2.2. origini storiche delle municipalita’ della provincia

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Piano Territoriale Provinciale di Catania (ex art.12 L.R.9/86) RELAZIONE GENERALE DELLO SCHEMA DI MASSINA. CAPITOLO SECONDO 10 2.2. ORIGINI STORICHE DELLE MUNICIPALITA’ DELLA PROVINCIA DI CATANIA. La conoscenza delle origini delle municipalità della provincia di Catania rappresenta un elemento d’analisi e di confronto efficace per comprendere il percorso evolutivo delle comunità provinciali e verificare, sotto molteplici profili, la dimensione e la qualità delle ipotesi progettuali. A tal proposito si è fatto ricorso agli studi effettuati per la formazione dell’Archivio Storico Virtuale della Provincia di Catania, con la ricerca dati ed elaborazione del sito a cura di Salvina Bosco, che si ringrazia anche per l’autorizzazione all’utilizzo degli stessi, unitamente al gruppo composto da Marzia Privitera e Valentina Viggiano, che ha curato le schede storiche sui comuni di seguito riportate, secondo l’ordine alfabetico nell’aggregazione per sub-aree provinciali prevista dalle direttive al P.T.P. 2.2.1. AREA METROPOLITANA. Unitamente alla città capoluogo, San Giovanni La Punta, San Gregorio e Zafferana Etnea, l’area metropolitana comprende ventisette comuni, determinanti l’hinterland catanese, storicamente appartenenti a raggruppamenti territoriali eterogenei. Vi si possono distinguere, infatti, tre tipologie di raggruppamento: 1. I casali catanesi (Camporotondo, Gravina, Mascalucia, Misterbianco, S. Pietro Clarenza, S. Agata li Battiati, Tremestieri, Trecastagni, Pedara) per lungo tempo sottoposti all’autorità del Senato catanese e della Diocesi e poi venduti, dal XVII secolo, come feudi. Le fonti della loro evoluzione storica più antica si trovano prevalentemente nei fondi conservati presso l'Archivio della Diocesi di Catania. 2. Le terre e i quartieri che appartenevano ad Acireale (Aci Bonaccorsi, Aci Castello, Aci Catena, Aci S. Antonio, Valverde, Viagrande e S. Venerina), sottoposti alla sua autorità amministrativa prima direttamente e poi, con la progressiva conquista dell'autonomia, in forma indiretta. Le fonti storiche si trovano prevalentemente presso l'Archivio Storico del comune di Acireale e presso l'archivio della Diocesi di Acireale. 3. I paesi sulle pendici dell'Etna (Belpasso, Motta S. Anastasia, Paterno`, Ragalna, Nicolosi, S. Maria di Licodia) compresi o confinanti con l’antica contea della famiglia Moncada e soggetti all'arcidiocesi di Catania. Fonti per la loro storia si trovano nell'Archivio Moncada, conservato presso l'archivio di Stato di Palermo e presso l'archivio della Diocesi catanese. Per l’età borbonica sono fondamentali i fondi dell'Intendenza Borbonica di Catania e della Sottintendenza di Acireale

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Page 1: 2.2. ORIGINI STORICHE DELLE MUNICIPALITA’ DELLA PROVINCIA

Piano Territoriale Provinciale di Catania (ex art.12 L.R.9/86) RELAZIONE GENERALE DELLO SCHEMA DI MASSINA.

CAPITOLO SECONDO 10

2.2. ORIGINI STORICHE DELLE MUNICIPALITA’ DELLA PROVINCIA DI CATANIA.

La conoscenza delle origini delle municipalità della provincia di

Catania rappresenta un elemento d’analisi e di confronto efficace per comprendere il percorso evolutivo delle comunità provinciali e verificare, sotto molteplici profili, la dimensione e la qualità delle ipotesi progettuali.

A tal proposito si è fatto ricorso agli studi effettuati per la formazione dell’Archivio Storico Virtuale della Provincia di Catania, con la ricerca dati ed elaborazione del sito a cura di Salvina Bosco, che si ringrazia anche per l’autorizzazione all’utilizzo degli stessi, unitamente al gruppo composto da Marzia Privitera e Valentina Viggiano, che ha curato le schede storiche sui comuni di seguito riportate, secondo l’ordine alfabetico nell’aggregazione per sub-aree provinciali prevista dalle direttive al P.T.P.

2.2.1. AREA METROPOLITANA. Unitamente alla città capoluogo, San Giovanni La Punta, San

Gregorio e Zafferana Etnea, l’area metropolitana comprende ventisette comuni, determinanti l’hinterland catanese, storicamente appartenenti a raggruppamenti territoriali eterogenei.

Vi si possono distinguere, infatti, tre tipologie di raggruppamento: 1. I casali catanesi (Camporotondo, Gravina, Mascalucia, Misterbianco,

S. Pietro Clarenza, S. Agata li Battiati, Tremestieri, Trecastagni, Pedara) per lungo tempo sottoposti all’autorità del Senato catanese e della Diocesi e poi venduti, dal XVII secolo, come feudi.

Le fonti della loro evoluzione storica più antica si trovano prevalentemente nei fondi conservati presso l'Archivio della Diocesi di Catania.

2. Le terre e i quartieri che appartenevano ad Acireale (Aci Bonaccorsi, Aci Castello, Aci Catena, Aci S. Antonio, Valverde, Viagrande e S. Venerina), sottoposti alla sua autorità amministrativa prima direttamente e poi, con la progressiva conquista dell'autonomia, in forma indiretta.

Le fonti storiche si trovano prevalentemente presso l'Archivio Storico del comune di Acireale e presso l'archivio della Diocesi di Acireale.

3. I paesi sulle pendici dell'Etna (Belpasso, Motta S. Anastasia, Paterno`, Ragalna, Nicolosi, S. Maria di Licodia) compresi o confinanti con l’antica contea della famiglia Moncada e soggetti all'arcidiocesi di Catania.

Fonti per la loro storia si trovano nell'Archivio Moncada, conservato presso l'archivio di Stato di Palermo e presso l'archivio della Diocesi catanese.

Per l’età borbonica sono fondamentali i fondi dell'Intendenza Borbonica di Catania e della Sottintendenza di Acireale

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CAPITOLO SECONDO 11

2.2.1.1. CATANIA. Le origini remote e mitologiche della città sono state artatamente

ricostruite da scrittori d’età moderna impegnati nelle dispute municipalistiche, ai quali per lungo tempo s’è dato credito. Il toponimo è stato variamente interpretato, ma resta certa la fondazione greca. Catania venne, infatti, fondata nel 729 a.C. dai Calcidesi di Naxos, col nome "Katane". Del periodo più antico della sua storia rimane poco. Frammenti vascolari a figure nere sono stati rinvenuti sotto l’area del castello Ursino ed una stipe votiva ha restituito, in piazza San Francesco, ingente materiale greco. Del VI secolo si ricorda il codice di leggi del catanese Caronda, legislazione che fu adottata dalla città e da altre colonie greche.

Intorno al 475 a.C., la città fu occupata e rifondata da Ierone I che deportò la popolazione a Hybla. A Catania fu mutato nome in "Aetna" e nella città s’insediarono i coloni dori. Nel 461 i catanesi, guidati da Ducezio, la riconquistarono restituendole l'antico nome.

Nel corso della guerra tra Atene e Siracusa la città, suo malgrado, fu coinvolta a fianco di Atene ed in conseguenza di ciò circa nel 403 a.C. venne presa dal tiranno di Siracusa, Dioniso il Vecchio, che v’insediò una popolazione campana. Tra vari passaggi di potere, vi furono introdotti culti egizi, di cui rimane memoria nella presenza di due obelischi in sienite recanti geroglifici e di poche altre testimonianze archeologiche.

Il 263 a.C. segna l'inizio della stagione romana (di cui si conservano

ancora illustri vestigia), quando il toponimo si affermò nella variante "Catina". resta memoria in Cicerone la presenza di un grande tempio dedicato al culto di Demetra. La tradizione lega ancora al periodo romano il martirio di S. Agata e di S. Euplio, che divennero successivamente patroni di Catania.

Dal 440 a circa il 546 d.C. si individua l’era barbarica, seguita poi dall’occupazione del bizantino Belisario. Importanti i provvedimenti in favore di Catania nel VI secolo: nel 582 essa si vedeva assegnato dall’imperatore Maurizio il ruolo di prima zecca di Sicilia, mentre del 590 è la disposizione di papa Gregorio Magno di tenere i concili siciliani nelle sedi di Siracusa e Catania.

I Saraceni conquistarono la città probabilmente intorno al 974. Durante la stagione araba diverse furono le incursioni bizantine tra le quali rimane nella tradizione quella di Giorgio Maniace, del 1040, che sottrasse le reliquie di S.Agata (che sarebbero state restituite nel XII secolo).

Catania venne quindi conquistata dai normanni. Ruggero costituì la diocesi di Catania nel 1092 istituendo il primo vescovo-conte, Ansgerio. Nel 1169 l'intera città fu distrutta da un violento terremoto, che non risparmiò il suo circondario.

A Catania, nel 1222, morì la regina Costanza d’Altavilla, madre di Federico II di Svevia. A quest’ultimo si deve la fondazione del castello Ursino, in seguito all’affrancamento dallo strapotere del vescovo avvenuto forse con il trasferimento al demanio della città nel 1239.

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CAPITOLO SECONDO 12

Passata nel 1266 agli Angioini, essa fu partecipe della ribellione e della guerra del Vespro iniziata nel 1282 contro il francese Carlo I d’Angiò. Nel XIV secolo la città era un centro politico determinante per le sorti della monarchia aragonese, travolta dal conflitto e dall’anarchia feudale, tanto da divenire di fatto la capitale dell’Isola. A seguito della vittoria degli Aragonesi, s’inaugurò l’epoca della Sicilia spagnola (1412-1713) ed il ruolo di capitale passò a Palermo. Ancora nel Quattrocento, tuttavia, vi era un rapporto privilegiato con la corona: nel 1434, Alfonso d’Aragona detto il Magnanimo decretò la fondazione del “Siculorum Gymnasium” (l’università degli studi); poi, nel 1470, Catania venne prescelta come sede dei parlamenti isolani. All’inizio del XVI secolo la città insieme ai suoi casali (agglomerati rurali) contava 14.261 abitanti. nel 1542 un terremoto colpì la città, che riportò seri danni. Nel 1550 fu costruito un orfanotrofio. Il pericolo delle incursioni turche, spinse il viceré Vega (anche per la presenza a Catania dell’imperatore Carlo V) a dare inizio, nel 1553, alla costruzione delle fortificazioni. Nonostante peste e carestie, nel 1583 la sua popolazione (con i casali) arrivava a 28.465 anime.

Per disposizione vicereale nel 1602 venne iniziata la ricostruzione del molo, distrutto nel XV secolo. Nel 1639 la sola città contava 14.241 anime. Tra il 1640 ed il 1652 la corona - per bisogno di denaro - alienò i casali di Catania. Nel 1647 la città fu partecipe dei rivolgimenti antispagnoli. Due catastrofi ne segnarono per sempre l’immagine: la colata lavica del 1669 che raggiunse e circondò il suo castello, e soprattutto il sisma del 1693 che la danneggiò gravemente e fece perire oltre il 60% della popolazione. La ricostruzione di Catania venne affidata all’incaricato regio duca di Camastra, che tracciò il nuovo assetto urbano. Il Settecento fu l’epoca della rinascita cittadina e degli studi antiquari. Nella stagione sabauda (1713-1720) e poi austriaca (1720-1734), venne ricostruito l’antico ospedale di S. Marco. Il periodo borbonico (1734-1860) vide la città consolidare la sua posizione di preminenza sul territorio etneo e la costa ionica, come attesta l’istituzione a Catania, nel 1742, del Regio Consolato del mare. Nel 1743 vi si contavano 60 chiese e 28 tra conventi e monasteri. Nel 1748 i suoi abitanti erano 25.715. Tra il 1751 ed il 1796 vi sorsero numerose istituzioni benefiche.

La riforma amministrativa del 1817 vide Catania divenire capo-distretto. La città nel 1831 aveva 53.364 abitanti. L'opposizione ai Borbone cominciò in occasione della peste nel 1837 e si rinnovò nel 1848. In entrambe le occasioni seguì la repressione governativa. Nel 1860 Catania accolse le truppe garibaldine. Nel 1861 la sua popolazione era di 68.810 abitanti. Gli ultimi decenni del XIX secolo sono caratterizzati da una fervida crescita e razionalizzazione urbanistica che modernizzò la città: l'illuminazione elettrica, la rete telefonica, l'ampliamento della strada ferrata con la circumetnea. Nel 1887 la città fu colpita dal colera. Il 31 maggio 1889 venne inaugurato il teatro Massimo dedicato a “Vincenzo Bellini”.

Tra le due guerre, che segnarono fortemente la memoria, nel 1927 Catania subì lo scorporo del territorio di Nicosia, che contribuì alla

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CAPITOLO SECONDO 13

formazione della provincia di Enna. Verso la fine del secondo conflitto mondiale, legata all’episodio della rivolta dei cittadini contro la chiamata alle armi del 1944 ed all’incendio di Palazzo degli Elefanti (il municipio), rimane senza dubbio gravissima la distruzione dell’Archivio storico comunale, che ha lasciato lacune secolari nella documentazione relativa alla storia di Catania.

2.2.1.2. ACI BONACCORSI. Il toponimo, mutuato dalla mitologia che fa riferimento ad Acis, si

collega pure all’antica denominazione della contrada dei Bonaccorsi. Le prime notizie sull’insediamento, appaiono legate a quel nucleo

originario che si sarebbe disperso (come tutte le Aci) a seguito del sisma del 1169. Esso era uno dei casali (agglomerati rurali) di Acireale e seguì quindi la vicenda storica di quest’ultimo. Aci Bonaccorsi conseguì l’autonomia nella sfera spirituale con l’elevazione della sua chiesa matrice a parrocchia nel 1589.Il rivelo (censimento) del 1624 riporta il toponimo nella forma di "quartiero delli Bonaccursi di Jaci", il che confermerebbe l’etimologia del toponimo.

Con l’emancipazione di Aci S. Antonio e S. Filippo da Acireale, divenuta definitiva nel 1639, il casale seguì per qualche anno le sorti della neo-costituita università (città). Aci Bonaccorsi ottenne a sua volta il distacco da quella università nel 1652. Possesso dei Diana di Cefalà, nel 1672 passò ai principi di Campofiorito. Divenne comune autonomo con la riforma borbonica del 1817, come appare nel testo del Reale Decreto n. 122.

2.2.1.3. ACICASTELLO. Il toponimo si fonde in chiara evidenza col mito di Acis, e con la

fortificazione forse d’origine romana, ma attribuita ai Bizantini. Di questo dato però non vi è certezza, perché le pergamene che lo proverebbero sono probabilmente un falso d’età moderna. Vi è comunque notizia della riedificazione della fortificazione in epoca araba, divenuta poi castello sotto i Normanni. nel 1092 il maniero "nomine Jachium" ed il suo territorio vennero concessi al vescovo di Catania Ansgerio. Con il terremoto del 1169, la rupe su cui sorgeva il castello fu unita da una lingua lavica alla terraferma. Nello stesso periodo vi fu una diaspora della popolazione della zona, a causa della quale il territorio venne a strutturarsi in vari casali (agglomerati rurali), che mantennero per la gran parte il toponimo comune. Con Federico II di Svevia il maniero, ma non la terra, ritornò proprietà del demanio. Divenne, tra vari passaggi, possesso degli Alagona nel 1320. ancora quando imperversava la guerra tra Aragonesi ed Angioini, nel 1357, il castello ed il borgo furono saccheggiati da questi ultimi. Teatro di famosi scontri tra XIV e XV secolo, alternò le sue sorti tra un’infeudazione ed un ritorno alla corona. Con il passaggio al viceregno (Concilio di Caspe, 1412) Catania perse la funzione di capitale, e di conseguenza ciò

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CAPITOLO SECONDO 14

penalizzò pure le fortificazioni lungo la sua costa. Nel Cinquecento il castello divenne carcere.

Quando nel 1531 Aquilia (la futura Acireale) venne reintegrata al regio demanio insieme ad altri casali del circondario, Aci Castello vide tramontare del tutto la sua centralità sul territorio e divenne uno dei borghi di Aquilia. Nel 1581, in ragione delle richieste dei fedeli, la chiesa di S. Mauro ottenne dal vescovo di Catania la dignità sacramentale, ovvero "licentia di possir in dicta eclesia di tener il Santissimo Sacramento et Eucharistia".

Nel 1647 fu acquistato da Giuseppe Emanuele Massa, nipote del genovese che in quegli anni aveva comprato una larga parte dei casali di Catania. Del 1647/48 è la prima indicazione rinvenuta della denominazione di "città del Castello di Aci" al posto del toponimo fino allora accertato "Castello della città di Jaci": ciò era indizio del distacco del centro dalla sfera di influenza di Aci Aquilia, conseguito con l’acquisto da parte dei Massa, che nel 1654 venne poi investito del titolo di duca. Nel 1696 Aci Castello contava 404 abitanti.

Nel 1817 Aci Castello appare compreso nella lista dei comuni del distretto di Catania, costituito dalla riforma borbonica. Nel 1828 assorbì le frazioni di Trezza e Ficarazzi.

2.2.1.4. ACI CATENA. La prima parte del toponimo è comune ai vari centri sorti nelle

vicinanze del castello edificato dai Bizantini e poi spostatisi, dopo il terremoto del 1169, nel territorio su cui avrebbe poi avuto la prevalenza il potere di Aci Aquilia (Acireale).

L’appellativo "catena" si lega alla Madonna della Catena, un’antica devozione locale a cui venne poi consacrata l’omonima chiesa, divenuta sacramentale nel 1586.

Il centro faceva parte dei casali (agglomerati rurali) di Acireale, di cui seguì le vicende storiche sino al 1639, quando Aci S. Antonio e S. Filippo si costituirono in università (città) autonoma inglobando anche Aci Catena.

Comprato per procura dai Diana di Cefalà, nel 1672 il casale passò, poiché era compreso nel territorio di Aci S. Antonio e S. Filippo, alla famiglia Riggio, che dotò il centro di numerosi edifici e chiese. Nel 1681 Luigi Riggio ottenne il titolo di principe. Tra i danni segnalati a causa del terremoto del 1693 ci fu il crollo della Matrice, da cui proveniva il toponimo. Nel 1761 venne colpita d una grave alluvione.

Nel 1826, a seguito della divisione da Aci S. Antonio, Aci Catena formò un’unica "universitas" con Aci S. Filippo, che in seguito divenne una sua frazione. Nel 1842 venne elevato a capoluogo di circondario.

2.2.1.5. ACIREALE. Sulla scorta dello pseudo-Orofone, invenzione della storiografia

secentesca, Acireale s’identifica (nell’estensione di Capo Mulini) in

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Camesena (da Cam), che distrutta da un cataclisma sarebbe stata poi ricostruita da Aci (Akis) col nome di Xiphonia. Il mito di Aci, transitato dalla memoria omerica a quella ovidiana, diede poi origine al toponimo. D’età romana sarebbe la denominazione di Aquilia Vetere, la cui sospetta attestazione si ritrova solo a partire dagli storiografi del XVI secolo costituiscono in ogni caso riprova di un centro attivo in età classica col nome di Acis le testimonianze di Silio Italico ("per Aetneos Acis petit aequora fines") e la tavola dell’Itinerarium Antonini che lo indica come stazione di posta. Svariati sono inoltre i reperti d’epoca romana, oggi conservati presso la Pinacoteca Zelantea.

Le vicende della futura Acireale si legano dall’VIII secolo circa alla fortificazione edificata sul mare dai Bizantini, passata poi agli Arabi e quindi ai Normanni. è del 1092 la concessione del castello "nomine Jachium" e del suo territorio al vescovo Ansgerio a seguito della dispersione della popolazione, avvenuta a causa e del terremoto del 1169, ma anche per convenienza economica, il territorio si struttura quindi in vari casali (agglomerati rurali). Ciò rende ragione della diffusione del toponimo "Aci". Tra questi, nel tempo venne ad assumere un ruolo preminente Aquilia Nuova (o Aci Aquilia), sorta su di un promontorio (tale ne sarebbe l’etimologia) identificabile con l’odierna zona della cattedrale di Acireale. Gli Aragonesi concessero la "terra di Aci" nel 1297 a Ruggero di Lauria. Nel territorio di Aci, nel 1357, fu riportata la decisiva vittoria della corona sugli Angioini. Passato agli Alagona nel 1381, il casale ritornò poi al demanio ed ottenne il privilegio di "esenzione dalla dogana" nel 1399, confermato nel 1422 da Alfonso il Magnanimo. Questi provvedimenti molto giovarono alla vita economica del centro. Esso continuò la sua storia attraverso una serie di infeudazioni (tra cui quella dei Platamone) e restituzioni. Con rito celebrato il 3 agosto 1531, dopo l’ottenimento della giurisdizione per privilegio di Carlo V, transitò definitivamente al demanio dopo essere stato, in ultimo, possedimento dei baroni di Mastrantonio. La preminenza economica e demografica di Aquilia, che nel 1569 faceva 779 "fuochi" (nuclei familiari), era tale anche sul piano delle istituzioni amministrative: il viceré Marc’Antonio Colonna nel 1580 le concesse l’"electio duorum Iuratorum dictae Terrae Acis", di contro all’elezione di un solo giurato in ognuno degli altri casali. Nel 1583 essa divenne pure "capo-comarca" (suddivisione esattoriale). Sul finire del XVI secolo il suo territorio fu vessato da carestie ed epidemie.

Nel 1602 il centro contava 1.400 fuochi. Le rimostranze dei casali "minori" contro lo strapotere di Aquilia sfociarono nel 1628 nel distacco di Aci S. Antonio e S. Filippo, che ottennero di costituirsi in "universitas" (città). Tuttavia, l’anno successivo Aquilia acquisì il "privilegio di Unione della città". Nel 1630 si ebbe da parte del potere centrale una ristrutturazione amministrativa al fine di riequilibrare le funzioni dei vari centri. I due casali infine ottennero la separazione nell’ottobre 1639, quando Aci Aquilia registrava una popolazione costituita da 4.295 fuochi. Nonostante l’acquisita demanialità, il centro fu in pericolo di vendita in tre diverse occasioni tra XVI e XVII secolo. La denominazione di Aci Reale

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venne affermandosi sul finire del XVII secolo, anche se alcune fonti tarde legano il toponimo ad un privilegio che sarebbe stato concesso da Filippo IV nel 1642. Dopo il catastrofico terremoto del 1693, si inaugurò una fervida stagione edilizia, di cui è testimonianza l’attuale splendore di palazzi e chiese. Il Settecento fu però segnato da carestie e varie calamità, oltre che da frequenti liti con i centri e le terre di confine per l’esercizio dei diritti comuni sul bosco di Aci. Nel 1793 Aci Reale ed il suo territorio contavano 19.732 anime. Tra Sette e Ottocento si accesero pure le rivalità di natura economica con Catania.

Nel 1806 venne ottenuto il privilegio del nome di Senato per il governo cittadino. Nel 1817 venne incluso tra i comuni compresi nel neo-costituito distretto di Catania. Nel 1818 Aci Reale fu colpita dal terremoto che fece numerosi danni e nel 1837 dal colera. Con Real decreto del 3 febbraio 1838 venne elevata a capoluogo di distretto (suddivisione amministrativa). Il 27 giugno del 1844 veniva istituito il vescovado.

Il centro partecipò ai moti del 1848 (subì quindi la repressione borbonica), alle vicende del 1860 e fu sede di giudizio per gli arresti avvenuti in seguito alle sommosse di Randazzo. Nel 1867 si ebbe un’epidemia di colera. Nel 1870 si inaugurò il Teatro Bellini e nel 1873 le Terme. Nel 1881 il centro e le sue frazioni avevano 38.547 abitanti. Del 1884 è l’istituzione del Liceo Gulli e Pennisi. Tra il 1911 ed il 1914 fu colpita da terremoti che arrecarono danni agli edifici e fecero alcuni morti. Nel 1921 gli abitanti erano 34.674.

2.2.1.6. ACI S.ANTONIO. Il toponimo è una denominazione comune ai vari centri della zona,

che vantano leggendarie origini da Acis: si richiama comunque al medesimo apparato mitologico di Acireale. La denominazione completa trae origine dalla parrocchia di S. Antonio abate (chiesa sacramentale dal 1556), nella zona di Casalotto. Compreso nel gruppo di centri di cui si suole individuare il nuovo insediamento a seguito del terremoto del 1169, la sua vicenda storica è strettamente connessa a quella di Acireale - nell’alternanza tra stagioni feudali ed appartenenza demaniale - poiché ne costituì un casale (agglomerato rurale), sino alla prima metà del Seicento. Staccatosi nel 1628 da Aci Aquilia (Acireale) insieme a S. Filippo, con quest’ultimo venne a formare un’"universitas" (città). Il distacco fu però avversato da Aquilia che ottenne la parziale riunione. La separazione definitiva si ebbe poi di lì a qualche anno, nel 1639, a seguito dell’esborso alla corona di 20.000 scudi. Ma la stagione demaniale ebbe vita breve. Nel 1645, infatti, l’università fu alienata al marchese Nicolò Diana Cefalà. Nel 1647 se ne staccò Aci Castello, nel 1652 Aci Bonaccorsi, che in precedenza era anch’esso parte integrante del suo territorio. Nel 1672 Aci S. Antonio (e S. Filippo) entrò poi in possesso di Stefano Riggio, principe di Campofiorito. Fu duramente colpito dal terremoto del 1693, cui seguì un’intensa fase ricostruttiva. Nel 1790 ai Riggio successero i Rossi.

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Nel 1826 si ebbe la scissione in due comuni: Aci S. Antonio e Aci S. Filippo - Catena. Aci S. Antonio fu colpito dal colera nel 1837 e nel 1867 e riportò diverse vittime. Appartenne alla diocesi di Catania sino al 1844, e poi ad Aci Reale che in quell’anno ottenne il vescovado. Nel 1951 Valverde, che era parte del suo territorio, ottenne dopo una lunga vicenda di rivendicazioni, l’emancipazione.

2.2.1.7. BELPASSO. La vicende storiche di Belpasso appaiono fortemente condizionate

dall'azione distruttiva delle colate laviche dell'Etna, oltre che dall'intensa attività sismica legata al vulcano sul cui versante meridionale essa è attualmente ubicata. Le piccole comunità agricole diffuse ma prive di reti viarie che ne caratterizzarono l'insediamento abitativo nel basso medioevo, infatti, dovettero affrontare, a più riprese, le complesse problematiche relative alla gestione della ricostruzione e dell'eventuale scelta di un nuovo sito. A partire dal XVI secolo, inoltre, iniziarono le dispute territoriali con la vicina Paternò, divenuta nel 1456 possesso feudale dei Moncada, e alla cui espansione corrispondeva necessariamente una notevole riduzione degli spazi di pertinenza degli abitanti degli agglomerati rurali di Malpasso, nome con il quale il centro era allora chiamato, presumibilmente a causa dell’accidentalità dei suoli vulcanici o delle insidie e dei pericoli di imboscate a cui era di sovente esposto chi, anticamente, transitava nella zona (dal latino "malus passus", che significa "passo pericoloso"). E fu proprio attorno a queste due tematiche, ossia il rapporto con il vulcano e la definizione dei propri confini territoriali pur all'interno del principato dei Moncada, che si articolò l'azione politica della comunità durante il XVI ed il XVII secolo. Nel 1537 la lava ricoprì alcuni dei casali di Malpasso. Gli anni immediatamente successivi videro la popolazione impegnata, oltre che nella naturale opera di ricostruzione, anche nell'avanzamento di continue richieste di affrancamento dalla giurisdizione dei vicini signori di Paternò. Tali contese portarono, nel 1636, ad una partizione territoriale con la conseguente assegnazione di una zona ben delimitata con prerogative giurisdizionali autonome all'"Universitas" (= comunità) di Malpasso. Nel 1669 un'ulteriore e devastante colata lavica indusse gli abitanti a trasferire a sud-ovest il nuovo insediamento, la cui nuova denominazione di "Fenicia Moncada", oltre ad onorare il principe, alludeva al favoloso uccello che si riproduceva dalla proprie ceneri. Alcune famiglie, però, non si stabilirono nel nuovo sito, ma in una zona ad est del vecchio quartiere "La Guardia" dell'ormai in rovina Malpasso, dal quale provenivano, e crearono, in tal modo, l'abitato di "Stella Aragona". Le modalità relazionali fra le due nuove comunità furono fissate con un atto pubblico nel 1687. Il disastroso terremoto del 1693 costrinse nuovamente gli abitanti di Fenicia Moncada ad affrontare la questione della riedificazione. In quell'occasione fu deciso lo spostamento del nuovo insediamento, il quale ebbe l'attuale denominazione di Belpasso, nella località S. Nicola, a nord del piano Garofalo, in una zona

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contigua con la vecchia Malpasso, oltre che più vicina alla comunità di Stella Aragona. L'assetto urbanistico del nuovo centro si configurò seguendo il suggestivo tracciato a scacchiera, predisposto dal capomastro nisseno Michele Cazzetta, e che fu ricollegato successivamente all'abitato di Stella Aragona. Nei decenni seguenti la popolazione del nuovo centro si accrebbe in maniera considerevole, passando dalle 3426 unità censite nel 1713 alle 5114 del 1798, alle 6532 del 1831 ed alle 7438 della metà dell'Ottocento. Le successive minacce di colate laviche (1886, 1910, 1983, 1985) non ne modificarono più in maniera significativa il tracciato.

2.2.1.8. CAMPOROTONDO ETNEO. Le prime notizie storiche sull'esistenza di Camporotondo, risalgono al

XVI secolo. A quell'epoca esso costituiva uno dei numerosi piccoli agglomerati rurali ("casali") sparsi lungo il territorio catanese e costituenti un complesso insediativo integrato con il centro urbano di Catania. Il Fazello, nelle sue "De rebus siculis decades duae" (1560), lo annovera fra quei villaggi noti come "le vigne dei catanesi". Quando le urgenze finanziarie della Corte spagnola indussero il sovrano Filippo IV ad alienare alcuni dei beni posseduti dal demanio regio in Sicilia, i casali catanesi, e fra essi Camporotondo, si trovarono al centro di un complesso mercato, il cui interesse fu accresciuto dalla possibilità di conseguire, congiuntamente al possesso dei borghi in questione, i titoli nobiliari di principe e di marchese. La gestione della compravendita venne affidata al cittadino genovese Giovanni Andrea Massa, al quale la Corte conferì l'autorità di potere acquistare "pro nominanda persona" il numero di casali che egli ritenesse opportuno, per poi rivenderli in modo vantaggioso. Fu così che il 18 aprile 1649 il pubblico notaio messinese Antonio Mare redasse il contratto di vendita con il quale il Massa cedeva Camporotondo ad Antonio Reitano. Il prezzo pattuito per la vendita fu di 2.800 onze. Nel 1654 esso fu poi acquisito da Diego Reitano, che ottenne il titolo di marchese l'anno successivo. Il territorio fu ricavato in parte da quello della vicina Paternò ed in parte dal patrimonio della città di Catania e fu soggetto alla giurisdizione civile e criminale ("mero e misto imperio") del marchese, ma esentato da ogni sorta di vincolo di tipo feudale. Negli anni successivi la popolazione del marchesato crebbe in misura considerevole, passando dai 220 "fuochi" (nuclei abitativi") censiti nel 1602 alle 895 unità del 1652 ed alle 1.600 del 1655. Nel marzo del 1669 l'abitato fu distrutto dalla colata lavica dell'Etna, che indusse i residenti a trovare rifugio nella città di Catania, dove in molti decisero di stabilirsi. Ciò causò un brusco decremento demografico di Camporotondo, che contò, nel 1681, soltanto 593 abitanti. Il successivo disastroso terremoto del 1693 fece registrare un ulteriore diminuzione della popolazione, che ancora nel 1714 consisteva in 181 unità e che, per tutto il XVIII secolo, fu caratterizzata da un lieve incremento (370 abitanti nel 1737 e 565 nel 1798). Nel 1730 il possesso feudale del marchesato passò, per via matrimoniale, alla famiglia Natoli. A seguito dell'abolizione della feudalità (1812) e delle riforme amministrative

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borboniche del 1816-19 Camporotondo divenne Comune autonomo. I nuovi amministratori, ritenendo che nel territorio comunale dovesse essere inclusa anche una parte di quello della contigua Belpasso, ne avanzarono istanza, ottenendone, nel 1819, l'aggregazione. Pochi anni dopo, a causa della concessione enfiteutica ad un singolo di un tratto di terreno sciaroso sul quale gli abitanti esercitavano gli usi civici, sorsero i primi contrasti territoriali con il Comune di Belpasso, che contestava la legittimità del provvedimento. Tale disputa si protrasse a lungo, caratterizzando per diversi anni le relazioni fra le istituzioni municipali dei due paesi.

2.2.1.9. GRAVINA. Denominata anticamente "Plache" (l’uso permane ancora nei

documenti settecenteschi), l’etimologia dell’originario toponimo rimane tuttora incerta.

Tra i casali (agglomerati rurali) di Catania, nel 1602 aveva 30 abitanti. Nel 1646 venne acquistata da Girolamo Gravina, che in precedenza aveva comprato S. Giovanni Galermo. Dai Gravina ottenne quindi il titolo di principato ed il nuovo nome. Pervenne poi tramite matrimonio ai Valguarnera, che ne detennero il possesso sino al XIX secolo.

Nel 1652 Gravina aveva 715 abitanti e nel 1681 si attestò in calo sui 634. Devastato dal disastroso terremoto del 1693, la sua popolazione nel 1714 contava 768 anime e sul finire del secolo si attestava sui1.103 abitanti.

Nel 1817 compare col toponimo "Gravina Plachi" nella lista dei comuni compresi nel distretto di Catania, appena costituito dalla riforma amministrativa borbonica. Dal 1862 il toponimo aggiunse la specifica "di Catania".

2.2.1.10. MASCALUCIA. Le testimonianze archeologiche rinvenute soprattutto nella contrada

"Ombra" e nel quartiere "Trinità" rivelano un abitato risalente almeno all’epoca romana.

Il toponimo, appunto di probabile derivazione latina, nella versione "Massalargia" ("massa" vale "villaggio" e "largia" "dono") appare riportato in una lettera di papa Gregorio Magno (VI-VII secolo). Con la venuta dei Normanni, tra le terre assegnate al vescovo di Catania compare "Mascasia". Del 1308 è la versione "Mascalcia" alla cui chiesa di S. Nicolò era all’epoca già riconosciuta la dignità parrocchiale. Del 1349 è un documento da cui risulta la grafia "Maniscalcia", divenuta "Maniscalchia" in un analogo quattrocentesco.

Mascalucia venne successivamente a far parte della schiera di casali (agglomerati rurali) amministrati da Catania. Nel 1602 la sua popolazione si attestava sui 1.150 abitanti. Nel 1641 il centro etneo fu alienato dalla corona, bisognosa di nuovi cespiti d’entrata, a Giovanni Andrea Massa e

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da questi passò a Niccolò Placido Branciforte, principe di Leonforte e Butera che divenne duca di Macalucia nel 1651. Come altri casali, nel 1652 venne riacquistata da Catania (per tornare poi in breve tempo nelle mani dei precedenti compratori). In quell’anno contava 1.413 abitanti. Durante l’eruzione del 1669 una "lingua di fuoco molto spaventevole che calava per sotto la terra di Mascalucia, qui abruciò più di cento case e molte possessioni". Gravissime le perdite causate dal terremoto del 1693, cui seguì la riedificazione del centro poco distante dall’insediamento precedente. Nel 1713 il casale contava 1.570 anime. Nel 1817 Mascalucia viene indicato tra i comuni ricadenti nel distretto di Catania, voluto dalla riforma amministrativa borbonica.

Il terremoto del 1818 vi causò ancora seri danni. Nel 1819 il centro divenne capo-circondario (suddivisione giudiziaria) dei territori di Massannunziata, Pedara, Trecastagni, Zafferana, Viagrande, Tremestieri, Gravina, Pisano e Fleri. Con l’analoga attribuzione di capo-circondario a Trecastagni, nel 1838 Mascalucia venne a controllare invece S. Giovanni la Punta, S. Gregorio, Trappeto, S. Agata li Battiati, S. Giovanni Galermo, S. Pietro Clarenza, Tremestieri, Gravina e Massannunziata.

Il movimentato XIX secolo vide il centro etneo distinguersi nella partecipazione ai moti: sede di una "vendita carbonara" (aggregazione politica rivoluzionaria) dal 1821, prese parte alle insurrezioni del ‘37 ed a quelle del ‘48 e subì poi le conseguenti epurazioni borboniche. Salutò con attiva partecipazione anche lo sbarco garibaldino. Nel 1873 aveva 3.071 abitanti, compresa la frazione di Massannunziata. Nel 1943, fu teatro di scontri di civili con le truppe tedesche.

2.2.1.11. MISTERBIANCO. Come molti altri centri della Sicilia, Misterbianco ammanta il proprio

passato più remoto di origini tanto prestigiose quanto di fantasia, sebbene erudita. Insieme a vari agglomerati alle pendici dell’Etna, sarebbe infatti frutto della venuta di Cam nell’isola a seguito del diluvio universale. L’etimologia del nome pare si possa ricondurre, come attesterebbero gli atti più antichi, a "Monasterium album", anche se di quale monastero benedettino si trattasse non resta memoria certa. Probabilmente attorno al monastero si sviluppò il primo nucleo abitato. Un’altra interpretazione vorrebbe invece il toponimo originato da "mosto bianco".

"Mosterbianco" - che nel 1602 aveva ben 3.030 abitanti - faceva parte della schiera dei casali (agglomerati rurali) di Catania, dalla quale si rese autonomo nel 1640 ottenendo l’indipendenza amministrativa e giudiziaria. Nel 1642 fu però alienato a Giovanni Andrea Massa a da questi, per un totale di 32.000 scudi, passò a Vespasiano Trigona di Piazza. Nel 1652, l’anno in cui Catania procedette alla sua temporanea ricompra, Misterbianco contava 3.656 anime. Dopo la disastrosa eruzione del 1669, il centro venne ricostruito su di un terreno appartenente al monastero di S. Chiara di Catania. Nel 1685 il Trigona ottenne il titolo di duca di Misterbianco. Il centro, sebbene venisse colpito dal terremoto del

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1693, riportò un massimo di quattro decessi. Nel 1737 contava 2.321 anime e nel 1798 passava a 3.076. Nel 1817 Misterbianco compare in qualità di comune nella lista dei centri del neo-costituito distretto di Catania. Nel 1830 fu edificato il palazzo del Senato.

2.2.1.12. MOTTA S. ANASTASIA. Nei pressi di un castello restaurato da Ruggero e assegnato al

vescovo di Catania crebbe il borgo che rimase fino al 1267 alla chiesa catanese e poi fu possesso di Enrico Russo, Rinaldo Perolo, Sancio Ruis de Lihori. Pervenuto alla famiglia Moncada divenne comune nel 1818

2.2.1.13. NICOLOSI. Il toponimo "Nicolosi" trae origine dal monastero benedettino di S.

Nicolò l’Arena d'epoca normanna. Un diploma dell’aprile 1156 registra la donazione fatta dal conte di Policastro e signore di Paternò alla chiesa di S. Leone dell’ospizio e della chiesa "quae dicitur de Arena". Da un altro diploma successivo (1359) si apprende che da ospizio esso era frattanto divenuto monastero alle dipendenze di quello di S. Maria di Licodia. La nascita del borgo avviene probabilmente durante il XIV secolo, quando i monaci benedettini vennero affrancandosi dalla potestà giuridica del monastero di Licodia. Nel 1447 Nicolosi venne infeudata al principe Moncada di Paternò e tale restò fino al XIX secolo.

A seguito dell’eruzione del 1536 e del terremoto del 1542 la comunità benedettina decise di abbandonare il malsicuro sito e trasferirsi nella grangia (convento) "extra moenia" che possedeva a Catania, luogo già da tempo auspicato dagli stessi come più confacente per ragioni di comodità.

Nel 1601 Nicolosi ottenne l’autonomia nella sfera spirituale da Mompilieri, ottenendo la dignità sacramentale. Nel rivelo (censimento) del 1602 contava, insieme a Mompilieri, 2.400 abitanti. Tuttavia, il suo sviluppo demografico fu fortemente condizionato, nel tempo, dai terremoti: nel 1653 registrava così 515 abitanti contro i 4.120 di Malpasso (Belpasso), anch’esso possedimento dei Moncada. l'eruzione del 1669 fece danni devastanti, tali da indurre il principe di Paternò a radunare i sopravvissuti di Nicolosi e di altre terre vicine per fondare un nuovo centro, che in onore alla propria famiglia chiamò Fenicia Moncada. La scelta del sito si rivelò infelice per le malsane condizioni del luogo, e nel 1671 gli abitanti, per nulla soddisfatti della nuova sede, furono autorizzati a procedere alla ricostruzione dell'antico centro. Nicolosi venne così risollevandosi e nel 1676 ottenne la concessione, rilasciata dal principe di Campofranco - vicario e procuratore generale del cardinale Moncada - di amministrarsi in proprio. Esso, comunque, restò soggetto per gli affari giuridici a Fenicia Moncada fino al 1693. In ragione del terribile sisma del ‘93, passò quindi alle competenze di Belpasso. Numerose furono le liti con quest’ultimo centro a cagione dei diritti di pascolo e di legnatico che esso deteneva nei boschi di Nicolosi, diritti cui fu posto termine solo nel 1823.

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Nel corso del XVIII secolo la crescita di popolazione ebbe una ripresa: nel 1739 il centro etneo contava 1.476 abitanti, mentre nel 1798 saliva a 2.520. Nel 1817 la riforma borbonica lo vide tra i comuni ricadenti nel neo-costituito distretto di Catania. Il XIX secolo segnò una leggera flessione demografica: nel 1831 si contavano 2.430 abitanti mentre nel 1871 solo 2.381. Nel 1835 venne aperta un’importante strada di collegamento (la futura via Etnea) che ruppe l’isolamento del centro. Del 1886 rimane memoria di un’eruzione e di una processione per fermare la lava capeggiata dal cardinale Dusmet.

2.2.1.14. PATERNO`. Le origini dell’odierno centro abitato sono legate alla presenza, sulla

Rocca Normanna di un insediamento medievale pertinente al dongione normanno che vi si eleva altissimo ed ai numerosi edifici monumentali come la chiesa di Santa Maria dell’Alto ed il convento dei Cappuccini ma il territorio attorno alla rocca, se non la stessa emergenza vulcanica, accolsero tre distinti centri: Aitna, Inessa ed Hybla Gereatide tutte legate alle vicende storiche siciliane di età greca e pregreca.

In età romana fu un importante crocevia commerciale come dimostrano i numerosi ponti costruiti sul corso del Simeto. Occupata dagli arabi nel IX secolo, che le diedero il nome di Batarnu`, venne dotata di mezzi di canalizzazione dell'acqua e di una rete di mulini. In età normanna fu fortificata dal conte Ruggero. Paterno` divenne patrimonio della Camera reginale fino al 1431 quando fu venduta a Nicolo` Speciale il quale a sua volta, nel 1453, la cedette a Guglielmo Raimondo Moncada. La famiglia Moncada mantenne il possesso del centro fino all'abolizione della feudalita`. Fu centro di cospirazioni antiborboniche durante il Risorgimento. Sul finire del secolo XIX vi sorsero numerose societa` operaie che aderirono alle rivolte sociali del 1896.

2.2.1.15. PEDARA. Le origini favolose del centro vantano una tradizione molteplice al

riguardo del toponimo, frutto dell’esigenza di ancorarne il prestigio all’antichità. Esso si fa risalire ad "Epidaurum" la città del Peloponneso da cui si vuole che partisse la colonia dei fondatori, oppure ad "Apud aram" in collegamento con le rovine ritrovate nella zona della Torre del filosofo. Infine, vi è chi attribuisce al nome il significato di "terra pingue".

in epoca medievale era uno dei tanti casali (agglomerati rurali) dell’Etna e dipendeva amministrativamente da Catania. Nel 1388 il vescovo di questa città concedeva la licenza di fabbricarvi una chiesa e l’innalzava quindi alla dignità parrocchiale, il che dotava Pedara dell’autonomia nell’amministrazione dei sacramenti. Il centro ebbe uno sviluppo contrastato per i danni subiti dalle frequenti eruzioni e terremoti. Al riguardo delle prime, lasciarono il segno sull’antico territorio quella del 1408, che ne marcò i confini ad est, e quella del 1444, che la delimitò ad

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ovest. Il primo documento successivo alle eruzioni ad oggi ritrovato è del 1520, e tratta di una concessione territoriale "de contrada Pedare". Da quest’epoca i documenti si fanno frequenti.

Nel 1602 Pedara aveva 1.060 abitanti e passava a 1.688 nel 1636. Nel 1641 per volontà di Filippo IV, in ragione dei bisogni d’introiti sempre pressanti per la corona - da cui un’ampia cessione di casali della zona in quella stagione - Pedara venne venduta per 12.500 scudi al messinese Domenico di Giovanni, che acquisì anche il "mero e misto imperio" (l’esercizio della giustizia). La vendita causò malcontento nel Senato catanese, che lamentò la perdita di un luogo di "difesa e sussistenza". esso si apprestò così alla ricompra nel 1652, intentando una causa - come di prassi - che fu perorata dal famoso giurista Mario Cutelli. Dopo due anni però il governo centrale la concesse ancora al di Giovanni. a quel tempo il centro etneo dipendeva amministrativamente da Aci, che nel 1583 era divenuta "capo-comarca" (suddivisione esattoriale).

Il Seicento fu un secolo tristemente memorabile per i cataclismi della Sicilia orientale. Rimane così nella memoria di Pedara l’eruzione del 1669 ed il conseguente terremoto, insieme a quello più vasto del 1693 che causò al centro etneo fino a 300 morti. tra le rovine si contò pure il teatro - simbolo di una certa vivacità culturale - eretto appena nel 1689, e mai più ricostruito in seguito al crollo.

Nel 1714 la popolazione si attestava sulle 1.952 anime e sul finire del secolo sui 2.063 abitanti. Il Settecento vide Pedara al centro di due importanti liti per i diritti sul territorio, l’una contro il principe di Paternò in ragione di una gabella (tassa) l’altra contro il vescovo di Catania al riguardo dell’assegnazione delle "terre di promiscuità" (terre di uso comune per più centri). Della prima si conosce l’esito parziale, che fu favorevole al principe e della seconda quello definitivo (del 1892) anch’esso favorevole alla controparte.

Agli inizi del XIX secolo, con la riforma amministrativa borbonica, Pedara divenne comune autonomo. Da una popolazione di 2.817 anime del 1822 passò a 3.400 nel 1852, mentre subì una flessione nel 1871 (3.114).

2.2.1.16. RAGALNA. L'etimologia del toponimo appare incerta e soggetta a differenti

interpretazioni, fra le quali la più accreditata dagli studiosi ne attribuisce la derivazione ai vocaboli arabi "reg" ed "alèna", i quali, significando rispettivamente "pietra" e "vento leggero", farebbero riferimento alle due principali peculiarità del sito in questione. La prima fonte documentaria che menziona "Recalena" o "Regalena" risale al 1136 ed è costituita dall'atto di donazione di terre al Monastero di San Leone di Pannacchio effettuata da Enrico, Conte di Policastro e Signore di Paternò. Nei decenni successivi le vicende storiche del sito risultarono strettamente connesse, in un primo tempo, a quelle dei Monasteri presenti nel territorio di Paternò (il già citato San Leone di Pennacchio e quello di San Nicolò l'Arena) e, dopo

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l'infeudazione ai signori di Paternò, a quelle degli altri possedimenti della famiglia Moncada. L'eruzione dell'Etna del 1780 minacciò seriamente l'abitato di Ragalna, la cui sopravvivenza fu attribuita, nella tradizione popolare, all'azione miracolosa delle reliquie della patrona Santa Barbara. A seguito dell'abolizione della feudalità e con le riforme amministrative del 1816-19 Ragalna divenne frazione del Comune di Paternò. Nell'estate del 1943 il suo territorio divenne sicuro rifugio per le popolazioni di Paternò e Catania, in fuga dai bombardamenti aerei.

Nel 1985 fu elevato a Comune autonomo. 2.2.1.17. S.GIOVANNI LA PUNTA. Il toponimo "Joannes de Puncta" viene fatto risalire alla

conformazione geomorfica del territorio, probabilmente collegata alla colata lavica del 1444, fermatasi all’entrata del borgo, già all’epoca esistente.

San Giovanni La Punta era uno dei numerosi casali (agglomerati rurali) di Catania. Nel 1602 aveva 960 abitanti e nel 1636 scendeva a 942. Nel 1646 si rese comune autonomo da Catania in seguito all’acquisto fattone da Giovanni Andrea Massa, ma nel 1652 Catania la ricomprò insieme ad altri casali. Di lì a breve venne nuovamente alienato al Massa, il cui figlio ottenne il titolo di duca di S. Giovanni La Punta. Nel 1681 la sua popolazione era costituita da 1.082 anime. Venne raso al suolo dal terremoto del 1693, in cui si contarono fino a 15 morti.

Nel 1737 aveva 1.297 abitanti e nel 1798 calava a 850. Nel periodo 1806-1831 registrò un aumento di popolazione pari al 60%, come attestano i riveli (censimenti) di quegli anni. San Giovanni La Punta divenne comune autonomo con la riforma borbonica del 1817, come da Regio Decreto n. 122. Nel 1831 vi fu aggregata la frazione di Trappeto.

2.2.1.18. S.GREGORIO. Il toponimo si lega al culto del santo ed alla chiesa omonima. Era uno dei casali (agglomerati rurali) di Catania e seguì le vicende

del vicino centro di S. Giovanni la Punta. Nel 1646 venne, infatti, acquistato dal genovese Giovanni Andrea Massa. Nel 1652 venne ricomprato da Catania, insieme ad altri casali, ma tornò presto alla famiglia genovese. Nel 1636 San Gregorio contava 556 abitanti. Fu colpito in modo devastante, come tutto il territorio catanese, dal sisma del 1693. Nel 1748 aveva una popolazione di 567 anime e sul finire del secolo passava a 826. Nel 1817 veniva registrato come comune del distretto di Catania.

2.2.1.19. S. PIETRO CLARENZA. S. Pietro faceva parte del gruppo dei casali (agglomerati rurali) di

Catania, alla cui storia va sostanzialmente ricondotto, fino a quando non venne alienato. Verso la metà del XVI secolo i fedeli richiesero l’istituzione

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di una chiesa sacramentale, ottenendo così l’autonomia per gli affari di culto da Misterbianco, di cui era originariamente pertinenza.

Acquistato insieme ad altri centri da Giovanni Andrea Massa, venne da questi quasi subito rivenduto, nel 1646, ad Antonio Reitano, il quale fu nominato di lì a breve principe (1648). Nel 1652 la sua popolazione era costituita da 1.021 abitanti. Per via matrimoniale S. Pietro pervenne quindi ai Pietrasanta. L’eruzione ed i terremoti del 1666 e 1693 segnarono fortemente il territorio e la densità dell’abitato. Nel 1681 scendeva così a 496 anime, nel 1714 si manteneva sui 492 e nel 1737 saliva a 603. Nel 1744 il principe Egidio Pietrasanta e Reitano ereditò il casale ed il suo territorio insieme al mero e misto impero (l’esercizio della giurisdizione). Nel 1769 S. Pietro fu venduto a Giuseppe Maria Chiarenza e Trigona, principe di Santa Domenica. Con ogni probabilità il centro assunse da allora in poi la sua denominazione completa in onore del cognome di quella famiglia. Il titolo di principi di San Pietro rimase però ad honorem alla famiglia Pietrasanta, mentre i Chiarenza assunsero quello di baroni. Dai Chiarenza Trigona, per via matrimoniale, il borgo pervenne in ultimo ai Paternò Castello.

Alla fine del XVIII secolo S. Pietro Clarenza contava solo 235 abitanti. Nel 1817 compare tra i comuni voluti dalla riforma borbonica nel distretto di Catania.

2.2.1.20. S.AGATA LI BATTIATI. Il toponimo è di origine incerta: vi è chi lo lega alla chiesa di S. Agata,

in cui venivano amministrati i sacramenti, nell’accezione "li battiati" ossia "i battezzati", oppure chi lo fa risalire ai ceppi più antichi di abitanti, appunto i Battiati. Il centro fece parte dei casali (agglomerati rurali) di Catania, alla cui storia complessiva si ascrive. Dell’eruzione del 1444 rimane memoria per l’arresto della lava nel quartiere dei "Valenti Battiati", da cui sarebbe conseguita la costruzione della chiesa di S. Agata, in ragione dello scampato pericolo. Questa testimonianza - comunque indiretta - avvalorerebbe il secondo significato del toponimo.

Giovanni Andrea Massa comprò il casale negli anni Quaranta del XVII secolo insieme a S. Giovanni Galermo, S. Agata, Trappeto, Tremestieri, Mascalucia, Plache, Camporotondo, S. Pietro e Mompilieri (molti dei quali rivendette di lì a breve) per un totale di 35.000 scudi. Nel 1652 S. Agata contava 326 abitanti. Nel 1714 aveva una popolazione di 281 anime e nel 1798 arrivava a 317. Divenne comune a seguito della riforma borbonica del 1817.

2.2.1.21. S. MARIA DI LICODIA. Le origini dell’odierno centro abitato sono legate alla presenza, sulla

Rocca Normanna di un insediamento medievale pertinente al dongione normanno che vi si eleva altissimo ed ai numerosi edifici monumentali come la chiesa di Santa Maria dell’Alto ed il convento dei Cappuccini ma il

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territorio attorno alla rocca, se non la stessa emergenza vulcanica, accolsero tre distinti centri: Aitna, Inessa ed Hybla Gereatide tutte legate alle vicende storiche siciliane di età greca e pregreca.

In età romana fu un importante crocevia commerciale come dimostrano i numerosi ponti costruiti sul corso del Simeto. Occupata dagli arabi nel IX secolo, che le diedero il nome di Batarnu`, venne dotata di mezzi di canalizzazione dell'acqua e di una rete di mulini. In età normanna fu fortificata dal conte Ruggero. Paterno` divenne patrimonio della Camera reginale fino al 1431 quando fu venduta a Nicolo` Speciale il quale a sua volta, nel 1453, la cedette a Guglielmo Raimondo Moncada. La famiglia Moncada mantenne il possesso del centro fino all'abolizione della feudalita`. Fu centro di cospirazioni antiborboniche durante il Risorgimento. Sul finire del secolo XIX vi sorsero numerose societa` operaie che aderirono alle rivolte sociali del 1896.

2.2.1.22. S. VENERINA. Le origini del sito vanno fatte risalire alla storia di Acireale e del

gruppo di casali (agglomerati rurali) costituitisi in epoca medievale intorno al Castello di Aci, la cui popolazione si disperse dopo il terremoto del 1169. Del 1126 è la definizione dei confini del feudo di S. Venera (che attualmente è il centro che porta tale nome nel territorio di Mascali da non confondersi con S. Venerina), dove si fa menzione "de hospitali Blanchardi", quella Bongiardo che avrebbe costituito uno dei territori del futuro comune di S. Venerina. Bongiardo vanta origini assai remote, come attesterebbero reperti archeologici del VI secolo d.C. L’insieme delle aree abitate che verranno poi a confluire nel comune, seguì quindi le modulazioni della storia di Acireale, tra stagioni feudali e demaniali, e quindi il definitivo ritorno alla corona nel 1531. Nel 1651 S. Venera venne proclamata patrona di Aci Aquilia (Acireale). Del 1796 è un documento del vescovo di Catania ove si riscontra esattamente il toponimo Santa Venerina.

Nel 1934 "le frazioni di S. Venerina, Dagala del Re e Bongiardo, rispettivamente nei comuni di Zafferana etnea, nonché le borgate di Monacella (Giarre), Linera e Cosentini (Acireale) sono costituite in comune autonomo, con denominazione S. Venerina". In realtà, la suddivisione territoriale venne effettuata solo nel 1936. Nel 1951 fu staccata la frazione di Petrulli, riassegnata a Zafferana.

2.2.1.23. TRECASTAGNI. Le origini di Trecastagni sono tratte dalla storia di Sicilia interpretata

dagli antichi storiografi, in una mistione di invenzione, mitologia e richiami biblici. Il sito sarebbe stato originato da Cam e prenderebbe il nome da "Trium Castrorum" in ragione della suddivisione in tre accampamenti all’atto dello stanziamento. Altre tradizioni legano il toponimo alla remota presenza di altrettanti castelli, al passaggio della terna di santi cui sin oggi

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si tributano festeggiamenti, Alfio Filadelfo e Cirino - i "tre casti agni" - o ancora alla presenza di tre famosi castagni.

Diversi ritrovamenti archeologici nella zona accreditano la presenza di popolazione sul territorio in epoca classica. Le prime testimonianze storiografiche sono relative al XIV secolo. Nel 1357 Trecastagni pare subisse un saccheggio da parte della fazione, ribelle alla corona, dei Chiaramonte e resta pure memoria della resistenza del centro etneo contro gli Angioini. Nel 1374, secondo quanto si legge in una fonte successiva, nella zona vi sarebbe stato un castello: "Extabat Federici III aevo Trecastaneum oppidum". L’eruzione del 1408 danneggiò il centro, ma comunque fu possibile tornare ad abitarlo. La bolla papale di Eugenio IV testimonia che nel 1446 la chiesa matrice di S. Nicola godeva della dignità parrocchiale.

Nel 1602 Trecastagni contava 4.230 abitanti e costituiva il casale (agglomerato rurale) più grande di Catania, dalla quale fu amministrato sino al 1640. Nel 1641 subì una sorte comune ad altri casali della zona etnea: la vendita a Domenico di Giovanni da Messina - che acquistò pure Pedara e Viagrande - col titolo di principato. Venne riscattato quindi, insieme ad altri casali, da Catania nel 1652, ma poi tornò al di Giovanni, il quale prese a risiedervi e ne fece il centro principale tra i suoi possedimenti della zona, come attestano la costruzione del palazzo in cui venivano esercitate le magistrature cittadine e l’erezione di un convento nel 1666. Nel 1669 fu devastata dal terremoto legato all’eruzione e nel 1693 venne, come tutta l’area intorno a Catania, duramente colpita dal sisma, tanto da riportare un perdita di popolazione superiore al 30% rispetto al rivelo (censimento) del 1681.

Nel 1700, con il matrimonio di Anna Maria di Giovanni con Giuseppe Alliata e Colonna principe di Villafranca, Trecastagni si legò al titolo di quest’ultimo. Nel 1798 il centro etneo contava 2.406 anime. Nel 1817 Trecastagni si ritrova nella lista dei comuni del distretto di Catania (come da Regio decreto n. 122). Nel 1826 subì il decurtamento di una parte del suo territorio che venne inglobato nel neo-costituito comune di Zafferana. I moti rivoluzionari del 1837 lo videro partecipe. Il 16 aprile 1838 Trecastagni venne elevato a capoluogo di circondario (suddivisione giudiziaria). In ragione dei moti del 1848, subì poi la repressione borbonica. Nel 1853 la popolazione si attestava sulle 3.345 anime e nel 1872 arrivava a 3.600.

2.2.1.24. TREMESTIERI ETNEO. Sull’origine del toponimo esistono almeno due tesi: secondo l’una,

esso deriverebbe da "tre mustera" vale a dire "tre palmenti", secondo l’altra, da "tre monasteri".

Compreso tra i casali (agglomerati rurali) di Catania in qualità di municipio, Tremestieri fu un territorio in cui si registra presenza di popolazione, secondo quanto qualche reperto archeologico testimonia, almeno del periodo romano. Le prime citazioni del toponimo risalgono alla

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stagione normanna nella versione "Tria Monasteria", di cui è riprova un diploma nel 1198 custodito presso le Biblioteche riunite Civica e Ursino Recupero di Catania. Del 1352 è un'altra pergamena con il toponimo "Trium misteriorum". Il centro fu duramente colpito dall’eruzione del 1381 e da quella del 1444. Nel 1446 la chiesa "de Tribus Monasteriis" venne elevata a parrocchia. Nel 1542 fu colpito dal terremoto e nel 1575 dalla peste che imperversò in tutto il territorio catanese.

Nel rivelo (censimento) del 1602 gli abitanti di Tremestieri erano 1.400. Nel 1645 fu venduto, insieme ad altri casali, al genovese Giovanni Andrea Massa. Nel 1646 questi lo cedette a Pietro De Gregorio Buglio, che divenne duca di Tremestieri. Il titolo poi, per ragioni matrimoniali, passò alla famiglia Rizzari. Nel 1652 Catania ricomprò il casale, ma fu costretta a cederlo nuovamente dopo poco. Nel 1681 gli abitanti erano 996. Ebbe tra 30 e 90 i morti nel terremoto del 1693. Nel 1714 aveva 1.244 anime e nel 1798, 1.142. Sul finire del Settecento si sviluppò una contesa tra la chiesa madre e la erigenda chiesa dell’Immacolata. Il centro divenne comune a seguito della riforma borbonica del 1817. Nell’Ottocento varie calamità naturali gravarono sull’economia del centro etneo.

2.2.1.25. VALVERDE. Alcuni ritrovamenti archeologici mosaicali nella zona di Carminello

testimoniano una presenza di popolazione almeno d’epoca romana, e contatti precedenti con i Greci, dei quali sono state rinvenute tracce di vasellame. La località risulta poi conosciuta agli Arabi, come testimonia il nome di una sua località, Casalrosato, anticamente detto Calatarosato. Valverde vanta leggendarie ricostruzioni delle sue origini, legate all’erezione della chiesa di S. Maria da cui si sviluppò il paese. Varie ragioni dell’edificazione sono state fornite da autori del Seicento, che hanno narrato tra l’altro di un avvenimento miracoloso e di un pellegrinaggio di Federico III. Tali circostanze, non suffragate da fonti storiografiche attendibili, sono da ascriversi al genere proprio delle dispute municipalistiche dell’epoca, di cui alcuni di questi autori furono noti esponenti.

Probabilmente la chiesa fu fondata tra XIII e XIV secolo, periodo in cui ebbe diffusione su scala europea il culto della Madonna di Valverde e numerose appaiono le fondazioni di centri similmente denominati. Il primo documento fin oggi ritrovato recante il nome della contrada, risale al 1389. Valverde segue senza modulazioni originali la storia della "terra di Aci", scandita da stagioni d’appartenenza feudale e riscatti con ricompra al demanio. Era infatti uno dei borghi che componevano l’insieme dell'"universitas" (città) del "territorio di Jacii in contrada Sanctae Mariae Vallis Viridis". Alle dipendenze del santuario di Valverde nel XV secolo, tra le altre, vi erano le chiese di Casalotto, Bonaccorsi, S. Giovanni La Punta, S. Gregorio, il che testimonia una premazia esercitata da essa sul circondario. Nel XVI secolo il borgo era costituito da poche case rurali che si sviluppavano lungo due assi principali poco estesi e qualche vicolo. Del

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medesimo periodo abbiamo testimonianze di rivalità tra le chiese della zona, che cercarono di affrancarsi dal controllo amministrativo di S. Maria. Quando Valverde pervenne alla famiglia Riggio, nel 1672, aveva 987 abitanti, contò poi 36 morti nel terremoto del 1693 e sino al 1748 si mantenne sui 1.000 abitanti.

A seguito delle riforme amministrative borboniche, venne a far parte del territorio del comune di Aci Sant’Antonio (1826). Nel 1831 Valverde contava 1.495 abitanti. Nel 1837 fu colpita dal colera e varie furono anche in seguito le stagioni difficili. Essa si sollevò contro la corona e partecipò ai moti del ‘48. Con l’unità d’Italia, reclamò l’istituzione in comune, ma non l’ottenne per mancanza di mezzi finanziari. Agli inizi del Novecento la sua popolazione superava di poco le 2.000 anime. Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo divenne centro di villeggiatura di notabili catanesi, il che diede vita ad una nuova stagione edilizia. Nel 1923-24 si rinnovarono le richieste di autonomia da Aci S. Antonio per questioni legate alla fruizione delle acque cittadine. Scampata ai bombardamenti della II guerra mondiale, Valverde ottenne infine l’emancipazione nel 1951 e divenne comune "comprendente gli agglomerati di Valverde centro, Maugeri, Belfiore, Morgioni, Seminara, Carminello, Casalrosato, Crocefisso, Nizzeti e Fontana", con una popolazione di 1.641 abitanti.

2.2.1.26. VIAGRANDE. Il nome si vuol che derivi dalla strada maestra, appunto "Via

Grande", che portava da Catania a Messina. Svariati reperti archeologici, rinvenuti a partire dal secolo XIX, testimoniano la presenza di popolazione in epoca classica. il toponimo pare comparisse in una iscrizione della chiesa normanna di S. Maria "Nunziatae in Regna Acis": una parte del territorio su cui ricadeva la terra di Viagrande faceva infatti parte della "regione di Aci". L’agglomerato si sviluppò quindi intorno alla chiesa in piccole borgate: Vilardi, Villallori (Viscalori) e S. Antonino. A seguito dell’eruzione del 1408 l’abitato si estese poi proprio su quelle lave.

Nel rivelo (censimento) del 1602 il centro etneo contava 1.620 abitanti. Amministrativamente costituito in municipio, Viagrande dipese da Catania sino al 1640, quando insieme ad altri casali (agglomerati rurali) fu alienato al principe di Giovanni. Ricomprato da Catania nel 1652, venne poi nuovamente acquisita dal principe. Fu colpita assai duramente dal terremoto del 1693, che vi causò, a seconda delle fonti, da 90 a 200 vittime.

Tra la fine del XVII secolo e la prima metà del XIX vi vennero edificate tre opere pie: due case per orfane ed un collegio a scopo educativo. Nel 1798 il centro contava 2.234 abitanti.

Nel 1817 venne registrato comune del distretto di Catania, formato dalla riforma borbonica. Ancora agli inizi dell’Ottocento Viagrande si dotò di un teatro ricavandolo dai resti della diruta chiesa normanna. Esso venne però di lì a breve abbandonato e ne seguì la realizzazione di un altro, che ebbe anch’esso vita breve. Pur nella loro durata limitata, queste attività

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testimoniano una stagione di ricchezza culturale vissuta dalla Viagrande del XIX secolo. Partecipe dei moti del 1837 e del 1848, il centro etneo fu quindi oggetto della repressione post-rivoluzionaria. Nel 1852 la sua popolazione arrivava a 2.686 anime e nel 1872 a 3.200.

2.2.1.27. ZAFFERANA ETNEA. Dal 1387 rimangono documenti da cui si evince la presenza della

chiesa e convento di S. Giacomo (oggi in rovina), probabilmente d’origine normanna, in una contrada appartenuta a Trecastagni ed ora ricadente nel territorio di Zafferana. Il toponimo originario del centro etneo va quindi fatto risalire a quello del territorio conventuale, denominato "Cella", come da un documento del 1494: "contrada di la chella seu di sanctu Iacobu". Il nome "Zafarana" appare attestato almeno dal 1694, e divenne prevalente nel corso del Settecento. Sull’etimologia di quest’ultimo, varie sono le ipotesi: d’origine araba il significato di "fischio del vento", ma più diffusa l’opinione di una derivazione dalle colture locali di zafferano.

Il nucleo abitativo si può fare risalire ai primi del XVII secolo, poiché in un documento del 1647 vengono assegnate alcune rendite alla chiesa S. Giacomo per celebrare messa "pro beneficio animarum ad hoc ut possint die festo ... praecepto ecclesiastico satisfacere" (perché la popolazione possa santificare le festività).

Agli inizi del XVIII secolo il principe di Villafranca - feudatario della terra di Trecastagni - proprietario del feudo della "Zafarana", concesse lo stesso per la coltivazione ad alcuni coloni che presero a risiedervi. L’amministrazione civica di quel territorio, in origine appartenente a Viagrande e Trecastagni, divenne pertinenza di questi ultimi che ne divisero il controllo. Alla chiesa di S. Nicola di quest’ultimo centro furono invece sottoposti entrambi per gli affari spirituali. La lontananza dalle amministrazioni di riferimento, aggravata dalla assai difficoltosa viabilità, generò l’esigenza dell’emancipazione. Una prima forma fu conseguita nel 1753, con la concessione della dignità parrocchiale, provvedimento non privo di rimostranze da parte di Trecastagni, il cui arciprete nel 1757 ottenne che gli abitanti di "Zafarana" gli fossero vincolati per il visto matrimoniale. Il 1792 si ricorda per la vasta eruzione dell’Etna che si protrasse per un intero anno.

Le lamentele per la dipendenza da Trecastagni e Viagrande furono - stando ai "memoriali" (scritti di supplica alle autorità) che ci sono pervenuti - lunghe e continuate, tanto che nel 1813 Zafferana ottenne la "corte capitaniale e civile" per l’esercizio della giustizia, sempre alle dipendenze del principe di Villafranca. Ne seguirono, come di consueto, liti con le antiche amministrazioni. Frattanto il centro aveva incrementato la popolazione passando dai 1.158 abitanti del 1812 ai 1.330 del 1818. In quest’ultimo anno avvenne un terremoto: "La Zafarana, villaggio il più vicino ai nuovi crateri, ne riportò danni notabilissimi e le case di campagna delle vicine contrade ... crollarono quasi tutte" e si contarono 34 morti.

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Posta sotto l’amministrazione di Trecastagni dal 1821, il 21 settembre 1826 fu dichiarata, con decreto di Francesco I, comune autonomo. Nel censimento del 1832 la popolazione contava 2.474 anime. Venuta intanto a dipendere, a seguito della riforma amministrativa borbonica, da Mascalucia per gli affari di giustizia, nel 1838 tornò a fare riferimento a Trecastagni, divenuta nel frattempo "capo di circondario" (suddivisione giudiziaria).

Nel 1934 subì lo scorporo di una parte del suo territorio, la frazione di Bongiardo, che venne assegnato al neo-costituito comune di S. Venerina, dal quale tuttavia nel 1951 fu staccata la frazione di Petrulli, riaggregata a Zafferana.