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Politica Daron Acemoglu, James A. Robinson Perché le nazioni falliscono. 2012 PERCHÉ LEGGERE QUESTO LIBRO Perché le nazioni falliscono è un ponderoso saggio di storia ed economia pubblicato negli Stati Uniti nel 2012 che ha riscontrato uno straordinario successo di pubblico, mietendo tra l’altro svariati premi e riconoscimenti. Daron Acemoglu, professore di economia al MIT di Boston, e James A. Robinson, scienziato politico e professore ad Harvard cercano di rispondere a questa domanda: qual è la causa del successo o del fallimento delle nazioni? Secondo i due studiosi sono le istituzioni politiche ed economiche che fanno la differenza. Un paese progredirà quanto più queste istituzioni saranno inclusive e pluraliste, e fallirà quanto più saranno “estrattive”, cioè utilizzate da determinati gruppi sociali per appropriarsi del reddito e della ricchezza prodotti da altri.

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Politica

Daron Acemoglu, James A. Robinson

Perché le nazioni falliscono.

2012

PERCHÉ LEGGERE QUESTO LIBRO

Perché le nazioni falliscono è un ponderoso saggio di storia ed economia pubblicato negli

Stati Uniti nel 2012 che ha riscontrato uno straordinario successo di pubblico, mietendo tra

l’altro svariati premi e riconoscimenti. Daron Acemoglu, professore di economia al MIT di

Boston, e James A. Robinson, scienziato politico e professore ad Harvard cercano di

rispondere a questa domanda: qual è la causa del successo o del fallimento delle nazioni?

Secondo i due studiosi sono le istituzioni politiche ed economiche che fanno la differenza.

Un paese progredirà quanto più queste istituzioni saranno inclusive e pluraliste, e fallirà

quanto più saranno “estrattive”, cioè utilizzate da determinati gruppi sociali per

appropriarsi del reddito e della ricchezza prodotti da altri.

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ACEMOGLU, ROBINSON – Perché le nazioni falliscono

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PUNTI CHIAVE

Le ragioni del progresso o dell’arretratezza dipendono dal tipo di istituzioni politiche ed

economiche che una società si è data

Le istituzioni possono essere ripartite in due grandi categorie: quelle “inclusive” e quelle

“estrattive”

Esiste un legame indissolubile fra le istituzioni economiche e quelle politiche

Le istituzioni inclusive generano crescita economica, che a sua volta favorisce una

distribuzione ampia e pluralistica del potere nella società

Nel caso di istituzioni estrattive le élite che detengono il monopolio della forza si

appropriano delle ricchezze prodotte da altri per rafforzare il proprio potere

In Inghilterra dopo la Gloriosa Rivoluzione del 1688 e in Botswana dopo l’indipendenza

del 1966 fiorirono delle istituzioni politiche inclusive

Esempi di istituzioni estrattive del passato sono quelle instaurate dai conquistadores

spagnoli nei confronti degli indigeni delle Americhe, e quelle imperniate sullo

schiavismo nelle piantagioni di canna da zucchero delle colonie caraibiche del XVII

secolo

Esempi di istituzioni estrattive più recenti sono i regimi sanguinari, autoritari e

repressivi dell’Africa sub sahariana, la Corea del Nord, alcuni Stati mediorientali, il

Venezuela

La Cina andrà incontro a un rallentamento dei suoi tassi di crescita a causa delle sue

istituzioni poco inclusive e pluralistiche.

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RIASSUNTO

Differenze visive

Circa a metà di Perché le nazioni falliscono sono presenti una serie di riproduzioni e di

fotografie, il cui intento è quello di focalizzare, con la forza che sovente solo le immagini

sono in grado di veicolare, le idee e le tesi che vengono sviluppate ed argomentate nel

corso di più di cinquecento pagine. Tra queste, non lasciano certo indifferenti gli scatti che

catturano dei mondi apparentemente del tutto contrapposti, agli antipodi e distanti anni

luce l’un con l’altro, ma che invece risultano del tutto contigui e prossimi, in quanto divisi

da un banale muro o da un crinale di una montagna: da un lato possiamo scorgere baracche

fatiscenti, strade sterrate e dissestate, sulle quali circolano poche e malandate automobili

(Nogales, Messico), dall’altro edifici recenti e ben ordinati, oltre che parcheggi stracolmi di

auto (Nogales, Stati Uniti); o ancora, nella stessa immagine vengono immortalati dei terreni

aridi e spogli, disseminati di capanne inospitali (Transkei, Sudafrica), che confliggono con i

fondi rigogliosi ed intensamente coltivati, punteggiati di splendide residenze trasudanti

prosperità, adagiati sul versante limitrofo (Natal, Sudafrica).

La domanda sorge spontanea: qual è la scaturigine della ricchezza di Nogales, Arizona, o la

fonte di prosperità del Natal, rispetto agli insuccessi e alle disastrose condizioni materiali

che si riscontrano invece solo pochi chilometri più avanti? La tesi formulata dai due studiosi

è tanto lineare quanto ricca di proficue implicazioni. «I paesi del mondo hanno una diversa

capacità di sviluppo economico per via delle loro differenti istituzioni, delle regole che

influenzano il funzionamento dell’economia e degli incentivi che motivano i singoli

individui» (p. 85).

La discriminante che condiziona e determina il grado di evoluzione e di sviluppo di una

società è da rinvenirsi in fattori istituzionali: sono le istituzioni di stampo politico ed

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economico, abbracciate da un popolo nel corso del tempo, e il loro combinarsi

dinamico, a fare la differenza. Quanto più queste istituzioni saranno inclusive e pluraliste,

favorendo l’innovazione, l’azione imprenditoriale e la partecipazione, più i popoli

fioriranno; quanto più saranno estrattive, «dal momento che vengono usate da determinati

gruppi sociali per appropriarsi del reddito e della ricchezza prodotti da altri» (p. 88), tanto

più la società che dovrà subirle sarà condannata alla stagnazione e alla immobilità.

Una teoria lineare e ambiziosa

La teoria proposta dagli autori per cercare di comprendere le ragioni per cui, sin dalla

rivoluzione neolitica, vi siano varie aree del mondo che prosperano, progrediscono e

conoscono un importante grado di sviluppo, e al contrario ve ne siano altre che ristagnano,

non crescono o addirittura regrediscono, è per certi versi semplice, ma non certo banale o

iper-semplificante. Secondo il loro punto di vista, il pregio di una siffatta teoria è quello di

poterci consentire di «concentrarci sulle regolarità, a volte al prezzo di alcune astrazioni e

di trascurare dettagli interessanti» (p. 440).

Ad ogni modo, questa teoria riesce ad essere estremamente più esplicativa ed efficace nella

rappresentazione dei fenomeni indagati e nella formulazione delle loro correlazioni,

rispetto ad altre ipotesi analitiche da sempre molto in voga: da quella geografica (la

prosperità o la prostrazione di un paese dipendono sostanzialmente dalla posizione che lo

stesso occupa sulla cartina geografica) a quella culturale (i fattori che stanno alla base

dell’affermazione o del fallimento di una nazione sarebbero da rinvenirsi nelle

caratteristiche “intrinseche” – quali la cultura, la religione, altri tipi di credenze, il bagaglio

etico e valoriale – che la permeano), passando per quella dell’ignoranza (alcuni popoli sono

destinati al fallimento in forza delle scelte sbagliate assunte da leader politici ignoranti ed

incompetenti).

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Nel corso di oltre 500 pagine, facendo ricorso ad una moltitudine di esempi

paradigmatici, di episodi strani o di narrazioni incredibili, i quali si snodano praticamente in

tutto l’arco della storia, dalla rivoluzione neolitica ai giorni nostri, e a tutte le latitudini, gli

autori intendono dimostrare che le ragioni del progresso o dell’arretratezza devono

rinvenirsi sostanzialmente nel tipo di istituzioni politiche ed economiche che una società si

è data. Il nocciolo della questione è radicato nel legame indissolubile esistente fra le

istituzioni economiche e quelle politiche, e nel loro grado di interconnessione, nella misura

in cui riescono a produrre interazioni sinergiche e virtuose, ovvero a creare circoli viziosi.

Acemoglu e Robinson identificano e raggruppano le istituzioni in due grandi categorie:

quelle “inclusive” e quelle “estrattive”. Si possono individuare, pertanto, delle istituzioni

economiche inclusive e delle istituzioni politiche inclusive; così come, di contraltare, vi sono

le istituzioni economiche estrattive e le istituzioni politiche estrattive. Per essere inclusive,

le istituzioni economiche devono garantire il rispetto della proprietà privata, un sistema

giuridico imparziale e una quantità di servizi che offra a tutti uguali opportunità di accesso

al sistema di scambi e contrattazioni; deve inoltre essere assicurata la possibilità di aprire

nuove attività, e, per le persone, di scegliere liberamente un’occupazione.

Di contraltare, se i diritti di proprietà non sono garantiti viene frustrata la possibilità di porre

in essere scambi mutualmente vantaggiosi, pregiudicata la propensione all’esplorazione e

la scoperta di nuove opportunità di guadagno, compromessa la facoltà di effettuare le

scelte che più si desiderano. In questi casi siamo di fronte ad istituzioni che hanno

caratteristiche opposte rispetto a quelle inclusive, e che possono essere definite estrattive.

Di rimando, per quanto concerne le istituzioni politiche, sono inclusivi i sistemi istituzionali

sufficientemente centralizzati e al contempo pluralisti. Quando una di queste due

condizioni viene meno, siamo invece in presenza di sistemi istituzionali estrattivi.

Tendenzialmente è proprio dall’interazione combinata tra i sistemi istituzionali che si

creano le premesse per generare dei circoli virtuosi o dei circoli viziosi: nel primo caso si

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assisterà ad un legame sinergico tra istituzioni inclusive, nel secondo tra istituzioni

estrattive. In entrambe le fattispecie le istituzioni economiche supportano e sono

supportate dalle rispettive istituzioni politiche, viaggiando su un doppio binario parallelo.

Nel caso di “inclusività” la crescita generata in ambito economico viene propiziata da quei

sistemi politici capaci di allocare il potere in maniera ampia e pluralistica nella società,

nonché di promuovere un certo grado centralizzazione che sia funzionale al mantenimento

dell’ordine e della legalità, cioè i presupposti di base su cui poggiano la certezza dei diritti

di proprietà e la libertà di scambio. A sua volta la crescita economica favorisce l’affermarsi

di sistemi politici inclusivi.

Nel caso di “estrattività”, invece, sono le istituzioni politiche a prendere il sopravvento,

giacché il fine ultimo delle élite che detengono il monopolio della forza è quello di forgiare

a proprio uso e consumo le istituzioni economiche e di privilegiare posizioni ed interessi

precostituiti, conseguendo un duplice vantaggio: arricchirsi in via diretta ed immediata, ed

impiegare le risorse così estorte per cementare e consolidare la propria presa sul sistema

politico-istituzionale.

Storicamente, è indubbio che le istituzioni estrattive abbiano esercitato un ruolo

predominante, costituendo una regolarità e una costante in seno alle organizzazioni sociali.

Quali sono i fattori e i moventi, dunque, che hanno consentito ad alcuni popoli di uscire

dalla trappola del circuito vizioso e di intraprendere un deciso cambio di rotta? Il giudizio

degli autori, su questo preciso punto, si fa necessariamente vago, poiché le transizioni sono

sicuramente eventi storici, ma non storicamente predeterminate e predeterminabili. Detto

altrimenti, «i grandi cambiamenti istituzionali, che sono il requisito per i grandi

cambiamenti economici, sono l’esito dell’interazione fra istituzioni esistenti e congiunture

critiche» (p. 442), vale a dire quei periodi della storia di un paese caratterizzati da

avvenimenti particolari e dirompenti: Acemoglu e Robinson ricordano la peste nera del XIV

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secolo, l’apertura delle rotte commerciali atlantiche nel XVII secolo e la rivoluzione

industriale nel XVIII.

Perché le nazioni prosperano?

Ciò che traspare in maniera evidente dalla lettura del testo è che uno dei fattori cardine in

grado di favorire l’emersione di istituzioni economiche inclusive deve ricondursi al contesto

politico in cui ci si trovi ad operare. In senso ampio, il contesto politico «è il processo

attraverso cui la società sceglie le proprie regole di governo» (p. 91) o, declinando ancor

meglio il concetto, il processo con cui la società definisce le «regole che presiedono alla

struttura degli incentivi nell’ambito politico» (p. 91).

In buona sostanza, si tratta del sistema istituzionale che fissa le regole del gioco: come si

articola la rappresentanza politica, quali sono le modalità di allocazione dei poteri e delle

competenze all’interno dello Stato, chi sono i soggetti legittimati a detenere il potere, le

finalità che si intendono perseguire con il suo esercizio, nonché i limiti entro cui esso possa

essere esercitato.

Sono precisamente le caratteristiche e la bontà di queste regole che ci consentono di

comprendere la reale natura di un determinato assetto politico istituzionale: ovvero, se

siamo in presenza di un società in cui il potere è concentrato nelle mani di un ristretta élite,

la quale può concedersi il lusso di agire in maniera del tutto arbitraria e senza apparenti

limiti, oppure se siamo al cospetto di una realtà sociale in cui il potere è diffuso, non

concentrato e delimitato da ben specifici paletti (rule of law).

L’affermarsi di assetti politici istituzionali contraddistinti da un sufficiente grado di

centralizzazione e da un avanzato livello di pluralismo non solo è un bene in sé, dato che

costituisce un indispensabile presidio al rischio di assolutizzazione e di accentramento

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personale del potere, ma favorisce altresì l’emergere di istituzioni economiche

inclusive, innescando così la promozione del circolo virtuoso.

L’esistenza di vincoli, controlli e contrappesi all’azione dei governanti, all’interno di una

ripartizione ampia e diffusa del potere, può limitare e contenere le derive assolutiste,

contrasta le istituzioni estrattive parassitarie, abbatte i monopoli e fa saltare le barriere

artificialmente erette all’ingresso dei mercati, le quali ostacolano gli individui nel dare

libero sfogo alle proprie energie creative e nel far leva sui propri talenti e sulle proprie

abilità.

A tal riguardo, in Perché le nazioni falliscono viene dato ampio e meritato risalto a due

precise vicende storiche, tanto distanti tra di loro da un punto di vista cronologico e

geografico, ma paradossalmente tanto affini nel suffragare la ragionevolezza e la

consistenza delle tesi esposte. In primo luogo, viene evidenziato come la Rivoluzione

Industriale sorse e prosperò nell’Inghilterra del XVIII secolo grazie al formidabile retaggio

istituzionale trasmesso dalla Gloriosa Rivoluzione del 1688. Questo evento diede origine a

una monarchia costituzionale in cui, attraverso la Dichiarazione dei diritti, vennero

affermate le prerogative del Parlamento e i limiti posti alla Corona.

Da quel momento in poi, in Inghilterra nessun re tentò più di governare in spregio alle

decisioni del Parlamento, oppure opponendosi ai voti della Camera; nessun sovrano

avrebbe più potuto abrogare le leggi promulgate in sede parlamentare, imporre dei balzelli

o delle imposte che non fossero prima concordati con l’assemblea legislativa, ovvero

costituire a propria discrezione un esercito permanente.

E fu sempre la Gloriosa Rivoluzione ad innescare un processo di riorganizzazione del

sistema fiscale e creditizio su basi moderne, a ripristinare il diritto all’Habeas Corpus, che,

in precedenza, era stato fortemente pregiudicato dalle condotte autoritarie e dispotiche

dei regnanti, nonché ad attivare un percorso di integrazione pluralistica, grazie alla

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concessione del diritto di voto alla ricca borghesia terriera, manifatturiera e

mercantile, la quale rappresentava dei punti di vista e delle istanze piuttosto diffuse, non

essendo portatrice di uno specifico interesse circoscritto.

La Rivoluzione Industriale, che si affermò in Inghilterra circa un secolo più tardi e costituì

una ben specifica congiuntura critica, non avrebbe mai potuto emergere in assenza di un

tale sostrato istituzionale: fu infatti la Rivoluzione del 1688 a rafforzare e razionalizzare i

diritti di proprietà, a perfezionare i mercati finanziari, a smantellare i monopoli sul

commercio estero garantiti dallo stato e rimuovere le barriere che ostacolavano

l’espansione dell’industria. Fu la Gloriosa Rivoluzione a rendere il sistema politico più

aperto e attento alle aspirazioni e alle necessità economiche della società. Le istituzioni

economiche inclusive diedero a uomini dotati di talento e immaginazione come James Watt

la possibilità e gli incentivi per sviluppare le loro idee e abilità, influenzando il sistema in

modo da creare benefici sia per sé stessi che per il paese in generale.

In secondo luogo, viene passata in rassegna la particolarissima storia del Botswana. Nel

1966, all’indomani del raggiungimento della propria indipendenza, il Botswana era tra i

paesi più poveri al mondo, con un totale di dodici chilometri di strade asfaltate, ventidue

cittadini laureati e cento che avevano frequentato le scuole superiori. Quarantacinque anni

dopo, il Botswana è diventato uno dei paesi dalla crescita più elevata al mondo. Oggi ha il

reddito pro capite più alto dell’Africa subsahariana, a un livello pari dei paesi affermati

dell’Europa orientale, come l’Estonia e l’Ungheria, e dell’America Latina, come il Costa Rica.

Chi o cosa ha reso possibile questo miracolo? Anche in tal caso, secondo gli autori non vi

sono dubbi: la felice e fortunata interazione tra le piccole differenze contingenti (la

rettitudine dei tre capi delle tribù Tswana che, a fine Ottocento, si prodigarono per

difendere, in sede diplomatica, il loro territorio dagli attacchi militari esterni; l’assenza di

un intenso sfruttamento coloniale da parte degli inglesi nel momento in cui istituirono un

protettorato), le istituzioni esistenti (la presenza di strutture politiche caratterizzate da un

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grado di centralizzazione piuttosto insolito per la regione; la presenza di meccanismi e

contrappesi in grado di limitare il potere dei vari capi tribù; il riconoscimento della

legittimità dei titoli di proprietà sul bestiame) e una grande congiuntura critica

(l’indipendenza post coloniale). Da quel momento, il governo ha dato vita a istituzioni

economiche che tutelano i diritti di proprietà, assicurano la stabilità macroeconomica e

incoraggiano lo sviluppo di un’economia di mercato inclusiva.

Perché le nazioni falliscono?

La risposta al quesito, sulla scorta delle idee e delle analisi sostenute dagli autori, risulta a

questo punto abbastanza semplice e consequenziale. I motivi devono essere sempre

ricondotti alla natura e alla tipologia delle istituzioni politiche ed economiche adottate da

una determinata società, nonché al loro combinarsi e al loro interagire. Del resto, se le

istituzioni estrattive sono state e restano così diffuse nel corso di tutta la storia dell’umanità

dipende essenzialmente dal fatto che esse rispondono ad una intrinseca e potente logica

interna: riescono cioè, attraverso un progressivo processo di centralizzazione politica, a

dare origine a un limitato grado di prosperità, distribuendone allo stesso tempo i frutti ai

membri di una ristretta élite.

L’articolarsi di questo processo, al di là delle specifiche differenze e delle contingenze

distintive e peculiari, segue una traiettoria del tutto tipizzata: la cerchia di persone, in

origine sempre piuttosto ristretta, che riesce ad imporsi nell’agone politico e ad affermarsi

come élite dominante tende ad acquisire legittimazione attraverso l’azione dello stato,

concepito come un formidabile strumento di comando e di sfruttamento, e di cui può

profittevolmente servirsi per utilizzare a proprio vantaggio l’apparato di coercizione.

Di fatto, appropriandosi di istituzioni politiche che manifestano una “intrinseca attitudine”

all’estrattività, il ceto polito-burocratico al comando concepisce l’economia del paese come

una inesauribile riserva di caccia, in grado di garantire per sé e per le proprie clientele delle

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lucrose rendite parassitarie, in forza della indebita invasione della sfera dei legittimi titoli

proprietari altrui e dell’azione imprenditoriale dei produttori di ricchezza. Le formule di

legittimazione politica che di volta in volta vengono impiegate sono le più svariate, ma i

risultati non cambiano.

Dall’economia fondata sullo sfruttamento intensivo e sulla predazione sistematica

(esproprio della terra, lavori forzati, imposizione di pesanti tributi e vessazioni di ogni

genere), messa in atto dai Conquistadores spagnoli nei confronti degli indigeni delle

Americhe, a quella imperniata sullo schiavismo nelle piantagioni di canna da zucchero delle

colonie caraibiche del XVII secolo, passando per l’attuale situazione di regimi sanguinari,

autoritari e repressivi presenti in molteplici aree del mondo (dall’Africa sub sahariana alla

Corea del Nord, da alcuni Stati mediorientali al Venezuela), gli esempi di élite estrattive si

sprecano.

Ma, pur ammettendo e concedendo che in taluni casi si possa pur anche conseguire un

minimo tasso di crescita, gli Stati predatori e parassiti saranno ineluttabilmente condannati

al fallimento e alla povertà, e per una duplice ed implacabile “legge di natura”: «la

mancanza di incentivi economici e le resistenze delle élite» (p. 141).

Se da un lato, infatti, una crescita economica duratura postula l’innovazione, e

l’innovazione non può essere disgiunta da quella che l’economista Schumpeter definiva

come “distruzione creatrice” - ovvero un processo selettivo capace di scompaginare le

carte, sostituendo il vecchio con il nuovo in ambito economico e sovvertendo i rapporti di

potere consolidati in ambito politico - le élite al potere tenderanno a contrastare in ogni

modo e con tutte le loro forze una simile dinamica di progresso, nei cui confronti da sempre

nutrono una profonda avversione e un reale terrore.

La vera crescita economica, infatti, si verifica solo nel caso in cui non venga arrestata dagli

“sconfitti economici”, cioè coloro che temono di perdere i loro privilegi economici, e dagli

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“sconfitti politici”, cioè coloro che temono di perdere la loro influenza sul sistema

politici. D’altro canto, simili istituzioni sono irrimediabilmente destinate ad essere

trascinate in una spirale infinita di violenza e di instabilità perenne, dato che «la capacità di

chi governa le istituzioni estrattive di trarre grandi vantaggi a spese del resto della società

implica un potere politico fortemente conteso, il che porta numerosi gruppi e individui a

lottare per ottenerlo» (p. 441).

Cina: sarà vera gloria?

In conclusione, oggi le nazioni falliscono perché le loro istituzioni economiche estrattive

non creano gli incentivi di cui la popolazione ha bisogno per risparmiare, investire e

innovare. Le istituzioni politiche estrattive supportano tali istituzioni economiche

cementando il potere di chi si avvantaggia dell'estrazione. E quindi con estrema sorpresa

che, nelle pagine finali del libro, gli autori annoverano il gigante cinese tra i Paesi che,

stando così le cose, vedranno pian piano smorzarsi nel tempo i propri sensazionali tassi di

crescita, marcando un progressivo esaurimento della propria spinta propulsiva.

Ma sarà propriamente così, atteso che la Cina viene da tutti considerato come un modello

vincente, il Paese che più di ogni altro ha saputo coniugare gli aspetti positivi di una certa

dose di pianificazione statale con delle forti componenti di capitalismo temperato? E

perché gli autori devono rischiare di immolare su un banco di prova così rischioso la loro

ambiziosa ed affascinante teoria, azzardando una previsione che, qualora non si avverasse,

rischierebbe di falsificarla nel giro di pochi anni?

La risposta di Acemoglu e Robinson non lascia adito a dubbi: il sincretismo istituzionale

praticato dalla Cina non è alla lunga sostenibile, perché manca degli ingredienti

indispensabili per l’innovazione, la trasformazione e la distruzione creatrice: il rispetto della

persona, la promozione dell’iniziativa e dell’intrapresa individuale, il riconoscimento dei

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giusti incentivi affinché i produttori possano mettere a frutto le proprie abilità ed i

propri talenti, oltre che generare valore in virtù della propria creatività imprenditoriale.

E la Cina attuale, con le pesanti interferenze coercitive del Partito comunista, le sue severe

regolamentazioni, l’aura di incertezza ed insicurezza che ancora aleggia sulla legittimità dei

titoli proprietari, il legame indissolubile tra politica ed affarismo, la dilagante espansione

del capitalismo di relazione, è ben lungi dal poter conseguire un simile obiettivo. A meno

che le attuali istituzioni politiche estrattive non cedano il passo a istituzioni maggiormente

inclusive, alla lunga la crescita espressa da un fasullo indicatore economico non potrà certo

prendere il sopravvento su quella che esprime il valore ed i valori di cui ogni persona

responsabile è portatrice.

CITAZIONI RILEVANTI

Una teoria ambiziosa

«La nostra teoria cerca di raggiungere questo obiettivo operando su due livelli. Il primo è

la distinzione fra istituzioni economiche e politiche estrattive e inclusive. La seconda è la

spiegazione dei motivi per cui istituzioni inclusive sono emerse in alcune parti del mondo e

non in altre. Mentre il primo livello attiene a un’interpretazione istituzionale della storia, il

secondo concerne il modo in cui la storia ha orientato le traiettorie istituzionali delle

nazioni» (p. 440)

Il circolo virtuoso

«Il circolo virtuoso scaturisce non solo dalla logica intrinseca al pluralismo e allo stato di

diritto, ma anche dal fatto che istituzioni politiche inclusive tendono a favorire istituzioni

economiche inclusive. Ne consegue una distribuzione più equa del reddito, che conferisce

potere a un ampio segmento della società e offre opportunità politiche ancor più

parificate» (p. 322)

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Il circolo vizioso

«Il circolo vizioso si fonda su istituzioni politiche estrattive che determinano istituzioni

economiche estrattive, che a loro volta rafforzano le istituzioni politiche estrattive, poiché

la ricchezza e il potere economico comprano il potere politico» (p. 369)

Il fascino della crescita autoritaria

«La crescita con istituzioni estrattive risulta più semplice, quando la distruzione creatrice

non è una necessità. Le istituzioni economiche cinesi sono indubbiamente più inclusive di

quelle dell’Unione Sovietica, ma le istituzioni politiche sono comunque estrattive. Il Partito

comunista è onnipotente, in Cina, e controlla l’intera burocrazia statale, le forze armate, i

media e vasti settori dell’economia» (pp. 450-451)

GLI AUTORI

Daron Acemoglu (Istanbul, 1967) è un economista statunitense, di origini armene.

Laureatosi in econometria e scienze matematiche presso l’Università di York, e conseguito,

agli inizi degli anni novanta, un Ph. D alla London School of Economics, è da svariati anni

professore di Economia al MIT di Boston. I suoi principali ambiti di ricerca riguardano la

politica economica, l’economia dello sviluppo, le applicazioni tecnologiche, il capitale

umano e la formazione, oltre che l’economia del lavoro. I suoi lavori più recenti si sono però

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ACEMOGLU, ROBINSON – Perché le nazioni falliscono

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concentrati sul ruolo svolto dalle istituzioni nello sviluppo economico e sociale. Nel

2005 è stato insignito della John Bates Clark Medal, il più importante riconoscimento

riservato ai giovani economisti.

James A. Robinson (1960) è un economista e scienziato politico britannico, professore

presso la Harris School of Public Policy all’Università di Chicago. In precedenza, ha insegnato

per molti anni alla Universidad de los Andes di Bogotà, nonché ad Harvard. Ha formulato

notevoli contributi nell’ambito dell’economia comparativa e dello sviluppo politico, con

particolar riguardo per le istituzioni sub-sahariane e latino americane, di cui è uno dei

massimi esperti mondiali. Insieme a Daron Acemoglu ha scritto, oltre a Perché le nazioni

falliscono. Alle origini di prosperità, potenza e povertà (2012), Economic Origins of

Dictatorship and Democracy (2005).

NOTA BIBLIOGRAFICA

Daron Acemoglu, James A. Robinson, Perché le nazioni falliscono. Alle origini di prosperità,

potenza e povertà Il Saggiatore, Milano, 2013, p. 527, traduzione di Marco Allegra e Matteo

Vegetti.

Titolo originale: Why Nations Fail. The Origins of Power, Prosperity, and Poverty