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Evento formativo rivolto al Personale Socio Sanitario LA RELAZIONE CON I PARENTI E I CARE GIVERS 2 DICEMBRE 2015 CENTRO INTEGRATO SERVIZI ANZIANI MIRANDOLA

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Evento formativo rivolto al

Personale Socio Sanitario

LA RELAZIONE

CON I PARENTI E I CARE GIVERS

2 DICEMBRE 2015

CENTRO INTEGRATO SERVIZI ANZIANI

MIRANDOLA

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LA COMUNICAZIONE

Il termine comunicazione deriva dal

verbo comunicare che nel suo

significato originale (latino) vuol dire

“mettere in comune” ossia condividere

con gli altri pensieri, opinioni,

esperienze, sensazioni e sentimenti.

La comunicazione non è

semplicemente parlare ma presuppone

necessaria- mente una relazione e quindi uno scambio.

La comunicazione sociale, più nota come comunicazione di massa, viene

realizzata da una o poche persone ed è rivolta a molti individui

(televisione, stampa, radio, pubblicità, utenti e riceventi). La

comunicazione interpersonale coinvolge 2 o più persone e si basa

sempre su una relazione in cui gli interlocutori si influenzano sempre l’un

l’altro, anche quando non se ne rende conto. La comunicazione

interpersonale si suddivide a sua volta in :

Comunicazione verbale

Che avviene attraverso l’uso del linguaggio sia scritto che orale e che

dipende da precise regole sintattiche e

grammaticali.

Comunicazione non verbale

Che avviene senza l’uso delle parole

attraverso vari canali: mimiche facciali,

sguardo, gesti, po- sture, andature,

abbigliamento.

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Comunicazione para verbale

Che riguarda soprattutto la voce (tono, volume, ritmo), ma anche le

pause, le risate, il silenzio ed altre espressioni sonore (schiarirsi la voce,

tamburellare, far suoni) e il giocherellare con oggetti. Sia il non verbale

che il paraverbale inviano messaggi spesso inconsapevoli di tipo

emotivo. Ad esempio è stato dimostrato che per scoprire un mentitore

basta ascoltare il tono della sua voce che vibra, ma non è facile

distinguerlo ad orecchio nudo.

Affinché avvenga una comunicazione sono necessari i seguenti elementi:

emittente, ricevente messaggio, codice, canale, contesto, filtri.

L’emittente, anche detto trasmittente, è chi invia il messaggio e dando

così inizio alla comunicazione.

Il ricevente, anche detto destinatario, è colui a cui viene inviato il

messaggio. Il messaggio, anche detto contenuto, riguarda ciò che viene

comunicato e può essere di varia natura. Il codice, anche detto

linguaggio, (verbale, non verbale, paraverbale) riguarda il modo in cui si

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comunica dando un significato convenzionale al messaggio. Il canale, è il

mezzo con cui avviene la comunicazione (a livello verbale la voce, a

livello non verbale mimico il viso, sguardo, gli occhi, la postura il corpo,

andatura gli spostamenti, gli abiti, per il paraverbale la voce, le mani per

il tamburellare, ecc.). Il contesto riguarda il luogo, il momento e le

circostanze in cui si comunica. I filtri, riguardano tutto ciò che disturba,

altera o più raramente, facilita la comunicazione; possono essere fisici

(rumore, brusio, volume basso della voce, silenzio) che psicologici

(aspettative, bisogni, pregiudizi, vissuti emotivi). Mentre i filtri fisici sono

più facilmente

gestibili, quelli

psicologici sono

più complessi

da evitare

proprio perché

sono quasi

sempre

inconsapevoli.

v Comprendere le pause di silenzio e saperle gestire

v Accettare tutto ciò che l’interlocutore dice, anche quando

contrasta con le nostre opinioni

v Essere realmente disponibili a comunicare

v Non imporsi in nessun modo

v Considerare l’interlocutore come persona degna di essere

ascoltata

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Fattori che facilitano la comunicazione

Un fattore fondamentale è la motivazione a comunicare, che può essere

dovuto spesso al solo desiderio di essere ascoltati da qualcuno. Se la

motivazione è assente la comunicazione non ha neanche inizio e si

blocca sul nascere. Se la motivazione è scarsa, la comunicazione fa fa-

tica ad andare avanti, creando tensioni o incomprensioni fra gli

interlocutori. Tuttavia, anche una motivazione eccessiva è disturbante in

quanto chi ascolta potrebbe non avere voglia in quel momento di

comunicare o di trattare

quel determinato

argomento. Se invece la

motivazione iniziale è

discreta, il desiderio di

comunicare tende ad

aumentare

progressivamente anche

se ciò dipende molto dal

tipo di relazione.

Un’altra condizione fondamentale per comunicare in modo efficace è

l’autenticità, intesa come la reale disponibilità verso gli altri. Essere

autentici vuol dire anche saper esprimere pensieri ed emozioni con

semplicità e sincerità facendosi così conoscere dall’altro per quello che

effettivamente si è, si pensa e si prova.

Un altro fattore facilitante è la congruenza, ossia la coerenza tra ciò che

si esprime a parole e ciò che si manifesta al livello non verbale e

paraverbale. Anche l’essere attenti ai bisogni degli altri facilita la

comunicazione poiché si tende a prendere l’iniziativa e di solito a parlare

per primi, ponendo così le basi per una possibile futura comunicazione.

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Avere frequenti rapporti sociali è sicuramente un fattore positivo poiché

consente di apprendere vari stili di comunicazione, oltre che ad arricchire

sul piano dell’esperienza e delle conoscenze. Non avere pregiudizi nei

confronti di chi parla è basilare perché possa esserci comunicazione,

relazione e comprensione.

Presupposti per poter comunicare in maniera efficace

v Ascoltare in modo attento, empatico e interessato

v Osservare e valutare la comunicazione non verbale

v Sospendere il giudizio verso sé e verso l’altro

v Essere pronti ad accogliere

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La comunicazione efficace

Comunicare è vita, e chi lo sa fare per bene avrà dalla sua la

possibilità di vivere una vita piena di possibilità.

Thomas Gordon (1918 – 2002; Psicologo

Clinico americano e collega di Carl Rogers) ha

speso tutta la sua esistenza ad insegnare il

segreto della felice comunicazione, unico

modo per la risoluzione di conflitti fra genitori

e figli, insegnanti e studenti, dirigenti e

dipendenti, donne e uomini, giovani ed

anziani, venditori ed acquirenti.

A rendere famoso lo psicologo americano ha

contribuito il metodo da lui stesso creato, un

sistema completo ed integrato non solo per la creazione, ma anche per il

mantenimento di relazioni efficaci. D’altronde i conflitti secondo

Thomas Gordon non si possono risolvere con l’uso di tecniche

coercitive, che hanno semplicemente l’effetto di danneggiare

irreparabilmente le relazioni: molto meglio la comunicazione

utilizzata nella dovuta maniera.

Il metodo Gordon

Un buon comunicatore, secondo il metodo Gordon deve essere in

possesso di alcune competenze fondamentali:

l’ascolto attivo;

il messaggio io.

Entrambe le tecniche sono oggi ampiamente conosciute ed utilizzate in

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tutto il mondo, nate entrambe dopo il 1950 ed impiegate ad esordio

all’interno di organizzazioni imprenditoriali. Solo nel 1962 Gordon rivede

il metodo adattandolo al rapporto genitori figli e portando avanti una

serie di corsi ampiamente frequentati che insegnarono ad un’intera

generazione di padri e madri a comunicare con i propri ragazzi.

L’ascolto attivo

E’ una tecnica tanto semplice quanto

indispensabile per la buona comunicazione. Non

si tratta semplicemente di star zitti ed ascoltare.

Chi ascolta attivamente lo fa con gli occhi, con la

mente e con il cuore e comunica a chi parla che

ciò che in quel momento l’altro dice, è

importante per l’ascoltatore.

Gli step grazie ai quali si comunica all’interlocutore l’ascolto attivo sono

4:

• ascolto passivo durante la fase iniziale. L’ascoltatore lo fa in silenzio

e non interrompe; in questo modo fa sapere all’interlocutore che si

è interessati all’argomento e predisposti per l’ascolto;

• messaggi di accoglimento verbali e non verbali. “Sto cercando di

capire” o “Ti ascolto” sono frasi importanti da utilizzare, ma non

devono mancare nemmeno cenni del capo, sorrisi e sguardi che

comunicano palesemente la propria attenzione;

• inviti all’approfondimento. Si tratta chiaramente di messaggi

verbali che incoraggiano chi parla ad approfondire l’argomento

senza che l’ascoltatore giudichi o commenti quel che è stato detto.

“Spiegami meglio” o “Dimmi” sono frasi che si dovrebbe utilizzare

spesso;

• l’ascolto attivo è l’ultimo step durante il quale chi ascolta ripropone

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il contenuto del messaggio condiviso dall’altro con parole diverse.

In questa fase però non entrano in gioco solo le parole, ma anche

le emozioni ed i sentimenti.

Esistono inoltre altre manifestazioni

importanti che comunicano l’ascolto

attivo. L’empatia è forse la più

importante: ci si immedesima nell’altra

persona per coglierne i pensieri e gli

stati d’animo. Questo permette di

condividere emotivamente la sua

esperienza pur non perdendo il senso della propria identità.

Altro aspetto importante è la considerazione positiva

incondizionata che indica una globale accettazione della persona, pur

nel caso in cui questa abbia valori e atteggiamenti diversi dai nostri: in

questo caso l’interlocutore non verrà giudicato e quel che eventualmente

si metterà in discussione non sarà tanto la persona quanto piuttosto il

suo comportamento.

Infine non da meno la congruenza con se stessi. Ciò non significa

assumere un atteggiamento difensivo quanto piuttosto agire in maniera

tale da riflettere quel che si sente dentro.

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Il messaggio io

Grazie alla tecnica del messaggio

io, gli interlocutori non si sentono

né colpevolizzati, né giudicati, e

in questo modo possono ascoltare

i bisogni degli altri con maggiore

attenzione, ragionando sulle

conseguenze a cui portano le

proprie azioni.

Gli step della tecnica del messaggio io sono ancora una volta 4:

• si inizia descrivendo quel che si prova con un semplice “Io mi

sento”;

• si prosegue descrivendo il comportamento dell’altro che crea il

problema con un “Quando tu”;

• si specifica in che modo il comportamento è legato all’emozione con

un semplice “Perché”;

• infine si esprime ciò che si desidera con un universale “Io voglio”.

Con la frase “Io mi sento triste – Quando non mi ascolti – Perché mi

sento ignorato – E vorrei che tu mi considerassi di più” si otterranno

sicuramente più risultati che non utilizzando la tecnica messaggi tu “E’

colpa tua – Quando tu non mi ascolti – Perché mi sento ignorato – Tu sei

un egoista”. Nell’ultimo caso l’interlocutore si offenderà, o si arrabbierà e

probabilmente attiverà un atteggiamento di difesa che interferirà con la

comunicazione.

Utilizzare la tecnica del messaggio io è indispensabile quando si

attraversa una situazione di difficoltà dettata dall’altrui atteggiamento.

Grazie alla tecnica del confronto si condividono quelli che si reputano

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atteggiamenti inaccettabili e con semplicità si comunica all’altro come ci

si sente in un determinato momento. Il pregio della tecnica è quello di

non valutare direttamente la persona, ma la sua azione: non “tu sei”, ma

“io sento”.

Comunicazione: le 12 barriere da abbattere

Il metodo Gordon inoltre mette in

mostra ben 12 barriere alla

comunicazione: si tratta di

atteggiamenti che caratterizzano il

non ascolto e che in un certo senso

limitano il potenziale della

comunicazione. Per questo vanno

limitate ed evitate il più possibile.

Eccole di seguito:

• Ordinare, esigere

• Minacciare

• Fare la morale

• Dare soluzioni già pronte

• Persuadere con argomentazioni logiche

• Giudicare, disapprovare, criticare

• Fare complimenti e approvare immeritatamente

• Umiliare, ridicolizzare

• Interpretare, analizzare i comportamenti altrui

• Consolare, minimizzare

• Cambiare argomento

• Indagare, interrogare

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LA GESTIONE DELLE EMOZIONI ALL’INTERNO DELLA RELAZIONE

Le emozioni non ci possiedono, e non siamo noi a possederle.

Possiamo però cercare di controllarle e imparare a gestirle.

Che cos’è un emozione?

Le emozioni sono stati mentali e fisiologici associati a modificazioni

psicofisiologiche, a stimoliinterni o esterni, naturali o appresi.

In termini evolutivi, o darwiniani, la loro principale funzione consiste nel

rendere più efficace la reazione dell'individuo a situazioni in cui si rende

necessaria una risposta immediata ai fini della sopravvivenza, reazione

che non utilizzi cioè processi cognitivi ed elaborazione cosciente.

Le emozioni rivestono anche una funzione relazionale (comunicazione

agli altri delle proprie reazioni psicofisiologiche) e una funzione

autoregolativa (comprensione delle proprie modificazioni

psicofisiologiche).

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Le emozioni non sono volontarie:

non possiamo innamorarci o

rallegrarci a comando. Non si può

crearle, inventarle o sopprimerle.

Ciononostante possiamo non esserne

succubi, non devono, quindi,

diventare un alibi: essere in balia di

un’emozione non ci leva la

responsabilità del nostro comportamento, perché, quello sì,

può essere controllato.

Imparare a gestire le emozioni, proprie e altrui, aiuta a non averne

paura, e a viverle appieno. Altrimenti il loro carattere anarchico

spaventa, e si cerca di sfuggirle, rifugiandosi nella razionalità, o

nell’abuso di sostanze, di cibo, o di stimoli. L’abitudine di soffocare le

emozioni negative anestetizza anche quelle positive, e allora la vita

perde intensità e senso.

Percepirle, accettarle, dar loro un nome: negli esorcismi,

riconoscere un nome al demone serve a placarlo. La capacità

di elaborazione significa saper sopportare i sentimenti che ci

toccano e dar loro un senso. “Dire un’emozione”, anziché agirla, restare

sul piano simbolico, è meglio che lasciarla trasformare in comportamenti

reattivi.

E’ importante non giudicare le

emozioni che ci attraversano,

riconoscere loro il diritto di esistere:

solo così possiamo arrivare a capirle,

e a riconoscerle come parte di noi

anziché sentirle aliene e misteriose.

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Un’emozione respinta o non accettata si tramuta in azioni che ci

allontanano da noi stessi e dalla consapevolezza: come quando ci si

ritrova a litigare, o a comprare cose inutili, o a perdere un treno senza

capirne il perché. Dobbiamo imparare ad attivare la nostra intelligenza

emotiva, che ci consente di comprendere i nostri bisogni profondi e di

soddisfarli.

L’emotività è come un cavallo, che va capito e rispettato ma comunque

governato. Non deve essere lui a decidere la strada, però se gli

imponiamo con violenza gli ordini s’imbizzarrisce.

L’ansia

L'ansia è uno stato psichico, prevalentemente cosciente, di un individuo

caratterizzato da una sensazione di preoccupazione o paura, più o meno

intensa e duratura, che può essere connessa o meno a uno stimolo

specifico immediatamente individuabile (interno o esterno) ovvero una

mancata risposta di adattamento dell'organismo a una qualunque

determinata e soggettiva fonte di stress per l'individuo stesso.

E’ una complessa combinazione di emozioni che includono paura,

apprensione e preoccupazione, ed è spesso accompagnata da sensazioni

fisiche come palpitazioni, dolori al petto e/o respiro corto, nausea,

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tremore interno. Può esistere come disturbo cerebrale primario oppure

può essere associata ad altri problemi medici, inclusi altri disturbi

psichiatrici. I segni somatici sono dunque un'iperattività del sistema

nervoso autonomo e in generale della classica risposta del sistema

simpatico di tipo "combatti o fuggi".

Si distingue dalla paura vera e

propria per il fatto di essere

aspecifica, vaga o derivata da un

conflitto interiore.

La distinzione con il termine

angoscia appartiene solo alle lingue

di origine latina, infatti in tedesco il

termine usato sia per ansia sia per

angoscia è “Angst”.

L'ansia sembra avere varie componenti di cui una cognitiva, una

somatica, una emotiva, una comportamentale.

• La componente cognitiva comporta aspettative di un pericolo

diffuso e incerto.

• Dal punto di vista somatico (o fisiologico), il corpo prepara

l'organismo ad affrontare la minaccia (una reazione d'emergenza):

la pressione del sangue e la frequenza cardiaca aumentano, la

sudorazione aumenta, il flusso sanguigno verso i più importanti

gruppi muscolari aumenta e le funzioni del sistema immunitario e

quello digestivo diminuiscono. Esternamente i segni somatici

dell'ansia possono includere pallore della pelle, sudore, tremore e

dilatazione pupillare.

• Dal punto di vista emotivo, l'ansia causa un senso di terrore o

panico, nausea e brividi.

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• Dal punto di vista comportamentale, si possono presentare sia

comportamenti volontari sia involontari, diretti alla fuga o

all'evitare la fonte dell'ansia. Questi comportamenti sono frequenti

e spesso non-adattivi, dal momento che sono i più estremi nei

disturbi d'ansia. In ogni caso l'ansia non sempre è patologica o

non-adattiva: è un'emozione comune come la paura, la rabbia, la

tristezza e la felicità, ed è una funzione importante in relazione alla

sopravvivenza.

La rabbia

Con il termine ira (spesso sostituito da "furia", "collera" o,

impropriamente, rabbia) si indica uno stato psichico alterato, in genere

suscitato da elementi di provocazione capaci di rimuovere i freni inibitori

che normalmente stemperano le scelte del soggetto coinvolto. L'iracondo

prova una profonda avversione verso qualcosa o qualcuno, ma in alcuni

casi anche verso se stesso.

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L'ira è vista come una forma di reazione e/o risposta da parte di una

persona a situazioni sfavorevoli. In psicologia, sono riconosciuti tre tipi di

ira:

• la prima forma, denominata "rabbia frettolosa ed improvvisa" da

Joseph Butler (un vescovo inglese del XVIII secolo), è collegata

all'impulso di autoconservazione: condivisa da uomo ed animale si

verifica quando il soggetto si ritiene tormentato o intrappolato;

• la seconda forma, chiamata "rabbia costante e deliberata", è una

reazione alla percezione deliberata di subire un trattamento

ingiusto oppure un danno da altri soggetti. Come la prima forma,

anche questa è episodica;

• la terza forma è invece disposizionale, legata più a tratti caratteriali

che ad istinto e cognizione. Irritabilità, villania e scontrosità sono

spesso presenti in quest'accezione.

Potenzialmente, l'ira è in

grado di mobilitare risorse

psicologiche positive tra

cui correzione di

comportamenti sbagliati,

ed espressione di

sentimenti negativi su controversie. D'altro canto l'ira può rivelarsi

"distruttiva" quando non trova un adeguato sbocco di espressione; una

persona irata può infatti perdere oggettività, empatia, prudenza e senso

di riflessione e causare danni ad altre persone o cose. Ira ed aggressività

(fisica o verbale, indiretta o diretta) sono distinte, anche se possono

influenzarsi a vicenda.

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Sintomi

Una distinzione nella manifestazione dell'ira può essere fatta tra "ira

passiva" ed "ira aggressiva": forme, queste, che hanno sintomi

caratteristici.

Ira passiva

Può manifestarsi nei seguenti modi:

• Elusività: voltare le spalle agli altri,

tirarsi indietro e diventare fobico.

• Distacco: manifestare indifferenza,

tenere il muso o fare sorrisi falsi.

• Finta riservatezza: evitare il contatto

visivo, spettegolare, minacciare in modo anonimo.

• Autosacrificio: essere eccessivamente disponibili, accontentarsi di

una seconda scelta, rifiutare aiuto.

• Autobiasimazione: scusarsi eccessivamente, autocriticarsi ed

accettare ogni critica.

Ira aggressiva

Può manifestarsi nei seguenti modi:

• Distruttività: distruggere oggetti, ferire animali, rompere rapporti,

abusare di droga.

• Vendetta: essere punitivi, rifiutare di perdonare, rievocare vecchi

ricordi.

• Bullismo: intimidire o perseguitare le persone, prendersi gioco di

elementi deboli della società.

• Minaccia: spaventare le persone, tenere comportamenti pericolosi.

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• Esplosività: furia improvvisa, senso di frustrazione, attacco

indiscriminato.

• Egoismo: ignorare le esigenze altrui.

• Sconsideratezza: tenere atteggiamenti pericolosi come guidare

troppo velocemente e spendere denaro sconsideratamente.

• Vandalismo: danneggiare opere ed oggetti, compiere atti di

teppismo o piromania. Comportamenti spesso associati al consumo

di alcol e droghe.

La vergogna

La vergogna è un'emozione che accompagna l’auto-valutazione di un

fallimento globale nel rispetto delle regole, scopi o modelli di condotta

condivisi con gli altri; da una parte è un'emozione negativa che coinvolge

l'intero individuo rispetto alla propria inadeguatezza, dall'altra è il

rendersi conto di aver fatto qualcosa per cui possiamo essere considerati

dagli altri in maniera totalmente opposta rispetto a quello che avremmo

desiderato.

A differenza dell'imbarazzo, che si sperimenta esclusivamente in

presenza degli altri, ci si può vergognare da soli e per lungo tempo;

inoltre, mentre l'imbarazzo sorge per l'infrazione di regole sociali che

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possono anche non essere condivise, la vergogna è il segnale della

rottura di regole di condotta alle quali personalmente si aderisce.

La persona che si vergogna prova un profondo

turbamento, si sente confusa, disorientata e

preda soprattutto di un desiderio di fuga, perché

sente di essere inadeguato. Chi prova vergogna

percepisce l’altro come giudicante e di

conseguenza sperimenta una situazione di

disagio che crea un blocco nella

comunicazione.

Se ci troviamo e sperimentare questa emozione,

il primo comportamento che si attua è quello di distogliere lo sguardo

dall’altro, poi si ripiega la postura, si volta il viso, che in genere potrebbe

arrossire. In questo modo è come se si ammettesse implicitamente di

non essere riusciti a raggiungere determinati standard di prestazione, o

anche norme e valori, ritenuti rilevanti per la valutazione di sé.

Al sentimento della vergogna si può reagire in diversi modi: con

rabbia, depressione o isolamento sociale. Tutto ciò dipende non solo

dal proprio carattere, ma anche dalla cultura in cui si è vissuti in cui

erano condivise determinate regole o norme.

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LA COMUNICAZIONE ASSERTIVA

L'assertività (dal latino "asserere" che significa "asserire"), o asserzione

(o anche affermazione di sé), è una caratteristica del comportamento

umano che consiste nella capacità di esprimere in modo chiaro ed

efficace le proprie emozioni e opinioni senza tuttavia offendere né

aggredire l'interlocutore.

Secondo gli psicologi statunitensi Alberti ed Emmons, si definisce come

«un comportamento che permette a una persona di agire nel suo pieno

interesse, di difendere il suo punto di vista senza ansia esagerata, di

esprimere con sincerità e disinvoltura i propri sentimenti e di difendere i

suoi diritti senza ignorare quelli altrui».

Essa si può anche delineare come il giusto equilibrio tra due polarità: da

una parte il comportamento passivo, dall'altra il comportamento

aggressivo.

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Presupposti necessari per un comportamento assertivo sono:

1. buona immagine di sé (autostima);

2. adeguata comunicazione;

3. libertà espressiva;

4. capacità di rispondere alle richieste e alle critiche;

5. capacità di dare e di ricevere apprezzamenti;

6. capacità di sciogliere i conflitti.

L'autostima è necessaria nella condotta assertiva, poiché chi si vuole

bene si relaziona in maniera adeguata con gli altri, mentre il pensare di

non valer nulla impedisce un buon dialogo con se stessi, finendo così per

comportarsi in maniera passiva o aggressiva.

Nella comunicazione, le persone

assertive fanno spesso uso dei

pronomi personali e di verbi incisivi

(evitando invece un utilizzo smodato

di "devo" o "dovrei"), non provano

difficoltà a manifestare il proprio

disappunto verso l'interlocutore e

non mascherano le proprie emozioni.

Inoltre tra comunicazione verbale e corporea non c'è incongruenza, ossia

ciò che viene detto a parole è anche quello che viene detto con il corpo.

Pare evidente che, così realizzata, la comunicazione si rivela autentica,

franca.

Essenziale a tal fine è la capacità di ascolto: mentre la persona

aggressiva giudica e critica e quella passiva è eccessivamente

accondiscendente, quella assertiva è aperta e dà la giusta considerazione

a colui che sta parlando. Per far questo, si serve di "messaggi di

ricezione" di ciò che viene detto, parafrasando quello che le viene

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comunicato e sintetizzando ciò di cui si sta discutendo. Altro elemento

indispensabile è l'empatia, ossia il riuscire a cogliere la prospettiva

dell'interlocutore assumendone il punto di vista.

Alcune delle cause che non permettono

lo sviluppo di una condotta assertiva

possono essere:

1. il cattivo apprendimento di

comportamenti per eventuali condotte

non virtuose delle figure familiari;

2. delle esperienze negative che hanno generato ansia;

3. un'educazione troppo rigida che non valorizza la persona e che non

le insegna quali sono i suoi diritti;

4. le convinzioni disfunzionali e i pensieri irrazionali.

5. il radicamento nei propri orizzonti soggettivi con conseguente

occlusione di vedute molteplici;

L'allenamento assertivo potenzia la capacità di produrre stimoli non

verbali. Le principali capacità relazionali non verbali sono:

1. sincronizzazione;

2. aspetto fisico;

3. osservazione;

4. contatto oculare;

5. mimica facciale;

6. spazio sociale;

7. tono della voce;

8. gestualità.

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Una buona sincronizzazione implica una vivace sensibilità percettiva non

verbale: la selezione degli eventi segue la valutazione e l'analisi della

realtà.

L'aspetto fisico comunica qualcosa di noi e quindi è necessario aver

presente quali accorgimenti utilizzare in tale ambito. Esso è

particolarmente importante poiché un modo adeguato di presentarsi e

comunicare prevede la capacità di saper indossare l'abito adatto, di non

essere eccentrici nel vestirsi oppure trasandati.

L'an-assertivo ha generalmente un'eccessiva preoccupazione centrata su

se stesso, di sé di fronte al problema. È dunque chiara l'importanza di

affinare la capacità di osservare per far comprendere al soggetto di non

essere solo osservato ma anche osservatore.

Di massima importanza è altresì il contatto oculare poiché chi osserva

l'altro ha un'adeguata percezione della realtà e demolisce eventuali idee

infondate. Mentre con l'assenza del contatto visivo si ha una tendenza

alla fuga e all'evitamento,

con il contatto visivo si

dimostra una buona

comunicazione, quindi esso è

condotta ottimale nelle

relazioni.

Una mimica facciale deve

invece comprendere che ciò

che si comunica a parole sia

quello che si esprime a gesti: un'eventuale contraddizione crea malintesi

e ambiguità.

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Esiste poi uno spazio sociale per il quale le persone non in maniera

casuale si pongono di fronte all'interlocutore. La persona passiva assume

atteggiamenti di chiusura mentre la persona aggressiva comunica

invasione e scompostezza. L'assertivo invece, con la sua postura,

dimostra interesse, partecipazione. La direzione del corpo deve essere

orientata verso l'interlocutore, mentre sovente una persona timida è

orientata verso la fuga e quella aggressiva verso la dominazione. Legato

allo spazio sociale c'è la visibilità sociale: mentre il timido si mimetizza

ed è timoroso (e dunque è periferico), l'aggressivo dimostra esuberanza

dell'azione e il tono della voce è alto. L'assertivo sa scegliere se sedersi

in prima fila, sa scegliere dove collocarsi in maniera serena.

Elemento comunicativo molto espressivo è la voce: in questo caso la

persona assertiva ha ricchezza di toni, modulazioni ed è un bravo

oratore, evitando le frequenze elevate. Mentre la persona passiva

modula la voce abbassando l'intensità e la frequenza e riduce la velocità

dell'eloquio. Infine le parole sono rafforzate dalla gestualità: la persona

passiva risulta carente nell'usare la gestualità e quella aggressiva

irrompe con eccessiva vistosità e ampiezza. La persona assertiva

dimostra invece di saper utilizzare la gestualità in maniera corretta,

arricchendo così la conversazione.

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I PARENTI E I CAREGIVERS

L'invecchiamento è una tappa della

vita che richiede l'accettazione dei

cambiamenti di diversi aspetti della

propria esistenza. È una fase della

vita che mette in gioco non solo

dinamiche profondamente intime e

personali di chi sta affrontando

questo processo, ma anche

dinamiche relazionali che

coinvolgono in particolare l'ambiente familiare. Spesso l'insorgere della

malattia è l'evento che segna nel modo più evidente il processo di

invecchiamento. In particolare le forme patologiche che inducono una

progressiva riduzione delle abilità e dell'autonomia personale, come le

demenze, portano ad una trasformazione radicale delle condizioni di vita

sia a livello pratico-comportamentale che affettivo-relazionale.

I cambiamenti che i

famigliari devono adottare

di fronte all'evento

malattia sono molti:

entrano in gioco

cambiamenti organizzativi

riguardo il tempo da

dedicare alla

sorveglianza, alla cura, alla conciliazione con gli altri impegni lavorativi e

relazionali; cambia la gestione dei rapporti sociali extrafamiliari, per cui

spesso vi è una tormentosa preoccupazione riguardo cosa potrebbe dire

la gente dei comportamenti del malato, vi è il disagio di come gestirlo

qualora si agiti negli spazi aperti o troppo affollati. È molto comune

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inoltre l'esperienza di un ribaltamento dei ruoli che da sempre

caratterizzavano la struttura familiare: succede cosi che il malato, un

tempo genitore capace di cure e di sostegno, diviene "bimbo" bisognoso

di cura e di tanta attenzione, ed è cosi che i figli, o il coniuge, sentono il

dolore della rinuncia dell'identità del proprio caro e devono far leva su

tutte le proprie capacità di far fronte al cambiamento.

Entrano in gioco fattori psicologici del familiare che è chiamato a gestire

la sofferenza legata alla sensazione di perdita e di impotenza e l'ansia

legata alla difficoltà di capire cosa sta succedendo a quella persona che

magari fino a poco tempo prima rappresentava il "pilastro" affettivo e

relazionale della famiglia stessa.

La negazione

Di fronte alla malattia una delle prime più comuni reazioni umane è la

negazione, cioè il rifiuto di credere vero ciò che sta accadendo al malato

e, di riflesso, a noi. Si tratta di reazioni del tutto normali. Sono delle

difese utilizzate dalla nostra psiche che vengono attivate per un tempo

più o meno lungo allo scopo di mantenere l'equilibrio personale: è come

se la nostra mente prendesse le distanze dalla gravità della malattia

concedendosi del tempo prima di affrontare la realtà e tutto il dolore che

porta con sè.

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Le fasi di accettazione

Elisabeth Kübler-Ross (Zurigo, 8 luglio

1926 – Scottsdale, 24 agosto 2004) è

stata una psichiatra svizzera.

Il suo modello a cinque fasi, elaborato

nel 1970, rappresenta uno strumento

che permette di capire le dinamiche

mentali più frequenti della persona a cui

è stata diagnosticata una malattia

terminale, ma gli psicoterapeuti hanno

constatato che esso è valido anche ogni

volta che ci sia da elaborare un lutto solo

affettivo e/o ideologico.

Nel nostro contesto, a volte, l’inserimento di una persona cara in un

contesto assistenziale come una casa di riposo può essere equiparato ad

un “lutto affettivo”.

Ecco perché può essere molto utile conoscere queste fasi, con il fine di

poter stabilire una relazione basata sull’empatia e l’accettazione.

Da sottolineare che si tratta di un modello a fasi, e non a stadi, per cui le

fasi possono anche alternarsi, presentarsi più volte nel corso del tempo,

con diversa intensità, e senza un preciso ordine, dato che le emozioni

non seguono regole particolari, ma anzi come si manifestano, così

svaniscono, magari miste e sovrapposte.

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Di seguito le fasi:

1. Fase della negazione o del rifiuto

2. Fase della rabbia

3. Fase della contrattazione o del patteggiamento

4. Fase della depressione

5. Fase dell’accettazione

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APPUNTI

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