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L’ITALIA PRESA SUL SERIO 197 Un caso non troppo limite. La parabola di un quartiere disagiato nella zona di Ottavia, dagli anni Ottanta agli attuali tentativi di recupero. Il residence Bastogi e la sua umanità. ‘Mors tua vita mea’. Il dramma delle ragazze madri. PERIFERIE ALLA ROMANA: QUARTACCIO E DINTORNI di Cecilia TOSI Q UAL È IL QUARTIERE DOVE SI VIVE peggio a Roma? Ho posto questa domanda a un funzionario del Comune. «Provi ad andare al Quartaccio, in fondo alla Boccea, vicino a Torrevecchia», la risposta. Sono andata, ed ecco cosa ho visto. Il cuore del Quartaccio è un piccolo complesso di case basse a mattoncini di- sposte su due lunghe file parallele. Nel mezzo, tra i due «binari», un’area pedonale pavimentata unisce i dirimpettai in un’unica unità abitativa, stretta tra via Flaubert e via Andersen. Via Flaubert è una via di grande scorrimento. Via Andersen, invece, si affaccia su un pendio scosceso ed erboso, uno sprazzo di quella campagna che a Roma fa capolino anche tra i quartieri più centrali. La doppia fila di case si inter- rompe per fare spazio ad una piazzetta, costruita recentemente per dare un sagra- to all’altrettanto recente chiesa. Dall’altra parte della piazza ci sono quattro o cin- que fondi, uno dei quali occupato da un forno. Poi le case ricominciano, ma dopo pochi metri le due file si divaricano per ospitare un piccolo parco giochi. È un classico esperimento di edilizia popolare, un tentativo di ricostruire l’at- mosfera familiare del paesello, tanti piccoli appartamenti affacciati su spazi comu- ni. A vederlo da fuori non sembra neanche male, specie rispetto ai palazzoni, mol- to più imponenti e freddi, che costeggiano il resto di via Flaubert. Certo che a cam- minare qui intorno, le poche persone che incontri ti guardano in modo sospettoso, poco ospitale, per usare un eufemismo. D’altronde che ci vieni a fare qui, se non ci abiti? Puoi sfrecciare con la macchina verso Torrevecchia, o al massimo parcheg- giare davanti al forno per comprare il pane. Ma gironzolare di domenica tra queste strade, non è proprio ameno. L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio. Italo Calvino, Le città invisibili 197-204 Lim 2-06 tosi 30-03-2006 15:00 Pagina 197

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Articolo pubblicato in Limes 2/2006 L'Italia presa sul serio e pubblicato su Limes on line http://temi.repubblica.it/limes/ il 23 gennaio 2009

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L’ITALIA PRESA SUL SERIO

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Un caso non troppo limite. La parabola di un quartieredisagiato nella zona di Ottavia, dagli anni Ottanta agli attualitentativi di recupero. Il residence Bastogi e la sua umanità.‘Mors tua vita mea’. Il dramma delle ragazze madri.

PERIFERIE ALLA ROMANA:QUARTACCIO E DINTORNI di Cecilia TOSI

QUAL È IL QUARTIERE DOVE SI VIVE

peggio a Roma? Ho posto questa domanda a un funzionario del Comune. «Proviad andare al Quartaccio, in fondo alla Boccea, vicino a Torrevecchia», la risposta.Sono andata, ed ecco cosa ho visto.

Il cuore del Quartaccio è un piccolo complesso di case basse a mattoncini di-sposte su due lunghe file parallele. Nel mezzo, tra i due «binari», un’area pedonalepavimentata unisce i dirimpettai in un’unica unità abitativa, stretta tra via Flaubert evia Andersen. Via Flaubert è una via di grande scorrimento. Via Andersen, invece,si affaccia su un pendio scosceso ed erboso, uno sprazzo di quella campagna chea Roma fa capolino anche tra i quartieri più centrali. La doppia fila di case si inter-rompe per fare spazio ad una piazzetta, costruita recentemente per dare un sagra-to all’altrettanto recente chiesa. Dall’altra parte della piazza ci sono quattro o cin-que fondi, uno dei quali occupato da un forno. Poi le case ricominciano, ma dopopochi metri le due file si divaricano per ospitare un piccolo parco giochi.

È un classico esperimento di edilizia popolare, un tentativo di ricostruire l’at-mosfera familiare del paesello, tanti piccoli appartamenti affacciati su spazi comu-ni. A vederlo da fuori non sembra neanche male, specie rispetto ai palazzoni, mol-to più imponenti e freddi, che costeggiano il resto di via Flaubert. Certo che a cam-minare qui intorno, le poche persone che incontri ti guardano in modo sospettoso,poco ospitale, per usare un eufemismo. D’altronde che ci vieni a fare qui, se nonci abiti? Puoi sfrecciare con la macchina verso Torrevecchia, o al massimo parcheg-giare davanti al forno per comprare il pane. Ma gironzolare di domenica tra questestrade, non è proprio ameno.

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui,l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non

soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di nonvederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper

riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.Italo Calvino, Le città invisibili

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Siccome però di zone bruttine è pieno il mondo, c’è da chiedersi cosa ci sia ditanto brutto qui rispetto al resto di Roma. Da dove viene la cattiva fama che i ra-gazzi del Quartaccio si portano dietro quando vanno alle scuole medie – che a dif-ferenza delle elementari sono fuori dal quartiere – tanto che le maestre affidano lo-ro un insegnante di sostegno appena sanno dove abitano?

I rappresentanti delle associazioni che lavorano in questa zona concordano:trattasi di fama immeritata. C’è stato qualche problema un po’ di anni fa, ma ades-so tutte le situazioni sono sanate, le famiglie che vivono qui sono tranquille, i pre-giudizi continuano ad accompagnarci perché il quartiere ormai è etichettato, e i ra-gazzi lo sentono, sono irrequieti, e quindi non si fanno benvolere. Ma cosa è statosanato? Le occupazioni, naturalmente.

La ‘normalizzazione’

Sono migliaia le case a Roma che sono state occupate abusivamente. Soprat-tutto nei favolosi anni Ottanta. L’incremento demografico sopravanzava le capacitàassistenziali del Comune e i magnati dell’edilizia facevano soldi a palate. Impararo-no, i gran signori, che costruire a singhiozzo fruttava anche di più, e cominciaronoa lasciare i cantieri a metà, in attesa di altri soldi per completare l’opera. A qualcu-no riuscì di drenare le risorse pubbliche. Ad altri meno. Nei lunghi periodi in cui leabitazioni quasi finite rimanevano abbandonate a se stesse, in attesa della nominadi un assessore più compiacente o di una delibera ad hoc, qualcuno pensò che untetto bucato era meglio di un ponte, e le occupò. Erano e sono centinaia le perso-ne in lista per l’assegnazione di un alloggio popolare. Alcune marcivano in mac-china, altre nei rifugi ricavati nei luoghi più impensabili: dentro fontanili; nei cuni-coli di aerazione dei sottopassaggi; sulle banchine del Tevere.

Nel 1988 il comitato Lotta per la casa mise insieme qualche centinaio di sfratta-ti ed occupò il Quartaccio. Per anni i nuovi inquilini svolsero inusuali compiti disorveglianza: per sventare il pericolo degli sgomberi era necessaria la collaborazio-ne di tutti, bisognava fare la guardia alle palazzine di notte, controllare il passaggiodi estranei, fare il palo di fronte al commissariato per avvertire i compagni in tem-po. I rappresentanti di Vivere Quartaccio sostengono che quest’esperienza ha ce-mentato i legami all’interno della comunità, l’ha resa solidale e compatta, prova vi-vente di un successo esemplare. Chi vive fuori dal Quartaccio non è molto incline,però, a valutare positivamente un’azione illegale condotta da un gruppo di disoc-cupati, senzatetto, sfrattati… E poi cosa ci si può aspettare da un gruppo di fami-glie disagiate che si concentrano in un piccolo complesso residenziale isolato,scollato dal resto del quartiere, dove si sa che la condizione degli alloggi è fati-scente, le fogne non funzionano, i servizi non ci sono? La struttura del quartierecerto non spinge i suoi abitanti ad uscire, ad integrarsi: le case condividono unospazio chiuso che sembra nato per ghettizzare e creare un luogo incontrollabiledall’esterno. Una tana.

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Gli abusivi, però, sostengono di essersi rimboccati le maniche e di essersi co-struiti bagni, allacci alla corrente, tutto il necessario per rendere abitabili i piccoliappartamenti. Hanno lavorato talmente bene, in tale sintonia, che l’occupazioneha retto per tutti questi anni. Il Comune, alla fine, ha preso atto della situazione, re-golarizzando la posizione della maggior parte degli occupanti. Gli abusivi rimasti,coloro che non sono in grado di presentare documenti che soddisfino i criteri perl’assegnazione di alloggi popolari, sono pochi. Sopravvive però la consuetudine di«vendersi l’occupazione»: chi lascia l’appartamento, pur non avendo alcun dirittosull’immobile, vende a chi ne ha bisogno il permesso di insediarsi. Un po’ come adun’asta, chi offre di più si guadagna il posto, assolutamente illegittimo, natural-mente: soltanto la comunità che abita la palazzina riconosce la legittimità del su-bentro. Eppure al Quartaccio si può arrivare a pagare fino a 30 mila euro per com-prarsi un’occupazione.

Le rivendicazioni dei rappresentanti di quartiere negli anni Novanta hannoprodotto alcuni significativi miglioramenti: nel 1992 l’Atac si è decisa a fornire unalinea di autobus, la 996, per collegare il Quartaccio a Boccea (e quindi al resto del-la città); nel 1999 l’Ama ha collaborato con i residenti per ripulire gli spazi aperti; ilparco giochi, un fazzoletto di terra con due altalene («ma ai bambini piace tanto») èstato piantonato, per evitare che drogati e teppisti lo rendessero inagibile, ed è sta-to restituito alla comunità.

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Ma la vera «normalizzazione» del quartiere è giunta poco più di un anno fa.Prima, in via Flaubert, negozi non ce n’erano. Adesso ce ne sono quattro. Al 996 siè aggiunta la linea il 916, che arriva diretta fino al centro. C’è una chiesa che primanon c’era e non c’è più la «bisca», che prima c’era. Era un bar, ma qui la chiamanobisca, uno di quei posti dai quali i genitori ti tengono lontana, ma poi te ne accorgianche da sola, «è un postaccio, stai attenta». I carabinieri dicono che quando c’erada arrestare qualcuno al Quartaccio, la notizia arrivava velocemente e il ricercato sinascondeva qui, nella bisca, un posto considerato «impenetrabile». Ma ora la biscaha chiuso, il proprietario è stato arrestato.

È successo che è nata la Torresina. A due passi da qui hanno costruito unnuovo complesso residenziale dove si sono riversati centinaia di romani, piccoli emedi borghesi in fuga dai prezzi scandalosi delle case più centrali (nonostanteVeltroni e l’Auditorium, non tutti i romani possono darsi alla movida del centroquando un appartamento costa più di un panfilo). E con tutta questa gente nuovale cose sono cambiate: via Andersen è diventata una strada di collegamento, le co-de di automobili puzzano ma portano gente, e fanno aprire pizzerie; l’insediamen-to di tante famiglie di estrazione sociale più alta ha portato servizi e attenzione,che si traducono in centri commerciali e in una maggiore presenza delle forze del-l’ordine. La sensazione di chi abita da queste parti, adesso, è quella di vivere in unquartiere un po’ più rispettabile e un po’ meno abbandonato, dove forse chi hapochi mezzi e qualche problema di adattamento ha diritto anche a mescolarsi conpersone diverse.

I ragazzi, qui, fanno ancora fatica a finire la scuola, anche se a sedici annispesso riescono a prendere la terza media al centro territoriale permanente, che alcontrario delle medie statali è all’interno del quartiere. Da un piccolo questionariocondotto dalle associazioni di quartiere risulta che solo il 12% degli intervistati haun diploma e nessuno una laurea. La disoccupazione è altissima, il clima che si re-spira è quello che qualcuno chiama di «precariato esistenziale» e uscire dalla comu-nità di riferimento, la famiglia e gli amici del quartiere, fa paura. C’è il lato positivo:si può contare su un senso di appartenenza e sulla vita di comunità, nella qualespesso le famiglie si aiutano tra loro per l’assistenza minima e le associazioni di vo-lontariato coinvolgono i cittadini nella progettazione partecipata e nella riqualifica-zione dei propri spazi. Nello stesso tempo, però, la famiglia e il quartiere vannostretti, finiscono per soffocare. Tanto che la maggior parte degli interventi delleforze dell’ordine riguardano liti familiari o tra vicini che degenerano in violenza.Gli arresti per droga, invece, sono diminuiti. Forse anche perché, come testimonia-no alcuni residenti, c’ha pensato la comunità stessa a far fuori chi aveva in mano ilgiro più consistente. Qualche anno fa, raccontano, c’era una famiglia al Quartaccioche controllava una rete di spaccio su larga scala: i residenti non hanno retto, forseperché era troppo pericoloso o perché attirava troppo l’attenzione, fatto sta cheuna riunione di quartiere ha sancito la «non desiderabilità» di quelle persone. Cheinfatti sono sparite.

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Bastogi

Il caso Quartaccio si iscrive in una realtà molto variegata, quella di Ottavia,una periferia che è segnata da tanti luoghi di disagio. Tra un complesso residenzia-le e un altro si nascondono vie e palazzi da cui i romani preferiscono stare alla lar-ga, dove la povertà è regola e il degrado avanza. Di droga ce n’è, ma gli arresti piùimportanti, legati quasi sempre alla cocaina, colpiscono i personaggi più insospet-tabili: impiegati, funzionari.

In alcuni di questi luoghi poliziotti e carabinieri vengono accolti da sassaiole,il trattamento peggiore è riservato ai «forestieri», alle forze dell’ordine che arrivanoda un altro commissariato o un altro quartiere. Con gli agenti della propria zona,invece, qualche pregiudicato ha una sorta di confidenza, che consente addiritturaqualche battuta cameratesca al momento dell’arresto.

Su quale sia il posto peggiore, ognuno ha la sua opinione: vai in via Sfondrali!Dovresti farti un giro a San Basilio! Altro che Quartaccio, due strade più in là c’è unpalazzo allo sfascio, lo chiamano Bastogi 2. Ma se c’è un Bastogi 2 ci sarà un Ba-stogi 1.

Il Residence Bastogi è famoso. Non solo a Roma. Qualche anno fa Raitre hadeciso di girare un documentario proprio qui, per raccontare le periferie. Si trovain via Don Gnocchi, una delle ultime traverse della Boccea prima del Raccordo, eda più di vent’anni ci vivono circa 1.500 persone. Col Quartaccio qualcosa in co-mune c’è: i ragazzi di Bastogi e quelli di via Andersen spesso vanno alla stessascuola media, e insieme vengono additati dai professori come teppisti e sbandati.Tra loro si rispettano, riconoscono subito di avere a che fare con un proprio simile,più duro e meno bimbo degli altri compagni di classe.

Il perché della fama del Residence Bastogi sta tutto nel suo nome: Residence si-gnifica alloggio temporaneo, Bastogi è il nome dell’impresa che iniziò a costruirlo eche mai lo finì. Anche qui tutto è cominciato negli anni Ottanta. Qualcuno a Romasi inventò un nuovo polo residenziale, ma solo per forestieri di passaggio, un ma-gnete per attrarre persone e spremerle di corsa prima che prendessero il volo. L’a-rea in fondo alla Boccea era ancora dominata dalla campagna e non era troppo di-stante da Fiumicino. In più, era appena stato chiuso l’ospedale psichiatrico di Cata-letto, e si pensava di farne un centro universitario. L’idea era questa: se il manico-mio diventa università, ci costruiamo accanto un blocco di residenze temporanee,che servono sia ai professori, sia agli studenti, sia ai clienti dell’aeroporto. Costruia-mo un nonluogo puro, un agglomerato di vite in transito, in un posto lontano dainegozi, senza collegamenti col resto della città, un’appendice conclusa in se stessa.L’azienda Bastogi penserà a tutto: sei palazzine, solo monolocali di trenta metri qua-dri con bagno. Al centro del complesso sette o otto fondi, destinati ad ospitare ne-gozi ad hoc, dove gli ospiti potranno approvvigionarsi di beni primari senza doveruscire dal muro di cinta. Perché le sei palazzine sono recintate, garantite, protette.

E invece il progetto non va. Passa un anno o due, il complesso è stato messo inpiedi ma l’università non si fa più, il polo costa troppo o forse era una sciocchezza

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dall’inizio visto che la strada per Fiumicino non è affatto agile («c’è un budello cheblocca tutto»). Al Residence Bastogi si fermano i lavori. La costruzione viene lasciataa metà: impianto fognario non terminato, ascensori non funzionanti, rifiniture inter-ne nemmeno iniziate. Il Comune non ha più soldi da spendere. Ed è allora che sidiffonde il passaparola: lassù in cima alla Boccea c’è una bella area verde un po’appartata, anzi proprio isolata, piena di case. Tutte vuote. È un peccato, no?

Così è nato il Residence Bastogi di oggi, sei palazzi marroni a quattro pianidalle terrazzine tondeggianti, sei opere incompiute occupate da sfrattati e senzatet-to negli anni Ottanta. Accanto al Residence, sempre in via Don Gnocchi, ci sonoaltre case popolari, un po’ meno decadenti e, soprattutto, più rispettabili, visto chetutti gli appartamenti sono stati assegnati a chi ha dimostrato di averne diritto. An-che queste palazzine, però, non devono avere una gran fama, se da queste parti lechiamano Bronx. Eppure il Bronx ha paura di Bastogi. I ragazzi del Residence ven-gono accusati di aver più volte lanciato insulti e sassi verso questi palazzi, e anchedi aver distrutto alcune automobili.

Per entrare a Bastogi bisogna arrivare in fondo alla via, in cima al colle dove ècostruita tutta la struttura. Di fronte all’ingresso del Residence c’è un parcheggiovuoto (se si eccettua una roulotte di sfrattati) che da poco tempo è diventato luogodi transito per gli automobilisti in cerca di una scorciatoia per raggiungere il centrocommerciale sottostante. Ma tranne le poche auto che passano attraverso il par-cheggio a tutta velocità e scendono giù su una strada che le cartine nemmeno ri-portano, nessuno passa di qui. C’è silenzio e c’è verde intorno. Anche per questogli abitanti di Bastogi non se ne vogliono andare.

Superato l’ingresso, sulla sinistra, c’è la palazzina C, seguita dalla B e dalla A.Insieme formano un piccolo semicerchio. Le altre tre palazzine, E, F e G, spuntanodietro le sei casupole vuote che stanno al centro del complesso, magazzini abban-donati con le saracinesche sbarrate. Sono i fondi che formano il lotto D, struttureche finora nessuno ha mai utilizzato, ma che adesso sono state acquistate da unprivato, pare, per aprirci dei negozi. Ma gli stessi residenti si chiedono, scettici: eche ci vengono a fare qui? Non ci sono manco le fogne! Chi è tanto matto (o delin-quente) da investire a Bastogi?

Qualche anno fa a largo Verzeri, subito prima del Bronx, era stato aperto unsupermercato. Gli abitanti di Bastogi entravano, riempivano il carrello di merce, eduscivano senza pagare. «Era la prassi», dice uno del Residence, «anche se a me, unavolta, è capitato di pagare». Tanto che, a un certo punto, anche le cassiere hannoadottato questo metodo low cost per fare la spesa. Nel loro supermercato. Che ov-viamente è stato costretto a chiudere. Accanto al supermercato c’era anche un bar,che doveva essere proprio come la bisca del Quartaccio. La polizia l’ha chiuso.

E adesso, ci si chiede a quale mercato voglia rivolgersi il misterioso imprendi-tore che ha comprato il lotto D. A Bastogi il 90% degli abitanti è ufficialmente di-soccupato. In realtà molti degli inquilini lavorano, ma al nero e saltuariamente. Cisono tanti giovani, capelli rasati, cellulare ultimo modello e lo sguardo vispo di chiti abbindola in mezzo minuto. Fanno i muratori, i manovali, «io lavoro nei contro-

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soffitti». Si lavora quando c’è una commissione, un amico che ti chiama per farsidare una mano, o l’operatore sociale che ti trova un impiego per qualche giorno. Igiovani spesso lavorano solo se ci sono tanti soldi da guadagnare. Se la posta inballo è bassa non vale la pena, anche se l’alternativa è non far niente e stare a Ba-stogi tutto il giorno. Ti alzi verso le 12, mangi, fai un giro in motorino, stai un po’con la ragazza, il tempo passa in fretta. Anche se non ti muovi da lì.

Bastogi è in stand-by da vent’anni e i suoi abitanti sembrano assuefatti all’im-mobilismo. Famiglie di quattro, cinque persone continuano a vivere in una stanzadi 25-30 metri quadri, a scolare la pasta nel lavandino del bagno, a campare senzaaspettative. Per accedere agli appartamenti si passa attraverso corridoi lunghissimie abbandonati a se stessi, che danno l’impressione di essere in una brutta scuola, oaddirittura in un carcere. Ai due lati del corridoio le porte sono sottili, di compen-sato, spesso scassate, bucate, a volte addirittura chiuse con la catena della biciclet-ta. Su una porta c’è attaccato un foglietto: «Per il controllo bussare forte». Qualcu-no, là dentro, è agli arresti domiciliari. Non è una rarità, qua di pregiudicati ce nesono parecchi. E il capo di imputazione più frequente è rapina. Le attività criminalidentro Bastogi, lo spaccio, ad esempio, non sembrano prosperare. Fuori, invece, siva spesso a rubare: supermercati, negozi, raramente banche. Prima era diverso:negli anni Ottanta la cocaina scorreva a fiumi e si racconta di vip che salivano finquassù per fare la scorta. Adesso no, anche perché di arresti ce ne sono stati parec-chi (merito di un certo «maresciallo Rambo», dice qualcuno). Ma le rapine, fuori daBastogi, continuano. Ci sono un sacco di posti dove andare a rubare: a Ponte Mil-vio, ad esempio, da quando c’è il traforo della Trionfale ci si arriva benissimo, e siscappa in un attimo, via verso il Residence. Ma non si è mai al sicuro, dopo una ra-pina la polizia viene sempre qua a cercare il responsabile e qualche volta, diconoda queste parti, ci va di mezzo un innocente, solo perché sta antipatico a qualcu-no. Ci vuol poco ad «accollare» un furto ad un pregiudicato.

Scontata la pena, si torna a Bastogi. C’è chi attacca svastiche alle pareti, chi vaa fare il tifo allo stadio, ma nessuno qui fa parte di un gruppo organizzato. «Siamoquattro, cinque amici, facciamo le cose per conto nostro». Ognuno per conto suo.In questo Residence non c’è traccia della solidarietà di cui parlavano i residenti delQuartaccio. Nessuno si fida di nessuno. Anche se tutti si conoscono, proprio per-ché tutti si conoscono, chi sta a Bastogi sa che non può far affidamento sul vicino,perché è amico finché ha bisogno di te e dei tuoi soldi, e ti abbandona quando seitu ad avere bisogno. Le donne specialmente, sembrano le più scoraggiate. Spessoragazze madri, come in tutte le periferie del mondo. Si chiudono in casa, non vo-gliono vedere nessuno. «Qua dentro, appena possono ti fregano. Vorrei potermeneandare per non far crescere mio figlio in questo posto. Se stai qui non hai speran-za, i bambini di Bastogi rimangono a Bastogi, come fanno a fare altre amicizie se lamamme dei loro compagni di classe hanno paura di loro e si rifiutano persino dimandare i loro figli al Residence?».

La sfiducia e lo scoraggiamento aleggiano nell’aria. Chi ha cercato di combat-tere per una Bastogi migliore ha perso e ha rinunciato. Attualmente il Comune di

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Roma stabilisce che tutte le strutture di assistenza alloggiativa temporanea dovran-no cedere il posto a veri e propri alloggi popolari. Ma le sei palazzine di Bastoginon verranno ricostruite o restaurate. Soluzione all’italiana: chi certifica di non ave-re reddito sufficiente per trovare un’altra soluzione abitativa può rimanere al Resi-dence e usufruire del cosiddetto allargamento. Si possono unire, cioè, due mini-appartamenti, acquisendo i diritti sull’alloggio del vicino, ancora occupante abusi-vo. Mors tua vita mea. Chi è stato sfrattato sostiene che gli allargamenti vengonoconcessi solo ai raccomandati o a chi si può permettere di pagare mazzette. E nelfrattempo continua il mercato della vendita di occupazioni: qui, però, un miniap-partamento non vale più di 10 mila euro.

Nel 2004 il sindaco Veltroni dichiarava ai giornalisti che una serie di sgomberimirati avrebbe portato al recupero totale di Bastogi, che sarebbe stato restituitoagli assegnatari e alla legalità. Alcuni sgomberi sono stati eclatanti: due anni fa lapolizia ha mandato via una numerosissima famiglia di zingari, detestata dalla mag-gior parte dei vicini, che aveva occupato il piano terra della palazzina A, la più de-gradata. Sembra che il caos, la sporcizia e i rottami fossero intollerabili. Le stanzedove abitavano, adesso, sono state cementate con enormi lastroni. Irrecuperabili.

Le forze dell’ordine hanno ormai una visione abbastanza chiara della situazio-ne interna, conoscono la maggior parte dei residenti e la loro posizione all’internodel Residence. Ma il recupero di Bastogi è in alto mare. Adesso, anzi, c’è l’abban-dono più totale. I sussidi per ragazze madri e disoccupati scarseggiano e molti nonriescono ad aggiudicarseli. I tentativi per dare una rappresentanza agli inquilini so-no falliti, i rappresentanti di palazzina non vanno d’accordo tra loro, all’ingressodella palazzina E c’è ancora un cartello con su scritto il numero del Comitato diquartiere, ma il fondatore del Comitato non ha mai avuto un grosso seguito, moltilo considerano un tipo losco, dalle strane frequentazioni.

Nella palazzina B c’è l’unica rappresentanza istituzionale presente a Bastogi:due giovani suore. Non vogliono che si parli di loro, stanno qui perché lo hannoscelto, e anche se nessuno va a pregare nella loro chiesetta, resistono.

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