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1 Identità e multiculturalismo (o meglio interculturalismo) 1. Il dato in ipotesi di descrizione: una situazione problematica e ossimorica 1.1. due tendenze (procedono in direzioni opposte ma sono fortemente legate tra loro) «… Le società sviluppate appaiono oggi caratterizzate da due tendenze, a prima vista contrapposte: da un lato, si vanno sempre più affermando processi volti a costituire il mondo come unità globale, con il diffondersi di strutture e modelli culturali di tipo omologante che dissolvono la diversità dei contesti sociali tradizionali [cfr. Robertson 1992; Featherstone 1991]; dall’altro, sulla base del riconoscimento della pari dignità di ogni cultura, si va accentuando la rivendicazione del diritto alla propria diversità, con il rafforzamento delle spinte di tipo particolaristico. Come cercherò di mostrare, queste tendenze sono, in realtà, interdipendenti ed è solo tenendo conto della loro reciproca influenza che si può comprendere il carattere specifico della dinamica attualmente in corso rispetto al problema dell’identità sia individuale che collettiva.» Crespi, Franco 2004 Identità e riconoscimento nella sociologia contemporanea, Laterza, Roma- Bari p. 13 1.1.1. Lo stesso tema confermato da molti analisi, come una gara tra esperti di storia, politica e sociologia. Il problema presentato da Augé Marc 1997 La guerra dei sogni, eléuthera, Milano 2012 «Il punto della situazione: la percezione dell’altro oggi. L’epoca attuale vede amplificarsi un paradosso davvero notevole. Da un lato, sulla Terra agiscono potenti fattori di unificazione o di omogeneizzazione: l’economia, la tecnologia, sono ogni giorno più planetarie; accorpamenti aziendali vengono effettuati su scala mondiale; nuove forme di cooperazione economica e politica avvicinano gli Stati; le immagini e l’informazione circolano alla velocità della luce; alcuni tipi di consumo si diffondono sulla Terra intera. Dall’altro lato, vediamo invece imperi o federazioni sfasciarsi, particolarismi imporsi, nazioni e culture rivendicare la propria esistenza singolare, differenze religiose o etniche affermarsi con forza fino a un punto di rottura che può condurre alla violenza omicida. […] (ovvero il coesistere dell’omogeneizzazione e dei particolarismi)» (Augé 1997, 15) 1.1.2. L’analisi di Alain Touraine: «Non viviamo forse in una società mondializzata e globalizzata che pervade la vita pubblica e privata della maggior parte di noi? Sembra dunque che all’interrogativo “Si può vivere insieme?” si possa anzitutto dare una risposta semplice e formulata al presente: viviamo già insieme. Miliardi di individui guardano gli stessi programmi televisivi, bevono le stesse bibite, indossano gli stessi abiti e per comunicare da un paese all’altro usano anche la stessa lingua. Vediamo formarsi un’opinione pubblica mondiale che discute in grandi assemblee internazionali, a Rio de Janeiro o a Pechino, e si preoccupa in tutti i continenti dell’effetto serra, delle conseguenze degli esperimenti nucleari o della diffusione dell’AIDS. Basta questo per dire che apparteniamo alla stessa società o alla stessa cultura? No di certo. La peculiarità degli elementi globalizzati — siano essi beni di consumo o mezzi di comunicazione, tecnologie o flussi finanziari — consiste nel fatto che sono svincolati da una particolare organizzazione sociale. Globalizzazione significa che tecnologie, strumenti e messaggi sono presenti ovunque, cioè da nessuna parte, non essendo legati ad alcuna società o cultura particolari, come mostrano le immagini, sempre ricercate dal pubblico, che giustappongono la pompa di benzina e il cammello, la Coca-Cola e il villaggio andino, i blue-jeans e il castello principesco. Questa separazione fra circuiti e collettività, questa indifferenza dei segni della modernità rispetto al lento lavoro di socializzazione compiuto dalla famiglia o dalla scuola, insomma questa desocializzazione della cultura di massa, fa sì che viviamo insieme solo nella misura in cui compiamo gli stessi gesti e utilizziamo gli stessi oggetti, ma senza esser capaci di comunicare fra noi, al di là dello scambio dei segni della modernità. La nostra cultura non influenza più la nostra organizzazione sociale che a sua volta non influenza più l’attività tecnica ed economica. Cultura ed economia, mondo strumentale e mondo simbolico si stanno separando.

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Identità e multiculturalismo (o meglio intercultura lismo) 1. Il dato in ipotesi di descrizione: una situazione problematica e ossimorica 1.1. due tendenze (procedono in direzioni opposte ma sono fortemente legate tra loro) «… Le società sviluppate appaiono oggi caratterizzate da due tendenze, a prima vista contrapposte: da un lato, si vanno sempre più affermando processi volti a costituire il mondo come unità globale, con il diffondersi di strutture e modelli culturali di tipo omologante che dissolvono la diversità dei contesti sociali tradizionali [cfr. Robertson 1992; Featherstone 1991]; dall’altro, sulla base del riconoscimento della pari dignità di ogni cultura, si va accentuando la rivendicazione del diritto alla propria diversità, con il rafforzamento delle spinte di tipo particolaristico. Come cercherò di mostrare, queste tendenze sono, in realtà, interdipendenti ed è solo tenendo conto della loro reciproca influenza che si può comprendere il carattere specifico della dinamica attualmente in corso rispetto al problema dell’identità sia individuale che collettiva.» Crespi, Franco 2004 Identità e riconoscimento nella sociologia contemporanea, Laterza, Roma-Bari p. 13 1.1.1. Lo stesso tema confermato da molti analisi, come una gara tra esperti di storia, politica e sociologia. Il problema presentato da Augé Marc 1997 La guerra dei sogni, eléuthera, Milano 2012 «Il punto della situazione: la percezione dell’altro oggi. L’epoca attuale vede amplificarsi un paradosso davvero notevole. Da un lato, sulla Terra agiscono potenti fattori di unificazione o di omogeneizzazione: l’economia, la tecnologia, sono ogni giorno più planetarie; accorpamenti aziendali vengono effettuati su scala mondiale; nuove forme di cooperazione economica e politica avvicinano gli Stati; le immagini e l’informazione circolano alla velocità della luce; alcuni tipi di consumo si diffondono sulla Terra intera. Dall’altro lato, vediamo invece imperi o federazioni sfasciarsi, particolarismi imporsi, nazioni e culture rivendicare la propria esistenza singolare, differenze religiose o etniche affermarsi con forza fino a un punto di rottura che può condurre alla violenza omicida. […] (ovvero il coesistere dell’omogeneizzazione e dei particolarismi)» (Augé 1997, 15) 1.1.2. L’analisi di Alain Touraine: «Non viviamo forse in una società mondializzata e globalizzata che pervade la vita pubblica e privata della maggior parte di noi? Sembra dunque che all’interrogativo “Si può vivere insieme?” si possa anzitutto dare una risposta semplice e formulata al presente: viviamo già insieme. Miliardi di individui guardano gli stessi programmi televisivi, bevono le stesse bibite, indossano gli stessi abiti e per comunicare da un paese all’altro usano anche la stessa lingua. Vediamo formarsi un’opinione pubblica mondiale che discute in grandi assemblee internazionali, a Rio de Janeiro o a Pechino, e si preoccupa in tutti i continenti dell’effetto serra, delle conseguenze degli esperimenti nucleari o della diffusione dell’AIDS. Basta questo per dire che apparteniamo alla stessa società o alla stessa cultura? No di certo. La peculiarità degli elementi globalizzati — siano essi beni di consumo o mezzi di comunicazione, tecnologie o flussi finanziari — consiste nel fatto che sono svincolati da una particolare organizzazione sociale. Globalizzazione significa che tecnologie, strumenti e messaggi sono presenti ovunque, cioè da nessuna parte, non essendo legati ad alcuna società o cultura particolari, come mostrano le immagini, sempre ricercate dal pubblico, che giustappongono la pompa di benzina e il cammello, la Coca-Cola e il villaggio andino, i blue-jeans e il castello principesco. Questa separazione fra circuiti e collettività, questa indifferenza dei segni della modernità rispetto al lento lavoro di socializzazione compiuto dalla famiglia o dalla scuola, insomma questa desocializzazione della cultura di massa, fa sì che viviamo insieme solo nella misura in cui compiamo gli stessi gesti e utilizziamo gli stessi oggetti, ma senza esser capaci di comunicare fra noi, al di là dello scambio dei segni della modernità. La nostra cultura non influenza più la nostra organizzazione sociale che a sua volta non influenza più l’attività tecnica ed economica. Cultura ed economia, mondo strumentale e mondo simbolico si stanno separando.

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Mentre le nostre piccole società vanno a poco a poco amalgamandosi in una società mondiale, assistiamo alla dissoluzione di quei complessi, politici e territoriali, sociali e culturali, che chiamiamo società, civiltà o più semplicemente paesi. Vediamo separarsi, da un lato, l’universo oggettivato dei segni della globalizzazione e, dall’altro, insiemi di valori, espressioni culturali e luoghi della memoria, che non costituiscono più delle società nella misura in cui sono privati della loro attività strumentale ormai globalizzata, e si chiudono quindi in se stessi dando sempre più la priorità ai valori piuttosto che alle tecniche, alle tradizioni piuttosto che alle innovazioni. É vero che viviamo un po’ insieme su tutto il pianeta, ma e altrettanto vero che ovunque si rafforzano e si moltiplicano i gruppi identitari, le associazioni basate su una comune appartenenza, le sette, i culti, i nazionalismi; le società ridiventano comunità allorché riuniscono strettamente in un determinato territorio società, cultura e potere sotto un’autorità religiosa, culturale, etnica o politica che potremmo definire carismatica, dato che essa trova la sua legittimità non nella sovranità popolare, nell’efficacia economica oppure nella conquista militate, ma nelle divinità, nei miti o nelle tradizioni di una comunità. Quando siamo tutti insieme non abbiamo quasi niente in comune, mentre quando condividiamo delle credenze e una storia rifiutiamo chi è diverso da noi. Viviamo insieme solo se perdiamo la nostra identità; mentre il ritorno delle comunità comporta un richiamo all’omogeneità, alla purezza, all’unità, e la comunicazione viene sostituita dalla guerra tra coloro che offrono sacrifici a divinità diverse, si richiamano a tradizioni estranee ed opposte fra loro e che talvolta si considerano biologicamente diversi dagli altri e superiori ad essi.» Touraine Alain 1997 Libertà, uguaglianza, diversità. Si può vivere insieme?, il Saggiatore, Milano 1998, 10-13 1.1.3. «È morta la società. Trionfa l’apparato. E sono in crescita (un’autentica resurrezione, dopo i disastri prodotti nel passato dal trionfo delle logiche comunitarie: nazione, patria, razza, religione, nazionalismo) le comunità: nelle retoriche del fare comunità quale via facile per avere un’identità e per superare la paura della non identità; nelle retoriche delle comunità virtuali, diverse dalle vecchie comunità perché faciliterebbero l’entrata e l’uscita, quindi sarebbero comunità aperte, virtuose, condivise anche se dominate dalla liquidità e dall’instabilità. Morte le identità di classe restano, come sottoprodotto della cosiddetta postmodernità (in realtà, nessuna postmodernità, ma sempre, e sempre più, modernità), le identità di comunità (territoriali, etniche, virtuali, di fantasia, di spettacolo; forti, potenti, ma ancora, come sempre, socialmente e politicamente pericolose; e poi identità di marca, di brand, le merci, le cose). Anzi, in queste diverse modalità di ricerca e di illusione/allusione di comunità si rafforza (viene fatta rafforzare, viene prodotta mediante un’appropriata biopolitica) quella che Francesco Remotti ha definito come un’ossessione identitaria. (F. Remotti, L’ossessione identitaria, Laterza, Roma-Bari 2010)» Demichelis Lelio 2010 Società o comunità. L’individuo, la libertà, il conflitto, l’empatia, la rete, Carocci editore, Roma, p. 28) «Perché se per Bauman l’identità è un «surrogato di comunità», per Remotti l’identità è soprattutto una parola avvelenata, «perché promette ciò che non c’è, perché ci illude su ciò che non siamo; perché fa passare per reale ciò che invece è una finzione o, al massimo, un’aspirazione». Non di riconoscimenti identitari avremmo bisogno (questa la biopolitica dominante), ma (ancora Remotti) del riconoscimento delle esistenze dei soggetti, dei loro diritti, dei loro obiettivi, dei loro progetti, delle loro diversità.» (Demichelis 2010, 28) 1.1.4. «Stiamo entrando, temo, in un’era problematica. Non saranno soltanto i terroristi, le banche e il clima a sconvolgere il nostro senso di sicurezza e di stabilità. La globalizzazione stessa — la terra "piatta" di tante fantasie ireniche — sarà fonte di paura e incertezza per miliardi di persone, che si rivolgeranno ai loro leader in cerca di protezione. Le "identità" diventeranno rigide e meschine, via via che l’indigente e lo sradicato batteranno contro le mura sempre più alte delle comunità recintate e sorvegliate, da Delhi a Dallas.» (Judt Tony, Lo chalet della memoria, Laterza, Roma-Bari 2011 citazione da la Repubblica 25 novembre 2011) Globalizzazioni e rivendicazioni identitarie sono in opposizione in realtà sono strettamente connessi. Le volontà identitarie sono reattive alle paure collegate e attribuite (più o meno fondatamente) alla globalizzazione. Ma il timore per la globalizzazione non si traduce in negazione

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dei vantaggi e delle opportunità che essa produce e a cui nessuno (nemmeno i no-global), nei fatti, intende rinunciare. La possibilità di disporre di una libertà di movimento e di scelta di area sempre più vasta, mondiale, riguardante merci e informazioni diventa spesso, paradossalmente, strumento indispensabile per la costruzione e la rivendicazione pubblica di riconoscimenti identitari e degli stessi movimenti antiglobalizzazione. 1.1.5. In forma di preoccupazione e domanda storica: « Che accadrà ora, nel punto storico in cui la solidità dei «luoghi» sembra vacillare e sciogliersi sotto la spinta travolgente dei «flussi»; e quelle linee di confine che avevano delimitato lo spazio del Logos e la signoria del Nomos farsi incerte e impermeabili? Avevamo tutti (o quasi) provato uno straordinario senso di sollievo, e di liberazione, al tempo del «crollo dei muri»: di quelli fisici (e politici), sotto la spinta delle rivoluzioni incruente di fine Novecento; e di quelli economici (e finanziari), per effetto di quella grande «rivoluzione spaziale» che è la globalizzazione. Avremmo dovuto sospettare che in quell’improvviso abbassamento delle mura della città, attraverso le brecce aperte nelle barriere che avevano circondato fino ad allora le nostre «sfere vitali», qualcosa sarebbe filtrato «dall’esterno» a decostruire la nostra domesticità faticosamente stabilizzata. E, simmetricamente, che qualcosa sarebbe fuoriuscito (si sarebbe «liberato») di quanto tra quelle mura era stato posto sotto custodia, a cominciare da quella potenza assoluta — quella potestas superiorem non recognoscens, per dirla con i classici — che si chiama appunto «sovranità». E che costituisce l’alfa e l’omega della costruzione dell’ordine interno della civitas.» (Revelli Marco 2012 I demoni del potere, Laterza, Roma-Bari, X-XI) 1.1.6. Contraddizioni e ambivalenze: torna il problema, logico e politico, di come muoversi, gestire e stare tra gli estremi. Globalizzazione stimata e non rifiutata, rivendicazioni identitarie localistiche ostentate ma nelle quali non si vive se non per altri fini si presentano come processi tra loro estremi. Come gestirli. Gli estremi, correttamente gestiti all’interno di una razionalità di problem solving, non sostengono scelte e progetti di estremizzazione (se non appunto in casi estremi, di chi estremizza) ma indicano, in quanto estremi, l’ampiezza e i termini di un campo di azione in cui si ragiona, si progetta e si opera: indicano l’area di gestione della politica contemporanea. Per questa area occorre mettere a disposizione una adeguata strategia politica, ed è il filo conduttore della analisi e proposta di John Rawls ispirate a un “liberalesimo democratico” (Rawls John 1971, 1999 Una teoria della giustizia, Milano Feltrinelli, 2008; Rawls John 2005 Liberalismo politico. Nuova edizione ampliata, Einaudi, Torino 2012) 1.2. termini e problemi recenti identità e multiculturalismo 1.2.1. i termini identitari. «Eric Hobsbawm fa notare come la comparsa dei termini «identità», «etnicità» e simili sia quanto mai recente. Nell’Enciclopedia internazionale delle scienze sociali, ancora nei 1968 non compare nessuna voce al termine identità, se non in riferimento a quella psicosociale degli adolescenti, e all’inizio degli anni Settanta nell’ Oxford English Dictionary l’etnicità appare come parola rara associata a paganesimo e superstizioni pagane. Rossana Rossanda afferma: «ancora trent’anni la, se si fosse chiesto a uno o a una di noi «chi sei?», avremmo risposto in termini di «che cosa faccio» o «da che parte mi schiero», piuttosto che da dove o da chi provengo.» E conclude affermando che l’etnia è un soggetto moderno o postmoderno di conflitto. È sintomatico che ci si trovi sempre più spesso a parlare di identità proprio mentre la cosiddetta globalizzazione ci sta avvolgendo ogni giorno di più nel suo mantello uniforme. Per dirla con Regis Debray: “gli oggetti si mondializzano, i soggetti si tribalizzano”». Aime, Marco 2004 Eccessi di culture, Einaudi Torino p. 123 1.2.2. il multiculturalismo (società di tutti o di ciascuno) «Ambiguo, enigmatico, irriducibilmente e costitutivamente equivoco (Leghissa, Zoletto 2002), il multiculturalismo è oggi al centro di un ampio dibattito transdisciplinare, come uno dei cardini del discorso pubblico sul presente e sul futuro delle società contemporanee. Termine abusato quanto poco problematizzato, nella sua formula più astratta il concetto fa

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riferimento alla presa di coscienza dell’esistenza di una molteplicità di differenze, quale scenario inedito di un processo — per alcuni auspicabile, per altri minaccioso, per molti inarrestabile — di trasformazione radicale delle società e della politica. In questo senso il multiculturalismo presuppone, pretende di descrivere, spesso intende orientare, i processi sociali connessi a tale nuova dimensione, in cui l’eterogeneità non è più elemento accidentale e instabile, ma è assunta come tratto costitutivo di nuovi assetti, esprimendone tensioni e conflitti — culturali prima e politici poi — come aspettative di riconoscimento. In questi termini, a dispetto di uno scarso livello di chiarezza interpretativa, anzi per la caratteristica di confondere insieme diversi registri (Wieviorka 1998), esso rappresenta elemento e insieme fattore della costruzione della sfera globale della comunicazione. Come parte del lessico ne condivide così l’incertezza epistemologica e, paradosso della mondializzazione, quella “sovraesposizione comunicativa” che diviene direttamente attestazione. 1.2.3. identità e multiculturalismo: reciproco influsso. Quello che si viene configurando è un nuovo “spazio identitario” che nella “quotidianità del sistema globale” (Friedman 2005) si esprime come aspettativa, scelta, cambiamento e gestione di una pluralità di stili di vita, nell’inedita intensità di circolazione di modelli, flussi e consumi. Alla base di tale ridefinizione, secondo Jonathan Friedman, c’è la dissoluzione delle identità sociali statiche e, di conseguenza, «la comparsa del moderno soggetto individualizzato, privo di una cosmologia o di un’autodefinizione prefissata. Le peculiarità di questo Sé sono la sua separazione in una sfera privata=naturale e pubblica=culturale o sociale, che crea un’ambivalenza fondamentale fra il desiderio di trovare un’adeguata espressione del proprio Sé e la consapevolezza che ogni identità è costruita arbitrariamente, e quindi non è mai autentica.» 1.2.4. Quali differenze “identitarie” nel multiculturalismo (breve ricognizione orientativa) Quello che è certo è che nell’uso il multiculturalismo consente di associare un ampio spettro di non meglio definite “questioni identitarie” alla dimensione della convivenza civile e alla sfera della politica. Parafrasando Wieviorka (1998), si può dire che esso rappresenti contemporaneamente “il problema”, “la risposta” e, di conseguenza, la valutazione dell’“effetto”. Per restituire questa articolazione la letteratura distingue un uso “descrittivo” più marcatamente sociologico, uno “ideologico e normativo” di pertinenza filosofico-giuridica, e uno “programmatico e politico” prettamente politologico (Inglis 1996; Lanzillo 2005; Watson 2000). Un riferimento interpretativo utile è il quadro analitico proposto ancora da Wieviorka (1998), che distingue quattro logiche della differenza: la prima è quella di cui sono portatori i gruppi che preesistevano alla definizione politica delle società nazionali, appunto le minoranze native, gli autoctoni, in cui l’affermazione identitaria combina il “sentimento di anteriorità”, quindi la legittimità sul piano storico, con la coscienza di essere state vittime di pratiche etnocidarie e di processi di inferiorizzazione sociale. La seconda è quella relativa alle “logiche dell’accoglienza”, ovvero alle conseguenze delle migrazioni internazionali, dunque al confronto con le dinamiche di trasformazione e con le particolari configurazioni locali di senso, nel rapporto tra persone, bagagli e capitali culturali diversi, che il migrare comporta (Pompeo 2002). La terza è definita come “logica della riproduzione”, in cui, in analogia con la prima, segmenti sociali portatori di un’esperienza storica singolare cercano di mantenere legami con una cultura concepita in termini patrimoniali, come un’eredità da mantenere viva e la cui sopravvivenza, in un modello che riprende l’ecologismo e la tutela della biodiversità, è minacciata dalla statualità o dal mercato, infine la quarta è quella denominata “logica della produzione” in cui la differenza culturale appare un derivato del processo di invenzione permanente che caratterizzerebbe la globalizzazione, in cui le identità si trasformano e ricompongono, dove non esisterebbe un principio di stabilità definitivo. A questo modello sarebbero riconducibili le rivendicazioni di nuovi soggetti della scena pubblica, dall’universo GLBT, acronimo che definisce la galassia gay, lesbo, bisessuale e transgender, ai “bisogni speciali” di altre community, come nelle diverse abilità. Pompeo Francesco (a cura di) 2007 La società di tutti. Multiculturalismo e politiche dell’identità, Meltemi, Roma (pp. 9-17 passim e ad eccezione dei titoli di paragrafi con numeri)

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2. Incubatori o sedi di identità 2.1. passaggio storico: l’identità romantica dei popoli (rapsodi e poemi) «Il passato ricreato, è il grande Altro storico rispetto al quale può affermarsi un’identità presente.» Augé Marc 1997 La guerra dei sogni, eléuthera, Milano 2012, 20 2.1.01. Due note - provocazione una generale: «Perché la formazione di uno Stato sovrano nel sistema interstatale dovrebbe creare a sua volta una “nazione”, un “popolo”? …discutibile fino a che punto la “nazione” come sentimento comune avesse radici profonde prima della creazione dello Stato … perché si vuole o si ha bisogno di un passato, di una “identità”? … tramite il senso del passato le persone si convincono ad agire nel presente in modi in cui altrimenti non agirebbero … il presente determina il passato, e non viceversa, come le nostre strutture analitiche logico-deduttive ci inducono a pensare» Wallerstein, Immanuel, Alla scoperta del sistema mondo, manifestolibri, Milano 2005, p.330 ss una realistico-ironica sul Risorgimento italiano: «Ma giugnea fraditanto una carretta tirata da uno scheletro di mulo come quello famelico in galoppo sopra le teste di papi e principi e madame al palazzo Sclàfani in Palermo. Un carrettiere estrano con casacca rossa, fazzoletto e berretto a cazzarola con visiera, all’impiedi sopra il legno, strappando redini e frustando, vociava: - Uuh, uuh, broeta bestia, marouchì poa te! Sghignazzano altri tre appresso al carro, vestiti come il primo, che con sciabole revolver e carabine tengon prigione in mezzo a loro un gruppo d’alcaresi. Chi sono? Sono i soldati nordici sbarcati con Garibaldi a liberarci dal giogo del Borbone. Sì, sono d’altro lignaggio.» Consolo, Vincenzo 1976 Il sorriso dell’ignoto marinaio, Einaudi, Torino 1992, p.109 2.1.1. Un bilancio sull’Europa delle identità popolari e nazionali Note da Thiesse, Anne-Marie 2001 La creazione delle identità nazionali in Europa, Il Mulino, Bologna «Nulla è più «internazionale» della formazione delle identità nazionali. È un paradosso enorme, dal momento che l’irriducibile specificità di ogni identità nazionale è stata pretesto di scontri sanguinosi, eppure identico è il modello, messo a punto nel quadro di intensi scambi internazionali. Le nazioni moderne si sono costituite in modo diverso da come raccontano le storie ufficiali. Le loro origini non si perdono nella notte dei tempi, nelle età oscure ed eroiche descritte dai capitoli iniziali delle storie nazionali. Neppure la lenta formazione di territori in seguito a conquiste e alleanze è stata all’origine delle nazioni, poiché essa altro non è che la storia tumultuosa dei regni o dei principati. La vera nascita di una nazione è il momento in cui un pugno di individui dichiara che essa esiste e cerca di dimostrarlo. I primi esempi non sono anteriori al XVIII secolo, non essendovi nazioni in senso moderno, cioè politico, prima di questa data. L’idea si inserisce, in realtà, nel quadro di una rivoluzione ideologica. La nazione è concepita come una comunità vasta, tenuta insieme da vincoli che non si riferiscono alla dipendenza da uno stesso sovrano, né all’appartenenza a una stessa religione o a una stessa classe sociale: essa non è determinata dal monarca, la sua esistenza è indipendente dai rischi della storia dinastica o militare. La nazione somiglia straordinariamente al popolo della filosofia politica, quei popolo che da solo, secondo i teorici del contratto sociale, può conferire la legittimità del potere, ma è anche qualche cosa di più: il popolo è un’astrazione, la nazione è viva. 7-8 Il processo di formazione identitario consiste nel determinare il patrimonio di ogni nazione e nel diffonderne il culto. La prima fase dell’operazione non è stata così evidente, poiché in realtà gli antenati non avevano redatto un testamento indicante ciò che desideravano trasmettere ai discendenti, ed era oltretutto necessario scegliere fra gli antenati i presunti donatori, ossia trovare ipotetici ascendenti comuni agli alverniati e ai normanni (o agli svevi e ai sassoni, ai siciliani e ai piemontesi). Perché si producesse il nuovo mondo delle nazioni, non era sufficiente inventariarne l’eredità, si doveva piuttosto inventarlo. Ma come? Che cosa era necessario escogitare alfine di dare la testimonianza vivente di un passato prestigioso e l’immagine autorevole della coesione

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nazionale? Il compito era arduo, di lunga durata e fu svolto collettivamente. Un grande cantiere di sperimentazione, senza capomastro eppure intensamente animato, venne aperto in Europa nel Settecento: esse conobbe l’epoca di maggiore produttività nel secolo successivo e la sua caratteristica fu quella di essere transnazionale. Non vi è stato accordo preventivo o divisione del lavoro; ma ogni singolo gruppo nazionale si mostrava molto attento a quanto facevano i loro simili e rivali, cercando di adattare alle proprie esigenze le idee degli altri e venendo a sua volta imitato, quando aveva scoperto qualcosa di nuovo o era riuscito a migliorare l’esistente. Appena i letterati tedeschi avevano esortato, con successo, i compatrioti a seguire l’esempio inglese nella riesumazione del patrimonio culturale e nazionale, i loro omologhi scandinavi o russi invitavano a prendere esempio dai tedeschi. Qualche decennio più tardi, gli eruditi francesi fustigavano i concittadini che avevano esitato a impegnarsi in un’impresa che, nel frattempo, era stata un banco di prova per russi, spagnoli e danesi. Le esposizioni internazionali, luoghi privilegiati di esibizioni identitarie, sono state, a partire dalla metà dell’Ottocento, occasioni privilegiate di questo commercio simbolico. Le rivalità furono aspre, ma in genere pacifiche, gli accordi frequenti, come pure gli scambi di consigli o anche gli incoraggiamenti agli esordienti. Il risultato della creazione collettiva delle identità nazionali non è un modello unico, ma piuttosto secondo l’espressione provocatoria del sociologo Orvar Löfgren, una sorta di kit per il «fai da te»: una serie di declinazioni dell’«anima nazionale» e un insieme di procedure necessarie alla loro elaborazione. Oggi siamo in grado di redigere la lista di elementi simbolici e materiali che una nazione degna di questo nome deve offrire: una storia che stabilisca la continuità con i grandi antenati, una serie di eroi prototipi di virtù nazionali, una lingua, dei monumenti culturali, un folclore, dei luoghi sacri e un paesaggio tipico, una mentalità particolare, delle rappresentazioni ufficiali — inno e bandiera — e delle identificazioni pittoresche — costume, specialità culinarie o animale totemico. Le nazioni che di recente hanno avuto diritto al riconoscimento politico, e soprattutto quelle che ancora lo rivendicano, testimoniano, insieme ai segnali che inviano per attestate la propria esistenza, il carattere prescrittivo di questa lista di priorità identitaria. Il «sistema Ikea» di costruzione delle identità nazionali, che permette assemblaggi differenti a partire dalle stesse categorie elementari, appartiene al dominio pubblico mondiale, avendolo l’Europa esportato nello stesso tempo in cui imponeva alle vecchie colonie il proprio modo di organizzazione politica. Il ricorso alla lista identitaria è il mezzo più banale, perché più immediatamente comprensibile, di rappresentare una nazione, che si tratti della cerimonia di apertura dei giochi olimpici, delle accoglienze riservate a un capo di stato straniero, dell’iconografia postale e monetaria o della pubblicità turistica. La nazione nasce da un postulato o da un’invenzione, ma essa vive solo per l’adesione collettiva a questa finzione. I tentativi abortiti sono numerosissimi, mentre i successi sono il frutto di un costante proselitismo che insegna agli individui ciò che sono, li obbliga a conformarsi al modello proposto e li incita a diffondere a loro volta quel sapere collettivo. Il sentimento nazionale è spontaneo solo quando è stato perfettamente interiorizzato ma per ottenere ciò occorre anzitutto averlo insegnato. La messa a punto di una pedagogia è il risultato di osservazioni basate su esperienze condotte in altre nazioni e trasposte quando sembrava opportuno farlo. 8-10» Thiesse, Anne-Marie 2001 La creazione delle identità nazionali in Europa, Il Mulino, Bologna 2.1.1.1. La linea culturale in atto: la distinzione tra tre culture e formazione/invenzione, in forma di scoperta, della cultura popolare e del soggetto popolo. Al modello classico, che fa perno sugli autori greci e latini per tesi, stili di razionalità e canoni estetici, e al modello della cultura cristiana, o meglio ebraico-cristiana, richiamata per gli aspetti teologici e morali, si vuole ora affiancare (in clima politico) una terza componente dichiarata autonoma e originaria: la cultura popolare. Il popolo è depositario orale di una cultura propria (pagana, medievale e barbara); aedi, bardi e trovadori ne sono i cantori; quella cultura è costitutiva di identità e permette il definirsi di un nuovo soggetto, il popolo, che proprio nell’800 prende forma di nazione. Si tratta di una tesi romantica maturata soprattutto in clima antiassolutistico e come espressione di nuova sensibilità (definita “romantica”) mirante a sostenere progetti nazionali, resa

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efficace storicamente attraverso una sua opportuna collocazione in età remota, per lo più medievale, opportunamente ripresa e rivalutata. 2.1.1.2. Passaggio storico filosofico critico: utilità e danno della storia Dalle note critiche (“considerazioni inattuali”) di Nietzsche sulla storia monumentale, antiquaria, critica e il nuovo senso della storia, legate al tema dell’eterno ritorno (I considerazione inattuale) Si oppone alla storia: a. monumentale, che si impossessa del passato, selezionandolo, per creare qualcosa di grande oggi o pensando ad una storia affidata a grandi figure (“uomini a cavallo”) b. degli antiquari che venera il passato per vantare e imporre lunghe tradizioni c. critica di coloro che, afflitti dal presente, ricavano dal passato una storia per giudicare e condannare ( i perenni laudatores temporis acti). Vi contrappone un nuovo stile: a. il metodo genealogico come prassi ermeneutica della liberazione: il metodo di analisi adottato da Nietzsche è la genealogia ermeneutica: la demolizione della presa che le culture del disprezzo esercitano sull’uomo riducendolo a gregge, massa, schiavo, venerazione… si ottiene attraverso la ricostruzione di come queste culture sono diventate valori indiscussi e venerati; la ricostruzione (ermeneutica) della loro affermazione (genealogia) diventa un’arte dello smontaggio, del loro annullamento (nichilismo) e della conseguente liberazione dell’uomo verso l’oltre uomo. b. l’amor fati (vedi sopra): liberarci di tutto ciò che il passato ha caricato sulle nostre spalle non con il rifiuto o con la dimenticanza [resterebbe sempre attivo, alla Freud], ma con il riconoscimento che: a) non poteva essere diversamente b) è passato e non può decidere il presente [lo voglio come passato] c. l’eterno ritorno: nell’attimo, nel presente dell’atto di volontà, il tempo è consegnato all’azione, all’io voglio, alla volontà di potenza … [nell’attimo e solo nell’attimo si sceglie sempre la totalità del tempo] 2.1.1.3. Passaggio storiografico politico critico nei confronti di facili e pericolose fabbriche politiche di identità ad hoc (gabbie identitarie confezionate per opportunità). «Lo Stato può produrre inesistente mediante l’imposizione di una figura di normalità identitaria, «nazionale» o altro. In Europa, in particolare, la questione dell’identità è una questione ossessionante. […] Variamente ripetute dagli uni e dagli altri, potremmo anche considerare tali dichiarazioni solo come una specie di follia ideologica, se non fossero sostenute dalla macchina con cui lo Stato fabbrica «identità» fantomatiche, una macchina sempre pronta a funzionare. […] Lo Stato può quasi essere definito come un’istituzione che dispone di tutti gli strumenti per imporre a una popolazione una serie di norme che prescrivono quanto è di sua competenza, quanto rientra nei diritti e quanto rientra nei doveri. Nel quadro di questa definizione, lo Stato pone la finzione di un oggetto identitario (per esempio il «francese» medio) a cui individui e gruppi hanno l’obbligo di assomigliare il più possibile per meritare una positiva attenzione da parte di esso. Chiunque venga dichiarato troppo dissimile all’oggetto identitario avrà ugualmente diritto all’attenzione dello Stato, ma in senso negativo (sospetto, controllo, internamento, espulsione ecc.). Un nome separatore indica una particolare maniera di non assomigliare all’oggetto identitario fittizio. Tale nome permette allo Stato di separare dalla collettività un certo numero di gruppi e di giustificare il ricorso a particolari misure repressive. Può trattarsi di «immigrato», «islamista», «musulmano», «Rom» ma anche «giovane della periferia». Notiamo che «povero» e «malato mentale» si stanno man mano costituendo sotto i nostri occhi in quanto nomi separatori.» (Badiou Alain 2011 Il risveglio della storia, Adriano Salani Editore Milano 2012, 75, 76, 96-97) 2.2. passaggio sociologico: identità nella società multiculturale 2.2.1. descrizione “critica”: “ogni cultura è già di per sé multiculturale” «Il tuo Cristo è ebreo. La tua macchina è giapponese. La tua pizza è italiana. La tua democrazia greca. Il tuo caffè brasiliano, la tua vacanza turca. I tuoi numeri arabi. Il tuo alfabeto latino. Solo il tuo vicino è uno straniero.» Da un manifesto tedesco degli anni Novanta. (Aime, o.c. p. 73)

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L’accento è sempre posto sulla diversità, quasi mai sugli elementi comuni, che invece sono dati per scontati taciuti, non considerati o ignorati. La diversità fa eccezione, quindi fa notizia. (Aime p.10) Di fatto, ponendo un eccessivo accento sulle diversità culturali, si rischia di costruire barriere, proiettando sugli «altri» differenze che, forse, potrebbero essere superate, attenuate o ignorate. Porre in primo piano la diversità significa accentuare una presunta impermeabilità delle culture di cui gli individui sono portatori. (Aime p.16) Quella dello scontro culturale è una maschera che nasconde le radici della questione presentandoci invece, con l’esasperazione talvolta caricaturale delle maschere, i tratti più estremi di quanto vuole rappresentare. Nasconde l’universalità di molti elementi culturali, patrimonio di popoli e fedi diverse, per dare voce solo alle possibili risposte, che sono umane e pertanto non «naturali», non assolute. Se è vero quanto afferma Clifford Geertz, che «i problemi, essendo esistenziali, sono universali; le loro soluzioni, essendo umane, sono diverse», è anche vero che ogni individuo non dispone di una sola opzione culturale da esercitare. Come sostiene Eric Wolf: «È un errore considerare l’emigrante come il portatore o il protagonista di una cultura omogeneamente integrata che egli può mantenere o rifiutare nel suo complesso […]. Non è più difficile per uno zulù o per un hawaiano imparare o disimparare una cultura di quanto non lo sia per un abitante della Pomerania o della Cina.» Il mito del multiculturalismo finisce allora per essere una riproposizione, in chiave non conflittuale, della diversità culturale, e finisce per porre ancora una volta l’accento sulla differenza piuttosto che sul fatto che ogni cultura è già di per sé multiculturale. Come afferma Davide Zoletto, il multiculturalismo « è un assunto che si basa quantomeno su un doppio errore: che un individuo sia per così dire completamente o ampiamente sovradeterminato da una cultura, e che le nostre società fossero (o che le società in generale possano mai essere) monoculturali prima dell’arrivo dei migranti. » (Aime p. 23-24) Vale la pena rileggere la celebre parodia che Ralph Linton era solito proporre ai suoi studenti nella prima lezione di antropologia culturale: «Il cittadino americano medio si sveglia in un letto costruito secondo un modello che ebbe origine nel vicino Oriente. Egli scosta le lenzuola e le coperte che possono essere di cotone, pianta originaria dell’India; o di lino, pianta originaria del vicino Oriente; o di lana di pecora, animale originariamente domesticato nel vicino Oriente; o di seta, il cui uso fu scoperto in Cina. Tutti questi materiali sono stati filati e tessuti secondo procedimenti inventati nel vicino Oriente. Si infila i mocassini inventati dagli indiani delle contrade boscose dell’Est, e va nel bagno, i cui accessori sono in misto di invenzioni europee e americane, entrambe di data recente. Si leva il pigiama, indumento inventato in India, e si lava con il sapone, inventato dalle antiche popolazioni galliche. Poi si fa la barba, rito masochistico che sembra sia derivato dai sumeri o dagli antichi egiziani. Tornato in camera da letto, prende i suoi vestiti da una sedia il cui modello è stato elaborato nell’ Europa meridionale e si veste. Indossa indumenti la cui forma derivò in origine dai vestiti di pelle dei nomadi delle steppe dell’Asia, si infila le scarpe fatte di pelle tinta secondo un procedimento inventato nell’antico Egitto, tagliate secondo un modello derivato dalle civiltà classiche del Mediterraneo; si mette intorno ai collo una striscia dai colori brillanti che è un vestigio sopravvissuto degli scialli che tenevano sulle spalle i croati del diciassettesimo secolo. […] Andando a fare colazione si ferma a comprare in giornale, pagando con delle monete che sono un’antica invenzione della Lidia. Al ristorante viene a contatto con tutta nuova serie di elementi presi da altre culture: il suo piatto è fatto di un tipo di terraglia inventato in Cina; il suo coltello è di acciaio, lega fatta per la prima volta nei l’India del Sud, la forchetta ha origini medievali italiane, il cucchiaio è un derivato dell’originale romano. Prende il caffè, pianta abissina, con panna e zucchero. Sia l‘idea di allevare mucche che quella di mungerle ha avuto origine nel vicino Oriente, mentre lo zucchero fu estratto in India per la prima volta. Dopo la frutta e il caffè, mangerà le cialde, dolci fatti secondo una tecnica scandinava, con il frumento, originario dell’Asia minore. […] Quando il nostro amico ha finito di mangiare, si appoggia alla spalliera della sedia e fuma, secondo un’abitudine degli indiani d’America, consumando in pianta addomesticata in Brasile o fumando la

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pipa, derivata dagli indiani della Virginia o la sigaretta, derivata dal Messico. Può anche fumare un sigaro, trasmessoci dalle Antille, attraverso la Spagna. Mentre fuma legge le notizie del giorno, stampate in un carattere inventato dagli antichi semiti, su di un materiale inventato in Cina e secondo un procedimento inventato in Germania. Mentre legge i resoconti dei problemi che i agitano all’estero, è un buon cittadino conservatore, con un linguaggio indo-europeo, ringrazierà una divinità ebraica di averlo fatto al cento per cento americano. » (Aime, o.c. p. 25-26) Come conclusione e bilancio sul tema delle rivendicazioni identitarie pure, individuali o sociali, osserva Todorov: «L’identità individuale risulta dall’incrocio tra diverse identità collettive; non è la sola a trovarsi in questa condizione. Qual è l’origine della cultura di un gruppo umano? La risposta, paradossale, è questa: proviene dalle culture che l’hanno preceduta. Una nuova cultura nasce dall’incontro tra diverse culture di piccole dimensioni, o dalla decomposizione di una cultura più vasta o dall’interazione con una cultura vicina. Non raggiungiamo mai una vita umana precedente all’avvento della cultura. E giustamente: le caratteristiche «culturali» sono già presenti in altri animali, specialmente tra i primati. Non esistono culture pure e culture mescolate; tutte le culture sono miste (o «ibride», o «meticciate»). I contatti tra gruppi umani risalgono alle origini della specie e lasciano sempre delle tracce sulla maniera in cui i membri di ogni gruppo comunicano tra loro. Per quanto lontano si possa risalire nella storia di un paese come la Francia, si trova sempre un incontro tra popolazioni e culture diverse: galli, franchi, romani e molti altri.» (Todorov Tzvetan 2008 La paura dei barbari. Oltre lo scontro delle civiltà, Garzanti, Milano 2009 p.78) 2.2.2. identità e violenza: una relazione in denuncia 2.2.2.1. identità (stereotipi) e violenza, in contesto storico politico «Che ci sia o no disparità dipende quindi dal contesto; e se non c’è disparità, ridere della diversità altrui può diventare un elemento di comunicazione che, pur basandosi sugli stereotipi, li caricaturizza rendendoli accettabili. Gli stereotipi non sempre danno vita a una politica di esclusione: per farlo occorre una strutturazione politica che trasformi un sentimento — anche forte — in azione organizzata e mirata non più verso un singolo individuo, ma verso una categoria di individui, e a tale scopo è indispensabile convincere gli altri di appartenere anch’essi a una categoria omogenea. L’organizzazione e la strutturazione trasformano un disagio, un senso di insoddisfazione, in ideologia politica e quindi in strumento di forza. In molti casi le identità possono tranquillamente rimanere latenti e non attivarsi fino al momento in cui non interviene un fattore scatenante, perlopiù di carattere violento. È la violenza, spesso, a indurre identità — violenza intesa non solo come atto di forza fisica, ma anche come imposizione o classificazione attraverso l’azione politica basata su un rapporto di forza asimmetrico. Assistiamo continuamente a processi di politicizzazione di etnie e di religioni, finendo talvolta per sovrapporre l’immagine che ne deriva ai contenuti originali delle une e delle altre. L’islam diventa in tal modo la religione della guerra santa, quando è invece l’uso politico che ne fanno certi integralisti a fomentare odio e guerra; l’identità etnica sembra essere alle radici dei massacri in Burundi o nei Balcani, mentre le ragioni degli scontri andrebbero cercate nelle politiche recenti e passate; si parla di tribalizzazione della politica, quando al contrario il problema sta nella politicizzazione delle tribù. La pratica dell’identità comporta in molti casi uno snaturamento dei valori fondamentali della cultura a cui fa riferimento.» (Aime, o.c. p. 133) «Ricordo un’intervista televisiva nella quale il rabbino Elio Toaff, alla domanda «cosa ha significato per lei essere ebreo?», rispose di essersi sentito per la prima volta veramente ebreo nel 1939, quando vennero emanate e applicate le leggi razziali dal governo fascista. «Prima - diceva Toaff - mi sentivo cittadino italiano di cultura ebraica». Il suo senso di identità venne pertanto indotto da eventi esterni. Con questo, non credo certamente volesse negare il sentimento di appartenenza alla sua comunità religiosa, ma affermare come il passaggio da un’identità percepita a una, seppur per forza, agita, vissuta, fu conseguenza di un atto di forza. Da quel momento, a lui come ad altre migliaia di persone venne tolta la possibilità di scegliere chi e che cosa essere.» (Aime p.106) « Anzi, gli ebrei, come ricorda Luzzatto, avendo vissuto esperienze diverse a causa della loro diversa dislocazione, non possono essere incasellati in un’identità collettiva fissa, ma se

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mai sono ed erano il prodotto di complesse dinamiche locali e relazionali. Il delirio nazista li ha invece condannati, oltre che allo sterminio, a rappresentare una sola entità, per giunta razziale. In questo senso la Shoah ha creato un “popolo ebraico” al fine di sterminarlo, tentando addirittura di definirne i confini su basi biologiche.» ( Aime p. 107-108) 2.2.2.2. Si tratta di una violenza (come spesso) generata dalla paura: «Ciò che è stato trovato nella cultura d’origine non colpisce, perché è servito alla formazione stessa della persona. In compenso, ciò che cambia a causa di circostanze sulle quali l’individuo non ha alcuna possibilità di intervenire è percepito come un degrado, perché indebolisce la nostra sensazione di esistere. L’epoca contemporanea, nel corso della quale viene richiesto alle identità collettive di trasformarsi sempre più velocemente, è dunque anche quella in cui i gruppi adottano un atteggiamento sempre più difensivo, rivendicando con forza la loro identità d’origine.» (Todorov, o.c. p. 82) 2.2.3. l’urgenza di una diagnosi. Indicato e descritto il fatto, evidenziato il problema, resta aperto (e irrisolto) il cammino della sua diagnosi e della sua eventuale terapia. Il compito difficile di una “sociologia” anche terapeutica (o terapeutica già nella sua diagnosi). Il problema. «Di tanto in tanto sogniamo una «grande semplificazione», ci abbandoniamo a fantasie regressive che trovano principale ispirazione nelle immagini del ventre prenatale e della casa fortino. La ricerca di un riparo è «l’altro» rispetto alla responsabilità, così come trasgressione e ribellione erano «l’altro» rispetto alla conformità. Oggi la brama di un riparo sicuro ha finito col sostituire la ribellione, che ha ormai cessato di essere un’opzione sensata; come afferma Pierre Rosanvallon (in una nuova prefazione al suo classico Le capitalisme utopique), non esiste più una «autorità di comando da deporre e sostituire. Sembra non esserci rimasto più spazio per una rivolta, come il fatalismo sociale vis-à-vis il fenomeno della disoccupazione testimonia ampiamente». I segni di malessere sono molti ed evidenti, e tuttavia — come Pierre Bourdieu ha ripetutamente osservato — la loro ricerca di una legittima manifestazione nel mondo della politica è ancora vana. Privi di un’espressione articolata, vanno dunque letti tra le righe, desunti dagli scoppi di furore xenofobo e razzista: le manifestazioni più comuni di nostalgia da «riparo sicuro». L’alternativa disponibile (e non meno popolare) ai sentimenti neotribali di intolleranza violenta — il rifiuto della politica e il ritiro entro le mura fortificate del privato — non è più una soluzione attraente e soprattutto adeguata alla vera origine del malessere. E dunque a questo punto che la sociologia, col suo potenziale esplicativo che promuove la comprensione, acquista i dovuti riconoscimenti più che in qualsiasi altro periodo della sua storia. Secondo l’antica ma ineguagliata tradizione ippocratica, come Pierre Bourdieu ricorda ai lettori di La misère du monde, la vera medicina parte dal riconoscimento di una malattia invisibile: «fatti di cui il malato non parla o che dimentica di riferire». Ciò che occorre nel caso della sociologia è la «rivelazione delle cause strutturali che i segni e le manifestazioni apparenti rivelano solo attraverso una loro distorsione» [ne dévoilent qu’en les voilant]. Occorre analizzare — spiegare e capire — i patimenti caratteristici dell’ordine sociale che «ha indubbiamente ridotto la grande miseria (sebbene a volte più a parole che nei fatti), moltiplicando al contempo gli spazi sociali [...] offrendo condizioni favorevoli per la crescita senza precedenti di ogni sorta di piccole miserie». Diagnosticare una malattia non significa curarla. Questa regola generale si applica alle diagnosi sociologiche quanto ai referti medici. Notiamo tuttavia che la malattia della società differisce da quella corporea per un aspetto fondamentale: nel caso di un ordine sociale malato, l’assenza di una diagnosi adeguata (ignorata o soffocata dalla tendenza a «interpretare e dunque liquidare» i rischi rilevati da Ulrich Beck) è una causa determinante, forse decisiva, della malattia. Bauman Zygmunt 2000 Modernità liquida, ed. Laterza, Roma-Bari 2002, p. 253-254 2.2.3.1. Sul tema del potenziale politico di cambiamento, di iniziativa e di rivolta della società contemporanea, vanno prese in considerazione le analisi di Alain Badiou che occupandosi e andando alla ricerca del “risveglio della storia” definisce e individua i segni della presenza di diversi potenziali di rivolta, di cui specifica natura, obiettivi e potenziale: la rivolta immediata, la

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rivolta latente, la rivolta storica. Il quadro che ne emerge è diverso da quello descritto da Bauman o diverso dalle molte diagnosi improntate al pessimismo della iniziativa. «… questo libro — la prima e più autorevole interpretazione filosofica della nuova stagione di rivolte mondiali, dalla primavera araba agli Indignados a Occupy — sostiene una tesi diversa: un nuovo mondo sta nascendo, basato su tutt’altre regole. Un mondo che rigetta le parole d’ordine della «modernizzazione» e della «riforma», sotto le quali si traveste un tentativo di regressione politica senza precedenti, volto a adeguare la produzione e la vita stessa ai dogmi di un liberismo oligarchico e ottocentesco; un mondo che — sebbene in maniera ancora confusa e dispersa — a quest’ordine si ribella esplicitamente, entrando in quello che Badiou chiama «il tempo delle rivolte». Rivolte attraverso le quali il «risveglio della storia» dovrà dar luogo a un «risveglio dell’Idea» […] che rilanci l’insopprimibile aspirazione dell’uomo alla giustizia, all’eguaglianza, all’universalità.» Badiou Alain 2011 Il risveglio della storia, Adriano Salani Editore Milano 2012 (dal primo risvolto di copertina) 2.2.3.2. Una diagnosi sulla base di stereotipi “rassicuranti” che cela il proprio inganno e impedisce la chiarificazione: lo straniero (il “non è dei nostri”…) va sempre bene ma, paradossalmente in modo controproducente. «Forse la forma più seria di doratura nella politica moderna consiste nella prassi di situare i fatti in un altro contesto. La pubblicità di auto di alto valore, descritta più sopra in base all’esempio della Volkswagen, fa di un prodotto di piattaforma un oggetto di marca. In politica, ad esempio, l’immigrazione può essere trasposta in un altro contesto, per poi essere commercializzata esattamente nello stesso modo. In Germania e in Gran Bretagna la maggior parte degli immigrati sono lavoratori che pagano le tasse, che fanno le pulizie degli ospedali e spazzano le strade, cioè svolgono attività evitate dai «nativi». Per ricavare un capitale politico dalla presenza di questi indispensabili out-sider, li si riconfeziona in modo che possano entrare nella stessa scatola culturale dei rifugiati improduttivi. […] Per secoli in Europa e in Nordamerica gli stranieri sono stati percepiti come una minaccia. Come nel passato, anche oggi lo straniero è diventato la superficie simbolica su cui si proietta ogni genere di ansia. La differenza sta nel tipo di ansie proiettate. Oggi, l’immagine dell’immigrato è modellata, oltre che dai vecchi pregiudizi e dai tentativi di catturare consensi politici, anche dalle esperienze della burocrazia orientata sul breve termine, instabile. Nel mondo del lavoro l’immagine dello straniero concentra in sé i timori di perdere l’impiego o di diventare inutili. Come abbiamo visto, queste ansie sono senz’altro giustificate se lo straniero vive effettivamente all’estero e lavora, ad esempio, in un call-center indiano o in un’azienda indiana produttrice di software, ma non hanno senso se vengono proiettate su un immigrato che spazza le strade. O, meglio, hanno un senso immaginato: la paura della perdita del controllo qui trova un bersaglio alla propria portata. Se cadiamo prigionieri di questa immaginazione perversa siamo facilmente indotti a trascurare il fatto che la persecuzione di questo debole out-sider che ci vive accanto può fare ben poco per accrescere la sicurezza del nostro posto di lavoro.» Sennett Richard 2006, La cultura del nuovo capitalismo, il Mulino, Bologna 2006, 122-123 3. Note “filosofiche” sul tema identità e multicultura; strumenti concettuali per impostare il problema. Gli irrinunciabili. Avvertenza preliminare, come sostiene Bauman: «Mentre farsi un’identità è un’esigenza fortemente sentita e un esercizio incoraggiato da ogni autorevole medium culturale, avere un’identità solidamente fondata e restarne in possesso ‘per tutta la vita’, si rivela un handicap piuttosto che un vantaggio poiché limita la possibilità di controllare in modo adeguato il proprio percorso esistenziale.» …« Questa eccessiva sovraesposizione dell’identità, di una identità, rischia di trasformarci in esseri unidimensionali, mentre le vicende umane dimostrano che invece siamo degli abilissimi camaleonti culturali.» (Aime, o.c. p. 68, 56) «L’appello all’identità, si dice, può sostenere orientamenti liberali o democratici, ma anche un comunitarismo autoritario o addirittura la ricerca della purezza etnica, razziale o religiosa, che rappresenta una minaccia reale» (Touraine Alain 2004

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La globalizzazione e la fine del sociale. Per comprendere il mondo contemporaneo, il Saggiatore, Milano 2008, p. 204) Savidan, con i termini: «Le metamorfosi democratiche dell’identità», richiama le radici storiche filosofiche del ragionamento: «Per quale motivo oggi si dà per scontato che esista un legame particolare fra il riconoscimento e l’identità? Da tempo gli scrittori, i filosofi, gli psicologi hanno sottolineato che l’esperienza di sé rimanda a un’esperienza dell’altro (e a un’esperienza del «Sé» come «altro»).»(Savidan 2010, 28); rimanda all’etica del riconoscimento. 3.1. il filone metafisico: possibilità e essenza 3.1.1 Aristotele: il divenire delle realtà naturali è dato dalla tensione verso la propria forma o essenza. Aristotele, Fisica, tr. A Russo, Laterza, Bari 1973, pp. 27-33 (passim) 3.1.2. Hegel: «… il punto della singolarità che nel mezzo del sussistere si irradia nella molteplicità.» (G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze 1985, 96) La determinatezza nella sua relazione ad altro; alterità come definizione plurima dell’io, come di ogni finitudine. 3.1.3. Kierkegaard: esistenza é possibilità Kierkegaard Søren, Aut-Aut. Estetica ed etica nella formazione della personalità (1843), trad. it. di K.M. Guidbrandsen e R Cantoni, introduzione di R. Cantoni (1956), Milano, Mondadori, 1993, p. 74: «chi sceglie se stesso scopre che quell’io che egli sceglie ha un’infinita molteplicità in sé». Kierkegaard, Søren 1844 Il Concetto dell’angoscia, Sansoni, Firenze 1965, p. 193,195 3.1.4. Heidegger: l’uomo, “l’ente che ha il carattere dell’esserci” è “aver- da- essere” «1. L’«essenza» di questo ente consiste nel suo aver-da-essere. L’essenza (essentia) di questo ente, per quanto in generale si può parlo lare di essa, dev’essere intesa a partire dal suo essere (existentia). Ecco perché l’ontologia ha il compito di mostrare che, se noi scegliamo per l’essere di questo ente la designazione di esistenza, questo termine non ha e non può avere il significato ontologico del termine tradizionale existentia. […] Perciò il termine «esserci», con cui indichiamo tale ente, esprime l’essere e non il che-cosa, come accade invece quando si dice pane, casa, albero. 2. L’Essere di cui ne va per questo ente nel suo essere, è sempre mio. L’esserci non è perciò da intendersi ontologicamente come un caso o un esemplare di un genere dell’ente inteso come semplice-presenza. […] L’ente a cui nel suo essere ne va di questo essere stesso, si rapporta al suo essere come alla sua possibilità più propria. L’esserci è sempre la sua possibilità, ed esso non l’«ha» semplicemente a titolo di proprietà posseduta da parte di una semplice-presenza. Appunto perché l’esserci è essenzialmente la sua possibilità questo ente può, nel suo essere, o «scegliersi», conquistarsi, oppure perdersi e non conquistarsi affatto o conquistarsi solo «apparentemente». Ma esso può aver perso se stesso o non essersi ancora conquistato solo perché la sua essenza comporta la possibilità dell’autenticità, cioè dell’appropriazione di sé.» Heidegger, Martin 1927 Essere e Tempo, ed. Longanesi, Milano 1976, p.64-65 3.2. il filone logico: l’alterità dialettica 3.2.1. Platone: l’altro come genere sommo: Il dialogo “Sofista” raccontando l’evento con toni drammatici mettendo in scena un vero e proprio delitto filosofico: affermare che “il non-essere è” significa “uccidere” Parmenide, “venerando e terribile”, poiché si trasgredisce quel precetto in cui egli colloca l’origine della filosofia «bisogna che il dire e il pensare sia l’essere». Platone, Sofista, Sansoni, Firenze 1974, p.269-270 2.3.2. Hegel: il determinato è tale nel suo essere altro « [1.] Qualcosa ed altro son tutti e due in primo luogo degli esserci che sono o dei qualcosa. [2.] In secondo luogo ciascun de’ due è anche un altro. È indifferente quale dei due si chiami per il primo, e solo per ciò, qualcosa […] Tutti e due sono in pari maniera altri. A fissar la differenza e quel qualcosa che si deve prendere come affermativo, serve il questo. Ma questo enuncia appunto che un tal distinguere e porre in rilievo l’un qualcosa è un designare soggettivo, che cade fuori dal

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qualcosa stesso. Tutta la determinatezza cade in questo estrinseco mostrare. […] [3.] Tutti e due son determinati tanto come qualcosa quanto come altro. [4.] Il qualcosa si conserva nel suo non essere; è essenzialmente uno con cotesto non essere, è essenzialmente non uno con esso. Sta dunque in relazione col suo esser altro; non è puramente il suo esser altro. L’esser altro è in pari tempo contenuto in lui, e in pari tempo ancora da lui separato; è esser per altro.» Hegel, G.W.F. 1816 Scienza della logica, ed. Laterza, Bari 1968, pp. 112-115 (passim) 2.3.3. Levinas: l’alterità e l’immanente trascendenza «Fuoriuscita da sé che fa appello all’altro, allo straniero. L’incontro avviene tra stranieri, altrimenti sarebbe parentela. Ogni pensiero è subordinato alla relazione etica, all’infinitamente altro in altri, e all’infinitamente altro di cui ho nostalgia. Pensare altri dipende dall’irriducibile inquietudine per l’altro. L’amore non è coscienza. È perché vi è una vigilanza prima del risveglio che il cogito è possibile, in modo che l’etica e prima dell’ontologia. Dietro la venuta dell’umano, vi è già la vigilanza per altri. L’io trascendentale nella sua nudità viene dal risveglio attraverso e per altri. Ogni incontro comincia con una benedizione, contenuta nella parola buongiorno. Questo buongiorno che ogni cogito, che ogni riflessione su di sé presuppone già e che sarebbe la prima trascendenza. Questo saluto rivolto all’altro uomo è un’invocazione. Insisto dunque sulla preminenza della relazione benevola nei confronti d’altri. Quand’anche vi fosse malevolenza da parte dell’altro, l’attenzione, l’accoglimento dell’altro, come sua riconoscenza marca questa anteriorità del bene sul male.» Levinas, Emmanuel 1986 Alterità e trascendenza, ed. il melangolo, Genova 2006, pp. 87-88 3.3. il filone psicologico: livelli e dinamica della psiche «Secondo lo scrittore e saggista martinicano Edouard Glissant è proprio l’idea di trasparenza a essere pericolosa: Io rivendico il diritto all’opacità. La troppa definizione, la trasparenza portano all’apartheid: di qua i neri, di là i bianchi. «Non ci capiamo», si dice, e allora viviamo separati. No, dico io, non ci capiamo completamente, ma possiamo convivere. L’opacità non è un muro, lascia sempre filtrare qualcosa. Un amico mi ha detto recentemente, che il diritto all’opacità dovrebbe essere inserito tra i diritti dell’uomo.» (Aime, o.c. p. 73) 3.3.1. Stoicismo: una logica indiziaria: l’attenzione ai segni di una realtà per natura non evidente La natura ci offre realtà di per sé evidenti, come quelle che vediamo al momento, assolutamente impossibili da definire, come ad esempio il numero delle gocce d’acqua di un oceano, per il momento non evidenti, solo perché non presenti ora alle sensazioni, per natura non evidenti a causa della loro complessità, come la natura dell’uomo, la logica delle passioni, la salute del corpo, il corso della storia… cioè quegli elementi attorno ai quali ruota nella sua maggior parte il pensiero e l’attenzione dell’uomo. Per queste realtà disponiamo di segni che mandano indizi (segni indiziari); essi richiedono una interpretazione attenta e specifica (una semiotica), dei ragionamenti induttivi, indiziari e ipotetici (sillogismi ipotetici), strumenti capaci di avviare alla scoperta e al rispetto di una identità complessa e mai completamente definibile, aperta all’ascolto e all’interpretazione: «Ti dirò quel che mi accade e tu troverai il nome alla malattia» (Seneca, I dialoghi). Sesto Empirico, Schizzi pirroniani, pp. 80-82, tr. di O. Tescari, Laterza, Bari 1988 3.3.2. Freud: la complessità della psiche; topiche di orientamento e tecniche di lettura dell’inconscio. «La teoria psicanalitica di Freud si sottrae anch’essa all’unidimensionalità in quanto, se l’accento posto sulla rilevanza dell’inconscio ha il merito di mostrare che la coscienza riflessiva e la razionalità non esauriscono la complessità della persona, Freud non ignora i processi di costruzione dell’identità individuale e sociale che egli analizza in termini del rapporto tra Es, Io e Super-Io, riconoscendo all’Io una parte attiva in tali processi. […] Uscendo dall’unidimensionalità che caratterizza le teorie filosofiche e sociologiche contemporanee occorre quindi adottare uno schema concettuale maggiormente aperto alla complessità.» (Crespi, o.c. p.39). 3.4. nel dato storico della complicazione, gli irrinunciabili

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«Ora, il problema grave è questo: una società democratica moderna non è caratterizzata soltanto da un pluralismo di dottrine religiose, filosofiche e morali comprensive, ma da un pluralismo di dottrine comprensive incompatibili e tuttavia ragionevoli. Nessuna di queste dottrine è universalmente accettata dai cittadini; né c’è da attendersi che in un futuro prevedibile una di esse, oppure qualche altra dottrina ragionevole, sia mai affermata da tutti i cittadini, o da quasi tutti. Il liberalismo politico assume che, ai fini della politica, una pluralità di dottrine comprensive ragionevoli ma incompatibili sia il risultato normale dell’esercizio della ragione umana entro le libere istituzioni di un regime democratico costituzionale; e assume anche che una dottrina comprensiva ragionevole non respinga gli aspetti essenziali di un regime democratico. Naturalmente una società può avere in sé anche dottrine comprensive irragionevoli e irrazionali, o perfino folli; e in questo caso il problema è quello del contenimento, del fare in modo che tali dottrine non minino l’unità e la giustizia della società.» (Rawls John 1993 Liberalesimo politico, ed. di Comunità, Torino 1999, p. 5) Su questo quadro che si dipinge in termini di complessità, esistono degli irrinunciabili che costituiscono non tanto dei vincoli o paletti ma degli strumenti o segnali di direzione per comprendere e agire. 3.4.1. l’irrinunciabilità del pluralismo. «Tale pluralismo non è visto come un disastro, ma come l’esito naturale delle attività della ragione umana entro libere istituzioni durature; vedere il pluralismo come un disastro significa vedere come un disastro l’esercizio della ragione in condizioni di libertà. … La cultura politica di una società democratica è sempre contraddistinta da una molteplicità di dottrine religiose, filosofiche e morali opposte e inconciliabili; alcune di esse sono del tutto ragionevoli, e il liberalismo politico vede questa diversità fra dottrine ragionevoli come l’inevitabile risultato a lungo termine dei poteri della ragione umana, quando operano sullo sfondo di istituzioni libere e durature.» (Rawls 1993,12, 23) Il pluralismo «non è un puro e semplice dato storico che possa venir meno in breve tempo, ma un aspetto permanente della cultura pubblica della democrazia. Nelle condizioni politiche e sociali garantite dai diritti e dalle libertà fondamentali di istituzioni libere dovrà nascere e persistere, ammesso che non esista ancora, un’ampia varietà di dottrine comprensive contrapposte, inconciliabili e – quel che più conta – ragionevoli.» (Rawls 1993, 47-48) 3.4.1.1. «Dobbiamo distinguere il fatto del pluralismo ragionevole dal fatto del pluralismo in quanto tale. Non si tratta semplicemente del fatto che istituzioni libere tendono a generare un’ampia varietà di dottrine e opinioni, com’è prevedibile data la diversità degli interessi degli uomini e la loro tendenza ad adottare punti di vista limitati, ma del fatto che fra le opinioni che si sviluppano c’è un’ampia varietà di dottrine comprensive ragionevoli. Sono queste le dottrine che i cittadini ragionevoli sostengono, ed è di esse che deve occuparsi il liberalismo politico.» (Rawls 1993, 48) 3.4.1.2. « Dunque, il fatto del pluralismo ragionevole - benché le dottrine storiche non siano, ovviamente, opera della sola ragione pratica - non è un aspetto sfortunato della condizione umana; e nel dare alla nostra concezione politica una forma che possa, nel suo secondo stadio, conquistare l’appoggio di dottrine comprensive ragionevoli, stiamo adattando questa concezione non alle forze brute del mondo, ma agli esiti inevitabili della libera ragione umana. […] … un accordo collettivo e duraturo su una sola dottrina comprensiva (religiosa, filosofica o morale) può essere conservato solo con un uso oppressivo del potere statale.» (Rawls 1993, 48) 3.4.2. l’irrinunciabilità della globalizzazione: contesto contemporaneo di movimento culturale delle persone e di sviluppo delle insospettate potenzialità individuali. Vale la tesi di Aristotele: l’uomo è una complessità che giunge a evidenza e realizzazione nelle relazioni sociali e nell’ambito della loro ampiezza; il sociale è il luogo di scoperta e realizzazione progressive della propria natura come natura complessa; della propria complessità. La globalizzazione può amplificare la tendenza etica dell’uomo, indicata da Aristotele come sua specifica essenza dell’umano (e dell’animale), di realizzarsi aprendosi alla propria complessità, alla perfezione della propria complessità. 3.4.2.1. La globalizzazione diffonde a livello mondiale stili di vita omogenei servendosi di processi che le sociologia indica con il termine “omologazione”. Contemporaneamente essa introduce, negli ambiti in cui opera, una rivoluzione di orientamento, scelta, progetto tale da creare inattesi, talora

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disorientanti, livelli di complessità. Perciò bisogna camminare con tre parole: globalizzazione, omologazione, complessità. Ognuna indica dinamiche sociali diverse, ma si sorreggono e correggono a vicenda impedendosi reciprocamente di imporsi con enfasi eccessiva e quindi inopportuna se il loro scopo è guidare a comprendere la dinamica della società contemporanea. Si tratta di una di quelle parole che, tolte dall’abuso e poste in connessione, fanno scorgere la dimensione culturale e politica in cui ogni individuo, nel presente, è collocato. «L’individualismo imposto dalla globalizzazione ha sradicato i movimenti di massa e ha reso inservibili le categorie politiche e sociali con cui pensavamo noi stessi e gli altri: se le grandi narrazioni collettive sono finite, la vita del soggetto acquista la stessa drammaticità della storia del mondo. Abbiamo bisogno di un nuovo paradigma per capire il presente e, soprattutto, per rivendicare i nostri diritti.» Touraine Alain 2004 La globalizzazione e la fine del sociale, il Saggiatore, Milano 2008 (titolo originale in traduzione letterale. Un nuovo paradigma. Per comprendere il mondo oggi). 3.4.3. l’irrinunciabilità all’identità: non come gabbia comunitaristica artificiale, ossessione identitaria trappola mortale che ha come obiettivo creare appartenenze chiuse ed esercitare il dominio sulla persona, né come destino di consumatori addomesticati o irretiti dentro un sogno di rincorsa omologante di ciò che ora va per lo più, ma come libertà di gestire in proprio, secondo personalizzazioni assolutamente singolari, quanto la realtà contemporanea mette a disposizione a sostegno della realizzazione di sé. Tuttavia, «per essere cosmopoliti, bisogna avere una patria» (Antonio Gramsci); e, anche espistemologicamente, una teoria scientifica non è mai frutto di un rapporto diretto tra soggetto al mondo (osservo il mondo e costruisco una teoria), ma di un passaggio da una teoria all’altra avendo come riferimento il mondo come un in sé pieno di dati e informazioni senza fine; occorre avere un minimo di bagaglio teorico (un orientamento e una “identità” culturale per cogliere e leggere i dati e magari mutare la propria teoria e visione del mondo.) 3.4.4. l’irrinunciabilità dell’armonia (sociale, politica) e della vita civile ispirata a una condivisione di criteri universali di giustizia e non a differenze di privilegio: «Il successo del costituzionalismo liberale ha rappresentato, in effetti, la scoperta di una nuova possibilità sociale: quella di una società pluralistica ragionevolmente armonica e stabile. Prima della pratica vittoriosa e pacifica della tolleranza in società dotate di istituzioni liberali non c’era modo di conoscere questa possibilità; era più naturale credere - e la secolare pratica dell’intolleranza sembrava confermarlo - che l’unità e la concordia sociali richiedessero il consenso intorno a una dottrina, religiosa, filosofica o morale, generale e comprensiva. L’intolleranza era accettata come condizione dell’ordine e della stabilità sociale, e l’indebolimento di questa credenza ha aiutato ad aprire la via alle istituzioni liberali. E forse la dottrina della libertà di fede è nata perché è difficile, se non impossibile, credere nella dannazione di coloro con i quali abbiamo collaborato a lungo, in fiducia e sicurezza, per la conservazione di una società giusta.» (Rawls 1993,12-13 passim) Globalizzazione, complessità, volontà identitarie rendono più alto il prezzo da pagare per ottenere unità e armonia, e un conflitto drammatico è stato introdotto nell’immagine della realtà sociale da noi quotidianamente percepita e quotidianamente in imprevedibile alterazione, ma il centro della vicenda è sempre rappresentato dall’esigenza di un’armonia che non si fondi su esclusioni (impoverimento e violenza). Dunque occorre delineare un modello politico che porti in quella direzione. 3.4.4.1. Dall’osservazione storico sociologica (e forse di futurologia politica in forma schematica) sembrano delinearsi due direzioni e due scenari possibili, indicati (indicabili) con due termini (spesso intercambiabili o considerati pressoché uguali): multiculturalismo [4.], interculturalismo [5.]. 4. le ragioni di una critica al multiculturalismo Multiculturalismo: l’obiettivo, le debolezze, le dimenticanze, i rischi. Identità e multiculturalismo sede di una possibile identità come frutto avvelenato, per la società e per la persona.

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Il problema in descrizione nell’opera Liberalesimo politico, del 1993, John Rawls nel passo già citato, e ripreso in una lettera del 1998 (e Rawls afferma di considerare quest’articolo come “la migliore esposizione delle sue idee sulla ragione pubblica e sul liberalismo politico, soprattutto rispetto alla compatibilità tra ragione pubblica e credenze religiose” così nella seconda edizione, postuma, dell’opera Liberalesimo democratico, 2005 [in italiano 2012, Einaudi, Torino, p.403) «L’idea di ragione pubblica appartiene, nella mia interpretazione, alla concezione di una società costituzionale democratica bene ordinata. La forma e il contenuto di tale ragione — in che modo i cittadini la intendano e come essa interpreti le loro relazioni politiche — sono elementi della stessa idea di democrazia. Questo perché una caratteristica di base di ogni società democratica è il fatto del pluralismo: che in una tale società esista una molteplicità di dottrine comprensive ragionevoli tra loro in conflitto (siano esse religiose, filosofiche o morali) è un risultato naturale della sua cultura di libere istituzioni. I cittadini comprendono che è impossibile raggiungere un accordo, o quanto meno aprire la strada a una reciproca intesa, sulla base delle inconciliabili dottrine comprensive che essi difendono. Ciò che dunque hanno bisogno di fare è esaminare quali tipi di ragioni possano ragionevolmente offrirsi l’un l’altro quando sono in gioco questioni politiche fondamentali. La mia tesi è che nella ragione pubblica le dottrine comprensive della verità e del giusto siano sostituite da un’idea del politicamente ragionevole che possa essere rivolta ai cittadini in quanto cittadini. Un aspetto centrale dell’idea di ragione pubblica è che essa non critica né attacca nessuna dottrina comprensiva, sia essa religiosa o di altro tipo, a meno che tale dottrina non sia incompatibile con gli elementi essenziali della ragione pubblica e delle società democratiche. La condizione di base imposta alle dottrine ragionevoli è che accettino le forme di governo a democrazia costituzionale e l’idea di diritto legittimo che le accompagna. Per quanto le società democratiche siano l’una diversa dall’altra riguardo alle particolari dottrine che all’interno di ciascuna godono di autorevolezza o sono attive — si pensi alle democrazie dell’Europa occidentale, agli Stati Uniti, a Israele o all’India —, trovare un’idea appropriata di ragione pubblica è un compito che tutte devono affrontare.» 4.1. Prima introduzione: le contraddizioni e le sfide della società attuale 4.1.1. la contraddizione multiculturale: particolarismi e contaminazione (prima contraddizione). «La società multiculturale, in quanto situazione di compresenza di gruppi culturali diversi all’interno di uno stesso spazio sociale, chiama in causa il multiculturalismo quale possibile risposta ai problemi generati dalla loro convivenza. Dalla considerazione di un dato oggettivo, si passa pertanto all’elaborazione di un progetto di società all’interno del quale è necessario “stabilire regole per la convivenza di tali gruppi su una base di assoluta parità e di reciproco riconoscimento” (Crespi 1996, p. 262). Espresso in questi termini, il concetto di multiculturalismo risulta essere meramente descrittivo nei confronti della realtà, tacendo sulla natura dei rapporti che intercorrono fra le diverse culture. Il problema legato all’affermazione della società multiculturale è infatti quello di conciliare la tutela del particolarismo culturale con lo svolgimento di un graduale processo di contaminazione tra culture diverse, quale garanzia di mutamento sociale e quale difesa nei confronti di possibili degenerazioni integraliste. Da questo punto di vista, il multiculturalismo tradisce la sua natura ideologica: incurante della natura processuale dei fenomeni sociali, i quali non di rado sfuggono a ogni tentativo di razionalizzazione dell’agire che sia aprioristicamente determinato, esso affonda le sue radici nella cultura moderna e nella frattura tra cultura e individuo da essa sancita. Le incognite della società multiculturale sono pertanto riconducibili alle contraddizioni interne al progetto multiculturalista, nonché alla nozione di cultura su cui esso si fonda.» Maria Cristina Marchetti, La contraddizione multiculturale. Identità e identificazione (in Pompeo o.c p. 203) «È qui che entra in campo l’ideologia del multiculturalismo. Il diritto alla diversità, a qualunque diversità culturale, viene giustificato in base al principio della uguaglianza di opportunità per tutte le culture di esistere e di essere praticate senza un giudizio di valore su di esse. L’uguaglianza di opportunità non è di fatto operante, ma si fa finta che lo sia. Si tratta di una ideologia perché permette a culture parziali di difendere o promuovere degli interessi particolari come se potessero

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diventare universali: una religione si chiude in se stessa pensando che prima o poi le altre cederanno; si mantengono certi modelli culturali, come quello dell’inferiorità della donna, pensando che gli altri sbaglino. Il multiculturalismo si presenta come ideologia nel momento in cui consacra una forma di coesistenza fra diversità culturali parziali che si pensano come universali mediante una concezione della sfera pubblica secondo cui, per coesistere, occorre che tutte le culture siano relativizzate (nessuna di esse può pretendere di dire la verità). Nella versione proposta da Gian Enrico Rusconi (2000), a nessuno deve essere permesso di parlare di ‘verità’ quando parla in pubblico. Questa posizione ha una sua giustificazione razionale? In apparenza sì, perché l’argomento di ragione che viene avanzato è che ‘ciascuno ha la sua verità’. Ma questa ragione è ultimativa? Non si direbbe. Essa ha un grado di riflessività zero. Infatti, è evidente che la verità — se intesa come effettivo stato delle cose — non può essere diversa a seconda di chi la dica. La ragione addotta vale se si cambia il senso del concetto di verità, cioè se ‘verità’ indica una opinione o un token, cioè un assunto, un simbolo emblematico, che si ritiene dato per scontato. Ma questa definizione di verità non sarebbe, con tutta evidenza, razionale, perché la razionalità implica una indagine che non dà nulla per scontato (Antiseri, 1991). Se lo spazio sociale pubblico diventa privo di valori comuni (perché l’unico valore comune è che tutte le differenze abbiano uguale dignità), l’agire sociale deve essere ispirato al principio del ‘politicamente corretto’ imposto dal relativismo culturale. La lotta per il riconoscimento delle diverse identità genera distanziamenti e fratture. È una nuova tragedia dei beni comuni.» (Donati, Pierpaolo 2008 Oltre il multiculturalismo, Laterza, Roma-Bari, p. 21-22) «Come ignorare il fatto che la difesa dei diritti culturali può ridursi in ossessione per l’identità, l’omogeneità e la purezza del gruppo, dunque nel rigetto delle minoranze e delle differenze? In nome dei diritti culturali si costruiscono comunitarismi che impongono le proprie leggi mascherandole da diritti. In nome di una identità e di una tradizione, dirigenti autoritari cercano di imporre principi e talora pratiche che negano la libertà di coscienza e le libere scelte culturali. Touraine Alain 2004 La globalizzazione e la fine del sociale. Per comprendere il mondo contemporaneo, il Saggiatore, Milano 2008, p.119-120 4.1.2. la contraddizione identitaria: soggettività e (è) relazione (riconoscimento, interazione) (seconda contraddizione; di carattere dialettico) «… non ci è stato possibile parlare di identità senza fare riferimento al rapporto con gli altri. L’individuo non è una monade chiusa in se stessa e isolata nella sua autonomia, ma sin dalla sua origine egli si trova in un rapporto costitutivo con altri individui. Si pone qui in evidenza la dimensione dell’intersoggettività, intesa non come incontro di soggetti già formati, bensì come l’essenziale relazionalità a partire dalla quale si rende possibile la stessa formazione della soggettività. Nessuna coscienza di sé potrebbe infatti emergere, nessuna individualità potrebbe costituirsi se non vi fosse all’origine una relazione con gli altri. …Per questa ragione, il problema dell’autocoscienza e dell’identità va considerato in stretta connessione con quello del riconoscimento, dal momento che sia l’identità personale sia l’identità sociale vengono costruendosi solo attraverso l’interazione con gli altri. Come ricorda Lucio Cortella, è soprattutto Hegel ad avere dimostrato la tesi fondamentale che «non si può dare un’unica autocoscienza, giacché il suo costituirsi dipende dal sussistere di un’altra autocoscienza, o meglio dal suo essere riconosciuta da parte di un’altra. La condizione della consapevolezza di sé è il riconoscimento da parte di un’altra autocoscienza» [Cortella 2002, 257]. La richiesta di riconoscimento comporta anche necessariamente la dimensione della reciprocità, infatti la validità del riconoscimento dell’altro ha come condizione che l’autocoscienza dell’altro «nel mentre mi riconosce, sia da me riconosciuta degna di riconoscermi» [ivi, 265]. (Crespi p. XII) 4.2. la dinamica del riconoscimento; una doppia morsa (la convergenza tra gli opposti) 4.2.1. l’incontro che annulla: « Siamo ancora una volta noi, dalla nostra posizione di forza, a decidere che cosa è cultura per gli altri. Ci piacciono i ritmi africani, molto meno gli ambulanti

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africani o certi atteggiamenti da loro tenuti. Nelle manifestazioni sull’Africa sembra non si possa fare a meno di avere tamburi che suonano, perché è questo che ci piace maggiormente della cultura nera ed è questo che vogliamo valorizzare. Si fa coincidere la cultura con le produzioni «artistiche» delle diverse società, adottando una visione estetizzante della cultura stessa. Nel film di Alain Goumis L’Afrance, il protagonista, un senegalese emigrato in Francia, dice a una ragazza francese: “Cinquant’anni fa dicevano: i negri sono selvaggi, sanno solo suonare il tam tam. Oggi dicono: les blacks sono formidabili, hanno il ritmo nel sangue”». Aime, o.c. p. 60 4.2.2. lo scontro che annulla: «Proprio perché le minoranze attive assumono strategicamente il compito, in sé del tutto meritorio, di difendere coloro che sono più fortemente discriminati nella società, esse finiscono spesso con il considerare i loro membri unicamente nei termini della categoria che definisce la loro discriminazione: il genere, il colore della pelle, le preferenze sessuali e via dicendo. Ne consegue che gli individui, pur così difesi, debbono conformarsi ai modelli propri della minoranza che li rappresenta e ogni loro comportamento difforme a questo riguardo tende ad essere considerato come un tradimento. Come ha giustamente rilevato Kwame A. Appiah, nato in Ghana e professore di studi afro-americani e di filosofia all’Università di Harvard, ciascun individuo dovrebbe poter rivendicare il diritto di essere nero o omosessuale senza per questo doversi necessariamente adeguare a un modello particolare di appartenenza minoritaria che definisca come debba comportarsi un nero o un omosessuale [cfr. Appiah 1994, 163].» (Crespi, 20) 4.3. Il carattere distruttivo delle identità assolutizzate «Se i gruppi per la difesa dei diritti degli emarginati hanno certamente un’importante funzione strategica contro le forme di discriminazione imperanti, tali gruppi rischiano di dimenticare il loro carattere strumentale diventando, a loro volta, strutture di imposizione autoritaria sugli individui che intendono difendere. Un autentico riconoscimento dell’autonomia individuale può essere ottenuto a livello politico e sociale solo se l’individuo non è costretto a organizzare la sua vita sulla base di criteri prefissati. Quando l’identità individuale viene ricondotta all’appartenenza di gruppo l’identità di quest’ultimo viene ad assumere un carattere assolutizzato che compromette non solo la possibilità di sviluppare un’identità personale, ma anche la prospettiva di integrazione dei diversi soggetti nella società più ampia. Il fatto che l’identità particolaristica tenda ad essere posta al di sopra dei valori universali dell’essere umano determina un’erosione dei diritti umani fondamentali [cfr. Rockefeller 1994], con il rischio di accentuare le tensioni sociali, al limite fino a forme di fanatismo terroristico, che pongono a repentaglio, non solo le forme democratiche della convivenza, ma anche il mantenimento di un qualunque tipo di ordine sociale. Come ha rilevato Richard Sennett, il fenomeno del multiculturalismo, nella forma distorta nella quale è venuto diffondendosi soprattutto negli Stati Uniti, porta in pratica al fatto che «ogni gruppo si trincera nelle proprie appartenenze identitarie e nei propri stili di vita ed è assolutamente indifferente alle condizioni di vita degli altri. Così il multiculturalismo decreta la fine del discorso pubblico» [Sennett 1998, 12].» (Crespi o.c. p. 20-21) 4.3.01. la componente ideologica del multiculturalismo «La difesa a oltranza di una specificità culturale che non trovi più nei soggetti interessati quella vitalità necessaria alle forme culturali per continuare a esistere, costituisce pertanto la componente ideologica del multiculturalismo odierno, che lo rende facilmente assimilabile al fondamentalismo. Da questo punto di vista, il fondamentalismo ha un’origine sociologica prima ancora che politica o religiosa. Esso costituisce infatti la prova tangibile della scarsa vitalità interna di una determinata cultura, costretta per ciò stesso a eliminare il confronto con le altre culture per sopravvivere. Ciò che in questo caso viene a essere distrutto è la struttura latente delle relazioni individuali quale componente attiva della produzione delle forme culturali. La globalizzazione pertanto, al pari della società di massa, non produce cultura, in quanto annulla ogni relazione tra gli individui fondata sul riconoscimento della diversità. È pertanto illusorio pensare di poter trovare in questa tendenza, seppur dominante, un alleato per la realizzazione di una società multiculturale nel senso pieno del termine. Al contrario essa favorisce la riaffermazione di

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un particolarismo culturale esasperato e istintivo quale antidoto al processo di omologazione in atto su scala planetaria.» (Marchetti, M.C. in Pompeo oc. p.213,214) 4.3.02. globalizzazione e frantumazione «La recente accentuazione del processo di globalizzazione, conseguente alla fine della guerra fredda e alla rottura dell’equilibrio rappresentato dalla divisione del mondo in due blocchi contrapposti, ha ulteriormente aggravato il processo di deterritorializzazione e di frantumazione delle appartenenze sociali. D’altra parte, la rivendicazione del diritto di tutti i popoli, di tutte le minoranze e di tutte le culture a essere riconosciuti su un piano di parità hanno reso sempre più difficile la possibilità di trovare valori universalmente condivisi quali basi della solidarietà sociale. Anche qui, a effetti positivi di liberazione e di aumento delle possibilità di autorealizzazione sia individuale che collettiva, fanno riscontro effetti negativi di sempre maggiore dipendenza degli individui e delle collettività da un ordine globale che, dopo aver posto in crisi il concetto tradizionale di sovranità, più nessuno sembra veramente in grado di controllare. Quale reazione a questa situazione sono emerse soprattutto due tendenze entrambe di segno contrario rispetto alla solidarietà generale: da un lato, l’affermazione di un individualismo esasperato nel quale ciascuno, chiudendosi nella propria sfera privata, sembra perseguire soltanto la soddisfazione dei propri interessi egoistici; dall’altro, l’assolutizzazione di nuove identità sociali di tipo particolaristico, legate all’appartenenza etnica, alla religione, a nuove forme di integralismo nazionale, a minoranze di ogni tipo. (Crespi, p. 90) 4.3.03. il carattere costruito, fittizio e strumentale delle identità assolutizzate Come ho già accennato, tale assolutizzazione ha portato alla manipolazione strumentale del bisogno identitario di grandi masse da parte di centri di interesse e di potere economico politico, con effetti conflittuali devastanti in molte parti del mondo. (Crespi, p. 90) Il filosofo della politica Jean François Bayart ha giustamente osservato che: «Niente minaccia maggiormente, oggi, la “stabilità dell’ordine sociale” quanto lo scatenamento dell’illusione identitaria. È diventato urgente oppone un ethos filosofico che distingua le rispettive parti del contingente e dell’universale, dal momento che alcuni partiti politici, in Europa e altrove, hanno preso l’iniziativa di ciò che essi chiamano il “conflitto identitario”» [Bayart 1996, 248]. Come rileva Bayart, il presupposto che a un’identità culturale debba corrispondere necessariamente un’identità politica è del tutto illusorio. Nei fatti, «ciascuna di queste identità è nel migliore dei casi una costruzione culturale, una costruzione politica o ideologica, ovvero, in fine, una costruzione storica» [ivi, 9-10]. Il carattere distruttivo delle identità assolutizzate e la lotta per il riconoscimento…. Un primo aspetto da affrontare, lungo le linee che abbiamo prima indicato, è indubbiamente quello del contenimento delle componenti distruttive derivanti dai processi reattivi di assolutizzazione delle identità sociali. Occorre promuovere la coscienza del carattere riduttivo inerente a ogni definizione identitaria e degli elementi illusori ad essa connessi (sublimazione) in modo da contrastare l’utilizzazione strumentale delle diverse identificazioni sia in senso individualista sia in quello di tipo collettivistico.» (Crespi, o.c. p. 92-93) «Nel libro Contro l’identità, Franco Remotti, attraverso la sua analisi di alcune culture “primitive”, tra le quali si trovano anche esempi di identità flessibili ed aperte, ha messo in evidenza il carattere costruito e fittizio delle identità assolutizzate, ponendo il problema di come «uscire dalla logica dell’identità.» […] Egli osserva che per uscire dalla logica dell’identità, per andare «oltre l’identità», occorre riconoscere che l’identità è troppo riduttiva e selettiva e ciò che si perde in essa è “l’apertura all’alterità, anzi il bisogno di alterità che, spesso in modo molto dialettico, si intreccia quasi inestricabilmente con l’esigenza di identità”» (Crespi, o.c. p. 96-98) «La possibilità di riferirsi in negativo al senso come dimensione irriducibile ai significati, e all’esistenza come condizione comune caratterizzata dalla mancanza e dal non-sapere, permette di sottolineare il limite di ogni forma di assolutizzazione dei significati stessi e, al tempo stesso, di mostrare che, sul piano pratico, occorre sapere gestire le esigenze contraddittorie tra, da un lato, il bisogno di forme di determinatezza, necessarie a definire, sul piano pratico, regole condivise all’interno di prospettive contingenti atte a fondare la prevedibilità e l’ordine sociale, e, dall’altro,

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quello altrettanto vitale di non restare rinchiusi in tali forme, assolutizzandole, per mantenersi aperti a sempre nuove possibilità e capaci di costante adattamento al mutare delle condizioni materiali e degli eventi storici.» (Crespi, o.c. p. 107-108) «Sottolineando, infatti, l’esigenza di non essere identificati con nessuna determinazione, (Michael) Walzer afferma: «Noi abbiamo bisogno di essere tollerati e protetti come cittadini dello Stato e come membri di gruppi e anche come stranieri a entrambe le cose» [Walzer 1998, 125, corsivo mio].» (Crespi, o.c. p. 111) Far corrispondere una identità culturale con una identità politica è confondere comunità con società, non riconoscere o non accettare il ruolo della politica, la sua laicità e la sua funzione in termini di giustizia formale, non riconoscere quindi ad una società il diritto ad una politica di giustizia in termini di equità, infine, non riconoscere il diritto della persona alla propria libertà. 4.3.1. un nuovo razzismo multiculturale ? («razzismo differenzialista») «Dopo la seconda guerra mondiale e la presa di coscienza degli orrori del nazismo … , secondo Taguieff [1994; 1999], il razzismo ha assunto una nuova veste, prendendo a prestito una serie di argomenti dell’antirazzismo. Diventa infatti centrale l’idea della differenza culturale, e allo screditato termine «razza» si sostituisce quello di «etnia» o anche di «cultura». Taguieff parla dunque di «razzismo differenzialista». In questa chiave, le popolazioni immigrate insediate nelle società occidentali vengono così paventate soprattutto come una minaccia per l’identità culturale delle maggioranze autoctone. Come nota Beck, «ci si appiglia strategicamente ad un ipotetico essenzialismo della propria appartenenza etnica per ristabilire confini che stanno svanendo e mescolandosi, tra dentro e fuori, tra noi e loro» [Beck 2003, 11]. Il razzismo differenzialista prende allora la forma di un’esaltazione delle differenze e di una preoccupazione per la loro preservazione. Memorie, tradizioni, modi di vita peculiari possono essere salvaguardati solo al prezzo della separazione da altri gruppi umani, concepiti come portatori di culture diverse. Le identità culturali vengono dunque concepite come rigide, non modificabili, mentre le possibilità di ibridazione o meticciato vengono respinte come inaccettabili (Taguieff parla di «mixofobia», come «orrore della mescolanza tra gruppi umani»). Gli individui vengono poi assegnati collettivamente ad una certa «cultura» sulla base del fattore ascrittivo della nascita in un determinato paese o della discendenza da genitori rispettivamente autoctoni o immigrati. La cultura viene quindi in un certo senso naturalizzata e serve a rinchiudere gli individui in identità immutabili. L’ideale vagheggiato è quello di popoli (o culture) che rimangano nettamente distinti e abitino territori separati (vivano «nel proprio paese») al fine di preservare la ricchezza delle diversità.» Ambrosini, Maurizio 2008 Un’altra globalizzazione. La sfida delle migrazioni transnazionali, il Mulino, Bologna, pp. 185-186 «Attualmente il pericolo maggiore è quello che l’idea di soggetto venga corrotta dall’ossessione per l’ identità. È un errore, in nome dell’idea di soggetto, difendere un diritto alla differenza. Questa nozione, che porta in sé molti elementi positivi, è carica anche di conseguenze pericolose, poiché implica per molti un diritto alla chiusura, all’omogeneità, dunque a quella pulizia etnica e religiosa di cui molte parti del mondo hanno subìto gli effetti distruttivi. Il diritto di essere un soggetto è il diritto per ognuno di unire la propria partecipazione all’attività economica, all’esercizio dei propri diritti culturali, nel quadro di un riconoscimento degli altri come soggetti. … Allo stesso modo, gli ex colonizzati, i nuovi immigrati, i musulmani vengono troppo spesso definiti in base a ciò che subiscono, come se non potessero essere attori della propria storia.» Touraine Alain 2004 La globalizzazione e la fine del sociale. Per comprendere il mondo contemporaneo, il Saggiatore, Milano 2008, p. 129-130, 147 4.3.2. magliette o pelle (o i legami labili di una società complessa)? «Anzitutto abbiamo visto come non esista una sola identità, e pertanto si possa tranquillamente convivere con diverse «magliette», come sostiene Eric Hobshawm — al quale ci rifacciamo ancora una volta — quando opera una colorita divisione delle identità collettive in «identità pelle» e «identità maglietta». Le prime si fonderebbero su elementi oggettivamente condivisi dai membri di una comunità (colore della pelle, genere biologico, ecc.); è difficile sfuggire da esse in quanto

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fondate su elementi ascritti e facilmente riconoscibili, anche se non tutti i neri e neppure tutte le donne si radunano sotto bandiere comuni. Però, afferma Hobsbawm, la maggior parte delle identità collettive sono magliette più che pelle, cioè sono — almeno in teoria — opzionali, non ineludibili e intercambiabili senza troppe difficoltà: si tratta insomma di fatti non inerenti all’oggetto stesso, ma dipendenti dalle nostre decisioni. Questa è la raffinata analisi degli studiosi. Ma nel nostro agire quotidiano siamo davvero coscienti di quale sia la nostra pelle e quale invece l’abito indossato? Perché se scambiamo il secondo con la prima (magari perché convinti dall’esterno o dall’alto) e agiamo di conseguenza ci ritroviamo a combattere per una causa che reputiamo giusta e irrinunciabile. Il problema si pone infatti quando i nostri cassetti sono pieni di queste magliette — quella dell’identità di classe, della nazionalità, della fede politica, della passione calcistica — e siamo costretti a decidere quale di esse diventerà la nostra pelle. Come afferma Remotti, ogni tentativo di creare un’identità è un’azione duplice: da un lato si include dall’altro si esclude; in nome di una particolarità si rinuncia, parzialmente o temporaneamente, alla molteplicità. Poiché si tratta di una rinuncia parziale o temporanea, e non necessariamente definitiva, si può dedurre che si tratta di una condizione non permanente (e pertanto non innata) né pervasiva di tutti gli atti della nostra vita. I rapporti tra gruppi diversi devono davvero passare per forza attraverso la cruna dell’identità? Ritengo più opportuno pensare, come sostiene Luciano Li Causi, che due o più gruppi «possano intrattenere tra di loro ogni tipo di relazione, l’etnicità può esservi presente come elemento tra gli altri, o può essere totalmente assente; in questo senso i rapporti sono economici, matrimoniali, politici, ideologici, ecc., con o senza componente etnica, a seconda delle situazioni.» (Aime, o.c. p. 125-126) 4.3.3. Multiculturalismo e libertà culturale «Negli ultimi anni, il multiculturalismo si è guadagnato sempre più spazio in quanto valore importante o, volendo essere più precisi, in quanto slogan efficace (dal momento che i valori che esprime non sono del tutto chiari). La fioritura simultanea di diverse culture all’interno dello stesso paese o della stessa regione può essere giudicata una cosa importante di per sé, ma molto spesso i fautori del multiculturalismo lo difendono sostenendo che esso sia una condizione necessaria per la libertà culturale. È un’affermazione che dev’essere esaminata in modo più approfondito. L’importanza della libertà culturale dev’essere distinta dalla celebrazione di ogni forma di eredità culturale, senza curarsi se le persone coinvolte sceglierebbero quelle particolari pratiche se fosse data loro l’opportunità di sottoporle ad analisi critica e di conoscere adeguatamente altre opzioni e altre scelte esistenti. Anche se si è discusso molto, negli ultimi anni, del ruolo importante e capillare dei fattori culturali nella vita sociale e nello sviluppo umano, l’attenzione si è tendenzialmente concentrata, esplicitamente o implicitamente, sull’esigenza della conservazione culturale (ad esempio, il mantenimento di stili di vita conservatori da parte di individui che non sempre accompagnano il proprio trasferimento geografico in Europa o in America con un adattamento culturale). La libertà culturale può includere, fra le altre priorità, la libertà di contestate l’adesione automatica alle tradizioni antiche, quando le persone — in particolare i giovani — vedono una ragione per cambiare il proprio modo di vivere.» (Sen 2006 p.115) «Perorare la diversità culturale perché è quello che gruppi diversi di persone hanno ereditato dai loro predecessori non è palesemente un’argomentazione basata sulla libertà culturale (anche se a volte viene presentata come se fosse una tesi «pro-libertà»). Nascere in una determinata cultura non è ovviamente una manifestazione di libertà culturale, e preservare ciò che ti è stato appiccicato addosso solo in virtù della nascita, difficilmente potrà essere, di per sé, un esercizio di libertà. Non si può giustificare nulla in nome della libertà se non si dà effettivamente alle persone l’occasione di esercitarla, questa libertà, o se quantomeno non si cerca di valutare attentamente in quale modo sarebbe esercitata un’opportunità di scelta qualora essa fosse resa disponibile. La repressione sociale può negare la libertà culturale, ma la violazione della libertà può venire anche dalla tirannia del conformismo, che rende difficile ai membri di una comunità optare per altri stili di vita.» (Sen 2006 p. 118) «Come detto in precedenza, la popolazione mondiale non può essere vista

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esclusivamente in funzione delle affiliazioni religiose, come una federazione di religioni. Per gli stessi motivi, più o meno, una Gran Bretagna multietnica non può essere considerata un insieme di comunità etniche. La visione «federativa», però, ha avuto un grande successo nella Gran Bretagna contemporanea. Nonostante le implicazioni tiranniche insite nel collocare gli individui in rigidi compartimenti ognuno corrispondente a una data «comunità», questa impostazione viene spesso considerata, in maniera piuttosto sconcertante, come alleata della libertà individuale. Esiste perfino una «visione», molto propagandata, del «futuro della Gran Bretagna multietnica» che vede il paese come «una federazione elastica di culture tenute insieme da vincoli comuni di interessi e di affetti e da un senso collettivo dell’essere». Ma è indispensabile che il rapporto di un individuo con la Gran Bretagna venga mediato attraverso la cultura in cui questo individuo è nato? Una persona può decidere di accostarsi a più di una di queste culture predefinite, o, altrettanto plausibilmente, a nessuna. Un individuo può anche decidere che la sua identità etnica o culturale è meno importante, per fare un esempio, delle sue convinzioni politiche, o dei suoi impegni professionali o dei suoi convincimenti letterari. È una scelta che dev’essere fatta da quell’individuo, a prescindere dalla casella che occupa in questa bizzarra «federazione di culture».» (Sen 2006 p.160-161) «L’illusione dell’identità unica, funzionale agli scopi violenti di chi orchestra questi scontri, è abilmente coltivata e fomentata dai signori della persecuzione e del massacro. È più che naturale che quelli che per mestiere fanno gli istigatori di violenza cerchino di creare l’illusione dell’identità unica, da sfruttare per creare una contrapposizione, e non è un mistero che questo tipo di riduzionismo sia un obiettivo perseguito. Quello che si fa fatica a capire, però, è perché questa ricerca di unicità abbia tanto successo, considerando che si tratta di una tesi straordinariamente ingenua in un mondo in cui la pluralità di affiliazioni è un fatto evidente. Considerare una persona esclusivamente in base a una soltanto delle sue numerose identità è ovviamente un procedimento intellettuale estremamente rozzo (come ho cercato di illustrare nei capitoli precedenti), eppure, a giudicare dalla sua efficacia, l’illusione ricercata di un’unicità identitaria è facile da difendere e facile da promuovere. Patrocinare un’identità unica per uno scopo violento assume la forma di isolare un gruppo identitario — direttamente legato allo scopo violento in questione — dagli altri, procedendo quindi a mettere in secondo piano la rilevanza delle altre associazioni e affiliazioni, attraverso un ricorso selettivo all’enfasi e all’istigazione.» (Sen, Amartya 2006 Identità e violenza, Laterza, Roma-Bari 178) «Ma come l’ibridazione globalizzante non cancella le identità, pronte a risorgere e a reinventare se stesse nelle guise più imprevedibili, così non le cancellano l’organizzazione postfordista della produzione e l’estendersi e l’ingolfarsi della comunicazione fino alla completa cecità della comunicazione stessa. Le diverse identità riappaiono, davanti allo sguardo critico, nel momento in cui si consideri la comunicazione sotto l’aspetto di una speciale attribuzione che avviene al suo interno: quella di potere. Attribuire potere a qualcuno o a qualcosa significa con ciò stesso istituire un’asimmetria tra chi si trova in una posizione di vantaggio e chi si trova in una posizione di svantaggio. Così le identità si ridefiniscono, e con esse i termini del conflitto potenziale. Il compito della teoria critica in questo campo non è quello di riproporre le vecchie identità come motori immobili della dinamica sociale, ma di portare alla luce ovunque nel movimento della comunicazione attribuzioni di potere e asimmetrie. Quello dell’identità, infatti, è un terreno di lotta.» Identità. Voce per un lessico (2001) in Genovese, Rino 2008 Gli attrezzi del filosofo. Difesa del relativismo e altre incursioni. Manifestolibri, Roma p.175 4.4. Identità e differenze culturali, strade percorse per la comunicazione: un bilancio «Esiste un aneddoto piuttosto noto sul principe Petar Potrovic Njegoš, che regnò in Montenegro durante la prima metà del XIX secolo e di venne famoso sia per le battaglie contro i turchi sia per la sua vena epica: quando un ospite inglese, profondamente impressionato da un rituale del luogo, espresse il desiderio di prendervi parte, Njegoš ribatté rudemente: “Che bisogno c’è che anche lei faccia l’idiota? Non bastiamo noi per questi giochi stupidi?”. Slavoj Žižek

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«Per concludere, vorrei tornare su alcune questioni sollevate nell’introduzione a proposito del dibattito sulla società multiculturale, richiamando brevemente quattro tipi di discorso, apparentemente diversi, attorno a identità e differenze culturali. Un primo tipo rinvia all’ideologia della political correctness, intesa come forma parossistica di rispetto per le specificità culturali, riferite a gruppi sociali culturalmente definiti, che si traduce nell’obbligo di astenersi dall’uso di espressioni e locuzioni poco riguardose nei confronti delle identità — da intendersi come prerogative dei suddetti gruppi — in gioco nei processi di interazione, e che genera, come conseguenza forse non intenzionale, separazione e irrigidimento dei confini, ingessa la comunicazione e i traduce ogni problema di equità e giustizia sociali in una questione di buone maniere. Un secondo tipo coincide con una versione ingenua del discorso multiculturalista, riproposta di sovente da politici e amministratori “sensibili” alla valorizzazione delle differenze culturali, oltre che negli interventi di apertura dei convegni dedicati alla società multiculturale, alla comunicazione o alla pedagogia interculturali, ai media multietnici ecc. Vi si ritrovano tre elementi ricorrenti: 1. L’idea che le società contemporanee si contraddistinguano per una complessità culturale inedita rispetto al passato e che tale eterogeneità debba essere tutelata in quanto elemento di arricchimento per tutti. 2. L’affermazione compiaciuta che un mondo ricco di diversità culturali (intese, di norma, come culture specifiche di gruppi nazionali) sia più interessante di una società che tenda all’omologazione: che Belleville sia più affascinante di Pontida e che la world music renda più attraenti le nostre città, anche se i venditori abusivi di djembe ne mettono a repentaglio il decoro. 3. La convinzione che gli immigrati, organizzati in gruppi tendenzialmente nazionali (“magrebini”, “sudamericani”, “africani dell’area subsahariana” permettendo) siano portatori di culture specifiche che dovrebbero essere riconosciute e valorizzate insieme alle lingue che le veicolano. La terza manifestazione del discorso sulle differenze, ben più truce e inquietante delle due viste finora, è rappresentata dall’ideologia dello scontro di civiltà, ovvero dall’accettazione del mantra per il quale, dalla fine della Guerra Fredda, le relazioni internazionali si starebbero strutturando attorno a linee di conflitto, di matrice essenzialmente religiosa, tra civiltà fra loro inconciliabili (occidentale, latinoamericana, islamica, sinica, indù, ortodossa, buddista e giapponese) e, cosa più importante, tutte incompatibili (le altre) con quella “occidentale”. Secondo questa lettura, l’influenza dell’Occidente starebbe scemando e, svanita qualsiasi possibilità di egemonia da parte di pretese di carattere universalistico, l’unica via d’uscita per l’Europa e il Nord-America sarebbe consolidare e difendere la “civiltà occidentale” all’interno dei suoi confini. Un discorso, questo, sempre più al centro delle preoccupazioni di politici e intellettuali nostrani — oltre che di una parte tutt’altro che minoritaria della Chiesa cattolica-romana — e che paventa un lugubre futuro di guerre di religione. Infine, abbiamo il discorso “differenzialista” (Taguieff, 1997), inteso come la versione relativamente recente e “sofisticata” assunta dall’ideologia razzista, in cui il determinismo biologico che prevede una stretta relazione tra corredo genetico, tratti somatici e tratti culturali e sulla cui base venne istituita una gerarchia tra le razze che legittimò tanto il colonialismo, inteso come funzione civilizzatrice dell’Occidente nei confronti del resto del mondo, quanto le persecuzioni razziali sulla base dell’idea che si dovesse preservare la purezza della razza da ogni rischio di contaminazione viene sostituito dall’idea che le razze, biologicamente indistinguibili, si differenzino per le loro specifiche culture, che dovrebbero essere preservate dai rischi di omologazione e ibridazione. Se l’espressione politica estrema, e più rara, di tale ideologia è costituita dall’apartheid, quella più diffusa e socialmente accettata implica il rifiuto dell’immigrazione in quanto minaccia per l’identità culturale dei singoli stati nazione. Queste quattro “formazioni discorsive”, al di là delle evidenti differenze, poggiano su una comune concezione della cultura, che, come è stato mostrato molto bene da Zoletto (2003, Gli equivoci del multiculturalismo, in aut aut, 312, pp. 6-18), incorpora i seguenti elementi:

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1. Un’idea essenzializzante e generalizzante delle culture, intese come sistemi simbolici statici con confini definiti identificabili sulla base di un repertorio di elementi: valori, norme, usi. costumi, manufatti, forme simboliche, credenze religiose ecc. 2. Un’assunzione di sovradeterminazione e monoculturalità, per cui le culture sarebbero entità definite e internamente omogenee che circolano per il pianeta grazie a moltitudini di sherpa da esse plasmati: i famosi “portatori di un bagaglio culturale”; qualunque elemento di differenziazione interno ai gruppi culturali (classe, età, genere ecc.) risulterebbe inoltre irrilevante rispetto all’importanza dei riferimenti culturali come elemento di identificazione. 3. Una concezione ctonia delle culture (Dal Lago, 2006) che, riproducendo coordinate di carattere geopolitico, avrebbero confini geografici ben definiti (coincidenti, generalmente anche se non necessariamente, con quelli di un qualche stato nazione [costruzione artificiale delle imprese coloniali e retaggio di quella presenza ora definito nella forma di Stato nazionale]) e sarebbero strettamente legate a una lingua e a un’etnia. 4. Una componente spiccatamente ideologica che porta a misconoscere l’esistenza di relazioni asimmetriche di potere tra singoli e gruppi sociali, che vengono espunte dal dibattito e sostituite con differenze e identità culturali. 5. Un gioco perverso di stigmatizzazione e autostigmatizzazione, connesso a processi di etero- e autoidentificazione, ove il lessico multiculturale del gruppo sociale dominante (la società di accoglienza, nel caso dei migranti) venga adottato dai gruppi subordinati e minoritari per autodefinirsi (le “comunità etniche/nazionali”). L’ultimo punto rinvia a uno degli esempi più eclatanti di discorso culturalista essenzializzante, che trasforma i migranti in gruppi/minoranze etniche/culturali, ricollocando una figura contraddistinta, per definizione, dalla fluidità entro un contenitore (un’identità) culturale rassicurante, proprio a causa della sua diversità, e nonostante questa. Una trasformazione che cancella ciò che di più importante i migranti simboleggiano, ovvero, come ricorda Dal Lago (ibidem), che il territorio e la cultura possono non essere così importanti o indispensabili per la nostra esistenza. Considerare i migranti come “magrebini”, “africani”, “cinesi”, “islamici”, “sudamericani” ecc. significa negare e neutralizzare il carattere indeterminato, composito, variegato e sconcertante dei loro riferimenti culturali. Significa riconsegnarli a patrie immaginarie che proprio per la loro diversità ci rassicurano circa la nostra identità. La stessa idea soggiacente allo scontro di civiltà (“solo a partire da un’identità forte possiamo confrontarci con popolazioni che mantengono riferimenti culturali religiosi ben più solidi dei nostri”) può essere riletta, in questa chiave, come un invito a consolidare i nostri riferimenti identitari e a riconnetterli a un territorio (al contempo geografico e simbolico). Omogeneità culturale e disincentivazione della fluidità delle appartenenze e delle identità, peraltro, hanno rappresentato da sempre, come ci ha ricordato Sayad (1999), la regola degli stati nazione. L’emergere di minoranze etniche, in questo senso, non costituisce affatto un fallimento nella costruzione degli stati nazione, poiché non ne mette in discussione le coordinate di fondo. Ciò che risulta intollerabile per l’identità nazionale non è, infatti, l’esistenza di identità culturali alternative, ma l’assenza di un’identità forte, la multiappartenenza e, quindi, il carattere molteplice, rinegoziabile e rivedibile delle nostre lealtà. I migranti, per riprendere una formula di Sayad, denaturalizzano, in quanto tali, l’ordine naturalizzato della nazione. Ma tale ordine viene ricreato tramite naturalizzazioni subordinate: le minoranze etniche/culturali, appunto. Se, dunque, ciò che ci sconcerta nei migranti è il carattere composito, opportunistico, negoziale, deterritorializzato dei loro riferimenti culturali, la questione delle differenze, ove riguardi qualcosa di diverso da un “diritto generico all’individuazione” e quindi all’affermazione della differenza in quanto individui, diviene una faccenda complessa e scivolosa, che certo non può essere risolta con un invito al rispetto e alla valorizzazione delle culture. Considerazioni analoghe potrebbero essere fatte anche a proposito dei progetti sviluppati nella scuola per favorire il diffondersi di metodologie di insegnamento basate sull’intercultura e sul mediatore culturale, una delle figure chiave dell’“incontro tra culture” (Aime, 2004). Il discorso essenzializzante incorpora comunque un’ulteriore assunzione, di particolare interesse per

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le questioni che ho affrontato nel volume. Mi riferisco alla reificazione delle culture che deriva dal disconoscimento sia del carattere processuale e contestuale del loro operare e manifestarsi (legato dunque alle specifiche situazioni e alle strategie degli attori rilevanti in gioco) sia della relazione indissolubile che esiste tra cultura e comunicazione. Qualunque cosa siano le culture — e indipendentemente da come le si consideri sul piano epistemologico (essenza, processo, discorso) — esse, infatti, possono esprimersi solo nella comunicazione e, ove quest’ultima abbia luogo nell’ambito di interazioni sociali faccia a faccia, il loro manifestarsi dovrà “fare i conti” con i vincoli specifici che caratterizzano tale dimensione della vita sociale.» Quassoli, Fabio 2006 Riconoscersi. Differenze culturali e pratiche comunicative, ed. Raffaello Cortina, Milano, pp. 201-215 (passim) 5. identità oltre il multiculturalismo: interculturalismo. 5.1. la situazione il problema e l’obiettivo 5.1.1.interculturalismo vs multiculturalismo (Rimbaud: «Je est un autre»). In sintesi e richiamo del problema. In sintesi e per passaggio. «‘Multiculturalismo’ è un termine che si è diffuso in Occidente a partire dagli anni Sessanta per indicare il rispetto, la tolleranza e la difesa delle minoranze culturali. Il concetto di multiculturalismo è diventato un immaginario collettivo («tutti differenti, tutti uguali»: Young, 1996) che si presenta come l’ultima versione del concetto di laicità in senso modernizzante: mettere ogni cultura sullo stesso piano ed evitare di parlare di ‘verità’ nella sfera pubblica, perché ogni individuo è portatore di una sua verità e le diverse verità non sono confrontabili fra loro. Il multiculturalismo così diventato una ideologia politica che propugna una cittadinanza inclusiva nei confronti delle culture ‘diverse’.» (Donati, 2008, p.V) «La dottrina del multiculturalismo è nata per promuovere la tolleranza e il reciproco rispetto fra culture differenti, nell’assunto che esse siano inconciliabili. Apparentemente favorisce il riconoscimento del diritto alla diversità culturale; ma in realtà fallisce nel suo intento. Perché? La ragione fondamentale sta nel fatto che l’ideologia del multiculturalismo ha una teoria assai riduttiva del riconoscimento delle diversità/differenze culturali, che comporta la cristallizzazione e un trattamento assai limitativo delle potenzialità che ineriscono alle differenze culturali. Per esempio, il multiculturalismo riconosce il diritto a parlare la propria lingua, perché ritiene che parlare una lingua significhi appartenere a un mondo specifico, e che i mondi linguistici siano ‘intraducibili’; il che può essere vero per molti aspetti, ma in ogni caso produce due effetti negativi. Primo, rinuncia a compiere uno sforzo per far accedere tutte le persone, quale che sia la loro lingua, a quei servizi essenziali che richiedono solo un minimo di conoscenze linguistiche per essere fruiti; secondo, sottovaluta il fatto che, quando si tratta di risolvere dei problemi nella vita pratica, esiste una ragione prelinguistica che può mettere in sintonia le persone, come nei casi in cui si tratta di darsi una mano per soccorrere una persona in difficoltà.» (Donati 2008, p.XIV) «Sfortunatamente, dopo essere stato adottato come politica ufficiale in vari paesi, il multiculturalismo ha generato effetti più negativi che positivi. Ha creato frammentazione della società, separatezza delle minoranze, relativismo culturale nella sfera pubblica. Come dottrina politica appare sempre più difficile da praticare. Al suo posto si parla oggi di interculturalità. Tuttavia, anche questa espressione appare piuttosto vaga e incerta. Il presente volume discute quali siano le possibili strade da percorrere per evitare i fallimenti del multiculturalismo, e si chiede se la via della interculturalità sia una soluzione adeguata. La mia tesi è che la teoria della interculturalità ha il vantaggio di mettere l’accento sull’inter, ossia su ciò che sta fra le culture, e indubbiamente aiuta a costruire dei ponti, o più spesso dei cuscinetti, fra le culture. Per esempio, può mettere in luce che certe azioni sono discriminatorie verso chi ha particolari caratteristiche (il colore della pelle, l’etnia), e quindi fare in modo che coloro che sono discriminati possano godere degli stessi diritti degli altri: si pensi a quei test per l’assunzione di manodopera che strutturalmente discriminano le persone di colore o chi, provenendo da culture

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orientali, non ha gli stessi modi di vivere degli autoctoni. L’interculturalità può aiutare ad accomodare le culture fra loro, a trovare un modus vivendi fra di esse, in nome di un principio di giustizia che riconosca il carattere ingiusto di una esclusione. Ma l’approccio interculturale, genericamente inteso, non possiede ancora gli strumenti concettuali e operativi per comprendere e gestire i problemi della sfera pubblica quando le diverse culture esprimano dei valori radicalmente conflittuali fra loro: per esempio, nel caso di chi rifiuta la trasfusione di sangue anche se ciò porta alla morte, o di chi vuole portare il burqa (l’indumento islamico che copre integralmente la donna), o di chi segue l’usanza di procedere alle mutilazioni sessuali femminili in età infantile per motivi rituali e/o religiosi: tutti casi in cui — per quanto riguarda l’Italia — si interviene di solito con il divieto della legge. Le difficoltà dell’interculturalità derivano da due carenze: 1) una insufficiente riflessività interna alle singole culture (esse sono costrette a mettersi in discussione, ma reagiscono il più delle volte reiterando le proprie credenze, senza un’adeguata capacità autoriflessiva); 2) la mancanza di un’interfaccia relazionale fra le culture (fra i soggetti che ne sono portatori), tale da renderle capaci di gestire le differenze in modo da evitare la guerra reciproca o la separazione senza dialogo.» (Donati 2008, p. V-VII ) 5.1.2. il problema giuridico-politico delle identità collettive e una carenza giuridica, anche frutto dell’impostazione tradizionale moderna del problema politico. Anche se, a livello politico, «sono sempre attori collettivi quelli che si affrontano, disputando su scopi collettivi e sulla distribuzione di beni collettivi» (Habermas, Jürgen (1996), Lotta di riconoscimento nello stato democratico di diritto, in Taylor, C., Habermas, J, Multiculturalismo, Feltrinelli, Milano 2001, p. 62), l’impostazione giuridica giusnaturalistica moderna, di tradizione liberal-democratica, pone al centro il riconoscimento e la garanzia dei diritti individuali. «Sembra tuttavia – almeno all’apparenza – che il problema debba porsi altrimenti quando ci troviamo di fronte a pretese di riconoscimento che sono avanzate da identità collettive e mirano a equiparare forme di vita culturali diverse.» (Habermas, ivi, 65) in altri termini, il problema «della parificazione giuridica e dell’eguale riconoscimento di gruppi culturalmente definiti, cioè a dire di collettività che si differenziano tra loro per tradizioni, forme di vita, discendenza etnica ecc., e i cui membri vogliono distinguersi dalle altre collettività per conservare e sviluppare una propria identità specifica.» (Habermas, ivi, 80). «Il multiculturalismo assoluto che implica un relativismo assoluto dei valori conduce inevitabilmente a quello scontro di civiltà di cui ha tanto parlato Huntington. Il relativismo dei valori dissolve le fondamenta dei diritti comuni. Perché ci sia comunicazione occorre sempre un certo grado di universalismo, come ha spiegato Habermas, interrogandosi sulle condizioni della comunicabilità. In questo senso, è importante ricordare che ogni essere umano o gruppo sociale è comunque dotato di diritti di natura universale.» (Alain Touraine, intervista) 5.1.3. Le difficoltà o la dichiarata “fine” del multiculturalismo non può diventare contesto per riprendere e rilanciare progetti politici di identità nazionale. Camuffati dai termini di cittadinanza e di difesa dei valori compaiono progetti di identità nei quali lo Stato si attribuiscono un ruolo guida e costituente; così nel proclami di alcuni capi (o ex) di Stato come Nicolas Sarkozy (Francia), Angela Merkel (Germania), David Cameron (Inghilterra) (il tema in Todorov Tzvetan 2009 La paura dei barbari. Oltre lo scontro delle civiltà, Garzanti Milano; e più di recente in Todorov Tzvetan 2012 I nemici intimi della democrazia, Garzanti, Milano; in particolare il capitolo 9, Populismo e xenofobia; qui preso in esame il caso tedesco, inglese e francese). 5.2. proposte per vie di uscita 5.2.1. alcuni postulati (due) 5.2.1.1. l’individuo si definisce nella comunità-società «Le persone (quindi anche i soggetti giuridici) acquistano identità solo tramite socializzazione» (Habermas, ivi, 70) 5.2.1.2. occorre restare nell’ambito della libertà personale – individuale

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«… la convivenza giuridicamente equiparata dei diversi gruppi etnici, e delle loro forme di vita culturali, non ha bisogno di essere tutelata da diritti collettivi (cioè da quel tipo di diritti che finirebbero per “sovraccaricare” una teoria dei diritti modellata su soggetti giuridici individuali). Anche se fosse effettivamente possibile concedere simili “diritti di gruppo”, nell’ambito di uno stato democratico di diritto essi sarebbero non solo superflui ma anche normativamente discutibili. Infatti, la tutela di tradizioni e forme-di-vita costitutive dell’identità deve, in ultima istanza, servire unicamente al riconoscimento dei loro membri in quanto individui. Essa non può avere il senso di una tutela biologica della specie compiuta per via amministrativa. Il punto di vista ecologico della conservazione delle specie non può essere trasferito alle culture. Le tradizioni culturali, e le forme di vita in esse articolate, si riproducono di regola per il fatto di convincere tutti coloro le cui strutture della personalità ne risultano influenzate, motivandoli ad assimilarle e a svilupparle in una maniera produttiva. Uno stato di diritto può soltanto rendere possibile questa prestazione ermeneutica necessaria alla riproduzione culturale dei mondi di vita. Invece una “sopravvivenza garantita” dovrebbe necessariamente sottrarre ai partecipanti proprio quella libertà del dire-sì e dire-no che è oggi preliminare a qualunque acquisizione, o presa in cura, di una data eredità culturale. Nelle condizioni di una cultura fattasi riflessiva, possono mantenersi in vita soltanto le tradizioni e le forme di vita che, pur legando a sé i propri membri, non si sottraggano al loro esame critico e tengano sempre aperta ai discendenti l’opzione o di apprendere da tradizioni diverse o anche di convertirsi e mettersi in marcia verso nuovi lidi. … Nelle società multiculturali, la convivenza giuridicamente equiparata delle forme-di-vita significa garantire a ogni cittadino tutto un ventaglio di possibilità. Per un verso c’è la possibilità d’invecchiare, senza subire umiliazioni, nel mondo tradizionale della propria cultura e di allevare in essa i propri figli, il che significa la possibilità di confrontarsi con questa cultura (così come con qualunque altra), di svilupparla in maniera convenzionale oppure di trasformarla. Per un altro verso c’è la possibilità di dimenticare tacitamente gli imperativi di questa cultura oppure di dichiarare loro guerra in maniera autocritica, continuando a vivere con il rovello di aver rotto i ponti (o addirittura con una sorta d’identità scissa). La trasformazione accelerata delle società moderne fa saltare tutte le forme di vita stazionarie. Le culture restano in vita soltanto se traggono dalla critica e dalla secessione la forza per autotrasformarsi. Tutte le garanzie di tipo giuridico devono sempre presupporre che nessuno sia privato della possibilità di rigenerare questa forza nell’ambito del proprio contesto culturale. D’altro canto questa forza si sviluppa non soltanto attraverso la contrapposizione e la difesa rispetto a persone e a culture straniere, ma anche — almeno nella stessa misura — attraverso il mantenimento di un rapporto di scambio con esse.» (Habermas, ivi, 89-91). 5.2.2. lo strumento per l’obiettivo è la ragione relazionale 5.2.2.1. cultura in contesto sociale; comunanza e riconoscimento «La differenza fa problema quando non sia inquadrata o inquadrabile in modo significante, perché manca un contesto relazionale di riconoscimento che fornisca una risposta alla dissonanza cognitiva e alle sfide che essa pone. La ragione relazionale viene a dirci che l’aspetto espressivo (culturale) e quello relazionale (la società) non sono separati, ma concretamente sempre interconnessi. La cultura vive nella relazione sociale, non fuori di essa. Se la differenza percepita fa problema, è perché la comunanza, che esiste nella relazione, non emerge prima del sentire la differenza, ma solo dopo di essa. E allora ci si chiede: perché, nell’incontro fra persone di culture diverse, la differenza emerge prima di ciò che è comune? Se, per esempio, un italiano di classe media vedesse un individuo mangiare la carne cruda di un cane, molto probabilmente la prima reazione (reattività istintiva) sarebbe di sentire quel gesto come disgustoso, perché i suoi sensi risponderebbero attraverso un’identità simbolica per la quale quel gesto esprime un atto barbaro. Solo con un atto di riflessività potrebbe arrivare a dire: ‘ma è un uomo come me’ (comunanza attraverso una relazione di riconoscimento). Questa è quella che io chiamerò la ragione relazionale. E la ragione relazionale che gli fa vedere la comunanza con l’Altro

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come persona e lo induce a elaborare il perché della differenza, il suo significato, la sua ammissibilità o meno, oppure ancora il rispetto o addirittura la condivisione. (Donati 2008, p. XI) Abbiamo bisogno di un pensiero che, attraverso la riflessività, sia in grado di mostrarci la comunanza, da cui nasce la differenza. Se vedo la comune umanità, allora potrò declinare la differenza in modo tale da distinguere in essa ciò cui posso rinunciare, perché è un motivo irrazionale (non stabilisce alcuna relazione significativa), e ciò che, invece, può costituire una utile base per l’incontro e il dialogo su qualcosa di degno per entrambi, che può specificarsi in modi diversi di essere — senza suscitare l’estraneazione, l’esclusione, il conflitto, lo scontro — semplicemente perché sono ‘valori di scopo’ che rispondono diversamente a un comune ‘valore della dignità’.» (Donati 2008, p. XII) 5.2.2.2. il contesto di metodo della ragione relazionale: le due semantiche della ragione occidentale, quella dialettica (rapportata ad un valore, segnata dell’orientamento a uno scopo) e quella binaria (ragione strumentale, rivolta ai mezzi), e, per contrasto e superamento, la logica del dono (cfr. Marcel Mauss, Saggio sul dono). Occorre « mettere in luce i limiti delle attuali semantiche del riconoscimento, attraverso cui vengono definite e trattate le differenze culturali, per esplorare un’ipotesi: che stia emergendo una nuova semantica, che chiamo relazionale, la quale definisce le identità e le differenze culturali come relazioni sociali. […] Trattare le differenze culturali come relazioni sociali significa affrontare il problema del riconoscimento in termini di circolazione di beni. Il riconoscimento sarà tanto più pieno quanto più questi beni sono dati-ricevuti-contraccambiati come doni.» (Donati 2008, p. XIV-XVI) «L’approccio al riconoscimento dell’Altro come circolazione di doni reciproci porta a indagare il tipo di razionalità che è inerente allo scambio dei doni. Ci si chiede: è razionale edificare la nostra identità culturale attraverso il riconoscimento della nostra differenza (la differenza che ciascuno ha non solo rispetto all’Altro, ma anche rispetto a se stesso) come prodotto di una circolazione di doni? Oppure è irrazionale? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo introdurre il problema di come la ragione umana intervenga nel processo di riflessività e lo configuri, ossia quale forma gli dia. Da questo punto di vista si vede che le due semantiche tipiche della modernità occidentale, cioè quella dialettica e quella binaria, hanno una visione assai limitata della ragione umana: rispettivamente come volontà di realizzare un valore di per sé non-razionale (Wertrationalität — razionalità rispetto al valore) e come razionalità strumentale (Zweckrationalität razionalità rispetto allo scopo), secondo la nota distinzione di Max Weber (1968, Economia e società, pp. 21-22). La razionalità che ha percorso il Novecento è stata una forma quanto mai riduttiva, che ha mutilato le potenzialità della ragione umana. (Donati 2008, p. XVI) È a questo punto che formulo la mia proposta: dobbiamo rivedere la teoria sociologica della razionalità, introducendo il concetto di ragione relazionale. Con tale espressione intendo dire che la ragione umana può e deve essere compresa come un complesso di quattro componenti: la razionalità strumentale (che riguarda i mezzi più adatti per raggiungere uno scopo), la razionalità dell’orientamento a uno scopo (in questo caso Wert è inteso come ‘valore di scopo’, laddove lo scopo è una ‘buona ragione’ che può anche essere una semplice opinione o un’ipotesi di ricerca), la razionalità normativa della relazione (ossia la logica regolativa che è inerente a ogni specifica relazione la quale, se vogliamo ricorrere alla lingua di Weber, può essere chiamata Beziehungsrationalität) e la razionalità del valore (intendendo per ‘valore’ il criterio di valorizzazione della relazione in ciò che essa ha di degno, di ciò che la relazione preserva e promuove come degno di essere perseguito, ossia la ‘razionalità della dignità’ che è in gioco nella relazione: Würderationalität). (Donati 2008, p.XVII) La ragione relazionale può essere definita come la modalità massimamente riflessiva per gestire le differenze culturali nella misura in cui: 1) porta sulla scena le ragioni delle relazioni sociali (non solo le ragioni degli individui e la ragione funzionale del sistema sociale);

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2) connette fra loro le componenti della ragione umana; 3) le fa operare relazionalmente fra loro, sia all’interno del complesso stesso della ragione sia ai suoi confini con il non-razionale (il mondo dei puri simboli ideativi). Lo scontro fra identità culturali profondamente differenti può essere evitato non già facendo ricorso a una ideologia o a un immaginario collettivo di tipo multiculturalista (sia esso comunitarista o liberale), secondo il quale dovremmo essere ‘tutti differenti, tutti uguali’. Questa non è solo una promessa illusoria; è anche una premessa errata per l’incontro fra culture diverse. La comprensione delle differenze culturali o è relazionale o non è. Perciò dobbiamo ricorrere a quella forma di razionalità che chiamo ragione relazionale. (Donati 2008, p. XVIII) Nella prospettiva della sociologia relazionale, la riflessività — così come viene indagata e proposta in questo volume — è un interrogarsi, da parte di un soggetto (osservatore individuale o collettivo), nella propria conversazione interiore, sui propri convincimenti, dubbi, emozioni, deliberazioni, ragionamenti, alla luce di come essi si formano nel relazionarsi all’Altro. È un ritornare su se stessi (il soggetto che riflette su se stesso, dentro se stesso) per esaminare come il proprio Io abbia elaborato la conoscenza (rappresentazione, emozione) di un oggetto o di una qualità dell’Altro. Ossia è l’attivazione di un processo di conoscenza sulla nostra conoscenza, tenendo conto di come il referente, l’Altro, influisca sul nostro modo di elaborare internamente la conoscenza, rappresentazione o sentimento che abbiamo di esso. Questo interrogarsi (interrogare se stessi sulla costruzione del proprio Self, del suo orizzonte e modo di vita) è una relazione che è sorta e si è sviluppata con la modernità, ma che la modernità ha poi sempre rimosso in qualche modo, da ultimo con la dottrina di quel multiculturalismo ideologico che non vede la costituzione relazionale delle identità culturali.» (Donati 2008, p.XX) 5.2.3. il contesto e tema del bene comune 5.2.3.1. multiculturalismo: i rischi della sua deriva ideologica. «Nella sua definizione originaria, il multiculturalismo è un «modo di incorporazione» degli immigrati in una società in cui prevale un’altra cultura. È un modo diverso da altre soluzioni, quali: assimilazione …ibridazione o meticciato …melting pot …interculturalità …( è una forma di incorporazione che dà attenzione alle differenze culturali al fine di meglio integrare l’immigrato o una minoranza nel sistema liberaldemocratico occidentale)» (nota: Deriva ideologica = irrigidimento e universalizzazione potenziale-auspicabile o progettato di una teoria, con solo momentanea tolleranza di altre teorie o di ragioni ‘comuni’ diverse dalla propria cultura, identitaria, di riferimento) Una conciliazione tra universalismo e particolarismo e un loro solido consolidamento in termini di bene comune sulla base del diritto. L’incontro tra universalismo (globalizzazione societaria) e particolarismo (comunitarismi identitari) è garantito, in termini di giustizia, sulla base del diritto e solo così viene costruito e diventa disponibile un bene comune. Diritto nel quale si ritrovano le forme astratte del diritto universale e le forme applicate del diritto positivo. « Il diritto positivo diventa in Habermas la risorsa funzionale – fortunatamente disponibile nel corredo di acquisizioni storiche della modernità – che ci consente di coniugare democraticamente solidarietà e giustizia, particolarismo delle identità e universalismo della legge. […] Solo il momento universalistico della validità giuridica consente di equiparare tra loro identità etiche e culturali diverse, garantendo coì la tutale dell’altro nella sua diversità.» (Habermas Jürgen 1996, Solidarietà tra estranei, Guerini e Associati, Napoli 1997, nota del curatore Leonardo Ceppa, 11,12); ma garantendo anche il bene comune. 5.2.3.2. la necessità di edificare un mondo comune «In quanto ideologia, il multiculturalismo non è una soluzione che possa esprimere un progetto di società civile, per il semplice fatto che esclude in linea di principio la possibilità e la necessità di edificare un mondo comune. Le alternative alle fratture della società possono essere cercate in un programma di interculturalità in cui l’inter (ciò che sta fra le culture) deve essere letto, interpretato e agito attraverso un paradigma relazionale. Il senso di tale paradigma è di espandere la ragione

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dalla persona umana alle relazioni sociali, in modo tale che la ragione possa giocare il ruolo di mediazione fra le culture. Chiamerò questa ragione la ‘ragione relazionale’.» (Donati 2008, p.19) «… il multiculturalismo, laddove riduce la sfera pubblico-politica a neutralità, sia conoscitiva sia morale, verso le differenze (ciò che è proprio dell’ideologia liberale della laicità, pur se con differenze fra le diverse versioni del liberalismo), non promuove alcuna composizione fra le diverse istanze che possa portare alla costruzione di un qualche bene comune: in breve, rinuncia a perseguire un bene prodotto e fruito insieme, in cui tutti i soggetti multiculturali siano coinvolti, il che significa che impone uno stato comune di cose che rimane implicito e latente. […] Come ha osservato Amartya Sen (2006), a distanza di tre decadi la dottrina politica del multiculturalismo è entrata in crisi quasi ovunque. Appare ormai evidente che, concepito come ideologia della differenza, il multiculturalismo non è una risposta adeguata né sul piano etico né sul piano politico al problema della convivenza fra culture diverse. Tuttavia, se l’ideologia è facilmente criticabile, l’immaginario collettivo lo è assai meno, anche perché è sostenuto dai mass media ed è culturalmente omogeneo ai processi comunicativi propri della globalizzazione. È indubbio, infatti, che le società liberali aperte dell’Occidente non sono in grado di curare le cause che hanno trasformato il multiculturalismo nell’immaginario collettivo per cui ‘tutte le differenze sono uguali’, nel senso che devono avere le stesse opportunità di realizzarsi. Le cause sociologiche che hanno generato il multiculturalismo risiedono nella desertificazione che le società liberali (a regime lib-lab) hanno prodotto nel tessuto connettivo della società, per il fatto che hanno tenacemente perseguito l’obiettivo di immunizzare gli individui dalle relazioni sociali (più precisamente dalle dimensioni di appartenenza e di legame delle relazioni sociali). […] La mia personale opinione è che in fondo, come dottrina politica, il multiculturalismo possa essere letto quale nuova formula di quella che in sociologia è nota come «soluzione hobbesiana al problema dell’ordine sociale» (Parsons, 1968, pp. 121-27), che ora viene applicata ai sistemi culturali (le religioni sono considerate tali) anziché agli individui. Il principio di inclusione politica del liberalismo individualistico accorda i diritti di cittadinanza alle minoranze sulla base di un pluralismo che priva la sfera pubblica di una qualificazione etica. Pertanto è incapace di sviluppare una cittadinanza «profonda» (Clarke, 1996), costruita su un’ampia partecipazione dei cittadini come attori morali che forgiano una sfera pubblica, tale da essere veramente capace di riconoscere un autentico pluralismo sociale, cioè un pluralismo che sia espressione delle libertà positive di incontro interumano (Donati, 2000). A mio avviso, il limite intrinseco del multiculturalismo, sotto ogni punto di vista (epistemologico, morale e politico), la mancanza di relazionalità fra le culture che esso istituzionalizza. È semplicemente cieco (in senso affettivo, cognitivo e morale) di fronte alla cultura come fatto relazionale. […] Il tentativo, così formulato, non può che essere destinato al fallimento, perché la sfera pubblica viene sempre più svuotata di relazioni significative fra i cittadini.» (Donati 2008, p.25- 32 ) Tre passaggi in sintesi parziale 1. «… la libertà personale, per essere assicurata, rimanda al riconoscimento del principio di uguaglianza morale e giuridica delle persone come esseri umani e dei relativi diritti di cittadinanza. La dottrina del multiculturalismo non risolve questi due problemi, perché considera la persona come imbrigliata (embodied e embedded) nella sua cultura di appartenenza e non persegue alcun mondo comune, ma solo il rispetto e la tolleranza ‘a distanza’ fra le culture. Entrambe queste carenze rimandano al deficit di relazionalità proprio del multiculturalismo. In quale direzione cercare le alternative al multiculturalismo?» (Donati 2008, p.50-51) 2. «Una possibile via di uscita ai fallimenti del multiculturalismo è oggi intravista nella interculturalità. Con questo termine si intende, generalmente, una forma di convivenza che si basa sul dialogo e sul confronto aperto fra culture diverse, che rinunciano sia alla dominanza dell’una sull’altra (assimilazione o colonizzazione) sia alla separazione senza comunicazione reciproca (balcanizzazione). Si invoca la comunicazione interculturale come mediazione fra universi culturali differenti.» (Donati 2008, p.55)

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3. »… l’ipotesi interculturale può essere una strada utile e significativa se riesce a risolvere in modo soddisfacente il deficit di riflessività relazionale presente nel multiculturalismo. Per colmare questo vuoto, la soluzione interculturale deve ricorrere a un paradigma di comprensione del fenomeno culturale che possa farci vedere che cosa c’è di comune fra le singole culture.» (Donati 2008, p.60-61) «La laicità guidata da una ‘ragione relazionale’ come alternativa al multiculturalismo e come nuovo ‘mondo comune’.» (Donati 2008, p.68) «Lo Stato laico non può fare a meno di presupposti di valore, che non tocca a lui proporre, ma che recepisce dai soggetti della società civile portatori di cultura.» (Donati 2008, p.57) Due note. La prima formale-linguistica: il termine valori è qui inteso in senso trascendentale, weberiano; valori in senso kantiano, con riferimento alla natura formale degli imperativi categorici; con riferimento alla natura delle norme base di giustizia ed equità così come sono ragionata da John Rawls nei termini del liberalesimo politico). La seconda sociologica e di costume: la connessione e lo scambio interculturale è già operativo nei fatti concreti del vivere sociale, non tanto negli eventi programmati di incontri tra diversi gruppi comunitari, quanto nella circolazione e nello scambio capillare di stili di vita e modalità di relazione tra persone, per definizione astratta, appartenenti a diversi gruppi culturali. «… lo Stato laico deve adottare «un nucleo duro di valori, di valori cioè irrinunciabili che, in quanto tali, valgono per tutti gli uomini, quale che sia la loro appartenenza a una specifica cultura (libertà, dignità umana, rispetto della vita, minimo vitale)» (Zamagni). «… si possono distinguere i valori delle differenti culture secondo tre criteri di giudizio: la tolleranza, il rispetto, la condivisione.» (Donati 2008, p.57) «La prospettiva interculturale può essere un’alternativa al multiculturalismo se riesce ad adottare un punto di vista riflessivo che dia una risposta laica al pluralismo culturale senza porre tutte le culture sullo stesso piano, ma definendo un terreno comune, un minimo comune denominatore di regole e di valori.» (Donati 2008,p. 73) «Non è più la compatibilità tra culture diverse a essere in questione, ma la capacità degli individui di trasformare una serie di situazioni e di episodi vissuti in una storia e un progetto personali. (Touraine, o.c. p. 125). I diritti culturali di ognuno, individuo o collettività, devono essere riconosciuti perché bisogna proteggere tutte le forme e tutti i percorsi di modernizzazione. Ma ognuno di noi deve lottare in se stesso e all’interno della propria società contro ciò che è contrario ai princìpi generali della modernità. Bisogna scoprire, negli stranieri, forme nuove di modernizzazione, e dunque la presenza di certi elementi di modernità, ma bisogna anche che loro stessi siano in grado di giudicare criticamente la propria esperienza storica e le proprie pratiche culturali. Non si tratta affatto di un puro rapporto di reciprocità, di un mutuo riconoscimento, ma della capacità di esprimere un giudizio su di sé e sull’altro dal punto di vista di una modernità rispetto alla quale alcuni risultano essere più prossimi di altri, ma che non appartiene a nessuno e non si confonde con nessuna particolare realtà storica. Poiché la modernità si definisce tramite princìpi di portata universale, il pensiero razionale e i diritti dell’individuo, poiché ogni modernizzazione introduce l’idea della particolarità se non della singolarità di ogni società in via di trasformazione e poiché le due nozioni non possono essere né confuse né separate, è impossibile definire una società puramente universalista o, al contrario, parlarne in base alla sua pura singolarità. È più utile precisare la complementarità delle due nozioni dopo aver eliminato le due soluzioni estreme, quella liberista e quella comunitarista che fanno riferimento, rispettivamente, solo all’una o all’altra dimensione dell’analisi… Non si può parlare di diritti culturali, lo ripeto, se non quando i comportamenti culturali e sociali chiedono di essere riconosciuti in nome di princìpi universali, ovvero in nome del diritto di ognuno di praticare la propria cultura, lingua, religione, rapporti di parentela, costumi alimentari ecc. Ed è solo a partire dal momento in cui l’opposizione nei confronti di una cultura centrale definita come universalista emana da culture minoritarie (o legate a uno statuto di inferiorità), condannate da coloro che si identificano con l’universalismo, che il conflitto diventa inevitabile.» (Touraine, o.c. p.213, 215) Per proseguire il dibattito in forma di bilancio e di proposta: Baraldi Claudio, Ferrari Giuseppe (a cura di) 2008 Il dialogo tra le culture. Diversità e conflitti come risorse di pace, Donzelli, Roma

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In forma di verifica degli esiti del multiculturalismo – interculturalismo all’interno di culture particolarmente sensibili al tema della propria identità, della sua evoluzione e dell’urgenza della sua difesa: ebraismo: Yehoshua B. Abraham 2008 Il labirinto dell’identità. Scritti politici Einaudi, Torino 2009; islamismo: Courbage Youssef, Todd Emmanuel 2007 L’incontro delle civiltà Marco Tropea Editore, Milano 2009 5.3. una impostazione di teoria politica globale e di base: un modello. John Rawls. Come bilancio e progetto, tratto da uno degli ultimi scritti di Rawls, ispirato all’obiettivo di avviare una revisione dell’opera Liberalesimo politico. In una lettera del 1998 Rawls afferma di considerare quest’articolo come “la migliore esposizione delle sue idee sulla ragione pubblica e sul liberalismo politico, soprattutto rispetto alla compatibilità tra ragione pubblica e credenze religiose” Rawls John 2005 Liberalismo politico. Nuova edizione ampliata, Einaudi, Torino 2012, 403) «L’idea di ragione pubblica appartiene, nella mia interpretazione, alla concezione di una società costituzionale democratica bene ordinata. La forma e il contenuto di tale ragione — in che modo i cittadini la intendano e come essa interpreti le loro relazioni politiche — sono elementi della stessa idea di democrazia. Questo perché una caratteristica di base di ogni società democratica è il fatto del pluralismo: che in una tale società esista una molteplicità di dottrine comprensive ragionevoli tra loro in conflitto (siano esse religiose, filosofiche o morali) è un risultato naturale della sua cultura di libere istituzioni. I cittadini comprendono che è impossibile raggiungere un accordo, o quanto meno aprire la strada a una reciproca intesa, sulla base delle inconciliabili dottrine comprensive che essi difendono. Ciò che dunque hanno bisogno di fare è esaminare quali tipi di ragioni possano ragionevolmente offrirsi l’un l’altro quando sono in gioco questioni politiche fondamentali. La mia tesi è che nella ragione pubblica le dottrine comprensive della verità e del giusto siano sostituite da un’idea del politicamente ragionevole che possa essere rivolta ai cittadini in quanto cittadini. Un aspetto centrale dell’idea di ragione pubblica è che essa non critica né attacca nessuna dottrina comprensiva, sia essa religiosa o di altro tipo, a meno che tale dottrina non sia incompatibile con gli elementi essenziali della ragione pubblica e delle società democratiche. La condizione di base imposta alle dottrine ragionevoli è che accettino le forme di governo a democrazia costituzionale e l’idea di diritto legittimo che le accompagna. Per quanto le società democratiche siano l’una diversa dall’altra riguardo alle particolari dottrine che all’interno di ciascuna godono di autorevolezza o sono attive — si pensi alle democrazie dell’Europa occidentale, agli Stati Uniti, a Israele o all’India —, trovare un’idea appropriata di ragione pubblica è un compito che tutte devono affrontare. § 1. L’idea di ragione pubblica. 1. L’idea di ragione pubblica definisce al livello più profondo i valori morali e politici di base che in una società democratico-costituzionale devono dare forma al rapporto tra potere politico e cittadini, e tra un cittadino e l’altro. Si occupa, in breve, del modo in cui devono essere intesi i rapporti politici.» (Rawls John 2005 Liberalismo politico. Nuova edizione ampliata, Einaudi, Torino 2012, 406-407). I passaggi essenziali della teoria per la costruzione del modello. 5.3.1. il pluralismo di dottrine comprensive (o complessive; religiose, politiche, di circoli…; comprensive in quanto rivendicanti il diritto ad esprimere il proprio pensiero e le proprie tesi su ogni aspetto della realtà) come: 1. espressione del libero pensiero in libere istituzioni; 2. nessuna di loro può pretendere di diventare universale e unica; 3.non è possibile una conciliazione tra di loro. 5.3.2. un accordo sul concetto di giustizia definito in una ipotetica situazione originaria, intesa come una procedura, caratterizzata da: 1. velo di ignoranza per togliere l’interferenza di posizioni di privilegio; 2. uso della ragione; 3. giustizia come equità definita materialmente da beni primari, formalmente dai due principi: di uguaglianza, di differenza. 5.3.3. la ragione pubblica è definita da un atteggiamento di ragionevolezza che porta le dottrine comprensive ad aderire ad essa attraverso un consenso per intersezione, dedotto dalle sue posizione; quindi le sue regole vengono sostenute con convinzione e non solo per obbligo.

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5.3.4. la forza della politica si fonda sulla sua laicità: non definisce il bene, che è di competenza della persona e delle associazioni, ma sostiene e regola la sua libera formulazione attraverso le regole formali della giustizia politica. 5.3.5. In conclusione: il principio della differenza nella gestione del tema identità e multiculturalismo. La tesi: l’accettazione (e gestione) del dato storico di una società pluralistica è accettazione (e sostegno) della libertà di identità (del diritto alla “metamorfosi”, al “diritto di uscita”). 5.3.5.1. La constatazione del moltiplicarsi di movimenti e gruppi diversi e spesso opposti nel sociale, l’affermazione del valore delle differenze (non disuguaglianze), la politica attribuita alla ragionevolezza e al conseguente contratto sociale espresso in termini di consenso per intersezione permettono di impostare il problema attuale del multiculturalismo in uscita da visioni o proposte identitarie di tipo essenzialistico, da “conventicole” (cfr. Locke, Lettera sulla tolleranza) segnate dall’intolleranza e dalla contrapposizione. Le impostazioni identitarie di tipo comunitaristico sembrano esaltare, difendere e salvare (imporre) visioni e forme culturali associative altrimenti destinate alla scomparsa, in realtà finiscono per negare il potenziale civile universalistico che posseggono. Infatti, l’opposizione tra esclusioni monoculturali e fanatismi multiculturalistici si traduce nella costruzione di microunità sociali rigidamente monoculturali, comunità chiuse e rivendicanti per sé diritti senza doveri in nome di una propria presunta, in realtà inventata e enfatizzata ad hoc, specificità culturale; ne deriva l’assoluta intolleranza/ignoranza nei confronti della società presente e dell’uomo o meglio dell’umanità. L’indicazione che deriva dalle riflessioni di Rawls (e dai due principi della giustizia come equità sociale e politica) formula il problema in termini di apertura e non di rinserramento essenzialistico: come coniugare differenze e universalità delle molte dottrine (che non a caso si distinguono / oppongono ma si presentano tutte come comprensive, depositarie di visioni globali / totali). Un’osservazione e una posizione, sul tema, espresse da Patrick Savidan. «La questione che bisogna quindi porsi è la seguente: come riconoscere le differenze senza ridursi a una dinamica che porterebbe alla ri-essenzializzazione di queste ultime in termini di esclusione (dell’altro)? In altre parole, si tratta di definire prima di tutto quale statuto conferire alla particolarità etnoculturale e di determinare se questo statuto giustifica la possibilità di considerare tale particolarità da un punto di vista istituzionale e politico, sapendo che questo riconoscimento — i teorici liberali del multiculturalismo sono concordi su questo punto — non può comprometterne l’universalità (che si esprime in particolare nelle diverse figure della solidarietà e dell’equità). I mutamenti che intervengono nel modo in cui gli individui tendono a concepire la loro identità sollevano una questione delicata, che è alla base di tutte le polemiche: il riconoscimento, e le politiche dell’identità che cercano di dargli corpo, sono in grado di non contraddire l’ideale moderno di uguaglianza morale e giuridica degli uomini e presentarsi come un modo (indispensabile?) per realizzare meglio questo ideale? In base alla tipologia proposta da Mesure e Renaut e nella prospettiva sostenuta da Michel Wieviorka, ciò ci condurrebbe a quello che può essere considerato un nuovo modello, un modello contemporaneo che si basa su un’esperienza dell’altro più complessa, in quanto si deve tenere conto delle differenze senza provocare delle disuguaglianze, e questo per resistere a una tendenza forte delle società democratiche «illuminate», nelle quali l’affermazione dell’universalità tende sempre a farsi a scapito delle differenze (attraverso un loro svilimento o, più violentemente, attraverso la loro pura e semplice eliminazione). In altre parole, «si tratta di inserire la differenza al centro dell’identità», di «restituire all’uguale la sua differenza», sapendo che è la ricerca stessa dell’uguaglianza, insita nella dinamica democratica, che trascende se stessa in una ricerca del riconoscimento delle differenze. L’affermazione delle differenze non sarebbe quindi contraria ai principi sui quali sono costruite le società democratiche, ma deriverebbe dalla dinamica dell’uguaglianza e si presenterebbe sotto la forma inedita di un’uguaglianza nella differenza.» Savidan Patrick 2009 Il multiculturalismo, il Mulino, Bologna 2010 p. 31-32

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5.3.5.2. la rilevanza democratica del multiculturalismo sta nel “diritto di uscita”. «Questa tesi, che permette di riaffermare il valore sociale della tolleranza, contribuisce a fondare l’idea di un primato del concetto di ciò che è giusto sulle rappresentazioni concorrenti dell’idea di ciò che è bene in una «società ben ordinata». Questo «diritto di uscita» è assolutamente determinante e costituisce uno strumento importante di pressione sulle minoranze illiberali. Esso contribuisce in ogni caso a definire la base a partire dalla quale risolvere un problema che l’opposizione fra diritti soggettivi e diritti collettivi aveva la tendenza a esasperare. […] Quando non sono irrigidite dai conflitti e dal disprezzo sociale, le culture non sono quelle potenze deificate, invincibili, impermeabili e refrattaria a qualunque valutazione normativa.» (Savidan 2010, 97,99) 5.3.5.3. Multiculturalismo luogo di riflessione e rifondazione dei termini della democrazia e del diritto. «Il multiculturalismo in quanto problematica illustra molto bene la necessità di pensare i principi in un rapporto constante con i contesti della loro scoperta e della loro applicazione, John Rawls, con il metodo dell’«equilibrio riflessivo» ha indicato un percorso possibile.» (Savidan 2010, 106) 6. globalizzazione e multiculturalismo / interculturalismo: bilanci, problemi, proposte o come declinare l’identità in un’epoca di globalizzazione. - Perché ha ambientato il film a Barcellona e non a Città del Messico, sua città di origine? E cosa l’ha spinta a raccontare il mondo degli immigrati? «Sono molti anni che osservo il fenomeno delle grandi migrazioni sociali. Barcellona è solamente uno dei simboli di questo mostruoso processo di globalizzazione, che si è manifestato attraverso grandi spostamenti di masse. A Città del Messico non esiste questo problema dell’immigrazione multirazziale come nelle grandi città europee, Parigi, Roma, Londra o Barcellona. In queste città le comunità di cinesi, africani e sudamericani vivono le une accanto alle altre, hanno gli stessi problemi di sopravvivenza, sono invisibili a quella parte della città che vive nella legalità, tuttavia non si incontrano e non si integrano. Sono cellule sociali autonome, che vivono realtà parallele, delle quali noi veniamo a conoscenza soprattutto attraverso i media. Tutto ciò è una testimonianza chiara del fatto che il fenomeno della globalizzazione è una pura illusione. Possiamo globalizzare tutto, non l’essere umano». - È messicano ma vive a Los Angeles. Si considera un immigrato? «Certamente. Con Alfonso Cuaròn scherziamo dicendo: siamo degli immigrati di lusso, ma pur sempre immigrati. Una condizione che amo molto perché, rispetto a quelli che hanno sempre vissuto nel proprio Paese, la capacità di osservare di chi è straniero si amplifica, i punti di vista si moltiplicano. È una condizione di continua scoperta e confronto». Francesca Lombardo intervista a Alejandro Gonzàlez Iñàrritu (in Il Venerdì di Repubblica 4 febbraio 2011 122,123). Il problema. «La diversità etnoculturale è storicamente un elemento fondamentale delle società umane; non si può quindi parlare di una specificità delle società moderne. L’aspetto nuovo consiste piuttosto nel fatto che si possa affermare, nel quadro di una politica del riconoscimento, l’idea di una necessaria assunzione da parte dello stato della diversità culturale che caratterizza la sua popolazione. Tuttavia quest’idea non è un dato di fatto comunemente accettato, e ogni progresso realizzato su questo fronte ha spesso dovuto misurarsi con forti resistenze. Tale reazione non deve però stupire, poiché il multiculturalismo ambisce a promuovere un tipo di integrazione politica e sociale che sotto molti aspetti va contro il modello sul quale sono stati costruiti gli stati-nazione. Il governo democratico moderno si è infatti sviluppato assumendo per lo più una forma nazionale. L’istituzione dell’autonomia politica ha richiesto non solo la costituzione di un corpo politico organizzato sulla base di una volontà generale e comune che permettesse di ridefinire i termini della

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cittadinanza — presupponendo che l’obbedienza alla legge significasse emancipazione — ma ha anche incoraggiato l’affermazione di un principio di omogeneità sociale e politica. L’unità del corpo politico e, fino a un certo punto, quella del corpo sociale si sono quindi imposte come condizioni per una possibile cittadinanza democratica. Assumendo le concezioni e le pratiche contemporanee della cittadinanza, il modello multiculturalista di integrazione rappresenta un vero e proprio cambiamento di paradigma, di cui bisogna valutare il significato, la portata, il valore e i rischi. Il multiculturalismo, sostenuto da una rivalutazione delle differenze culturali, si è trovato in perfetta sintonia — in un mondo globalizzato dove intervengono anche processi di integrazione regionale — con l’esigenza di fornire una nuova descrizione del legame fra libertà individuale e cultura di appartenenza. L’obiettivo di questa evoluzione è offrire a ogni individuo la possibilità di compiere le proprie scelte di vita. Scelte che hanno un significato perché inserite nel determinato contesto culturale al quale si è legati. Il mondo moderno ci aveva insegnato a indossare i panni di qualcuno che non siamo: quelli dell’altro sesso o dell’altro in senso culturale. Questo atteggiamento era a suo tempo indispensabile per qualificare l’altro come uguale e di fatto consisteva in un atto di assimilazione volto a rendere uguali. Il multiculturalismo prospetta un’altra concezione del «vivere insieme». L’atto del rendere uguale attraverso l’assimilazione è solo una condizione preliminare, una tappa verso ciò che può dare al processo verso l’uguaglianza il suo vero significato. Una delle sfide del multiculturalismo è appunto quella di definire i dispositivi per restituire all’uguale la sua differenza culturale e questo, paradossalmente, proprio allo scopo di andare ancora più lontano nell’instaurazione dell’uguaglianza e per fare in modo che l’uguaglianza non nasconda più la negazione delle reali differenze.» Savidan Patrick 2009 Il multiculturalismo, il Mulino, Bologna 2010, 7-8) 6.1. I molti aspetti (per richiamare la plurivalenza della globalizzazione) «La globalizzazione abbraccia molti aspetti: il flusso internazionale di idee e conoscenze, la condivisione delle culture, una società civile globale e il movimento ambientale. Questo libro, tuttavia, si limita essenzialmente alla globalizzazione economica quella - cioè - che favorisce l’integrazione dei paesi attraverso una circolazione più capillare di beni, servizi, capitali e manodopera. La grande speranza della globalizzazione è quella di migliorare il tenore di vita in tutto il mondo garantendo ai paesi poveri l’accesso ai mercati internazionali affinché possano vendere i loro prodotti, consentire gli investimenti esteri che porteranno nuove merci a prezzi più bassi e aprire le frontiere affinché i cittadini possano andare all’estero per studiare, lavorare, spedire a casa parte dei loro guadagni per aiutare le famiglie e fondare nuove imprese. A mio avviso, la globalizzazione ha le potenzialità per recare enormi vantaggi sia nei paesi in via di sviluppo sia in quelli industrializzati. Questo libro dimostrerà che il problema non riguarda tanto la globalizzazione in sé quanto il modo in cui e stata gestita. Il motore della globalizzazione è l’economia, specie attraverso la riduzione dei costi delle comunicazioni e dei trasporti, ma è la politica che l’ha plasmata. Le regole del gioco sono state fissate dai grandi paesi industrializzati in funzione dei loro interessi particolari e non c’è da stupirsi che abbiano badato al loro tornaconto. Non hanno cercato di creare modalità eque e condivise, e men che meno regole che favorissero la diffusione del benessere nei paesi più poveri del mondo.» (Joseph E. Stiglitz 2006 La globalizzazione che funziona, Einaudi, Torino 2006, p.4) 6.1.1. due volti della globalizzazione. «Nei primi anni Novanta, la globalizzazione fu salutata con euforia. I flussi di capitali verso i paesi in via di sviluppo erano sestuplicati in sei anni, dal 1991 al 1996. La costituzione, nel 1995, dell’Omc — a cui si lavorava da cinquant’anni — si proponeva di introdurre un principio di legalità nel commercio internazionale. Tutti dovevano trarne beneficio, sia nei paesi in via di sviluppo sia nel mondo industrializzato. La globalizzazione doveva garantire a tutti una prosperità senza precedenti. Nessuno stupore, quindi, che la prima grande protesta moderna contro la globalizzazione —

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avvenuta a Seattle nel dicembre i 1999 in occasione di quello che avrebbe dovuto essere l’inizio di una nuova tornata di negoziati commerciali foriera di un’ulteriore liberalizzazione — abbia lasciato di stucco i sostenitori dei mercati aperti. La globalizzazione era riuscita nell’intento di unire le persone del mondo, ma proprio contro la globalizzazione. Gli operai delle fabbriche americane hanno visto mettere in pericolo i loro posti di lavoro dalla concorrenza cinese. Il reddito agricolo nei paesi in via di sviluppo è stato compromesso dal granturco e dalle altre colture fortemente sovvenzionate provenienti dagli Stati Uniti. In nome della globalizzazione, i cittadini europei hanno assistito a un progressivo indebolimento delle tutele dei lavoratori, per le quali tanto avevano combattuto. Gli attivisti anti-Aids hanno visto i nuovi accordi commerciali aumentare il prezzo dei medicinali a livelli insostenibili nella maggior parte dei paesi del mondo. Gli ambientalisti hanno capito che la globalizzazione minacciava la loro lotta decennale a tutela dell’ambiente. Tutte queste voci fuori dal coro non hanno sposato la tesi che, almeno dal punto di vista economico, la globalizzazione avrebbe portato maggiore benessere a tutti. […] In breve, la globalizzazione può aver aiutato alcuni paesi – il Pil, cioè il totale dei beni e dei servizi prodotti può essere aumentato -, ma non ha fatto altrettanto per le persone, neppure dove i risultati dell’economia sono stati migliori che altrove. Il timore era che la globalizzazione possa creare paesi ricchi con gente povera. (Stiglitz 2006, p.7, 8) 6.1.2. Riformare la globalizzazione «Le cose da fare sono molte. Sei aree in cui la comunità internazionale ha preso atto che non tutto funziona illustrano sia i progressi compiuti sia la strada ancora da percorrere 1. La diffusione della povertà 2. Gli aiuti internazionali e la cancellazione del debito 3. L’aspirazione a un commercio equo 4. I limiti della liberalizzazione 5. La tutela dell’ambiente 6. Un sistema di governo globale pieno di difetti. (Stiglitz 2006, pp. 13-19) Su quest’ultimo tema: «Lo Stato-nazione, che per centocinquant’anni è stato al centro del potere politico (e in larga parte) economico si trova oggi mutilato, da una parte dalle forze dell’economia globale e dall’altra dalle esigenze politiche di devoluzione dei poteri. La globalizzazione — vale a dire la maggiore integrazione dei paesi del mondo — ha creato l’esigenza di un’azione collettiva da parte di popoli e paesi per risolvere i problemi comuni. Ci sono troppe questioni commercio, circolazione di capitali, ambiente — che possono essere affrontate solo a livello globale. Ma se da una parte lo Stato-nazione è indebolito, mancano ancora a livello internazionale degli organismi in grado di affrontare concretamente i problemi creati dalla globalizzazione. Di fatto, la globalizzazione economica si è sviluppata più rapidamente di quella politica. Abbiamo un sistema caotico e scoordinato di governance globale senza governo globale che si riduce a una serie di istituzioni e accordi che trattano di determinati problemi, dal riscaldamento del pianeta al commercio internazionale, passando per i flussi di capitale.» (Stiglitz 2006, p. 21) Joseph E. Stiglitz 2006 La globalizzazione che funziona, Einaudi, Torino 2006 6.2. “un’altra globalizzazione”: la sfida delle migrazioni transnazionali «Sotto la coltre dei grandi processi strutturali sospinti da attori eminenti, che vanno dalle organizzazioni economiche internazionali alle imprese multinazionali, dai grandi operatori finanziari ai governi dei paesi più sviluppati, stanno dunque prendendo forma fenomeni ufficialmente inattesi e indesiderati, e tuttavia in crescita, che possono essere definiti come «globalizzazione dal basso»: la globalizzazione delle persone comuni, delle famiglie e delle loro reti di relazione, che reagiscono ad una localizzazione imposta cercando altrove un futuro migliore. Una diffusa vulgata che contrappone il radicamento forzato dei poveri alla mobilità globale dei privilegiati del pianeta trova qui un’importante smentita: malgrado le disuguaglianze nel diritto alla mobilità e le barriere erette dai paesi sviluppati, un numero sempre maggiore di abitanti del mondo (anche se non i più poveri in assoluto) si sposta attraverso i confini nazionali, scombussolando le

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corrispondenze tra territorio, popolazione e cittadinanza [Sassen 2008]. [6.2.1.] Certo, lo schema seducente dell’emigrazione come contestazione del nuovo ordine mondiale, come risposta dei diseredati alla globalizzazione prepotente degli interessi dominanti, è troppo semplice per poter essere interamente accettabile. I migranti non si limitano a rompere le catene della fissità geografica per cercare scampo nel mondo ricco, trasformandosi in «rifugiati economici». Arrivano anche perché sono richiesti dalle economie sviluppate, soprattutto per colmare i vuoti che si sono aperti negli ambiti più sacrificati di un sistema occupazionale molto segmentato e stratificato, ma in ogni caso incapace di abolire quelli che possono essere definiti i lavori delle cinque «P»: precari, pesanti, pericolosi, poco pagati, penalizzati socialmente [Ambrosini 2001; 2005a]. I mercati del lavoro, dunque, assorbono gli immigrati più facilmente dei sistemi politici. A volte, proprio il loro arrivo consente di trasformare esigenze diffuse in domanda di lavoro economicamente rilevante, come nel caso da manuale dell’assistenza delle persone anziane a domicilio. I loro legami con chi è rimasto alimentano poi altri flussi economici, intercettati e gestiti per una cospicua parte da istituzioni e operatori inseriti nei circuiti della globalizzazione dall’alto: basti pensare al gigantesco fenomeno delle rimesse, che consentono altresì ai governi di molti paesi di provenienza di rimettere in equilibrio la bilancia dei pagamenti e di chiedere prestiti ai grandi investitori mondiali, come il Fondo monetario internazionale. [6.2.2.] Contrapporre globalizzazione dal basso e globalizzazione dall’alto è quindi affascinante, ma non del tutto veritiero. I fenomeni sono molto più interconnessi e ambivalenti. Anche per questa ragione, non riguardano solo i migranti, ma l’assetto complessivo della società in cui viviamo. La globalizzazione dal basso non solo cambia la composizione demografica della popolazione, delle forze di lavoro come degli alunni delle scuole, ma ci obbliga a ridefinire il nostro sguardo, uscendo da quel “nazionalismo metodologico” [Beck 2003] che sovrappone implicitamente lo Stato nazionale alla società, “naturalizzando” confini, appartenenze e legami, plasmando le stesse scienze sociali, che definiscono la società con concetti legati allo Stato nazionale, e sollecitando a pensare l’integrazione come identificazione con esso. Lo Stato nazionale viene considerato così l’ovvio punto di partenza sia delle analisi, sia delle aspettative riferite ai rapporti tra migranti e cittadini «nazionali». Da questo punto di vista, le migrazioni internazionali appaiono come un’anomalia, un’eccezione problematica alla regola del radicamento degli abitanti nella terra a cui appartengono, ossia al loro Stato nazione [Wimmer e Glick Schiller 2003, 585]. A maggior ragione, i migranti che intrattengono legami transnazionali e identificazioni simboliche con i luoghi di provenienza rischiano di risultare sospetti e minacciosi, sotto l’accusa di “non volersi integrare” che sottintende l’imperativo di allinearsi con lo Stato nazionale che li ospita, recidendo i vincoli con la madrepatria. [6.2.3.] I migranti come attori. Si impone «una riflessione critica su questo schema cognitivo, approfondendo le implicazioni della globalizzazione dal basso a partire da un punto di vista che considera i migranti come attori, e non semplicemente come vittime dei processi di globalizzazione, ed esplorando la dimensione dei legami che travalicano le frontiere politiche, coinvolgono i non migranti, influenzano le società di provenienza, contribuiscono a definire e riconfigurare l’identità dei migranti stessi.» (Ambrosini, Maurizio (2008) Un’altra globalizzazione. La sfida delle migrazioni transnazionali, il Mulino, Bologna p. 8-9) 6.2.3.1. per il migrante: «Considerare gli immigrati come attori significa allora anche cercare di comprendere come riorganizzino il loro mondo sociale una volta insediati: come dunque la globalizzazione dal basso si prolunghi nella vita quotidiana, dando luogo a nuove esperienze culturali e costruzioni identitarie. Il migrante è ben più che un homo oeconomicus; quando il suo soggiorno si prolunga, sorge in lui il bisogno di ritrovare spazi di socialità e di produzione di significati, ridando senso al mondo in cui si ritrova.» (Ambrosini o.c. p. 45) 6.2.3.2. per il paese di provenienza: «La sua vita sociale, inoltre, non si trasferisce interamente nel paese di insediamento. Con intensità e forme diverse, molti migranti continuano a intrattenere rapporti con chi è rimasto nei luoghi di provenienza. …contrariamente alle preoccupazioni nazionaliste, i migranti che alimentano relazioni e attività che li connettono con i paesi di origine

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sono solitamente anche i meglio integrati nelle società riceventi. (ivi p. 10-11) … il transnazionalismo può essere definito come “il processo mediante il quale i migranti costruiscono campi sociali che legano insieme il paese d’origine e quello di insediamento” [Glick Schiller, Basch e Blanc-Szanton 1992]. L’attenzione rivolta alla partecipazione dei migranti ad attività collocate in paesi diversi e inquadrate come una forma controcorrente di globalizzazione ha indotto le medesime studiose, e vari altri al loro seguito, a teorizzare l’avvento di una nuova figura sociale, quella del «trasmigrante», caratterizzata dalla partecipazione simultanea ad entrambi i poli del movimento migratorio e dal frequente pendolarismo tra di essi. Ragionare in termini di transnazionalismo significa dunque superare, o almeno fluidificare, le tradizionali categorie di «emigrante» e «immigrato», e cessare di concepire la migrazione come un processo che ha un luogo d’origine e un luogo di destinazione. In questa visione, i transmigranti sono coloro che costruiscono nuovi rapporti tra le due sponde delle migrazioni, mantenendo attraverso i confini un ampio arco di relazioni sociali.» (Ambrosini p. 45) 6.2.3.3. per il paese che “ospita”. L’Europa, e in particolare l’Italia, sta vivendo storicamente il passaggio verso identità di tipo multiculturale. È una strada tutta aperta. «Dopo la seconda guerra mondiale e la presa di coscienza degli orrori del nazismo … , secondo Taguieff [1994; 1999], il razzismo ha assunto una nuova veste, prendendo a prestito una serie di argomenti dell’antirazzismo. Diventa infatti centrale l’idea della differenza culturale, e allo screditato termine «razza» si sostituisce quello di «etnia» o anche di «cultura». Taguieff parla dunque di «razzismo differenzialista». In questa chiave, le popolazioni immigrate insediate nelle società occidentali vengono così paventate soprattutto come una minaccia per l’identità culturale delle maggioranze autoctone. Come nota Beck, «ci si appiglia strategicamente ad un ipotetico essenzialismo della propria appartenenza etnica per ristabilire confini che stanno svanendo e mescolandosi, tra dentro e fuori, tra noi e loro» [Beck 2003, 11]. (Ambrosini o.c. p. 185) 6.3. le identità nella globalizzazione (per tornare sul tema) 6.3.1. globalizzazione non omologazione? Gesti e consuetudini quotidiane portano all’affermazione «siamo tutti “global players”» (utilizzo della posta elettronica, navigare in Internet aderire alle proteste globali dei consumatori, prendere posizioni su fatti mondiali, utilizzare cucine diversificate ….) «In questi contesti la vita delle persone non è né disorganizzata né priva di senso. Al contrario: esse sono parte di un’intensa struttura sociale da cui nascono attività connesse le una alle altre, che includono l’intero globo. Abitano diverse sfere della vita sociale, che si incrociano nel loro momentaneo luogo di sosta, senza danneggiarsi a vicenda. […] Ciò che dal punto di vista dell’egemonia nazionale appare come declino e dissoluzione, nella prospettiva della società mondiale si rivela un cambio del sistema di riferimento: via dalle rappresentazioni di blocchi culturali integrati, monolitici, territorialmente vincolati (il “popolo”), verso rappresentazioni di una “cultura delle culture” come sistema di riferimento globale per una pluralità non amministrabile…» (Beck Urlich 2003 La società cosmopolita, il Mulino, Bologna 2003 p.111). Globalizzazione non è omologazione: «con l’affermarsi della consapevolezza della società mondiale non avviene un’unificazione sul piano linguistico, ma le lingue si moltiplicano. Il mondo unico conosce e riconosce più lingue che mai. […] Qui diventa chiaro che il cuore babilonese della società mondiale non batte nella tendenza all’uniformazione bensì al guazzabuglio delle identità» (Beck Urlich 2003 La società cosmopolita, il Mulino, Bologna 2003 p.117) 6.3.2. complessità – moltiplicarsi delle possibilità. «Inizio degli anni Ottanta. La costa dall’alto digradava a larghe terrazze sopra un mare che non si stancava mai di infrangersi contro l’indifferente barriera di pietra e si potevano vedere due o tre ragazzi che giocavano con un pallone sulla terrazza più bassa che si avventurava contro il mare dal fianco della roccia. Passò qualche minuto e arrivarono altri ragazzi con un altro pallone. Si unirono ai primi e giocarono insieme. Avevano due palloni. I ragazzi saranno stati in tutto sette o otto. Giocavano tutti insieme, ma con due palloni. Un unico gruppo. I tiri si incrociavano, si ignoravano,

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si collegavano, si sfioravano paralleli, opposti, laterali, centrali. Il rumore del mare sembrava mesto e uguale fino a non farsi più distinguere di fronte alla inesauribile vivacità che quei ragazzi comunicavano. Poco tempo ancora e sarebbero arrivati altri ragazzi con un altro pallone, si sarebbero uniti a tutti gli altri e avrebbero giocato tutti insieme con tre palloni. C’era un ordine che si produceva da sé; c’erano discussioni che ogni tiro successivo rendeva inutili o ignorava o interpretava; voci che cercavano di attirare l’attenzione di chi aveva il pallone in quel momento, ma i palloni erano sempre tre e i tiri erano simultanei e successivi insieme. Questione dell’osservatore. Mentre, che i tentativi fossero andati a vuoto o fossero stati opportunamente intesi, era questione che solo il tempo poteva affrontare, perché solo il futuro avrebbe potuto deciderla, ma il tempo del gioco era il presente e il presente non è un tempo che abbia il tempo di controllare o di correggere ciò che in futuro si fosse dimostrato «compreso» o «non compreso». Il tempo del gioco: un paradosso che aveva già annullato le differenze tra i ragazzi che solo il tempo, in realtà, aveva prodotto. Ora ciascuno, tirando il pallone, costruiva l’altro come compagno o avversario o semplicemente come altro, mentre ciascuno, ricevendo il pallone e tirandolo a sua volta, ricostruiva se stesso come compagno o avversario o come altro dell’altro e, allo stesso tempo, con il tiro costruiva l’altro ancora come compagno o avversario o semplicemente come altro. La sociologia tradizionale, mi disse Luhmann, dimostra la sua impotenza già di fronte a un modo di produrre società elementare e semplice come questo: avrebbe bisogno di principi, di regole, di schemi dell’agire, di forme della razionalità; avrebbe bisogno di un arbitro, di un contratto sociale, ma soprattutto avrebbe bisogno di un unico pallone. Il suo riferimento sarebbe costituito da regole e violazione delle regole, valori, sanzioni, controllo: insomma da ciò che tutti riconoscono come una partita di calcio. Ai livelli elementari della produzione di senso la società opera come si può vedere osservando questo gruppo di ragazzi che interagiscono. Nuove possibilità si producono ad ogni evento, per il semplice fatto che qualcosa è accaduto. Qui, un semplice tiro. Ma ogni tiro effettuato è già una possibilità che si realizza tra altre che avrebbero potuto prodursi e che sono state escluse, e che restano tuttavia possibili, per il fatto che si è prodotto proprio quel tiro. Ad ogni evento segue un altro che ad esso si raccorda. E ogni volta, cioè sempre, tutto ciò che accade, accade simultaneamente. Come ci si può orientare? La complessità si produce per il semplice moltiplicarsi delle possibilità e questo stesso moltiplicarsi scaturisce dalla impossibilità di relazionare uno ad uno gli elementi della struttura che si costituisce con i singoli eventi che si producono, cioè si costituisce da sé. Una cosiffatta struttura non solo si produce da sé, ma si trasforma continuamente da sé. E poiché non sono prevedibili né calcolabili, i percorsi dall’autotrasformazione si sottraggono alla razionalità del progetto che, anzi, interviene come fattore ulteriore dell’incremento di variabilità: la società si rende instabile da sé, si sorprende, per così dire, da sé. Ma questa continua instabilità non può essere tollerata e scaturisce da ciò la necessità di elaborare strategie selettive che rendano possibile l’orientamento dell’azione.» (dalla Presentazione all’edizione italiana a cura di Raffele De Giorgi dell’opera di Luhmann: Luhmann, Niklas (2000), La fiducia, il Mulino, Bologna 2002) 6.3.3. intolleranza xenofobica e i rischi di un’occasione mancata Le nazioni europee, con intensità e in tempi diversificati, stanno vivendo storicamente una trasformazione sociale che mette in crisi il concetto classico di nazionalità legato all’unità di lingua, costumi, tradizioni e gestione politica: l’afflusso non programmato e “non programmabile”, nella propria area nazionale, di un numero elevato di uomini portatori di altre lingue e culture alle quali intendono restare comunque legati. Una reazione spaventata nei confronti del fenomeno, contenuta nelle ipotesi affidate ai facili slogan della “tolleranza zero” o della assimilazione rieducativa, impedisce la comprensione (sopra richiamata: Ambrosini) e la gestione del problema, si basa su presupposti che definiscono con consapevole falsità il passato e il futuro. 6.3.3.1. Si dovrebbe infatti presupporre che sia il cittadino europeo sia l’immigrato posseggano identità chiare e immodificabili. Definire secondo etnia, cultura, patria l’immigrato è costruire semplificatori forzati, inutili e pericolosi. «Si tratta naturalmente di “patrie inventate”, che possono fornire risorse di identificazione ai gruppi deterritorializzati, fino al punto di fornire materiali ai conflitti etnici, in relazione all’idea secondo cui le biografie delle persone ordinarie sono costruzioni

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in cui l’immaginazione svolge un ruolo saliente. Il rimando ad un ethnoscape, come lo definisce Appadurai, un mondo di riferimenti “etnici” immaginato dalle popolazioni in movimento, avviene peraltro in un contesto di pratiche di contaminazione e ibridazione tra culture diverse, consapevoli o meno, tanto da indurre questo e altri autori a teorizzare un indebolimento delle identità nazionali e la tendenziale formazione di un’economia culturale «globale». Due tesi in verità discusse e discutibili: altri autori hanno insistito sul ritrovamento o la reinvenzione di pretese identità nazionali nei paesi riceventi…» (Ambrosini, ivi, p 69) 6.3.3.2. Si dovrebbe inoltre presupporre, in parallelo, la ripresa e ridefinizione di identità nazionali del paese che “ospita” rigide e immodificabili al di fuori di ogni attenuazione storicistica. «Repertori culturali e pratiche sociali, sia della terra di origine sia del paese di accoglienza, vengono rielaborati e mescolati per costruire nuove identità e stabilire confini di gruppo più o meno rigidi o permeabili.» (Ambrosini, ivi, 70) 6.3.3.3. Non si include il confronto e l’incontro tra i fattori attivi che possono amplificare il campo delle scelte personali all’insegna della libertà e del progetto. Il rischio è non comprendere quanto accade, non vivere con attiva consapevolezza il mutamento che interessa sia le aree di arrivo dei flussi migratori (le nazioni a produttività economico-capitalistica elevata), sia le aree di provenienza con cui quei flussi conservano i propri legami, coinvolgendo i paesi di provenienza in processi di “trasformazione dal basso” di portata sempre più ampia (segnando e avviando nuove forme di globalizzazione). 6.3.4. identità nella globalizzazione o le opportunità antropologiche della globalizzazione cosmopolita. 6.3.4.1. «deterritorializzazione», la fine della sindrome territorio-identità, del sangue e terra come identificatori personali, la fine della territorial fallacy; la nazione diventa uno spazio delle garanzie per cogliere l’intreccio delle opportunità. «Uno spazio stratificato e multiforme. Lo spazio di riferimento dei soggetti individuali e dei gruppi è dunque molteplice: ciascun attore si trova inserito, in altre parole, in più scale interdipendenti, che contribuiscono a separare gli spazi dell’appartenenza cognitiva (di ciò che si conosce), affettiva (ciò in cui ci s’identifica) e strumentale (degli interessi). Una molteplicità di scale spaziali che è anche molteplicità di scale temporali, in un corto circuito tra prossimità e simultaneità.» (Bonomi 2010, 42) «Sul piano culturale, inoltre, le diaspore contribuiscono alla deterritorializzazione delle identità sociali, che rappresenta un aspetto tipico della globalizzazione. Se nel periodo vagamente definito come «modernità» i governi degli Stati nazione cercavano di imporre agli individui una cittadinanza esclusiva, volendo far coincidere l’identità sociale con l’identità nazionale, nel mondo contemporaneo si sono aperti, come abbiamo visto, degli spazi per affiliazioni multiple, al di fuori e oltre i confini degli Stati-nazione. I legami diasporici sono divenuti così più aperti più accettabili.» (Ambrosini, ivi, p. 77) «Queste rapide osservazioni ci consentono di enucleare le principali implicazioni culturali e sociali della globalizzazione. La più manifesta di esse è la formazione di una società di massa nella quale gli stessi prodotti materiali e culturali circolano in paesi molto diversi tra loro per tenore di vita e tradizioni culturali. Ciò non significa affatto una standardizzazione generale dei consumi e l’«americanizzazione» del mondo intero. Al contrario, stiamo assistendo alla compresenza e mescolanza di realtà contrapposte. La prima è rappresentata dall’influenza culturale esercitata dalle grandi imprese di consumo e di divertimento Hollywood è senza dubbio la fabbrica dei sogni del mondo intero, ma non per questo le produzioni locali sono scomparse dalla faccia della terra. Nei paesi più ricchi si nota inoltre una progressiva diversificazione dei consumi. A New York, Londra o Parigi si trovano molti più ristoranti stranieri di un tempo ed è possibile vedere molti più film provenienti da altri paesi del mondo. E infine si assiste a una rinascita di forme di vita sociale e culturale tradizionali o sostenute dal desiderio di salvaguardare una cultura regionale o nazionale minacciata. Ovunque, in ogni caso, e proprio per effetto di queste tendenze contrapposte, si accelera il declino delle precedenti forme di vita sociale e politica e della gestione nazionale

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dell’industrializzazione.» (Touraine Alain 2004 La globalizzazione e la fine del sociale, il Saggiatore, Milano 2008 p. 35-36) E il fondamento: « La vita non si riduce a un dato, la vita è il movimento tramite il quale gli attori, invece di identificarsi con un valore o uno scopo esteriori, scoprono in se stessi, nella difesa della propria libertà, una capacità di agire in maniera autoreferenziale, come faceva la «società» nella situazione precedente. È così che può emergere un senso che resiste alla logica del potere e del mercato e allo stesso tempo a quella dell’integrazione comunitaria. Ma è bene aggiungere, prima ancora di formulare in maniera approfondita tali ipotesi, che questo soggetto consapevole di sé non si riduce affatto a un atteggiamento di meditazione interiore, di ricerca di sé attraverso l’eliminazione degli influssi esercitati sull’io dal inondo esterno; esso si afferma innanzitutto lottando contro ciò che lo aliena e gli impedisce di agire in funzione della formazione di se stesso.» (Touraine 2004, 28-29) «Attraverso la globalizzazione questo effetto di domesticità politico-culturale viene intaccato, con il risultato che innumerevoli cittadini dei moderni Stati nazionali a casa non sentono più di coincidere con la propria identità e nella propria identità non si sentono più a casa. […] Quel che certo maggiormente si avvicina al primo estremo di tale dissoluzione sono gli ebrei della diaspora degli ultimi duemila anni, dei quali è stato possibile dire, e non a torto, che fossero un popolo senza terra; uno stato di cose che Heinrich Heine ha sottolineato magistralmente dicendo che gli ebrei non si trovavano a casa propria in un paese, bensì in un libro, la Torah, che si portavano dietro ovunque come una “patria portatile”. Questa considerazione così elegante e profonda getta di colpo luce su una circostanza di validità generale che troppo spesso non viene notata: i gruppi “erranti” o “deterritorializzati” non ricavano la loro immunità simbolica e la loro coerenza etnica in base a una terra portante; sono molto di più le loro comunicazioni reciproche a fungere da «contenitore autogeno» nel quale coloro che prendono parte alla comunicazione sono essi stessi contenuti e restano “in forma” mentre il gruppo va alla deriva in paesi stranieri. Un popolo senza terra, dunque, non può incorrere nella falsa conclusione che per tutta la storia dell’umanità si è imposta a quasi tutti i popoli stanziali, e cioè quella di considerare il paese stesso come il contenitore del popolo e di intendere la propria terra come l’a priori del senso della propria vita o della propria identità. Questa territorial fallacy una delle eredità fino ad oggi più influenti e più problematiche dell’età sedentaria del mondo, perché intorno ad essa si fissa il riflesso istintivo di ogni impiego politico, in apparenza legittimo, della forza e cioè la cosiddetta “difesa nazionale”. Essa si basa sulla parificazione ossessiva del luogo e del sé, sull’errore di ragionamento assiomatico commesso dalla ragione territorializzata. Tale errore è stato portato sempre più allo scoperto da quando un’ondata potentissima di mobilità transnazionale fa sì che in molti luoghi popoli e territori relativizzino il legame che intercorre tra di loro. Il trend verso un sé multilocale, così come verso un luogo multietnico o “denazionalizzato”, è caratteristico della modernità avanzata. Su questo stato di cose, interessante anche dal punto di vista teoretico, ha richiamato recentemente l’attenzione l’antropologo culturale indo-americano Arjun Appadurai [in Beck Perspektiven der Weltgesellschaft, 1998] con l’elaborazione del concetto di ethnoscape. Sotto tale concetto vengono presi in considerazione stati di cose quali la “deterritorializzazione” avanzante di relazioni etniche, la formazione di “comunità immaginarie” al di fuori delle nazioni e l’aver parte, a livello immaginario, di innumerevoli individui, nelle forme di vita di altre culture nazionali. Per quel che riguarda gli ebrei durante il periodo dell’esilio, la loro provocazione era consistita nel fatto che essi avevano ininterrottamente tenuto sotto gli occhi dei popoli dell’emisfero occidentale l’apparente paradosso e l’effettivo scandalo di un sé che di fatto esisteva senza luogo.» Sloterdijk Peter 2001 L’ultima sfera. Breve storia filosofica della globalizzazione, Carocci, Roma 2002, 170-171 6.3.4.2. a tale scopo si presta il concetto di non-luogo (oggetto delle analisi di Marc Augé, qui in diversa accezione e in estensione) come letture universale dello stile contemporaneo di territorialità; e da qui le opportunità dell’individuo o nuove dimensioni per l’individuo, in uscita da rigidi “container nazionali”. «Questo vale per tutti i luoghi di transito, nel senso ristretto del termine e in senso lato, sia che si tratti di località adibite al traffico, come le stazioni, i porti, gli aeroporti, le strade, le piazze e i

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centri commerciali, sia che si tratti di complessi che sono stati concepiti per soggiorni limitati, come i villaggi per vacanze o le città turistiche, le aree industriali o gli asili notturni. Tali luoghi possono sì avere la loro atmosfera particolare, ma la loro esistenza non dipende dalla presenza di una popolazione abituale o di un sé collettivo in essi radicati. La loro peculiarità è insita nel non trattenere i visitatori e i passanti. Si tratta di quei luoghi di nessuno, ora affollati di gente, ora senza un’anima viva, di quei deserti del transito che proliferano nei centri decentrati e nelle ibride periferie delle società contemporanee. In queste società è possibile riconoscere, senza ulteriore dispendio analitico, che quello che per esse ha rappresentato fino a oggi la normalità, e cioè una vita racchiusa all’interno di condizioni—container etniche o nazionali (con tutti i loro rispettivi fantasmi) e la licenza a confondere la terra e il sé senza correre alcun pericolo, è stato intaccato in modo decisivo dalle tendenze globalizzanti. Infatti, da un lato queste società allentano il loro legame con il luogo: grandi masse fanno propria una mobilità che non trova precedenti nella storia; dall’altro, aumenta drammaticamente il numero dei luoghi di transito in relazione ai quali nessuna relazione abitativa è possibile per le persone che li frequentano. In questo modo le società globalizzanti e mobilizzanti si avvicinano sia al polo “errante”, a quello di un sé privo di luogo, sia al polo desertico, un luogo privo del sé, su un fondale, che va sempre più rimpicciolendosi, costituito da un’infinità di culture regionali e di sensazioni di soddisfazione derivanti dalla fedeltà a un luogo.» (Sloterdijk 2001, 172) 6.3.4.3. dalla “natura” al “costruzionismo”: identità culturali multiple, sincretiche e fluide. «Non per nulla, la formazione di identità culturali multiple, fluide, sincretiche, è un topos corrente del postmodernismo. Come nota Enzo Colombo, “a partire da un’epistemologia costruzionista, si mette in evidenza che differenze, identità e culture non sono date ma prodotte in un’opera continua di mediazione, confronto, adeguamento e conflitto tra possibilità differenziate. Non esistono come realtà pure, ma solo come processi intrinsecamente caratterizzati da contraddizione, instabilità, mutamento miscelazione (Colombo 2005)». (Ambrosini, ivi, p. 73) «Il riferimento ad un maestro buddhista, o la passione per la musica latinoamericana, o la ricerca di cibi esotici non sono più classificabili come aspetti specifici del transnazionalismo culturale dei migranti, ma possono essere condivisi, più o meno durevolmente e con valenze diverse, da persone e gruppi che appartengono alla società ospitante. L’ibridazione culturale si diffonde, ma insieme si confonde, in un vasto territorio intermedio tra identità individuali liberamente scelte e ridefinite a piacimento e identità collettive originarie e «autentiche», o almeno esaltate come tali dai loro propugnatori.» (Ambrosini, ivi, p. 74) 6.4. una sfida politica e un suo divenire. 6.4.1.Le nuove istanze del “collettivo” che raccoglie il sociale. Dalle analisi e dalle proposte di Latour Bruno 1999 Politiche della natura. Per una democrazia delle scienze, Raffaello Cortina editore, Milano 2000: «Finché il collettivo riesce a trarre insegnamenti da ciò che ha respinto fuori di sé, lo si può definire civilizzato: può cambiare nemici, ma non ha il diritto di moltiplicarli a ogni iterazione. Non appena si crederà circondato da entità insignificanti che lo minacciano di distruzione, diverrà barbaro. Una società circondata da una natura da dominare, una società che si crede libera da tutto ciò di cui non tiene conto, una società che si pensa d’acchito come universale, una società che fa corpo con la natura — sono tutti esempi di collettivi barbari. Da questo punto di vista, come si capirà, i moderni non si sono mai distinti per un livello particolarmente alto di civiltà, perché si sono sempre pensati come coloro che erano sfuggiti alla barbarie passata, che resistevano al ritorno dell’arcaismo, che dovevano portare il progresso a coloro che ne mancavano... Slittando dal modernismo all’ecologia politica, si può dire che i moderni richiudono la parentesi che li aveva per qualche tempo separati dagli altri, O piuttosto, dopo la prova di fuoco del modernismo, entriamo in un’epoca nuova in cui nessun collettivo può, senz’altra forma di processo, utilizzare più l’etichetta di “barbaro” per qualificare ciò che respinge. Non per questo ci si dovrà crogiolare nel multiculturalismo astenendosi da ogni giudizio di valore, bensì riprendere la parola come all’inizio delle grandi scoperte. Occorre che il collettivo reciti di nuovo la scena primitiva della

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colonizzazione, ma colui che va incontro ai civilizzati che sbarcano è, questa volta, anch’egli un civilizzato. Dopo secoli di malintesi, ecco che si riprendono i “primi contatti”. [in nota 26 cita l’espressione di Appadurai Arjun a definire i tempi presenti: “globalizzazione delle differenze” p. 310] […] Con l’ecologia politica si entra veramente in un altro mondo, quello che non ha più come ingredienti una natura e più culture, che non può quindi semplificare il problema del numero di collettivi unificandolo attraverso la natura, né complicarla accettando una molteplicità inevitabile e definitiva di culture incommensurabili. Entriamo in un mondo composto di realtà insistenti, in cui le proposizioni dotate di abitudini non accettano più né di far tacere le istituzioni incaricate di accoglierle né di essere accolte divenendo mute sulla realtà delle loro esigenze. L’esterno non è più abbastanza forte da ridurre al silenzio il mondo sociale, né abbastanza debole da lasciarlo ricondurre all’insignificanza. Nel senso nuovo che abbiamo ridato a questo termine, le entità escluse esigono che il collettivo si presenti e si ripresenti al loro appello, cioè che rischi di nuovo la sorte di tutte le sue istanze rappresentative.» (Latour 1999, 236, 238) 6.4.2. A conclusione e approfondimento le riflessioni di Appadurai sul tema delle interrelazioni tra sfere pubbliche diasporiche in una globalizzazione fondata sulle migrazioni di massa e sulle mediazione elettroniche dei mass media, che determinano il tramonto degli stati nazionali, tanto più delle loro forme identitarie. «Le sfere pubbliche diasporiche, tra loro diverse, sono i crogioli di un ordine politico transnazionale. I motori del loro discorso sono i mass media (interattivi ed espressivi) e i movimenti di profughi, attivisti, studiosi e lavoratori. Può darsi benissimo che l’ordine postnazionale emergente si riveli non tanto un sistema di elementi omogenei (così com’è nell’attuale sistema degli stati nazionali), quanto piuttosto un sistema basato su relazioni tra elementi eterogenei: movimenti sociali, gruppi di pressione, corpi professionali, organizzazioni non governative, forze armate di polizia, corpi giudiziari. Quest’ordine emergente dovrà rispondere a una difficile domanda: riuscirà questa eterogeneità a combinarsi con alcune convenzioni minime sulle norme e sui valori, che non richiedano una stretta adesione al contratto sociale liberale della modernità occidentale? Tale questione decisiva non verrà risolta per decreto accademico, ma attraverso le negoziazioni (pacifiche e violente) tra i mondi immaginati da questi differenti interessi e movimenti. Nel breve periodo, come possiamo già vedere, sarà probabilmente un mondo caratterizzato da sempre maggior barbarie e violenza. Sul lungo periodo, una volta liberate dalle costrizioni della forma nazionale, potremo forse scoprire che la libertà culturale e la giustizia nel mondo non presuppongono l’esistenza uniforme e generale dello stato nazionale. Questa eventualità perturbante potrebbe essere il lascito più eccitante per aver vissuto nella modernità in polvere.» Appadurai Arjun 1996 Modernità in polvere. Dimensioni culturali della globalizzazione, Raffaello Cortina editore, Milano 2012, 35 (nota al titolo originale e alla sua traduzione italiana: Modernity at Large: Cultural dimension of Globalization: at large= nel suo insieme, come affrontare un argomento nel suo insieme; o = alla macchia, libero, senza permesso, come prigionieri alla macchia dopo l’evasione; qui in polvere = frantumata ma anche perché intesa come materiale pronto per ricomposizioni [così liberamente da nota 7 p. 257-8], oppure, o meglio: modernità diffusa, come indica Wikipedia o, si potrebbe dire, in evasione, in fuga, in dilatazione, che ha preso il largo…). Bibliografia di riferimento Touraine Alain 1997 Libertà, uguaglianza, diversità. Si può vivere insieme?, il Saggiatore, Milano 1998 Bauman Zygmunt 2000 Modernità liquida, ed. Laterza, Roma-Bari 2002 Crespi Franco 2004 Identità e riconoscimento nella sociologia contemporanea, Laterza, Roma-Bari Pompeo Francesco (a cura di) 2007 La società di tutti. Multiculturalismo e politiche dell’identità, Meltemi, Roma Aime Marco 2004 Eccessi di culture, Einaudi Torino Donati Pierpaolo 2008 Oltre il multiculturalismo, Laterza, Roma-Bari

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Ambrosini Maurizio 2008 Un’altra globalizzazione. La sfida delle migrazioni transnazionali, il Mulino, Bologna Sen Amartya 2006 Identità e violenza, Laterza, Roma-Bari Quassoli Fabio 2006 Riconoscersi. Differenze culturali e pratiche comunicative, ed. Raffaello Cortina, Milano Savidan Patrick 2009 Il multiculturalismo, il Mulino, Bologna 2010 Cotesta Vittorio 2012 Sociologia dello straniero, Carocci editore, Roma Rawls John 1971, 1999 Una teoria della giustizia, Milano Feltrinelli, 2008 Rawls John 2005 Liberalismo politico. Nuova edizione ampliata, Einaudi, Torino 2012