalla splendida tragedia dannunziana – vive e prospera. Essa è nel repertorio di tutti i grandi teatri italiani e di molti di quelli stranieri. Il pubblico di qualche città ha votato alla Francesca un amore che non sembra destinato ad estinguersi. E Roma, che sino dal primo apparire dell’opera simpatica e fortunata le ha rivolto sorrisi ed encomi abbondantissimi, si mette in esultanza ogni volta [che] ne viene annunziato il ritorno.

Il nostro giudizio – non più recente – su questo dramma lirico dello Zandonai resta immutato. La Francesca non ha un numero stragrande di motivi, ma quelli che ne formano la ricchezza valgono per la loro plasticità e per la stretta aderenza ai personaggi o alle scene salienti dell’opera. Basta citare il bronzeo tema musicale di Gianciotto e l’alata melodia che accompagna i due cognati nel fatale adulterio e nella morte.

I brani dell’opera limpidamente belli sono ormai conosciuti e conviene appena far cenno di alcuni di essi. Su tutti s’eleva quello che chiude il primo atto. La musica è placida e pur

14 In realtà per la quinta.

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s’insinua nell’animo dell’ascoltatore, vincendo ogni possibile resistenza. La tenerezza ansiosa di Francesca che attende l’ora nuziale, il suo abbandono ad una felicità ancora vaga, il suo nobilissimo lento incedere nel vespero sereno verso colui che dovrà – o dovrebbe – essere compagno della sua vita, tutto ciò è reso a perfezione dalla musica che ha sottili fremiti, lunghe carezze ed ampi disegni di melodia. Un cespo di rose fiorisce nel cortile di pietra severa: Francesca lo coglie e il profumo del fiore purpureo avvelena deliziosamente Paolo Malatesta e stordisce un poco anche noi...

Nel secondo atto, condotto con magistrale perizia tecnica, si scatenano orgie di suoni marziali. I motivi sono scarsi, ma l’orchestra ha fragori di armi squassate e vampe d’incendio. Il terzo è un autentico capolavoro e soltanto chi abbia un cuore piccolino, quasi atrofico e con un triplice rivestimento di pergamena durissima può ascoltarlo impassibile o sdegnoso. Tutto in esso è gentilezza e umana passione. I motivi si susseguono nitidi e lucenti, l’orchestra vibra di un’allegrezza trepida, si odono leggiadre canzoni a ballo e arie di danza di principesca dignità; poi il lirismo prende a poco a poco il sopravvento e la melanconia della dama che si sente incapace di lottare contro il peccato si disvela appieno; poi c’è la scena del bacio che fa sussultare...

Questo atto, che è una delle incontestabili glorie della musica teatrale italiana del novecento (ma non della scuola novecentista) non sarà mai abbastanza esaltato. E neppure si troverà chi osi porre in dubbio la vigoria drammatica delle scene culminanti dell’atto quarto, nel quale la figura di Gianciotto e Malatestino assumono un rilievo enorme. Il duetto finale tra Paolo e Francesca avrebbe dovuto, a parer nostro, essere sorretto da una melodia completamente nuova, mentre non ci offre che la ripetizione (sempre gradevole, comunque) del motivo amoroso già udito e riudito negli atti precedenti, ma risulta di pieno effetto teatrale.

Fermiamoci, dopo questa velocissima corsa. La Francesca meriterebbe altre indagini e si potrebbe anche fare un paragone tra essa e talune opere liriche degli ultimi anni, per rilevare come essa abbia la somma virtù di essere un prodotto d’arte essenzialmente e profondamente italiana, mentre le nostre sorgenti musicali minacciano di inquinarsi per le molteplici infiltrazioni straniere. Ma il tempo stringe ed è necessario passare in fretta alla cronaca dello spettacolo di iersera.

Gran folla al Teatro Reale per ricevere con la massima solennità Francesca e i suoi congiunti. Ricevimento di prima classe, acclamazioni e battimani fragorosi. In complesso, una ventina di chiamate agli artisti ed un robusto applauso alla metà della scena d’amore del terzo atto. Riccardo Zandonai, stranamente neghittoso, non si era curato di venire dal suo romitaggio pesarese per assistere al successo della sua opera. L’assenza del musicista non ha tuttavia raffreddato il pubblico. E sebbene i frequentatori delle premières al Teatro Reale siano proverbialmente compassati, guardinghi, apatici e perciò battano le mani con estrema parsimonia, la signora Gilda Dalla Rizza, protagonista insigne dell’opera e i suoi degni compagni hanno ottenuto un vistoso e meritato premio alle loro fatiche.

La Dalla Rizza ci ha affascinati e commossi. Quale cantante e quale attrice! Voce di generosità rara, ugualmente ammirevole nei canti di passione struggevole e nei brani di affettuosità mite. Azione scenica studiata nei minimi particolari e al tempo stesso disinvolta al massimo grado. Una “Francesca”, insomma, senza rivali possibili. Quanto al tenore Galliano Masini, non c’è che da lodare la purezza e la forza del suo canto: soltanto dobbiamo raccomandargli di perfezionare il suo giuoco mimico e di muoversi sulla scena con una maggiore naturalezza.

Abbiamo ritrovato nel baritono Carmelo Maugeri quel “Gianciotto” imperioso, indomabile, magnificamente espressivo che già conoscevamo. Nell’atto “della battaglia” e

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nel quarto quadro dell’opera egli ha dominato la scena recitando con una bravura eccezionale e prodigando note poderosissime. Nella parte del bieco “Malatestino” il Nardi è stato giudicato artista di intelligenza non superabile. Come si vede, i quattro personaggi principali dell’opera hanno gareggiato in abilità e fervore. Ad essi facevano corona assai brillantemente la signorina Bianca Saltamerenda – una “Samaritana” graziosa ed esatta –, Ninì Giani, “Smaragdi”, e le signorine Arbuffo, Valdambrini, Nola e Silvi. Tra gli uomini ricordiamo lo Zagonara, il Pacini, il Marucci e il Massa [sic]. L’orchestra, diretta con bella vivacità ed infallibile sicurezza dal maestro Gabriele Santini, ha riscosso alti giudizi d’elogio; ottima la massa corale, guidata dal maestro Andrea Morosini.

Se aggiungiamo che il movimento di palcoscenico, regolato da Marcello Govoni, è apparso sempre brillante e che alcuni degli scenari dipinti dal Marchioro come pure i costumi del Caramba sono piaciuti assai, sarà più che agevole rendersi conto dei pregi – veramente insoliti – di questa edizione della Francesca da Rimini. Sono pertanto da prevedersi numerose repliche a teatro gremito.

[...]

104 L[uigi] C[olacichi], “Francesca da Rimini” di Zandonai al Teatro Reale dell’Opera, «Il Popolo di Roma», 21.1.1932 - p. 3, col. 6

Tornata sulle scene del nostro massimo teatro dalle quali mancava da qualche anno,

Francesca da Rimini ha ritrovato gli ammiratori fervidissimi delle rappresentazioni precedenti, vecchie care conoscenze che per essa si farebbero maciullare, l’opera di Riccardo Zandonai costituendo quel compromesso fra il verismo mascagnano e il romanticismo wagneriano che buona parte del pubblico considera tuttora come la maggiore conquista del melodramma italiano contemporaneo. Il contemperamento della melodia continua fino a un certo punto con la forma chiusa, realizzantesi nel clima di una teatralità sensazionale, è quel che ci vuole per soddisfare la sensibilità quietistica delle nostre platee, specie quando tale atteggiamento trova un musicista come Zandonai, dalla mano felice, e un momento storico favorevole, com’era appunto quindici anni fa e come (dal punto di vista teatrale) pare che sia ancora oggi. Quel che sarà di Francesca quando il gusto musicale della massa subirà anch’esso la sua inevitabile evoluzione, non è dato dire. Per ora basta limitarsi alle constatazioni, ed è una pura e semplice constatazione l’affermare che Francesca è opera che piace e che il pubblico ascolta volentieri. Essa piace anche ai cantanti, si deve aggiungere, ed eziandio al maestro che la dirige. Bisognava vedere iersera Gabriele Santini come sorrideva contento, canticchiando a fior di labbra i motivi (naturalmente i “motivi conduttori”) che la sua bacchetta prediligeva. Piacegli o no, è certo che la Francesca gli ha dato modo di offrirci una delle sue migliori esecuzioni, vibrante e precisa, alla quale dal lato strumentale ha portato il suo contributo l’ottima orchestra del Reale che ha suonato pure essa con fervore entusiastico. Sul palcoscenico poi le cose sono andate anche meglio, se possibile. Gilda Dalla Rizza, che impersonava la languidissima Francesca, ha campeggiato in tutta l’opera con l’autorità derivatale dal suo ruolo di protagonista, ma più ancora con l’eloquenza irresistibile del suo canto davvero stupendo.

Ella ha avuto un buon compagno di scena nel tenore Galliano Marini [sic], un soddisfacentissimo Paolo, innamorato cotto fin dalla prima apparizione e quindi, com’è comprensibile, un poco titubante. Ma la sua voce non è timida, e spinta agli acuti risuona forte e sicura. Terribile marito, quel Carmelo Maugeri. Ma attore e cantante eccellente;

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disinvolto nonostante l’armatura e chiarissimo e intonato anche quando pronunzia le nefaste concitate parole che d’Annunzio mette sulle labbra di Giovanni lo Sciancato. E con Malatestino dall’Occhio termina il terzetto fraterno di questa che era una delle belle famiglie italiane dei tempi antichi. Malatestino era Luigi Nardi. Si sa quello che fa il Nardi alle prese con queste parti da caratterista. Le pittura: a modo suo, ma le pittura. E le anima col cantare colorito d’un declamatore abile e saputo. Infine tutti bravi Adelio Zagonara, Adolfo Pacini e Millo Marucci nelle parti loro affidate.

Ed ora le signore dame di compagnia e sorelle e schiave di madonna Francesca. Prima: Bianca Saltamerenda, una Samaritana dalla voce gradevole e aggraziata, intelligente nel gioco scenico. Poi Niny Giani, cupa, chiusa, quasi tragica nella maschera e nel canto della schiava Smaragdi, ineccepibilmente raffigurata. Da ultimo le damigelle Biancofiore, Garsenda, Altichiara e Donella; ogni nome una grazia e nell’insieme un bel quartetto vocale: le signorine Arbuffo, Valdambrini, Nola e Silvi ne impersonavano i ruoli con perfetta aderenza. Per la messinscena citiamo nell’ordine del giorno Marcello Govoni, che ci ha regalato una battaglia con tanto di pece bollente e frecce sibilanti. E per la direzione corale elogiamo il maestro Morosini che l’ha degnamente curata.

Spettacolo dunque assai lieto, che ha raccolto il successo che meritava. Applausi si sono avuti ad ogni fine d’atto seguiti da numerose chiamate al direttore e agli interpreti.

105 rimar [= Mario Rinaldi], Francesca da Rimini, «La Nuova Italia musicale» V/2, feb. 1932 - pp. 20-5

Troppo tempo era trascorso dall’ultima edizione della Francesca da Rimini di Riccardo

Zandonai, perciò il primo allestimento del lavoro da parte del nostro Reale è stato salutato con grande gioia. Riccardo Zandonai (del quale registrammo un grande successo nel numero passato a proposito di due concerti nel nostro Augusteo) è ormai entrato incondizionatamente nell’animo delle folle (i trionfi di Malta attestino), ed ora comincia a cogliere gli allori che effettivamente merita. La Francesca da Rimini è opera possente, ligia alle più belle tradizioni (perciò italianissima), spontanea, grandemente melodica. Essa dunque incontrerà perpetuamente il favore del pubblico; la tragedia dannunziana inoltre conquista ed affascina. Il primo atto resta sempre uno dei più begli atti che ci abbia mai dato il melodramma moderno; il suo finale forma una delle più indovinate e caratteristiche pagine che vanti il teatro lirico. Non ci è possibile ricordare qui tutte le pagine salienti, ma non dimenticheremo certo la bellezza melodica e l’affascinante gentilezza della scena della primavera.

L’interpretazione di Gabriele Santini vivida e calda. La complessa opera dello Zandonai esige da parte del direttore-concertatore una assoluta totale comprensione non solo della partitura ma dell’ambiente magistralmente reso dal compositore. Gabriele Santini ha dato giusto rilievo a tutte l’espressioni, coloriti adeguati alle varie scene, scelta dei cantanti scrupolosa ed assennata. I figli di Guido minore da Polenta erano impersonati da Gilda dalla Rizza (cara conoscenza del pubblico romano), Bianca Saltamerenda e Millo Marucci; i figli di Malatesta da Verrucchio, invece, Carmelo Maugeri, Galliano Masini, Luigi Nardi. Se a questi nomi aggiungiamo quello di Arbuffo, Valdambrini, Nola, Silvi, Giani, e poi Zagonara, Pacini, Marucci, Mazza è facile immaginare quale trionfale successo sia stato raccolto dal possente lavoro dell’amato nostro musicista. Ricorderemo ancora la valida opera del Morosini per il coro e quella non meno valida del Govoni per la messa in scena e

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dell’Ansaldo per l’allestimento. Sempre belle ed appropriate le scene del Marchioro e belli i costumi del Caramba.

[...]

106 r[affaello[ d[e] r[ensis], La “Francesca da Rimini” al Reale, «Il Giornale d’Italia», 22.1.1932 - p. 5, col. 5-6

Avremmo desiderato che Riccardo Zandonai fosse stato presente ieri sera alla

rappresentazione della sua Francesca. Avrebbe ricevuto conforto per il cammino percorso e raggiunto, avrebbe tratto incitamento per riprendere ed ascendere. ma egli se ne sta, come se ne sta il vero e grande artista, nel silenzio della sua casa e della campagna.

Eppure ieri sera la Francesca, pur notissima, ammirata e varie volte ripetuta, assunse un carattere speciale, una significazione ben definita. Ci son momenti nella vita dell’arte e degli uomini in cui opere e circostanze gettano improvvisi e inaspettati bagliori di nuove verità.

Molti han detto e scritto finora che la Francesca è un dramma splendido, riuscito, il migliore di Zandonai; pochi hanno detto e scritto ciò che ieri sera finalmente la folta massa degli spettatori pensò ed attestò con la fervorosa accoglienza, col visibile godimento, con l’entusiastico abbandono: che la Francesca è l’unico indirizzo e l’unica meta a cui poteva logicamente tendere il melodramma dopo Verdi, Puccini, Mascagni; che la Francesca non annulla la nostra gloriosa tradizione ottocentesca ma la continua, la accresce, la raffina, la completa; che la Francesca è opera non solo eletta artisticamente ma di decisiva importanza nella storia del melodramma moderno italiano, come lo è, e forse con aspetti più evolutivi, Giulietta, la quale attende l’immancabile risconoscimento del gran pubblico.

C’era bisogno della consacrazione dell’arte di Zandonai? C’era bisogno, e ieri sera si ebbe solenne e definitiva.

Francesca fu compresa, sentita, gustata dalla collettività piena e totale per l’ardore creativo che quasi non vien mai meno e che in alcuni punti tocca il vertice della grandezza della poesia, della emozione. La fine del primo atto, paradisiacamente dantesca, la seconda parte specialmente del secondo, l’intero terzo atto, la scena impressionante, ultra verdiana, tra l’orbo e lo sciancato, l’ultima scena angosciosa e sensuale tra i due cognati sono episodi fortemente inseriti nelle catene inscindibili della tragedia, ma che s’imprimono in profondità nell’animo dell’ascoltatore.

La personalità italiana possente e inconfondibile di Zandonai ieri sera rifulse di splendori che non conosceranno tramonti.

La rappresentazione di ieri sera è stata allestita con una cura ed uno sfarzo a cui la peccatrice ravennate non era abituata salvo che nei fasti scaligeri. I sontuosi scenari del pittore Marchioro, specie l’esterno del palazzo dei Polentani e la ricca camera di Francesca con le finestre prospicienti sull’Adriatico e gli altri genialmente disposti e illuminati da Pericle Ansaldo, formano uno sfondo ambientale imponentemente storico.

Doviziosi i costumi e quasi sempre intonati. L’atteggiamento delle ancelle, delle masse di armigeri e dei singoli è stato indirizzato dallo studio e dalla diligenza di Marcello Govoni.

Il maestro Santini ha saputo fondere tutti gli elementi del poema servendosi della sua esperienza raffinata di direttore. I momenti musicali più tenui e gentili, che son poi caratteristici di Zandonai, sono usciti fuori dalla bacchetta di Santini con senso squisito di poesia.

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Gilda Dalla Rizza resta ancor oggi la più perfetta Francesca. È una figurazione che ella sente profondamente, per cui gesto sempre signorile e canto sempre vibrante formano una armonia plastica e lirica di alta suggestività. Nel terzo atto ella spiega tutto il fascino della sua arte, ch’è arte vibrante e umana.

Il tenore Galliano Masini, su cui si basano le generali speranze in questo momento di assoluta penuria di tenori, ha anche rappresentato altrove la parte di Paolo, e certamente egli ha messo in uso ogni sua risorsa per mantenersi all’altezza della situazione, dei colleghi e del Teatro Reale. Ma la parte è ardua, irta di pericoli, psicologicamente difficoltosa. La sua voce è bella e flessibile; [ma] i suoi singhiozzi, ci siamo permessi osservarlo altra volta, devono scomparire.

Magnifica, ormai lo si sa, superiore a qualunque altra sua interpretazione questa di Gianciotto per parte di Carmelo Maugeri. Gianciotto-Maugeri è un binomio che non è possibile scindere, e non c’è teatro grande o piccolo che ne prescinda. Rude e maschio senza affettazione e con naturalezza sorprendente, voce e gesto concordano alla suprema efficacia.

Malatestino perfido senza misura il valentissimo Nardi. Bianca Saltamerenda nella Samaritana, parte breve ma gentilissima, ha dato prova di bella

voce e fine intelligenza artistica. Degnissimi di menzione le donne di Francesca: Arbuffo, Valdambrini, Nora [sic], Silvi e Giani; e gli uomini: Marucci, Zagonara, Pacini, Mazza.

I cori, che in quest’opera hanno tanta parte, sono stati perfettamente istruiti dal Morosini. Alla fine d’ogni atto, superfluo registrarlo, applausi ed evocazioni. Assisterono allo spettacolo il Principe d’Etiopia e il suo seguito. [...]

107 [Raffaello De Rensis], Il successo di “Francesca da Rimini” di Zandonai al Teatro Reale, «Il Piccolo», 21.1.1932 - p. 5, col. 1-2

Altro splendido avvenimento d’arte italiana con diverso carattere della Debora di Pizetti si

è avuto ieri sera con la Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai. Noi ricordiamo due edizioni del vecchio “Costanzi”, quella del 1921, con cui s’inaugurò la stagione, e quella del 1926 [ovvero 1925: n.d.r.], la prima con Dalla Rizza e Fleta, la seconda con la Pacetti e Crimi, entrambe col baritono Maugeri, creatori lui e Crimi della loro rispettiva parte. I tenori che hanno impersonato e impersonano Palo il bello non hanno mai raggiunto la nobiltà ed emotività interpretativa di Giulio Crimi, e perciò noi non abbiamo voluto dimenticare il nome di questo insigne artista ritiratosi involontariamente e intempestivamente dalle scene.

La rappresentazione di ieri sera dinanzi al solito folto ed eletto pubblico è stata allestita con una cura ed uno sfarzo a cui la peccatrice ravennate non è abituata, salvo che nei fasti scaligeri. I sontuosi scenari del pittore Marchioro, specie l’esterno del palazzo dei Polentani e la ricca camera di Francesca con e finestre prospicenti sull’Adriatico, e gli altri genialmente disposti e illuminati da Pericle Ansaldo, formano uno sfondo ambientale degno dell’episodio dantesco.

Doviziosi i costumi e quasi sempre intonati. L’atteggiamento delle ancelle, delle masse di armigeri e dei singoli è stato indirizzato dallo studio e dalla diligenza di Marcello Govoni.

Il maestro Lantini [sic] ha saputo fondere tutti gli elementi del poema servendosi della sua esperienza raffinata di direttore. I momenti musicali più tenui e gentili, che son poi caratteristici di Zandonai, sono usciti fuori dalla bacchetta di Santini con senso squisito di poesia.

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Gilda Dalla Rizza resta ancor oggi la più perfetta Francesca. È una figurazione che ella sente profondamente, per cui gesto sempre signorile e canto sempre vibrante formano una armonia plastica e lirica di alta suggestività. Nel terzo atto ella spiega tutto il fascino della sua arte, ch’è arte-vita, direbbe il compianto amico Alaleona.

Il tenore Galliano Masini, su cui si basano le generali speranze in questo momento di assoluta penuria di tenori, ha anche rappresentato altrove la parte di Paolo, e certamente egli ha messo in uso ogni sua risorsa per mantenersi all’altezza della situazione, dei colleghi e del Teatro Reale. Ma la parte è ardua, irta di pericoli, psicologicamente difficoltosa. La voce, il canto devono sciogliersi senza esitanza.

Magnifica, ormai lo si sa, superiore a qualunque altra sua interpretazione questa di Gianciotto per parte di Carmelo Maugeri. Gianciotto-Maugeri è un binomio che non è possibile scindere, e non c’è teatro grande o piccolo che ne prescinda. Rude e maschio senza affettazione e con naturalezza sorprendente, voce e gesto concordano alla suprema efficacia.

Malatestino perfido senza misura il valentissimo Nardi. Bianca Saltamerenda, la Samaritana, parte breve ma gentilissima, ha dato prova di bella

voce e fine intelligenza artistica. Degnissimi di menzione le donne di Francesca: Arbuffo, Valdambrini, Nora [sic], Silvi e Giani; e gli uomini: Maruggi [sic], Zagonara, Pacini, Mazza.

I cori, che in quest’opera hanno tanta parte, sono stati perfettamente istruiti dal Morosini. Alla fine d’ogni atto, superfluo registrarlo, applausi ed evocazioni. [...]

108 Mario Labroca, “Francesca da Rimini” al Teatro Reale dell’Opera, «Il Lavoro fascista», 22.1.1932 - p. 3, col. 5-6

Confessiamo che Francesca da Rimini è stato un nostro amore giovanile: allorché nel 1914

[sic] essa apparve al Teatro Costanzi noi eravamo tra quelli che maggiormente le fecero festa; una festa sui generis ché noi non eravamo tra gli spettatori ma, come quasi tutti gli studenti di allora, sotto spoglie dugentesche eravamo nel corpo delle comparse.

Francesca la amammo intensamente un po’ per quel suo fare sospiroso, un po’ per quel suo procedere spigliato e franco che sembrava discendere dritto dritto da certe scene del Falstaff: e poi ci solleticava quel duecentismo tutto letterario con Francesca e compagni che parlavano per immagini quanto mai sonore, per quel circolare di giullari, ancelle, per tutto quel senso di oleografia che dipingeva di sé le scene, i costumi, le movenze dei personaggi come la illustrazione di un preraffaellita al quinto canto dell’inferno di Dante. Ci piaceva perché Zandonai a tutto quel mondo di fantasmi e di figure più che di uomini e di cose aveva saputo dare la musica che ci voleva. Musica oscillante sopra la ostinazione dei pedali, fatta di melodie graziose seppure limitate ad un giuoco armonico non certo troppo vasto, carezzevole e dolce, tendente a creare un’atmosfera musicale più che a formare dei personaggi drammatici; lontana perciò dalle tradizioni dell’opera italiana ottocentesca e legata invece a quel teatro più decorativo che sostanziale chiamato a torto, secondo noi, verista.

Francesca, in tutto quel mondo musicale che chiameremo illustrativo, si presentava con i pregi di una eleganza e di una spigliatezza ignote fino allora: il canto delle ancelle fresco e primaverile, l’amore di Paolo e Francesca giovanile e delicato, efficace il brontolio di Gianciotto, perfido ed insinuante l’animo di Malatestino. Quadro completo, illustrazione alla Gabriele Rossetti, di quelle che piacciono al buon borghese che non vuole affaticarsi a penetrare nelle opere dense di sostanza e di significato.

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Ma Francesca noi la amavamo perché vedevamo in essa una speranza: la speranza che il melodramma italiano si mettesse sulla strada dei periodi chiari, delle costruzioni efficaci e significative, del qualche cosa di concreto. Una illustrazione, va bene, ma è sempre preferibile una buona illustrazione ad un cattivo quadro, e Francesca era davvero una bella illustrazione.

Poi venne la guerra, noi passammo alcuni anni a contatto di cose più gravi ed imparammo a distinguere il superficiale dal significativo, la illustrazione dal quadro: certo a questo criterio ci saremmo arrivati lo stesso, ma la guerra alla quale partecipammo accelerò il processo formativo.

Ed allora Francesca la perdemmo di vista; essa si allontanava, come si allontanano gli amori giovanili, dalla nostra memoria ed alla fine essa si identificò per noi con il ricordo di alcune piacevoli serate trascorse con tanti cari amici (molti non sono più oggi con noi ché la guerra li rapì) a gettare i finti sassi dai bastioni della fortezza dei Malatesta addosso ai macchinisti che se ne stavano dietro alle quinte a fare i fuochi greci.

Oggi, dopo diciotto anni che non ci eravamo più incontrati con lei, Francesca ci è venuta di nuovo incontro. Incontro simpatico ché i vecchi amici si rivedono sempre con piacere così come con piacere si riguardano a distanza di anni le illustrazioni che ci hanno colpito nella nostra giovane età. E Francesca il suo compito puramente decorativo lo assolve nel migliore dei modi ché nel suo genere questa è una delle opere più riuscite anche se il secondo atto non sa trovare accenti bellicosi e se la seconda parte del quarto atto ha un andamento stanco che poco va d’accordo con la drammaticità della situazione. In compenso il primo atto, il terzo e la prima parte del quarto sono degni del successo che è sempre arriso all’opera e che le ha permesso di conquistare a ragione un posto di primissimo ordine nel repertorio corrente dei teatri non soltanto d’Italia ma di tutto il mondo.

*** Perché l’opera viva e si imponga essa ha bisogno, come qualsiasi quadro, della cornice di

una esecuzione degna che tenga conto del carattere decorativo dell’opera, degli elementi diremo così piacevoli che sono in essa, del suo carattere a fondo narrativo. L’esecuzione di ieri sera, che ha tenuto conto di tutti questi elementi, è stata tra le migliori che il Teatro Reale ci abbia offerte.

Per merito di Santini che ci ha regalata una delle sue più efficaci interpretazioni dando all’orchestra un equilibrio prezioso, amalgamando le voci sulla scena con quelle degli strumenti, conferendo a tutto lo spartito il pregio di una grande chiarezza; e per merito degli interpreti che hanno contribuito alla formazione di un preziosissimo quadro.

Gilda Dalla Rizza non ha bisogno di presentazioni; il suo nome è legato al ricordo di interpretazioni di grande valore, sia per quanto riguarda la parte vocale sia per quanto riguarda la formazione del personaggio. Nel caso di Francesca essa ha saputo essere una protagonista insuperabile; la sua voce bellissima e la sua sensibilità le hanno permesso di dare al personaggio il pregio di una caratteristica profonda. Nel terzo atto soprattutto essa ha saputo raggiungere accenti che non sarà facile dimenticare.

Galliano Masini, che impersonava la figura di Paolo, non le è stato da meno. Questo artista va di anno in anno perfezionando le sue doti ed ha oggi raggiunta una pienezza ed una bellezza di voce che pochissimi cantanti possono vantare: ieri sera egli ha impressionato per la freschezza del suo canto e per la sua intelligenza interpretativa.

Ottimo Gianciotto è stato Maugeri che ha sfoggiato la sua voce potente e la sua capacità di dare risalto e consistenza ai personaggi che hanno la fortuna di imbattersi in lui.

Un Malatestino insuperabile è stato Nardi.

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Perfetto il gruppo delle ancelle formato dalle signorine Arbuffo, Valdambrini, Delisi e Alfano; efficace la Saltamerenda nella parte di Samaritana; ottima la Giani che ogni giorno appare più perfetta; e tutti da ricordare per il contributo prezioso dato allo spettacolo Marucci che era Ostasio, Zagonara che era Ser Toldo, Pacini che era il Giullare, Marucci che era il Balestriere e Mazza che era il Torrigiano.

Govoni ha dato grande risalto al movimento delle masse, Ansaldo è stato il solito mago della scena, i cori sono stati al solito perfetti. Il successo trionfale: circa venticinque chiamate.

109 c. pav., “Francesca da Rimini” al Teatro Reale dell’Opera, «Il Tevere», 21.1.1932 - p. 3, col. 3-4

Nella Francesca da Rimini ciò che potrebbe interessarmi è quel suo essere falsamente

orecchiabile. Pare, intendo, un’opera italiana: aperta, generosa. Non ne è nulla. Il suo “tono” è orecchiabile; ma se vuoi isolarne la melodia la trovi arida, spigolosa e incommestibile come una vecchia inglese. Ecco una musica che si può mugolare; ma non si può “pronunciare”: carattere attraente.

Di continuo svagata dietro a questa e a quella illusione decorativa, essa finisce sempre col perdere la coincidenza. Trafelata corre dietro a tutti i treni, e li manca tutti per un attimo. Partono, si può dire, sotto al suo naso. E sì che l’orologio del maestro Zandonai è regolato sull’ora media dell’Europa centrale.

Quale curioso artista, Italiano a tre cotte, italiano da operona melodrammatica a piena orchestra e con tutti i sentimenti, s’è travestito al punto da parere una di quelle figure languide insieme ed eroiche, anemiche e muscolose, evanescenti e traverse, nate dal felice connubio degli estetismi alla Burne Jones con gli estetismi alla De Karolis. Non poteva dunque essere che Zandonai rinunciasse ad un libretto di d’Annunzio.

Con quel Dugento romantico, antiquariale, falso da capo a fondo, tutto giullari, mercatanti e madonne occupatissimi a dire cose tanto leziose che inutili, il baco letterario che è in Zandonai ha trovato la pera più adatta per farci casa. Onde il successo di questa opera perfettamente superflua.

“Quattro rondini di legno dipinto che hanno sotto il petto una specie di manico breve...”. Tutte le rondini son qui di legno. Volano poco e duro quanto il gesto della mano che le impugna per il manico breve. Noi confesseremo che non ci riesce “suggestivo” il calen di marzo. Non c’incanta il calen. E marzo è un’altra cosa.

Il vizio delle parole ricade sugli strumenti e sulle voci. Ci si aggira malinconici per un giardino di fiori finti e senza via d’uscita. Intanto il pubblico, che non la pensa come noi, si abbandona all’entusiasmo.

*** Alla cartapesta dell’ispirazione melica corrisponde assai bene la cartapesta degli scenari,

fatica del prof. Marchioro. Sempre più di maniera, sempre più oleografico? Bella parola d’ordine, non c’è che dire. (E, soprattutto, non c’è che fare).

*** Esecuzione, secondo il solito, stupenda. (È proprio per questo che ci mordiamo le mani:

che meraviglie si potrebbero fare, con tanti mezzi). Gilda Dalla Rizza è una “Francesca” di primo rango; il suo canto non è di legno con le ali dipinte, ma vivo e caldo, sereno e drammatico, umanissimo. E quale dolce, educata voce ha il tenore Masini, “Paolo” trasognato

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e appassionato; quale potenza sobria e terribile il Maugeri, scultoreo “Gianciotto”. Filano i cori d’incanto; suono perfetto rende l’orchestra guidata al maestro Santini con decisione ed amore. Applausi ad ogni atto e a scena aperta.

110 G. B., “Francesca da Rimini” al Teatro Reale, «L’Impero», 22.1.1932 - p. 4, col. 3 (con caricatura di Zandonai)

Francesca da Rimini e Paolo il Bello hanno rivissuto ieri sera sulle scene del “Teatro Reale

dell’Opera” il loro tragico destino d’amore, attraverso la concezione musicale di Riccardo Zandonai, ed il pubblico ha preso parte alla triste vicenda con evidente commozione.

Ancora oggi, infatti, la «Francesca» è la migliore opera teatrale uscita dalla fluida penna di Zandonai e si impone tuttora ai nostri pubblici per la riposante efficacia dei temi e per le sapienti guarniture di colore.

L’edizione presentataci ieri sera è parsa lodevolmente accurata. La parte della protagonista era affidata a Gilda Dalla Rizza, che seppe con intelligente

gusto porre in rilievo le notevoli bellezze del suo ruolo, dando ancora sicura prova dei suoi mezzi vocali d’eccezione.

Galliano Masini fu magnifico nelle vesti di “Paolo”. Questo cantante, che in brevissimo tempo è assurto a larga notorietà, possiede invero superbe qualità che si affermarono ancora una volta trionfalmente in quella difficile parte. Nella scena d’amore del terzo atto egli riuscì a strappare un vibrante applauso a scena aperta.

Ottimo il baritono Maugeri, che conferì alla figura dello “sciancato” tutta la vigorìa e severità.

Perfetto come sempre il Nardi nella bieca persona del “Malatestino”. Benissimo gli altri, che ci limitiamo a ricordare: Bianca Saltamerenda, Matilde Arbuffo,

Emilia Valdambrini, Luisa Nola, Maria Silvi, Niny Giani e Adelio Zagonara, Millo Marucci, Adolfo Pacini, Paolo Mazza.

Degno della massima ammirazione il maestro Gabriele Santini, che riuscì, con sapiente cura, ad animare con perfetto senso di equilibrio e di emozione lo svolgimento del dramma.

111 P. C., Succès grandiose de “Francesca da Rimini” au Théâtre Royal de l’Opéra, «L’Italie», 22.1.1932 - p. 3, col. 5-6

La tragédie de Francesca, présentée par l’art génial de Gabriele d’Annunzio, avait besoin

d’un musicien excellent, capable de la revêtir avec une grâce exquise sous la forme musicale. En littérature, tout ce qu'avait été écrit sur cet argument, avant et après Silvio Pellico, avait

désormais vieilli, et on avait éprouvé le besoin d’un nouveau exposé de la part d’un poète: un poète à la sensibilité moderne, comme, pour la musique, on éprouvait le besoin d’entendre de la musique nouvelle, après celle de Mancinelli, également périmée.

La tentative plus récente du Pierné n’avait pas réussi. C’est pour cela que, lorsqu'au mois de février 1914 au Regio de Turin parût la Francesca du jeune maestro trentino, l’opéra fut accueilli si bien, et obtint un succès qu'il aurait été difficile de prévoir.

Aujourd’hui l’opéra est parfaitement compris, et plait de plus en plus. Riccardo Zandonai est un compositeur tout à fait italien, mais il a conquis cette nationalité, sans suivre les

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vieilles formes et le vieilles traditions: il n’a pas voulu revêtir ses idées de conceptions exotiques. Il n’a pas voulu s’en tenir aux écoles et aux systèmes, il compose simplement, prêtant confiance à son exquise sensibilité, qui n’est pas trop “vieux jeu” comme elle n’est pas trop moderne, mais qui est toujours constamment égale, parce qu'elle puise ses racines dans la vie.

Des différentes œuvres du maestro Zandonai, Francesca est celle qui nous présente le mieux l’artiste dans sa vision la plus complexe, et qui nous manifeste tous les aspects et toutes les exigences de son art tout personnel. Nous y trouvons ce symbolisme musical qui, on naissant du contenu psychologique, ne fait pas de l’inspiration une pauvre chose, et n’arrête pas les sources d’un pur lyrisme. Il y a dans Francesca un choix très soigné des thèmes, avec des allusions idéales, sans qu'ils soient artificielles et inopportunes. Et encore, une très grande variété des rythmes originaux, qui donnent beaucoup de vie et de mouvement.

Le premier acte de Francesca est une des plus belles pages de notre musique théâtrale. Le duo de deux sœurs, particulièrement, a un sentiment si exquis, une tendresse si douce, qu'il ne peut ne pas toucher profondément. Il faut aussi dire que c’est là une page si délicate qu'elle exige de la part des artistes une sensibilité particulière, une interprétation très habile. Grâce aux deux artistes qui représentaient Francesca et sa sœur, Gilda della Rizza [sic] et Bianca Saltamerenda, et grâce au maestro Govoni qui a soigné l’interprétation scénique, cet épisode a obtenu un succès extraordinaire.

Le deuxième acte, qui pourrait être l’acte le plus faible de l’opéra, doit être interprété magistralement. Son succès n’a pas été inférieur à celui du Ier acte, grâce au chef d’orchestre, maestro Santini, qui a su donner de l’unité à toute cette scène très difficile et qui a su vaincre les difficultés des épisodes faibles en les entrelaçant magistralement avec les mieux réussis.

Les deux actes suivantes sont de la même sorte du premier. L’interprétation a été incomparablement bonne. Cet opéra a été l’une des meilleurs présentations donnés cette année au Royal.

L’ensemble artistique a été soigné dans ses moindres détails. Très bien les chœurs du deuxième acte et aussi celui des femmes au premier.

Mme Gilda della Rizza, principale interprète de tout l’opéra, se distingue par sa merveilleuse et chaude voix ainsi que par son jeu; signalons dans le rôle de Paolo le ténor Galliano Marini [sic] qui, à vrai dire, ne sait pas allier à une voix sonore et expressive une interprétation égal dans les mouvements et dans les passages que la voix doit faire, du ton passionnel au ton doux, du ton désespéré au ton caressant. Gianciotto a été magistralement interprété par Carmelo Maugeri, dont la sécurité de la voix donne un fort appui et beaucoup de stabilité à la scène. Le rôle de Gianciotto qui, comme on sait, est peut-être le plus difficile, a été réellement vécu et a ému et touché. Malatestino [!] aussi, dans son rôle difficile, surtout pour l’interprétation, nous a donné une représentation vivante du jeune Malatesta, fort et brutal. Biancofiore s’est distingué par sa grâce et par une douce voix.

Les décors merveilleux étaient dus à M. Marchioro, les costumes très riches à Caramba. À la fin de chaque acte le maestro Santini, qui a conduit l’orchestre à vrais prodiges, et les

artistes ont été rappelés plusieurs fois à la rampe, car le succès a été vraiment étonnant. [...]

112 Teatro Reale dell’Opera, «Il Messaggero», 24.1.1932 - p. 6, col. 3

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La replica della Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai ha confermato il pieno successo della prima rappresentazione. Alla fine di ogni atto il maestro Santini, ce ha concertato e diretto il geniale spartito con singolare valentia dando perfetto rilievo ad ogni episodio, è stato evocato al proscenio numerose volte tra scroscianti applausi, unitamente ai valorosi artisti.

Gilda dalla Rizza ha nuovamente impressionato l’uditorio con la bellezza dei mezzi vocali e la vibrante realizzazione della protagonista. Degni suoi compagni sono stati Galliano Masini, “Paolo” eccellente sotto ogni aspetto; e Carmelo Maugeri, che ha fatto della parte di “Gianciotto” indimenticabile creazione. “Malatestino” efficacissimo è stato Luigi Nardi; Bianca Saltamerenda ha conferito alla figura della sorella di Francesca, la dolce Samaritana, rilievo non comune. Ninì Giani ha impersonato “Smaragdi” con molta efficacia. Il gruppo delle ancelle, in cui predomina per l’abilità di cantatrice e finezza di arte scenica Matilde Arbuffo, è apparsa degna di ogni sincera lode; un “giullare” assai caratteristico è stato Adolfo Pacini; ottimi lo Zagonara, il Marucci, Paolo Mazza. I cori, istruiti con arte mirabile dal maestro Morosini, si sono comportati egregiamente.

Perfetto il movimento scenico ideato da Marcello Govoni e ammirate le scene del Marchioro, messe in valore e adattate al palcoscenico del Reale dagli accorgimenti scenici di Pericle Ansaldo. L’intero spettacolo sarà replicato martedì, 26 corr., in serata fuori abbonamento e a prezzi popolari.

113 “Francesca da Rimini” al Teatro dell’Opera – La rappresentazione dopolavoristica di questa sera, «Il Messaggero», 5.2.1932 - p. 5, col. 3-4

Il teatro è già tutto esaurito: come se quelli di Roma non fossero bastati ad empirlo, sono

venuti quelli della provincia ad ingrossare il numero dei pretendenti allo spettacolo, e naturalmente, per evidenti ragioni, sono stati preferiti.

Così avremo nella platea del nostro più bel teatro d’opera i cittadini di Maccarese e Tivoli, di Campagnano e Cori, di Olevano e Bracciano, e di altri paesi ancora, lontani e vicini, che s’accostano, forse per prima volta in vita loro, al miraggio di una ribalta sfolgorante di grandi nomi ed assistono ad un così sontuoso spettacolo.

È quindi veramente il popolo, l’espressione più genuina del popolo nostro, che converrà questa sera, in grazia della mirabile organizzazione del Dopolavoro dell’Urbe che con tanta tenacia persegue gli intenti di elevazione spirituale e culturale delle masse, al Teatro Reale ad ammirarvi una delle più belle e moderne opere della nostra scena lirica: la Francesca da Rimini di Zandonai, ed in una esecuzione di prim’ordine.

[...]

114 d[ante] a[lderighi], Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai, «Il Lavoro fascista», 2.4.1937 - p. 3, col. 5-6

Chi vuol più numerare le edizioni che Francesca da Rimini ha avuto sulle scene liriche di

Roma, dopo le sue prime e fortunatissime rappresentazioni al Teatro Costanzi in quella meravigliosa e fatale primavera romana del 1915? Francesca “regge” il cartellone con tale disinvoltura che la sua presenza sembra ormai una istituzione; lo stile dei suoi personaggi poi

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s’è già formata una tradizione per cui le libertà concesse agl’interpreti son limitate appunto dalle frequenti repliche dell’opera. Francesca, Gianciotto, Malatestino, come pure Paolo, Biancofiore, Smaragdi hanno da essere così e così: debbono cioè uniformarsi, al possibile, alla interpretazione che di essi dettero i primi interpreti.

Zandonai non era ancora trentenne quando cominciò a musicare la tragedia dannunziana che Tito Ricordi aveva tanto bene ridotto per la scena lirica. L’anima giovanile del maestro trentino si dette per intero alla poesia di d’Annunzio riuscendo felicemente a trasfondere nella sua plastica figurazione sonora una freschezza palpitante di sentimenti.

Per queste sue doti Francesca da Rimini ottenne il favore del pubblico, l’entusiasmo dei giovani d’allora.

Così Francesca fu l’opera nuova italiana della gioventù dell’Italia prossima alla guerra mondiale; fu uno dei fiori di primavera che abbellirono il cammino delle anime ancora nuove alla vita. Francesca da Rimini non fu giudicata: fu semplicemente, schiettamente amata, così come si ama quando si ama. Questa musica traente da un robusto tronco della tradizione del melodramma italiano la sua forza e il suo fascino naturale, la ricantarono anche quelli che pure con ardore desideravano una parola tutta nuova, un indirizzo diverso dell’arte italiana. Poiché la storia dell’arte conosce e riconosce solo ciò che è sostanza viva, fatto creativo realizzato, e regala e confina invece agli angoli bui i tentativi anche nobili degli artisti non maturi a sufficienza, Francesca da Rimini vince la sua battaglia artistica in virtù della sua ricca e non effimera ragione vitale.

Tuttavia una parte di quella generazione che fu giovine con Zandonai, e che al primo apparire di Francesca da Rimini pagava a caro prezzo i suoi tentativi di volo in cieli diversi da quelli tradizionali del melodramma postverdiano, ha conquistato in questi ultimi tempi, mediante un concreto lavoro creativo, un valore e una importanza artistica sconosciuti all’autore di Francesca. Mentre oggi abbiamo Zandonai tra i più elevati rappresentanti dell’Italia prebellica, abbiamo d’altro canto altri che la rappresentano nel suo aspetto più nuovo, nel suo impulso vitale.

La generazione compagna a Zandonai è stata dunque ricca di spiriti e di iniziative. Essa ha dato nel campo musicale validi realizzatori che seppero tradurre nella musica i diversi aspetti dell’anima italiana, ieri più dolce e più sensuale, oggi più severa e più maschia.

La sensualità del personaggio di Francesca è stata resa ieri sera da quella espertissima artista che è Gilda Dalla Rizza. Specie nel terzo atto ella è stata ricca di espressive inflessioni vocali, sostenute inoltre da una rara penetrazione scenica. Galliano Masini ha messo in luce la sua bellissima voce, tanto nel piano quanto nel forte; la sua emissione vocale è fluida come difficilmente è dato riscontrare in altri tenori. Da lui che possiede educatissimo quel tesoro di voce desidereremmo però una maggiore padronanza scenica; ciò che egli certamente potrebbe acquistare se a essa attribuisse valore e necessità artistiche. Questa osservazione non si può certo rivolgere a Luigi Montesanto, il quale ha reso in modo superbo il personaggio di Gianciotto: bella e pastosa sempre la sua voce; perfetta la sua dizione; profondamente vissuto il carattere dello Sciancato. Lo stesso elogio rivolgiamo ad Adelio Zagonara, un Malatestino incisivo, feroce e guizzante. Zagonara dimostra in questa parte la sua passione per l’arte alla quale egli si dedica con quella particolare gioia dell’interprete dotato di vere qualità artistiche.

Maria Esposito nella parte di Biancofiore s’è dimostrata musicalissima e dotata di bella e scorrevole voce. Maria Concetta Zama in Samaritana s’è fatta notare; Saturno Meletti è stato un vigoroso Ostasio; anche lui sa dominare la parola che risulta chiara ed espressiva. Blando Giusti era Ser Toldo: ottimo. Anna Marcangeli, Edmea Limberti, Maria Huder compivano con la Esposito il quartetto delle “Donne di Francesca”. Esse tutte hanno ben reso le loro

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parti; come pure Agnese Dubbini in Smaragdi. Adolfo Pacini era il giullare da lui caratterizzato a dovere; anche Millo Marucci e Antonio Leonardi sono da lodare.

Il maestro Vincenzo Bellezza ha badato a tutto lo spettacolo con singolare padronanza d’arte. La sua direzione poi non manca mai di un certo calore accompagnato da conoscenze tecniche che giovano a far stare in piedi lo spettacolo.

I bozzetti delle scene sono del compianto pittore Pieretto Bianco, strappato alla vita non fanno ancora due mesi. A lui rivolgiamo un affettuoso addio mentre salutiamo la sua anima di artista sincero e appassionato.

Buono il coro diretto dal maestro Conca; ottima la regìa di Govoni. Successo clamoroso. Il maestro Zandonai ha dovuto presentarsi con gl’interpreti ripetute

volte al proscenio, fatto segno a sincere ovazioni. Assisteva allo spettacolo la Principessa Maria di Savoia.

115 Mario Rinaldi, “Francesca da Rimini” di Zandonai al Teatro Reale dell’Opera, «La Tribuna», 2.4.1937 - p. 3, col. 3-4-5

Ascoltare la Francesca da Rimini di Gabriele d’Annunzio o l’opera di Riccardo Zandonai

vuol dire rivivere Dante nel suo quinto canto dell’Inferno. E riviverlo in tutta la sua essenza, poiché poeta e musicista hanno dantescamente espresso ambiente e personaggi.

Non esitiamo a dire che l’opera di Riccardo Zandonai è una fra le più belle del teatro moderno. Essa ha il pregio di aver realizzato l’immortale episodio dei due amanti in una atmosfera musicale perfettamente aderente al soggetto (facciamo qualche riserva per il secondo atto), valendosi di uno strumentale di prim’ordine che non risulta mai eccessivo, sovraccarico, pesante.

Oggi, a distanza di ventitre anni dalla sua prima esecuzione, possiamo ben comprendere perché la Francesca da Rimini possa considerarsi il capolavoro di Riccardo Zandonai. La tragedia dannunziana, nata nello spirito dantesco, non poteva sottostare alle regole del vecchio e tradizionale melodramma. Essa aveva bisogno di aria, di luce, di freschezza e d’un ambiente tutto particolare che soltanto l’ispirazione melodica e la moderna tecnica potevano darci. Ora, freschezza, melodicità, strumentazione sono doti precipue del musicista trentino. Fu lui che un giorno ebbe ad esclamare: «S’io valgo qualche cosa, è nella strumentazione», ma la constatazione, pur rispondente a verità, pecca di modestia. Lo ha manifestato anche ieri sera il pubblico del Teatro Reale che ha fatto al lavoro del prolifico compositore trentino accoglienze entusiastiche.

*** Ecco un’altra opera allestita con grande cura e con senso artistico elevatissimo dal Teatro

Reale. La Francesca da Rimini richiede oltre che cantanti provetti, di ampi mezzi vocali, veri artisti-attori. In ogni nota di Riccardo Zandonai, si può dire, c’è il riflesso dell’arte drammatica dannunziana.

Ieri sera eravamo a contatto con esecutori di fama indiscussa. Innanzi tutto bisogna nominare il maestro Vincenzo Bellezza che è riuscito con la sua arte a penetrare in ogni più lieve piega della partitura, mettendo così ben in rilievo tutte le sfumature e tutte le bellezze profuse dallo Zandonai. Il Bellezza ha diretto con trasporto, con amore e senza esagerazioni di sorta, riuscendo a mantenere in perfetto equilibrio palcoscenico ed orchestra, benché quest’ultima induca verso la sonorità più ampia.

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Gilda Dalla Rizza è una cantatrice esperta ed intelligentissima. L’abbiamo riveduta sul palcoscenico del Reale con infinito piacere, ed abbiamo constatato come ella conservi in pieno le sue qualità canore e la sua padronanza scenica. Tanto negli episodi tragici come in quelli d’amore, la Dalla Rizza è stata di una efficacia sorprendente. È una Francesca per la quale lo Zandonai deve sentire un trasporto particolare dal momento che non ve ne sono tante di eguale valore.

Paolo il bello era Galliano Masini che (finalmente!) siamo riusciti a rivedere sulla ribalta del Reale. Abbiamo riascoltato la sua voce squillante, il suo fraseggiare ampio, il suo declamato vigoroso. È un tenore che trascina. Quanto vorremmo ch’egli curasse maggiormente la scena! Quando Masini riuscirà ad essere anche un bravo attore, diverrà davvero un artista d’eccezione.

Luigi Montesanto ha sostenuto con assoluta padronanza la truce parte di Giovanni lo sciancato. Attore intelligentissimo, cantante di alto valore e nella pienezza dei suoi mezzi vocali, ha ottenuto uno schietto successo personale ed è riuscito a tratteggiare il personaggio con assoluta fedeltà. La nostra attenzione, inoltre, si è fermata su Adelio Zagonara che ha sostenuto la parte di Malatestino con l’esperienza di un grande artista. Vediamo questo cantante ascendere sensibilmente per la difficile scala dell’arte. Efficace Samaritana la Zama e buon Ostasio il Meletti.

Lodevolissime – tutte senza eccezione – le “donne di Francesca”: le nominiamo a titolo d’onore: Esposito, Marcangeli, Limberti, Huder. Un particolare plauso ad Agnese Dubbini, ottima Smaragdi. Molto apprezzate anche le altre parti minori (Giusti, Pacini, Marucci e Leonardi).

Il coro – come sempre – ha cantato e si è mosso con sicurezza, precisione e disinvoltura: merito indiscusso del maestro Conca e del regista Govoni, già più volte lodati su queste colonne.

In quanto alle scene dobbiamo dire che ci son piaciuti più i bozzetti dovuti al compianto Pieretto Bianco che la loro realizzazione pittorica, opera del Furiga.

Lo spettacolo si è svolto in una atmosfera di sincero entusiasmo. Tutti gli esecutori, con a capo il maestro Vincenzo Bellezza, sono stati chiamati una infinità di volte alla ribalta. Si è anche lungamente applaudito Riccardo Zandonai, scovato in un palchetto di proscenio.

116 Di quel ch’udire e che parlar vi piace

Ho sempre pensato che Paolo e Francesca godono una fama immeritata. Infatti, se Giangiotto [sic] non li avesse sorpresi nel bel mezzo del pasticcio amoroso, l’illecita relazione sarebbe durata fin quando uno dei due non avesse dichiarato all’altro che ne aveva abbastanza.

Invece il marito piomba tra loro; Paolo, scoperto, tenta invano di squagliarsi per la botola e lascia Francesca in mezzo ai guai di fronte a quell’energumeno di Giangiotto, compiendo un’azione non degna di un amante coraggioso.

Via, diciamolo francamente: questo particolare non depone certamente in suo favore! Insomma, il marito li ammazza tutti e due. «Amor condusse noi ad una morte».

E sta bene... Ai nostri giorni, niente di più che un volgare fatto di cronaca nera: venti righe di un giornale. Ma siccome Dante concesse ai due colpevoli quel po’ po’ di pubblicità nel V Canto dell’Inferno, ecco che Francesca e Paolo, nei secoli, assurgono ai fasti degli amanti immortali e siedono accanto a Lancillotto e Ginevra, Paris e Vienna, Giulietta e Romeo, Tristano e Isotta. Dal che si dimostra che la pubblicità è sempre l’anima del commercio.

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Quali colombe dal disìo chiamate, iersera il più bel pubblico delle “prime” all’Opera era accorso alla desiderata ripresa del capolavoro di Riccardo Zandonai e poiché è sempre vero che l’atmosfera influisce sul pubblico, così anche iersera il fascino dolcemente peccaminoso degli amori di Paolo e Francesca s’era diffuso nella sala, dove mentre i teneri concenti e la bufera passionale dei due amanti vibravano nell’aria, gli uomini s’incantavano e le donne reclinavano le ricciolute testine al canto sospiroso. Occhi socchiusi delle signorine alle quali il suono della viola d’amore suscitava teneri languori e faceva tremare un poco guance e labbra in fiore; accesi sguardi delle signore che, pur serenamente, avrebbero dato pollice verso per l’impetuoso Giangiotto. Risoluzioni maturate sotto l’influsso di una potente evocazione artistica.

Amor ch’a nullo amato amar perdona... Il verso avrebbe potuto essere scritto sul boccascena. Certo è che iersera si notava una più accentuata galanteria e credo che gl’impeccabili giovani in marsina siano stati spinti maggiormente a fare quella corte che alle belle signore è sempre tanto gradita. Specialmente quand’è innocente.

Del resto, l’esempio parlava chiaro. Chi.

117 G[iorgio] P[rosperi], Caloroso successo di Zandonai alla ripresa di “Francesca da Rimini”, «Il Piccolo», 1.4.1937 - p. 5, col. 4-5 (con una foto di V. Bellezza)

Di fronte al chiaro e progressivo successo riportato iersera all’Opera dalla “Francesca da

Rimini” di Zandonai, la critica trova assai ridotto il suo compito; ché non ci sentiamo certo in antagonismo con chi iersera applaudiva atto per atto, né in quel successo era celato alcun ardore polemico da suggerire una restituzione di proporzioni. La fortunata rotta di «Francesca da Rimini» sulle ribalte non subì ieri, insomma, alcun mutamento.

Le ragioni di un tal successo, del resto, son tutte lì, allineate, a fior d’acqua; non escluso il fragore della meteora dannunziana, che empie ancora la nostra epoca di riverbero. È una parola fare i conti con certi grandi: più li circoscrivi nel tempo, più la loro ombra sguscia fra gli usci chiusi; credi d’averli sistemati nella cultura e t’accorgi quanto le loro radici son dure nel cuore del pubblico. Se un’occasione si presenta, come «Francesca», ecco riaccendersi ogni sopita tentazione. Ve ne fosse o no la coscienza, negli applausi di iersera c’era una buona dogana per Gabriele d’Annunzio. Il che significa almeno che Zandonai non ha scelto a caso il suo librettista e che una cordiale affinità guida il musicista nella larga scia del poeta; una spirituale sensualità, un gusto estetico dell’amore e della tragedia, il senso dell’apparato, una simpatia romantica per la morte fatale si caricano in d’Annunzio d’un linguaggio sanguigno, si colorano in Zandonai d’un patetico che trova il suo fraseggiare fin dalla prima comparsa di Francesca nella corte polentana; e raggiungono il loro vertice nel grande duetto d’amore dell’atto terzo, per ritornare di rimbalzo nel finale dell’opera. Questa materia che da un venticinquennio circola con successo ha pure la sua ragione di esistere; e cadano pure le bertesche ed i verrettoni dell’atto secondo, o si scolori col tempo il quadro della sala ottagonale: quel senso di presentimento dell’atto primo, tutto guarnito d’ariette e di cori in penombra, o il finale del duetto d’amore del terzo atto conserveranno la loro convincente eloquenza.

Per l’edizione di iersera della «Francesca» la direzione fu affidata al maestro Bellezza, che fu un interprete di singolare efficacia. A seguire un poco il suo gesto e la sua bacchetta pareva che la partitura ascendesse al livello del pubblico e che si potesse cogliere direttamente la

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traduzione dei segni in voci ed in suoni. Non si perdeva, insomma, un particolare dell’opera, senza che tuttavia venisse meno la linea della continuità; e i suoni dell’orchestra uscivano rotondi, fusi, ben dosati, come del pari esatto e tempestivo era il segno ai cantanti: una direzione di estrema chiarezza, validissimo contributo al successo dell’opera. Fra gli interpreti i maggiori onori toccarono al tenore Galliano Masini nelle vesti di Paolo, che mostrò una voce robusta, ben timbrata, felice nell’intonazione, sufficientemente ricca di passione e di calore. E divisero con lui la prima linea della ribalta Gilda Dalla Rizza, che mostrò nel personaggio di Francesca una intelligente esperienza di scena e una voce di nitida intonazione, e il baritono Luigi Montesanto che conferì alla figura di Gianciotto un efficacissimo rilievo scenico mercé i suoi pregi di attore e la forza e il colore della voce. Un successo personale si conquistò Adelio Zagonara, intelligentissimo e versatile attore, che ammirammo iersera nella vivida parte di Malatestino; e assai dolce e composta nella sua breve parte ci sembrò la Samaritana impersonata da Maria Concetta Zama. Fra le donne di Francesca ci parvero spiccare Maria Huder ed Agnese Dubbini. Del resto ogni ruolo era a posto, dal Meletti al Giusti, dal Pacini al Maruggi [sic], che ebbero ciascuno la loro personale partecipazione al successo della serata.

I cori ebbero un deciso e vigoroso risalto ed assai apprezzata fu la regìa di Marcello Govoni, che apparve alla ribalta fra i ruoli maggiori.

Un pubblico di prim’ordine, numeroso fino alla necessità delle sedie aggiunte, applaudì con vivacissima animazione il maestro Zandonai, che tornò più volte al proscenio per ringraziare.

Assisteva allo spettacolo la Principessa Maria di Savoia.

118 Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai, «Il Messaggero», 1.4.1937 - p. 5, col. 6-7

Quante edizioni della Francesca di Riccardo Zandonai si sono avvicendate alla ribalta,

dove iersera è ritornata a ripetere il fascino poetico e musicale? Sono ormai ventitré anni, dopo l’inutile sforzo compiuto sullo stesso episodio da tanti operisti del passato – oltre dieci – che Paolo e Francesca rivivono nell’ispirata melodia e nell’espressività sinfonica del maestro trentino.

V’era da disperare che dopo i post-verdiani della “giovane scuola” si fosse fatto il deserto sulla scena lirica. Ma come, dopo il Grillo del focolare e Conchita, già preannuncianti una vibrante tempra melodrammatica, balzò sulla scena improvvisamente, quasi un colpo di folgore benefica, la Francesca, tutti furono concordi a pensare che con quest’opera Zandonai aveva accresciuto il numero dei post-verdiani, e dell’autore del Rigoletto taluni atteggiamenti intonati a foga e incisività drammatica si riflettono con fantasia subiettiva, specialmente nel primo quadro del quarto atto. Zandonai così aveva profilato compiutamente, a tratti decisi, la sua individualità di operista. Non a torto, quel compianto e grande critico musicale che fu Giannotto Bastianelli ebbe a osservare: «È l’operista italiano del giorno e, appunto perché operista, inviso ai buoni musicisti, ma benviso al pubblico, ciò che naturalmente conta più di tutto allo Zandonai e ai suoi editori. Lo Zandonai possiede un dono che sempre meno è impartito agli uomini dalla natura: quel che si chiama il senso del teatro, il bisogno o la potenza di far vivere e palpitare sulla scena non fantasmi materiati d’astrazione e invano imbalsamati da un’arte (poesia o musica) squisitamente raffinata, ma personaggi come quelli di Shakespeare i quali, dopo averli visti agire e parlare, vi restano scolpiti nella memoria».

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Non fantasma, nell’opera di Zandonai, è Francesca, e neppur Paolo; e non è inutile decorazione sonora l’ambiente, che nel primo atto, che è tutto un capolavoro, e nel terzo, assume spirito e aspetto di alta spiritualità psicologica.

In un’epoca di tisi musicale, Zandonai – e questo si può ormai affermare, placate le ingenerose passioni e le aspre polemiche – rivela in Francesca, come del resto nelle altre sue opere, l’attitudine felice a far cantare la voce umana, e con la voce l’orchestra. E qual pregio non è quello, così in rilievo in Francesca, di aver colto e tradotto musicalmente lo spirito dannunziano? Non v’ha in nessun brano della geniale partitura una colorazione perfettamente inutile: nessuna divagazione o digressione a tono di cerebralismo, inteso come fine a se stesso; nessun richiamo alla musica altrui. Qui Zandonai è lui, non altri che lui, e, come tale, una tipica rappresentazione di se stesso.

Quel fascino non si aduna e si diffonde dal finale primo, che è forse la pagina più soffusa di poesia e d’arte di tutta l’opera? E che dire del modo com’è abbozzato e tutto animato di rozza espressività, specchio fedele del torvo personaggio, quel Gianciotto nell’ultimo atto? Non sembra forse che esso raggiunga «la forza di certi cupi personaggi verdiani»? E che dire della melodia d’amore, complice il «Galeotto libro»?

Ma la Francesca, e se ne ebbe ben chiara evidente prova iersera, è acquisita ormai al cuore e alla fantasia dei cultori e appassionati frequentatori della scena lirica; e non vale rievocarne la profonda commossa poesia intima, né descriverne la pittura ambiente. La Francesca ha vissuto già oltre vent’anni di salda fresca energia. Non si rivolgerà inutilmente al teatro di domani.

Iersera la Francesca ha avuto nel maestro Vincenzo Bellezza un appassionato ardente animatore. In lui vibrava un’anima a cogliere e a diffondere dalla pittoresca partitura tutti i motivi d’una suggestiva poesia lirica e di un tragico fervore sinfonico. Ad ogni atto rispondeva la spiritualità e il sinfonismo, secondo l’intima essenza della musicalità zandonaiana. Sicché il finale primo, la pagina più ispirata dell’opera, ebbe un risalto di una sottile fresca pittura; e tutto l’atto successivo, quello della battaglia, l’appropriata potente concitazione orchestrale, tutta esasperazione; e infine il maestro Bellezza, tratto nel mondo della esaltazione erotica dell’atto per così dire dantesco, tradusse la melodicità appassionata con una espressività così vibrante da fondere mirabilmente voci e orchestra in una impeccabile concordanza; e nel duetto finale intese tutto il segreto musicale di quel che fu un fatale, per quanto immortale destino. In una parola, del capolavoro zandonaiano il maestro Bellezza intuì tutta la sensibilità e tutta la foga orchestrale, attraverso l’espressività lirica e la salda architettura e variopinta pittura.

Gilda Dalla Rizza, che sulle scene del vecchio Costanzi iniziò la fulgida carriera, è ritornata dinanzi a quel pubblico che le fu generoso di fervidi consensi e d’ammirazione: consensi e ammirazione che iersera si ripeterono. Ché la Dalla Rizza riproduce di Francesca la spiritualità con un fascino singolare e ne diffonde la cantabilità con ardore appassionato e dolcezza espressiva.

Paolo di alto rilievo è stato giudicato Galliano Masini, il giovane tenore assurto in breve a notorietà ben conquistata. In lui il canto non è mai arbitrario, ma pur caldo d’espressione, tutto ardore e magniloquenza. Uguale in tutta la gamma timbrata e animato da un moto interiore e schietto, la sua voce si diffonde non solo con generoso slancio, ma con [parte illeggibile] Nel 2° atto essa sfolgorò arditi squillanti acuti, e nel 3° si sciolse con un sottile ardore poetico per poi alla fine esplodere appassionatamente. Un Gianciotto torvo e vigoroso, dalla cantabilità scura e incisivamente sillabica, secondo la psicologia del personaggio, fu disegnato, se non scolpito, dal baritono Luigi Montesanto. Egli cantò con la richiesta foga esasperante e martellante, e con ampio respiro. Tutti gli altri concorsero alla fusione del

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magnifico spettacolo: Maria Concetta Zama dolce Samaritana, il tenore Zagonara eccezionale Malatestino, Agnese Dubbini, Maria Esposito, Maria Huder, Edmea Limberti, Maria Morcangi [sic], Adolfo Pacini, Blando Giusti e gli altri. Il coro, istruito dal maestro Conca, in tutto il 2° atto cantò con potente ardente animazione e pronto spirito musicale. Ottima la messinscena di Marcello Govoni e preciso e artisticamente riuscito l’allestimento scenico, ideato e diretto da Pericle Ansaldo.

Un successo caloroso dunque accolse questa nuova edizione della Francesca con oltre venti chiamate complessive al maestro Bellezza, alla Dalla Rizza, al Montesanto e agli altri.

L’illustre autore, presente alla rappresentazione, è stato più volte evocato alla ribalta tra prolungati e insistenti acclamazioni.

119 Adriano Lualdi, La ripresa di “Francesca da Rimini” di Riccardo Zandonai al Reale, «Il Giornale d’Italia», 2.4.1937 - p. 3, col. 6-7

Il più festeggiato di tutti, nella serata di ieri ricca di applausi e di chiamate al proscenio e

brillantissima per numero e per qualità di pubblico, è stato Riccardo Zandonai. Egli gode tante simpatie tra noi, e per questa Francesca da Rimini ha composto pagine di così forte rilievo drammatico e di così suadente lirismo da meritare pienamente l’affettuosa ammirazione di cui è oggetto.

Molta freschezza, molta varietà di vita musicale – e sempre aderenti al testo della magnifica tragedia dannunziana – sono in tutto lo spartito; ma le scene che lo pongono in una posizione di privilegio nei confronti di molta parte della produzione teatrale di questo ultimo ventennio, e della produzione dello stesso Zandonai, sono quelle che chiudono il primo e il terzo atto e tutto l’atto quarto, con l’incontro fra Malatestino e Giovanni e col finale.

Nelle prime, la musica ispirata, dolcissima e nobilissima insieme, crea intorno agli amanti invidiati e invidiabili per l’altezza del loro sentimento un’atmosfera di così commovente e penetrante poesia e così adeguata al momento scenico da rendere bello e dolce in chi ascolta un abbandono a tanto fascino; nelle altre, e specialmente nell’incontro fra Malatestino e Giovanni, il compositore drammatico si afferma con una forza rude e gagliarda e materiata anche questa di vera emozione; e nell’atmosfera tempestosa e selvatica e crudele dà un risalto potente alle figure dei due fratelli dilaniati dalla passione e dall’odio.

*** Riccardo Zandonai ha espresso così bene, con tanta completezza e con tanta semplicità il

senso e la vicenda della tragedia dannunziana e le soavi e le feroci passioni che in essa vivono che agli interpreti non è affatto necessario caricare le tinte perché l’efficacia scenica sia raggiunta. Direi anzi che così facendo essi tolgano, non che aggiungano, all’opera: in quanto ne abbassano il livello artistico, che è in vece tutt’altro che comune.

Ora, è questa la riserva unica che debbo fare all’insieme della esecuzione di ieri sera. Mi è parso che il maestro Vincenzo Bellezza, che ha concertato e diretto lo spettacolo – e che lo ha preparato e condotto con evidente cura, con indubbia passione – forzasse i colori, specialmente nei momenti più drammatici. Ne è derivato che alcune fra le scene capitali della tragedia sono state come esteriorizzate, se si può dir così: e quel che hanno guadagnato in dinamismo hanno perduto in profondità e in verità di espressione. In vece di essere vera e propria tragedia, tragedia intima più che di gesti, come d’Annunzio l’ha concepita, come Zandonai l’ha tanto mirabilmente espressa musicalmente, è stata qualche volta, ieri sera, “mimica” della tragedia. Questo non soltanto per la esecuzione orchestrale, ma anche per la

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scenica, dove si è avuto l’impressione che tutti cantassero sempre forte, anche le quattro ancelle le quali, poverine, non hanno proprio mai ragione di gridare. Fatto questo rilievo, debbo aggiungere che nelle parti liriche l’orchestra ha avuto momenti delicatissimi e che la coesione fra scena e orchestra è stata ottima.

*** Gilda Dalla Rizza ha in Francesca una fra le sue incarnazioni preferite. Essa esprime

infatti quel personaggio con una adeguatezza di mezzi vocali e scenici ammirevoli, e anche ieri sera ha confermato tali qualità tante volte riconosciutele, come l’unica sua manchevolezza quella della dizione.

Galliano Masini impersonava Paolo il bello. Questo tenore si va affermando in modo degno della più gran lode e della maggiore attenzione. Ai bellissimi mezzi vocali, alla facilità ed espressività del canto aggiunge una pronuncia chiara e scolpita, belle qualità musicali, efficace portamento scenico. Nessuna riserva da fare sul modo in cui questo bravo artista ha reso la figura di Paolo.

Accanto a lui va subito nominato un altro eccellente interprete di un’altra tra le figure preminenti dello spartito: Luigi Montesanto, che al personaggio di Giovanni lo sciancato ha dato un rilievo magnifico, sia con la rudezza delle inflessioni vocali che con la esemplare dizione, che con l’arte scenica di impressionante efficacia. Degnissimo compagno gli è stato nella grande scena del quarto atto Adelio Zagonara, Malatestino: anch’esso ammirevole in tutta la sua interpretazione ma specialmente in questo episodio, anch’esso impressionante per accento, dizione, scena.

Benissimo hanno fatto gli altri: Adolfo Pacini, il Giullare, il Meletti, Ostasio, la Zama, Il Giusti, il Marucci, il Lonardi [sic?], la Dubbini. Ha difettato di leggerezza, come ho accennato, e qualche volta anche di intonazione, il canto delle ancelle.

Le scene del compianto Pieretto Bianco sono apparse di effetto. Ottimo il coro e ottima la regìa di Marcello Govoni.

Ho già detto che il successo è stato oltremodo caloroso. Alla fine di ogni atto si sono avute moltissime chiamate al M.o Bellezza, a tutti gli artisti e all’acclamatissimo Zandonai.

120 a. righ., “Francesca da Rimini” di Zandonai al Teatro Reale dell’Opera, «Il Tevere», 2.4.1937 - p. 3, col. 3-4

Giudicare un’opera in musica può esser facile o difficile impresa. Dipende dagli elementi

assunti come base di giudizio; elementi che sono come i reagenti adoperati per una analisi chimica. Prendiamo la Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai rappresentata ieri sera al Teatro Reale dell’Opera. Se si vogliono indagare i valori tecnici della composizione occorrerà il possesso di una cultura musicale storica e specifica non indifferente, ai lumi della quale si può stabilire il posto che spetta all’opera nel campo delle produzioni similari: le derivazioni wagneriane in rapporto all’uso del tematismo; i procedimenti armonici impiegati e, più ancora, gli accorgimenti strumentali che fanno dello Zandonai un vero maestro fra color che sanno.

Effettivamente l’esame particolareggiato della partitura della Francesca svelerebbe una trama di bellezze raramente raggiunta dai moderni operisti, in diretto rapporto non solo alle doti istintive ma altresì alle esperienze timbriche che lo Zandonai condusse fino da quando, ancor giovanetto e studente, il suo primo maestro lo incaricava di trascrivere composizioni per la banda della natìa Rovereto.

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Altri invece – e sarebbero i più – potrebbero assumere a base della indagine gli elementi umani ed affettivi, misurando l’intensità delle vibrazioni provocate nel proprio spirito dalla audizione dell’opera. Si può concludere che la Francesca così come soddisfa i tecnici riesce a commuovere gli ignari, trovando molte ragioni di simpatia e di consonanza con le anime semplici. Basterebbero a tanto l’episodio dell’arrivo di “Paolo” nella fine del primo atto e, quasi per intero, il secondo atto, dove il musicista è riuscito, col linguaggio che gli è proprio, ad aggiunger poesia alla poesia, oltrepassando di gran lunga i confini espressivi assegnati alla parola15. Anche a prescindere dai molti pregi di carattere armonico orchestrale, dalla intensa drammaticità raggiunta nel primo quadro dell’ultimo atto – altro esempio della essenzialità dell’apporto musicale –, le due ampie oasi liriche citate sono cose di tale bellezza da non consentire dubbi circa il valore umano ed affettivo della Francesca che deve ritenersi la migliore tra le molte produzioni dello Zandonai e una delle più alte manifestazioni lirico-teatrali dell’ultimo trentennio.

L’opera fu rappresentata – poco più di cinque anni or sono – sulle stesse scene, avendo a protagonisti i due stessi interpreti di ieri sera. [?!]

Ottima ragione, non pretesto, per contenere in ristretti limiti questo resoconto. Ma ci par giustizia cominciare col nome del maestro Vincenzo Bellezza, direttore concertatore pregevole, che, indagando con spirito alacre i più riposti meandri della ricca partitura, ha posto in chiara luce le ragioni estetiche dei molti particolari e con polso fermo e sicuro ha condotto egregiamente le masse ed i singoli interpreti contribuendo non poco al buon esito dello spettacolo.

La signora Gilda Dalla Rizza non ha smentito la bella fama procuratasi quale interprete del personaggio di “Francesca” per la calda espressività della voce potente e varia anche se non di ineccepibile dolcezza, e per la mirabile aderenza della scenica figurazione, sol facendo desiderare una maggiore chiarezza nella dizione. Questa qualità così utile sempre, diviene necessità di primo piano quando si tratti di un poema preziosissimo quale quello di Gabriele D’Annunzio.

La voce del tenore Galliano Masini è tra le pochissime veramente belle di cui dispone oggi il teatro lirico: ha smalto, estensione, duttilità e una potenza che gli permette di emergere facilmente anche attraverso il denso strumentale dello Zandonai così propenso all’impiego di fiati a preferenza degli archi. Non sempre la spiritualità del timbro ha trovato la assoluta adeguatezza con i momenti lirici e anche la raffigurazione del personaggio di “Paolo” non è stata delle più felici; ma ciò ha tolto ben poco alla ammirazione che il tenore Masini è riuscito a destare con l’innegabile splendore dei suoi mezzi vocali.

Il baritono Luigi Montesanto nei panni di “Gianciotto” non ha dimenticato di conferire al personaggio qualche luce di signorilità attraverso le rozze maniere dell’uomo d’arme. Secondo noi ha fatto benissimo: la sua interpretazione, sia vocale che scenica, merita alto compiacimento.

“Malatestino”, il bieco, sanguinario giovinetto della fosca vicenda d’amore e morte, ha trovato nella pronta versatilità del tenore Adelio Zagonara un rilievo che dev’essere ricordato. Così pure faremo il nome di Maria Concetta Zama, delicata “Samaritana”, e delle donne di “Francesca” che erano Maria Esposito, Anna Marcangeli, Maria Huder, tutte brave, e Agnese Dubbini, la quale ultima ci è particolarmente piaciuta per l’incisivo accento col quale ha cantato la parte della “Schiava”. Bene a posto il baritono Saturno Meletti nella parte di “Ostasio”, Adolfo Pacini che era il “Giullare”, il Marucci, il Lonardi [sic?]e il tenore Blando

15 Evidentemente l'articolista intendeva qui il terzo atto.

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Giusti che ha saputo disegnare – come già altre caratteristiche figure – con tratti di buon rilievo il personaggio di “Ser Toldo”.

Il solito elogio del coro istruito dal Conca e dell’orchestra, con speciale menzione del primo violoncello prof. Garaffa che si è fatto molto onore nel finale del primo atto.

Delle scene, realizzate dal Furiga su bozzetti del compianto Pieretto Bianco, ci sono sembrate preferibili per buon gusto e intonazione quelle degli ambienti chiusi. Interessante la regìa del Govoni, a parte una certa convenzionalità nella disposizione dei cori nell’atto della battaglia che, sia detto per inciso, pur attestando delle straordinarie doti costruttive dello Zandonai, è l’atto meno felice dell’opera.

Il successo, buono nei riguardi dell’esecuzione, è stato entusiastico nei riguardi della musica che non ha palesato menomamente i suoi venticinque anni di vita. Il maestro Zandonai che assisteva da un palco alla rappresentazione s’è dovuto presentare più volte alla ribalta alla fine d’ogni atto, tra acclamazioni che hanno raggiunto altissimo tono dopo il primo e il terzo atto. Assisteva alla recita la Principessa Maria di Savoia.

121 Orazio Mancini, [Vita musicale romana] – Francesca da Rimini, «Rivista nazionale di musica» XVIII/353, maggio 1937 - p. 4163

È il capolavoro di R. Zandonai, ove la poesia dannunziana riceve maggiore risalto, le

situazioni drammatiche sono scolpite con sicurezza ed i caratteri dei personaggi delineati con precisione. L’ambientazione rispecchia la vicenda amorosa passionale dei due protagonisti, avvolta in una atmosfera madrigalesca di schietto sapore trecentesco. Sono stati scelti ottimi artisti per interpretarla: Gilda Dalla Rizza, la quale ha vissuto il personaggio di Francesca avvolgendolo nel tepore della sua voce (che avremmo desiderata più chiara nella dizione) e nella espressività della sua arte scenica; Galliano Masini, un Paolo smagliante che ha fatto sfoggio dei suoi ampi mezzi vocali – invero poco pieghevoli alla tenerezza e all’abbandono –; Luigi Montesanto, una figura severa e dignitosa di Gianciotto; Attilio [sic] Zagonara nell’appropriata parte di Malatestino. Abbastanza bene gli altri interpreti: Zama, Esposito, Huder, Dubbini, Meletti, Pacini, ecc. e perfetta la massa corale istruita e guidata dal M° Conca. Vincenzo Bellezza ha messo in rilievo gli effetti orchestrali, che abbondano nella partitura dello Zandonai, ed ha diretto l’opera con molto fervore rendendone insieme la suggestione poetica e l’impeto drammatico.

122 [Franco] Casavola, “Francesca da Rimini” inaugura la stagione del Teatro dell’Opera, «Il Tempo», 27.12.1944 - p. 2, col. 2

Riccardo Zandonai, condannato a morte dall’Austria di Francesco Giuseppe, è stato

assassinato dai tedeschi di Adolfo Hitler. Epperò bisogna riconoscere che negli anni intercorsi tra la condanna e l’esecuzione i “camerati” fascisti avevano fatto il possibile per preparare la vittima al sacrificio supremo, riuscendo con un lungo e paziente lavoro a colpi di spillo quasi a mettere al bando la sua copiosissima produzione teatrale e sinfonica. Ai tedeschi fu facile, costringendo il maestro trentino, ammalato e sofferente, ad abbandonare San Giuliano per andar ramingo in cerca di un tetto, vibrare il colpo di grazia.

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La notizia che Zandonai era morto in una ignota clinica nelle vicinanze di Pesaro arrivò confusamente a Roma nei primi giorni della liberazione. I numerosi giornali politici sorti come funghi nella capitale, occupatissimi a spaccare il capello in quattro per la gioia dei lettori, ignorarono il luttuoso avvenimento. Sì che gli amici del maestro, disorientati e dolenti, furono costretti, vincendo la ripugnanza, ad avvicinarsi alla radio fascista in cerca di conferma e di particolari. Ma dovunque regnava il più rigoroso silenzio. Ed è regnato il silenzio sino ad ora, rotto timidamente ogni tanto da qualche voce esile e stonata che avrebbe fatto molto meglio a tacere.

Il Teatro dell’Opera, scegliendo la «Francesca da Rimini» per l’inaugurazione della stagione ufficiale e concentrando in essa gli elementi artisticamente e vocalmente migliori ed i più idonei tra quelli a disposizione, ha commemorato l’illustre maestro scomparso come meglio non si poteva.

Guidati dall’appassionato ardore del maestro Oliviero de Fabritiis, tra Maria Caniglia, Gustavo Gallo, Raffaele de Falchi, Adelio Zagonara, Silvia Balderi, Olga Bellerose [sic] e gli altri artisti tutti di grandi mezzi e di grandi possibilità, si è stabilita una vera e generosa gara nel compimento del nobile rito.

Alla perfetta realizzazione dello spettacolo contribuirono efficacemente i cori, istruiti dal maestro Conca, e la regìa del maestro Ricci.

123 L’inaugurazione della stagione con la “Francesca da Rimini”, «Corriere di Roma», 26.12.1944 - p. 2, col. 5

Con una eccellente edizione di «Francesca da Rimini» diretta dal m. Oliviero de Fabritiis

si è inaugurata ieri con fervido successo d’arte e di pubblico la stagione 1944-45 del Teatro Reale dell’Opera. Assistevano allo spettacolo il Presidente del Consiglio on. Bonomi, il Prefetto on. Persico, il Sindaco di Roma principe Doria Pamphili, il Commissario del Teatro S.E. D’Adamo, altre autorità civili e militari e molte autorità alleate.

La «Francesca da Rimini» di D’Annunzio, come quasi tutte le tragedie di questo poeta, invoca la musica ad ogni verso. Riccardo Zandonai intese questa invocazione per istinto, la meditò, le diede corpo mai scostandosi dal sonante e poetico verso originale, mai abbandonando l’atmosfera voluta dal poeta. Ora, la difficoltà a cui vanno incontro il direttore d’orchestra e tutti gli interpreti sta appunto in questo: nel saper ricreare tutto ciò, nel saper dare una sfumatura, un risalto a tutti gli episodi, a tutti i contrasti. Bisogna riconoscere che Oliviero de Fabritiis è penetrato negli angoli più remoti della partitura: ha trovato modo di dipingere a meraviglia il poetico incontro di Paolo e Francesca, l’irruenza dello “Sciancato”, la perfidia di Malatestino. Ha saputo inoltre, cosa non facile, realizzare i «commenti” poetici, abbondantissimi in tutta l’opera, dall’offerta della rosa alla ballata primaverile. La partitura della «Francesca” è una partitura molto importante, orchestralmente parlando, e più importante diventa a mano a mano che la tragedia cresce di intensità. Questo “crescendo” è stato inteso dal De Fabritiis in tutta la sua umanità. La scena della battaglia poche volte è stata anch’essa realizzata con tanta fusione e sicurezza. Un personale, magnifico successo del direttore d’orchestra, dunque, al quale ha contribuito in primissima linea Maria Caniglia che di “Francesca” ha fatto la sua più intelligente, avvincente, penetrante interpretazione. Una mirabile artista che ieri è riuscita ad assommare in una fervida sintesi l’atmosfera dannunziana e la musicalità dello Zandonai, rubando atteggiamenti, figurazioni ed acconciature ai più famosi pittori. Buono il Gallo che si è saputo insinuare a dovere nella

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cornice dello spettacolo. Artista di tempra superiore il De Falchi che ha ottenuto un personale successo. Veramente bravo ed avvincente lo Zagonara. Benissimo anche la Bellarosa e l’Ottolenghi e tutte le “donne” di Francesca. Appropriata e colorita la regia di Luigi Ricci.

Lo spettacolo è stato dato in commemorazione di Riccardo Zandonai, il grande musicista e patriota che, spirando il 5 giugno, dopo aver appreso la notizia della liberazione di Roma, ebbe la forza di gridare ancora una volta: «Viva l’Italia!».

[...]

124 La “Francesca da Rimini” al Teatro dell’Opera, «Il Quotidiano», 27.12.1944 - p. 4, col. 4

Non poteva meglio commemorarsi Riccardo Zandonai che con la esecuzione di Francesca,

suo capolavoro, scegliendo a protagonista Maria Caniglia, come l’illustre Scomparso aveva in vita sempre sognato. La Caniglia infatti – la quale ieri per la prima volta affrontava l’ardua parte – ha voce stupenda e cuore appassionato, ha morbidezza di canto e commoventi accenti, ed è cantante così abile e resistente da superare ogni difficoltà di tessitura. La grande artista ha saputo così, alle sue grandi interpretazioni, aggiungere anche questa magnifica di Francesca. Vicino a lei è molto piaciuto Gustavo Gallo, che in una parte difficoltosissima si è fatto ammirare per la spontaneità, facilità e bella dizione, accoppiata a grande dolcezza. Raffaele De Falchi è stato un perfetto Giovanni per potenza di voce e accento drammatico. Adelio Zagonara ha dato prova del suo ingegno affermandosi in una parte come quella di Malatestino, difficilissima anche per un attore drammatico. Benissimo tutti gli altri. Il M.o Oliviero De Fabritiis ha mostrato di aver studiato la complessa partitura con affetto e grande impegno, riuscendo a rendere di Francesca tutta la maschia violenza e soprattutto l’intima e squisita poesia. Intelligente ed efficace la regia del M.o Luigi Ricci.

125 p. m., “Francesca da Rimini” di Zandonai al Teatro dell’Opera, «La Voce repubblicana», 27.12.1944 - p. 2, col. 4

La nuova edizione della «Francesca da Rimini» del compianto Riccardo Zandonai che

inaugurava ieri la stagione invernale al Teatro dell’Opera ha avuto per magnifica interprete il soprano Maria Caniglia che ha dato al difficile personaggio i tesori della sua fiorente pastosa voce oltre che i doni della sua espressività e della sua esperienza scenica.

Quest’opera a struttura prevalentemente sinfonica, potente di riflessi drammatici e tutta soffusa di risonanze poetiche, richiede dai suoi attori una maturità interpretativa e un’interiorità di emozioni che, ieri, gli artisti hanno tutti saputi dare. Ottimo tenore Gustavo Gallo, ha dato al personaggio di Paolo un’inquieta e pur impetuosa passionalità; bene Raffaele de Falchi nella violenta parte dello Sciancato e Adelio Zagonara, un Malatestino torbido e bieco. Molto bene anche Olga Bellarosa e Renato Ottolenghi e tutte le brave ancelle di Francesca.

Il M° Oliviero De Fabritiis ha diretto con mano esperta ma un po’ facile, senza troppo indugiare sulle frasi più acutamente estatiche della composizione e tenendo l’opera su di un’equilibrata linearità. Ottimi i cori diretti dal M° Conca e piacevoli le scene di Pieretto Bianco. La regìa – un poco assorta, come doveva essere – era di Luigi Ricci.

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Il successo è stato pieno. Gli applausi ad ogni atto innumerevoli hanno chiamato alla ribalta i bravi artisti e il Direttore.

126 Cesare Carletti, “Francesca da Rimini” di Zandonai al Teatro dell’Opera, «Il Popolo», 27.12.1944 - p. 2, col. 3-4

Lo spettacolo inaugurale della stagione lirica 1944-45 in commemorazione di Riccardo

Zandonai, recentemente ed immaturamente scomparso, è stato ben scelto ed ha ottenuto un brillante successo anche [se] non completo. «Francesca da Rimini» è, con ragione, generalmente ritenuta l’opera migliore dello Zandonai che, superate le titubanze iniziali, portò a termine di getto questa composizione i cui pregi principali sono appunto l’ottima fusione dell’ampio istrumentale oltre alla ricchezza di armonia ed alla tecnica indubbiamente superiore. L’edizione allestita dal Teatro Reale dell’Opera è stata sotto alcuni aspetti ineccepibile. Così dobbiamo dire dell’ottima direzione del M. De Fabritiis, interprete sempre coerente e sicuro, che ha posto in rilievo ogni situazione e vorremo dire ogni parola ed ogni gesto dei singoli personaggi, raggiungendo il massimo vigore espressivo nella scena della battaglia. Quanto ai cantanti, Maria Caniglia quale protagonista non ci è sembrata troppo convinta nel suo intimo della tormentosa vicenda che viveva, sembrandoci forse più dolentemente dantesca che passionalmente dannunziana. La stessa cosa può dirsi del Gallo il quale inoltre non possiede mezzi vocali adatti a sostenere con successo il ruolo di Paolo. Va invece lodato senza riserve il De Falchi la cui naturale esuberanza può qui sfogarsi illimitatamente: egli ha infatti sfoggiato senza risparmio tutte le sue riserve vocali e tutta la sua irruenza interpretativa in un crescendo quanto mai efficace. A lui va accomunato nella lode lo Zagonara, che ha saputo trovare accenti così drammatici e squillanti che uniti alla ben nota perizia di attore hanno fatto di lui un perfetto Malatestino. Molto bene anche la Bellarosa, l’Ottolenghi, le parti minori ed il coro. Erano presenti l’onorevole Bonomi, il Sindaco di Roma ed altre autorità.

127 d. d. p., Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai, «Il Giornale della sera», 31.3.1949 - p. 4, col.1-2-3

Francesca da Rimini è entrata nel febbraio scorso nel suo 35. anno di età; e resta la

migliore affermazione di Riccardo Zandonai. Rappresenta cioè nel modo migliore le qualità e le manchevolezze del musicista trentino, il quale – da buon allievo di Mascagni, meno spontaneo e ricco ma più colto ed abile – resta fedele agli schemi dell’opera verista, innestandovi sopra, prudentemente accomodate, le conquiste del linguaggio e della tecnica moderne. La musica di Zandonai è cioè la musica di un eclettico nel senso migliore della parola: ma in questa parola si racchiudono i suoi pregi e le sue mende. La tragedia dannunziana aveva invogliato parecchi musicisti ma solo il trentino riuscì ad ottenerla: però la riduzione molto abile di Tito Ricordi falsò completamente il carattere di parecchi personaggi, tra cui Malatestino (ridotto qui ad un qualunque “perfido” di melodramma) e Gianciotto che qui è il solito baritono. E la musica ne risente un poco (non vogliamo infierire su quel secondo atto vanamente rumoroso e vagamente ridicolo anche nella tragedia originale); i momenti migliori sono quelli schiettamente lirici, dove Zandonai esprime

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schiettamente e sinceramente la sua natura di artista; negli episodi più decisamente drammatici il musicista fa volentieri la voce grossa ma ci convince molto meno. Con tutto questo Francesca resta la migliore affermazione di un musicista autentico.

Francesca era Maria Caniglia che ha dato al personaggio la sua bella voce e tutta la sua passione (sarebbe però il caso di correggere un po’ scenicamente il primo atto: le attitudini di donna fatale o quasi non convengono ad una Francesca fanciulla che aspetta lo sposo; una scalinata è sempre una grande tentazione per un’artista, ma non bisogna abusarne). Un ottimo Paolo è stato Giacinto Prandelli, come cantante e come attore espressivo, controllato, efficacissimo; un buon Gianciotto Raffaele De Falchi. Rozzo e violento “à souhait” (è spiacevole che egli calchi un po’ la mano sul suo personaggio rendendolo banaluccio alla fine del colloquio con Malatestino; tanto più spiacevole in quanto ci sembra abbia azzeccato abbastanza bene il suo personaggio, non facile davvero. Se dimenticasse in qualche momento di essere un buon baritono per essere un buon attore sarebbe perfettamente a posto). Nino Mazziotti era Malatestino, e la sua interpretazione, diligente ed accurata, corrispondeva più al personaggio di Zandonai che a quello di d’Annunzio; ottimo Ostasio, violento e vivo, è stato lo Stocco; ma perché il Delle Fornaci ha fatto di Ser Toldo un Beckmesser provinciale? La Leonelli ci sembra ancora un po’ immatura, ma potrà fare. Quanto al quartetto delle ancelle, garrule e vivaci, dovremmo avvertire che ai tempi di Francesca non c’era ancora Einstein né la teoria della relatività (neppure nel campo dell’intonazione). Bene i cori e buona la regìa (ma perché il regista non impedisce agli artisti di interrompere una scena per voltarsi a guardare il direttore? nella scena della battaglia – che ritmicamente non è difficile – è successo parecchie volte).

Tullio Serafin ha concertato lo spartito con grande cura e grande amore, mantenendolo vivo in tutti i suoi particolari; se è permessa un’osservazione (ma sono ancora permesse alla critica le osservazioni?) ci permetteremo di notare certi eccessi di sonorità strumentale – specie nel primo e nel secondo atto – che mettevano a dura prova le voci degli artisti. Ma è la sola menda che abbiamo notato in questa interpretazione che in questa stagione ci sembra proprio la migliore di Serafin. Pubblico numeroso ed elegante: attento. Molti applausi alla fine di ogni atto e chiamate agli artisti. Ha assistito alla rappresentazione il Presidente della Repubblica on. Luigi Einaudi.

128 Nino Piccinelli, Francesca da Rimini, «Momento sera», 31.3.1949 - p. 3, col. 5-6

L’opera artistica di Riccardo Zandonai, deceduto in un periodo critico della storia

nazionale, non è stata adeguatamente valutata nella sua importanza. Comparso all’orizzonte mentre da un lato trionfava il verismo musicale e dall’altro si accendevano le prime polemiche intorno all’impressionismo debussyano, Zandonai si è mantenuto equidistante dall’uno e dall’altro. La sua estetica si è orientata verso una nuova tendenza che va sotto il nome di post-verismo, si cui Italo Montemezzi con l’Amore dei tre re era stato in Italia l’iniziatore. Il post-verismo sotto un certo aspetto reagisce al verismo prendendo come punto di partenza il melodramma wagneriano piuttosto che quello verdiano, e spostando gli elementi costitutivi del melodramma settecentesco e ottocentesco – essenzialmente melodici – in quelli descrittivi ambientali che si riallacciano al melodramma glukiano [sic]. La differenza tra l’impressionismo ed il post-verismo consiste in questo, che il primo diede valore assoluto a quegli elementi, il secondo un valore relativo. Peccato che Montemezzi non abbia avuto la forza di continuare nella strada che con l’Amore dei tre re appariva densa di

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promesse. Riccardo Zandonai percorre da solo questa strada con animo pieno di entusiasmo e con tenacia inflessibile, deciso a dare una personalità alla sua opera artistica, la quale si rivela chiara ed inconfondibile proprio in Francesca da Rimini, rappresentata con successo ieri sera al Teatro dell’Opera.

L’esecuzione, curata con grande amore da Tullio Serafin, è stata splendida. La difficile partitura ha trovato nella inesauribile forza interpretativa dell’illustre direttore il giusto fuoco espressivo. Maria Caniglia ha inciso con la sua grande arte la figura di Francesca. Giacinto Prandelli ha cantato con vigoroso accento, Raffaele De Falchi ha dato a Gianciotto tutto l’impeto generoso della sua voce e Nino Mazziotti ha ben disegnato la cattiveria di Malatestino. Ottime le parti minori. Successo vivo e molte chiamate.

Alla rappresentazione assisteva il Presidente della Repubblica.

129 Franco De Luca, Riccardo Zandonai commemorato all’Opera con “Francesca da Rimini”, «La Libertà d’Italia», 30.3.1949 - p. 3, col. 6-7

La serie delle commemorazioni prosegue. Ecco giunta la volta di Zandonai, nato nel 1883

e morto nel 1944. L’opera alla quale egli deve la sua maggiore notorietà è certamente questa «Francesca» ma egli, oltre ad essere stato direttore del Conservatorio di Pesaro, era un applaudito direttore d’orchestra, ottimo compositore di musica sinfonica, operistica e per film. La «Francesca» fu scritta quand’egli aveva trent’anni e la prima rappresentazione avvenne in Torino il 19 febbraio 1914. La musica fu scritta su testo di Tito Ricordi ridotto dalla celeberrima tragedia omonima in versi di D’Annunzio, e che il poeta aveva scritto appositamente per la Duse. Tragedia quindi già baciata dal successo sia per l’interpretazione della grande attrice sia per la perfezione poetica e l’ambientazione dugentesca. Zandonai, quindi, affrontava un arduo compito nell’accingersi a musicarla sia pure conscio delle sue capacità. E fu un trionfo.

L’opera è di struttura prettamente moderna ed è senz’altro uno dei migliori drammi musicali odierni. Tolta qualche breve e lieve eccezione nella quale il musicista non ha potuto staccarsi dal verso di d’Annunzio per superarlo in forza ed emotività, tutto nella «Francesca» è fusione meravigliosa di orchestra e voci, un insieme di peccato e sensualità specie nella colorazione cromatica orchestrale. I pezzi che fanno eccezione sono facilmente individuabili nella rappresentazione della passione che sommerge Paolo e Francesca sì da unirli. La melodia qui non sale, non prorompe. Ma forse anche questo è un modo di sentire e di scrivere di Zandonai, dato che la sua personalità si rivela specie nel tono equilibrato con il quale modera le crudezze e le esuberanze, facili trabocchetti per un musicista che compone alla moderna. Anche la figura di Gianciotto si staglia per quella forza musicalmente drammatica che l’accompagna e che avrà ragione dell’amore peccaminoso dei due amanti. Malatestino astuto e malvagio è sottolineato perfettamente dalla musica ora subdola ora sospettosa che ne accompagna l’azione ed i movimenti, il tutto in netto contrasto con le fresche canzoni delle ancelle e le delicate pennellate primaverili ingenue e melanconiche. Dramma d’amore e di odio, di dolcezza e di forza selvaggia, di insidia e di foschi presentimenti, il tutto vissuto dai quattro personaggi principali che sono dei violenti sia nell’amore che nella sete di vendetta; e meravigliosamente ambientato in quel 1200 fragoroso d’armi quale lo vedeva d’Annunzio e quale ce lo fa sentire il Zandonai con la sua musica verista e stupenda, con quel suo declamato melodico e quel suo accento lirico veramente potente.

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Ieri sera l’orchestra guidata dal polso e dal forte cuore di Serafin, oltre che dal suo valore di artista, ha dato tutto ciò che di meglio poteva dare. Gli interpreti sono stati perfetti. Trionfale la riapparizione di Maria Caniglia, sempre in ottima forma, meravigliosa oltre che per la voce e per l’accento drammatico anche per la sua anima d’artista con la A maiuscola. La sua interpretazione significa sentire e far vibrare il pubblico all’unisono! Giacinto Prandelli ha fatto benissimo nella parte di Paolo: bel personaggio che necessitava di una bella voce, di un bel temperamento, di un’eleganza e scioltezza scenica non comuni. Egli ha soddisfatto appieno. Bravo Prandelli! De Falchi ha interpretato forse troppo crudelmente la parte di Gianciotto. Ma cosa si può chiedere ad un così magnifico baritono, dalla voce e dal temperamento eccezionali?

Benissimo Mazziotti in Malatestino. E “dulcis in fundo”, riapparizione dei fiori in camicia del Parsifal, trasformati in procaci ancelle. Non siamo d’accordo sul loro abbigliamento ma... lasciamo stare.

130 Renzo Rossellini, “Francesca da Rimini” di Zandonai, «Il Messaggero», 30.3.1949 - p. 3, col. 5-6-7

Con la rappresentazione di Francesca da Rimini il Teatro dell’Opera ha inteso celebrare un

altro dei nostri grandi operisti scomparsi di recente. Ma l’avvenimento è servito sovratutto a riaccostare al pubblico uno spartito che ebbe nel passato successo indiscusso e che merita di occupare un posto di primo piano nel repertorio del teatro lirico moderno.

Francesca da Rimini è un’opera che ha un suo inconfondibile stile: è il prodotto di una personalità musicale di talento vivace e di schietta umanità quale fu Riccardo Zandonai. Bisogna ammirarne l’eleganza, la freschezza, l’inventiva: l’elogio sorge spontaneo di fronte ad una scrittura potente ed originale, di una verità drammatica assoluta.

Pagine bellissime, costruite sempre con misura, ravvivate da un gusto armonico eccellente, si susseguono in abbondanza: sia che si tratti di evocare un particolare clima ambientale, sia che si tratti di rappresentare nella sostanza la foga emotiva dei personaggi. Ne risulta un tutto omogeneo che dà allo spettacolo tono e vigore.

Per questo l’opera va giudicata nel suo valore complessivo, ove si cementa ogni pregio: musicale, poetico, drammatico, letterario. La tragedia dannunziana, sfoltita e ridotta all’essenziale dalla scaltra forbice di quell’editore geniale che fu Tito Ricordi, ha trovato in Riccardo Zandonai il musicista davvero ideale. Un musicista non soltanto dotato di fresca e potente vena, ma rispettoso dei limiti che l’opera d’arte imponeva.

Sia dunque cura di tutti i teatri ed Enti di tenere nella dovuta considerazione uno spartito tanto importante, ricco di così grandi qualità: ridarlo in pieno al repertorio significa rendere un servizio alla musica ed al pubblico. Chiunque ama e crede ancora al teatro lirico non potrà allora che esserne soddisfatto.

Tullio Serafin ha diretto la difficile e complessa partitura di Zandonai con straordinario amore, ricavandone effetti bellissimi. La densa scrittura orchestrale non ha mai avuto il sopravvento sul palcoscenico e ciò grazie all’equilibrio scaturito dall’intelligente ed abile concertazione.

Maria Caniglia, il cui ritorno è stato salutato con gioia dai molti suoi estimatori, è stata una protagonista appassionata ed ha cantato con accento forte e suggestivo. Nella commossa tensione lirica del personaggio, essa ha trovato momenti felici di abbandono, sempre contenuti in uno stile vocale ineccepibile.

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Ottimo “Paolo” il tenore Giacinto Prandelli, che alle asprezze della tessitura ha reagito con la intelligente dizione e la cura del fraseggio. “Gianciotto” era Raffaele De Falchi al quale ha giovato, davanti ad un personaggio tanto rude ed aggressivo, l’esuberanza della sua natura. Il tenore Nino Mazziotti ha affrontato la difficile ed importante parte di “Malatestino” con giusto impeto.

Il pubblico ha seguito con diletto ed interesse lo spettacolo: applausi vivissimi al termine di ciascun atto. Gli interpreti sono stati più volte evocati alla ribalta.

Era presente il Presidente della Repubblica.

131 Enrico Fondi, “Francesca da Rimini” di Zandonai all’Opera, «Il Paese», 30.3.1949 - p. 3, col. 5-6-7

Era doveroso rendere omaggio anche a Riccardo Zandonai che, direttore del

“Conservatorio Rossini” di Pesaro dove s’era addestrato alla scuola di Mascagni (e tracce se ne scorgono nei suoi molteplici lavori), fu sorpreso dalla tormenta bellica nella sua villetta pesarese e lì si spense tra i micidiali e poco armoniosi rombi dei velivoli sgancianti e delle cannonate.

Al vecchio Costanzi, che risonò spesso degli applausi festeggianti il forte musicista trentino – senza dubbio il meglio dotato fra quanti compositori della generazione seguita alla cosiddetta “giovane scuola” tentarono le sorti del teatro melodrammatico –, spettava rievocarlo, e proprio con la Francesca da Rimini, la più equilibrata e più ispirata delle sue opere. Ogni composizione dello Zandonai porta impresso il segno della sua individualità di orchestratore e di armonista, se pur non molto ricca d’inventiva; ma la Francesca ci par la più completa, specie per alcuni tratti strumentali, come l’interludio del terzo atto, e, se non può vantare una romanza di diffusa notorietà, si espande sovente in un fraseggiare di calda passionalità, notevolissima nel bel terzo atto, che si chiude col ben preparato e acceso e grande duetto tra Paolo e Francesca.

A Tullio Serafin si deve la scrupolosa concertazione e la salda fusione tra palcoscenico e orchestra sotto una illuminata e animatrice direzione; e a Maria Caniglia, tornata fra noi dopo un anno di assenza, l’ammirabile interpretazione della tragica protagonista. Certo, essi due sostennero il maggiore e onorifico peso della rappresentazione che toccò il cuore dell’uditorio e suscitò acclamazioni ad ogni fine d’atto e spesso a scena aperta.

Non si può tacere, subito dopo, del Prandelli (Paolo), un tenore che ogni volta che si riascolta ci par cresciuto di grado per l’intonazione e la limpidezza del suo squillante metallo; del De Falchi (Gianciotto) che accoppia alla potenza di una ugola sapientemente modulata la scena di un provetto attore; e del Mazziotti, che fu un ardito e ardente Malatestino. La Leonelli (affettuosa e patetica Samaritana), la Sticchi (delicata Biancofiore), la Landi (Schiava), il Passarotti (Giullare) e lo Stocco (Ostasio) insieme col coro, ben addestrato dal Conca nel quadro della battaglia, dettero un valido contributo alla riuscita della serata celebrativa; anche per loro merito quindi lo spettacolo, incorniciato nei discreti scenari di Pieretto Bianco, si contenne in una linea d’arte e raccolse, come dicevamo, concordi e nutriti applausi.

132 L. C., Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai, «Il Momento», 30.3.1949 - p. 3, col. 5-6-7

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È tornata ieri sera sulle scene del Teatro dell’Opera, dalle quali mancava da qualche

tempo, la Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai, ritrovandovi i fervidi ammiratori del passato, i fedeli e affettuosi amici, che sempre accolsero con grande favore questa che non a torto è considerata l’opera più felice del compianto compositore trentino. Zandonai fu uno dei nostri ultimi operisti che ebbero vivo il senso del teatro e degli orientamenti e dei gusti del pubblico. Un discendente, non un capostipite; e un discendente che venne alla luce della ribalta in un momento assai delicato, quando ormai la “giovane scuola” aveva già pronunciato la sua ultima parola, e fra Wagner e il verismo sembrava che il teatro lirico non sapesse che strada prendere.

Zandonai scelse la via di mezzo, che fu una strada di compromesso, riuscendo purtuttavia, egli che non possedeva una forte personalità, a dire qualcosa di interessante e di attraente, la quale ebbe la fortuna di essere subito sentita. Creò dei personaggi, creò delle situazioni sceniche, creò degli ambienti, delle “atmosfere”. Una corda vibrò su tutte le altre: la corda lirica. Di un lirismo talora tortuoso, talora enfatico, talora raffinato, ma non privo di seduzione. Fu sensuale e perfino torbido e morboso. Creò l’amore; ma il suo fu l’amore delle anime perdute. Creò Francesca da Rimini nell’alone malsano della tragedia dannunziana, con tutto ciò che di riflesso – di ambientazione storica, di stile “antico” e via dicendo – la tragedia poteva inspirare in un musicista come lui. Creò altri personaggi simili a Francesca e a Paolo, Gianciotto e Malatestino. Ma Francesca e la Francesca furono le sue creazioni più riuscite.

Ancora ieri sera quest’opera piacque, appagò molti gusti. Segno che possiede una sua vitalità o, per meglio dire, una sua forza comunicativa. Non crediamo che siano le scene più “violente” ed esteriori ad aver fatto presa sul pubblico: quali, ad esempio, la clamorosa e vana Battaglia del secondo atto. Ma certo le scene d’amore, e quelle che delle scene d’amore costituiscono una specie di aggraziato alone decorativo. È piaciuto soprattutto il bel finale del primo atto, con quella sua morbidezza di tinte, come di un melodioso pastello: una scena in cui dell’amore che danna non si ha ancora il malefico presentimento.

Maria Caniglia è stata la ammirata eroina di questa tragedia senza catarsi, di questo peccato senza redenzione. Ella è penetrata nel personaggio con grande autorità, con irrefrenabile impeto, ma altresì con dolcezza e delicatezza. Vale a dire che vocalmente e scenicamente è stata l’acclamata artista che tutti conosciamo e che il pubblico ieri sera ha salutato con particolare accento dandole un cordiale “bentornata”. Accanto a lei Giacinto Prandelli, in Paolo, ha cantato con precisione, espressione ed effusione, mentre Raffaele De Falchi ha conferito il necessario vigore al personaggio di Gianciotto. Nino Mazziotti è troppo pulito, azzimato e per bene per rendere appieno la malvagità di Malatestino; ma è un artista sensibile e intelligente ed ha fatto del suo meglio per trasformare la sua simpatica persona e la sua onesta voce in un tragico miscuglio di perfidia e di cieca passionalità. Le parti minori, che non sono poche, erano anch’esse impersonate da cantanti adeguati: ricorderemo fra gli altri Virgilio Stocco (Ostasio) e Anna Leonelli (Samaritana). L’opera era diretta da Tullio Serafin che, per nulla stanco del ponderoso lavoro delle precedenti recite, ha tenuto alto ed imperioso il “diapason” dell’intera interpretazione. Il successo è stato assai vivo, ed il pubblico ha chiamato ripetutamente, dopo ogni atto, gli esponenti tutti dello spettacolo al proscenio. Assisteva alla rappresentazione il Presidente della Repubblica, che nell’intervallo fra il secondo e il terzo atto ha ricevuto nel suo palco il maestro Serafin con il quale si è vivamente congratulato.

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a. b., “Francesca da Rimini” al Teatro dell’Opera, «Il Quotidiano», 30.3.1949 - p. 2, col. 2-3 Compiono proprio in questo mese 34 anni da quando Edoardo Vitale presentò al pubblico

di Roma per la prima volta Francesca da Rimini con Rosa Raisa, Aureliano Pertile, Giuseppe Danise, Luigi Nardi. L’opera rinnovò il successo già riportato l’anno prima nel febbraio 1914 a Torino, e da allora Francesca passò trionfalmente su tutti i palcoscenici del mondo.

Il dramma dannunziano, ridotto mirabilmente per la scena lirica da Tito Ricordi, ha trovato nella musica di Zandonai una veste quale migliore non avrebbe potuto desiderare. L’illustre maestro trentino è un vero aristocratico dell’arte musicale: tutto è squisitamente rifinito in quest’opera, tutto nobile ed elevato dalla forma melodica alla istrumentazione, dalla armonizzazione al disegno di ogni minimo dettaglio.

Pur procedendo da Wagner per la polifonia e da Debussy per la smagliante tavolozza armonica e istrumentale, non imita né l’uno né l’altro ma assimilando le loro virtù ha dato alla sua musica un’espressione nuova e personalissima.

Indubbiamente Francesca rappresenta il capolavoro del grande maestro scomparso, di cui ieri sera se ne faceva la celebrazione.

Protagonista è stata Maria Caniglia. Che cosa si può dire di più e di meglio di quanto è stato detto? Nel pieno possesso dei suoi mezzi la Caniglia ha reso la figura di Francesca in modo perfetto: dalle dolci e soavi scene del primo atto, a quelle successive di passione, di dolore, di sgomento, di disperazione è stata sempre efficacissima, meritandosi applausi calorosi ed unanimi.

Il tenore Giacinto Prandelli si è mostrato eccellente cantante ed attore. Ottimo nella rude, violenta, difficilissima parte di “Gianciotto” il baritono Raffaele De Falchi. Nino Mazziotti si è rivelato cantante ed attore magnifico nella parte di Malatestino. Il Mazziotti con questa scultorea interpretazione si è posto oramai in primissimo piano. Ottime tutte le altre molteplici parti. Tullio Serafin ha dato della bella e complessa partitura una esecuzione da segnarsi tra le più belle. Quanta forza drammatica e quanta intensa commozione ha saputo infondere nella bella, docile e perfettissima sua massa orchestrale! Ed è stato meritatamente applaudito e festeggiato.

134 F[erdinando] L[udovico] Lunghi, Francesca da Rimini - Il Presidente della Repubblica assiste alla rappresentazione, «Il Giornale d’Italia», 31.3.1949 - p. 3, col. 5-6-7

Molti anni sono passati e «Francesca da Rimini» appare ancora al mio spirito come la

prima volta quando, ancora allievo di quello stesso Liceo da cui era uscito Zandonai, mi sembrò scoprirla entrando in Sant’Apollinare in Classe, nella terra di Romagna, tra il fulgore incantato dei mosaici: una istoria profana incastrata lì come a cercarvi rifugio e riparo dal fulgore dell’amore e del sangue; circonfusa di quella atmosfera sonora che ne moltiplica gli accenti e le movenze come per un magico gioco di luci e di suoni colorati.

Zandonai crea il dramma attraverso l’atmosfera, non dico la cornice, con un processo si potrebbe dire di evocazione nel senso che poco a poco da quella atmosfera prendono corpo le figure del dramma, financo quando sono nettamente individuate da un contrassegno tematico. È un poco come un incantamento: ma è un modo tutto particolare, quello di Zandonai, e tutto particolare di tradurlo in musica. Particolare e personale per quel modulare a blocchi e suscitare la nuova tonalità quasi con un colpo di obiettivo, sì da illuminare ad ogni modulazione un paesaggio nuovo; per quel mutare continuo e sempre un poco sorprendente

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di luci, di cielo, di orizzonti attraverso gli accordi. E ad ogni modulazione rivelare un aspetto dell’animo oltre che del quadro e un languore nuovo o un nuovo brivido, la pena e la paura, l’abbandono e la crudeltà, il contingente dei sentimenti e l’eterno. E quel cantare così appassionato e pure pudico e colmo di respiri e trasognato tra una modulazione e l’altra. E quell’amore del colore strumentale, della ingenua ed insieme raffinata patina del timbro e quel saldare il mosaico nei suoi colori con le gocce sonore dell’arpa, il sospiro delle viole, l’argentea rustichezza del liuto, la polvere ramata della viola d’amore [!] negli amorosi abbandoni; e quell’incedere invece il dramma con disegni cupi, con pesanti broccati, illuminati appena come dai pallidi lampi di una lontana tempesta, dai brividi del tamburo in quell’atroce prima scena dell’atto quarto.

Un modo tutto particolare insomma di evocare come per incanto, sul fondo oro vecchio, l’immagine viva e pura un poco incantata e cullata da quel “sonare e cantare” così ingenuamente trobadorico. E tutto animato e fatto operante da un senso acuto e sofferto del teatro e tutto con una funzione integrativa della parola dannunziana quale non sarebbe sembrato possibile ad altri. Tanto quanto basti per porre questa «Francesca» fra quelle opere musicali nutrite di poesia che lasciano un segno e rappresentano forse una tappa nel cammino dell’arte musicale: di quelle che si rivolgono all’intelligenza sì ma sopratutto al cuore e alla fantasia.

A Tullio Serafin dobbiamo, in questa celebrazione di Riccardo Zandonai, una interpretazione tra le più equilibrate, vive e poeticamente palpitanti che si potessero sperare. Sopratutto un delicato e sapiente tocco equilibratore tra le voci dell’orchestra e quelle del palcoscenico, ed un gioco di respiri qui davvero colmi di significato.

Maria Caniglia è tornata nelle vesti di “Francesca” sulle scene della nostra Opera: e v’è tornata con quella potenza di arte interpretativa e vocale, con quel vibrante rivivere il personaggio cui deve la sua fama: da artista di classe fuori del comune. E Giacinto Prandelli è stato un “Paolo” composto, appassionato e degno di ogni lode anche per il suo canto. Ottimo vocalmente il De Falchi che ha dato a “Gianciotto” tutta la sua violenza di accenti e di scena. Molto bravo il tenore Mazziotti nella parte di “Malatestino” di cui ha reso bene il personaggio. Brave la Leonelli, la Sticchi, la Marcangeli, la Di Lelio, la Limberti, la Muzzi, Stocco e gli altri. Regìa di Frigeri [sic]; allestimento di Ansaldo. Un grande pieno successo.

135 Sergio Dalma, Critica musicale, «La Repubblica d’Italia», 31.3.1949 - p. 2, col. 2-3

Ebbene, salutiamolo noi, diàmogli noi il benvenuto a questo supremo umano fiore dell’arte

lirica contemporanea (a Maria Caniglia, giunta a noi per ripartire, pellegrina senza posa) poiché non è giusto debba esser lei sola nelle vesti di Francesca a dare il benvenuto, con tanto sincero amore, al “signore suo cognato”.

Nel raggiunto zenit Maria Caniglia resterà a lungo. Cosa avrebbe detto di questa somma interprete Riccardo Zandonai, il grande musicista

trentino che oggi viene nuovamente celebrato e che in «Francesca» ha dato il meglio e il più profondo dell’arte sua?

L’avrebbe messa senz’altro nella ristretta schiera delle eroine splendidissime che il capolavoro di Zandonai (e di d’Annunzio) ha saputo attrarre nella sua orbita prestigiosa.

Di tutti gli altri che furono così preziosi collaboratori alla riuscita dello spettacolo celebrativo non abbiamo da dire che parole di vera lode.

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Non a torto quel compianto e grande critico musicale che fu Giannotto Bastianelli ebbe a scrivere: «È Zandonai l’operista italiano del giorno, e appunto perché operista inviso ai buoni musicisti, è benviso al pubblico, ciò che naturalmente conta più di tutto allo Zandonai e ai suoi editori.

«Lo Zandonai possiede un dono che sempre meno è concesso agli uomini dalla natura: quel che si chiama il senso del teatro, il bisogno e la potenza di far vivere e palpitare sulla scena non fantasmi materiati d’astrazione e invano imbalsamati da un’arte (poesia o musica) squisitamente raffinata, ma personaggi come quelli di Shakespeare, i quali, dopo averli visti agire e parlare, vi restano scolpiti nella memoria».

Riccardo Zandonai è bell’e commemorato. Meglio e più di così non sapremmo dire. Tullio Serafin s’è fatto paladino meritorio e vessillifero giovenilmente convinto. Non si

può dirigere come lui ha diretto se non si è persuasi di ciò che si dirige. In lui abbiamo sentito vibrare un’anima tesa a cogliere dal folgorante poema tutti i motivi d’una suggestiva poesia lirica e di un tragico tessuto sinfonico. Non un particolare dell’opera è andato perduto. La bacchetta del grande maestro, con i suoi esatti e concisi geroglifici, sagomava nell’aria tutto ciò che era scritto, di essenziale e di espressivo, nelle righe e fra le righe del capolavoro.

136 a. bon., [Cronache musicali] - “Francesca da Rimini” e novità sinfoniche, «La Voice repubblicana», 5.4.1949 - p. 3, col. 2-3-4-5-6-7

Dopo il primo decennio del Novecento c’era stata una reazione al verismo, al liberty, al

dannunzianesimo: correva per l’aria un vivo bisogno di rinnovamento sia dalla poesia e dalla letteratura, sia dalle arti figurative e architettoniche. Tale fermento si fece sentire anche in teatro. Il teatro di prosa che va da Luigi Chiarelli a Pirandello, dalla Maschera e il volto a Enrico IV, svincolava la produzione indigena dalle influenze specialmente francesi. Se il tema non era nuovo, nuovo era lo sviluppo che si celava dentro il motivo dell’illusione, del parere e non essere, della realtà e della maschera. Dal canto suo si rinnovò anche l’opera musicale italiana. Dopo il melodramma ottocentesco, in senso buono così popolare, e dopo l’opera cosiddetta verista che a suo modo dié vita, senza rottura della tradizione, a un mutamento (abolendo, fra l’altro, le formule dell’accompagnamento di danza), la Francesca di Zandonai, rappresentata nel 1914, portò un ulteriore rinnovamento, con l’aderenza che essa fece al colorismo orchestrale moderno senza, per altro, venir meno alla melodia (nonostante si allontanasse, in parte, dalle forme chiuse dei numeri, prevalenti nel Sette-Ottocento): melodia che modernamente ringiovanì, seppure non vigorosamente.

La Francesca non poteva tuttavia essere opera di spirito anti-dannunziano, per l’ovvia ragione che il testo è del D’Annunzio, quantunque esso sia stato ridotto e mutato per la musica da Tito Ricordi, allora gerente della Casa che aveva preso a proteggere e a “lanciare” il giovane maestro. Ma di un rinnovamento musicale si può parlare, rispetto all’opera ottocentesca. Ha dunque lo Zandonai, in questo suo lavoro, trovato un proprio linguaggio?

Si può affermare che egli si è avviato verso nuove forme? I creatori rinnovano l’espressione anche senza presupposti teorici, anche senza far polemiche, e inoltre, come i poeti le parole, i mezzi di espressione, ossia la tecnica.

Non abbiamo la pretesa, per ciò che concerne il linguaggio, di voler elevare lo Zandonai a capo scuola, ma dobbiamo nondimeno riconoscere che la Francesca è opera moderna, pur non essendo il caso di parlare di forma nuova nel senso della forma empirica (la storia dell’arte non è solo storia degli artisti, ma altresì storia della forma storica, della tecnica la

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quale ci aiuta a chiarire l’espressione), in quanto nella Francesca fu solo raggiunto un equilibrio fra le forme preesistenti, fra il sinfonismo dell’opera tedesca e il canto accompagnato di quella italiana. L’orchestra non è però propriamente sinfonica: e un’orchestra di colore strumentale di origine sinfonica, e anche i temi che essa propone o riprende sono spunti, teste di temi piuttosto che temi in evidenza circoscritti e sviluppati; laddove il canto o declamato-arioso è italiano perché non si fa mai duro o esasperato: vi è un cromatismo usato con flessuosità, con dolcezza; non vi si scorgono salti bruschi e in genere il senso melodico appare salvaguardato, giacché mai sparisce o viene altrimenti soffocato.

Indichiamo, fra le pagine a nostro parere pregevoli, il canto di Francesca al primo atto, «Pace anima cara» (in forma chiusa ma liberissima), che segue a un coretto di donne a tre voci: entrambi procedenti in leggeri trapassi tonali e ravvivati dall’imitazione di antichi strumenti, dal colore degli strumentini; e l’arrivo di Paolo nel finale dello stesso atto; e il piccolo complesso che suona sul palcoscenico (bel quadretto dove l’autore è riuscito a penetrare con lo sguardo e col sentimento il lato bello della vita del patriziato); e quasi tutto il terzo atto spirante amore: pagine di grazia in cui Zandonai, scartando ogni citazione dei modi e stilemi musicali medievali, con la sua sensibilità perviene a una Stimmung adeguata, di tono aristocratico (non però quando ripete maniere tenorili del Mascagni, per es. quella lunga anacrusi popolaresca, tipica della scrittura mascagnana).

Per la commemorazione del compianto maestro l’Opera ha dunque rappresentato la Francesca, il lavoro più significativo di lui. Tullio Serafin ha ricreato tutta la partitura con tutti gli effetti desiderati. Maria Caniglia ci ha ricordato il “tempo de’ dolci sospiri”, ci ha fatto sentire come l’amore la stringe, come ella vive la passione, e ci ha fatto ancora vedere come si ama, forse con troppo verismo, non coerente per lo meno con la lodevole e poetica stilizzazione alla Tristano e Isotta con la quale è stato rappresentato l’incontro di Paolo e Francesca (per il che loderemo anche il regista Frigerio). Non diciamo questo per insincero puritanesimo ma perché in arte noi amiamo il “vero” (non il verismo), cioè il sentimento che s’invera nell’espressione artistica, che è un’altra e più alta realtà.

Alla bella voce teatrale della Caniglia si accompagnava quella del tenore Prandelli il cui canto anch’esso in obbedienza ad Amore, tenero, morbido, suasivo pur nel calor della passione, rendeva il pubblico estatico, specialmente durante la scena del libro galeotto. Forte, rude ed efficacissimo il De Falchi, sia vocalmente sia scenicamente, nell’ingrata parte dello Sciancato. Lodevole Malatestino il Mazziotti. La Samaritana era Anna Leonelli, già in ascesa nella sua carriera: giovane voce limpida e soave che fa pensare a Liù. Gentile il quartetto delle ancelle, per quanto non troppo bene scelto per la fusione del timbro. Imponente il coro nell’atto della battaglia. Assai buone le scene di Pieretto Bianco; tuttavia noi vorremmo più sintesi e meno particolari.

[...]

137 Ettore Montanaro, “Francesca da Rimini” di Zandonai - Una doverosa celebrazione al Teatro dell’Opera, «Il Popolo», 30.3.1949 - p. 3, col. 3-4-5-6-7

Il maestro Riccardo Zandonai è stato ricordato ieri sera al Teatro dell’Opera con una

applaudita rappresentazione della «Francesca da Rimini». Nata da una fantasia fervida, in un momento di acceso entusiasmo per la tragedia dannunziana, che Tito Ricordi volle personalmente ridurre a libretto, la musica dell’ardente maestro trentino conserva inalterata

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tutta la vitalità e la forza espressiva di cui molto si è parlato all’epoca della prima esecuzione della «Francesca da Rimini» a Torino, nel 1914.

Il lavoro di rinobilitamento e di rinnovamento del melodramma verista, così felicemente iniziato da Zandonai con la «Conchita», assume un particolare interesse in «Francesca da Rimini», dove i segni della inconfondibile e nobile personalità del musicista si addizionano meravigliosamente con gli altri valori della partitura. Alla stesura di quel canorismo squisitamente italiano il compositore ha saputo associare, con felice processo di adeguamento, una corroborante sostanza sinfonica.

Inseritosi nella scala dei valori dei grandi operisti italiani, senza perdere d’occhio il solco da essi tracciato, Zandonai procede arditamente con una musicalità pulsante, satura di emozioni, ricca di fioriture suggestionanti e di frutti freschi e saporosi.

Il melodramma riceve nuovo impulso, prende più ampio respiro e, collocatosi in una linea di grande nobiltà, assume forme nuovissime ed, attraverso una personale concezione del compositore, segna nuovi confini sul piano dell’opera lirica, entro cui si anima e vive umanamente.

«Francesca da Rimini» rappresenta il documento più tipico di questo nuovo orientamento del melodramma. Tutto conferisce alla opulenta partitura un interesse di alto grado. Il musicista opera con la mente libera da ogni contagioso preconcetto, con lo spirito infiammato e attento, seguendo il proprio impulso, istintivamente.

Il suo lavoro è minuzioso nel cesellare ogni cosa con una tecnica precisa e attenta. I più opposti sentimenti si muovono sullo sfondo di una arte sincera.

Il volo lirico, sempre nobilissimo, chiuso in disegnature melodiche di evidente bellezza, s’incastona in preziosità armoniche seducenti sul telaio di un orchestrismo iridescente e sostanzioso.

Il compositore sorveglia e cura ogni cosa con un amore paterno, soffiando nei fili della partitura ora con tenerezza avvincente ed ora con una forza drammatica terribile e sconvolgente.

I personaggi sono disegnati e scolpiti con spirito acuto e felice. Li seguiamo, questi personaggi, nei modi e negli accenti delle passioni più contrastanti. Il taglio delle scene rivela nello Zandonai il pieno possesso della tecnica teatrale. Prescindendo dal valore puramente musicale, il finale del primo atto e quello dell’atto terzo sono modelli di alta espressione scenica. Il precipitare della tragedia, con le travolgenti sequenze sonore, spinge lo spirito dello spettatore nel turbamento più profondo.

Se è vero che a tutto ciò il musicista sia potuto pervenire per la singolare bellezza della tragedia, è altrettanto vero che egli è riuscito a penetrare nei più profondi recessi della poesia, riumanizzandone ogni contenuto.

Apprestata con cura, con palese amore, e sopra tutto con la decisa volontà di onorare degnamente Riccardo Zandonai, musicista ardente e schiettamente italiano, «Francesca da Rimini» è stata offerta in una edizione di alto rilievo. La collaborazione degli artisti, delle masse e di tutti gli addetti ai vari servizi del Teatro dell’Opera è stata volonterosa.

Il maestro Tullio Serafin ha sorvegliato con sentimento d’amore e mente elevata l’esecuzione di tutta l’opera, suffragando ogni cosa con nobile e palese magistero. Il difficile terzo atto è stato tenuto sopra un piano di seducenti coloriture, efficacemente registrate, dando libero sfogo alle ardenti evocazioni amorose che si sprigionano dall’affascinante tavolozza vocale e strumentale, traducendo inoltre sopra un piano di pura limpidezza i valori espressivi, timbrici e ritmici contenuti nella fosforescente partitura.

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Maria Caniglia, altera negli atteggiamenti scenici, calda nella vocalità, è stata una Francesca di alto rango. La passione, l’amore, il dolore e la gioia sono stati profondamente e umanamente goduti e sofferti.

Esteticamente a posto il tenore Giacinto Prandelli (Paolo), dalla voce piena di coloriture espressive. Egli incarna il personaggio con singolare nobiltà di atteggiamenti.

Raffaele De Falchi (Giovanni lo sciancato) ha dato un rilievo sorprendente al non facile personaggio, tenendosi in una linea intelligentemente sorvegliata.

Non molto persuasivo per la disparità vocale e scenica anche se con piacevoli momenti il gruppo delle donne di Francesca. Nino Mazziotti è riuscito a tenere la figura di “Malatestino” in una convenzione tra il supplichevole ed il felino. Tenera Samaritana, Anna Leonelli. Bene Delle Fornaci, Passarotti. Il coro preparato da Conca ha recato nobile contributo. Frigerio, come sempre, ha portato sulla scena una regìa abile e persuasiva. Belle le scene di Pieretto Bianco.

L’opera ha riaffermato il suo alto valore. Il successo è stato festosissimo con molte chiamate agli artisti, al maestro Serafin e ai collaboratori principali.

Assisteva allo spettacolo il Presidente della Repubblica Einaudi, che ha ricevuto il maestro Serafin trattenendolo nel palco con cordialità.

138 [Francesca da Rimini] - nota al programma di sala, Teatro dell’Opera, marzo 1949 (con una foto di Zandonai)

Nato a Sacco (Trentino) nel 1883 e italianissimo di sentimenti quando ancora quella

regione non era stata ricongiunta alla madre patria per effetto della guerra vittoriosa, Riccardo Zandonai fece i suoi primi studi a Rovereto con Gianferrari; passò quindi al Liceo di Pesaro, dove ricevette l’insegnamento di Mascagni.

La musica di Zandonai si fece notar subito per la nobiltà e la felicità dell’ispirazione accoppiata ad una tecnica sorprendente e a una tavolozza orchestrale ricca di colori vivaci e di trovate originali. Citeremo, fra le molte, le impressioni sinfoniche «Primavera in Val di Sole», «Patria lontana» e «Concerto romantico» per violino e orchestra (eseguiti all’Augusteo), «I quadri di Segantini», la «Messa di Requiem» (Pantheon, 1916), l’«Inno alla Patria» ispirato da Cesare Battisti, che fruttò al Maestro la condanna per alto tradimento dalla vecchia Austria, e finalmente le squisite «Melodie» largamente apprezzate ed eseguite.

Come compositore di teatro, nessuno, dopo Puccini, è stato più di lui perspicace nello scegliere libretti ricchi di situazioni drammatiche e comiche, di sicuro effetto, e di avvivarli con una musica che va sempre dritta all’animo dell’ascoltatore. Così si comprende come quasi tutta la produzione operistica dello Zandonai sia in repertorio. [...]

«Francesca da Rimini» è indubbiamente l’opera che, specie per la sua calda passionalità, ha sempre raccolto i maggiori suffragi.

Attratto dal teatro dannunziano, lo Zandonai aveva dovuto rinunziare a musicare «La figlia di Jorio» per la quale il Poeta si era già impegnato con Alberto Franchetti. La «Francesca» lo attraeva, ma la sua smisurata lunghezza lo disanimava, e d’altronde non osava sperare che d’Annunzio avrebbe consentito a lasciarla mutilare. Fu Tito Ricordi che lo persuase a tentare, ed egli stesso «liberò il fusto magnifico dall’abbondante vegetazione che l’avvolgeva», come ebbe a dire lo Ziliotto nella sua «Guida attraverso il poema e la musica della Francesca». Accordatisi riduttore e compositore, Tito Ricordi si recò ad Arcachon per avere l’approvazione di d’Annunzio, ma questi oppose che aveva già consentito a una nobildonna,

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la Massimo, di musicare «Francesca». Ma non fu difficile indurla a rinunziarvi. Zandonai, preso dalla febbre del lavoro, lo compì in soli dodici mesi di getto. La «Francesca» fu elaborata secondo il canone wagneriano del “lei-motiv” [sic], più per suggerimento imperioso che veniva dal dramma dannunziano che per partito preso. Un senso squisito di equilibrio però avvertiva Zandonai di non applicare troppo rigidamente il sistema del motivo egemonico. Si inganna però – osserva lo Ziliotto – chi crede che lo Zandonai abbia fatto precedere alla creazione un lungo studio delle canzoni antiche. Egli si è affidato unicamente alla intuizione artistica che gli ha permesso di interpretare profondamente l’ambiente del dramma e l’animo dei personaggi dannunziani.

A Roma «Francesca» fu rappresentata per la prima volta (“Teatro Costanzi”) nel 1915. Oggi viene eseguita in celebrazione del Grande scomparso.

139 Nino Piccinelli, Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai all’Opera conclude il programma della stagione, «Momento Sera», 31.5.1960 - p. 12, col. 1-2-3-4-5 (con caricatura di Floriana Cavalli)

Dante immortalò, nella «Divina Commedia», la tragica vicenda di Francesca e di Paolo:

vicenda che è stato uno dei temi più cari al Romanticismo, attraverso rielaborazioni poetiche, teatrali e musicali.

Molti musicisti si sono ispirati all’episodio dantesco realizzando opere teatrali e sinfoniche, ma fra le più recenti e più note rimane la Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai, su libretto che Tito Ricordi aveva tratto dal «poema di sangue e di lussuria» di D’Annunzio.

L’opera artistica del musicista trentino non è stata ancora convenientemente apprezzata e valutata nella sua importanza.

Comparso all’orizzonte mentre da un lato trionfava il verismo musicale e dall’altro si accendevano le prime polemiche intorno all’impressionismo debussyano, Zandonai volle e seppe mantenersi equidistante dall’uno e dall’altro16. La sua estetica si orienta verso una nuova tendenza che va sotto il nome di postverismo, che sotto un certo aspetto reagisce al verismo prendendo come punto di partenza il melodramma wagneriano piuttosto che quello verdiano, e spostando gli elementi consuntivi [?] del melodramma settecentesco e ottocentesco – essenzialmente melodici – in quelli descrittivi ambientali che si riallacciano al melodramma gluckiano.

La differenza tra l’impressionismo ed il postverismo consiste in questo: che il primo diede valore assoluto a questi elementi, il secondo un valore relativo. Riccardo Zandonai percorre questa strada con animo pieno di entusiasmo e con tenacia inflessibile, deciso a dare una personalità alla sua opera artistica, la quale si rivela chiara e inconfondibile proprio in Francesca da Rimini.

Il calore con cui il pubblico ha accolto quest’opera che, per la omogeneità dello stile, la coerente caratteristica ambientale e l’altezza della recitazione può essere considerata il capolavoro del teatro musicale di Zandonai, sta a dimostrare che nel suo linguaggio esiste qualche elemento intrinseco al fattore strettamente inventivo essenziale alla valutazione dell’opera d’arte, che nelle sue mani diventa fattore di successo. Questo elemento è costituito dal senso della teatralità. In ciò Zandonai dimostra di aver ereditato quella qualità che è il

16 Qui il Piccinelli ribadisce – con le stesse parole – la sua posizione del 1949, cfr. n. 128.

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vanto della nostra tradizione operistica. Infatti, quando la vena inventiva si diluisce in una dialettica generica e quasi convenzionale egli ricorre a dei veri e propri diversivi teatrali. In altri termini, la colorazione ambientale, nei momenti più determinanti dell’azione, costituisce per Zandonai una valvola di sicurezza, e bisogna riconoscere che sa adoperarla con senso di opportunità e di misura.

Il teatro di Zandonai – che tanto favore e fervore di consensi aveva suscitato fin dal suo primo apparire (Francesca da Rimini, quarta opera del musicista trentino, fu rappresentata la prima volta a Torino nel 1914) perché in esso il gran pubblico, con quella particolare sensibilità che lo distingue, aveva avvertito la presenza di un vitale, sano e onesto linguaggio, degno delle gloriose tradizioni del nostro teatro in musica, e quindi il più adatto a indicare ai giovani la giusta strada da percorrere per la realizzazione di un teatro moderno – il teatro di Zandonai, dicevo, incontrò l’immediata e stolta avversione di quella prepotente minoranza musicale “ufficiale” che tutti conoscono, la quale riuscì, purtroppo, con ogni mezzo a stroncare l’artista e le sue opere – nel preciso intento di annientare, fermare, la giusta azione di un musicista che minacciava di ostacolare l’avanzata dei “padri” degli attuali teddy boys della musica. Quei teddy boys, per dirla con il ravveduto Labroca, «che è facile individuare oggi in tutte le arti: privi di basi culturali, sono abili solo nel distruggere: abilissimi nello “scippo”, strappano dalle mani dei grandi contemporanei la gloria conquistata con fatica: a colpi di bastone distruggono la grande arte del passato». (È questo un discorso che mi riprometto di continuare in altra sede).

L’ostilità dei “nemici” di Zandonai ha trovato anche le direzioni artistiche dei nostri Enti lirici pronte ad assecondarla.

«Non fa cassetta la Francesca di Zandonai», dice ad esempio il Sovrintendente del Teatro dell’Opera, avvocato Latini. Credo che dopo una così grave dichiarazione, che denota la chiara incompetenza di un Sovrintendente, sarà opportuno provvedere alla sostituzione dello stesso ameno sovrintendente, affidandogli magari la più alta carica di un istituto finanziario.

Con la Francesca da Rimini il Teatro dell’Opera ha concluso in bellezza il suo programma stagionale.

Gabriele Santini è stato il sommo artefice dello spettacolo. Interprete-sonorizzatore scrupoloso, attento, sensibile e guidato dall’intelligenza e dalla scienza, egli è riuscito a “illuminare” di poesia la bella partitura di Zandonai, così ricca di melos e di materia sonora, offrendoci la rivelazione piena e viva dei suoi valori più intimi.

Eccelsa, superba protagonista: Floriana Cavalli. Immedesimata nelle vesti di “Francesca”, ella ha dato tutta se stessa, la sua passione, tutta l’anima, inebriandosi quasi della propria voce – suadente, vibrante, calda – e del canto, realizzando l’entità del personaggio ed osservando – fatto assai raro – sia la stesura musicale sia la psicologia sia l’aspetto storico-estetico. La Cavalli ha saputo esprimere la dolcezza, l’amore, la passione e la disperazione, non solo con la bellezza della sua voce potentemente espressiva – certe sue “mezze voci” recano brividi – ma anche con le sue rare qualità di attrice, nella ricerca di intendere e quindi riesprimere il personaggio della Francesca di Zandonai attraverso quella di D’Annunzio.

Il prepotente carattere di “Giovanni lo sciancato” è stato reso alla perfezione da Giangiacomo Guelfi, nel canto e negli atteggiamenti. Ottimo “Malatestino” è stato Giovanni Malipiero. La figura di “Paolo” poco si adatta a Gastone Limarilli. Abbastanza buona la sua prestazione vocale negli slanci lirici, ma assolutamente priva di colore negli episodi “intimi”, mancando egli di “mezza voce”; mediocre la sua prestazione scenica.

Tutte eccellenti le parti di fianco, particolarmente quelle femminili: Giuliana Raimondi, Elvira Galassi, Vera Magrini, Rosetta Arena, Lidya [sic] Marimpietri, Amalia Pini. Lode anche a Arturo La Porta, Renato Ercolani, Paolo Mazzotta, Paolo Caroli e Fernando

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Valentini. Buono, come sempre, il coro istruito dal maestro Conca. La regìa di Enrico Frigerio non ha trascurato di mettere nel giusto rilievo gli episodi più drammatici, badando a sottolineare e porre in primo piano l’aspetto passionale della vicenda, riuscendo nel contempo a imprimere a tutti gli agonisti un movimento quasi classico.

Le scene di Carlo Santonocito hanno saputo creare suggestivamente l’atmosfera storica richiesta di volta in volta dalle situazioni liriche e drammatiche, contribuendo a rendere viva e straordinariamente efficace la grandiosità dello spettacolo e il crescente pathos della vicenda. I costumi, appropriati ed eleganti nel 2., 3. e 4. atto, ci sono invece sembrati miseri e di scarso buon gusto nel primo, in cui fra l’altro ci pare difficile capire la ragione per la quale Francesca avesse indosso gli stessi abiti delle sue ancelle. Il costumista (del Teatro alla Scala) non avrà voluto per caso democratizzare la principesca vita di Francesca, visto che ai nostri giorni è così di moda dare un colore marxista anche a vicende storiche decisamente qualificate? Il pubblico ha calorosamente e ripetutamente applaudito interpreti e direttore chiamandoli più volte alla ribalta alla fine di ogni quadro.

140 R. Bonv., La “Francesca da Rimini” di Zandonai – Un’attraente ripresa lirica al Teatro dell’Opera, «Il Tempo», 29.5.1960 - p. 3, col. 2-3-4-5

Da anni non si rappresentava la Francesca, e il nome di Riccardo Zandonai è tornato sul

palcoscenico dell’Opera tra grandi applausi di pubblico. Si tratta certo di uno dei migliori operisti italiani anche se immeritatamente poco noto agli ascoltatori dopo la sua morte avvenuta prematuramente nel 1944. Trentino di nascita – come si sa –, dedicò al teatro il meglio, forse, della sua produzione e svolse in tal senso intensa attività proprio quando – tra il 1908 e il 1933 – le risorse del melodramma italiano parevano esaurite, sembrando che nulla più fosse rimasto da dire dopo la grande ondata romantica e l’esperienza cosiddetta “verista”. Quando Zandonai scomparve quasi in silenzio, pochi se ne accorsero perché viveva allora l’Italia tristi giornate di lutto bellico, e inoltre la musica strumentale aveva il sopravvento nell’interesse del pubblico. Oggi tuttavia che un certo gusto operistico sembra riprendere quota, la figura del musicista si ripropone al nostro giudizio meritevole di essere presa in seria considerazione.

Nella Francesca da Rimini il motivo imperituro dell’Amore (come nella Giulietta e Romeo) risplende alla luce di una primitiva favola medievale e stilnovistica, e unito al motivo della morte s’infiamma di fuoco romantico. Zandonai ha profondamente vissuto e magistralmente investito della sua personalità – assimilatrice ma non imitatrice – questo connubio che già aveva trovato forme artistiche diverse ma congeniali in Dante e in D’Annunzio: umano dramma nel primo, materia di sensuale catarsi estetica nel secondo. Paolo e Francesca appaiono nella tragedia musicale di Zandonai come due angeli di purezza travolti dal gorgo del male e la loro figura è come una casta perla tratta da un oceano in tempesta, la tempesta del vizio, della corruzione, dell’odio, della gelosia, dell’intrigo cortigiano, della sensuale attrazione. Sul mondo torvo della corte i due amanti si librano con ali fatate, ed anche se il loro dramma a volte si tinge di colori accesi, carichi fino ad immergersi ed identificarsi con l’atmosfera di battaglia tra Malatesta e Ghibellini (atto II), il nostro animo, la nostra mente, il nostro orecchio li vedono sempre là come eternamente fissati nell’incantevole delicatissima scena del primo incontro suggellato dall’offerta di una tenera rosa vermiglia (finale atto I) o immortalati nell’attimo del bacio flagrante suggerito dalla lettura degli amori di Lancillotto e Ginevra (atto III). Qui si potrebbe addirittura parlare

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di un Tristano italiano allorché il fascino fresco, fragile, imponderabile del romanzo medievale si trova sposato alla corposa, calda visione romantica che ne travolge e ne riplasma i soffici contorni.

Gli altri personaggi non rimangono in ombra, ma partecipano attivamente a creare ambiente di contrasto. Gianciotto (Giovanni lo sciancato) e Malatestino (cosiddetto “dall’Occhio”), menomati fisicamente, si vendicano di Paolo “il Bello” loro germano, l’uno con la forza, la violenza, il delitto, l’altro coll’arma di Iago, mentre Ostasio, fratello di Francesca, impersona il classico sensale di corte per un matrimonio ad inganno. Le ancelle di Francesca e la sorella Samaritana: un quintetto di favola, che assieme al coro completano il quadro della “madonna” – intrecciate le chiome sotto l’alto cappuccio – infelice prigioniera tra i merli tiranni, gli archi, le pergole del castello fatato affacciato sull’Adriatico azzurro.

Nella musica non si avvertono influenze evidenti e decise, ad esempio verdiane o wagneriane, debussyane, mascagnane o pucciniane: il tutto appare come riplasmato in una vena che di esse si sostanzia rimanendo limpida e nuova. Dal Pelléas siamo lontani come dal Tristano: non v’è nulla di sfumato e di indefinibile, né di caldamente retorico: c’è un grande amore che si configura in canto appoggiandosi e quasi nascendo dalla orchestra mirabilmente manipolata, senza sublimarsi in trascendentali melodie di sapore cosmico, né perdersi in simbolici contorni; c’è l’incontro di due anime che aderisce a una umana realtà priva di diafane ombre e di incantati recitativi, né preda del ritorno affascinante del leitmotiv. Sono toccate tuttavia inconsuete vette di canto.

Assai aderenti allo spirito della musica le scene di Carlo Santonocito e i costumi, non sobri ambedue gli elementi e stilizzati secondo il gusto moderno, ma neppure carichi, eccessivamente barocchi, di netto sapore ottocentesco, non inquadrati voglio dire nel clima pittorico contenuto e lineare di un Simone Martini, ma neanche troppo sfarzosi e ricchi, rei di vistosità. Oculata l’opera del regista Frigerio nel muovere i personaggi assai ben scelti per il lato vocale, scenico e finalmente anche fisico. Floriana Cavalli una attraente, prestante e gentile Francesca dalla voce ben timbrata, solida e cortese, drammatica ed eterea a seconda del caso. Giangiacomo Guelfi un Gianciotto colossale, materiale, dominatore, violento; Giovanni Malipiero un Malatestino piccolo e perfido; Gastone Limarilli veramente “Bello” quale Paolo e ottimo il quartetto delle ancelle: Giuliana Raimondi, Elvira Galassi, Vera Magrini e Rosetta Arena, a cui si aggiunge la schiava Amalia Pini. Vanno inoltre lodevolmente ricordati Lydia Marimpietri, tenera e sensibile Samaritana, Arturo La Porta quale Ostasio, Renato Ercolani, Paolo Mazzotta, Paolo Caroli, Fernando Valentini.

Tutta la rappresentazione ha “filato” sotto la direzione accurata e approfondita di Gabriele Santini. Anche al Conca e al suo coro il solito meritato elogio. Il pubblico si è entusiasmato come poche altre volte.

141 Renzo Rossellini, Francesca da Rimini, «Il Messaggero», 29.5.1960 - p. 3, col. 7-8-9

Gli anni non sono trascorsi a danno della «Francesca da Rimini» di Zandonai, anzi, come

succede all’autentica opera d’arte, la “stagionatura” le ha giovato ed oggi la si può rimirare in tutta la pienezza del suo significato, nonché nella verità della sua forza espressiva. Compito nostro è anche quello di ristabilire quei valori che furono offuscati dalle passioni di parte, dalle contraddizioni dei tempi, di riproporli alla coscienza del pubblico per quel che realmente sono e rappresentano. Occasione migliore non poteva offrirsi, con il ritorno di un capolavoro che nella storia dell’opera lirica italiana segna una delle date più felici e più

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suggestive. Perché lo Zandonai della «Francesca da Rimini» è il vero e solo erede del teatro verdiano, colui che lo ha saputo reincarnare con spiriti moderni, la logica evoluzione del linguaggio. Non è fuggevole osservazione, questa, né avventato giudizio: è ferma convinzione che si è andata maturando e fortificando con il passare degli anni, nonché consapevole atto d’amore. In questo teatro di Zandonai si sente tutta la attualità del teatro lirico italiano, la grandezza dei suoi ideali e del suo genio: punto di partenza per un altro balzo in avanti, perché l’arte è un continuo divenire che si proietta nel futuro.

Si è resa giustizia, anche, alla sensibilità del pubblico, che predilesse questa creatura e ne amò senza riserve l’artefice. Alla volontà del pubblico, alla schiettezza dei suoi sentimenti, si oppose la sofisticheria di un intellettualismo arido e prepotente, lo snobismo petulante, il servilismo pavido di un certo ambiente musicale. L’offensiva contro l’opera di Zandonai fu sferrata con violenza e senza esclusione di colpi, troppo scomoda era la presenza di colui che avrebbe avuto il mezzo di travolgere tutti con la forza delle idee, in un’epoca in cui l’“idea” era divenuta una vera e propria rarità. Ma nulla vince in senso assoluto, o può annullare la capacità di vita, il recupero dell’opera d’arte: e la «Francesca» è ancora davanti a noi in tutta la sua grandezza, libera dagli impedimenti che si frapposero artificiosamente al suo cammino. Ci ammonisce e ci ammaestra: ecco il teatro musicale italiano. A noi il compito di conservarlo e di tramandarlo. Ma perché questo avvenga si ha bisogno di un prezioso, insostituibile alleato: ossia del pubblico. Se esso, dopo tanti sviamenti ed attentati al suo gusto, risponderà e lo vedremo riaccostarsi all’opere sue predilette, non invano avremo atteso, combattuto e sofferto.

Ma è ora di rasserenarci al diretto contatto dell’affascinante «Francesca», di seguirla pagina per pagina, di partecipare ai suoi sogni, ai suoi tormenti: itinerario che la mente ed il cuore percorrono commossi. Attraverso la musica di Zandonai le parole preziosamente dannunziane acquistano una luce umana, si piegano alla semplicità degli accenti. Non c’è ridondanza e di decorativo non rimane che l’ambiente scenico: tutto il resto è dramma sentito e sofferto. Asciutto dramma, ridotto all’osso dell’espressione, senza concessioni, di una illibatezza intrepida. È la musica che vince: ecco il duetto tra le due sorelle, dolenti per l’imminente distacco, ed il finale dell’atto primo con quel canto del violoncello, l’ultima melodia italiana che si è saputa scrivere. Ecco le pagine che precedono la “canzone di marzo”, così dense di predestinazione nell’interrogativo di Francesca alla sua schiava Smaragdi, e la canzone stessa, con la sua irresistibile malinconia che rimarrà a lungo dentro di noi; ecco il lieve “ponte” orchestrale che descrive la trepida, incerta attesa di Francesca prima della apparizione di Paolo. È una delle pagine più belle del teatro musicale moderno. Ecco, infine, il duetto con quel grido disperato alla primavera che è “galeotta” quanto il libro che leggono i due amanti. E la scena tra Francesca e Malatestino e poi quella tra Malatestino e Gianciotto, ambedue rivelatrici, in modo preciso e definitivo, delle sicure origini del teatro di Zandonai: origini verdiane di un teatro degno di Verdi.

Siamo debitori a Gabriele Santini della commozione grande che si è sprigionata da ogni pagina della partitura di Zandonai. Esemplare concertazione, nel significato autentico della parola. Il “suono” era finalmente quello dell’orchestra di Zandonai, nella messa a punto, perfetta, del gioco dei timbri, degli impasti, dei valori espressivi. Tutto “maturato” come deve essere perché l’orchestra abbia la coscienza di quel che suona. Nel cogliere il senso della discorsività zandonaiana, nel cesello delle sospensioni, dei ritenuti, degli affrettati, che sono tutti elementi animatori del fraseggio, Gabriele Santini è stato insuperabile. Ed a lui va anche il merito, come facevano i maestri di un tempo, di avere ad una ad una impostate le parti vocali: si è così potuta sentire la fusione e l’equilibrio di quei valori che sono anzitutto musica ed ai rigori della musica debbono sottostare.

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Protagonista di classe Floriana Cavalli: una prova di più del suo talento, della sua sensibilità, dell’intelligenza duttile che si accompagna ai mezzi vocali. Il personaggio ha avuto, dunque, nella Cavalli un interprete degno dei suoi caratteri. Gastone Limarilli ha in parte soddisfatto nell’altra figura al centro del dramma, quella di Paolo: preparato vocalmente, senza dubbio, conscio anche dei problemi da affrontare e da risolvere, gli è mancata, come dire, la rifinitura del personaggio. Ma i suoi bravi momenti li ha avuti ugualmente. Giangiacomo Guelfi era “Giovanni lo sciancato”: ne ha impersonato la rudezza e la violenza, ma anche la pateticità del fato che lo travolge. Una dizione scandita, attraverso la quale tutte le parole e tutte le note hanno avuto plastica significazione. Eccellente “Malatestino” è stato Giovanni Malipiero. Come dianzi accennato, estremamente curate le parti di fianco ed in special modo quelle femminili: così la deliziosa Giuliana Raimondi e le sue degne compagne Elvira Galassi, Vera Magrini, Rosetta Arena. Bene anche Amelia [sic] Pini nella parte della schiava. La regìa di Enrico Frigerio, limpida nel racconto ed armonica nella composizione; gli interventi corali diretti da Giuseppe Conca, delicatissimi e di vivace accento a seconda delle esigenze della scrittura, meritano una lode adeguata. Scene di Carlo Santonocito variamente funzionali, ma di nobile intenzione pittorica.

Lo spettacolo è stato calorosamente applaudito.

142 e[rasmo] v[alente], Francesca da Rimini al Teatro dell’Opera, «L’Unità», 29.5.1960 - p. 6, col. 1-2

Ora il nostro Zandonai – musicista di maggiori meriti di quanti glie ne siano stati

riconosciuti – avrebbe 77 anni, e una Francesca da Rimini così (la sua opera migliore) – allestita esemplarmente dal Teatro dell’Opera a chiusura della stagione – l’avrebbe certamente consolato. Morì invece negli anni della guerra (1944), trenta dopo la “prima” della Francesca, quattro dopo la nomina a direttore del Liceo musicale di Pesaro dove, avendo per maestro Mascagni, si era diplomato sugli inizi del secolo (1901).

Il richiamo a Mascagni, se viene giusto giusto a scagionare certi cedimenti a un’enfasi melodica, dall’altro fa meglio risaltare quell’ansia del nuovo che spesso traversa la musica di Zandonai. Il quale, appunto, con Mascagni (e Puccini) nel cuore, ma con l’orecchio ben poggiato alle porte dell’Europa, non disprezzò Wagner, né trascurò Strauss e Debussy.

Per quest’ansia di rinnovamento, la partitura della Francesca è addirittura commovente e l’opera avrebbe forse conseguito una diversa riuscita se il rinnovamento non fosse incappato nella obbligata moda dannunziana di quegli anni. Nel secondo decennio del secolo gli incontri di D’Annunzio con la musica furono particolarmente fecondi, ma certo leziosismo dell’“Immaginifico” finì col danneggiare l’economia di quei drammi musicali. Nel caso in questione, però, come suol dirsi, l’opera c’è. Il personaggio di Francesca vien fuori musicalmente con una sua autonoma vigoria, ed è capace persino di pretendere un poco di confidenza dalla verdiana Desdemona, come da certe creature pucciniane: Butterfly e Minnie, ad esempio, trasposte talvolta in chiavi di sentimentali walchirie.

Ma chi si appresta a non dar più confidenza a nessuno è l’interprete di questa Francesca, la superba Floriana Cavalli. Le è riuscito quel che quest’anno non è riuscito alle sue amiche (o nemiche e rivali): trionfare, cioè, ugualmente della scena come delle asperità vocali, con intelligenza ed eleganza straordinariamente incisiva. Alla nobiltà del portamento ha puntualmente fatto riscontro la sua sensibilità musicale. Bravissima. Tanto più, anzi, in quanto la sua bravura non ha preteso di escludere quella degli altri.

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Gastone Limarilli (Paolo), che sta guadagnando posizioni di primo piano nel firmamento del bel canto, ha potuto aggiungere punti preziosi alla sua carriera, mentre nei panni di Gianciotto, lo sciancato marito di Francesca, ha giganteggiato, come un erculeo Tirteo, l’ottimo Giangiacomo Guelfi, unendo all’impeto della voce gagliarda una virile prestanza scenica.

Negli altri ruoli, ciascuno si è preso una larga fetta di meriti: Lydia Marimpietri, delicata e precisa nelle vesti di Samaritana; Giovanni Malipiero, un Malatestino perverso a dovere e vocalmente prezioso; il quartetto delle ancelle, con bello spicco di Giuliana Raimondi tra Elvira Galassi, Vera Magrini e Rosetta Arena; la brava Amalia Pini; il finissimo Arturo La Porta; il malizioso Reanto Ercolani e così via Paolo Mazzotta, Fernando Valentini, Paolo Caroli.

La sontuosità delle scene spesso a tutto tondo, dovute a Carlo Santonocito e ingegnosamente manovrate da Giovanni Cruciani (nel secondo atto, all’interno e sugli spalti del castello dei Malatesta si svolge una battaglia in tutta regola, con lanci di frecce e una solenne catapulta in piena efficienza); l’accorta e misurata regìa di Enrico Frigerio, hanno ben punteggiato lo svolgimento dello spettacolo. Gabriele Santini, con una meditata e appassionata concertazione e direzione, ha dispiegato un’orchestra agilissima, dalla quale è emerso il bel suono di Giuseppe Gramolini, violoncellista più volte apprezzato in orchestra e ieri anche in palcoscenico, nei panni d’un suonatore di corte, impeccabile e convincente.

Applausi e chiamate agli interpreti tutti, insistenti alla fine di ogni atto e dello spettacolo, hanno decretato alla ripresa un successo lietissimo.

143 F[erdinando] L[udovico] Lunghi, “Francesca da Rimini” di R. Zandonai all’Opera, «Il Giornale d’Italia», 30-31.5.1960 - p. 3, col. 6-7-8-9

Quello che fu chiamato il musicista fortunato per aver trovato giovanissimo un editore, il

Ricordi, che credette fermamente in lui, non lo fu affatto. Sparito nel gran polverone della guerra senza che nessuno se ne accorgesse, le sue opere che pure avevano avuto sempre successo sparirono anch’esse una alla volta dai cartelloni. Riccardo Zandonai rimase un nome che ricordava semmai l’accanimento demolitore di certa critica che si è compiaciuta di forme letterarie e che comunque contribuì a mettere fuori corso opere vitali. Tanto che oggi riprendere quelle opere è quasi un atto di audacia.

Un uomo che ha scritto «Francesca» per riascoltare la quale occorre attendere anni ed anni, non è un uomo fortunato: è un uomo e un artista contro il quale si perpetua, senza una valida ragione, una ingiustizia.

Basterebbe questa «Francesca da Rimini» a rendere assurda questa ingiustizia. «Francesca» è un’opera viva, vitale, originale, bella. Essa rappresenta un momento, e non certo fugace, nella storia del teatro lirico. Se è la somma di particolari esperienze armoniche e strumentali, se riflette una sensibilità, un gusto, un costume quasi di quel tormento, si distingue tuttavia da tutti i modelli informatori per la sua schietta personalità e soprattutto per il suo alto contenuto di poesia. Zandonai, musicista di atmosfere, crea in questa tragedia il clima ideale al respiro delle sue creature musicali. Ognuna di esse ha la sua sigla sì che il personaggio si configura con una evidenza che potremo chiamare senza esitazioni verdiana.

Persone vive nel sentimento e nel linguaggio e al cui fascino è difficile resistere. Il finale dell’atto primo è qualche cosa di più di un finale di effetto: è un momento poetico

di struggente suggestione. Ma in tutta l’opera questa suggestione è operante: nella violenza

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dello “Sciancato” e nella passione di “Francesca”; nella ferocia di “Malatestino” e nell’estasi amorosa di “Paolo”; nella tenebrosa malìa della “Schiava” e nel candore di “Samaritana”. Personaggi che hanno un loro volto musicale inconfondibile e che si muovono intrisi in una atmosfera armonica e strumentale che ha le sue radici in esperienze straussiane, ma che fiorisce al calore di un talento musicale cui non si può certo negare una precisa personalità.

Ascoltare una pagina di questa partitura, senza sapere che cosa sia né di chi sia, ed attribuirla a Riccardo Zandonai è tutt’uno. È una qualità questa che solo le opere d’arte hanno. E non si comprende davvero come «Francesca», opera d’arte, possa essere stata per tanto tempo dimenticata. È una di quelle opere che possono benissimo, anzi debbono, essere presenti in ogni cartellone. Né ci si venga a dire che la difficoltà di trovare artisti adatti e specie una “Francesca” degna di questo nome sono la causa di quell’ostracismo. Basta cercare e si trovano: come il nostro Teatro dell’Opera ha luminosamente dimostrato.

Abbiamo ascoltato questa mirabile partitura, prediletta nella nostra giovinezza di studenti e poi sempre cara al nostro cuore, con gioia e commozione. La abbiamo ascoltata in tutta la sua complessa bellezza, chiara, viva, trascinante, in una edizione perfetta sia per la purezza dei disegni e dei timbri che per il calore dell’insieme. Una di quelle esecuzioni che per la perfezione, per l’equilibrio, per il profondo significato che acquista il dramma musicale appartengono all’arte di un grande direttore: Gabriele Santini. Si sentiva la sua mano e la forza di una ferrea concertazione che saldava le voci all’orchestra e l’orchestra all’azione, trasfigurate in una interpretazione commossa e colma di poesia. Al maestro Santini va anche il merito di una felicissima scelta degli interpreti. Prima Floriana Cavalli, una “Francesca” magnifica per la sicurezza l’espressione la musicalità del suo canto piegato sempre alla espressione della parola con una intelligenza pari a quella con cui il personaggio scenico è stato reso: un’arte davvero superiore nel rendere tutti gli accenti, anche i più reconditi, della fatale passione.

Gastone Limarilli è stato un “Paolo” misurato, sensibile, dal canto sempre sano ricco di inflessioni, espressivo.

La strapotenza vocale, che ha l’impeto di un fenomeno naturale, di Gian Giacomo Guelfi ha scolpito la terribile figura di “Giovanni lo Sciancato” con una efficacia di irresistibile effetto. Guelfi è ormai un artista anche scenicamente e non era facile mettersi al livello, come attore, del cantante.

Giovanni Malipiero, che ritroviamo dopo lunga assenza, vocalmente e scenicamente artista di primo piano, ha reso con sicura efficacia la losca figura di “Malatestino”.

Ottima Amalia Pini (La Schiava), Arturo La Porta (Ostasio), la Marimpietri (Samaritana), la Raimondi (Biancofiore) e tutti gli altri. Regìa di una sana teatralità, espressa da un uomo di gusto e di cultura quale è Enrico Frigerio. Successo vibrante calorosissimo da parte di un pubblico scelto e numeroso che ha applaudito a lungo dopo ogni atto il maestro Santini, la Cavalli, Limarilli, Guelfi, Malipiero e tutti gli altri interpreti chiamandoli più volte alla ribalta.

Con questa bellissima edizione di «Francesca da Rimini» si chiude degnamente la stagione del nostro Teatro dell’Opera. Una stagione di grande interesse e di alto livello e sulla quale torneremo in un articolo conclusivo.

144 L[uigi] P[izzuti], “Francesca da Rimini” al Teatro dell’Opera, «Il Paese», 29.5.1960 - p. 3, col. 6-7-8

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Buon ultimo, il Teatro dell’Opera è arrivato alla chiusura della Stagione quando già si prospetta a Roma una apertura operistica estiva che rasenta la follia: opere all’Eliseo, opere a Caracalla e chissà se non in altri locali di questa nostra città che ci sembra tanto refrattaria alle seduzioni del melodramma. Ma quel che raggiunge l’assurdo è che tutte codeste iniziative si aggireranno fra i soliti «Rigoletto», «Butterfly», «Cavalleria» e «Pagliacci» con l’aria di sbottigliare chissà che elisir per un pubblico che non lo abbia mai assaggiato, quando la sazietà è arrivata a limiti insuperabili e tutti lo sanno. Si conta forse sulla prevista fiumana di sportivi stranieri per far pubblico? Non lo sappiamo. Sappiamo solo che mentre si chiede, se non altro per igiene mentale, un’apertura meno retriva in campo operistico e concertistico, mentre si invoca la necessità di un adeguamento culturale a posizioni più avanzate, qui si stagna nelle solite posizioni che non servono a niente: cioè non per guadagnarvi soldi, non per assicurarsi nuovi crediti in campo artistico, né per migliorare o solo far avanzare il pubblico gusto.

Ma è un discorso penoso che ci è venuto per caso nella penna e che abbandoniamo subito per ritornare alla Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai, ultima opera del Cartellone del Teatro dell’Opera, che ha posto ieri sera il suggello ad una Stagione contenuta pur sempre nei limiti prudenziali dei comuni repertori, però con indubbio merito, sia per la varietà della scelta, sia per la bontà di buona parte delle rappresentazioni.

Zandonai non è molto popolare in Italia. Averlo scelto è una iniziativa che si stacca dalla linea comune. Le sue opere appaiono raramente nei cartelloni dei grandi teatri, men che mai nei minori. Questa sua condizione negletta lo fa simpatico, specialmente se, dando un’occhiata in giro, non vediamo chi lo superi fra i suoi coetanei.

Eppure tante opere dello stesso suo tempo, nate in quello stesso clima artificioso, non ammuffiscono di certo, anzi talune ricevono attenzioni che sembra vadano oltre i meriti reali. E allora? Misteri del sottobosco dell’arte teatrale!

La musica operistica di Zandonai non è affatto povera di idee, non cerca gli espedienti per coprire le pagine della partitura, è realizzatrice e funzionale quanto lo può essere chi è nato e vissuto nel clima degli estetismi dannunziani. In lui una ispirata perizia accompagna sempre l’atto creativo sul quale hanno giocato influenze discendenti da nobili origini. La commistione che tanti hanno tentato fra suggestioni verdiane e wagneriane in lui acquistano uno stile personale degno di rilievo.

Francesca da Rimini è la sua quarta opera, composta poco prima della prima guerra mondiale su libretto tratto dalla omonima tragedia dannunziana. L’opera si snoda con naturalezza nei suoi quattro atti ricchi di numerose felicissime impennate. Per un direttore come Gabriele Santini, maestro coscienzioso ed espertissimo, dev’essere stata una gioia trovarsi davanti a tale partitura che per la sua particolare tendenza risveglia ricordi e trascorse suggestioni artistiche. Quanto di buono è rimasto! Santini l’ha preso nel pugno e vi ha impresso un piglio giovanile, sembra l’abbia risvegliato e fatto balzare tutto vivo e folgorante in una esecuzione che è sembrata una consacrazione. I protagonisti se li è curati a dovere e ha incontrato un complesso di artisti dotati e docili che gli hanno risposto come meritava. Prima fra tutti Floriana Cavalli, una Francesca bella, regale, dai trasporti canori chiarissimi e precisi. A lei si deve buona parte della riuscita della serata. Solo quando il personaggio si qualifica secondo le intenzioni degli autori la suggestione poetica è pienamente realizzata.

Il tenore Limarilli ha interpretato la parte di Paolo con bella partecipazione vocale e scenica, specialmente nella stupenda scena d’amore del terzo atto. Invece Giangiacomo Guelfi, il potentissimo versatile dell’Opera, ha dato una prova di forza di più nella parte di Gianciotto e anche Giovanni Malipiero nella insidiosa e truce figura di Malatestino è stato degno collaboratore. Una parola di lode a tutte le donne: dalla Lydia Marimpietri, che

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impersonava la dolente figura di Samaritana, la sorella, a Giuliana Raimondi nella figura di Biancofiore e alle sue tre compagne Elvira Galassi, Vera Magrini e Rosetta Arena che hanno fatto un quartetto canoro di grande efficacia. Brava Amalia Pini, la schiava, e Ercolani, La Porta, Mazzotta, Caroli e Valentini nelle parti minori perfettamente interpretate. Le scene di Carlo Santonocito sono risultate dignitose nel loro stile veristico e la regìa di Enrico Frigerio apprezzabilmente disinvolta. Il coro preparato dal maestro Conca è stato all’altezza del compito.

L’opera ha avuto il migliore successo possibile e tanto il direttore che gli interpreti sono stati cordialmente e ripetutamente applauditi.

145 G. Sciacca, La Francesca da Rimini di Zandonai all’Opera, «Il Quotidiano», 29.5.1960 - p. 7, col. 3-4

Il maggior merito di Riccardo Zandonai, nella «Francesca», è di essere riuscito a

mantenere, in gran parte, i valori poetici della tragedia d’annunziana. Di tali valori egli sentì soprattutto vicino alla sua sensibilità di musicista raffinato, dalla facile vena melodica, quelli essenzialmente lirici; quelli cioè più idonei a ricevere una sovrapposizione musicale che non ne alterasse mai l’afflato di alata poesia, anzi ne aureolasse maggiormente e ne completasse il già musicalissimo respiro, il ritmo squisito.

È perciò che Zandonai coglie in pieno l’atmosfera voluta dal testo, nel primo atto dell’opera, nel terzo e nel secondo quadro del quarto atto, riplasmando con mano felice i momenti che, della tragedia d’annunziana, sono quelli più compiutamente lirici nel verso e nell’ispirazione.

Della «Francesca da Rimini» il Teatro dell’Opera ha offerto ieri sera una ottima edizione. Floriana Cavalli è stata una Francesca di bellissima voce oltre che di grazia squisita. Il Pubblico l’ha vivamente applaudita. Gastone Luniarilli [sic] era Paolo e ne ha sostenuto il ruolo con efficacia. Superbo per vocalità possente e per passionalità poderosa di artista è stato Giangiacomo Guelfi nella sua indimenticabile creazione di un potente, bestiale, ma gigantesco Gianciotto. Buoni anche la Marimpietri (Samaritana), Giovanni Malipiero (Malatestino) e Arturo La Porta.

Bene equilibrato ed aggraziato il quartetto femminile delle ancelle composto da Giuliana Raimondi, Elvira Galassi, Vera Magrini e Rosetta Arena.

Gabriele Santini ha diretto con entusiasmo ed amore mettendo in evidenza tutti i pregi della brillante partitura. La regia di Enrico Frigerio si è mossa con misura tra le belle scene di Carlo Santonocito.

146 Liliana Scalero, La “Francesca da Rimini” di Zandonai, «La Voce repubblicana», 31.5.1960 - p. 3, col. 7-8

Eccoci all’ultima opera della stagione 1959-60 che ha avuto un eccellente sviluppo e quasi

sempre un alto decoro, e di cui daremo fra qualche giorno un riassuntivo ai nostri lettori. La rappresentazione della «Francesca da Rimini» di Riccardo Zandonai, su libretto di Tito Ricordi, tratto con entusiastica fedeltà dal dramma di D’Annunzio (il Tito Ricordi, figlio di Giulia [sic], era un dannunziano agguerrito) ci pone, allo scorcio dell’“anno lirico”, di fronte

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al problema: sono ancora valide queste opere estetizzanti e veristiche insieme, basati su sfondi storici e decorativi, trecenteschi o cinquecenteschi che siano? E di fronte ad alcuni fedeli di Zandonai, che deplorano la sua assenza dai cartelloni e la relativa dimenticanza in cui è piombato, bisogna pur rispondere di no. Sopratutto per i libretti, i temi. Di Zandonai ci pare per esempio più valida e interessante un’altra opera, i Cavalieri di Ekebri [sic],; che viene sovente trasmessa alla radio e anche ripresa in teatro. In essa l’atmosfera, nordica e leggendaria, è più viva che non quella, troppo sfruttata, del Trecento dannunziano e benelliano: le ancelle, i drappi di vajo, il giullare, le balestre...

Peccato, perché Zandonai è un vigorosissimo talento musicale, benché non abbia quel che si dice un’originalità. È sinfonico, strumentale, coloristico, fastoso, ma non ha quel che il vecchio Verdi chiamava “il motivo”, e di lui non si ricorda una sola aria, una sola melodia in tutto lo splendido tessuto musicale della Francesca, che farebbe gridare al miracolo se non si avvertisse subito ch’esso è quel che si dice uno stile composito, ornamentale, in cui si sentono gli influssi vari di Wagner (nel concitato strumentale), di Debussy, nel sapiente colorismo, di Riccardo Strauss e sopratutto di Mascagni, di cui lo Zandonai fu allievo al Conservatorio di Pesaro di cui doveva poi diventare, anni dopo, direttore. Assente un’influenza qualsiasi di Puccini, Zandonai non è un sentimentale, ma piuttosto un enfatico, un decorativo, e, in senso superiore, non è quel che si dice un uomo di teatro. Le sue situazioni sono bellissime, sapientemente preparate, ma statiche; come quella del primo atto (la chiusa) quando Paolo il Bello si presenta a chiedere la mano di Francesca per il fratello Gianciotto e i due giovani si guardano estasiati, mentre Francesca offre a Paolo una rosa rossa. Situazione “wagneriana” se mai ce ne furono; ma senza musica originale, propria, che scaturisca da intima necessità. Così vi sono molte altre situazioni wagneriane, debussyane, maeterlinckiane, quando Francesca si affaccia al balcone e spazia con l’occhio sul mare guardando, nella sua noia infinita, se giunge l’amato.

E qui si può osservare, senza far torto a Zandonai, ciò che Debussy ha saputo per esempio trarre dal vecchio tema dell’adulterio, in un’epoca medioevale, mitica, dandovi maliziosi toni moderni, sia psicologici, sia musicali; Zandonai resta fedele all’estetismo dannunziano, che anch’esso ci lascia freddi, con le sue decorazioni alla De Karolis e alla Sartorio.

L’opera non manca di pezzi veramente originali, come per esempio la fine del primo atto, con la presentazione della rosa, in cui Zandonai trova le sue note più delicate e più liriche, ma ahimè! troppo rare. Dal suo maestro Mascagni egli ha imparato a gonfiare le gote, a usare quasi esclusivamente i toni forti, una continua concitata recitativa uso Giordana [sic]; forse la sua vera natura era diversa, ma la “scuola italiana” è stata per decenni avviata su quella via.

Questa interpretazione della «Francesca» è stata delle migliori che ci ha offerto quest’anno il Teatro dell’opera. Belle e “dannunziane” le scene di Santonocito, classica e “trecentesca” la regìa di Enrico Frigerio, magistrale la direzione di Gabriele Santini, la cui bacchetta dispone sia della necessaria concitazione, forza, energia, sia della necessaria morbidezza per condurre in porto la maestosa barca dannunziana. Senza far torto a nessuno, soltanto questi maestri italiani sono capaci di reggersi in equilibrio su queste opposte correnti. Le voci, tutte vigorose e solide, ressero egregiamente al concitato recitativo-arioso di cui parlavamo prima. Floriana Cavalli (Francesca) brillò come protagonista sia per giovanile freschezza di voce, che per bellezza e grazia della persona. Se il dirle che è bella può far progredire una cantante, glielo diciamo di cuore e lo pensavano molti dei suoi ammiratori in sala; ma non prodighi troppo la sua voce, per ora ancora intatta.

Il prodigarsi senza risparmio è lecito solo a Giangiacomo Guelfi, che ci guadagnerebbe a mille volte se frenasse un po’ la sua voce, il numero uno fra le voci baritonali del pianeta. Anche nello zoppicare e mostrarsi sciancato (come Gianciotto) Guelfi non si risparmia, e dà

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il tutto per il tutto. Gastone Limarilli (Paolo), in gran forma quest’anno, sa invece meglio infrenare il suo eccellente organo vocale, che migliora di volta in volta. Ottimo Malabertino [sic] Giovanni Malipiero; Ostasio pieno di stile e di malizia trattenuta il sempre interessante Arturo La Porta; e ora un “bravo” cumulativo a tutti gli altri, e sopratutto alle dolci ed “estetizzanti” ancelle fra cui spiccava per gradevole voce e musicalità Giuliana Raimondi (Biancofiore) da noi lodata in altre occasioni. Forse non è stata una “riscoperta” questa Francesca, per le ragioni dette prima; la bella esecuzione meriterebbe però che la si presentasse, chiudendo la stagione di cui daremo presto il lusinghiero bilancio.

147 E[ttore] Montanaro, Francesca da Rimini di Zandonai, «Il Popolo», 29.5.1960 - p. 9, col. 1-2

Con la rappresentazione della Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai, ultima opera in

cartellone, la stagione lirica nel massimo teatro romano ha termine. Stagione fortunata, per la scelta dei lavori e la bontà delle esecuzioni, che hanno avuto un largo concorso di pubblico pagante. Un cartellone equilibrato, compilato con criteri d’arte e di prudenza dai dirigenti attuali, i quali si sono fatti consigliare dalla loro lunga esperienza maturata al servizio dell’ente le cui sorti sanno tutelare con passione. Nel cartellone infatti erano comprese oltre ad opere appartenenti ormai al comune repertorio, lavori di eccezione, non frequentemente eseguiti e opere nuove per Roma. Tutti questi lavori sono stati allestiti con la maggiore cura, in maniera da soddisfare i gusti più progrediti del pubblico. Le maggiori frequenze sono state registrate dalle opere largamente conosciute, vale a dire dalle opere di repertorio in cui il pubblico ravvisa genuini valori spirituali, che purtroppo vengono negati a certe musiche uscite dalle fucine dell’intellettualismo contemporaneo. È questo un grosso problema che assilla tutti quelli che vivono nel mondo della musica e che noi ci promettiamo di trattare, con maggiore ampiezza, con uno scritto separato. Tempi duri per la musica. Da anni si è determinata una frattura fra essa e il pubblico; frattura che tende ad allargarsi in modo preoccupante. Spetta ai compositori di oggi di porre rimedio per salvare il salvabile. Tutto in arte è consentito. Tutte le esperienze sono indispensabili purché sfruttate per rendere più vitale ed attraente un’opera d’arte. Guai per chi non sappia adeguarsi a questa necessità, alle mutate esigenze e ai nuovi gusti; sarebbe la fine dell’arte e, nel caso nostro, della musica; ma è necessario che i compositori non voltino le spalle alle forze dello spirito. Soltanto per queste vie i rapporti potranno riallacciarsi e ridare al pubblico la fiducia.

*** Sul piano di un allestimento curato in ogni particolare, al quale provvede con mai

rallentata solerzia Giovanni Cruciani, Riccardo Zandonai, per bocca di Floriana Cavalli (Francesca), Gastone Limarilli (Paolo) e Giangiacomo Guelfi (Giovanni), ha fatto riecheggiare ieri sera, nella gremita sala del teatro dell’Opera, le passionali e drammatiche note scaturite dalla viva fervida sua ispirazione.

Il lavoro di rinnovamento del melodramma verista, così felicemente iniziato da Zandonai con la Conchita, assunse un particolare interesse in Francesca da Rimini, dove i segni della personalità del musicista sono inconfondibili17. Alla stesura di quel melodismo squisitamente italiano, il compositore trentino ha saputo associare con felice processo di adeguamento una corroborante sostanza sinfonica. Il melodramma, in tal modo, ebbe nuovo impulso, prese più

17 L'articolista ricicla evidentemente quanto già espresso il 30.3.1949 - cfr. n. 137.

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ampio respiro, e, collocatosi in una linea di singolare nobiltà, assunse forme sognate dall’autore.

Francesca da Rimini è il tipico documento di questo nuovo orientamento del melodramma italiano. Tutto conferisce alla densa partitura un interesse di alto grado. Il musicista, libero da ogni preconcetto, opera liberamente sotto la spinta del suo impulso.

Il maestro Gabriele Santini, concertatore e direttore di elevate prerogative, ha sorvegliato con sentimento d’amore e mente fervida l’esecuzione di un’opera così densa di contrastanti sentimenti, selezionando e filtrando, attraverso la particolare sua musicalità, il contenuto di varia natura contenuto nella partitura. Santini ha potenziato gli elementi drammatici senza mai arrestarli in una morbosità non sentita. Così l’esecuzione è stata sempre tenuta senza sforzo, sopra un piano di chiarezza. Il maestro Conca, naturalmente, gli ha dato braccio forte per il coro.

Floriana Cavalli è stata una protagonista ammirevole per slanci vocali e prestante gioco scenico. L’avvicendarsi delle passioni che tormentano il suo animo è stato reso dall’artista con sentita sofferenza. Bene anche il tenore Gastone Limarilli (Paolo) negli slanci vocali, anche se qualche durezza, a volte, ne ha velato il canto; ma il personaggio è reso con piacevolezza di linee. Magnifico negli atteggiamenti scenici e nelle esplosioni vocali Giangiacomo Guelfi, impetuoso Giovanni lo sciancato. Lydia Marimpietri ha dato respiri appropriati alla tenera Samaritana. Perfido e tagliente Malatestino il tenore Giovanni Malipiero. Armonizzato e bene colorito il gruppo delle donne di Francesca: “Biancofiore”, Giuliana Raimondi, “Garsenda”, Elvira Galassi, “Altichiara”, Vera Magrini, “Donella”, Rosetta Arena. In ottima linea Renato Ercolani e gli altri.

Enrico Frigerio ha regolato la regìa con una elasticità sorprendente di movimenti vigilando con intelligenza le composizioni corali in modo da ottenere felici risultati. Appropriato il gioco delle luci sorvegliato da Alessandro Drago. Bellissime le scene di Carlo Santonocito. Di sorprendente effetto quel fondale al primo atto, dove le chiome degli alberi, appena stilizzati, sfumano con iridescenza di morbidi colori nel cielo velato.

Il successo è stato entusiastico. Il Teatro dell’Opera chiude in bellezza la sua stagione: e non è merito lieve, in tempi tanto difficili.

148 Bruno Boccia, Francesca da Rimini all’Opera, «Paese Sera», 26.2.1963 - p. 9, col. 6-7

Quando qualche anno fa il Teatro dell’Opera riportò sulle scene, dopo un’assenza di circa

vent’anni, la «Francesca da Rimini» qualcuno sentenziò di un “ritorno” a Zandonai. Esagerazioni, indubbiamente, perché ben diverso è il quadro di gusto e di cultura in cui il compositore trentino può essere collocato, al di là di denigrazioni o esaltazioni estremistiche. Proprio in questa prospettiva abbiamo trovato notevole tutto il primo atto di questa «Francesca», nel suo sbocco sinfonico e vocale, sembrandoci incondizionatamente il migliore dei quattro anche se, negli altri, pagine d’ispirazione non mancano. Gli evidenti sprazzi wagneriani non infastidiscono proprio perché non hanno il tono di pedissequa rimasticatura ma perché s’inquadrano in un ben assimilato ambiente linguistico comune. Ciò che soprattutto fa, in questo lavoro, dramma è insito nelle intime strutture della musica: nella sua capacità a creare essa stessa il contrasto continuo tra ritmo veloce e incisivo dell’azione e il necessario indugio lirico in una efficace alternanza di concitazione e stasi. Ed è l’orchestra in primo luogo che accende e conduce la tensione e la sviluppa nelle scene, tagliate con abile intuito teatrale, così come lo scrittore distribuisce la materia del racconto in larghi capitoli. A

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nostro avviso, il pregio maggiore di questa opera è nel vigoroso suo potere descrittivo. Personaggi e situazioni, se non si scolpiscono in una loro individualità inconfondibile, sono però descritti con tratti essenziali e robusti. I personaggi, cioè, non si tramutano in “caratteri” guardati dall’intimo, ma restano “ritratti” dall’esterno. La narrazione della congiura, delle passioni, delle vendette restano così pur sempre quadri e non interpretazioni pur se saldamente congegnati e costruiti in una drammatica teatrale che raggiunge il suo fine di attrazione spettacolare, anche in mezzo a tanta retorica, a una magniloquenza a volte grossolana, a una genericità e indifferenziazione di luoghi espressivi. In realtà il destino di Zandonai si misura con una certa fase dell’autobiografia di una generazione, la nostra ad esempio. Che appunto si apriva alla musica sullo sfondo della famigerata “cavalcata” dell’opera «Romeo e Giulietta» [sic]. «I Cavalieri di Ekebù» già trascinavano in una dimensione mitica la nostra fantasia. «I Quadri di Segantini» ci fornivano una attraente misura sinfonica che ancora non riuscivamo a rapportare con altre reali grandezze. Poi venne la guerra e il silenzio sul nome di Zandonai. Nella nuove prospettive c’imbattemmo in altri nomi, opere e avvenimenti che diversamente incidevano sul presente e sul futuro della musica e dimenticammo Zandonai come presenza viva del nostro tempo. L’edizione di ieri sera è stata piuttosto deludente perché ha sacrificato inutilmente artisti di sicura bravura (come Marcella Pobbe) in ruoli inadatti e si è avvalsa di voci ognuna delle quali mostrava in parte o in tutto aspetti negativi.

149 G[uido] PAN[nain], Francesca da Rimini al Teatro dell’Opera, «Il Tempo», 26.2.1963 - p. 3, col. 7-8

Con la Francesca da Rimini rappresentata ieri al Teatro dell’Opera non si è reso un buon

servigio alla memoria di Riccardo Zandonai. Dell’opera avevamo un grato ricordo che purtroppo è rimasto relegato nel fondo del passato. Dagli agitati residui di antiche impressioni è venuta fuori qualche cosa di confuso ed incerto, non proprio gradevole.

Riccardo Zandonai ebbe il merito di aver superato il momento melodrammatico di Puccini e Mascagni. Vagheggiò l’opera di teatro al di fuori di ogni teoria e preconcetto, ma a modo suo, e ai fervori lirici di quella maniera di cantare, talora esuberante ed enfatica, diede tocchi suoi, con mosse originali e colorazioni nuove.

Nella Francesca da Rimini egli riesce a dare al personaggio dannunziano un accento proprio, anche se un po’ troppo teso e forzato e in Francesca e Paolo suscita una loro vita di sentimento. Quando Francesca dice: «Paolo datemi pace» si sente che in lei vibra qualche cosa di vivo. E quando Malatestino opera il suo turpe maleficio, l’orchestra, torbida come la sua anima, scava dentro di lui quasi a volerne penetrare il mistero.

Della esecuzione offertaci è presto detto: nessuno era a posto. Non era a posto Marcella Pobbe perché alla sua bella voce non conviene una parte come quella di Francesca, in cui ci sono troppo acutezze impervie, troppi strappi di voci e bruschi trapassi; e le dolcezze di canto, che non mancano ed ella modula con toccante delicatezza, si perdono tra i contrasti. Marcella Pobbe ha voce fascinosa e avvincente che non comporta alterazioni e violenze.

Non era a posto il tenore Gastone Limarilli che ha voce potente negli acuti di bel metallo squillante, ma nei suoni di mezzo perde lo smalto ed incrudisce con evidente pregiudizio dell’efficacia espressiva.

Non era a posto il baritono Piero Guelfi che, pur cantando con chiarezza di pronunzia e correttezza di emissione, non ha dato adeguato rilievo alla figura di Gianciotto; allo stesso

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modo che Sergio Tedesco, per altro verso ottimo artista, non è apparso nel carattere del tristo Malatestino. E Amalia Pini (La Schiava) perché l’hanno conciata con quella veste funerea di malaugurio?

Anche nella esecuzione orchestrale, curata del resto con la consueta esperienza dal maestro Serafin, ci è parso di avvertire una tal quale opacità e uniformità: come su tutto l’insieme dello spettacolo sembrava incombere una atmosfera di uggia e di svogliatezza, evidente riflesso del discredito in cui è caduto il Teatro dell’Opera. Cosa che non deve stupire né è difficile darsene ragione. Quando una Istituzione dell’arte diventa strumento d’interessi di carattere a cui l’arte è estranea, quello che Wagner definì unkünstlerisch (non artistico) e poltisch (politico), sulle sorti di questa Istituzione non c’è più da farsi illusioni.

150 R[enzo] R[ossellini], Francesca da Rimini, «Il Messaggero», 26.2.1963 - p. 8, col. 7

La mia predilezione per questa opera di Riccardo Zandonai è a tutti nota: ne ho scritto più

volte ed in varie occasioni per sottolineare, con intemerata fede, quelli che sono i meriti e le caratteristiche di uno spartito, il posto che tali meriti gli hanno assegnato nella storia del melodramma post-verdiano. Non starò a ripetere, dunque, cose note, né a fare il ricalco di giudizi che furono espressi, anzitutto, con amore. Dirò soltanto che, con il passare del tempo, si è vieppiù rafforzata la mia opinione che il teatro di Zandonai, e la «Francesca da Rimini» in particolare, è, nel prestigio della tradizione dell’opera tipicamente italiana, la espressione di un processo evolutivo assai importante, sia dal punto di vista del sentimento, sia come aspirazione poetica. Un teatro che, verdianamente, si fonda sul canto e poi persegue un ideale che risolva in senso unitario l’impostazione sinfonica della partitura. Zandonai ebbe inoltre il raro dono della personalità: inconfondibile è il suo colore armonico, sua e non di altri la maniera di concepire e di risolvere sul piano espressivo il canto, che nasce dal rispetto della prosodia, dal valore delle parole, dal significato di una poesia. «Francesca da Rimini» è inoltre l’opera che ci offre alcune cose che sono nutrimento di un animo aperto alla musica: con la melodia del violoncello conclusiva del primo atto si conclude anche l’era della melodia. Dopo di questa non ne abbiamo sentite altre, nel senso pieno della parola, purtroppo. Il profumo del paesaggio, il sentimento della terra, gli abbandoni agli imperituri desii dell’amore, l’interiorità stupendamente rivelatrice dei vari caratteri dei personaggi, sono dell’opera attributi che il tempo rafforza e ravviva. E da questa musica, poi, balza il ritratto del compositore nel significato umano e del rapporto sociale: l’uomo dolcissimo e generoso, l’artista amante della solitudine e della contemplazione, l’amico sollecito e fremente di affetti verso tutti coloro che al suo talento, al suo cuore chiesero consiglio e protezione.

Opera di grande impegno interpretativo la «Francesca da Rimini», irta di problemi espressivi delicatissimi, ricca di intenzionali equilibri ai quali non si può rinunciare se non con grave danno dell’opera. Appena due anni fa18 ne ascoltammo una esecuzione, nello stesso teatro, che commosse tutti e trascinò al più alto grado dell’entusiasmo il pubblico. Nonostante la presenza suggestiva di Tullio Serafin, il suo grande sapere, la duttilità ancora oggi sorprendente del suo modo di “accompagnare” i cantanti, la odierna edizione era assai lungi dal concorrere produttivamente ai valori reali della partitura. Con profonda amarezza ed ansia legittima si guarda ai pericoli che sovrastano un teatro d’opera, quando per forza si viene meno ai valori che lo giustificano e lo perpetuano. Parafrasando una storica frase, io mi

18 In realtà tre.

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permetto di dire con romanesco buonsenso, ed anche indispensabile bonomia, «Ora che si sono fatti gli organi statutari, bisogna fare rapidissimamente il teatro» che è quel che conta. Il teatro che è un tutto unitario dell’arte, con sole finalità artistiche: la musica dal punto di vista vocale e strumentale, la parte scenica, il concorso di ogni elemento, nessuno escluso, che sia non complementare ma implicito alle necessità dell’opera d’arte. lavorando fin da adesso, senza perdere un solo giorno di tempo, perché, come è sempre stato dall’alba del teatro lirico, le stagioni si preparano almeno con un anno di anticipo. Altrimenti è, fatalmente, l’improvvisazione: e dalla improvvisazione, nonostante l’esperienza di cui uno può godere, non si costruisce solidamente ed in profondità.

Chiedo venia per queste accorate parole, che sono quelle di un vecchio galantuomo che non viene meno, anche se gli costa amarezza, al suo dovere di dire la verità. Per la cronaca si ripetono i nomi degli interpreti principali: Marcella Pobbe, protagonista, Gastone Limarilli, dalla bella voce e la lodevole dizione, Piero Guelfi, Sergio Tedesco, Giuseppe Reggiani, Rina Malatrasi. Regìa di Riccardo Moresco, il coro istruito da Gianni Lazzari. Ha suonato, con garbo e caldo fraseggio, il famoso “a solo” dell’atto primo il violoncellista Giuseppe Granolini. [sic]

151 G. Sciacca, “Francesca da Rimini” all’Opera, «Il Quotidiano», 26.2.1963 - p. 7, col. 3-4-5

Mentre per alcune opere del teatro musicale (ed anche d’arte in genere), che sono

evidentemente opere d’arte in senso assoluto, il passare degli anni è come un vaglio che ne arricchisce i pregi e ne mette sempre in maggior evidenza la bellezza, per altre, viceversa, ogni anno che passa sembra arrugginirne gli splendori. Se alcune pagine, in questi casi, restano sempre valide e sopravvivono al tempo perché in esse vi è il meglio di ciò che il musicista poteva dare, altre vengono irrimediabilmente offuscate, come coinvolte nel dilagare di una macchia d’olio che ha il suo epicentro nel peccato d’origine insito nella mancanza di una ispirazione sufficiente a reggere l’entità dell’assunto drammatico prescelto.

Le pagine valide, quindi, vengono ad essere più ristrette ad ogni ripresa, ad ogni riproposizione che si fa dell’opera, mentre il ciarpame che fa, sia pure abilmente, da riempitivo nel lungo procedere dello svolgimento drammatico appare via via sempre più vasto ed irrimediabilmente rumoroso e vacuo.

Queste le impressioni più immediate riascoltando la «Francesca da Rimini» di Riccardo Zandonai, ieri sera all’Opera.

Riccardo Zandonai fu musicista di spontanea vena lirica, nutrito di salda scuola, attento assimilatore delle correnti musicali straniere maggiormente accreditate del suo tempo: da Wagner a Strauss, a Debussy. Assimilazioni che fioriscono stranamente su di una pianta le cui radici affondano, spesso troppo chiaramente, nell’originario nutrimento attinto con evidente spirito aperto alla scuola di Mascagni. Ma tutto ciò non basta, è ovvio: il mestiere non sarà mai sufficiente a creare l’opera d’arte.

Così, nella «Francesca», il maggior merito di Zandonai resterà sempre quello di aver saputo cogliere le sfumature più liriche del dramma dannunziano, ma egli restò fuori del dramma vero e proprio. Per questo le pagine migliori dell’opera resteranno sempre quelle del primo atto e del terzo. Nel primo atto Zandonai ha colto in maniera squisita la fresca poesia ambientale legata alla vita di corte che circondava una fanciulla del rango di Francesca, esprimendola mirabilmente nel coro gioioso delle Ancelle: si tratta di un quadretto deliziosamente canoro. Le voci hanno lo scintillio della felice giovinezza. L’atto si conclude

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in fremiti di delicate armonie che stanno ad esprimere i mille stupori dell’animo di Francesca, dapprima turbato dall’imminenza dell’incontro atteso, ignoto ancora, che deciderà della sua vita di donna, poi vinto, già inondato dall’amore che lo soverchia subitamente all’apparire di Paolo.

Nel terzo atto la scena ambientale si ripete, pur se offuscata ora dai tristi presentimenti di Francesca, con i canti e le danze improvvisati dalle fanciulle per festeggiare il Calen di maggio [sic]. Il soffio lirico acquista quindi proporzioni più ampie nel duetto d’amore che chiude l’atto.

Da quanto detto si dovrebbe concludere con l’affermazione, per molti forse troppo azzardata, che queste si ritengono le pagine della «Francesca» che saranno perennemente vivificate per quel soffio di gentile poesia che le anima, mentre che, per il resto dell’opera, non si può fare a meno di presagire un sempre maggior invecchiamento che si denuncerà inevitabilmente ad ogni sua nuova riproposizione.

La direzione del Maestro Serafin è risultata valida e pregna di entusiasmo. Egli ne ha sorretto efficacemente ogni pagina.

Marcella Pobbe è stata una protagonista di grande venustà, oltre che brava cantatrice. Misurato ed intenso Gastone Limarilli nelle vesti di Paolo. Bene armonizzato il quartetto delle Ancelle formato da Maria Luisa Barducci (Biancofiore), Elvira Galassi (Garsenda), Anna di Stazio [sic] (Altichiara) e Anna di Rocco (Adonella). Entro i limiti di un corretto apporto la prestazione di Rina Malatrasi (Samaritana), Piero Guelfi (Giovanni lo sciancato), Sergio Tedesco (Malatestino), Amalia Pini e Giuseppe Reggiani. Buona la regìa di Riccardo Moresco.

152 Nino Piccinelli, Francesca da Rimini, «Momento Sera», 26-27.2.1963 - p. 5, col. 1-2-3

L’elemento drammatico-rappresentativo è presente in tutte le opere di Riccardo Zandonai,

ed in particolare nella Francesca da Rimini, dove il realismo di taluni episodi e l’accesa e appassionata poesia di altri sono resi con grande rilievo sonoro, con incisiva tematica che ben disegna i personaggi: la trama armonica – di raffinata fattura – trova nella tavolozza strumentale colore e calore attraverso una realizzazione timbrica perfetta, equilibrata e sempre aderente alla condotta del canto o dell’azione.

La sostanziale natura del sinfonismo di Zandonai tende allo sviluppo d’intenzioni descrittive – si ascolti, ad esempio, il 2. atto – che mirano alla creazione di un ambiente e alla rappresentazione e alla illustrazione di un’azione, ma tale sinfonismo, di chiara attitudine teatrale, non è mai in conflitto col dramma musicale. Il compositore trentino riesce a tradurre musicalmente le due “note” che dominano la tragedia: la ferocia medioevale e la sensuale soavità degli amori: quest’ultima soprattutto egli ha saputo trasfigurarla e, in certo qual modo, vanificarla in un superiore gusto dell’arcaico e del prezioso.

A quella prepotente minoranza musicale “ufficiale” che ancora si adopera per impedire la giusta affermazione del teatro di Zandonai ricorderò quanto ebbe ad affermare Ottorino Respighi: «Zandonai è tra le maggiori personalità artistiche dell’Italia; il suo nome, popolare in patria, tiene alta, nel più vasto e combattuto mondo del teatro lirico, l’insegna del melodramma italiano che, rinnovantesi alle fonti della musica sinfonica, rimane saldo sulle nostre sicure tradizioni della melodia e del canto».

La Francesca da Rimini è tornata ieri sera sulle scene del Teatro dell’Opera in una esecuzione curata con grande amore da Tullio Serafin. La non facile partitura ha trovato nella

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inesauribile forza interpretativa dell’illustre direttore la sua più chiara luce espressiva: intensa e vibrante negli episodi drammatici, trasparente nei momenti di poesia e di abbandono. Marcella Pobbe ha cantato l’amore di Francesca con accorati accenti. La bella voce di Gastone Limarilli – facile nell’emissione, plastica nel timbro, efficace eppur morbida (per naturale colore) nello squillo e nello slanci lirico – ha dato al tessuto cantabile di Paolo un vigore espressivo veramente notevole. (Ma alla bellezza del canto non ha corrisposto una adeguata e felice azione scenica: il cantante ha mortificato l’attore). Buone, in complesso, le prestazioni di tutti gli altri interpreti: da Pietro [sic] Guelfi a Rina Malatrasi, da Sergio Tedesco a Maria Luisa Barducci, Elvira Galassi, Anna Di Stasio, Anna Di Rocco, Amalia Pini, Giuseppe Reggiani, Zagonara, Rolandi, Cesarini e Valentini. Ottimo il Coro istruito da Gino [sic] Lazzari. Non troppo originale la regìa di Riccardo Moresco. Belle le scene di Carlo Santonocito.

Molti gli applausi del pubblico, insolitamente numeroso ieri sera, all’indirizzo degli interpreti alla fine di ogni quadro, ma i più calorosi consensi di simpatia e di stima sono toccati a Tullio Serafin, artefice primo dello spettacolo.

153 Liliana Scalero, La “Francesca da Rimini” di Zandonai – Malgrado le veementi passioni l’opera appare verbosa e a tratti statica e rivela che la vera natura del maestro trentino è essenzialmente sinfonica, «La Voce repubblicana», 26.2.1963 - p. 5, col. 3-4-5-6

Qualcuno lamenta che Riccardo Zandonai sia un semi-dimenticato; diamine, un così ricco

ingegno, esuberante e frondoso, un maestro della istrumentazione e di ogni mezzo espressivo, strumentale e vocale, cui non sono ignote le conquiste dell’impressionismo, di Debussy, di Strauss, a tacere di Wagner; musicalmente pari a un Respighi nel campo dell’istrumentazione, ad un Pizzetti, cui l’accomuna la nobiltà degli intenti (ma purtroppo anche la scarsa inventività melodica). Che manca dunque a Zandonai per rimaner vivo e scuotere ancora il pubblico? E per meritare una dispendiosa riesumazione e messa in scena al Teatro dell’Opera? L’intento è stato nobilissimo. Ci imparano ancora qualcosa i critici e il pubblico, suscita egli problemi, magari fastidiosi, irresolubili, ma vitali?

Diremmo di no. Non si sa perché, alla sua musica così ricca, sapiente, lussureggiante manca qualcosa; le passioni sceniche, così clamorosamente cantate, riescono fredde e non persuadono più né i dotti né gli ingenui. Paolo e Francesca, la Romagna dei signorotti e dei Guelfi e Ghibellini, le ancelle, i giullari, la bertesca, la tazza del ristoro! Tutto ciò, visto e rivisto, sfruttato da d’Annunzio, da Sem Benelli, da Berrini, da Pizzetti e Respighi anche, dai souvenirs di Firenze, lascia terribilmente freddi, non è più arte, è sfruttamento turistico trecentesco. Daremo la palma a Gioacchino Forzano per averci dato nello «Schicchi» una Firenze spiritosa, agile, che fa ridere e diverte. Francesca e Paolo, Gianciotto e Malatestino non ci persuadono più. Torna di moda il liberty e la belle-époque, non tornerà la riesumazione turistica del 1914 (anno della «Francesca») fino al 1926-30 circa.

La colpa qui (sembra eresia il dirlo) è, come spesso oggi, più nel libretto che nella musica. Il libretto è stato rielaborato da Tito Ricordi nel dramma dannunziano. Siamo un poco studiosi di Casa Ricordi. Con l’avvento di Tito nel nuovo secolo cadde un poco la simpatica atmosfera risorgimentale della vecchia Casa, e Tito Ricordi il giovane ci portò il gusto dannunziano e benelliano nel senso deteriore. Malgrado veementi passioni, la «Francesca» di Zandonai, lunga e verbosa nei suoi quattro atti, risulta anche statica. D’Annunzio stesso, absit

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injuria verbis [sic], non era nemmeno lui un grande nome di teatro, ma piuttosto un grande lirico, un poeta.

E Zandonai è, nel caso migliore, un notevole pittore di maestosi ed estetizzanti affreschi musicali, in cui dimostra innegabile maestria. Ciò risalta soprattutto al secondo atto, mentre dolciastre appaiono le scene di Francesca con le ancelle dai “poetici” nomi. Un momento di commozione lo raggiunge la fine del primo atto, con la presentazione di Paolo, cui Francesca, già innamorata, porge una rosa. Belli sono gli interludi, le musiche di scena, anche se modernizzate, e confermano che “Zandonai, come tanti moderni, non era più operista, ma un sinfonico. Da ciò la rapida decadenza del melodramma italiano dopo Puccini. E ora è, in tutto il mondo, in fase “sperimentale”.

Siamo troppo severi con la musica del maestro trentino che non manca di bellezze, ricca di “calore latino” anche se tutta esteriore?

Il pubblico decretò caldi applausi a quest’opera eminentemente spettacolare, un vasto affresco trecentesco, ma pensiamo che fossero rivolti in primissimo grado a Serafin che ha diretto, fuso, trascinato l’orchestra, interpretato lo spartito con appassionata persuasione. Dal lato vocale Zandonai chiede soprattutto vigore, un canto spiegato, anche se un poco strumentale, e grandi voci che non temono le arrampicate e gli scoppi generosi. In questo clima bisogna nominare anzitutto Piero Guelfi, magnifico baritono ed efficace attore (un vero “signorotto” italiano) che in quanto a voce dà quasi dei punti al suo omonimo, ed è tutto dire. Scena misurata, virile, che ci piacque. Misurato, anzi perfino un po’ statico, il bel Paolo, uno dei fratelli del generoso Gianciotto, cui Gastone Limarilli prestò la sua solida voce e il suo elegante aspetto. Il Malatestino di Sergio Tedesco ci parve quel che i francesi chiamano outré, cioè a forti tinte.

A questo bravo attore stan meglio le parti di caratterista. Marcella Pobbe non fa mai sensazione, ma fa sempre bene vocalmente; la sua Francesca era però troppo “lamentosa” nell’espressione, e l’attrice è inferiore alla cantante. Tutte le parti femminili parvero troppo “dannunziane”, smancerose, meno Amalia Pini (la schiava), voce ormai rovinata ma in fondo suggestiva e forte temperamento drammatico che abbiamo sempre ammirato. Eccellenti i due, diciamo così, paraninfi, Giuseppe Reggiani nella parte di Ostasio fratello di Francesca, che affretta il matrimonio, e ser Toldo Berardengo (Adelio Zagonara). Buona regìa “a tutto tondo” di Riccardo Moresco, aiutato dai soliti bravi Alessandro Praga e Giovanni Cruciani, e scene italianissime di Carlo Santonocito.

Cori poderosi, in armonia con la musica spiegata, a tutt’effetto, di Zandonai, ma (bisogna ripeterlo) le musiche sulla scena sono raffinate, deliziose, il meglio dell’opera.

154 e[rasmo] v[alente], Francesca da Rimini all’Opera, «L’Unità», 26.2.1963 - p. 7, col. 6

Con la Francesca da Rimini , ripresa ieri dal Teatro dell’Opera, celebriamo insieme quel

che poteva essere l’ottantesimo compleanno di Riccardo Zandonai (1883-1944) e l’esuberante giovinezza del musicista che intorno ai trent’anni (l’opera risale al 1914) si confermava compositore con tutte le carte in regola, anche per qual che riguarda una sensibile autonomia musicale nei confronti del dannunzianesimo obbligato.

La partitura cioè (il libretto è tolto dall’omonima tragedia di D’Annunzio) non tanto trae alimento dall’esteriore preziosismo del testo poetico, quanto dalla corpulenza musicale di un Wagner-Strauss-Debussy non ostile, peraltro, a certi richiami melodrammatici provenienti da Leoncavallo e da Mascagni. Ma quel che conta è anche questo: l’innocenza affiorante spesso

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nei primi tre atti dell’opera viene poi sovrastata e riscattata dal vigore drammatico, tutto musicalmente espresso, dei due quadri dell’ultimo atto.

L’opera si è avvalsa della vivificante concertazione e direzione d’orchestra di Tullio Serafin, del tutto svincolata dalla convenzionale routine del palcoscenico, spesso fatale all’estro interpretativo di Marcella Pobbe, dolcissima e limpida, di Gastone Limarilli, vocalmente apprezzabile, di Piero Guelfi, eccessivamente tuonante. Di rilievo la partecipazione di Sergio Tedesco (ottimo Malatestino). Tra le eleganti scene di Carlo Santonocito si sono via via affermati anche gli altri: Rina Malatrasi, Maria Luisa Barducci, Elvira Galassi, Anna Di Stasio, Anna Di Rocco, Amalia Pini, Giuseppe Reggiani, Guido Rolandi, Adelio Zagonara, Athos Cesarini, Fernando Valentini.

Pubblico plaudente, innumerevoli le chiamate agli interpreti tutti.

155 En[nio] Mont[anaro], “Francesca da Rimini” al Teatro dell’Opera, «Il Popolo», 26.2.1963 - p. 9, col. 5-6

In questi ultimi anni la «Francesca da Rimini» è apparsa varie volte sul palcoscenico del

Teatro dell’Opera; l’ultima rappresentazione risale infatti a tre anni fa. Anche altre opere di Zandonai vi sono state comprese nei cartelloni del grande teatro romano, se pure più di rado.

Questo implicito riconoscimento dell’importanza di Riccardo Zandonai ci trova del tutto consenzienti, poiché il musicista trentino è stato tra le più forti personalità apparse in questo secolo nel campo del teatro lirico italiano e la «Francesca da Rimini» è per unanime consenso la sua opera più importante, anche se le preferenze dell’autore andavano invece a «I cavalieri di Ekebù».

Con la «Francesca da Rimini», composta sul testo originale della tragedia dannunziana, ridotto da Tito Ricordi (però la scena tra Paolo e Francesca nel terzo atto venne, su richiesta del Ricordi e del compositore, alquanto modificata dal poeta, che ne tagliò alcune parti ed altre ne aggiunse, tra cui il lungo brano affidato a Paolo), con la «Francesca», dicevamo, Zandonai compì la tappa più importante nel cammino iniziato quattro anni avanti con la «Conchita», per giungere ad una forma di melodramma più aggiornata di quella allora imperante (nel 1914, in Italia, dominava ancora l’opera verista), una forma che tenesse conto delle conquiste armoniche e strumentali che la musica aveva conseguito soprattutto fuori d’Italia. La solida preparazione, ma soprattutto la ricca fantasia consentirono al musicista trentino di foggiare un linguaggio melodico certo inconfondibilmente italiano, ma anche ben personale, e di unire ad esso un’orchestrazione ammirevole per calore e per forza, che sostiene con la massima efficacia le voci e determina intorno ad esse l’atmosfera necessaria, come ad esempio nella scena tra Gianciotto e Malatestino nella quale è soprattutto il serrato e ponderoso battito ritmico dell’orchestra – per usare le assai felici parole del Pannain – a dare al quadro la sua fosca tinta drammatica. L’orchestra assume poi il ruolo principale; in altri momenti, tra i quali il finale del primo atto, dove mentre Paolo e Francesca, incontrandosi, si guardano in silenzio, da essa scaturisce una frase calda e vibrante, ad esprimere la passione che travolgerà i due protagonisti. Questa frase ritorna poi nel momento culminante del duetto del terzo atto, in cui, nella continua tensione lirica, l’amore tra i due cognati appare come qualcosa di inarrestabile e fatale, che, con un impeto crescente, ha ragione di ogni ostacolo. Anche la scena precedente tra Francesca e le ancelle è leggiadra, ma intrisa di una presaga malinconia.

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Questo duetto del terzo atto è certo il punto più alto dello spartito, insieme con la già ricordata scena tra Gianciotto e Malatestino, d’una potenza drammatica che, a nostro avviso, non ha riscontri nel melodramma italiano post-verdiano.

Certo l’opera ha delle manchevolezze e dei punti deboli, come il secondo atto, nel quale la musica, pur nelle sue potenti sonorità, raggiunge uno scarso potere emotivo, così che l’agitata scena di battaglia, che in tale atto si svolge, lascia un senso di freddezza nell’ascoltatore. Del pari si può dire che nella scena finale, che conclude tragicamente la cupa vicenda, il musicista non è stato sorretto da un’adeguata ispirazione. Difetti innegabili, ma che non impediscono, a nostro avviso, di affermare che la «Francesca» è tra le opere più personali e vive che siano apparse in Italia nel secolo presente.

Ha diretto ieri sera il maestro Tullio Serafin e le policromie della partitura sono state da lui illuminate con grande efficacia. La sua direzione, sempre penetrante ed energica, è stata ammirevole soprattutto nelle pagine più drammatiche nelle quali ha infuso un calore ed una veemenza entusiasmanti.

Il coro, guidato dal maestro Gianni Lazzari, ha sostenuto egregiamente la sua parte. Marcella Pobbe, nella sua alta statura e nel suo maestoso portamento scenico, era

l’incarnazione ideale della figura di Francesca qual è delineata in alcuni versi che nella tragedia sono posti in bocca ad Ostasio (omessi però nel libretto). Artista di limpida voce e di fine musicalità, la Pobbe ha cantato con soavità ed eleganza rare le melodie più spianate e dolci, mentre, nei passi di più tesa tragicità, non è riuscita sempre a trovare la vibrazione necessaria.

Gastone Limarilli, con i suoi slanci canori e le sue squillanti note acute, ha dato uno spiccato rilievo al personaggio di Paolo. In qualche momento, lo sforzo (si tratta d’una parte assai faticosa) ha velato lo smalto della sua voce, ma ciò non sminuisce il valore della sua interpretazione, notevolissima sia per l’efficienza vocale che per l’efficace espressività.

Piero Guelfi ha sostenuto con intelligenza e misura il ruolo di Gianciotto. Ponendo il massimo impegno, è riuscito quasi sempre a superare le difficoltà di una tessitura assai gravosa, di cui, nel complesso, ha sostenuto con bravura il peso.

Un eccellente Malatestino è stato Sergio Tedesco, sia per la voce chiara ed estesa, sia per gli atteggiamenti sottilmente subdoli. Bene anche Amalia Pini quale Smaragdi. Le ancelle di Francesca quasi tutte a posto. Rina Malatrasi è stata una Samaritana accorata e tenera e Giuseppe Reggiani un Ostaro [sic] di grande vigorìa.

La regìa di Riccardo Moresco è stata abile e sciolta, ma ha adottato talvolta delle soluzioni arbitrarie. Un vivo elogio meritano invece le scene di Carlo Santonocito. La prima, ariosa e luminosa, le altre, fosche e pesanti, tutte perfettamente intonate alla vicenda ed alla musica. Bellissimi anche i costumi. L’allestimento scenico è stato curato con i soliti, efficacissimi risultati da Giovanni Cruciani.

Pubblico assai numeroso, successo vivissimo.

156 Teodoro Celli, “Francesca da Rimini” è ritornata all’Opera, «Il Messaggero», 17.12.1975 - p. 9, col. 3-4-5-6 (con una foto di scena: un momento del III atto)

Nel ritrovarsi improvvisamente davanti alla Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai, su

testo di D’Annunzio ampiamente sfrondato da Tito Ricordi (l’opera apparve a Torino nel 1914, e mancava dal nostro Teatro da dodici anni), tre sono le osservazioni che vengono dapprima alla mente: che l’aver ricordato con questa edizione dignitosa il nome del

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compositore trentino è un atto di giustizia; che il “clima” di questa musica, laddove essa vale, è assai meno aderente al testo d’annunziano di quanto non sia stato detto a suo tempo; e che il testo stesso del poeta abruzzese, per quanto se ne percepisce attraverso la trascrizione cantata, appare oggi difficile da sopportare. Locuzioni come «bisogna manganare una botte», «la vostra temenza», «le sposalizie», «frate, datemi licenza ch’io gli tagli la gola», inducono francamente al sorriso. Diversamente che con la rupestre Figlia di Jorio, qui D’Annunzio inclinava diggià verso Sem Benelli, verso i drammi del “fresco dugentesco”, ed altre sciagure letterarie.

Ma, come si diceva, il buon Zandonai non sempre si lasciò irretire dai succhi degli alambicchi d’annunziani: per sua fortuna. Già Puccini aveva lasciato cadere la collaborazione col Vate, più volte ventilatagli, e aveva consapevolmente scritto: «No, no! Troppa distillazione ubriaca: e io voglio star saldo sulle gambe». Zandonai, forse non con altrettale consapevolezza ma comunque per spontanea vocazione d’un animo sensibile e d’un ingegno pieno di buona salute, evitò spesso i pericoli; non sempre. Alle parole “difficili” e al “dugento” del Vate rese ossequioso omaggio di parole musicali che allora erano inconsuete: echi di gregoriano; frequenza del modo minore, e in esso di accordi diminuiti o alterati; frammenti di scala esatonale. Rese ancora omaggio con gli stornellamenti e le pifferate d’un falso medioevalismo: e tutto ciò è la parte caduca dell’opera, quella che noi sentiamo come fortemente “datata”.

C’era poi lo Zandonai naturalmente portato al lirismo, sull’onda delle esperienze del verismo melodrammatico che gli derivavano dal Mascagni, è questo che oggi ammiriamo, è questo il compositore – anche forte e abilissimo orchestratore – a cui è stata resa giustizia. Gli impasti strumentali della Francesca possono richiamare la densità wagneriana; ma è richiamo del tutto esteriore.

In realtà, nell’orchestra del compositore trentino è assente il sinfonismo: primeggia sempre l’espansione melodica, liricamente accesa, appassionata senza misticismi, perfino sanamente popolaresca. Inutilmente Paolo declama: «Nemica ebbi la luce, amica ebbi la notte»; egli non arriva ad accreditarsi come fratello italiano del nittalopo Tristano.

Sorgono così, dall’émpito lirico, le pagine più ispirate giustamente famose: l’estatico finale primo con l’ammaliante frase della “viola pomposa” (normalmente eseguita sul violoncello), che rimarrà poi in tutta l’opera quale struggente “tema di Paolo”; e il lungo duetto del terzo atto fra Paolo e Francesca, concluso dal bacio fatale; è la scena ultima, dove l’amore fra i due colpevoli cognati è già musicalmente intinto del presagio di morte. Ma nella Francesca il trentenne Zandonai rivela anche una capacità di accentuazione drammatica che poi non ritroverà se non a tratti. Ed ecco il tema ruvido e claudicante che scolpisce Gianciotto; ecco l’ardente scena della battaglia; ecco soprattutto la prima scena del quart’atto: capolavoro di forza tragica. Il torbido delirio di Malatestino dall’Occhio, il terrore di Francesca, il lamento del prigioniero Montagna dei Parcitadi ch’è sul punto d’essere sgozzato; l’improvvisa accensione della gelosia assassina di Gianciotto: tutto è stretto dal musicista in un nodo d’accenti e di declamati e di cupi timbri strumentali, tale da indurci a evocare il nome di Verdi.

Il Teatro dell’Opera, intenzionato a onorare Zandonai, ha saputo, pur nelle difficoltà in cui si dibatte, allestire una edizione dignitosa della Francesca, soprattutto per merito di Oliviero De Fabritiis, che vi ha profuso tutta la sua lunga esperienza, ottenendo, specie al terzo e al quart’atto, risultati apprezzabilissimi. Abbiamo ammirato l’ardente fraseggio di Ruggero Bondino (Paolo) e l’imponente vocalità, giustamente aggressiva, che Giangiacomo Guelfi ha dato a Gianciotto; entrambi gli interpreti sono stati apprezzati anche per l’incisiva dizione. Non così Ilva Ligabue, per la quale la parte di Francesca è spesso troppo fortemente

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“drammatica”; e la Ligabue è soprano dolcemente lirico. Nelle scene di più distesa cantabilità, dunque, ella s’è fatta apprezzare, anche se la sua dizione è sembrata costantemente misteriosa e incomprensibile. Un vivo elogio va tributato a Manlio Rocchi per la convulsa, stralunata e guizzante raffigurazione vocale e scenica di Malatestino. Quanto agli interpreti “minori”, piacerebbe poterli lodare; ma in coscienza non è possibile. L’Opera, ahimè, fra i tanti suoi problemi ha anche quello di dover rinnovare la compagnia dei comprimari.

Il coro se l’è cavata. Di normale amministrazione le scene di Lorenzo Ghiglia. Quanto alla regista Margherita Wallmann, chiamata all’ultimo momento, dobbiamo dire che ha saputo comporre quadri e movimenti di grande efficacia. Ma quell’abbandonarsi di Francesca distesa sul letto, e “disponibile” dopo che Paolo le aveva baciato la bocca, tutto tremante! Dice Dante: «Galeotto fu il libro e chi lo scrisse: quel giorno più non vi leggemmo avante». Perché i due cognati smisero di leggere? Che avranno fatto mai? D’Annunzio e Zandonai, dopo il bacio, hanno fatto calare il sipario; la Wallmann ha voluto additare smaccatamente quel talamo ch’era meglio lasciare alla pura fantasia dei non del tutto ingenui spettatori.

157 Guido Pannain, L’intimo segreto di Paolo e Francesca – Zandonai pare voglia strapparlo alla parola, anche quando questa tace – L’esecuzione orchestrale contribuisce a dare plastica evidenza al senso espressivo – Gli interpreti, «Il Tempo», 18.12.1975 - p. 9, col. 4-5-6-7 (con una foto di scena del III atto con R. Bondino e I. Ligabue)

Riccardo Zandonai può ritenersi il rinnovatore dell’opera in musica italiana, non attratto

dal miraggio di una rivoluzione radicale ma nel senso del melodramma, ricevuto da lui quale spirituale eredità, che egli non sovvertì e sconvolse bensì secondò dandogli figurazione di cosa nuova, e la struttura ne arricchì di un ampliamento sinfonico penetrato da eleganze armoniche germogliate da una sensibilità nuova. È il moderno che, per virtù di poesia, si concilia con la tradizione. Una partitura di Zandonai racchiude in sé intime colorazioni che le danno spirito e forma.

La Francesca da Rimini, per quanto non faccia dimenticare alcune mirabili pagini di Conchita, è la sua opera meglio riuscita anche, se non soprattutto, per la presenza della tragedia dannunziana spirante recondito fascino di suggestive armonie dantesche («...mi prese del costui piacer sì forte che, come vedi, ancor non m’abbandona»). Zandonai ebbe la ventura di mettere in musica un libretto, se pure convenga di adoperare ancora questa brutta parola, d’eccezionale elevatezza. Egli captò l’accensione del verso dannunziano e pare che la sua musica scaturisse addirittura da esso. Un sogno di poesia divenuto realtà musicale. È come il profumo di un fiore. Inghirlandata di violette s’imperla di un fraseggio melodico che già sembra effondersi dall’articolazione delle sillabe. Non lo diresti musica aggiunta alla parola, ma la parola stessa risorta in musica.

Le voci di Paolo e Francesca, alla lettura del libro che fu «galeotto», cantano il loro intimo segreto. Quel giorno più non vi leggemmo avanti, ma essi vi lessero la musica dei loro cuori che li condurrà ad «una morte». Il nome di Paolo («Paolo datemi pace») risuona di continuo dalle labbra di Francesca: frammenti d’intima commozione con un lento trascinarsi di voluttà mal repressa. Vi è nella musica il tremito di un cuore che batte e si trattiene dal rivelarsi per ragioni che sono il segreto della poetica intuizione della concezione dannunziana. La musica di Zandonai pare che voglia strappare quel segreto alla parola anche quando questa tace nascosta in un magico velo.

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Il confidare sulle impressioni destate dalla prova generale della Francesca da Rimini offerta al Teatro dell’Opera condurrebbe la critica su falsa strada, tanto quella prova fu approssimativa e incompiuta perché gli artisti, per la fretta della preparazione, si risparmiarono tanto dallo sviare dalla precisione di un giudizio. Coloro che si mostrarono indignati di quella esecuzione mancata e che non poteva considerarsi come tale mostrarono di non rendersi conto della realtà. Per farsi un’idea giusta della esecuzione dell’opera di Zandonai era dunque indispensabile assistere alla rappresentazione compiuta in ogni senso.

Prima di tutto ha conferito a dare plastica evidenza all’intimo senso espressivo della musica di Zandonai e della sua lirica intimità l’esecuzione orchestrale a preferenza di quella vocale per merito della approfondita concertazione del maestro Oliviero De Fabritiis. A lui si deve il tono concentrato e commosso dell’orchestra, specialmente al primo atto, portatrice d’intimi sensi di commozione. E merita di essere ricordato il contributo del violoncello solista Giuseppe Gramolini che con la vibrante sua corda ha conferito a suscitare quella atmosfera di rapimento che avvolge come un incantesimo il finale del primo atto. Paolo offre in silenzio a Francesca il fiore che l’invita a nozze [?] ma tutto parla per lui attraverso il blando muoversi delle figure sceniche disposte con incantevole armonia dalla ispirata regìa di Margherita Walmann. [sic]

Mi è sembrato che Ilva Ligabue non sia la più indicata a rendere vocalmente e scenicamente il personaggio di Francesca del quale la compianta Gilda Dalla Rizza (la Gildina di Puccini) aveva fatto una creazione. Le manca anzitutto la omogeneità vocale necessaria a scolpire melodicamente nel suono il fraseggiare del canto che la sillaba trasfigura e ravviva e non ha la suggestiva imponenza dantesca della figura di Francesca. Il suo canto scarso nei registri medi e gravi si frantuma in sbalzi che non consentono unità di legature. Nel duetto del terzo atto è mancata quasi del tutto.

In una superiore sfera artistica, il tenore Ruggero Bondino, dal bel timbro vocale e in commossa evidenza di colorazioni espressive. Inghirlandata di violette ha trovato nel suo canto lo smalto del puro vibrare che ricerca in musica l’affascinante palpitare del verso dannunziano.

Mi ha commosso l’incontro, dopo tanti anni, con Giangiacomo Guelfi che tenni a battesimo quando venne al mondo dell’arte. Si direbbe che per lui gli anni non passino: sempre poderoso di voce, incrollabile nell’accentuazione furente della parte di Gianciotto che sembra scritta per lui. Gli è stato bene accanto Manlio Rocchi (il vile Malatestiano) [sic]. Vanno anche ricordati Paolo Mazzotta (il giullare), Nino Carta (Ostasio), il grazioso quartetto delle ancelle (Gianna Lollini, la Onesti, la Barbini, Scilli Fortunata [sic]) e Corinna Vozza (la schiava).

Nell’insieme, efficacissima la regìa di Margherita Walmann. Bene intonato il coro, pure nella sua breve parte.

158 Gianfilippo de’ Rossi, Opera: in stile Coppedé la “Francesca” di Zandonai, «Momento Sera», 17-18.12.1975 - p. 13, col. 1-2-3

Talvolta accade che illuminando d’improvviso un angolo buio si scopra non diciamo un

tesoro ma qualcosa che non si riesce a comprendere perché sia finita tra i rifiuti. Da premessa vale certamente la Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai – rappresentata ieri sera all’Opera – che da sempre considerata con sufficienza anche da certa critica più avvertita, si è dimostrata invece un’opera piena di vita e perfino di non poco interesse.

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Il problema è questo: che nello schematismo di certe affermazioni nella storia della musica si tende dopo la meteora pucciniana a fare di ogni erba un fascio: e dunque a porre da un lato il “verismo” e dall’altro i pochi musicisti che tentavano eroicamente di rimettere nel grande corso della vita musicale europea la sconquassata e melodrammatica barca della musica italiana.

La Francesca da Rimini dimostra che un simile modo di vedere le cose sia davvero troppo schematico, come del resto dimostra pure l’esistenza negli stessi anni di uno Smareglia o di un Alfano (altri musicisti ingiustamente sottovalutati). Francesca da Rimini partecipa infatti del mondo del melodramma ed in momenti “minori” anche delle mode veristiche ma anche dei tentativi di riportare in Europa la musica italiana. E basti per tutti la scelta del libretto e cioè la utilizzazione dell’omonima tragedia di Gabriele D’Annunzio appena modificata e un poco tagliata da Tito Ricordi e poi quello che sembra lo schema espressivo seguito dal musicista avvicinandosi alla materia teatrale.

Dove la scelta del libretto tra tante cavallerie e pagliacci (stralci astorici di “vita vera”) testimonia la partecipazione ad un mondo culturale assai più avvertito e semmai decadentemente formalista; mentre, proprio partendo dal decadentismo del testo, l’attenzione del musicista sembra soprattutto interessata a cantare le trepide attese di Francesca: attese di amore nei primi tre atti, attesa di morte nella tragica conclusione del quarto. E sono attese, guizzi di sentimento, trepidazioni giovanili per le quali il linguaggio musicale di Zandonai sembra volersi rifare e spesso con risultati di notevole tensione – valga per tutti il finale dell’atto primo davvero straordinario – non certo alla facilona improvvisazione melodica del “verismo” ma piuttosto a un mondo armonico vagamente debussyano intriso peraltro di magistero strumentale e di ferme esperienze compositive di marca tedesca (non sarà neppure un caso che Zandonai fosse nato a Trento allora parte integrante dell’area di cultura tedesca).

In questo senso Francesca è opera francamente “liberty” anche se di un “liberty” un po’ pesante e provinciale e dunque lontano dagli estenuati gesti d’oltre alpe ma anzi un po’ troppo sanguigno e realistico. Il che vale anche per il rapporto con il testo dannunziano che appare vagare in esangui metafore, in raffinate allitterazioni di cui ben altro uso avrebbe fatto il Debussy del Martirio di San Sebastiano, mentre Zandonai finisce col relegarlo un po’ volgarmente al ruolo di mero libretto d’opera assumendone solo vagamente i valori decadentemente letterari ed anzi talvolta tradendo in senso verista – si veda soprattutto il quart’atto con la delazione del perfido Malatestino al marito tradito e con l’uccisione dei due amanti da parte di Gianciotto – quella ricerca formale (e non drammatica) che è tra le caratteristiche essenziali del testo del poeta pescarese. Insomma un testo contraddittorio questa Francesca ma certamente il documento di un contesto culturale preciso: quello del liberty appunto; anche se di un “liberty” che partecipa più dell’artigianato degli affreschi romani di Aristide Sartorio che della raffinata e fantastica ricerca dei pittori dell’“art nouveau”.

Proprio questo rapporto con il “liberty” provinciale dell’italietta prebellica che ha colto Lorenzo Ghiglia disegnando le scene utilizzate in questa occasione dal Teatro dell’Opera, esemplate sulla grevezza medievaleggiante e piccolo-borghese del quartiere Coppedè piuttosto che sulle linee fantasiose e leggere di un architetto come Gaudi. Nella scelta di queste scene [sta] il primo dato positivo di uno spettacolo che è apparso di buon livello.

Aggiungendosi alle azzeccate scene di Ghiglia una regìa firmata da Margherita Wallmann le cui invenzioni decadenti, una volta tanto non applicate a Donizetti o a Verdi, hanno funzionato benissimo nell’ambito di questa Francesca. Di ottimo livello anche la compagnia di canto incentrata su una Ilva Ligabue (Francesca) vocalmente ottima anche se in scena un po’ meno trepida di quanto musica e personaggio vorrebbero; su Ruggero Bondino, un Paolo

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di eccellenti mezzi vocali, e su Giangiacomo Guelfi ancora in grado di superare col mestiere alcune falle della voce. Il numerosissimo “cast” contava inoltre su Gabriella Novielli (Samaritana), Nino Carta (Ostasio), Scilly Fortunato, Paola Barbini, Maria Gabriella Onesti, Gianna Lollini, Corinna Vozza (le donne di Francesca), Oberdan Traica, Paolo Mazzotta, Pietro Di Vietri e Nino Mandolesi. Manlio Rocchi è stato invece un Malatestino vocalmente fuori ruolo privo com’era di ogni cattiveria e di ambiguità.

Meno liete le note sugli esiti strumentali apparendo il direttore Oliviero De Fabritiis il solito e confuso “routiniere” di sempre: una ripresa interessante come questa meritava un’altra cura musicale. Ma tant’è. Sappiamo benissimo che quest’anno al Teatro dell’Opera non possiamo chiedere più che tanto. Lo hanno detto in una lettera aperta alla stampa anche i funzionari della direzione artistica denunciando come ogni proposta per «impegnare tempestivamente direttori d’orchestra e artisti di chiara fama onde garantire continue presenze prestigiose nella corrente stagione sono state di ripiego dell’ultimo momento» e chiedendo quindi «l’avvento alla dirigenza dell’Ente di persone qualificate e idonee». Che è quanto dovrebbe garantire (almeno speriamo) il nuovo Sovrintendente Libero De Libero ed il nuovo Consiglio di Amministrazione quando sarà chiamato ad eleggere il Direttore Artistico.

Serata comunque con esito felice: chiamate numerose, infatti, per tutti i protagonisti della serata.

159 Patrizia Frisoli, “Francesca da Rimini”, «Il Giornale d’Italia», 17-18.12.1975 - p. 14, col. 1-2-3

Non più in là di quattro o cinque mesi fa si è fatto un gran parlare su giornali e riviste a

proposito della riapertura al pubblico del Vittoriale a Gardone, la casa-museo dove Gabriele D’Annunzio visse, lavorò e morì lasciandovi una quantità impressionante di oggetti d’ogni genere che l’affollano dai soffitti ai pavimenti. Entrandoci, nonostante la presenza di tante significative memorie, si sente mancar l’aria e la cappa di estetismo maniacale che grava sulle cose si rivela eccessiva anche per il più sincero estimatore.

Analoga impressione ha suscitato – a ripensarci – la Francesca da Rimini presentata al Teatro dell’Opera in un allestimento de La Fenice di Venezia. Da un lato le scene firmate da Lorenzo Ghiglia ispirate ad un medioevo filtrato attraverso le esperienze del decadentismo e poi del liberty bloccavano lo spazio scenico con grandi masse a mo’ di fortezza, sia negli esterni che negli interni di Rimini e di Ravenna, grigie, ingombranti, severe; dall’altro la regia di Margherita Walmann [sic] si impegnava a riempire tutti quegli spazi in maniera a volte opprimente sia con un continuo via vai di fanciulle, per una scalinata avvolgente del palazzo dei Da Polenta, sia con gli uomini in arme del secondo atto, in una scena in verità assai efficace di saette dardeggianti, balestre e catapulte, sia nelle stanze di Francesca in cui le donzelle del seguito non trovano pace neppure negli insignificanti lavori di ricamo o nella lettura di libri “galeotti”.

Indubbiamente quest’opera, scritta da Riccardo Zandonai nel 1914 su libretto di Tito Ricordi da D’Annunzio, risulta ai giorni nostri notevolmente datata portando su di sé l’impronta di un verismo che, pure ad aprirsi a nuovi orizzonti, è ancora vincolante – anche se non in maniera eccessiva – nell’uso di suggerimenti antichizzanti, come la iniziale serenata del cantastorie, le carole intorno alla promessa sposa, i vaghi accenni al gregoriano.

Accanto a questo aspetto giganteggia per fortuna il gusto strumentale di Zandonai, il suo amore per gli effetti coloristici e l’abilità nell’uso dei temi che non ha – come lui stesso

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diceva – «una vera importanza psicologica ma corrisponde piuttosto ad un sistema di ripetere e riprodurre elementi ritmici durante lo sviluppo del lavoro per far sì che all’opera ne derivi una più chiara unità di stile».

Abbiamo ammirato il suadente tema di Francesca [?] nel primo atto introdotto dal violoncello e dal mandolino e dall’oboe e quello maestoso della guerra che accompagna poi ogni apparire di Gianciotto, zoppo e rude, con «occhi di livore furenti» [sic].

In questa cornice orchestrale fatta di armonie ora trasparenti, basate essenzialmente su arpe e celesta, ora fortemente drammatiche, agiscono i personaggi dell’opera, ciascuno con una sua schietta caratteristica. Al di là dei due protagonisti, amanti sì ma condizionati dalla situazione proibita del loro incontro e perciò avvolti in una ineliminabile tristezza di stampo decadente che trattiene il vero slancio d’amore (eccezion fatta per la scena del bacio sviluppata poi con una discutibile corsa al letto di Francesca), emergono a tutto tondo figure che nella vicenda sarebbero di secondo piano: Malatestino, feroce ed invadente, interpretato con malizia diabolica da Manlio Rocchi, Gianciotto tutto preso dall’arte della guerra e troppo drastico con sé e con gli altri, ottimamente reso dalla incisiva voce di Giangiacomo Guelfi, Ostasio fratello di Francesca, il bravo Nino Carta, le eteree Samaritana e Biancofiore cui Scilly Fortunato e Gabriella Novielli non hanno però dato una convincente carica di commozione. Le altre donzelle attorno a Francesca, tutte poco intelligibili nella dizione, erano Paola Barbini, Maria Gabriella Onesti, Gianna Lollini e Corinna Vozza.

Paolo il bello dalla efficace mobilità sulla scena era Ruggero Bondino; nei candidi panni di Francesca la sempre brava Ilva Ligabue che ha ottimamente prestato la sua ricca gamma usando suggestivi toni gravi in quei declamati che si svolgono poi in melodia senza soluzione di continuità. D’obbligo la citazione del duetto d’amore, timidamente espresso ma carico di lirismo, nel secondo [sic] atto.

Il coro diretto da Augusto Parodi agiva fuori campo ma con begli effetti. Al maestro concertatore e direttore Oliviero de Fabritiis sono andate alla fine e al termine

di ciascuno degli atti tutta la simpatia e l’ammirazione del pubblico elegante ma non troppo numeroso, per aver guidato con mano energica l’opera, sviscerandone tante pagine suadenti in un contesto fondamentalmente drammatico, da vero «poema di sangue e di lussuria» come lo stesso D’Annunzio lo definì.

160 Piero Dallamano, “Francesca” ritorna ma imbalsamata – Una rappresentazione del melodramma fuori di una piena consapevolezza del momento storico. Sordità esemplare, «Paese Sera», 17.12.1975 - p. 18, col. 1-2-3 (con una foto di scena che ritrae R. Bondino e I. Ligabue)

La «Francesca da Rimini» di Riccardo Zandonai andata in scena ieri sera al Teatro

dell’Opera in una veste squisitamente cimiteriale costituisce un piccolo punto a favore, una sopraelevazione, una collinetta nel panorama depresso offerto dal cartellone. L’opera e il suo autore mancavano da molti anni all’appuntamento col pubblico. Nata nel polverone tristemente fecondatore del dannunzianesimo (di cui D’Annunzio fu solo in parte responsabile), questa «Francesca da Rimini», abilmente e rispettosamente desunta dall’omonima tragedia, si giovò del fatto che l’artefice della musica, Riccardo Zandonai, era di Rovereto, anzi di Sacco di Rovereto, paese lontanissimo, geograficamente e spiritualmente, da Pescara. A Rovereto, si sa, si respira aria di montagna e la gente per questo, forse, si mantiene per quanto gli è possibile più integra e onesta, anche se il mondo

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poi la ripaga giudicandola limitata e provinciale (accuse che puntualmente caddero sulle spalle di Zandonai).

Retrospettivamente valutato, Riccardo Zandonai sembra svolgere nei confronti dell’opera verista (la «Francesca» è del 1914) il ruolo di un De Gasperi, suo quasi conterraneo. Cioè, assecondò pienamente e forse favorì il trionfante cattivo gusto reazionario del tempo; di suo però ci mise il sigillo di una personalità autentica e di una serietà artigianale che altri sbandieravano di possedere e non avevano. Come dire: era un democristiano onesto.

Resta il fatto che a dispetto della spocchia dannunziana la «Francesca da Rimini» sopravvive soltanto nella veste operistica e musicale che le diede Zandonai trasformando dal di dentro la tragedia in versi. Poiché la metamorfosi avvenne, da piombo in argento fino, malgrado tutti i rispetti di Zandonai, i suoi prosterni davanti al poeta, anzi al Vate, col solo intento di attuare una illustrazione musicale fedele e derivata, occorre riconoscere che l’operazione costituisce un mistero alchemico degno di riflessione. Per riassumere in fretta: Zandonai di suo ci mise un pathos malinconico, quasi funerario, che trasformò la vicenda dell’adultera dantesca in una sorta di inno alla morte, quasi una trasposizione roveretana del «Tristan und Isolde». Pur essendo nata in un clima musicale e culturale diverso, questa «Francesca da Rimini» sembra risucchiarsi l’incanto sinuoso del Liberty mentre l’estetismo dannunziano, che inclinava dalla parte di Michetti, si svolge in questa opera verso le ambigue figurazioni di un Klimt.

C’è un delicato e malinconico fulgore preraffaellitico nel finale del primo atto, sospeso e attonito in una sorta di musica-luce, mentre nel celebre duetto del terzo atto sembra prevalere il sinuoso languore di un amore-arabesco. Ovviamente, le parti ancora plumbee dell’opera sono quelle in cui la trasmutazione non è avvenuta in quanto Zandonai arranca umilmente dietro il suo poeta cercando di rifargli la voce (ad es. la scena della battaglia, atto secondo).

La ripresa di «Francesca» incontra un momento favorevole: innanzitutto c’è questa rinascita o reviviscenza del gusto Liberty in cui l’opera di Zandonai sembra incastrarsi a pennello, con tutta la sua carica enorme di Kitsch che contiene (ma si badi che il Kitsch è ancora arte, forse rispettabile, mentre certe opere di Giordano rimangono persino sotto questo livello). Poi c’è una sorta di senso di colpa nei confronti di Zandonai, un fantasma negletto a torto mentre altri musicisti, ben più fantasmi di lui, ci sono rimasti per decenni sullo stomaco come geni insostituibili e primari. Sta di fatto che di questa «Francesca» per anni e anni ci perseguitano motivi e temi, perfettamente memorizzati, fischiettabili, commoventi persino nel loro riaffiorare svettante e luminoso, come la sigla di qualche spettacolo televisivo con pretese medievalistiche: i violoncelli che gemono nel primo atto, l’incontro di Paolo e Francesca, oppure quella immagine «inghirlandata di violette» che si staglia nella memoria come una figura più preraffaellitica che dannunziana. Insomma, Zandonai è un musicista autentico, nel senso che riesce a rifornire di melodie, di brandelli, di temi, di frammenti perfettamente resistenti ed orecchiabili e personali, la nostra memoria musicale, mentre altri compositori, ahinoi!, potrebbero scrivere cento opere senza che ci sia possibile effettuare sulle medesime alcun prelievo del genere: materiali inerti da consegnare giustamente all’oblio.

Però la validità della ripresa di «Francesca» esige che l’opera di Zandonai venga eseguita nella piena consapevolezza del momento storico, culturale e di gusto in cui avviene la ripresa, cioè l’oggi; in altre parole, occorre ripensare quest’opera in termini nuovi, contemporanei o rammodernati. Tutt’il contrario di ciò che ha fatto il Teatro dell’Opera il cui ideale sembra esser quello di riprodurre sic et simpliciter un facsimile di «Francesca da Rimini» datato a cinquanta, quarant’anni fa. L’esemplare offerto al pubblico è spaventosamente imbalsamato, una sorta di uccello del paradiso col corpo riempito di paglia, le piume tarmate e gli occhi di

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vetro, un sosia dell’airone mortuario di Bassani. In modo indiretto ma ugualmente eloquente il Teatro dell’Opera in tal modo esprime, attraverso le scelte operate dai suoi dirigenti (che non ci sono più eppure ci sono ancora appiccicaticci e inestirpabili) il suo ideale, che è quello del ritorno puro e semplice al passato.

Così la direzione d’orchestra, affidata ancora una volta a Oliviero De Fabritiis (come gli toccò quella del defunto e mai nato «Simon Boccanegra», vivo soltanto nel passivo del teatro per qualche centinaio di milioni gettati al vento), appare di una sordità esemplare, chiusa a qualsiasi operazione di rammodernamento. E la regìa di Margherita Wallmann sembra un catalogo di giardinaggio, tutto moine e pervinche. Le scene di Ghiglia sono atroci sino all’umorismo. Degli interpreti loderemo Ruggero Bondino per la chiara dizione e per lo stile sobrio ed efficace, mentre Ilva Ligabue non lascia capire una parola del testo che canta, mentre ne valeva la pena. Troppo ingombrante, al solito, Giangiacomo Guelfi nei cui panni il personaggio di Gianciotto si cambia in uno sceriffo del West. Efficace Manlio Rocchi. Gli altri e le altre, c’è poco da ricordare.

161 Ennio Montanaro, “Francesca da Rimini” felice ritorno – Riproposta di Zandonai al teatro dell’opera, «Il Popolo», 17.12.1975 - p. 5, col. 5-6-7-8 (con una foto di scena raffigurante R. Bondino e I. Ligabue)

È certamente da lodare, nell’attuale stagione al teatro dell’opera, l’iniziativa di riprendere

opere che da lungo tempo erano assenti dalle scene del grande teatro romano e che certo meritavano di essere nuovamente ascoltate: come il Simon Boccanegra, che purtroppo non ha potuto essere rappresentato (speriamo che lo sia nell’ulteriore corso della stagione) e come la Francesca da Rimini, lo spartito più fortunato e popolare di Riccardo Zandonai, che ieri sera ha aperto la serie delle esecuzioni di opere.

Sessantuno anni fa, il 19 febbraio 1914, essa ebbe la sua prima assoluta al Teatro Regio di Torino, in un periodo in cui la musica era in un periodo alquanto agitato per il sorgere di nuovi indirizzi e nuove concezioni. Da allora, specialmente nel campo teatrale, sono apparse in Italia e fuori numerose opere di intento innovatore, ma non sono state molte quelle che hanno resistito al trascorrere del tempo e talune, giudicate come annunciatrici di sconosciuti universi musicali, non sembrano oggi in grado di conservare l’alto posto al quale erano state collocate. Invece Zandonai, che con questa sua opera – la più importante certo, ma Conchita e I cavalieri di Ekebù non stanno ad un livello troppo inferiore – diciamo, non intendeva affatto proclamare uno sconosciuto verbo, ma proseguire nel solco del teatro lirico italiano, aggiornandone lo stile sia nella vocalità – nella Francesca infatti si hanno vari esempi di canto spiegato ed è il declamato melodico la forma vocale prevalente – che nell’orchestrazione, riuscì ad una creazione che nulla ha perduto della sua vitalità. Il che egli poté fare in virtù delle sue istintive qualità di musicista e del suo profondo intuito teatrale. Qualità che egli intese affinare ed elevare ed anche per questa ragione scelse un soggetto di alto valore letterario, quale era la tragedia di Gabriele d’Annunzio.

Il testo, opportunamente ridotto da Tito Ricordi – ma con modifiche apportate dallo stesso poeta – poteva presentare per lui dei grossi pericoli. Non era certo impresa lieve trovare una adeguata espressione musicale. Ma il musicista trentino seppe superare tali insidie, affidandosi alla sua sincerità artistica. Non trascurò le occasioni che la tragedia gli offriva per l’evocazione di epoche lontane e Giannotto Bastianelli giudicò il preludietto della canzone a ballo del terzo atto, che definì «italianissima», come «una vera e propria miniatura di

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frontespizio a un libro di versi latini della Rinascenza». Ma Zandonai intese soprattutto l’essenza umana e drammatica della tragedia, e in taluni episodi effuse la sua vena melodica – anche se condotta, come abbiamo detto, su linee diverse da quelle tradizionali – esprimendo, ma con un proprio, personale linguaggio, la sottile sensualità del poeta pescarese, le illuminazioni psicologiche della tragedia. E tra questi squarci melodici va ricordato in particolare l’invenzione più nota e tra le più suggestive dell’opera: il tema che, intonato da antichi strumenti, sorge, al primo atto, nel momento in cui si incontrano i due protagonisti per ritornare poi, ma più forte e impetuoso, a concludere il duetto tra Paolo e Francesca del terzo, che è tra le parti più belle e trascinanti dell’opera, come un’ondata che travolge i due personaggi.

Ma ancor più rilevante è nella Francesca la forte drammaticità, una drammaticità che ha rarissimi riscontri nell’opera post-verdiana e che talvolta si leva ad altezze pari a quelle raggiunte dal grande bussetano. Appunto il Bastianelli ha visto in Gianciotto la forza di certi cupi personaggi verdiani, che, potentemente disegnato dal tema che costantemente lo accompagna, grandeggia soprattutto nel duetto col Malatestino al quarto atto, forse la pagina più grande della Francesca. E di verdiana concisione è la rapida conclusione dell’opera.

Queste varie espressioni sono sostenute e amplificate da una orchestra al cui poderoso ritmo si deve in gran parte l’efficacia del duetto ora citato del quarto atto, un’orchestra vigorosa ed a volte anche con eccessivi turgori nella battaglia del secondo atto, ma che ha pure tratti di grande delicatezza (si veda, prima del duetto del terzo atto, la ripresa del preludio della canzone a ballo, con colorazioni sempre più ambigue).

Esecuzione in complesso di buon livello. Sul podio era il maestro Oliviero De Fabritiis, che quest’anno ha rinunciato ad altri impegni per dirigere nel teatro in cui si è svolta tanta parte della sua carriera. Ha diretto con vigore e con finezza, con un fraseggio di bella ed incisiva linea, con giusta regolazione dei ritmi e del rapporto tra orchestra e voci. Soltanto ci è sembrato che certe massicce sonorità del secondo atto avrebbero potuto essere alleggerite, mentre alla ripresa a piena orchestra della frase che conclude il terzo atto sarebbe stato opportuno, crediamo, conferire un più ampio respiro lirico. Bene il coro, diretto dal maestro Augusto Parodi.

Protagonista era Ilva Ligabue, cantante a cui non mancano certo notevoli mezzi vocali e capacità interpretative, ma che non ci è sembrata troppo a suo agio, particolarmente dove la sua parte aveva una maggiore tensione e saliva con frequenza nel registro acuto. Qui anche la sua dizione era ben poco chiara. Maggiormente apprezzabile essa è invece parsa nei tratti di più distesa cantabilità, come il duetto del terzo atto.

Nella parte di Paolo, Ruggero Bondino ha fatto valere la sua voce generosa, piena e squillante, capace di slanci vigorosi, ma anche di abbandonarsi con dolcezza. Ammirevole soprattutto ci è sembrato nel brano «Perché volete ora voi che rinnovi» [sic] per l’impeto e il calore. Giangiacomo Guelfi, tuttora nel pieno possesso dei suoi poderosi mezzi vocali, è stato come altre volte un Gianciotto imponente sia nel canto che nella fosca potenza della dizione e nella rude veemenza del gioco scenico. Manlio Rocchi (Malatestino) ha saputo dare alla sua limpida e fresca vocalità le subdole sottigliezze che la parte richiedeva. Efficace Corinna Vozza quale Smaragdi. Nelle parti delle donne di Francesca Scilly Fortunato, Paola Barbini, Maria Gabriella Onesti e Gianna Lollini non hanno figurato molto nel primo atto, ma nel terzo hanno eseguito con grazia e con buon coordinamento la Canzone a ballo; la prima, che era Biancofiore, si è segnalata anche nel breve dialogo con Francesca al quarto atto. Bene anche Gabriella Novielli (Samaritana), Nino Carta (Ostasio), Paolo Mazzotta (il giullare) e gli altri.

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L’allestimento scenico era quello del teatro La Fenice di Venezia. La regìa di Margherita Wallmann, un poco statica nel primo atto, ha dato poi movimento e vigore al secondo ed ha ben guidato gli altri, in pieno accordo con le esigenze del dramma e della musica, salvo un inutile dettaglio realistico alla fine del terzo atto e l’omissione invece nel quarto di particolari non superflui. Luminosa la scena del primo atto, drammaticamente opprimenti quelle della torre nel secondo e nel quarto, ma un senso di drammaticità non mancava neppure in quella della camera di Francesca. Esse si dovevano a Lorenzo Ghiglia.

162 g. p. fr., “Francesca da Rimini” fra i tardi sussulti veristi, «La Voce repubblicana», 18.12.1975 - p. 5, col. 1-2-3-4-5

Quello che più dispiace, di fronte a certi clamorosi disastri di una vita musicale italiana

soffocata da strutture organizzative inadeguate e malgestite (è necessario precisare che ci si riferisce al Teatro dell’Opera di Roma?), è il dover constatare come in essa sopravvivano ancora, nonostante tutto, delle risorse vitali – umane, morali, talvolta persino tecniche – cui basterebbe una sana efficienza operativa per garantire già dei risultati non disprezzabili. Come, in sostanza, le carenze strutturali e le storture di gestione non siano riuscite a disperdere un patrimonio capace di incredibili recuperi, ma sciaguratamente represso e mortificato in tutte le sue potenziali risorse.

Prendiamo il caso della Francesca da Rimini di Zandonai, andata in scena l’altra sera al Teatro dell’Opera, con un allestimento proveniente dalla Fenice di Venezia, secondo spettacolo di una stagione che era in forse fino a qualche giorno fa. Dopo le note vicende che hanno afflitto e che in parte affliggono tuttora l’Ente Lirico romano, dopo lo stato di agitazione decretato dalle masse artistiche e dal personale, dopo la fortunosa apertura con lo Schiaccianoci, era più che lecito aspettarsi qualcosa di assai simile al tracollo. Ed ecco invece saltar fuori uno spettacolo che possiede tutti i sostanziali requisiti della correttezza: quelli delle scelte musicali (la partitura si rivela, forse insospettatamente, degna di una qualche rimeditazione critica), quelli della resa tecnica (l’esecuzione, nel suo complesso, non fa davvero gridare allo scandalo), quelli – persino e per una volta – dell’opportunità politico-amministrativa (lo scambio di allestimento tra Enti Lirici).

Niente di eccezionale, sia chiaro; ma le condizioni per osservare con un minimo di chiarezza un’opera che testimonia comunque dei precisi significati culturali ci sono tutte. Significati culturali – va subito chiarito – che nei loro fondamenti appaiono oggi di segno negativo, ma che non consentono per questo di sostituire con il rifiuto snobistico il sempre doveroso atteggiamento di attenzione. Ciò che, culturalmente, suona come una impietosa condanna è, nella Francesca da Rimini, la sua data di composizione, il 1914. Qui, cioè, l’Italia appare veramente come l’estrema provincia – chiusa, retrograda – della cultura europea, giunta a quel punto a tutt’altre mete.

Accade così che nella Francesca, accanto ai tardi sussulti di un verismo nostrano che dipinge a fosche tinte un tipico “dramma della gelosia” infarcito di personaggi di inaudita truculenza (Giovanni, lo sposo tradito, e suo fratello Malatestino), e accanto alle gratuite fantasie di un cattivo gusto neo-gotico che, fregiandosi presuntuosamente di discendenze dantesche, monta apparati guerreschi, mostra giullari e balestrieri, e si permette e si compiace di battezzare personaggi con nomi come Garsenda, Biancofiore ed Altichiara, confluiscano, tramite i personaggi di Paolo e Francesca, gli echi di un simbolismo che già era stato movimento di punta della cultura europea e che qui si riduce a forzato, velleitario

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aggiornamento dopo passaggi di terza e di quarta mano, con riferimenti – addirittura – ad una originaria quanto confusa ed epidermica mitica wagneriana.

Può spiegare molto il fatto che a rimestare il calderone di una così fatua e antistorica commistione di elementi ci fosse un D’Annunzio, autore del dramma da cui è tratta la vicenda e insolitamente sollecito nell’approvare la riduzione librettistica di Tito Ricordi. Fatto sta che l’amore di Paolo e Francesca è dipinto con un pennello imbevuto di simbologia tristaniana, con venti anni di irrecuperabile ritardo rispetto al tristanismo liberty di un Maeterlinck (dodici rispetto al Pelléas musicale debussyano): l’episodio di una ferita premurosamente curata come primo fatale e taciuto manifestarsi dell’amore; versi come Nemica ebbi la luce; il brindisi dei due amanti come rito liberatorio capace di scatenare il rivelarsi della passione. Solo che ormai (siamo in Italia, via! nel 1914! nemmeno D’Annunzio sa più fabbricare i magici filtri) in quelle coppe siamo disposti a immaginare tutt’al più del buon Sangiovese, visto che ci troviamo a Rimini, nel palazzo dei Malatesta.

Ma oltre alla mitologia wagneriana di D’Annunzio, c’è (sebbene anche qui con notevole ritardo) il wagnerismo musicale di Zandonai, assai più attendibile se preso di per sé, come puro fatto linguistico. E nella Francesca Zandonai, musicista onesto, di ottima stoffa, capace di apprendere diligentemente tutta la tecnica della scrittura sinfonica wagneriana, distende in orchestra un ricchissimo tessuto sinfonico di ammirevole fattura, agile nelle vaste complessità contrappuntistiche, leggero nelle suadenti trasparenze strumentali, quasi fosse un piccolo ma ingegnoso Strauss italiano.

E l’Orchestra del Teatro dell’Opera, pur notoriamente vittima di quanto è accaduto negli ultimi tempi in questo teatro, riesce questa volta a tessere efficacemente tutte le trame di quel tessuto, grazie forse anche ad un sufficiente numero di prove e alla esperienza che un direttore come Oliviero de Fabritiis riesce a far valere in partiture di questo genere. Nell’allestimento della Fenice la regìa di Margherita Wallmann si inserisce con la consueta sobrietà (macchiata appena da qualche sbavatura) tra le “normali” scene di Lorenzo Ghiglia (ottima, comunque, la resa del secondo quadro). Tra gli interpreti troviamo una Ilva Ligabue un po’ carente nel centro e nel registro grave ma buona fraseggiatrice; un Ruggero Bondino di robusta vocalità; un Giangiacomo Guelfi nei panni di un personaggio fatto apposta per lui. Convincenti anche gli interpreti dei ruoli minori, a cominciare da quel Manlio Rocchi che tanti dubbi aveva suscitato lo scorso anno in una sua apparizione pucciniana, e che qui trova nel perfido personaggio di Malatestino un ruolo in cui può mettere efficacemente a frutto le sue caratteristiche vocali e interpretative. Tra i molti altri, vanno ricordati ancora, per il particolare impegno, il Carta e il Mazzotta.

163 e[rasmo] v[alente], “Francesca da Rimini” a fumetti - La regìa della Wallmann e la direzione di De Fabritiis hanno appiattito la famosa storia d’amore - Eccellenti i cantanti, «L’Unità», 17.12.1975 - p. 7, col. 2-3

Il Teatro dell’Opera – sempre più in crisi nonostante la designazione del sovrintendente

(sembra destinata a rimanere infruttuosa), tanto è vero che gli attuali responsabili della direzione artistica hanno scritto una lettera al sindaco di Roma – presidente dell’Ente – nella quale dichiarano di temere persino per la loro incolumità personale –, il Teatro dell’Opera, dunque, ha cercato di fare ieri sera la “vera” inaugurazione.

Senonché, come è capitato con lo Schiaccianoci, che era una ripresa di un precedente allestimento, così è successo, ieri, con la Francesca da Rimini di Zandonai, che è un’opera

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antica e, anzi, era già vecchia nel 1914, quando si rappresentò per la prima volta, a Torino. Si tratta ancora di una ripresa, nella quale si configura l’ennesimo, opportunistico tentativo di inserire nel repertorio un melodramma che ha fatto il suo tempo. Noi non ce l’abbiamo con Zandonai: si rappresentino pure le sue opere, ma si cerchi di darle bene, e non costituiscano il pretesto di ignorare il teatro musicale moderno. Una Francesca da Rimini, cioè, dovrebbe essere circondata da opere di Prokofiev, Bartók, Debussy, Stravinski, Sciostakovic, Hindemith e non essere, al contrario, quasi un punto massimo di modernità, consentito dai benpensanti del Teatro dell’Opera.

Per l’occasione, si è adottato un allestimento del Teatro La Fenice di Venezia, con scene massicce ed estranee ai personaggi che dovevano popolarle, disegnate da Lorenzo Ghiglia. L’estraneità di cui sopra è in parte imputabile alla regìa di Margherita Wallmann la quale ha trasformato vicenda e personaggi in un fumetto passionale, che non tiene conto né della Divina Commedia, né del libretto ricavato da Tito Ricordi dall’omonima tragedia di Gabriele d’Annunzio (l’aveva scritta nel 1902, aveva acconsentito all’operazione musicale, ma non cercò mai di vedere l’opera).

La regista, dopo aver, come al solito, immobilizzato persone e cose (tutti aspirano a fare le belle statuine e persino il màngano – che in altre edizioni menava qualche colpo – è rimasto fermo, nella scena della battaglia), va a fare modifiche proprio nei momenti culminanti dell’intesa amorosa tra Paolo e Francesca. I due, come si sa, leggono il libro “galeotto”, faccia contro faccia, e si baciano; la regìa stabilisce che dopo la lettura, Francesca si alzi e vada a mettersi supina sul letto dove la raggiunge l’amante. Nel libretto, invece, ella, quando sa che sta arrivando Paolo, chiude le cortine dell’alcova.

Nell’ultimo atto, l’uccisione degli amanti avviene pur essa in modo diverso e piuttosto spicciativo: Gianciotto infilza prima l’uno e poi l’altro, laddove Paolo doveva cercare di mettersi in salvo, ma viene acciuffato da Gianciotto. Francesca si intromette e riceve lei il primo colpo.

La regìa di Margherita Wallmann ha avuto un adeguato appoggio dalla direzione d’orchestra di Oliviero De Fabritiis, anch’essa mirante ad appiattire il gioco orchestrale. E l’appiattimento ha messo in evidenza l’origine verdiana e wagneriana dell’opera, celebrata da qualcuno anche in funzione antipucciniana, ma ricadente spesso nelle braccia di Tosca, Mimì o Butterfly.

In quest’àmbito si sono dispiegate le voci – esse sì eccellenti – di Ilva Ligabue (Francesca), Ruggero Bondino (Paolo), Manlio Rocchi (Malatestino), Nino Carta (Ostasio), mentre Giangiacomo Guelfi, adombrante quasi un mitico Polifemo, non ha trovato una misura umana alla possanza della sua voce.

Applausi e chiamate agli interpreti hanno via via accompagnato lo svolgersi dello spettacolo.

164 Ennio Melchiorre, Ritorno di Zandonai, «Avanti!», 17.12.1975 - p. 5, col. 1-2

Dopo oltre dodici anni di assenza dalle scene del Teatro dell’Opera è stata di nuovo

rappresentata la Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai, considerata da alcuni critici il capolavoro del musicista trentino, anche se Puccini con uno sferzante giudizio che fece epoca disse che per aspirare ad una tal qualifica a questa tragedia “gli manca un dito”. Ora, a parte Puccini che vedeva con sospetto tutti coloro che potevano scalzarlo dalla posizione di predominio che godeva nel teatro musicale italiano del primo Novecento, è certo che la

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Francesca da Rimini ha subìto alti e bassi nella considerazione della nostra critica, almeno di quella più seria e disinteressata, e non sono mancate esaltazione e perfino fanatismi per questo melodramma che si divincola con abilità dalla matrice verista e mascagnana allora imperante (l’opera andò in scena per la prima volta a Torino il 19 febbraio 1914) e dall’altra parte, cioè nella schiera degli anti-Zandonai, sono affiorate spesso riserve su certe pesantezze strumentali, su una teatralità di puro effetto e sul dannunzianesimo che rinserra e a volte soffoca la flessuosa e delicata poesia sonora che si sprigiona dalla storia di amore di Paolo e Francesca resa famosa dai versi danteschi.

Come sempre accade in casi del genere e specialmente adesso che si sono assopite le polemiche pro e contro il teatro verista, la verità sta nel mezzo e si può parlare con maggiore serenità di questa Francesca da Rimini, che resta, come gusto e come stile, datata nel tempo in cui è nata e risente dei pregi e dei limiti della personalità artistica di Zandonai, un musicista che merita rispetto e considerazione, più di quanto dimostri la moderna musicologia.

Bisogna dire che in questo caso per la prima volta e forse l’unica nella storia del teatro ha funzionato l’intesa e il connubio tra un musicista e la poesia di D’Annunzio, che ha sempre messo in estrema difficoltà quegli artisti che hanno voluto rivestire di note i versi altisonanti e ricercati del letterato abruzzese (Debussy e Mascagni insegnano). Infatti nella Francesca da Rimini il verso dannunziano trova una corrispondenza musicale abbastanza espressiva, specie negli episodi meno truculenti e più pittoreschi e di maggiore cantabilità lirica; il che è già un elemento positivo che torna ad onore di Zandonai, un autore che, almeno in questo caso, dimostra un vivo senso del teatro e sa congegnare i vari “pannelli” della tragedia con una geniale progressione di interesse scenico e musicale.

In più in quest’opera in musica ci sono molte pagine valide, a cominciare dal melodioso e raffinatissimo finale del primo atto, per passare poi al suggestivo duetto d’amore del terzo atto e giungere al drammatico, tagliente e incalzante quarto atto, dove si rivela con particolare efficacia la forza di rappresentazione di questo musicista che sa usare l’orchestra con consumata bravura ed esperienza, arricchendola con una varietà di armonie capaci di sottolineare assai bene la situazione psicologica dei vari personaggi.

È vero: si registrano anche disuguaglianze e cali di interesse in questo dramma, specie quando l’effetto teatrale prende la mano al musicista, ma non si può negare che la Francesca da Rimini, ad oltre sessant’anni dalla sua nascita, è ancora valida nel suo insieme e conserva una robustezza e un impianto di costruzione davvero ammirevoli, solo se si pensa che tanta produzione operistica di quel tempo non viene più presa nemmeno in considerazione. Il discorso vocale, poi, ha una sua linea chiara e precisa di intonazione veristica e sorretto da una strumentazione perfino ricercata nella sua significativa ascendenza debussyana. Insomma, un’opera che ancora oggi si ascolta volentieri e, pur mostrando delle rughe, non teme le ingiurie dell’età che in tema di arte provocano il tracollo di qualsiasi produzione operistica.

L’edizione della Francesca da Rimini presentata ieri sera all’Opera ci è sembrata dignitosa e abbastanza funzionale nelle sue varie componenti musicali e sceniche. Molto bravi i protagonisti maschili: da Giangiacomo Guelfi, un Gianciotto in ottima forma e vocalmente di notevole prestigio, a Ruggero Bondino, che ha interpretato il ruolo di Paolo con una vocalità aperta ed espressiva nel registro acuto, a Manlio Rocchi, un Malatestino di brillante spicco tenorile. La parte di Francesca era impersonata da Ilva Ligabue, il cui tipo di voce più lirico che drammatico non è molto adatto a questo personaggio; per giunta il suo canto intubato non lascia capire bene le parole, ma ciò non toglie che al terzo e al quarto atto ella abbia saputo raggiungere risultati persuasivi (a posto nella romanza famosa «Paolo, datemi pace! È dolce

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cosa vivere obliando, almeno un’ora, fuor della tempesta che ci affatica»). Discreta la compagnia di canto, in cui si sono distinti Paolo Mazzotta, Scilly Fortunato, Paola Barbini, Gianna Lollini e Maria Gabriella Onesti.

Ha diretto con larga esperienza e buona conoscenza della partitura il maestro De Fabritiis, che in alcuni casi ha mantenuto un po’ pesantemente l’orchestra, senza troppe sfumature timbriche, come nel magico finale del terzo atto. La regìa di Margherita Wallmann si è richiamata ad un dannunzianesimo abbastanza sopportabile, con qualche piccola licenza descrittiva. Pregevoli le scene di Lorenzo Ghiglia e molto belli i costumi dai contrastanti colori, ambedue provenienti dallo stesso spettacolo allestito alla Fenice di Venezia. Il coro preparato da Augusto Parodi si è disimpegnato con esito soddisfacente, come pure l’orchestra, che ha bisogno però di essere rimessa in sesto. Successo cordiale e caloroso per tutti, con applausi anche a scena aperta all’indirizzo dei cantanti e del direttore d’orchestra.