#18-19 marzo-aprile 2012

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Anno II - Numero 18/19 - Marzo/Aprile 2012 andrew bird xiu xiu · stefano bollani · fine before you came · mark lanegan · cats on fire · uochi toki · eugène atget feedback

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Marzo-Aprile 2012

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Page 1: #18-19 Marzo-Aprile 2012

Anno II - Numero 18/19 - Marzo/Aprile 2012

feedback

andrew birdxiu xiu · stefano bollani · fine before you came · mark lanegan · cats on fire · uochi toki · eugène atget

feedback

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Andrew Birdthe noblest beast

artista del mese

Andrew Bird, violinista, chitarrista, mandolinista, paroliere ed eccelso fischiettatore di Chicago iniziò a suonare lo strumento che lo ha affiancato durante tutta la sua carriera all’età di quattro anni. In realtà il suo primo violino era formato da una scatola di crackers con attaccato un righello e la sua prima lezione del metodo Suzuki si risolse semplicemente con in inchino verso il maestro al quale subito seguì in ritorno a casa. Il musicista trascorse i suoi anni formativi imparando il repertorio classico completamente a orecchio, così quando arrivarono per lui l’adolescenza e il passaggio alla musica gitana ungherese, al jazz, al country blues e alla musica indiana questo non rappresentò per lui un gran problema. È logico quindi che, nonostante la sua formazione classica, abbia scelto di suonare il violino secondo uno stile non convenzionale, accompagnandosi con la chitarra e alternatamente cantando e fischiando, conquistandosi così la fama di cantautore di talento. Dall’inizio della sua carriera discografica Andrew Bird ha pubblicato tredici dischi: nove album registrati in studio, sia da solista che con il suo primo gruppo Andrew Bird’s Bowl of Fire e quattro album live. Anche se la sua voce è stata accostata a quella di Jeff Buckley, Thom Yorke e Rufus Wainwright, come questi artisti egli presenta un’impostazione vocale unica e particolare. In lui essa è accompagnata da una soprannaturale capacità di fischiettare, che lo rende in grado di aggiungere nuove sonorità inusuali, sonorità che sembrano uscite

da un Theremin naturale. Ma è nei live che l’artista diventa un tutt’uno con la sua musica. In un primo momento questo legame è solo un’attrazione curiosa, un uomo che da solo genera una ricchezza sonora normalmente prodotta da un’intera orchestra. Ogni serata le partiture delle canzoni sono costruite con violino, chitarra, metallofono che si intrecciano come rami di un albero sul tronco delle sonorità elettroniche e ogni notte l’insieme delle canzoni assume una forma unica e continua; Andrew Bird ricostruisce perfettamente la struttura di ogni canzone inserendola tenendo conto della performance nel suo complesso, ma allo stesso tempo si dedica anche all’improvvisazione. La sua prima band, Andrew Bird’s Bowl of Fire, ha registrato tre album per la Rykodisc tra il 1998 e il 2001: le sonorità jazz di Thrills da inizi del XX secolo e i toni folk li resero subito musicalmente interessanti; Oh! The Grandeur stupì con i suoi toni scuri e il sound da ballata gitana e The Swimming Hour fuse rock e soul in un mix che trova precedenti nei Beatles e nei Talking Heads, nel folk europeo e nel country blues (The Onion). Nel 2003 pubblicò da solista Weather Systems, pubblicato prima dalla Grimsey Records e successivamente ripreso dalla Righteous Babe in America e dalla Fargo in Europa. I critici di Magnet lo definirono “haunting, pastoral, magical” a causa della profondità sonora dell’album, delle interessanti sfumature e dei temi esistenziali trattati nei testi. Andrew Bird inoltre ha pubblicato quattro

album live: Fingerlings, Fingerlings 2, (avete indovinato) Fingerlings 3 e Live In Montreal, che documentano i suoi ultimi anni on the road attraverso varie interpretazioni di progetti work in progress, inediti, collaborazioni e versioni live delle canzoni registrate in studio. Quando fu scelto Fingerlings 2 come album del mese Mojo affermò che “Bird is simply incredible live”. Armato di violino, chitarra elettrica, metallofono e campionatore, Bird riesce ad ottenere quella rara ed irresistibile miscela di spontaneità e precisione. “Ogni notte,” dice Andrew, “sto riscrivendo tutte le mie canzoni per il pubblico”. Il disco del 2005 del polistrumentista, The Mysterious Production of Eggs, ha rappresentato per lui una grande svolta sia commercialmente che artisticamente, con le numerose lodi ricevute grazie alla varietà delle fonti e un drammatico aumento della partecipazione alle sue performance dal vivo, rendendo le previsioni del London Independent una realtà : “Bird could do for independent American music what Tarantino did for American cinema”. Quattro anni dopo uscì Noble Beast, album composto da 14 brani registrati principalmente alla Beech House di Nashville ed alcune registrazioni aggiuntive svolte in varie location tra Chicago e Minneapolis. Mentre Armchair Apocrypha era stato elegante e cavernoso, Noble Beast presenta sonorità più leggere, meno elaborate ma più autentiche. Inoltre, mentre la musica di Bird si era sempre distinta per la propria unicità, intrecciando violino e fischi ai testi efficacissimi, con questo album si introduce un nuovo elemento nella produzione dell’artista: il mistero. L’ultimo album, Break It Youself è fresco fresco d’uscita e testimonia ancora una volta il talento e l’espressività del polistrumentista. In questi anni ha impressionato i grandi pubblici dei festival di Bonnaroo, Lollapalooza, SXSW, Montreal Jazz Festival, Radio France, ed è comparso sulla BBC, nel “Morning Becomes Eclectic” della KCRW , e nel “World Cafe” e in “All Things Considered” di NPR. Tra le tante recensioni positive se ne annoverano su Magnet, Paste, The Onion, il Boston Globe, CMJ e PopMatters. Pitchfork lo descrive così: “I looked at my notes and next to ‘Skin Is, My,’ the only comment I had scrawled was ‘Wow!’ The same dumbfounded comment was chicken-scratched next to three other song titles. Fitting, as there’s no better word to describe Andrew Bird live”.

- zuma

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Avant-Rock

XIU XIU Always[Polyvinyl/Bella Union, 2012]

Electro-Pop

GRIMES Visions[4AD/Arbutus, 2012]

disco del mese - recensioni

Pretese Jazz

STEFANO BOLLANI TRIO Volare[Venus Records, 2012]

Folk

ANDREW BIRD Break It Yourself[Mom+Pop/Bella Union, 2012]

Mai giudicare un disco dalla copertina, rischi di rimanere deluso quando dai teschi e dalle fiamme spunta fuori una fiaba musicale che ha più melassa di una torta di compleanno. Non amo il dream-pop da sempre perchè prima di coinvolgermi spesso mi addormenta ma devo riconoscere che la giovane Claire Boucher, canadese di nascita, riesce a trascinarmi per buona parte del suo lavoro. Sarà per la voce angelica ed ultra rifinita, per le atmosfere ovattate e sognanti o per i continui richiami agli anni 80, ma il disco che ero pronto a cestinare non mi annoia affatto, mi diverto ad ascoltarlo e nonostante un po’ di sonnolenza sono soddisfatto quando dopo 50 minuti ritorno nel mondo reale. Tutto è realizzato con cura e nei minimi dettagli, grazie ad un grande lavoro di produzione e revisione ogni effetto, eco e rumore viene impacchettato e inserito perfettamente dentro una struttura electro-pop che calza a pennello con la carinissima artista dai capelli rosa ed i vestiti strambi che gira in mezzo alla gente “normale”. Sotto tutto questo strato di glassa però ciò che rimane è poco ed i dubbi sono molti: l’impressione è che il disco sia una grande montatura, un camuffamento indie per attirare i poco esigenti orecchi di chi preferisce seguire la moda del momento e farsi piacere tutto ciò che è strano; in fondo in fondo non c’è niente di speciale nelle 13 tracce di Visions e il sospetto di una

grande spinta dall’alto sminuisce il talento della lady Hipster canadese che dovrà migliorarsi e non di poco nel prossimo lavoro se vuole convincerci.

- w

In un certo senso, fa strano ritrovarsi nel 2012 a recensire un disco datato Luglio 2002, disponibile fino a pochi giorni fa solo in Giappone. Tutto incomincia a fare un po’ meno strano, però, se si ascolta Volare e ci si rende conto della bellezza senza tempo che contiene. Il progetto consiste nella riproposizione in chiave jazz e strumentale di alcuni classici intramontabili della canzone italiana, di quelli che ai BelPaesani over 50 fanno venire invariabilmente i lucciconi agli occhi La formazione già promette meraviglie: insieme a Bollani figurano il mostro sacro del basso Ares Tavolazzi (ex Area, tra l’altro) e un side-man di classe quale Walter Paoli alla batteria. Ovviamente il più in luce dei tre è l’istrionico pianista, che si riserva l’assolo più lungo ed elaborato in quasi tutti i pezzi: anche Ares però si riserva qualche chicca, come per esempio l’esposizione del tema “pizzicata” in Volare e in Anema e core. Non c’è il tempo di chiedersi se un progetto del genere abbia senso e sia artisticamente onesto: si viene letteralmente trascinati via, qualcuno dai ricordi, qualcun’altro dalla bellezza del fraseggio e del dialogo tra i

musicisti. Volare tocca i suoi momenti più alti in In cerca di te (all’inizio tesa e nervosa, pian piano sempre più dolce), Angela e Azzurro: glorificare qualche pezzo sopra un altro, però, vorrebbe dire essere irrispettosi dell’amore che tutti e tre i musicisti – si sente – nutrono per il bello e vasto mondo della canzone italiana. Volare preferiamo consegnarvelo con le mani giunte e in serenità, come un unico blocco di bellissimi e attualissimi ricordi, di sogni che forse non ritorneranno mai più.

- samgah

inizia inaspettatamente con il disperato appello di Desperation Breeds, “Beekeeper sing of your frustration /in this litigious breeze /of accidental pollination /in this era without bees /without bees, without bees”. A seguire abbiamo l’esotica Danse Caribe, ricordo di un’infanzia spensierata spazzata via dalle difficoltà e gli oneri dell’età adulta. Sulla stessa scia si muove la malinconica Give It Away, “Did you give it away for free? What would you have us pay? I didn’t know that your love was a commodity”. Eyeoneye rappresenta invece il coinvolgente manifesto dell’intero disco, il

Andrew Bird non delude mai ed anche questa volta ci regala un disco dai contenuti childish e nostalgici, ma narrati in modo così delicato e sereno da essere un perfetto sottofondo per queste dolci giornate primaverili. Il disco

Grande ritorno per questo Marzo musicale dalle mille sorprese, sua maestà Jamie Stewart è tornato sulle scene mondiali con la sua creatura sonora dai mille volti e dopo due anni da Dear God, I Hate Myself gli Xiu Xiu sembrano più in forma che mai. Il rischio più grande per una band come questa è quello di diventare noiosa e ripetitiva perchè ha fatto della improvvisazione e del free sound il suo cavallo di battaglia non riuscendo però mai a lasciare questa strada; così dopo sette album questo ottavo capitolo sembra aver trovato quello che tutti non avrebbero mai voluto sentire: la pace interiore. Sia chiaro che in questi 38 minuti di pace ce n’è assai poca, ma pervade il generale pensiero che con il ritorno del bassista Devin Hoff e un sostanziale calo di interesse per quella che era la band simbolo della nuova musica si sia fatto il più possibile per sviluppare nuove idee un po’ più accattivanti e meno selettive. Ci sarebbero a questo punto tutti i presupposti per poter dire che anche loro, come molti altri, sono caduti sotto le grinfie commerciali di un etichetta pretenziosa dal punto di vista delle vendite e meno interessata alle novità ma commettereste un grave errore tirando queste conclusioni; dal punto di vista sonoro ciò che appare più lampante non è il cambiamento ma la grande capacità della band di riuscire ad adattare e convertire le violente sferzate rumoristiche rendendole più easy listenining, senza perdere lo stile che li ha sempre caratterizzati. Difficile quindi riconoscerli in un genere musicale anche perchè ogni traccia

risuona diversa dalle altre, drum machine e suoni da videogame, shoegaze estremo accostato al synth-pop, campane e vetri sbatacchiati all’inverosimile fanno da cornice a lunghi assoli di chitarra che tutti i rumori fanno tranne che quelli delle corde; gli Xiu Xiu sono un performance continua che stanca non solo l’orecchio ma anche il fisico e nonostante questa finale maturazione riescono perfettamente a confonderti le idee. Stewart riesce a rinchiudere le sue follie avant-guardistiche in testi sempre più taglienti e aritmici (scritti con Carla Bozulich) che sferzano il sottofondo sonoro quasi sfidandolo e interpretando ogni singola parola come a teatro, tutte le liriche contengono storie di vita vicine al cantante che gli permettono di affrontare gli argomenti più disparati con la solita strafottenza di chi vede nell’orrido il sapore della vita e nel marcio una certa forma di sublime. Chi sicuramente non farà i salti di gioia per questo

sviluppo sono i vecchi fan legati alle performance hardcore e a quella completa riluttanza di Jamie per tutto ciò che è armonioso e conferisce tranquillità. Ma se da una parte c’è chi si lamenta, dall’altra qualcuno pensa che finalmente sia arrivato il momento di misurarsi con qualcosa di più impegnativo perchè le orgie sonore non danno, purtroppo, onore a chi le conduce. Un consiglio su tutti: andate ad un loro concerto e capirete.

- w

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Pop Queen

MADONNA MDNA[Universal, 2012]

Rap/Noise

UOCHI TOKI Idioti[La Tempesta, 2012]

Avant-Folk

ELFIN SADDLE Devastates[Constellation, 2012]

recensioni

Blues/Rock

MARK LANEGAN Blues Funeral[4AD, 2012]

Techno

VOICES FROM THE LAKE Voices From The Lake[Prologue, 2012]

messaggio è “break it yourself”, liberati del guscio e diventa fragile, ma non lasciare che siano gli altri a romperti. Lazy Protector è la struggente espressione di una visione del mondo pessimistica e decadente, nella quale “it’s all in the hands of a lazy projector that forgetting, embellishing, lying machine”. La melodia sognante di Near Death Experience Experience ci accompagna ancora una volta per la serena infanzia dell’artista e si rivela parallelamente un inno alla vita ed alla gioia, è un pezzo che crea un forte chiaro-scuro all’interno del disco. Il duetto di Lusitania rende il brano un coinvolgente dialogo di guerra e pace, le voci si intrecciano e si uniscono a creare un’armonia languida. Il ritmo incalzante di Orpheo Looks Back è reso irregolare e sconnesso dal violino, che si alterna tra nervosi arpeggi e note lunghe e ricorda le improvvisazioni alle quali l’artista si dedica durante i live. Break it Yourself non è solo un disco, è un viaggio all’interno dell’infanzia del violinista e che porta a far riaffiorare i dolci ricordi dell’infanzia di tutti gli ascoltatori.

- zuma

Elvis Presley piazzando il dodicesimo disco di fila in testa alle classifiche inglesi. Insomma, tra alti e bassi, la voglia di riciclarsi non si esaurisce mai. Poco importa se voi ve la ricordate ancora vestita da sposa, da cowgirl o saltellante in una tutina rosa cipria. Si apre quindi una nuova pagina musicale con rinnovate pretese di freschezza e originalità, il tutto supportato dal solito budget astronomico. E, siccome la prima cosa che risalta di un disco è il titolo, tanto vale cominciare a fare scalpore subito da quello. L’interpretazione è doppia: potete appoggiare la teoria del codice fiscale, ufficialmente sostenuta dalla cantante secondo cui “il titolo del mio album – dice strizzando un occhio ai giornalisti - è solo un anagramma”. Oppure, per i più maliziosi, c’è il gioco di parole con MDMA ovvero metilenediossimetanfetamina, il nome scientifico dell’Ecstasy. Che ce ne fosse davvero bisogno? Miss Ciccone non ha certo il tempo di chiederselo, è troppo impegnata a correre dietro agli ultimi trend, per giungere puntualmente in ritardo. Così arrivano a supporto i LMFAO e M.I.A., tanto per fare numero, insieme al dj Martin Solveig. Per non dimenticarsi poi dei cugini Benassi, che ormai sono un po’ una “gloria nazionale”, a cui sono affidati i due brani di punta del disco Girl Gone Wild e I’m Addicted. A Madonna, sperando che non smetta mai di farci ballare tutti, giro il consiglio spassionato di una mia cara amica che, osservando il suo ultimo videoclip, ha commentato: “Sai, credo che quella donna dovrebbe invecchiare più serenamente”.

-comyn

Lady Gaga che ti insidia, il botox che non basta mai e poi la pubblicità del tuo ultimo profumo, considerata troppo sexy per essere trasmessa in televisione. Non è facile essere Madonna anche se, a volte, ci sono quelle giornate in cui superi

Mark si è ritrovato a registrare con i suoi amici una serie di album tutti collegati di cui fa parte anche Blues funeral (uscito il 7 febbraio); di certo non sfonderà le classifiche, lui ne è consapevole, ma questo non è blues tradizionale. Per Lanegan il blues è Joy Division e Nick Drake, oltre a quello del delta del Mississippi.Inoltre Blues funeral è colmo di metafore bibliche, Mark ama leggere la Bibbia e il Corano e da lì coglie le metafore da inserire in seguito nelle sue canzoni.Questo è un disco ricco di ritmi e sonorità diverse, che si mescolano e richiamano le esperienze con Queens of the Stone Age, Twilight Singer, Alice in Chains, Soulsavers e Gutter Twins.Il primo singolo è stato The Gravedigger’s Song (la canzone del becchino) che è la prima traccia del disco. Segue la cupa Bleeding Muddy Water dove Mark evoca decine di artisti blues e richiama fin dal titolo il cantante/chitarrista Muddy Waters (se vi state chiedendo chi sia, è colui che ha dato il nome ai Rolling Stones). Con Gray Goes Black si sposta dallo stoner all’indie-rock, ma con Ode to Sad Disco si ritrova in piena new wave. La traccia che rispecchia al meglio l’album è St Louis Elegy (un chiaro riferimento a uno dei primi blues che risale al 1914, intitolato St. Louis da W.C. Handy)dove riesce a mescolare l’eleganza di Ennio Morricone al duro e secco desert rock.Lanegan, con la sua voce cupa e baritonale che percorre l’intero disco, ci trasporta, come Caronte trasporta le anime negli inferi, nella sua anima scura, accompagnati da un affascinante funerale blues.

- brizio

Dopo otto anni di silenzio dal successo Bubblegum e con ormai 47 anni sulle spalle torna Mark Lanegan, colui che ha superato l’era del grunge o meglio, l’ha reinterpretato nel la sua ultima fatica.

non riflettere, nessuno verrà a fartelo notare, ma avrai perso una partita con te stesso e la cosa non ti farà piacere. Nella dichiarazione d’intenti del duo piemontese, Idioti è un disco pop, ma non tanto nel suono, ancora più sperimentale e ricco di frequenze voluttuosamente elettroniche e noise (vedi gli americani Dälek), quanto nel significato, quello primario di popolare. È un disco che vuole invadere le abitudini, il senso comune, che penetra nella concezione del volgo per allargarla dall’interno. Lo fa sotto diversi punti di vista: musicalmente esplorando sempre di più la meccanica dei suoni, gli effetti vocali e la scomposizione robotica delle basi. Per quanto riguarda i testi, gli obiettivi presi di mira più volentieri sono il tema del gusto, come in Umami e Sberloni, e quello della lingua o della comunicazione, come nei giochi di parole di Perifrastica o Tigre contro tigre e nell’ironia provocatoria di La recensione di questo disco. La virata pop in senso musicale si attua ne La prima posizione della nostra classifica, “una scusa per poter usare la parola paradigma nel ritornello melodico”. Il senso della lezione però rimane questo: smontare, analizzare il senso comune e riconoscerlo come soggetto a evoluzioni e cambiamenti particolari, ragion per cui si è autorizzati ad ampliarlo e giocare a sconvolgerlo, in costante ascesa disco dopo disco.

- fp

Gli Uochi Toki sono di quelli che ti fregano, nel senso che ti costringono a riflettere e non per farti arrivare da qualche parte, ma solamente perché ti fanno notare che sei umano, e in quanto tale è inammissibile che tu non lo faccia. Se scegli di

tutto vocalizzi, drones e fischi chitarristici sembrava collaudata. Forse per qualcuno Devastates è soltanto la tutto sommato degna prosecuzione di una carriera mantenutasi su alti livelli: per quanto mi riguarda, l’ ascolto dell’ultimo progetto di Emi Honda e Jordan McKenzie non è né rivoluzionario né particolarmente godibile.Quel che non si può negare al duo canadese è di essere giunto a una propria forma artis ben definita: il sound è quello di un gruppo maturo, a conoscenza dei propri mezzi, i pezzi – tranne qualche eccezione (Chaos Hand) – si ripetono nella loro ossatura di base, a testimonianza di una sicurezza compositiva non certo da esordienti. A non andare, però, è proprio questa ossatura. Troppo spesso l’architettura sonora si rivela inconcludente, pura ripetizione di stilemi fini a se stessi perché mancanti di un collante emotivo: è questo il caso di Boats, The power and the wake, Invocation, facsimile di se stesse senza ragion d’essere. Per fortuna, a riprova del fatto che una certa ispirazione gli Elfin Saddle ancora la possiedono, non accade sempre questo: se la maggioranza dei minuti del disco scorrono via nella mediocrità, a salvare parzialmente il lotto intervengono tre o quattro momenti decisamente migliori: The changing wind, Koboho, In a blanket of leaves e The wind come carry (le prime due più decisamente orientate verso un immaginario nipponico o comunque orientale, le seconde tinte di suggestioni celtiche) impediscono di bocciare in toto Devastates, lasciandoci con un unico dubbio: non sarebbe stato meglio un EP?

- samgah

Prometteva bene, Devastates. Gli Elfin Saddle sono ormai il gruppo di punta della Constellation, il loro lavoro precedente (Ringing for the begin again) aveva ricevuto un plauso quasi unanime, la loro formula di weird-folk

Lontani dalla melma discografica italiana ed immuni alla crisi economica e musicale i due producers romani Donato Dozzy e Neel se ne vanno in Germania per bussare alla porta della Munich’s Prologue. Un Ep di lancio e poi l’esordio sulla lunga distanza nel Febbraio 2012 che li lancia nel panorama mondiale come nuovi scultori di elettronica, i due italianissimi si guadagnano le copertine dei più importanti siti musicali e ribadiscono, se ce ne fosse bisogno, che con un po’ di intuito e tanta dedizione di musica buona se ne trova a palate. Esperienza sonora spettacolare che riesce a riunire i beat energici della techno con le sonorità raffinate e sognanti della ambient più pura, questo disco prende influenze da tutto ciò che ci circonda e riesce a trasformare le diverse tracce in un tutt’uno di forma e rumore che si plasma nell’orecchio e inevitabilmente trascina la mente verso paesaggi incontaminati. Mai troppo sopra le righe anche quando mescola elementi tribali e galoppate house ed esageratamente dilatato nei trip cosmici finali, i ragazzi capitolini danno prova di

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Jazz

ESPERANZA SPALDING Radio Music Society[Heads Up Int., 2012]

Deep House Algida

NINA KRAVIZ Nina Kraviz[Rekids, 2012]

Folk-Pop

CATS ON FIRE All Blackshirts To Me[Soliti, 2012]

recensionigrande orecchio e ottima produzione lanciandosi in esercizi di mixxaggio non semplici ma ben riusciti. Siamo davanti ad una chicca di elettronica nostrana che ha il buon pregio di guardare avanti senza scordarsi di quanto di buono fatto nel passato, con un po’ di rammarico per non averli prodotti qui in patria l’unica cosa da fare è sperare nel loro brillante futuro e immaginarsi la faccia di chi forse li aveva scartati un po’ troppo presto.

- w

categoria “Best New Artist”, con grande disappunto dei fan di Justin Bieber). Questa ragazza di Portland (il suo albero genialogico vanta individui di ogni nazionalità) ha presentato il suo Radio Music Society al David Letterman Show, circondata da una turma di musicisti. Inconfondibile per i capelli voluminosi e l’altrettanto voluminoso contrabbasso, accompagnamento naturale della sua voce singolare e frizzante. La Spalding, dopo solo due anni dall’esordio, ha già al suo attivo una tripletta di dischi di successo: Junjo (2006), Esperanza (2008) e Chamber music society (2010). L’anno corrente, che l’ha vista esibirsi alla Casa Bianca e sfilare trionfalmente sul red carpet degli Oscar, ha segnato sicuramente una svolta nella sua carriera. Anche la prospettiva artistica, pur continuando il filone dell’album precedente, viene ampliata per catturare ancora di più le attenzioni del mondo della musica. “Se nell’ultimo lavoro avevo voluto dedicarmi maggiormente ad una visione da camera del jazz- racconta la musicista -in questo nuovo capitolo mi sono concentrata sull’analisi jazzistica di una forma canzone e melodie che comunemente vengono definite pop”. L’obiettivo è quindi, in realtà, rendere il linguaggio jazz più popolare e fruibile, senza rinunciare alla giusta dose di sofisticatezza.

- comyn

Esperanza Spalding, vi suona familiare? E’ possibile che vi siano saltati all’occhio un nome e un viso (ma soprattutto una voce) così poco convenzionale che figuravano tra i vincitori dei Grammy Award (premiata nella

Dal freddo della Siberia arriva la bellissima Nina Kraviz, di Mosca. Ci porta in un’atmosfera house profonda, sensuale e finemente costruita. Preceduto dal primo singolo Ghetto Kraviz, con i suoi campioni vocali nervosi che lentamente

loro piccola realtà nordica, si è avventurato nelle acque cristalline del folk-pop. Le melodie dei Cats on Fire sono il risultato di questo viaggio ideale, durante il quale i ricordi d’infanzia si tingono di un lirismo delicato e prendono vita in ballate malinconiche dall’eleganza impalpabile, con una carica nostalgica che serpeggia anche negli episodi più solari e che rende ogni loro lavoro una strana esperienza dal sapore agrodolce. Nel 2009, Our Temperance Movement ci aveva piacevolmente stupiti con questo riuscitissimo mix di armonie languide ed irrequietezze pop, sintesi perfetta della poetica di Björkas e compagni, che tanto devono, sia per le sonorità che per la sensibilità, agli Smiths di Morrisey. Da allora, i Cats on Fire hanno fatto uscire solo una raccolta, Dealing in Antigues, che recuperava vecchi brani inframezzandoli con alcuni inediti. A riprendere le fila del discorso ci pensa dunque questo All Blackshirts to Me, e lo fa in vesti parzialmente nuove; nel 2012 i nostri si sentono più malinconici, e la musica si è fatta con loro più introspettiva e meno frenetica, sebbene la forma canzone tipica, così come la ricorrenza degli echi eighties, sia sostanzialmente rimasta invariata. In realtà l’unica vera novità - e la sola importante - è che in questo album mancano le tracce da ricordare e, tolto qualche pregevole ma sporadico episodio (My Sense of Pride, 1914 and Beyond), si ha l’impressione che i nostri si siano limitati a fare il compitino e che per giunta sia assente la cura certosina che stava dietro la produzione di Our Temperance Movement.

- zorba

Nonostante se ne siano accorti in pochi, già 10 anni sono passati da quando il quartetto di Vaasa ha lasciato l’atmosfera rassicurante della natale cittadina finlandese e, sfidando la distesa del Mar Baltico che li relegava alla

ULTIMO ATTUALE CORPO SONORO30/3/12 Teatro Verdi, Poggibonsi

Una sala buia ma accogliente, un piccolo pubblico giovane e sveglio, un palco ricolmo di stru-menti e pedali con sopra 5 ragazzi di Verona a cui tutto questo basta ed avanza per far ricordare a tutti i presenti un’ora e mezza di storia italiana tragica e rabbiosa. Gli Ultimo Attuale Corpo Sonoro sono una pugnalata al cuore, sono una tempesta di post-rock e parole pesanti alle quali non si può sfuggire, sei obbligato a riflettere perchè l’impatto emotivo è talmente potente che ti scuote nell’animo. Poggibonsi è la prima tappa del loro tour e noi ne approfittiamo per go-derceli a prezzo popolare (5 euro) e scoprire se l’energia che mettono nei loro dischi sia la stessa dei loro live, uscendone piacevolmente sorpresi. Viene eseguito tutto il nuovo album Io Ricordo con Rabbia, intervallato da pezzi vecchi e interessanti novità, a conferma di una fucina di idee sempre accesa. Si rievocano le stragi degli anni di piombo, la morte di Pasolini, le missioni “uma-nitarie” appoggiate dal nostro governo, gli omicidi della camorra e tanti altri capitoli neri di una storia sulla quale difficilmente riusciremo a far luce ma tutto ciò viene fatto con grande intelli-genza e infinita energia da un gruppo di ragazzi con i piedi per terra che riesce a farti vivere ogni singola ingiustizia con la loro musica. Il volume è alto, i pedali delle distorsioni sempre accesi e il batterista (unico possessore di birra in tutta la struttura) sudato fradicio, nell’aria parole impor-tanti: l’etica libera davvero la bellezza.

- w

live report

portano verso un hip-hop cantato e verso la notte, l’album suona più o meno esattamente come si sarebbe potuto sperare; miscela di accordi spettrali, vocalizzi disincantati, e i suoi sussurri da diva, tutti stratificati all’interno di un suono sornione. In alcuni momenti, suona offuscata e sonnolenta, in altri, in preda ad una crisi. Attraverso questi quattordici brani inediti, c’è un’immensa presenza, un senso di suoni e timbri fatti da e per il corpo. Apre Walking The Night bordoni di romanticismo spettrale e colpi acid in un contesto quasi cameristico con la voce di Nina persa in un’invocazione notturna. Se è la Kraviz a dare la direzione con la sua voce (Taxi talk), che è sempre un labirinto conturbante di chiaro e scuro, dove sono i secondi ad avere la meglio, le basi hanno sempre un groove narcotico con implosioni, echi e campioni lirici. Con i suoi cuscinetti accoglienti e drum machine picchiettanti, False Attraction inizia a posizionare la Kraviz prima con cauti, timidi passi, poi, finalmente, davanti e al centro con una voce tranquilla, che acquista forza come i venti dove non c’è resistenza. Love Or Go è leggermente più muscolosa, una radice classica, deep house da maestri, impalpabile ed insistente, quasi commovente. Turn On the Radio, intanto, cavalca con un elegante disco-house; la bellissima chiusa Fire è una miniera calda, un languido synth-pop, come un gelido luna park, specchio goth-pop di una figura come quella di Kate Wax.La diva russa ci ammalia.

- matmo

della Centrale Elettrica e, volando più basso, i Cani). Poco importa se il “momento” in questione è, per il trio di Reggio Emilia, non il presente ma il passato. O meglio: il presente in quanto svuotato del passato, un passato in cui la politica è prima di tutto educazione sentimentale, raccontata attraverso l’ironia di fotografie desolanti.Il precedente Bachelite aveva smentito il teorema, mostrando un gruppo solido e con molte cose da dire nonostante l’effetto sorpresa fosse ormai svanito. Gioco di società, invece, ravviva le preoccupazioni.Il suono degli ODP si è fatto più scarno, denudato dalle chitarre: un tappeto di elettronica minimalista di assoluta qualità, ma che – non valorizzato abbastanza dal recitato di Collini – tende a passare inosservato. É proprio lì il problema: le nuove storie della band graffiano di meno, non coinvolgono

Elettronica/Reading

OFFLAGA DISCO PAX Gioco Di Società [Venus, 2012]

Si è detto spesso, degli Offlaga, che avrebbero fatto meglio a pubblicare un solo disco. Commento sentito per ogni band italiana che fa del suo attaccarsi a un momento particolare, sviscerarlo e “subirlo”, la propria cifra stilistica (vedi Le Luci

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recensioni

Strumentale

DUSTIN WONG Dreams Say, View, Create, Shadow Leads[Thrill Jockey, 2012]

Techno/Dark-Dub

DEMDIKE STARE Elemental[Modern Love, 2012]

Cover

AA. VV. Con Due Deca - La Prima Compilation Cover degli 883[Rockit, 2012]

come in precedenza. C’è un’aria più dimessa, malinconica: il senso emerge dalle pieghe dei testi, senza regalare le folgorazioni istantanee dei vecchi brani – ci riesce solo la chiusura di A pagare e morire, gelida storia di affitti non pagati e capolavoro dell’album per musica e testo.Tuttavia non voglio bollare gli Offlaga Disco Pax come un gruppo che ha finito la benzina: il talento rimane, la caratura autoriale è ormai indiscussa. Spero in un quarto album più convincente, magari emancipato da cliché narrativi che da segnale distintivo cominciano a diventare una pesante etichetta.

- carisma

loop station, con un’attenzione particolare alle sfumature del suono e alla gamma di tonalità che le sei corde possono abbracciare. Le melodie si susseguono in maniera assolutamente lineare, tanto ingenue quanto sofisticate nella loro semplicità; alcuni episodi ricordano le impalcature sonore di Philip Glass e sono più graduali nelle progressioni melodiche, benché abbiano poco da spartire con la “seriosità” delle sue suite minimaliste, altri - più frequenti nella seconda parte - sono alla stregua del divertissement giocoso. L’opera nel suo complesso dà l’idea di una giostra perennemente in movimento, animata dal fingerpicking luminoso di Wong e da un sapiente gioco di pedali: filter e octaver aggiungono nuovi tone colours alla chitarra, il delay sbiadisce i contorni, la loop station stratifica i pattern e ripete il tutto in sequenza. La giostra gira su se stessa, senza preoccuparsi del fatto che il suo movimento ciclico la riporti sempre al punto di partenza; allo stesso modo, Dreams Say, View, Create, Shadow Leads non si pone obiettivi, ma si contenta del suo girare in cerchio, del ripetersi in loop delle sue melodie. Avrebbe poco senso analizzare le canzoni una ad una, se non altro perché le 16 tracce del disco si presentano come un lungo continuum sonoro. Sono un insieme di spunti che, a detta di Wong, possono essere ascoltati e interpretati in maniera assolutamente arbitraria: “Come scegliere il modo in cui guardare la luce che attraversa un prisma. Se vedere la luce frammentata che entra dentro il prisma e ne esce oppure osservare prima il singolo raggio di luce”.

- zorba

Dustin Wong è un musicista cinese naturalizzato americano con la passione per la chitarra e le macchinette, binomio che si risolve, in questo suo ultimo lavoro, nel ricorso massiccio alla stratificazione di arpeggi e accordi tramite

Ci sono alcune cose che non sembrano cambiare mai: le noiose domeniche della vita, l’aspetto di certi conduttori televisivi, i dischi di Giorgia e le canzoni che si cantano durante le gite scolastiche – in mezzo ai panini

ma chi sarai per fare questo a me (l’alternativa è suonare I migliori anni della nostra vita e fingersi Scamarcio in Compagni di scuola, un telefilm sorprendentemente generazionale). Max Pezzali, l’eterno giovane con il cappellino (come Moccia, la visiera è un’arma del marketing?), è dagli anni ‘90 che si chiede come mai e ancora né la domanda né lui sembrano aver subito i segni del tempo. Rockit, che in questo caso fa la parte del guercio (che) entra di corsa con una novità (sì, continuiamo con le citazioni, ché tanto le conosciamo tutti, anche se non vorremmo) ripropone una compilation di cover dai migliori successi della band, casomai ce li fossimo dimenticati (quando mai). Da Colapesce a Dargen D’Amico, da I Cani, che già sono mesi che ci ripropongono Con un deca, agli Amor Fou: tutti impegnati a celebrare Max Pezzali e Repetto (dov’è finito? Da Los Angeles a Pippo a Eurodisney, è l’uomo più leggendario d’Italia) – ci dicono che siamo tutti perdonati, che amarli è cosa buona e giusta, che questa è la rivincita, l’eccezione alla regola dell’amico. Siamo figli e fratelli di Max e lui non è il parente che va nascosto, è passato abbastanza tempo per ricordarne le glorie passate. Nessun rimpianto? Qualche certezza: non solo dagli anni ‘80, anche dagli anni ‘90 non si esce vivi.

- mars

bui dell’anima. Il loro suono nel frattempo non è cambiato significativamente: onde dark, droni ambientali in un groviglio di ritagli post-punk e concreti, mentre i ceppi di dubstep e techno si stabiliscono come agenti patogeni nel sangue. Se “dark” è stato il principio organizzativo del loro ultimo album, come Mike Powell ha detto di Tryptich, allora “darker” è il loro attuale mood; più oscuro, più opprimente, e più intenso. Soffuso il riverbero cavernoso, penetrante la distorsione, i Demdike Stare infrangono pianoforti per creare ritmi stentati che evocano una sorta di scenario post-apocalittico. Tryptich per lo più li aveva avvicinati a ritmi vagamente familiari, moderne forme di amore verso la dub-techno-friendly, ma qui i mancuniani abbandonano tale modus per qualcosa che suona molto meno convenzionale. In Mnemosyne affrontano qualcosa di simile al dubstep, con le sue insidie di esplosione nucleare in un folle scontro di strumenti di origine sconosciuta; Violetta suona come una stanza piena di strumenti antichi rotti che ritornano alla vita. Unction suona come il sibilo demente di creature sataniche, e Erosion of mediocrity, è fondamentalmente il suono dei Quattro Cavalieri in marcia verso l’Apocalisse, infiammati di raffiche calde di spade e bit dei bassi rivestiti di fango tossico primordiale. Confondendo i confini tra documentario, musica e rumore, tra la vita e la tecnologia, i Demdike Stare trasformano il fantasmatico in reale.

- matmo

I Demdike Stare hanno oramai trovato la loro nicchia, si sono costruiti un mood personale e riconoscibile, emotivo e oscuro. Il duo inglese continua nella sua spedizione speleologica setacciando i luoghi più impervi e

che ci sono certi album che, se ascoltati in primavera, sono devastanti – ecco, Put Your Back N 2 It è, credo, tra questi. Mike Hadreas – il cui secondo lavoro è uscito, a onor del vero, nello scorso Febbraio e nella sua Seattle, la città della flanella a quadretti, non è propriamente bella stagione, ma poco importa – racconta, a voce bassa senza che questo addolcisca la sua storia, delle offese e dei fiori che spaccano l’asfalto, ma non rendono giustizia. La storia di Mike Hadreas potrebbe essere quella di un qualsiasi Billy Elliott: triste, cattiva e sbiadita come una periferia anonima e deprimente, ma una storia destinata al riscatto, a danzare sulle punte, all’essere fuoriclasse senza volerlo davvero, come se più semplicemente fosse impossibile adeguarsi, confondersi con lo sfondo. E there is grace in this, come dice nella title track, c’è ancora grazia nel farlo – in fondo sono i dolori sottili a commuovere più dei violenti incendi e Put Your Back N 2 It è straziante a sufficienza per farcene innamorare – con i suoi sussurri d’aiuto che chiedono quasi di essere ignorati, quasi dicesse guardate, non c’è niente qui intorno che possiate desiderare. Agli indesiderabili e alle incertezze, buona primavera.

- mars

sentimentalismo, ci sono alcune precauzioni da prendere, prima fra tutte non fidarsi di nessuno e degli ascolti di nessuno e non volerne sapere di più di cantautori americani dal petto gracile, o finisce come sempre. Una volta una persona mi ha detto

fiducia che si dà a chi ha qualcosa d’importante da dire. Si sarà accorto forse di questo James Mercer, che sebbene le idee ci siano, magari a sto giro non sono proprio così appassionanti, e allora è meglio ingegnarsi diversamente. Ci sono due modi per farsi considerare, dicevamo. La vera novità e chiave di svolta (perché è di vero e proprio cambio di corso che si parla, per i Nostri) risponde al nome di Greg Kurstin, produttore già all’attivo con artisti i cui nomi sono tutto un programma: Lily Allen, Nelly Furtado, Britney Spears, Kesha. Il suono è ripulito, ben compresso, ottimi gli arrangiamenti e le scelte in postproduzione, ma la sensazione è simile a quella che prova il cliente al centro commerciale, ossessivamente attratto e instupidito da specchietti per le allodole all’acquisto di un prodotto di dubbia qualità ma ben confezionato. La fidelizzazione passa per pezzi come Bait and Switch, 40 Mark Strasse, September, dove spiace dover accorgersi che l’indiscussa capacità di scrittura di Mercer è rimpiazzata da baldanzose trame radio-friendly o comunque si riduce a scimmiottare quella di qualcun altro. Spiace dover evidenziare una carenza di ispirazione che in realtà si palesa da sola (il passaggio tra Simple Song - un gran bel power pop alla Arcade Fire - e It’s Only Life è avvilente), e spiace trovare gli Shins alle prese con un prodotto così: che basti a soddisfare il sempre più diffuso bisogno di gratificazioni istantanee, per quando lo trovi in streaming su qualche blog.

- visjo

Power Pop

THE SHINS Port Of Morrow[Aural Apothecary/Columbia, 2012]

Ci sono due modi per farsi considerare se c’è chiasso: parlare più forte degli altri o parlare sottovoce. Nell’era della loudness war la vera classe degli Shins l’abbiamo apprezzata così, in rispettoso silenzio, a volumi bassi, e con la

incartati e agli zainetti pieni di scritte, la cosa più cool che si possa immaginare è stata e resta mettersi negli ultimi posti e chiedersi come mai

Songwriting

PERFUME GENIUS Put Your Back N 2 It[Matador, 2012]

La primavera è la stagione delle speranze: è una stagione stupida, quindi tragica. Per chi, come me, ha un’inclinazione per un certo tipo di sottile

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Soft Bop

CHARLIE PARKER With Strings[Mercury, 1950]

Electronic/Minimal

BERNHARD GÜNTER Un Peu De Neige Salie [Table of the Elements, 1993]

rovistando in soffittaProgressive Rock

PINK FLOYD The Early Singles[EMI/Columbia Records, 1992]

cavallo tra 40s e 50s. Per uno strano scherzo del destino e del mercato, però, la fama del sassofonista di Kansas City, almeno a livello popolare, si è andata consolidando in particolare – piuttosto che per gli assoli pirotecnici, per i live show da arresto cardiaco, per i numerosi standard composti e poi imitati da generazioni da musicisti – per merito di questa manciata di registrazioni datate 1950. Charlie Parker with strings – oltre ad essere un ottimo compagno per questo puntuale inizio di primavera – fu senza dubbio il maggior successo di Bird a livello di vendita: non per questo, però, va liquidato come jazz all’acqua di rose o robetta di poco spessore. Una volta abituatisi ad un Parker meno sudato e più bonario del solito, ci vuole giusto un momento a capire di esser di fronte ad un vero e proprio gioiello. Il nervosismo e l’ipercinetismo (costanti della sua cifra stilistica) non sono mai rinnegate, ma solamente attenuate. L’inquietudine del cocainomane viene tinta da una luce tranquilla e rassicurante e, per una volta, Bird ci dà tempo di respirare. Se ciò avviene il merito è anche degli strings del titolo, una vera e propria sezione d’archi in scala ridotta che accompagna l’esposizione dei temi e gli assoli ora fragorosa, con accenti holywoodiani, ora sommessa e malinconica. Oltre alla presenza degli archi, poi, è la scelta dei brani a fare la differenza. Se il repertorio è quello dei grandi standard degli anni ‘30, Parker mostra di preferire pezzi venati di romanticismo, eppure pervasi di una malinconia sottocutanea, nei quali la sua indole riottosa e introversa trova piena espressione e sfogo: nell’imboccatura del sassofono – che “parla” come mai prima – Charlie ora più che mai individua il talismano che gli consente di restare aggrappato alla vita. In ogni pezzo si parte da un atteggiamento negativo, ma, attraverso l’assolo e la ripetuta esposizione dei temi, si giunge ben presto a sublimarlo, a renderlo impalpabile e leggero (senza che, però, ci si dimentichi della sua presenza). È il caso di April in Paris, forse la migliore del lotto, sicuramente la più strappalacrime; è il caso di Dancing in the dark, che turbina intorno all’ascoltatore pensosa e bellissima; è il caso di Summertime, in cui la riflessione musicale si fa più che mai difficile, problematica, profonda, con il tema esposto quasi piangendo, con voce strozzata: un amaro interrogativo rimasto in sospeso che riassume in sé il senso di tutta la parabola artistica di Bird, esplosiva come l’arrivo della primavera e come la primavera sempre troppo breve.

- samgah

Asso del fraseggio, “uccellino” irregolare del bebop, geniale innovatore, freak, drug addict: in questi e in molti altri modi viene ricordato Charlie Parker, la stella più brillante del jazz a

della band) rilascia un album di vecchi cimeli ripescati rivistando in soffitta. Scovando veri e propri capolavori nascosti. Pubblicato come parte integrante del Box-Set Shine On, The Early Singles raccoglie, come indicato nel titolo, i primi singoli dei Pink Floyd.Dieci tracce, di cui solo due appaiono in album in studio: The Scarecrow che troviamo nel primo album del gruppo, The Piper at the Gates of Dawn (1967) e Careful whit That Axe, Eugene, inserito nella parte live dello storico Ummagumma (1969), ma creato a Roma, negli studi di cinecittà dai quattro ragazzi di Londra (che avevano già cacciato Syd Barrett) stremati dalle difficili richieste di Michelangelo Antonioni che rifiuterà la melodia improvvisata di Wright, utilizzata poi in The Dark Side of the Moon. Diventerà Us and Them. Se non la vediamo in Zabriskie Point è perchè ad Antonioni “faceva pensare alla chiesa”. Ma questa è un’altra storia. Tanto che Syd Barrett c’era ancora quando il gruppo fra i più apprezzati nella storia della musica rock (ma anche punto di partenza per l’elettronica), produceva i brani di The Early Singles. Syd firma come unico autore e canta i primi cinque brani: Arnold Layne, Candy and a Currant Bun, See Emily Play, The Scarecrow ed Apple and Oranges.Questi pezzi fanno parte di un repertorio diverso da quello che diventerà poi la colonna portante del sound dei Pink Floyd.La cacciata di Barrett e l’ascesa di Waters dividono due dei tre rami di fans, che si frattureranno di nuovo dopo The Final Cut, la rinuncia di Waters e le redini che passano in mano a Gilmour. Ma i tempi con Syd non saranno dimenticati da nessuno. In Wish You Were Here le ultime note che si ascoltano nel pezzo di chiusura, la seconda parte di Shine On You Crazy Diamond, ricalcano il tema di See Emily Play, fino ad allora rilasciata solo come singolo e suonata dal vivo.Un riferimento che solo i fan più fedeli potevano carpire. Nell’album del1992 viene ripresentato tutto quelle che era stato apprezzato troppo poco a causa della minore visibilità al tempo ed il cambio di rotta che sotterrò, in un primo momento, i lavori di quel periodo.Anche il primo pezzo di Roger che troviamo nella raccolta si discosta molto da ciò che poi produrrà il leader del gruppo durante tutti gli anni ‘70. Più psichedelico, più mistico ed onirico, Julia Dream (scritto proprio così, senza ‘s’) verrà cantato da un giovanissimo Gilmour dando subito la prova delle sue capacità canore che saranno apprezzate dopo pochi anni. Ma quei pezzi, composti fra il 1965 ed il 1968 risultano avere una potenza diversa. Orecchiabili ma non per questo meno sperimentali i pezzi della raccolta mostrano il lato meno conosciuto dei Pink Floyd. Sognante e visionario ma non per questo oscuro, “the dark side” è un’altra cosa e verrà più avanti.Apples and Oranges è la pura gioia che ricordiamo in Bike. La potenza di Barrett o ereditata da Barrett. Quando ancora i Pink Floyd non erano i Pink Floyd. O meglio, quando qualcuno pensava ancora che Syd Barrett si chiamasse “Pink Floyd”.

- eightand

Table of the Elements (etichetta tra le più ganze di sempre rispetto al sistema delle avanguardie statunitensi), e momento d’oro anche della rivista “Blow Up”, quando i dischi sotterranei che recensiva e contribuiva a far circolare erano davvero esoterici, bisognosi di una forza di volontà troppo superiore agli scaffali di internet per essere trovati. (Ora che i servizi di file hosting cominciano a chiudere bottega uno dopo l’altro ne possiamo magari riparlare, dall’interno di nicchie misteriose scavate nei portali di ricerca su rapidshare e scolpite nelle puppe dei pop-up.) Per anni questo disco, di cui in Italia si apprendeva grazie alla rivista, è restato il paradigma del minimalismo estremo, del quasi-niente, e chi stava nel rock ne avvertiva la presenza avvolgendolo in un rispetto quasi parodistico. Oggi rimane in piedi tra le macerie, una sorta di lievito, micro-organismo che mostra di poter resistere all’apocalisse quando tutto il resto dei suoni superiori si sarà finalmente auto-annientato. Queste microwaves sono rimaste piuttosto poco ascoltate, finché il suo autore, che è anche titolare dell’etichetta Trente Oiseaux, ha deciso di sospendere la produzione di dischi, scosso dai costi e dal destino incerto del cd, e di mettere gran parte del catalogo in download libero dal sito (trenteoiseaux.blogspot.com). La notizia, dunque, è che finalmente si può ascoltare questo disco un pochino fuori dalle cerchie dei più fighi di tutti, che è rimasterizzato con strumenti e risultati migliori, che è distribuito con licenza Creative Commons. I pezzi qui inclusi sono stati congegnati vent’anni fa, ‘92 e ‘93, e suonano oggi come un avvertimento sui margini dell’abisso del digitale. Questa non può definirsi musica ambient, tale il grado di sforzo percettivo che richiede. Come si fa ad ascoltare questo disco, ove la maggior parte degli avvenimenti durante lo sviluppo dei brani si confonde con i rumori di fuori, col movimento del cavo degli auricolari, del vento, del traffico, delle voci, dello scricchiolio di una sedia? Dettagli microscopici, problema GIGANTESCO. Il senso di questa ibridazione si coglie tra respiro, campionamenti, limitazioni tecniche della strumentazione digitale dell’epoca. Tutto ciò avviene a bassissimo volume, e sarebbe corretto ascoltarlo ugualmente a basso volume. Un synth che si inceppa, unico strumento vagamente percepibile in quanto tale lungo il percorso, e qualcuno che ti accompagna sulla soglia del sonno, ti blandisce con una specie di temporale lontano e ti abbandona a una cattività terribile, attraversata da frequenze lancinanti. Un po’ di neve sporca sul marciapiede, filamenti di polvere, forse gli unici suoni che avrà senso produrre e condividere tra mille anni senza risultare pleonastici.

- bigmuf

Questo rovistare fa quasi male, e porta delle coordinate specifiche. Fine anni ‘90, epoca della prima ristampa di questo impalpabile disco di Bernhard Günter, tedesco, a opera della

Dobbiamo tornare a 20 anni fa, il 24 Novembre 1992 quando gli allora Pink Floyd, nella formazione senza Roger Waters (che anni prima aveva tentato in una causa legale persa di rivendicare i diritti sul nome

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Ho letto una vostra intervista in cui raccontate la scrittura di “Ormai” come non facilissima: non si trattava di un semplice “disco nuovo”, ma del seguito di “Sfortuna”, album cruciale per molte ragioni. Oggi che tutto è compiuto come giudicate il peso del precedente disco su “Ormai”? Quanto ha effettivamente influito sulla composizione e sulle vostre dinamiche umane? E che traccia ha lasciato “Sfortuna” sul nuovo album, nel bene e nel male?Pensare a “Ormai” ci faceva un po’ paura. “Sfortuna” era venuto così di getto che avevamo il timore che qualunque cosa facessimo potesse risultare inevitabilmente più cerebrale e meno di pancia. Invece il fatto che tante cose siano cambiate nelle vite di tutti e 5, che il tempo per suonare si sia ridotto all’osso, paradossalmente ha aiutato, facendoci trovare proprio quell’urgenza che avevamo un po’ paura di perdere. Abbiamo sempre voglissima di suonare, e trovarsi due volte al mese (quando va bene) ti fa dare tutto quanto proprio in quelle 4 ore lì, perchè poi chissà quando sarà la prossima volta. 

“Sfortuna” aveva smussato gli spigoli del disco omonimo; “Ormai” sembra spostarsi ancora, in una direzione ulteriore: quasi scomparsi gli elementi più diretti, la “forma canzone”. Il suono è diventato pura atmosfera, persino nei brani più tirati [a proposito: tanti complimenti a Pilipella]. Che ne pensate? Cosa ha maggiormente influenzato il processo compositivo?Abbiamo lavorato come sempre: trovandoci in sala prove, prendendo gli strumenti dopo un sacco di tempo, facendo della cacofonia con le teste abbassate per un paio d’ore fino a che non arriva il momento in cui per qualche motivo che ancora non abbiamo capito qualcosa comincia a suonare bene. Così comincia un pezzo. Nessuno di noi porta mai riff da casa; nessuno di noi ha tempo di suonare a casa. E forse nemmeno voglia. C’è forse una differenza a livello di suoni, volevamo che il disco risultasse meno cupo; abbiamo mantenuto la presa diretta perchè non può esserci altro modo di registrare per noi, abbiamo lavorato tanto sugli ambienti per far sì che venisse fuori la stanza. Gira tutto intorno alla stanza; stiamo inventando, noi di ‘ste cose non ci capiamo una ricca sega. Ma io non so nemmeno di cosa stai parlando. Però è vero.

Intervista aideep inside

Alcune recensioni di “Ormai” che ho letto online considerano i nuovi testi un naturale seguito di “Sfortuna”, la ferita di un abbandono che non accenna a rimarginarsi. A me pare invece che il focus si sia spostato. Da un evento drammatico, uno squarcio, l’attenzione sembra ora rivolta alla vita quotidiana, le sue malinconie e le sue rinunce. Il buio totale di “Sfortuna” sembrerebbe aver assunto sfumature più varie, agrodolci. Potete dirmi qualcosa dei testi?In tutte le recensioni che abbiamo letto c’è sempre “Sfortuna”, c’è sempre la tristezza, ci son sempre piogge di lacrime e disperazione e sconfitta e dolore. La tua interpretazione di “Ormai” è molto simile alla nostra; questo non vuol dire che sia per forza quella giusta, perchè immaginiamo che il bello della musica sia proprio il fatto che ognuno possa viverla in maniera diversa a seconda del proprio umore e del proprio vissuto. I testi che scriviamo non parlano solo di coppie di amanti o di dilemmi di giovani padri; spesso parlano di noi come gruppo e alla fine non è un caso se il disco si apre e si chiude in quel modo, con quelle due frasi. La cosa certa è che cercare di analizzare i motivi per cui un testo è stato scritto in un determinato modo da un determinato individuo rischia di limitare la capacità del testo stesso di appartenere a più persone. È come quando ascolti un pezzo e nella testa ti disegni un immaginario tutto tuo; poi arriva il videoclip e te ne impone un’altro. Forse questa dei videoclip non c’entra una mazza. Oppure sì...hai capito no? Certo che hai capito. Del resto sei fino a questo momento quello che ci ha fatto le domande più belle. C’è chi ha parlato, per descrivere il post-”Sfortuna”, di hype. Merito forse di alcune contingenze – vedi l’accostamento con La Tempesta. Credo però che la vera causa sia l’empatia: come qualcuno ha scritto su Debaser, “i FBYC sono seguiti e amati - perché c’è molta gente che li ama proprio, come con i gruppi di una volta”. Tuttavia, proprio all’indomani di questo momento importante, il gruppo ha smesso di essere, per ragioni personali, una vostra priorità. Come vivete questa situazione, che per moltissimi gruppi sarebbe dolorosamente contraddittoria? Come fa la banda ad essere una priorità quando hai dei lavori e delle famiglie? Dovresti far coincidere banda e lavoro. Ma se la banda diventa il tuo

lavoro sei costretto a suonare per tirare a campare, magari controvoglia. E allora si spegne tutto. Forse è proprio questa cosa che ci salva, e che ci fa percepire come genuini e quindi in qualche modo amici: l’hype, La Tempesta e ste menate son cose che non ci riguardano. La Tempesta è gestita da un nostro amicissimo che ci sentiva a stamparci il disco e che lo ha sentito quando è uscito, non un minuto prima. Noi siamo contentoni di suonare 2-3 volte al mese, mettere insieme i soldi per pagarci le prossime prove, le registrazioni e se avanza qualcosa anche qualche bolletta o rata dell’asilo per i nostri figli. Il lavoro è un’altra cosa. La banda è bella. Il lavoro è brutto. Poi se il lavoro è bello sei fortunato. E’ uscito un libro di nome  The new rockstar philosophy, sorta di vademecum per musicisti nel presente digitale. Non l’ho letto, ma sbirciando in giro ho letto di suggerimenti tipo “Tre tweet al giorno sono l’ideale per comunicare con la fanbase” e “allontanate dalla band i vostri amici se col loro scarso impegno possono compromettere il vostro sogno”. Mi trovo davanti un gruppo che ha fatto uscire il suo attesissimo disco così, senza alcuna promozione, all’improvviso. Un gruppo che mette la musica in free download e allega, a mo’ di disclaimer, “I Fine Before You Came sono e sempre saranno Marco, Filippo, Mauro, Jacopo e Marco”. Sul serio, come ci si riesce?Non ne abbiamo idea: per noi è la cosa più naturale del mondo. Non ci piace Internet e non sappiamo nemmeno tanto bene come si usa, ci piace solo perchè ci fa ascoltare tanta musica aggratis. È imprescindibile per noi che i nostri dischi siano aggratis su Internet; poi il fatto che ci siano sti strumenti del demonio tipo facebook che ti fanno essere a stretto contatto con la gente che ti segue è molto bello, ma non pensiamo possa essere uno strumento da utilizzare per fini di marketing. Le persone se ne accorgono quando le usi per il marketing; e allora a quelli che ascoltano, ad esempio, uitni iuston piace proprio essere oggetto di campagne marketing, si sentono importanti così. E ci va benissimo. Ma non è il nostro; a noi serve per parlare con le persone, per dire “o è uscito il nostro disco eccolo qua, diteci che ne pensate”. Non potrebbe essere altrimenti.

intervista a cura di carisma

In occasione dell’uscita del loro ultimo lavoro Ormai, in download gratuito su (http://finebeforeyoucame.com/), abbiamo scambiato qualche parola con la band.

Fine Before You Came

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Clint Eastwooded il suono delle proprie immagini

Sound of pictures

deep inside

Lake of beatsInaugurazione di questa nuova rubrica. In questo spazio si tratterà delle uscite minori legate al mondo elettronico della techno e della dance e delle loro mutazioni. Ovviamente per “minori” non si intendono uscite di poca importanza ma uscite in formati minori, che non riempiono una recensione vera e propria e che poi sono la linfa dei generi sopracitati. Parleremo quindi di Ep, 7 e 12 pollici, singoli ecc. Voglio iniziare con un artista che è oramai un faro della musica elettronica. Parlo di Morphosis che ha appena rilasciato su vinile sulla benemerita Morphine Records, The Tepco Report. Si tratta di un viaggio tra le popolazioni ancora distrutte del Giappone post-atomico. Morphosis, colpito nell’animo, trasforma in un esaltante capitolo musicale le vibrazioni incamerate durante il soggiorno nipponico. Il nostro va a rivolgersi direttamente alla Tepco, la multinazionale incriminata per i terribili avvenimenti post tsunami. Le due tracce sono diverse tra loro, la prima è un buco nero ambient in cui si odono campanellini e tastiere che imitano delle sirene, un pezzo crudo e crudele. Nel secondo invece Morphosis si lascia andare alla sua techno, visto tra le macerie di uno dei luoghi più potenti del mondo, un battito che sembra un cuore che batte. Passiamo a 2562 che rilascia Air Jordan. Un debstep futurista, innovazione del suo stile, che parte da field recordings registrati intorno a Jordan e poi si sviluppa in quel tipo di musica dance che non è del tutto user-friendly. Slitary Sheepbell parte in sordina, non sembra di sentire 2562

ma uno dei suoi moniker, per poi evolversi pian piano tra un suono acquoso, xilofoni e un battito subacqueo con la melodia sempre dietro l’angolo. Andando oltre, con Jerash Hekwerken si richiama il caos della sua città omonima, mentre Drummers Nocturnal, ricorda la musica di un campeggio beduino, ben sposando percussioni campionate con tocchi di grande produzione. Chiunque può prendere le registrazioni sul campo provenienti dalla Giordania e renderle delle tracce “techno”, ma ci vuole un talento speciale e le orecchie desiderose di fare quelle tracce audio come nessun altro. Huismans rende le registrazioni sul campo significative veramente di qualcosa, non sono un trucco, sono la componente essenziale del contesto colorato di Air Jordan. Doc Daneeka, in coppia con Abigail Wyles, ci regala un singolo di tutto rispetto, Tobyjug. Qui sembra di sentire inizialmente il James Blake di CMYK. Partiamo dalla meravigliosa voce di Abigail Wyles, calda e avvolgente, piena di sentimento che collabora per ottenere una sorte di invocazione soul elettronica. Un pezzo memorabile. Si tratta di un sentimento trattenuto, a partire dagli urti e click degli accordi di pianoforte che accompagnano polverosi. Una mossa azzeccata, uno scacco matto, quello di Daneeka, di lasciare la voce della Wyles sola, a fornire energia alla canzone. Come la sua prestazione diventa più forte, i battiti salgono e il pezzo diventa più inquieto sotto il suo smalto anestetizzato, in ogni fase adattandola sua intensità con precisione e abilità. Una low-key melodia di

synth emerge per portare la canzone fuori e si trova da solo, unico e commovente, uno strappalacrime per i bambini nutriti con 140 BPM. Poi Stimming, che con Window Shopping sfodera tre numeri house, un tema strumentale trascinante accompagnata dal vocoder. Martin Stimming si estende su un mix di stati d’animo, ritmi. Ci sono stringhe sinfoniche, una lugubre melodia a fiato, pianoforti Rhodes, spazzolate di violini e un suono di percussione vibrante che si è fatto suo. Bruno Pronsato invece, l’uomo altrimenti conosciuto come Steven Ford, scende sulla strada principale che porta a Londra, con l’etichetta Lick My Deck. Suoni circolari, vagamente afro-latini nei modelli delle percussioni; un vortice di venti esotici, intonazioni umide, un tocco minimalista di voci spettrali e un battimani economico: Lies About Nights è una roba allucinatoria, che evoca una estate profonda, un’atmosfera notturna. Meravigliosa la seconda traccia, Truths About Days che si nutre sempre dello stesso canovaccio meno la gran quantità di percussioni sostituita da una base ritmica solida e algida, sottilmente jazz. La miglior uscita deep del 2012. L’accoppiamento formidabile di Joy Orbison & Boddika invece, ha già prodotto un inno, l’acido Swims. Non era una one-off, e i due abitanti analogici hanno collaborato regolarmente fino Froth/Mercy. “Mercy” emerge dalla collaborazione che parte da Swims: si inizia con un hi-hat che distribuisce insidie beat, colorati dal discorso distorto e dagli effetti sonori. Questo è roba gloriosamente disordinata. Il suo impasto, gli accordi scivolosi come il punto di fusione tra rigidità frenetica Boddika e taglio netto di Joy O che porta Chicago-ismi, la pressione piena di insidie insistenti prima di rilasciare loro un sussulto emotivo vocale.

- matmo

J Edgar è un film di Clint Eastwood rilasciato nelle sale il 9 Novembre 2011. Di nuovo vediamo Clint stesso curare la colonna sonora come avviene da 12 anni a questa parte con il film del 2000 Space Cowboy. La colonna sonora di J Edgar non è entrata nella cinquina dell’Accademy Award (che abbiamo trattato nella scorsa edizione) ma Clint continua a stupire. Eastwood, un regista geniale che ha intrapreso questo ruolo molto tardi nella sua carriera, aveva 41 anni quando ha girato il suo primo film da regista. Il primo lavoro come compositore è precedente alla carriera da regista, lavorando per la colonna sonora di Dove osano le aquile in cui interpreta anche la parte del Tenente Morris Schaffer. Ci ha poi regalato con la stessa discrezione anche la chitarra di Million Dollar Baby, le melodie avvolgenti e cariche di tensione di Mystic River. Se per quanto riguarda la regia ci possono essere discussioni sugli alti e bassi del vecchio Clint,

poche critiche si possono sollevare sulle colonne sonore che vi accompagna. J Edgar non smentisce. Minimale e incisivo. Usa piano e archi per questo film. Lo stile, la cadenza è quella di Eastwood che è riuscito a creare un marchio di fabbrica anche nella musica. Se nei film in cui è stato attore ha potuto contare sulla colonna sonora di Ennio Morricone, a cui ha consegnato l’Oscar alla carriera in una emozionante premiazione del 2007, da regista ha saputo non deludere con colonne sonore che non saranno paragonabili a quelle di morricone nella bellezza ma sicuramente lo sono nell’originalità. Quella di scrivere le musiche dei propri film è una scelta importante. E’ una impresa in cui si sono cimentati con successo David Lynch e Charlie Chaplin in alcune occasioni. Possiamo anche ricordare Totò nella composizione di Malafemmina. Ma Eastwood lavora come compositore con una costanza che non ha precedenti nella storia del cinema. Con

risultati importanti. Ad aiutarlo, da sempre e quasi mai accreditato c’è suo figlio, Kyle che ha intrapreso la carriera da musicista con il primo disco rilasciato nel 1998. Il giovane Eastwood ha lasciato la sua traccia su film del padre sparsi negli degli ultimi otto anni. Purtroppo l’ultima volta ho dovuto dirgli di no e mi è dispiaciuto», spiega in una intervista parlando di J Edgar. «Ma torneremo a lavorare insieme per il prossimo film, un remake di È nata una stella», ha continuato.Ottima musica suona in casa Eastwood.

- eightland

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viaggi extrasonori

FOTOGRAFARE FANTASMINella fotografia il valore di esponibilità comincia a sostituire su tutta la linea il valore culturale. Questo dice Walter Benjamin ne L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica, quando inizia il discorso legato ad Eugène Atget. Continua dicendo che il valore culturale però tenterà di opporre resistenza, incarnata nella raffigurazione dei volti umani, infatti è proprio su questi soggetti che è nata la fotografia, nel culto dei ricordi dei cari lontani o perduti. Dove però il volto umano sparisce dall’obbiettivo lì, il valore espositivo (ovvero l’occasione di esposizione dei prodotti), prevale su quello culturale. Possiamo far entrare in gioco proprio qui Atget. Infatti sta a lui aver dato una sede a questo processo di cambiamento, con le sue vedute parigine, via deserte. È stato detto che sembrano delle fotografie del luogo del delitto. Le sue foto iniziano a diventare spie del processo di mutamento che sta imperversando nella società dell’epoca; “la contemplazione divagante - continua Benjamin - non gli si addice più”; esse inquietano l’osservatore.

E qui abbandoniamo Benjamin per non addentrarci in un discorso che ci condurrebbe troppo lontano, e facciamo un passo indietro. Eugène Atget nacque nel 1857 a Libourne. Della sue infanzia non si sa praticamente nulla esclusi pochi dati precisi, tante chiacchiere e leggende. Si narra che abbia perso i genitori quand’era bambino (notizia non del tutto sicura), che sia stato allevato da uno zio materno e che abbia ricebìvuto una buona educazione in un seminario o in un orfanotrofio. Da qui si perde ogni traccia. Si sa che partì come mozzo per dei viaggia di mare che a lui piaceva ricordare. La nebbia riguardo la sua vita si dissipa nel 1879 quando sappiamo, con certezza, che entra al Conservatorio D’Arte Drammatica di Parigi, non esce laureato e viva la sua vita di attore di secondo piano finchè non decide nel 1897, prima di dedicarsi alla pittura, ma, a causa della cattiva riuscita di questo progetto, nel 1898 si dedica alla fotografia. Quasi sicuramente, Atget impara da solo la fotografia e nonostante qualche carenza tecnica che i critici hanno

riscontrato, queste congetture hanno scarso peso quando si analizza l’approccio. La scelta dei soggetti, la qualità visiva, il rigore della composizione, il senso della luce e la valorizzazione di tutto ciò che è banalità. Noto come “il fotografo di Parigi”, colui che con un’enorme mole di fotografie (oltre 10.000) lungo l’intero arco della sua oscura vita, aveva instancabilmente registrato nei minimi dettagli gli aspetti più quotidiani di una metropoli che stava mutando, Eugène Atget è in realtà ben altro che il documentatore d’insoliti e pittoreschi angoli della sua città; egli è il primo fotografo a liberarsi totalmente dalle convenzioni del Pittorialismo, per dare alla sua professione una nuova dignità, acquisita solo con i mezzi del suo specifico tecnico. E’ il primo fotografo nell’accezione moderna del termine, oltre che un reporter sociale ante litteram. Tuttavia la sua opera è sempre stata campo di battaglia per incomprensioni, lodi, biasimi e quant’altro. Fu classificato nel genere pittoresco ed aneddotico mentre la sua fotografia plastica costituisce il più importante memoriale vivente di una città, la sua Parigi. Ma se le sue immagini del popolino parigini nella vita quotidiana, seduto nei bar, dedito all’artigianato, delle botteghe e delle vetrine hanno un posto importante, lo hanno altrettanto le immagini del volto della Parigi di un tempo, con le sue strade, le sue viuzze, i suoi cortili, i suoi vicoli, il paesaggio urbano che andava via via modificandosi. La sua inchiesta fotografica lo portava a percorrere in lungo e in largo Parigi e la periferia nell’intento di ritrarre immagini del passato ancora visibili nonostante la patina del tempo e i guasti portato dagli uomini. Non si tratta del lavoro di una persona che si lascia conquistare solo dal pittoresco o dagli scontri tra luce e ombra per tradurre attraverso il tempo passato, la perennità dei secoli trascorsi. Egli ha quindi rinnovato l’immagine documentaria, forse senza esserne del tutto consapevole, ed ha rinnovato la metafora fotografica. Se le sue immagini candide, le sue immagini specchio di verità, le sue immagini che raccontano una storia, cantano ai nostri

eugene atget

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Quando ruggisce il coniglio

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Marco Presta ci racconta il paradosso del nostro mondo

Avete appena comprato otto lampioni nuovi per il vostro giardino, li sistemate con cura e poi arretrate di qualche passo. Orrore: uno è vistosamente diverso dagli altri sette. Non vi resta altro da fare se non ritornare dal ferramenta e pretendere un cambio. Che vi sia capitato qualcosa di analogo o meno, questa è la vicenda di Antonio che, intervistato in un talk show poco tempo dopo, dichiarerà: “Non volevo offendere nessuno”. A quel punto sarà ormai irrimediabilmente tardi: le truppe sono in marcia, la Terza Guerra Mondiale è scoppiata. Così si articola, in breve, il primo racconto della raccolta Il Paradosso Terrestre di Marco Presta. La trama, nella sua deliziosa assurdità, si basa su premesse che sono, se non altro, verosimili. Antonio di Ferrara nella parte del consumatore imbestialito, ruolo che tutti abbiamo interpretato, più o meno drammaticamente, almeno una volta nella vita. Il resto è fatto solo di sfortunate coincidenze: dall’appello della comunità ebraica, al coinvolgimento dell’ambasciata siriana, passando per l’incompreso intervento di un noto sociologo riguardo alla “scontentezza oggettivabile nel minimalismo” pubblicato sulla maggiore testata nazionale. Il gioco di Presta è tanto semplice, quanto è esilarante il risultato finale. Si tratta di cogliere un aspetto della nostra realtà e portarlo alle conseguenze

più estreme. Così, se oggi la corruzione dilaga, gli uomini onesti diventano attrazioni nei circhi. L’amore invece è una malattia virale, per altro molto contagiosa. E ancora, nel tentativo di sdrammatizzare l’ostinata sopravvivenza del Grande Fratello nel nostro paese, un ficus da appartamento diventa protagonista di un nuovo, seguitissimo reality show. Marco Presta, insieme all’inseparabile Antonello Dose, è da molti anni la voce della mattina (lunedì-venerdì dalle 8 alle 10) di Radio Due con Il Ruggito del coniglio. Imperdibile la giornaliera “top vergognation”: la classifica delle cinque notizie che ci fanno vergognare di appartenere al genere umano (se vi siete persi quella di oggi non disperate, c’è il podcast). Il programma, seguito da un grande numero di ascoltatori affezionati, apre ogni giorno una finestra sull’ironia fuori dal comune di questo geniale osservatore della quotidianità. Lo stesso humour magnetico si ritrova nei ventuno racconti, alcuni dei quali sono letti dalla viva voce dell’autore su Youtube, provare per credere. Presta non è nuovo alla scrittura, il suo Un calcio in bocca fa miracoli, lo aveva già consacrato paladino di quei personaggi che sono allo stesso tempo comuni e ostinatamente controcorrente. Si trattava, allora, di un vecchio pensionato con aspirazioni da Don Giovanni, costretto a fare i conti con la

sua passione per la portinaia. Il Paradosso Terrestre, in perfetto equilibrio tra Stefano Benni e Douglas Adams, vale sicuramente l’acquisto, fosse altro per l’interpretazione di My Way di un Santo Padre alla ricerca di nuovi spunti.

- comyn

Il Paradosso Terrestre di Marco Presta, Einaudi(disponibile anche in ebook)

occhi e ci commuovono in mille modi diversi è perchè il loro significato va ben al di là di ciò che rappresentano. Ve ne sono di affascinanti, di stupefacenti, di fiabesche e tutte risuscitano un passato da lui vissuto o un passato di cui ha conosciuto solo il nome e il suo essere effimero, del quale non ha goduto e che rimpiange. Ed ecco allora le atmosfere pregne dei famosi riflessi e degli sfumati che hanno caratterizzato la sua opera, il non essere, ma volerne inutilmente, esserne parte. Se si vuol capire ed amare Atget bisogna capire che egli non fu contemporaneo dei suoi contemporanei, nel suo animo viva un’altra età, irrimediabilmente conclusa, quel XVIII secolo nel quale si era ritirato. Non fu testimo del suo tempo. Non fotografò mai la Torre Eiffel, l’Esposizine Universale, non fu testimone delle inondazioni di Prigi del 1910, per lui è come se non fosse mai successo niente. Morì infine nell’Agosto del 1927, di miseria o di ulcera, o di dolore. Era infatti morta l’anno prima la sua compagna di una vita Valentine Delafosse e probabilmente Eugène non

si era mai ripreso da quel colpo. Aveva cessato ogni attività e si era quasi lasciato morire. Anche il regime alimentare che

seguiva e che riteneva il più sano (acqua, pane e zucchero) non gli bastò.

- matmo

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Articoli, recensioni e monografie a cura di Matteo Moca, Marco Vivarelli, Michele Luccioletti, Claudio Luccioletti, Samuele Gaggioli, Angela Felicetti, Alessia Mazzucato, Lorenzo Maffucci, Federico Pozzoni, Stefano Barone, Sara Marzullo, Fabrizio Randazzo, Roberto Beragnoli. Grafica e impaginazione a cura di Francesco Gori.Rivista autofinanziata, non a scopo di lucro, stampata in proprio nell’Aprile 2012. Per informazioni, critiche e consigli: [email protected] Magazine è consultabile e disponibile in download gratuito all’indirizzo http://issuu.com/feedback.magazine

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VIPER THEATRE25 apr. The Maccabees

29 apr. Marco Guazzone & STAG30 apr. Killing Joke5 mag. Diaframma

18 mag. Cursive + Velvet Score1 lug. Caribou Djset + Blawman

GIOVANNI LINDO FERRETTI5 mag. Sonar , Gracciano di Colle Val d’Elsa (SI)

PORTISHEAD27 giu. Ippodromo delle Capannelle, Roma

Vi sarà di sicuro capitato di sentir parlare di quarta dimensione, tuttalpiù in qualche vecchia pellicola sci-fi. Al di là della fantascienza, questa è una domanda importante e complessa, nella quale trovano un punto di polemica comune due delle caratteristiche più basilari dell’essere umano: la tendenza alla generalizzazione – espressa nella matematica – e quella alla trascendenza – espressa nelle religioni –. L’importanza, la delicatezza e la complessità della questione trovano un primo approdo letterario nel 1884, anno della pubblicazione a Londra di un libriccino di nome Flatlandia, a nome di A Square (letteralmente “Un quadrato”): a scriverlo in realtà è stato Edwin Abbott, teologo, insegnante e matematico “irregolare” e tuttavia intellettuale perfettamente inserito nel clima culturale dell’epoca. Anche Flatlandia prende parte – almeno superficialmente - al dibattito sugli iper-spazi (spazi con più di tre dimensioni), particolarmente diffuso nell’Inghilterra del tempo. La vicenda – giacchè, oltre ad essere satira sociale, introduzione all’insegnamento della geometria iperspaziale, riflessione sul rapporto tra scienza e religione, Flatlandia nel suo centinaio di pagine fa in tempo ad essere anche romanzo – è narrata proprio da un quadrato, abitante di un mondo a due dimensioni in cui tutto ciò che gli spigolosi abitanti riescono a vedere sono linee rette più o meno luminose. Gli abitanti di Flatlandia sono

Flatlandia di Edwin A. Abbott

Pregiudizi dimensionalidel tutto privi della possibilità di percepire l’altezza, terza dimensione dello spazio euclideo, e non ne ammettono l’esistenza. Partendo da tali presupposti, Abbott si diverte prima a condurre una spietata e velata satira allegorica ai costumi dell’epoca Vittoriana (le donne di Flatlandia sono segregate in quanto dotate di un angolo estremamente aguzzo e quindi letali; la società è rigidamente organizzata in caste, al cui vertice stanno i cerchi e il cui fondo è occupato dalla moltitudine dei triangoli isosceli e, più sotto, dagli irregolari; la censura e la repressione nei confronti di chi provi a diffondere verità geometriche alternative sono violente e immediate); nel secondo libro, la visita di una sfera proveniente da Spaziolandia (il mondo degli esseri che riescono a percepire le tre dimensioni) eleva il nostro umile quadrato a più alte vette di conoscenza, svelandogli il mistero dell’altezza. Il quadrato visita anche Linealandia (il mondo a una dimensione, il cui re può percepire e vedere solo un punto) e Puntolandia (abitata da un unico punto, incapace di concepire altro al di fuori di sè). Giunto a questo punto, il protagonista, galvanizzato, comprende ciò che neppure la Sfera aveva compreso: se esiste un mondo a zero dimensioni che ignora la prima dimensione, un mondo a una dimensione che ignora la seconda, un mondo a due dimensioni che ignora la terza; perchè non dovrebbe

esistere una quarta dimensione, una “regione più elevata e più pura” la cui conoscenza non è possibile a coloro che vivono a Spaziolandia? Giunti a questa intuizione (e fatto il riferimento alla divinità e alla varietà delle religioni come manifestazione di una dimensione a noi estranea – la quarta dimensione, appunto – che ogni popolazione interpreta in modo diverso), Flatlandia si tinge di pessimismo: la Sfera si mostra arrogante e rifiuta le idee del quadrato; quest’ultimo, tornato a Flatlandia per catechizzare i suoi concittadini, viene incarcerato e incomincia progressivamente a perdere ogni sicurezza riguardo qualsivoglia verità dimensionale. Ciò che rimane di tante mirabili scoperte, di tante speranze di progresso, è “l’edificio privo di fondamenta di un sogno”: esso, tuttavia, può essere ancora utile per “ispirare una stirpe di ribelli indocili ai confini di una dimensionalità limitata”. Proprio questa, forse, è la chiave di lettura più utile e apprezzabile dell’opera: criticando – da una parte e dall’altra - sia il materialismo scientifico sia chi ritiene di possedere verità di fede certe, Abbott innalza un inno di lode all’immaginazione, alla sua potenza e necessità in ogni campo dell’agire umano. Al di là di ogni sterile studio geometrico, al di là di ogni dogmatismo, al di là di ogni pregiudizio dimensionale.

- samgah

ARIEL PINK'S HAUNTED GRAFFITI1 mag. Circolo degli Artisti, Roma

JON SPENCER BLUES EXPLOSION12 mag. Locomotiv, Bologna

!!! (CHK CHK CHK)22 mag. Locomotiv, Bologna

HIGH PLACES24 apr. Hop, Genova

COLAPESCE27 apr. Sala Vanni, Firenze

SIC ALPS27 apr. Museo Marino Marini, Firenze

AFTERHOURS28 apr. Fnac, Firenze

MARLENE KUNTZ14 mag. Obihall, Firenze

OFFLAGA DISCO PAX24 apr. Estragon, Bologna

DENTE4 mag. Locomotiv, Bologna

AUCAN11 mag. TPO, Bologna

DIRTY THREE3 giu. Piazza Verdi, Bologna

M836 giu. Estragon, Bologna

PISTOIA BLUES FESTIVAL12 lug. B.B.King

13 lug. Paolo Nutini14 lug. John Hiatt & The Combo