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SVEVI ANGIOINI ARAGONESI ALLE ORIGINI DELLE DUE SICILIE INTRODUZIONE Glauco Maria Cantarella TESTI DI Marco Bussagli Fulvio Delle Donne Luigi Russo Mirko Vagnoni MAGNUS

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SVEVI ANGIOINI ARAGONESI ALLE ORIGINI DELLE DUE SICILIE

INTRODUZIONE

Glauco Maria Cantarella

TESTI DI

Marco Bussagli Fulvio Delle Donne

Luigi Russo Mirko Vagnoni

MAGNUS

Coordinamento editoriale: Luisa Chiap Cura redazionale: Jessica Basso Grafica e impaginazione: Gianfranco Casula © MAGNUS EDIZIONI Srl UDINE, ITALY 2009 Tutti i diritti di riproduzione, anche parziale, del testo e delle illustrazioni sono riservati in tutto il mondo. All rights of reproduction, in the whole or in part, of the text or the illustrations, are reserved throughout the world. ISBN 978-88-7057-221-6

L’ETÀ ANGIOINA E ARAGONESE

Fulvio Delle Donne

«E la bella Trinacria, che caliga

tra Pachino e Peloro, sopra ’l golfo

che riceve da Euro maggior briga,

non per Tifeo ma per nascente solfo,

attesi avrebbe li suoi regi ancora,

nati per me di Carlo e di Ridolfo,

se mala segnoria, che sempre accora

li popoli suggetti, non avesse

mosso Palermo a gridar: “Mora, mora!”».

(Dante, Paradiso, VIII, vv. 67-75)

« M A L A S E G N O R I A » A N G I O I N A

E R I N A S C I T A A R A G O N E S E

La rappresentazione della storia, spesso, procede per classificazioni, anzi molte volte ha bisogno di classificazioni che impongono categorie e giudizi. Così, una lunga tradizione, che, in buona parte, trae origine proprio dai versi

di Dante citati in epigrafe, continua a spingere verso una valutazione piuttosto negativa del regno angioino dell’Italia meridionale (1266-1442). Il giudizio di Dante era guidato essenzialmente da un’ansia di rinnovamento etico-politico, che condannava tutto ciò che non fosse retto da ragione o fede; e, per questo, facendo parlare Carlo Martello (1271-1295), figlio premorto di Carlo II d’Angiò (1248-1309), Dante attribuisce alla cupidigia la causa di quella «mala segnoria» che spinse, nel 1282, alla rivolta antiangioina famosa con il nome di Vespri siciliani: quella rivolta che impedì ai figli di Carlo Martello e di sua moglie Clemenza (figlia di Rodolfo d’Asburgo) di continuare a regnare sulla Sicilia.Naturalmente, il giudizio negativo sugli Angioini è stato, ormai, ampiamente rivisto e contestualizzato. Tuttavia, se, rispetto a quanto avevano osato gli Svevi, l’azione del governo angioino perdette in spettacolarità e grandiosità, l’epoca angioina, pur tra problemi di successione dinastica e di autonoma condotta politica, fu caratterizzata comunque da luminosi lampi di rinnovamento economico e artistico. La storia, si dice, non procede per salti, ma fra i tanti fili di continuità che legano le diverse epoche qualcuno ogni tanto si spezza, anzi, spesso, viene spezzato da chi vuole lasciare un segno del proprio passaggio. E certamente l’arrivo di Alfonso I d’Aragona, il Magnanimo (1396-1458), la cui guerra di conquista del regno durò circa vent’anni (1423-1442), costituì una brusca frattura, fatta di distruzioni

L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 1 8 1

I t e m p i d e g l i A n g i o i n i

U n a d e l l e s p l e n d i d e p l a c c h e d e l l ’ a l t a r e p o r t a t i l e d i A g r i g e n t o . S i t r a t t a d i p l a c c h e d ’ o t t o n e s m a l t a t e , a r r i c c h i t e c o n l a v o r i a s b a l z o e champlevés , f i s s a t e s u l e g n o d i p i o p p o , m a n i f a t t u r a s i c i l i a n a d e l s e c o l o X I I I , M u s e o D i o c e s a n o d i A g r i g e n t o .

A f r o n t e : C a r l o M a r t e l l o ( 1 3 4 5 - 1 3 8 6 ) , r e C a r l o I I I d i N a p o l i e C a r l o I I d i U n g h e r i a , p a r t i c o l a r e d e l l ’ o p e r a s c u l t o r e a d i T i n o d i C a m a i n o c h e i m p r e z i o s i s c e l a t o m b a d i M a r i a d ’ U n g h e r i a . C h i e s a d i S a n t a M a r i a D o n n a r e g i n a , N a p o l i .

A l l e p a g i n e p r e c e d e n t i : C a s t e l l o d i C o n v e r s a n o ( B a r i ) . S i e r g e s u u n a p r e c e d e n t e g r a n d i o s a c o s t r u z i o n e n o r m a n n a ; l e a g g i u n t e e l e m o d i f i c h e , s o p r a t t u t t o t r e e q u a t t r o c e n t e s c h e , n e m u t a r o n o l a p r i m i t i v a s t r u t t u r a d i f o r t e z z a i n q u e l l a d i f a s t o s a d i m o r a . D e g l i i n t e r v e n t i s v e v i e a r a g o n e s i s o n o a n c o r a r i c o n o s c i b i l i t r e m a s s i c c i t o r r i o n i q u a d r a t i ( s e c o l i X I I e X I I I ) , u n g r o s s o t o r r i o n e c i l i n d r i c o d e l s e c o l o X I I Ie u n b a s t i o n e p o l i g o n a l e d e l 1 4 6 0 .

1 8 2 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 1 8 3

e devastazioni, ma anche di un rinnovato splendore culturale che avviò il Meridione verso il Rinascimento. Così, ancora nella prima metà del XVI secolo, il musico e poeta Velardiniello esaltava l’età aragonese con questi versi:

«Saie quanno fuste, Napole, corona?

Quanno regnava casa d’Aragona».

G L I A S T O R I E L ’ A Q U I L O T T O : L ’ A R R I V O

D I C A R L O I D ’ A N G I Ò E L ’ E S E C U Z I O N E D I C O R R A D I N O

«Carlo, intanto, nella basilica del principe degli apostoli è investito

re di Sicilia... e secondo l’usanza è coronato col diadema regale.

Per la sua incoronazione furono fatte memorabili feste solenni

e furono celebrati nuovi tripudi gioiosi e solennità festose...

Dopo queste cose, sopravvenendo, già arriva la moltitudine

dei Francesi... Bramano di morire presto nella propria furia,

o, dopo aver fatto strage di nemici, desiderano e ardono di saziarsi

con l’abbondanza dello sperato oro e con i beni che possono

portar via».

In questo modo, Saba Malaspina († post 1297), all’inizio del libro III della Rerum Sicularum Historia (Storia delle cose siciliane), descrive l’incoronazione di Carlo I d’Angiò, accompagnato dai Francesi – poco dopo paragonati ad astori rapaci – che si pongono come unico intento quello di saccheggiare e devastare il regno di Sicilia. Già prima, comunque, aveva ricordato che i papi Urbano IV (1261-1264) e Clemente IV (1265-1268) avevano chiamato in Italia l’Angioino, fratello di Luigi IX di Francia (1214-1270) e signore di Provenza, per contrastare il potere di Manfredi (1232-1266), figlio di Federico II di Svevia (1194-1250), che si opponeva alle ambizioni temporali pontificie. Offrendogli il regno, i papi, in sostanza, pensavano di trovare nel suo braccio militare il sostegno e la forza per portare a termine quel disegno di predominio che era stato bloccato dagli Svevi. Ma, pur mostrandosi sempre formalmente sottomesso all’autorità papale, il nuovo sovrano non aveva intenzione di limitarsi a essere un docile strumento manovrato da altri. Egli mirava, piuttosto, a perseguire una propria aspirazione all’egemonia europea e mediterranea; e i dissapori col papa

I n c o n t r o c o n M a n f r e d i , p a g i n a i l l u s t r a t a d e l l a D i v i n a C o m m e d i a d i D a n t e A l i g h i e r i , C a n t o I I I , c . 9 3 v . O p e r a d e l M a e s t r o d i O f f i d a , s e c o l o X I V. B i b l i o t e c a O r a t o r i a n a d e i G i r o l a m i n i , N a p o l i .

A f r o n t e : S t a t u a i n m a r m o d i A l f o n s o I d ’ A r a g o n a , s c u l t u r a o t t o c e n t e s c a d i A c h i l l e D ’ O r s i ( 1 8 4 5 - 1 9 2 9 ) . P a l a z z o R e a l e , N a p o l i .

1 8 4 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 1 8 5

cominciarono già dopo la battaglia di Benevento (26 febbraio 1266), quando, dopo avere sconfitto Manfredi ed essersi impossessato, di fatto, del regno, Carlo permise che venisse saccheggiata quella città, che era soggetta alla sovranità pontificia.Gli inizi del suo regno, poi, furono resi ancora più incerti dalla discesa di Corradino (1252-1268), figlio di Corrado (1228-1254) e nipote di Federico II di Svevia. L’arrivo di quel giovane, che nel 1268 aveva appena sedici anni, coagulò le sacche di resistenza al potere angioino e tutte le residue forze ghibelline d’Italia. Al suo passaggio era acclamato con giubilo, e anche a Roma venne accolto con feste e tripudi. Lasciamo parlare direttamente le fonti.

«Cori di donne cantavano nella città al suono di cembali, di timpani, di flauti,

di viole e di ogni genere di strumento musicale... E gettate da una casa all’altra corde

e funi a mo’ di arco o ponte, coprirono il centro delle strade non con alloro o rami

d’albero, ma con vesti preziose e pelli variopinte, e, sospese alle corde, si vedevano

fasce, scudi, braccialetti, cerchietti d’oro e d’argento e altri ornamenti femminili...

e diademi ancora, e fibbie e monili, in cui rilucevano splendidissime gemme, e borse

di seta e coltri coperte di sciamito, bisso e porpora, e cortine e tovaglie e lini intessuti

interamente con fili d’oro, e veli e pallî dorati che il dotto artefice di qua e di là del mare

aveva tessuto con varia, difficile e preziosa materia. In questo modo, dunque, erano

ornate quasi tutte le vie di Roma, per le quali Corradino doveva passare per recarsi

al Campidoglio».

Insomma, seguendo ancora il racconto di Saba Malaspina, sembrava che la venuta di Corradino si profilasse come un trionfo. Ma la realtà fu diversa: il 23 agosto 1268, a Tagliacozzo, il suo esercito fu sconfitto pesantemente e lo stesso Corradino, fatto prigioniero, fu decapitato il successivo 29 ottobre nella piazza del Mercato a Napoli.

D u e v e d u t e i n t e r n e d e l c a s t e l l o d i L a g o p e s o l e ( A v i g l i a n o , P o t e n z a ) . I l c a s t e l l o , a p i a n t a r e t t a n g o l a r e , p r e s e n t a d u e c o r t i l i : i l m i n o r e , d i e p o c a a l t o n o r m a n n a , c o n s e r v a a l c e n t r o u n m a s t i o q u a d r a t o c u r i o s a m e n t e f u o r i a s s e r i s p e t t o a l r e s t o d e l l a s t r u t t u r a . I l c o r t i l e m a g g i o r e , r i s a l e n t e a l l ’ a m p l i a m e n t o i n i z i a t o d a F e d e r i c o I I n e l 1 2 4 2 , a s c o p o m i l i t a r e c u i s e g u i r o n o n u m e r o s i i n t e r v e n t i a n g i o i n i , i n c l u d e u n a v a s t a c i s t e r n a e u n a c a p p e l l a . G l i A n g i o i n i , s o t t o l a d i r e z i o n e d i P i e r r e d ’ A g i n c o u r t e J e a n d e To u l , r e s t a u r a r o n o l e c o p e r t u r e e d o t a r o n o i l m a n i e r o d i u n a c q u e d o t t o , d i s c u d e r i e e d i u n l a g o a r t i f i c i a l e p e r l ’ a l l e v a m e n t o i t t i c o . C a r l o I d ’ A n g i ò u t i l i z z ò i l c a s t e l l o s o p r a t t u t t o c o m e p r i g i o n e “ d i l u s s o ” : v i r i n c h i u s e f i n o a l l a m o r t e E l e n a A n g e l o C o m n e n o d i E p i r o , m o g l i e d i M a n f r e d i , e i s u o i f i g l i .

1 8 6 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I

«Abbracciò il carnefice e i compagni, e poi, levati gli occhi

al cielo, disse: “Creatore di tutte le cose, Cristo re di gloria,

se questo calice non deve passare da me, raccomando

nelle tue mani il mio spirito”. Quindi, distesosi a terra,

accomodò la testa sopra la pietra e il carnefice, sfoderata

la spada, gli spiccò la testa dalle spalle. In lui si compì

la scrittura che dice: “sarà ucciso sulla pietra l’aquilotto

figlio della vedova nel grembo della ninfa dardania”.

O misera condizione della sorte umana! O fragile mistero

della condizione umana! L’egregio giovane, già da tutti

magnificato, ora, fatto deforme, giace nella vile polvere».

È Bartolomeo di Neocastro († post 1293) a descriverci con questi accenti profetici la scena nella sua Historia Sicula (Storia siciliana). Ma Bartolomeo è un cronista che tende a far spiccare la crudeltà della dominazione angioina, e in questo contesto, di conseguenza, rappresenta anche Corradino con solennità, come dotato di grande dignità e coraggio. Diversa invece è l’immagine che risulta dalla descrizione del già citato cronista filo-papale Saba Malaspina, che punta maggiormente sul patetico e sui sentimenti filiali di Corradino, che così viene rappresentato al momento della cattura:

«Corradino, muto per il terrore e la paura, non osa dire nulla, né dolersi in se stesso

del suo infelice destino, ma soltanto va meditando sui pii affetti della madre e piange

il suo futuro dolore. “Ahimé, dice, madre mia, tu, quasi presaga della fortuna del figlio,

deploravi me mandato a tanti pericoli!”».

In ogni caso, l’evento destò grande scalpore. E lo sdegno per l’enormità che era stata commessa spinse l’esule ghibellino Pietro da Prezza a rivolgere al marchese Federico di Meissen (1257-1323), zio di Corradino, un’estrema, di fatto inascoltata, esortazione a far vendetta di chi «contro ogni giustizia, anzi contro Dio stesso, contro ogni diritto di guerra, contro l’antica consuetudine confermata dall’uso, la quale previde che mai nessun re preso in battaglia potesse essere ucciso... ebbe sete del sangue di così grande re né dubitò di saziarsi delle sue carni».

P o r t a l e d e l d u o m o d i M e s s i n a e f a c c i a t a d e l d u o m o ( a f r o n t e ) . F u c o n s a c r a t o i l 2 2 s e t t e m b r e d e l 1 1 9 7 a l l a p r e s e n z a d i E n r i c o V I e d e l l a s u a c o n s o r t e . L a s t r u t t u r a o r i g i n a r i a s u b ì n o t e v o l i t r a s f o r m a z i o n i n e l c o r s o d e i s e c o l i . N e l 1 2 5 4 , d u r a n t e i f u n e r a l i d i C o r r a d o I V, p a d r e d e l l o s v e n t u r a t o C o r r a d i n o , u n f u l m i n e s i a b b a t t é s u l l a c h i e s a d a n d o l u o g o a u n t e r r i b i l e i n c e n d i o . L a s a l m a d e l r e v e n n e q u a s i i n t e r a m e n t e c o n s u m a t a d a l l e f i a m m e , p r e s a g i o d e l l a f i n e i m m i n e n t e d e l l a d i n a s t i a .

1 8 8 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 1 8 9

« M U O I A N O I F R A N C E S I , M U O I A N O » :

I V E S P R I S I C I L I A N I

«Alcuni cittadini di Palermo, di entrambi i sessi, escono dalla città per solennizzare

la festa, che ogni anno solevano celebrare in tempo di Pasqua con grande allegria

e tripudio... Partecipano a tanta gioiosa festa anche alcuni valletti francesi...

Essi si mischiano alle brigate degli uomini e delle donne che ballavano cantando...

I Francesi toccano le mani delle donne, e forse più di quanto comporti l’onestà di esse;

volgono gli occhi alle più belle, e quelle che non possono toccare con la mano

o col piede, sollecitano con parole e con sguardi. Allora, visti tali eccessi, alcuni

insolenti giovani palermitani, fatti animosi dalla sola allegrezza... prorompono in parole

contumeliose contro i Francesi... È acceso il furore degli animi, con le armi e con

le pietre la gioventù palermitana dà addosso ai Francesi e c’è un grande accorrere

di molti uomini armati contro i Francesi... Si aduna una tumultuosa moltitudine

di persone che gridano: “Muoiano i Francesi, muoiano”».

L e c h i a v i d i u n a c i t t à c o n s e g n a t e a l d u c a d ’ A n g i ò , t a r d o s e c o l o X I V.B r i t i s h L i b r a r y , L o n d r a .

A f r o n t e : I l c a s t e l l o U r s i n o ( C a t a n i a ) . I l n o m e d e r i v a p r o b a b i l m e n t e d a C a s t r u m S i n u s , o v v e r o c a s t e l l o d e l g o l f o . A l s u o i n t e r n o s i v i s s e r o i m o m e n t i p i ù i m p o r t a n t i d e l l a g u e r r a d e l Ve s p r o e v i s i r i u n i r o n o , n a c q u e r o e m o r i r o n o i p i ù n o t i p e r s o n a g g i d e l l e t r e c a s a t e : s v e v a , a n g i o i n a e a r a g o n e s e .

1 9 0 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 1 9 1

«Ecco una nobile ninfa, assai graziosa nel volto, bella in tutto l’aspetto, che sarebbe

bastato guardarla senza toccarla... Allora un Francese di nome Droghetto corse audacemente

contro la nobile fanciulla, e, col pretesto di cercare se ella nascondesse armi dello sposo

o di altri del suo gruppo, arditamente con le mani, cacciandole sotto la veste, le tocca

impudicamente il seno, fingendo di volersi assicurare che ella non ne portasse...

Subito la fanciulla si irrigidì, e, mentre il sangue gelato fuggendo le abbandonava le membra,

l’aspetto della sua bellezza mutò in ansia di dolore... e già sembrava che lo spirito

le mancasse, benché fosse ancora viva... Immediatamente si leva un rumoroso tumulto

– non si sa da dove venga – e l’ira e il furore non hanno più freno. Un giovanetto, impadronitosi

della spada di Droghetto, lo colpisce nei fianchi e già gli intestini gli escono fuori...

I giovani, mancando le armi, afferrano le pietre, si solleva il popolo in tumulto, e, incominciata

la strage, ciascuno grida, così che l’aria risuona di orribili voci: “Muoiano i Francesi, muoiano”».

Uniti in quel grido di odio, riportato concordemente dalle fonti, i ribelli siciliani, radunati in parlamento, in un primo momento si sottomisero alla sovranità del papa, signore feudale dell’isola, ma successivamente offrirono la corona a Pietro III d’Aragona (1239-1285), il quale aveva sposato Costanza, figlia di Manfredi, e quindi vantava diritti dinastici al trono siciliano: e Pietro accettò, sbarcando a Trapani il 30 agosto 1282, circa cinque mesi dopo l’inizio della rivolta. Dopo essersi proclamato re di Sicilia, nominò, sempre nel 1282,

La repressione che seguì alla sconfitta di Corradino fu dura, e costituì anche l’occasione per proseguire l’operazione di rinnovamento della nobiltà feudale, che fu operata attraverso la sostituzione dei vecchi signori con nuovi cavalieri provenienti dalla Francia. A questo si aggiungeva anche la forte pressione fiscale, che doveva finanziare il progetto angioino di conquista dei territori bizantini nei Balcani. Forse questi motivi, in connessione anche con le aspirazioni aragonesi sulla Sicilia e con l’insoddisfazione papale per la politica angioina, furono all’origine dei cosiddetti Vespri siciliani, che, scoppiati il lunedì di Pasqua del 1282, vengono fatti risalire, per tradizione, alle molestie arrecate dai Francesi alle donne palermitane. Insomma, le motivazioni di quella insurrezione dovettero essere altre, rispetto a quelle raccontate da Saba Malaspina nel brano che abbiamo sopra riportato e che è contenuto nel libro VIII della sua già citata Rerum Sicularum Historia. Tuttavia, i grandi momenti della storia sono sempre avvolti dal mito, anzi si alimentano di esso fino quasi a perdersi nel suo alone di suggestione fantastica. Così, i Vespri sono stati costantemente caratterizzati come l’insorgere di un moto spontaneo, scaturito dallo sdegno popolare in seguito a un turpe atto compiuto ai danni dei deboli. E i particolari sono diventati sempre più dettagliati, i personaggi hanno avuto un nome, gli stati d’animo sono stati descritti minutamente, così da conferire al mito il vigore e l’energia della verità. Come accade nella narrazione del capitolo XIV dell’Historia Sicula di Bartolomeo di Neocastro.

L’ i n v e s t i t u r a d i u n v a s s a l l o , m i n i a t u r a d e l D e M a j e s t a t e d i J u n i a n o M a j o . B i b l i o t h è q u e N a t i o n a l e , P a r i g i .

I v e s p r i s i c i l i a n i , o p e r a d i F r a n c e s c o H a y e z ( 1 7 9 1 - 1 8 8 1 ) . G a l l e r i a N a z i o n a l e d ’ A r t e M o d e r n a , R o m a .

1 9 2 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 1 9 3

Ruggero di Lauria capo della flotta e Giovanni da Procida Gran Cancelliere del regno aragonese di Sicilia.La guerra che ne conseguì durò venti anni. Si concluse nel 1302 con la pace di Caltabellotta, che assegnava a Federico d’Aragona, figlio di Pietro e fratello minore di Giacomo, nuovo re d’Aragona, il dominio della Sicilia e il titolo di re di Trinacria. Carlo II d’Angiò (1285-1309), figlio di Carlo I, pur mantenendo il titolo di re di Sicilia, fu signore solo della parte peninsulare del regno. Lo stato di guerra, tuttavia, continuò, di fatto, ancora molto a lungo, come avremo ancora modo di vedere. Tuttavia, quello che si profilava come un conflitto politico-economico per il dominio di rotte commerciali e mercati mediterranei ebbe anche momenti di spettacolarizzazione cavalleresca.

S e p o l c r o d e l l a r e g i n a M a r i a d ’ U n g h e r i a , m o g l i e d i C a r l o I I d ’ A n g i ò ( m . 1 3 2 3 ) . S c u l t u r a m a r m o r e a e s e g u i t a d a T i n o d i C a m a i n o e a i u t i n e l 1 3 2 5 - 2 6 . C h i e s a d i S a n t a M a r i a D o n n a r e g i n a Ve c c h i a , N a p o l i .

A f r o n t e : I v e s p r i s i c i l i a n i , o p e r a d i D o m e n i c o M o r e l l i ( 1 8 2 6 - 1 9 0 1 ) . M u s e o d i C a p o d i m o n t e , N a p o l i .

1 9 4 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 1 9 5

L ’ O N O R E E L E A R M I :

I L D U E L L O D I B O R D E A U X

«Perché si evitino i pericoli di molte persone che possono venire dai futuri

eventi delle guerre e perché ci si possa guardare dallo spargimento di molto

sangue, il re Pietro d’Aragona chiede che, tra lui e Carlo d’Angiò,

le predette cose si definiscano con un singolar tenzone,

e che con un duello si indaghi la verità della cosa...

E nel caso in cui il nostro re sia vinto da voi, non solo

vi cederà il regno di Sicilia, ma non vuol essere neppure più

chiamato re di Aragona, né apparire tra i suoi famosi cavalieri,

ma, abbandonate le insegne militari, girare il mondo senza meta.

Se, invece, rimanendo voi sconfitto in campo, egli prevalga, la terra

che occupate, senza fatica di guerra né alcuno ostacolo, voi dovrete

lasciare a lui liberamente il nome e il titolo di re di Sicilia».

Probabilmente fu l’Angioino Carlo I a lanciare la sfida, che avrebbe dovuto risolvere in maniera definitiva il conflitto per il possesso della Sicilia, come se si trattasse di una ordalia; ma il testo citato, ripreso ancora da Saba Malaspina, riporta le parole di Pietro d’Aragona. Numerose, comunque, furono le lettere che i due sovrani si scambiarono – e che ci sono pervenute – durante l’organizzazione di quel duello, che si sarebbe dovuto svolgere in campo neutro, a Bordeaux, il primo giugno del 1283. Si sarebbe dovuto svolgere, abbiamo detto; sì, perché il duello, in effetti, non si fece mai. Entrambi i contendenti, arrivando sul terreno scelto per lo scontro in momenti diversi, trovarono il modo

S t o c c o d a c a v a l l o a u n a m a n o e m e z z a , d a t a t o 1 4 5 4 . M u s e o C i v i c o d i B o l o g n a .

A f r o n t e : S c e n a d i t o r n e o , f o l i o 3 7 r d e l C o d i c e M a n e s s e . B i b l i o t e c a u n i v e r s i t a r i a d i H e i d e l b e r g .

A r m a t u r a i t a l i a n a d e l l ’ u l t i m o q u a r t o d e l s e c o l o X I V. R o y a l A r m o u r i e s , L e e d s .

A r m a t u r a i t a l i a n a q u a t t r o c e n t e s c a . M e t r o p o l i t a n M u s e u m o f A r t , N e w Yo r k .

1 9 8 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 1 9 9

per evitare quella che, nel 1886, un illustre storico dei Vespri, Michele Amari, bollò come una commedia. La crudezza della guerra, con quella sfida mai realizzata, veniva sublimata, per trasformarsi in uno spettacolo in cui, al pari di una giostra, i cavalieri avrebbero potuto mettere in mostra le proprie virtù e, soprattutto, la propria nobiltà; uno spettacolo in cui, mescolando perfettamente il tronfio richiamo alle proprie illustri origini dinastiche e la vacuità dell’alto senso dell’onore, i contendenti trovarono, allo stesso tempo, l’occasione per dare espressione a un rinnovato ideale estetico, composto di variopinta fantasia ed emozione eroica.

A s s a l t o a l c a s t e l l o d ’ a m o r e , p a r t i c o l a r e e i n t e r o d i v a l v a d i s p e c c h i o i n a v o r i o i n t a g l i a -t o , a r t e f r a n c e s e d e l s e c o l o X I V. Q u e s t i p r e z i o s i o g g e t t i v e n i v a n o g e n e r a l m e n t e r e a l i z z a t i d a a r t i g i a n i p a r i g i n i r i u n i t i n e l l a c o r p o r a z i o n e d e i p e i g n e r s e t l a n t e r n i e r s , c i o è s p e c i a l i z z a t i a n c h e n e l l a r e a l i z z a z i o n e d i p e t t i n i e l a n t e r n e . G l i s p e c c h i e r a n o p o r t a t i d a l l e d a m e a p p e s i a l l e c i n t u r e . M u s e o N a z i o n a l e d e l B a r g e l l o , F i r e n z e .

A l l e p a g i n e s e g u e n t i : D u e p r e z i o s i a c q u a m a n i l i i n b r o n z o s b a l z a t o , a r t e s v e v a d e l s e c o l o X I I I . M u s e o d e l B a r g e l l o , F i r e n z e . E r a n o c o n t e n i t o r i p e r l ’ a c q u a c h e v e n i v a n o p o s t i s u l l e t a v o l e a r i s t o c r a t i c h e p e r c o n s e n t i r e a i c o m m e n s a l i d i s c i a c q u a r s i l e d i t a d u r a n t e p r a n z i o b a n c h e t t i . A s s u m e v a n o f o r m e f a n t a s i o s e c o m e c a v a l i e r i i n a r m i , m a a n c h e g r i f o n i , d r a g h i o l e o n i .

2 0 0 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 2 0 1

2 0 2 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 2 0 3

L A S E P A R A Z I O N E D E L L A S I C I L I A

«L’ammiraglio Ruggiero di Lauria arma prudentemente ventotto galee e, esortate

le sue genti e invocato il nome della Vergine madre di Cristo, naviga verso Napoli, dove,

aiutato dall’immenso favore di Dio, si proponeva di distruggere le forze del nemico

e disperdere le frodi dei Francesi... Invocato il nome della gloriosa Vergine della Scala

e quello del Battista, assaltò audacemente e con gran tumulto le galee nemiche...

Allora incominciò un terribile combattimento... Grandissima fu la strage dei Francesi,

i quali avevano mani e piedi impegnate nel combattimento navale. Nel sangue dei Francesi

le armi nuotano e con quel sangue sono bagnati i combattenti... Allora il principe

Carlo II d’Angiò, vedendo che stava per morire insieme con i suoi, disse gridando:

“Messinesi, vi è tra voi un cavaliere?”. E l’ammiraglio Ruggiero rispose: “C’è, sono io”.

Allora, subito Carlo disse: “Ammiraglio, accoglieteci e salvate me e i miei compagni,

giacché la sorte vuole così. Io sono il principe”. Udito ciò, l’ammiraglio subito li accolse,

e, avendoli fatti salire sulla sua galea, li onorò e li fece onorare come si conveniva al loro grado».

Carlo I era di ritorno da Bordeaux, quando venne a sapere della pesante sconfitta subita dalla sua flotta nel golfo di Napoli il 5 giugno 1284. In quello scontro, come abbiamo visto attraverso le parole di Bartolomeo di Neocastro sopra citate, fu fatto prigioniero anche l’erede al trono angioino, il principe di Salerno Carlo II, detto lo Zoppo. Carlo I fu affranto dal dolore, ma fu anche pervaso dalla rabbia per l’operato temerario del figlio, che, sperando in una facile vittoria, era venuto a battaglia contravvenendo ai suoi ordini; sei mesi dopo, il 7 gennaio 1285, venne a morte. Le sorti della guerra sembravano ormai compromesse, ma essa proseguì, mentre il nuovo re Carlo II era ancora

prigioniero. La direzione dello stato angioino tornò momentaneamente nelle mani di papa Martino IV, che inviò truppe per reprimere le insurrezioni che immediatamente scoppiarono, e proclamò una crociata contro gli Aragonesi, dopo aver già scomunicato, nel novembre del 1282, Pietro III d’Aragona.Poco dopo, comunque, l’11 novembre 1285, morì anche Pietro III, lasciando come successore al trono di Sicilia il figlio Giacomo (1267-1327). E questi, dopo aver accordato agli Angioini una tregua biennale, il 27 ottobre 1288, a Campofranco, sui Pirenei, stipulò un accordo che, mantenendo lo status quo nel regno di Sicilia, prevedeva la liberazione del re di Napoli, Carlo II, in cambio dei suoi figli che dovevano rimanere in ostaggio al suo posto. Carlo II, una volta liberato, fu incoronato re dal papa a Rieti, il 29 maggio del 1289.

L a p a r t e n z a d e i p r i g i o n i e r i a n g i o i n i c a t t u r a t i d a F e r d i n a n d o d ’ A r a g o n a . P a g i n a m i n i a t a d e l m a n o s c r i t t o D e M a j e s t a t e d i N a r d o R a p i c a n o , r i s a l e n t e a l 1 4 9 2 . B i b l i o t e c a N a z i o n a l e , P a r i g i .

A f r o n t e : R e C a r l o V s a l e a b o r d o d i u n a n a v e . S i a i l r e c h e i l s u o v e s s i l l i f e r o m o s t r a n o l ’ e m b l e m a a n g i o i n o d e l g i g l i o , s e c o l o X V. M a n o s c r i t t o i l l u s t r a t o , B r i t i s h L i b r a r y , L o n d r a .

2 0 4 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 2 0 5

N A P O L I D I V E N T A C A P I T A L E

Nel progettato duello di Bordeaux del 1283, di cui abbiamo parlato nelle pagine precedenti, riverberava un tipo di cultura che, col richiamo alle virtù e alle cortesie esaltate nelle liriche provenzali e nei romanzi cavallereschi, si venne diffondendo proprio nei primi anni del regno angioino. E se l’intento sotteso a quei proclami di sfida era quello di colpire la fantasia degli uomini dell’intera Europa, esso sortì il suo effetto, se è vero che l’ammirazione per la cortesia e la cavalleria di Carlo penetrò talmente nell’“immaginario collettivo”, che quelle “nuove” virtù vennero, poi, ricordate nella novella LXXX del Novellino e nella sesta della decima giornata del Decameron di Boccaccio.

L’epoca angioina, comunque, soprattutto a partire da Carlo II, segna l’ascesa di Napoli a rango di capitale. Lo Studium (Università) fondato in quella città da Federico II nel 1224 dovette inizialmente fungere da catalizzatore per l’attenzione dei nuovi sovrani: tanto che il 24 ottobre del 1266, a pochi mesi dalla battaglia di Benevento, Carlo I lo riaprì dopo un periodo di chiusura. E, in seguito, furono fatti grandi sforzi soprattutto per lo sviluppo delle scienze giuridiche, grazie alla presenza di illustri maestri, come Marino di Caramanico (att. 1269-91), Sparano di Bari (1250 ca-1295), Bartolomeo di Capua (1248-1328) o Andrea di Isernia (professore dal 1289 al 1316), che diedero nuovo vigore e nuovi fondamenti allo studio di quella disciplina. Ma fu dato rilievo anche alle indagini nel campo delle scienze naturali e, in particolare, della medicina, grazie alla tradizione legata alla vicina Salerno, nonché al nuovo fervore di contatti con la scienza araba, classica ed ebraica.In ogni caso, da quel momento, la storia di Napoli si viene a fondere indissolubilmente con quella dell’intero regno. La città divenne il simbolo del nuovo potere e un formidabile centro di irradiazione culturale. Fu dato, così, avvio alla costruzione del Castel Nuovo,

L a n c i l l o t t o a t t r a v e r s a i l p o n t e d i s p a d e p e r s a l v a r e l a r e g i n a G i n e v r a e B a u d e m a g u s , r e d i G o r r e . L a n c i l l o t t o s i i n c o n t r a c o n B a u d e m a g u s . I l l u s t r a z i o n e d e l m a n o s c r i t t o M . 8 0 5 , f o l i o 1 6 6 , d e L e R o m a n d u L a n c e l o t d u L a c , s e c o l o X I V. T h e P i e r p o n t M o r g a n L i b r a r y , N e w Yo r k .

A f r o n t e : U n n o b i l e m a l a t o è p r e m u r o s a m e n t e a s s i s t i t o , m i n i a t u r a d e l D e c r e t u m G r a t i a n i , f o l i o 1 6 5 v , m a n o s c r i t t o d e l s e c o l o X I I I . B i b l i o t e c a M u n i c i p a l e d i L a o n .

2 0 6 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 2 0 7

destinato a diventare residenza regia: i lavori, cominciati nel 1279, furono affidati a Pierre de Chaula; sulla collina di Sant’Erasmo fu fatto costruire il castello di Belforte, il futuro Castel Sant’Elmo; furono fondati monasteri e chiese, riccamente addobbati. Soprattutto gli anni in cui regnò Roberto (1309-1343) furono scanditi dalla presenza, a Napoli, di illustri artisti, che seppero conferire lustro alla città. Si pensi, solo per fare qualche nome, a Tino di Camaino (1285-1337), che, a partire dal 1325, fu attivo presso la chiesa di Santa Maria Donnaregina e in Santa Chiara; a Simone Martini (1284 ca-1344), che, intorno al 1317, lavorò in San Lorenzo Maggiore. Ma si pensi, soprattutto, a Giotto (1266 ca-1337), che sia pure in tarda età fu chiamato nella capitale del regno nel 1328. Come racconta Giorgio Vasari (1511-1574), Roberto usò addirittura suo figlio Carlo (1298-1328), duca di Calabria, per inoltrare l’invito a quel celebre artista, perché venisse ad affrescare la chiesa e il monastero francescani di Santa Chiara, la cui costruzione, in quegli anni, era stata appena completata. Purtroppo dell’attività svolta da Giotto durante la sua permanenza a Napoli, durata sei anni, non ci sono rimaste che poche tracce, ma la sua opera, prestata soprattutto in Santa Chiara e in Castel Nuovo, era destinata a generare influenze notevoli sulla tecnica e sulla cultura delle maestranze locali.

P a g i n a d e l R e g i m e n S a n i t a t i s d e l l a S c u o l a M e d i c a S a l e r n i t a n a , f o l i o 5 3 v , s e c o l o X I V. B i b l i o t e c a N a z i o n a l e V i t t o r i o E m a n u e l e I I I , N a p o l i .

A f r o n t e : L’ a r c o d i t r i o n f o d i C a s t e l N u o v o , N a p o l i , s t r e t t o t r a l a p o d e r o s a m a s s a d e l l a To r r e d i G u a r d i a e d e l l a To r r e d i M e z z o .

2 0 8 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I

L a b o t t e g a d e l l o s p e z i a l e , i n c u i v e n i v a n o p r e p a r a t i i m e d i c a m e n t i , g l i u n g u e n t i e i c o l o r i . A f f r e s c o d i i g n o t o a r t i s t a d e l s e c o l o X V, c o n s e r v a t o n e l c a s t e l l o d i I s s o g n e , Va l d ’ A o s t a .

2 1 0 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 2 1 1

T R A M E D I O E V O E U M A N E S I M O :

L ’ E P O C A D I R O B E R T O D ’ A N G I Ò

«Era in del tempo de lo ditto Virgilio un castello edificato dentro mare, sovra uno scoglio,

come perfi’ mo’ è, il quale se chiamava lo Castello Marino overo di Mare, in dell’opera

del quale castello Virgilio, delettandose con soe arte, consacrò un ovo, il primo che fe’

una gallina: lo quale ovo puose dentro una caraffa per lo più stritto forame de la detta caraffa,

la quale caraffa et ovo fe’ ponere dentro una gabia di ferro suttilissimamente lavorata.

E la detta gabia, la quale contineva la caraffa e l’ovo, fe’ ligare o appendere o chiovare

con alcune lamine di ferro sotto uno trave di cerqua che stava appoggiato per traverso

a le mura d’una cammarella fatta studiosamente per questa accasione con doe fossice,

per le quali intrava il lume; e con grande diligenzia e solennità la fe’ guardare in de la detta

cammarella in luogo segreto e fatto siguro da bone porte e chiavature di ferro, imperoché

da quell’ovo, da lo quale lo Castello pigliò il nome, pendevano tutti li fatti del Castello.

Li antiqui nostri tennero che dall’ovo pendevano li fatti e la fortuna del Castello Marino:

zoè lo Castello dovìa durare tanto quanto l’ovo si conservava cossì guardato».

A f r o n t e : U n a p a r t i t a a s c a c c h i a l l i e t a t a d a i m u s i c i d i c o r t e , p a g i n a i l l u s t r a t a d e l C o d i c e M a n e s s e , f o l i o 1 3 r. B i b l i o t e c a U n i v e r s i t a r i a d i H e i d e l b e r g .

S c a c c h i e r a i n a v o r i o i n t a g l i a t o e d e b a n o , o p e r a d i a r t i s t a i t a l i a n o , s e c o l o X V. M u s e o N a z i o n a l e d e l B a r g e l l o , F i r e n z e . D i f o r m a q u a d r a t a e r i p i e g a b i l e a l i b r o , e s s a p r e s e n t a t u t t ’ i n t o r n o u n f r e g i o c o n s c e n e d i v i t a c o r t e s e .

L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 2 1 3

Anche in questo modo il ruolo di Napoli viene accresciuto: rappresentando in maniera mitica lo sviluppo della città. Così, la prima parte dell’anonima Cronaca di Partenope, risalente all’incirca alla metà del XIV secolo, tramanda una delle leggende che collegavano Virgilio (70-19 a.C.) alla città di Napoli, ponendosi a un importante crocevia della diffusione medievale della tradizione che faceva di Virgilio un potente mago, oltre che un impagabile benefattore di Napoli. Da lui vennero fatti gli acquedotti, le fontane, i pozzi e le cloache della città; fu lui a istituire il “Gioco della Carbonara”, una sorta di esercizio guerresco; fu sempre lui a costruire una cicala di rame, che scacciò tutte le cicale da Napoli, e altri potenti talismani, capaci di proteggere la città. Tali leggende ebbero molta diffusione e resero quasi indistinta la figura storica del poeta da quella fantastica del mago. Tanto che, durante l’esame per l’incoronazione poetica, interrogato da re Roberto d’Angiò su cosa pensasse del racconto secondo cui Virgilio, a Napoli, aveva realizzato la grotta di Fuorigrotta, Petrarca (1304-1374) rispose di non aver mai saputo che Virgilio facesse lo spaccapietre.Se la prima parte della Cronaca di Partenope risponde ai criteri di un tipo di cultura classificabile ancora come “medievale”, negli stessi anni si andavano, però, gettando le basi dell’Umanesimo, grazie alla stabile presenza di colonie fiorentine, ma soprattutto per il mecenatismo di re Roberto. Questi fu un sovrano che, dai suoi contemporanei, venne spesso celebrato per la sua cultura, ma, allo stesso tempo, anche vituperato per le sue strategie politiche. Raccolse un enorme numero di libri nella sua ricca biblioteca, messa su senza badare a spese e collocata in Castel Capuano; inoltre, si dedicò con

A f r o n t e : P a g i n a d e i M a n o s c r i t t i V i r g i l i a n i ( D i s c e s a d i E n e a a g l i I n f e r i ) f o l i o 7 7 v , s e c o l o X V. B i b l i o t e c a N a z i o n a l e V i t t o r i o E m a n u e l e I I I , N a p o l i .

C a s t e l d e l l ’ O v o ( N a p o l i ) . I l c u r i o s o n o m e c o m i n c i a a e n t r a r e n e l l i n g u a g g i o c o m u n e n e l c o r s o d e l s e c o l o X I V, f o r s e p e r l a s u a f o r m a e l l i t t i c a o f o r s e p e r u n a d e l l e t a n t e l e g g e n d e l e g a t e a l l a f a m a d i V i r g i l i o , r i t e n u t o n e l M e d i o e v o u n m a g o . N e l 1 4 5 8 v i m o r ì A l f o n s o d ’ A r a g o n a .

2 1 4 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 2 1 5

enorme passione e accanimento alla composizione di sermoni: ce ne rimangono circa trecento, che recitò in ogni circostanza, in chiese, conventi, assemblee politiche, sedute dello Studium, così che Dante, a buon diritto, lo definì, piuttosto sprezzantemente, “re da sermone”.Roberto, durante il suo regno, dové fronteggiare la discesa in Italia dell’imperatore Arrigo VII (1275-1313), venendone ricompensato dal papa col titolo di Vicario imperiale; continuò la guerra contro il regno di Sicilia, come vedremo in seguito; ma riuscì anche a dare un nuovo impulso di crescita civile al regno. Fu detto “Saggio” e fu lui che Petrarca – come abbiamo già ricordato – scelse come proprio esaminatore quando, nel 1341, fu insignito dell’alloro poetico. Gli anni del suo regno furono segnati, del resto, dalla straordinaria presenza e influenza culturale di un altro padre della nostra letteratura, Giovanni Boccaccio (1313-1375). Figlio illegittimo del mercante Boccaccino di Chellino, Boccaccio venne a Napoli nel 1327, insieme col padre, socio della potente banca fiorentina dei Bardi, e vi rimase

M o n u m e n t o a d A r r i g o V I I , o p e r a d i T i n o d i C a m a i n o , C a m p o s a n t o , P i s a .

R o b e r t o d ’ A n g i ò , i l S a g g i o ( 1 2 7 8 - 1 3 4 3 ) r e d i N a p o l i ( 1 3 0 9 - 1 3 4 3 ) i n t r o n o . I l l u s t r a z i o n e p e r u n c o d i c e c o n s e r v a t o a l l a B r i t i s h L i b r a r y , L o n d r a .

A f r o n t e : M u s i c i a l l a c o r t e a n g i o i n a , i l l u s t r a z i o n e d i a u t o r e i g n o t o d e l l a m e t à d e l s e c o l o X I V, p e r i l D e M u s i c a , d e A r y t m e t i c a d i B o e z i o , c . 4 7 r. B i b l i o t e c a N a z i o n a l e V i t t o r i o E m a n u e l e I I I , N a p o l i .

2 1 6 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 2 1 7

fino all’inizio del 1341. Qui compì tutta la sua formazione mercantile, giuridica e letteraria, e qui compose diverse opere: la Caccia di Diana, un poemetto in terzine in cui si passano in rassegna le più belle dame napoletane nascoste sotto le spoglie delle ninfe, che si ribellano a Diana (casta dea della caccia) per offrire le proprie prede a Venere (dea dell’amore), la quale trasforma gli animali in bellissimi uomini; il Filostrato, in ottava rima, che rivisita la materia troiana, parlando dell’amore infelice e mortale di Troilo, figlio del re di Troia Priamo, per la volubile prigioniera greca Criseida, che, una volta liberata

e tornata dai suoi, dimentica l’innamorato concedendosi a Diomede; il Filocolo, in prosa, che costituisce un’esaltazione del mondo della cavalleria e della cortesia, riproducendo le avventure e gli amori di Florio, figlio del saraceno re di Spagna, e Biancifiore, figlia di un nobile romano ucciso proprio dai soldati di quel re; il Teseida, in ottave, poi rivisto a Firenze, caratterizzato da un fitto intrico narrativo di tipo cortese incentrato sull’amore degli amici Arcita e Palemone per Emilia, regina delle Amazzoni. A Napoli Boccaccio piantò anche le radici affettive, se è vero che, dopo il forzato ritorno a Firenze, ricordò

C a s s o n e l i g n e o c o n i l l u s t r a t a u n a n o v e l l a d e l B o c c a c c i o : l a m o g l i e d i M e s s e r To r e l l o a c c o g l i e i l S a l a d i n o , a n o n i m o f i o r e n t i n o . M u s e o N a z i o n a l e d e l B a r g e l l o , F i r e n z e .

P a g i n a m i n i a t a d e l D e m u l i e r i b u s c l a r i s , m a n o s c r i t t o q u a t t r o c e n t e s c o d i G i o v a n n i B o c c a c c i o . M . 3 8 1 , f o l i o 3 3 v , T h e P i e r p o n t M o r g a n L i b r a r y , N e w Yo r k .

2 1 8 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 2 1 9

«Roberto non si vergognò mai di imparare, vecchio filosofo e re; mai gli rincrebbe

di trasmettere ciò che sapeva; questo, sgorgandogli dal cuore, ebbe sempre sulle labbra:

che insegnando e imparando si diventa sapienti. Di quanto amore per le lettere ardesse,

lo mostra sicuramente un suo detto che io udii proprio con le mie orecchie. Un giorno,

durante un lungo colloquio, mi domandò perché fossi andato tanto tardi a fargli visita,

e io – come era vero – giustificandomi col fatto che i pericoli del viaggio per terra e per mare

e i vari impedimenti della fortuna avevano frenato i miei desideri, mi capitò, non so come,

di menzionare il re di Francia... al quale gli studi letterari erano tanto molesti che dicevano

tenesse i precettori del figlio in conto di nemici... A sentire ciò, quell’animo generoso sobbalzò

e fremette in tutto il corpo; rimase un po’ in silenzio, tenendo gli occhi fissi a terra... poi alzò

la testa e mi disse: “Questa è la vita umana, e le inclinazioni, le aspirazioni, le tendenze

sono varie. Ma io giuro che le lettere mi sono più care e più dolci dello stesso regno;

e se l’uno o l’altro dovesse venirmi a mancare, perderei la corona più volentieri che le lettere”.

sempre Napoli con nostalgia, evocandola anche nelle sue opere più mature, come nel Decameron, in cui la città fa da sfondo alla memorabile novella di Andreuccio da Perugia. In quella che oramai era senza più dubbio alcuno la capitale del regno, egli partecipò alla vita brillante dell’aristocrazia napoletana e dell’alta borghesia fiorentina, portando a maturazione la sua esperienza amorosa, soprattutto quella per Fiammetta, figura in cui si sintetizzano tradizionali suggestioni letterarie, significati allegorici e icastica raffigurazione della realtà concreta. Insomma, Roberto fu un lungimirante estimatore di uomini di ingegno, che attrasse alla sua corte, ricevendone, in cambio, quelle lodi e quel prestigio che riverberarono su tutta la corte. Tanto che Francesco Petrarca, nei Rerum memorandarum libri (Libri delle cose memorabili), celebrandone la dottrina e l’amore per le lettere, descrive la figura del sovrano angioino in questo modo:

B o c c a c c i o e P e t r a r c a n e l l o s t u d i u m , p a g i n a d e l m a n o s c r i t t o i l l u s t r a t o d a l M a e s t r o d e l l a C i t é d e s D a m e s c o n s e r-v a t a a l l a B r i t i s h L i b r a r y , L o n d r a .

A n d r e a d e l C a s t a g n o , i r i t r a t t i d i D a n t e A l i g h i e r i e G i o v a n n i B o c c a c c i o , a f f r e s c h i s t a c c a t i . G a l l e r i a d e g l i U f f i z i , F i r e n z e .

2 2 0 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 2 2 1

« L ’ O N O R D I C I C I L I A » :

L ’ E T À F E L I C E D I F E D E R I C O D ’ A R A G O N A

«Federico, il terzo con questo nome, fratello di Giacomo... che era stato dichiarato

re di Sicilia col consenso di tutti, assumendo il regno nel 1286 regnò 39 anni.

Uomo dotto e buono, che amò eccezionalmente i Siciliani e li ebbe tutti come figli

e fratelli, fu certamente di tanta umanità, che sembra abbia avuto sempre avanti

agli occhi quella sentenza di Traiano: “Conviene – dice Traiano – che l’imperatore

si comporti nei confronti dei privati così come desidera che i privati si comportino

nei suoi confronti”. Per cui Federico meritò di essere amato da tutti».

Torniamo adesso alla Sicilia, riandando al momento in cui, in seguito ai trattati di Campofranco del 1288, Carlo II d’Angiò venne liberato e successivamente incoronato re, riaccendendo il conflitto con gli Aragonesi. Dunque, il 18 giugno del 1291, il fratello di Giacomo, Alfonso III (1265-1291), morì improvvisamente, lasciando a Giacomo l’Aragona, Valencia, la Catalogna e il governo di Maiorca, e, al contempo, disponendo che la Sicilia andasse al terzo fratello Federico (1272-1337). Così, Giacomo divenne

Che frase degna di un filosofo e davvero degna di essere venerata da tutti gli studiosi!...

Espertissimo di sacre scritture, illustre cultore della filosofia, oratore egregio, incredibile

conoscitore della fisica; di poesia non si occupò che sommariamente, e – come più volte

l’ho sentito dire – in vecchiaia se ne dispiacque».

Giudizi lusinghieri su re Roberto sono espressi da Petrarca anche in altre opere. D’altronde non fu l’unico a farlo: anche il cronista Giovanni Villani (1280 ca-1348) lo definì «il più savio tra’ cristiani... sì di senno naturale, sì di scienza, come grandissimo maestro in teologia e sommo filosofo».Tuttavia, in contrasto con tale immagine di detentore di somma sapienza, risalta quella, più gretta, di avarizia e incapacità a governare, influenzata da ragioni di ordine politico. Emblematici di questo tipo di caratterizzazione sono i versi 76-78 e 145-147 dell’VIII canto del Paradiso di Dante, in cui, per bocca di Carlo Martello (1271-1295), primogenito di Carlo II e destinato a regnare se non fosse morto giovane, Roberto viene considerato buono solo a pronunciare prediche, mentre il fratello Ludovico (1275-1297), vescovo di Tolosa canonizzato nel 1317, viene giudicato più adatto a fare il guerriero:

«E se mio frate questo antivedesse

l’avara povertà di Catalogna

già fuggeria, perché non li offendesse...

Ma voi torcete a la religione

tal che fia nato a cignersi la spada

e fate re di tal ch’è da sermone».

I v o l t i d i S a n L u d o v i c o d i To l o s a e d i R o b e r t o d ’ A n g i ò , s u o f r a t e l l o , p a r t i c o l a r i . S i m o n e M a r t i n i , S a n L u d o v i c o d a To l o s a e l e s u e s t o r i e , 1 3 1 7 , t e m p e r a s u t a v o l a , M u s e o N a z i o n a l e d i C a p o d i m o n t e , N a p o l i .

To r r e d e l l a C o l o m b a r a ( Tr a p a n i ) . P o s s e n t e c o m p l e s s o a r c h i t e t t o n i c o c o n d u e t o r r i c e n t r a l i , l a p i ù a l t a – t r e n t a d u e m e t r i – d e t t a a p p u n t o “ d e l l a C o l o m b a r a ” h a f o r m a o t t a g o n a l e c h e r i m a n d a i m m e d i a t a m e n t e a C a s t e l d e l M o n t e e a l l a To r r e d i F e d e r i c o I I a E n n a . L a t o r r e p i ù b a s s a e r a o c c u p a t a d a u n a c i s t e r n a a p i a n t a c i r c o l a r e , s c a v a t a n e l l a r o c c i a . N o n s e n e c o n o s c e e s a t t a m e n t e l ’ a n n o d i c o s t r u z i o n e , i p r i m i d o c u m e n t i c h e l a n o m i n a n o r i s a l g o n o a l l a f i n e d e l s e c o l o X I I I .

2 2 2 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 2 2 3

sposato la figlia di Carlo II d’Angiò. Federico sarebbe rimasto governatore della Sicilia. Federico d’Aragona approfittò del malcontento dei Siciliani, che, sentendosi traditi dal nuovo re aragonese, temevano la revoca delle concessioni ottenute. L’11 dicembre 1295 il Parlamento siciliano, da lui convocato e riunito a Palermo, dichiarando decaduto Giacomo, proclamò Federico III re di Sicilia, e riconfermò la scelta il successivo 15 gennaio. L’incoronazione ufficiale avvenne il 25 marzo del 1296 nella Cattedrale di Palermo.Il regno di Federico III fu lungo, e lasciò un ottimo ricordo di sé nei siciliani, come abbiamo letto nel passo che sopra abbiamo riportato, tratto dalla cronaca, scritta in latino, di Nicolò da Marsala. E anche Dante, nel III canto del Purgatorio, facendo parlare Manfredi di Svevia, definì probabilmente proprio quel sovrano «onor di Cicilia e d’Aragona», intenzionato com’era, secondo una certa tradizione che fa capo a frate Ilaro e a Boccaccio, a dedicargli il Paradiso. La Historia Sicula del coevo monaco francescano Michele da Piazza termina proprio con un epitaffio che suona così:

«I popoli della Sicilia piangono, gioiscono i celesti

numi, la terra geme, il re Federico è morto».

Dunque, il regno di Federico III è stato spesso esaltato come un nobile periodo di lotta

sovrano della corona d’Aragona e inviò il fratello Federico in Sicilia come governatore. L’unione della Sicilia all’Aragona comportò che l’isola perdesse, in parte, d’importanza nell’attenzione di Giacomo, aprendo la possibilità a nuovi accordi, ventilati soprattutto dal papato. E il 12 giugno del 1295 Bonifacio VIII (1295-1303), dando seguito a una proposta del suo predecessore Celestino V (1294), ad Anagni stipulò con Giacomo d’Aragona e con Carlo II d’Angiò un trattato, secondo cui Giacomo acconsentì a cedere la Sicilia e a liberare i tre figli di Carlo II che teneva in ostaggio. In cambio avrebbe ottenuto i feudi di Sardegna e di Corsica, se li avesse saputi conquistare, e avrebbe

D e t t a g l i o s c u l t o r e o d e l l a t o m b a d i F e d e r i c o I I I d ’ A r a g o n a ( 1 2 7 2 - 1 3 7 7 ) n e l l a c a t t e d r a l e d i C a t a n i a .

F e d e r i c o I I I d ’ A r a g o n a , r e d i S i c i l i a , f i g l i o d i P i e t r o I I I d ’ A r a g o n a e d i C o s t a n z a I I d i S i c i l i a . M i n i a t u r a t r a t t a d a l l a C r o n a c a d i S p a g n a d e l 1 3 4 4 . A c c a d e m i a d e l l e s c i e n z e , L i s b o n a .

2 2 4 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 2 2 5

contro la Napoli angioina, ed egli stesso è assurto a simbolo della tensione patriottica all’indipendenza. E anche se, probabilmente, si fece sostenitore degli interessi particolari del baronato siciliano, in ogni caso riuscì a reggere il peso della guerra che gli mossero i sovrani angioini, Bonifacio VIII – che proclamò anche una crociata contro di lui – e lo stesso fratello Giacomo. Anche il re di Francia, Filippo IV il Bello (1268-1314), inviò contro di lui un esercito al comando del fratello Carlo di Valois (1270-1325), pretendente al trono siciliano, che penetrò fino a Sciacca. Infine, il 31 agosto 1302, venne siglata la pace di Caltabellotta, che – come abbiamo già ricordato – sanciva la fine della guerra del Vespro, garantendo a Federico il titolo di re di Trinacria fino alla sua morte. Quella pace prometteva a entrambi i Regni, quello napoletano e quello siciliano, un decennio di tranquillità, che terminò, però, in coincidenza con la discesa dell’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo, a cui Federico si alleò contro Roberto d’Angiò, riconosciuto come capo della fazione guelfa. Nel 1312, dunque, Federico assunse il titolo di Re di Sicilia e non più di Trinacria, e, due anni dopo, fece proclamare da un consesso di giudici che il proprio figlio, Pietro (1305-1342), poteva succedergli sul trono di Sicilia. Sia pur inframmezzati da diverse tregue, seguirono lunghi anni di guerra, e solo nel 1372, con la pace di Avignone, gli Angioini riconobbero formalmente il dominio aragonese sulla Sicilia, a patto che i sovrani aragonesi si chiamassero re di Trinacria e pagassero un tributo annuo.Anche se, nel 1321, Federico aveva fatto incoronare il figlio Pietro come suo successore, in realtà egli continuò a governare fino alla morte, avvenuta il 25 giugno 1337. La Sicilia, sia pure formalmente, continuò anche in seguito a rimanere indipendente, pur se l’autorità regia era venuta declinando a vantaggio di un sempre maggiore potere visibilmente riconosciuto alle più potenti famiglie baronali dell’isola.

Tr e d e l l e t r e n t a s e t t e i l l u s t r a z i o n i d e l C o d i c e d i B a l d o v i n o , i l v e s c o v o f r a t e l l o d i A r r i g o V I I d i L u s s e m b u r g o , q u e s t ’ u l t i m o f i g u r a e m b l e m a t i c a a t t o r n o a l l a q u a l e r u o t a n o l e v i c e n d e c h i a v e c h e s e g n a n o l a f i n e d e l p a r t i t o g h i b e l l i n o . M o r t e d e l l a r e g i n a M a r g h e r i t a ( 9 d i c e m b r e 1 3 1 1 ) . B a t t a g l i a d a v a n t i a I n c i s a ( 1 8 s e t t e m b r e 1 3 1 2 ) : R o b e r t o d ’ A n g i ò c o n t r o i C o l o n n a . To r n e o p e r i f e s t e g g i a m e n t i d i P i s a ( e s t a t e 1 3 1 3 ) .

A f r o n t e : R o b e r t o d ’ A n g i ò i l S a g g i o , r e d i N a p o l i d a l 1 3 0 9 a l 1 3 4 3 , i n u n d i p i n t o d i s c u o l a n a p o l e t a n a , s e c o l o X V. M u s e o d i C a p o d i m o n t e , N a p o l i .

L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 2 2 7

I N T R I G H I E A S S A S S I N Î :

L A C R I S I D E L R E G N O D I G I O V A N N A I D ’ A N G I Ò

«Il povero duca Andrea, fidandosi, con ingenuo animo giovanile, delle parole ingannevoli

dei malvagi, promise che sarebbe andato a caccia con loro… Ma i perfidi traditori,

che avevano sete del sangue del duca, colta un’occasione, fecero chiamare il duca dal

ministro di camera. E poiché lo chiamavano anch’essi, subito il duca, da ragazzo ingenuo

che era, destatosi dal sonno, si alzò dal letto, e, avendo fiducia in coloro che lo chiamavano,

dal momento che li conosceva, aperta la porta della camera subito uscì disarmato, vestito

di un giubbetto e di un fine copricapo, e in ciabatte. Uscito fuori, nella sala, senza por tempo

in mezzo gli iniqui traditori gli misero le mani addosso per ucciderlo: infatti, non poteva

morire né di ferro, né di veleno, per virtù di un anello che gli aveva donato la sua povera madre.

Allora il duca, poiché era forte e agile, visto il pericolo di morte, difendendosi virilmente

con le mani, lanciando orribili grida, riuscì a liberarsi, e con i capelli dorati strappati e con

il volto graffiato cercava di correre verso la sua stanza, per prendere le armi e difendersi

da uomo… Però, l’iniquissimo Bertrando, figlio di Carlo Artus, che si sentiva colpevole

più degli altri, ispirato da spirito diabolico, prese con forza il duca e, lottando, lo bloccò;

chiamati gli altri, portarono lo stesso duca a un loggiato dello stesso edificio, sopra il giardino,

e, strappandogli i capelli d’oro e colpendolo con violenti calci, messogli un cappio al collo,

A f r o n t e : S c e n a d i c a c c i a t r a t t a d a l l o s p l e n d i d o L i v r e d e c h a s s e d i G a s t o n P h e b u s ( 1 3 3 1 - 1 3 9 1 ) .

I l l o g g i a t o n e o - g o t i c o d e l p r o s p e t t o m e r i d i o n a l e d e l c a s t e l l o d i D o n n a f u g a t a .

2 2 8 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I

C a s t e l l o d i D o n n a f u g a t a ( R a g u s a ) . L a p r i m a c o s t r u z i o n e s e m b r a d o v u t a a i C h i a r o m o n t e . L’ i n s o l i t o n o m e p a r e d e r i v i d a u n e p i s o d i o r o m a n z e s c o q u a l e l a f u g a d e l l a r e g i n a B i a n c a d i N a v a r r a , v e d o v a d e l r e M a r t i n o I d ’ A r a g o n a e r e g g e n t e d e l r e g n o d i S i c i l i a . B i a n c a v e n n e i m p r i g i o n a t a n e l c a s t e l l o d a l c o n t e B e r n a r d o C a b r e r a c h e a s p i r a v a a l l a s u a m a n o e , s o p r a t t u t t o , a l t i t o l o d i r e . I n r e a l t à l a c o s t r u z i o n e d e l c a s t e l l o è s u c c e s s i v a a t a l e l e g g e n d a . S e c o n d o a l t r i i l n o m e è l a l i b e r a i n t e r p r e t a z i o n e e t r a s c r i z i o n e d e l t e r m i n e a r a b o A y n a s J a f a t ( F o n t e d e l l a S a l u t e ) c h e i n “ s i c i l i a n o ” d i v e n n e R o n n a f u a t a , d a c u i l a d e n o m i n a z i o n e a t t u a l e .

2 3 0 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 2 3 1

Ma l’epoca del regno di Giovanna I (1327-1382), nipote di Roberto, fu soprattutto caratterizzata da gravi disordini politici e militari, da intrighi e da assassinî. Col suo avvento, infatti, si aprì una complessa crisi dinastica, generata dalla rivalità fra i tre rami della casa angioina: quella di Durazzo, quella di Taranto e quella d’Ungheria. Per tentare di evitare contestazioni alla successione dinastica, Roberto fece sposare Giovanna con Andrea (1327-1345), figlio di Caroberto re d’Ungheria (1308-1342). Ma proprio in seguito a questo matrimonio si ebbe un momento di complessa crisi per il regno.Più sopra abbiamo riportato la vivida – e parzialmente fiabesca, nel particolare dell’anello che protegge dal ferro e dal veleno – descrizione della morte di Andrea d’Ungheria fatta, in latino, dal cronista Domenico di Gravina (1310 ca-post 1350). Quell’assassinio, avvenuto nel 1345, fornì a Luigi d’Ungheria (1226-1382), fratello di Caroberto, l’occasione per invadere, nel 1348, il regno, perché si sospettava che Giovanna, all’epoca del fatto appena diciottenne, fosse complice consapevole.All’arrivo di Luigi d’Ungheria, Giovanna scappò in Provenza col suo secondo marito, Luigi di Taranto (1320-1362), sposato nel 1346, lasciando il regno allo sbando e in balìa degli ungheresi. Quando vi tornò, nel 1352, dopo essere stata assolta dall’accusa di aver fatto uccidere il primo marito, riordinare la situazione risultò molto faticoso. La cosa fu resa ancora più complessa dalle incertezze sulla successione al trono. Giovanna, infatti, nonostante si fosse sposata altre due volte, non lasciò eredi diretti. Per cui, quando scelse come suo successore al trono Luigi d’Angiò (1339-1384), fratello del re di Francia Carlo V (1338-1380), Carlo III di Durazzo (1345-1386), che in un primo momento era stato proclamato erede del regno, nel 1381 occupò Napoli, facendo imprigionare e successivamente (il 27 luglio 1382) uccidere Giovanna, che era sua zia. Morto improvvisamente in Puglia Luigi d’Angiò – che era sceso in Italia dopo essere stato incoronato ad Avignone re di Napoli da papa Clemente VII (1378-1394) – nel 1384 Carlo di Durazzo divenne sovrano assoluto del regno.

lo impiccarono come fosse un ladro, tenendolo sospeso fino a farlo morire; poi lo

gettarono giù nel giardino sottostante. E aperta la porta della sala subito se ne andarono,

come se non avessero fatto nulla».

Se la situazione siciliana, alla morte di Federico III, presentava segni di forte crisi, anche nella parte peninsulare la morte di Roberto segnò un momento di forte cesura. Dal punto di vista dello sviluppo culturale, si continuò ad avere qualche riverbero del più antico splendore, soprattutto quando, nel 1348, divenne gran siniscalco il fiorentino Niccolò Acciauoli (1310-1365), che fu amico di Petrarca e di Boccaccio, e che era giunto giovanissimo a Napoli, nel 1331, come rappresentante della già potente banca del padre.

R a o u l d e P r e s l e s o f f r e i l m o d e l l i n o d e l l a C i v i t a t e D e i d i S a n t ’ A g o s t i n o a l r e d i F r a n c i a C a r l o V ( 1 3 3 8 - 1 3 8 0 ) . I l l u s t r a z i o n e d i u n c o d i c e t r e c e n t e s c o c o n s e r v a t o a l l a B i b l i o t h è q u e d e s A r t s D e c o r a t i f s , P a r i g i .

L a c o n q u i s t a d i N a p o l i d a p a r t e d i C a r l o d i D u r a z z o .

2 3 2 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 2 3 3

L a c o n q u i s t a d i N a p o l i d a p a r t e d i C a r l o d i D u r a z z o . P a n n e l l o d i u n c a s s o n e r e a l i z z a t o f r a i l 1 3 8 1 e i l 1 3 8 3 d a l M a e s t r o d i C a r l o d i D u r a z z o . M e t r o p o l i t a n M u s e u m o f A r t , N e w Yo r k .

2 3 4 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 2 3 5

D A U N A G I O V A N N A A L L ’ A L T R A :

L A D I N A S T I A D U R A Z Z E S C A

«Questo fine ebbe la regina Giovanna prima nepote del re Roberto, molto predicata

di prudenza e di valore da molti scrittori et esaltata da Baldo e Angelo fratelli,

illustri dottori nostri, in alcuni suoi trattati e consigli; benché un alto iurisconsulto

napolitano di quel tempo la chiami ruina e non reina del regno di Napoli, ponendovi

questi dui versi in biasmo del feminil governo:

Regna regunt vulvae, gens tota clamat simul: Oh, vae!

Interitus regni est a muliere regi».

I quali versi in lingua vulgare ridotti al meglio che si può cosi dicono:

«Se vulva regge: Ohimè! – gridan le lingue –

il feminil governo il regno estingue».

Incerto fu, dunque, il giudizio dei contemporanei sull’operato di Giovanna I, come dimostra questo passo di Pandolfo Collenuccio (1444-1504), contenuto nel libro V del suo Compendio de le istorie del regno di Napoli. Fatto sta, comunque, che il regno, alla sua morte, era spossato dal calo demografico e dalle devastazioni degli eserciti, che per alcuni decenni consumarono le risorse della popolazione. Con l’avvento di Carlo di Durazzo, chiamato “Carlo della pace”, instauratore di una nuova dinastia, le cose sembrarono migliorare, almeno per un po’, e il regno ricominciò a giocare un ruolo importante nella storia della nostra penisola. Tuttavia, il 24 febbraio 1386, Carlo fu ucciso a Buda, dove si era recato per essere incoronato re d’Ungheria come erede di re Luigi.Dopo la sua morte, la moglie Margherita di Durazzo (1347-1412) fu reggente per il figlio Ladislao (1376-1414), che aveva solo nove anni. Quel periodo fu caratterizzato da forti contrasti. Costituito un consiglio di magistrati che reggesse le sorti del regno in questa fase, la fazione avversa alla linea dinastica durazzesca proclamò re Luigi II d’Angiò (1377-1417), figlio di quel Luigi I che la regina Giovanna aveva nominato erede in contrapposizione a Carlo III. Così, lo scontro assunse presto le proporzioni di una vera e propria guerra. Nel 1387 Luigi II d’Angiò occupò Napoli e vi rimase finché Ladislao, ormai ventitreenne, non riuscì a riconquistarla, nel 1399. Domato energicamente il regno al suo interno, Ladislao volse ben presto la sua attenzione oltre i confini dell’Italia meridionale. Nel 1408 giunse ad assediare e a prendere Roma, finendo col minacciare l’equilibrio politico dell’Italia centro-settentrionale. Alessandro V, eletto papa nel 1409 nel concilio di Pisa, dopo averlo scomunicato, richiamò in Italia Luigi II d’Angiò e lo nominò re di Napoli. Seguirono anni di guerre contro Luigi II e contro la lega guidata da Firenze e Siena; Ladislao giunse persino a minacciare la stessa Firenze. Insomma, egli condusse il proprio esercito lungo tutta la penisola: guidato dal motto «aut Caesar aut nihil» («o Cesare o niente»), sul suo stendardo fece iscrivere queste parole: «Io sono un povero re, amico delli saccomanni / Amatore delli popoli e distruttore dei tiranni».

To m b a i n m a r m o d e l l a r e g i n a M a r g h e r i t a d i D u r a z z o , p r i m a m e t à d e l s e c o l o X V.O p e r a d i B a b o c c i o A n t o n i o d a P i p e r n o e d i A l e s s i o V i c o . C a t t e d r a l e d i S a l e r n o .

2 3 6 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 2 3 7

Questo è il giudizio complessivo che di Ladislao diede il già citato Pandolfo Collenuccio, che, come già abbiamo visto per Giovanna I, indulge su dettagli particolarmente sapidi, anche nel raccontare la morte del sovrano durazzesco: essa sarebbe stata effetto di un veleno, ma non assunto per via orale, perché, come ci dice sempre Collenuccio, Ladislao era particolarmente sospettoso del cibo che gli veniva preparato.Non possiamo dire se l’avvelenamento ci fu realmente, e se furono i Fiorentini a organizzarlo. Fatto sta che, comunque, la sua politica costituì effettivamente un grave pericolo soprattutto per Firenze, che in più di un’occasione si diede da fare per spezzare ogni mira egemonica sull’Italia centro-settentrionale, ovunque si palesasse. Secondo una antica tradizione storiografica, di matrice essenzialmente risorgimentale, Ladislao fu un campione dell’unità d’Italia, guidato dal sogno di costruire una grande realtà statuale che comprendesse l’intera penisola, unificata sotto la corona di Napoli e le insegne dei Durazzo; e, per conseguire questo fine, avrebbe rinunciato anche alla conquista dell’Ungheria, di cui fu incoronato re nel 1403. Forse, però, fu semplicemente spinto dalla necessità di difendere la sua corona e di rafforzare il suo regno, la cui stabilità, tuttavia, sarebbe stata definitivamente compromessa dall’evoluzione del successivo scontro dinastico. Ladislao morì senza eredi a trentasette anni, e, nel 1414, gli successe la sorella Giovanna II (1373-1435), che aveva già quarantuno anni.

«Fu Ladislao assai bell’uomo di persona, bellicoso e ambizioso di stati, gagliardo e vigoroso

molto ne le cose che facea; in tanto temuto da ogni uomo, che a’ fiorentini massimamente,

de li quali era naturale inimico, e a tutte le altre potenze parse essere liberati per la sua

morte da ogni sospettosa vita e pericolo: perché non dubitavano punto che se ‘l fusse

vissuto, in ogni modo aveano ad esser sottomessi al suo dominio. Amò l’armi e li soldati

sommamente, e in tutte le imprese, ove non si fusse trovato per altre cagioni impedito,

voleva essere lui con la persona propria a governare e guidare li eserciti.

Fu vigilante molto e robusto a la fatica; balbutiva alquanto nel suo parlare, del che credevano

fusse stata cagione un certo veneno che in sua giovinezza li fu dato a bevere: del quale

stette a gran pericolo de la vita, e fu liberato con farsi mettere spesso nel corpo de li muli

aperti, e cavati l’interiori, mentre erano ancor caldi, persuadendoli li medici periti di questo,

che quel caldo era atto a risolvere quel veneno...

E in somma fu estimato Ladislao essere da commemorare più presto tra li buoni principi

che tra li cattivi. De la generazione e modo de la morte sua variano li scrittori.

Dicono alcuni, e così suona la comune fama, che essendo lui in Perosa, per opera

de’ fiorentini fu attossicato da una femina, con la quale lui aveva commercio venereo,

avendosi ella posti ne la natura alcuni medicamini mortali, da li quali poi infetto

e senza rimedio infermato, morisse».

M o n u m e n t o f u n e b r e i n m a r m o d i r e L a d i s l a o . P a r t i c o l a r e d e l s a r c o f a g o c o n l a f i g u r a d e l r e g i a c e n t e . O p e r a d i M a r c o e A n d r e a d a F i r e n z e ( s e c o l o X V ) . C h i e s a d i S a n G i o v a n n i a C a r b o n a r a , N a p o l i .

I l c a s t e l l o f o r t e z z a d i O r i o l o ( C o s e n z a ) e r a g i à f e u d o d i C a r l o I I d ’ A n g i ò n e l 1 2 6 5 .

2 3 8 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 2 3 9

Anche il regno della seconda Giovanna, così come quello della prima, fu molto travagliato. Ebbe due mariti e vari favoriti, ma anch’ella morì senza lasciare eredi diretti. Il suo secondo marito, Giacomo II di Borbone, conte de La Marche (1370-1438), sposato nel 1415, prese subito in mano le redini del governo, e, sebbene gli fosse stato negato il titolo di re, ricevendo solo quello di Principe di Taranto e Duca di Calabria, la relegò in Castel Nuovo, fino a quando, nel settembre 1416, ella non riconquistò la libertà in seguito a un violento tumulto popolare. Così poté finalmente farsi consacrare regina di Napoli il 19 ottobre 1419. Ma venuta in contrasto col papa Martino V (1417-1431), che contemporaneamente proclamò re di Napoli Luigi III (1403-1434), figlio del defunto Luigi II, si trovò subito in gravissime difficoltà. Per cui, avendo bisogno di un difensore contro Luigi, sbarcato nel regno nel 1420, lo cercò in Alfonso d’Aragona, definito il Magnanimo (1396-1458), nominandolo suo erede tramite l’adozione come proprio figlio. Quest’atto creò le premesse per l’avvento della dinastia aragonese, ma fu all’origine di una guerra all’incirca ventennale, perché quell’adozione fu presto revocata e Giovanna, nel proprio testamento, elesse come proprio erede Renato d’Angiò (1409-1480), fratello di Luigi.

«Fama lasciò di sé di instabile e impudica, dicendosi di lei che

ne la instabilità sola fu stabile e che sempre era stata innamorata,

avendo in più modi e con molti la sua onestà per lascivia maculata,

ma sopra tutto con Pandolfello Alopo e Urbano Aurilia e messer

Giovanni Caracciolo gran siniscalco, tutti tre gentiluomini e molto

destri, virtuosi e costumati, ma sopra ogni cosa di persona e di effigie

bellissimi... La prima occasione che ebbe la regina di farli intendere

che lo amava fu, che essendo lui sommamente pauroso di sorci, un dì

giocando a scacchi ne l’anticamera de la regina, lei proprio fece buttare

un sorcio addosso al Caracciolo: lui per paura correndo e urtando questo

e quello, fuggì ne l’uscio de la camera ove era la regina e addosso le venne

a cadere, e in cotal modo lei il suo amore li scoperse: né stette molto dappoi

questo atto, che gran siniscalco fu creato».

Ancora Pandolfo Collenuccio caratterizza in questo modo Giovanna II, l’ultima regina della dinastia durazzesca. Probabilmente tutte le dicerie che circolarono sul suo conto sono il frutto della fantasia popolare che tende a enfatizzare coloristicamente la realtà. Ma, si sa, la storia è fatta anche di miti che siano in grado di rappresentare icasticamente il passato. Così, a Giovanna (senza fare troppe distinzioni tra la prima e la seconda) fu attribuita ogni sorta

di ignominia. E ancora di recente, quando, durante gli scavi per la costruzione della metropolitana di Napoli, è stato trovato, nel fossato del Castel Nuovo, lo scheletro di un coccodrillo, c’è stato chi ha pensato che fosse quello a cui Giovanna dava in pasto i suoi amanti, dopo che ne avevano soddisfatto le voglie; oppure, anche, quello a cui, secondo una leggenda indagata da Benedetto Croce, Ferrante condannò i ribelli della Congiura dei Baroni, avvenuta nel 1485-86 e di cui parleremo più avanti.

P a g i n a i l l u s t r a t a d e l L i b r o d ’ O r e d i A l f o n s o d ’ A r a g o n a , c . 1 3 5 v, a u t o r e i g n o t o , s e c o l o X V. B i b l i o t e c a N a z i o n a l e V i t t o r i o E m a n u e l e I I I , N a p o l i .

A f r o n t e : S t e m m a r a p p r e s e n t a n t e l a p a c e t r a A l f o n s o d ’ A r a g o n a e R e n a t o d ’ A n g i ò . C a p p e l l a d i S a n t a B a r b a r a , C a s t e l N u o v o , N a p o l i .

L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 2 4 12 4 0 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I

M e d a g l i a : R / r i t r a t t o d i p r o f i l o d i A l f o n s o V d ’ A r a g o n a ; V / a q u i l a e a l t r i r a p a c i . O p e r a d e l P i s a n e l l o . M u s e o N a z i o n a l e d e l B a r g e l l o , F i r e n z e .

2 4 2 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 2 4 3

di sé». Gli successe Ludovico, chiamato anche il Fanciullo (1337-1355), che divenne re ad appena cinque anni e morì a soli diciassette, dopo aver visto la popolazione decimata dalla peste nera del 1347. Dopo di lui ascese al trono siciliano il fratello Federico IV (1341-1377), sotto il cui regno si accesero violenti scontri tra il partito “latino”, capeggiato dalla famiglia Chiaromonte, e quello “catalano” guidata dalla famiglia Alagona. Niccolò da Marsala descrisse così quel sovrano:

«Fu un uomo certamente buono, ma d’ingegno semplice, per la qual cosa i Siciliani

lo chiamarono Asino».

Federico fu ostaggio ora dei Latini, ora dei Catalani, fu costretto a dare in pegno i gioielli della corona, quasi non osava recarsi a Palermo, dove Manfredi Chiaromonte viveva in un palazzo più lussuoso della stessa reggia. Tuttavia fu sotto il suo regno che, nel 1372, si giunse alla stipula del trattato di pace che sanciva la fine della guerra con gli Angioini. Alla sua morte non lasciò discendenti maschi, e, ancora una volta, questa fu l’occasione per nuovi contrasti e “colpi di teatro” dai colori sempre più tragicomici. Subito, infatti,

L A F I N E D E L L ’ I N D I P E N D E N Z A S I C I L I A N A

«Maria, figlia di Federico, donna illustre non solo per origine e costumi, ma anche d’animo,

mentre nel 1485 Artale di Alagona la teneva rinchiusa nel castello di Catania, viene rapita

da Guglielmo Raimondo di Moncada, uomo nobilissimo, e da lui viene condotta in Celtiberia,

ovvero in Catalogna, con somma reverenza e onore. Poi, nell’anno del Signore 1489,

fu concessa in matrimonio a Martino, figlio di Martino duca di Monblanc, a cui portò in dote

il regno di Sicilia».

Prima di continuare a parlare di Alfonso il Magnanimo, e della riunificazione delle due parti del regno meridionale, dobbiamo riprendere le fila della storia siciliana. Qualche pagina addietro avevamo ricordato la successione di Pietro a Federico III, morto nel 1337, e avevamo accennato alla crisi successivamente verificatasi in Sicilia. In effetti, quegli anni furono caratterizzati da una generale dissoluzione della società e del potere regio, ridotto spesso a simbolo farsesco. Il già citato Niccolò da Marsala, parlando del regno di Pietro, dice di non risultargli che quello avesse «lasciato memoria

C a s t e l l o C h i a r o m o n t e a M u s s o m e l i ( C a l t a n i s s e t t a ) , c o r t e i n t e r n a . L a c o s t r u z i o n e , d i f o r m a p o l i g o n a l e a s e t t e l a t i d i s p o s t i a t e n a g l i a , p r e s e n t a i n t e r e s s a n t i a s p e t t i r i f e r i b i l i a l l ’ a r c h i t e t t u r a m i l i t a r e d e i s e c o l i X I V e X V. I l c o r p o d i f a b b r i c a p r i n c i p a l e s i a f f a c c i a s u l l a p a r e t e s u d - o r i e n t a l e a s t r a p i o m b o d a c u i , s e m b r a , s i e s e g u i s s e r o l e c o n d a n n e c a p i t a l i .

2 4 4 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 2 4 5

C a s t e l b u o n o ( P a l e r m o ) . N e l f e u d o d i u n a d e l l e p i ù p o t e n t i f a m i g l i e b a r o n a l i s i c i l i a n e , s o r g e i l c a s t e l l o d e i Ve n t i m i g l i a , f a t t o e r i g e r e d a l c o n t e F r a n c e s c o n e l 1 3 1 6 . M e n t r e e r a v i c a r i o d i S i c i l i a i l c o n t e F r a n c e s c o I I d i Ve n t i m i g l i a , n e l c a s t e l l o s o g g i o r n ò i l s o v r a n o F e d e r i c o I I I d ’ A r a g o n a n e l 1 3 5 7 .

2 4 6 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 2 4 7

si aprì il problema della scelta di uno sposo per la figlia di Federico, Maria (136 1402), ancora quattordicenne, che venne affidata alla tutela, o meglio, alla custodia forzata del Gran Giustiziere Artale Alagona, così come si può leggere ancora nel passo di Nicolò da Marsala che abbiamo citato all’inizio del paragrafo.Quello che accadde a Maria può essere eletto a emblema della confusione e della decadenza della dinastia regia siciliana di quegli anni. Mentre si decideva delle sorti future della regina, l’ostilità degli altri grandi baroni siciliani spinse Artale di Alagona a formare il Consiglio o Governo dei quattro Vicari, costituito, oltre che da lui stesso, anche da Francesco Ventimiglia conte di Geraci, da Manfredi Chiaramonte conte di Modica e da Guglielmo Peralta conte di Caltabellotta. I quattro vicari imposero proprie tasse e si impadronirono delle terre demaniali: insomma, esercitarono tutti i diritti sovrani. Così Guglielmo Raimondo di Moncada, escluso da quella sfrontata spartizione di potere, rapì Maria, già promessa sposa a Gian Galeazzo Visconti (1347-1402), e la portò a Barcellona, dove fu data in sposa a Martino (1374-1409), nipote del re d’Aragona Pietro IV (1319-1387). Così, nel 1392, Martino sbarcò in Sicilia per prendere possesso dell’isola e fu incoronato insieme a Maria nella Cattedrale di Palermo. Molti dei signori dell’isola, rendendosi conto di non poter fronteggiare un re forte e guidato da una ferma volontà di conquista,

U n o d e i c a s s e t t o n i d e c o r a t i c h e i m p r e z i o s i s c o n o i l s o f f i t t o d e l l a S a l a m a g n a d i P a l a z z o C h i a r o m o n t e o S t e r i ( d a H o s t e r i u m , p a l a z z o f o r t i f i c a t o ) a P a l e r m o .

A f r o n t e : I C h i a r o m o n t e , d o m i n a t o r i d i g r a n p a r t e d e l l a S i c i l i a o c c i d e n t a l e , c o s p a r s e r o l a Va l d i M a z z a r a d i n u m e r o s e c o s t r u z i o n i f o r t i f i c a t e , t r a l e q u a l i s p i c c a i l c a s t e l l o d i M u s s o m e l i c h e , d a l m o n t e , d o m i n a t u t t o i l t e r r i t o r i o c i r c o s t a n t e .

3-

2 4 8 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I

P a l a z z o C h i a r o m o n t e a t t e s t a i l p r e s t i g i o d e l l a p i ù p o t e n t e f a m i g l i a f e u d a l e s i c i l i a n a d e l s e c o l o X I V. A p i a n t a q u a d r a t a c o n a t r i o c e n t r a l e , f u i n i z i a t o d a M a n f r e d i C h i a r o m o n t e n e l 1 3 0 7 e c o m p l e t a t o n e l l e d e c o r a z i o n i , c o m m i s s i o n a t e d a M a n f r e d i I I I , f r a i l 1 3 7 7 e i l 1 3 8 0 . S i m o n e d a C o r l e o n e , C e c c o d i N a r o e P e l l e g r i n o d e A r e n a d a P a l e r m o f u r o n o g l i a r t i s t i c h e , a t e s t i m o n i a n z a d e l p r o p r i o o p e r a t o , f i r m a r o n o i l s o f f i t t o . E s s i c o n c e p i r o n o u n a r t i c o l a t o p r o g r a m m a f i g u r a t i v o c o m p o s t o d a s t o r i e m i t o l o g i c h e , v e t e r o t e s t a m e n t a r i e e c a v a l l e r e s c h e .

2 5 0 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 2 5 1

fecero atto di sottomissione: a opporsi invano all’esercito catalano di Bernat Cabrera rimasero solo i Chiaromonte, gli Alagona e pochi altri. L’anonima Storia Sicula che tratta in volgare siciliano gli eventi degli anni 1337-1412, sintetizza così questi eventi:

«Undi da poi facto lo matrimonio, lo predicto Martino cum la predicta Maria vinni

in Sicilia, et expugnando vinsi quisti Baruni tanto di Claramunti, como eciam di Alagona,

di Peralta, di Vintimiglia e di Monticatino, et quilli fichi moriri per la rebellioni

et prodicioni, li quali primo contro li Cathalani, et poi contro lo Re haviano facto et commiso;

et cussì quisto Re Martino pacificamenti lo regno di Sicilia felicementi sucta lo suo

dominio possessi».

Dopo che Maria morì, nel 1402, estinguendosi con lei la dinastia aragonese-sicula, iniziata con Federico III d’Aragona, Martino abrogò le clausole del trattato del 1372 e si autoproclamò re di Sicilia; ma in realtà, a reggere la Sicilia fu il padre, che alla sua morte gli successe, sia pure per un solo anno, col nome di Martino II (1356-1410). La storia della Sicilia, insomma, si era venuta a unire con quella iberica, da cui non si sarebbe più separata per i successivi secoli: fino al 1712 l’isola ebbe solo un ruolo comprimario di viceregno spagnolo. Dopo un biennio di reggenza di Bianca, vedova di Martino II, nel 1412 Ferdinando aggiunse agli altri suoi titoli anche quello di re di Sicilia, lasciandolo in eredità ad Alfonso il Magnanimo.

L o s t r a o r d i n a r i o s o f f i t t o l i g n e o d e l l a S a l a M a g n a d i P a l a z z o C h i a r o m o n t e è s t a t o , p r i m o n e l s u o g e n e r e , i l m o d e l l o d e c o r a t i v o d i t u t t e l e d i m o r e s i c i l i a n e f i n o a l s e c o l o X V.

A f r o n t e : C a s t e l l o G r i m a l d i , M i n e o ( C a t a n i a ) . D e l s u o p r i m i g e n i o i m p i a n t o d u e c e n t e s c o r e s t a s o l o l a t o r r e q u a d r a n g o l a r e c e n t r a l e , c u i s i a p p o g g i a n o v a r i e e d e l e g a n t i s t r u t t u r e c i n q u e c e n t e s c h e .

2 5 2 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 2 5 3

L’ e p o c a a r a g o n e s e L ’ U N I F I C A Z I O N E A R A G O N E S E :

L A C O N Q U I S T A D I A L F O N S O I L M A G N A N I M O

Finalmente, le due parti del regno, quella peninsulare e quella insulare, che avevano diviso la propria storia in seguito alla Guerra del Vespro, sarebbero state a breve ricongiunte. Ma la guerra di conquista del regno di Napoli compiuta da Alfonso, come abbiamo già accennato qualche pagina fa, fu lunga. Lunga e irta di insidie.Alfonso, che, nel momento in cui Giovanna II invocò il suo aiuto, si trovava in Corsica, dove stava tentando di conquistare Bonifacio per allargare il dominio aragonese sul Mediterraneo, al suo arrivo a Napoli, secondo quanto si racconta, ebbe un presagio negativo di quanto gli sarebbe accaduto in seguito: mentre sbarcava dalla nave, l’8 luglio 1421, alcune tavole del molo cedettero e Alfonso cadde macchiandosi l’abito da parata. E anche due anni dopo, nell’agosto del 1423, quando già ferveva la guerra di conquista, mentre stava scalando le mura del castello di Ischia per conquistarlo, Alfonso cadde in mare

«più de cento gradi da alto; donne uno gaitano chiamato Francisco de Ronda

se gictò in gippone in mare et pigliò lo dicto re et portòllo incollo, et quilli de le galere

li pigliorno et lo tennero capo in su finché buttò l’acqua bevuta del mare».

Così ci racconta il cronista Gasparro Fuscolillo (morto dopo il 1571), che, poi, riporta anche un dialogo tra Alfonso e il suo salvatore, che, a precisa domanda del sovrano su quante figlie avesse,

«resposse: “Io hagio cinco figliole femmene”. El re volse fosseli dato per dota de dicte

figliole oncze 100, et a llui donò intrata de dudice oncze lo anno».

Il ricordo di questi dettagli è forse teso a connotare, in qualche modo, la magnanimità del sovrano? Chissà. Comunque, altri provarono a celebrare in maniera più eroica l’Aragonese, come Gaspare Pellegrino (1400 ca-post 1458), che fu protomedico di Alfonso e autore di una Historia Alphonsi (Storia di Alfonso) in latino. Questi, raccontando lo stesso episodio, capovolge totalmente la situazione, trasformando il sovrano da salvato in salvatore:

«Ma il re Alfonso, poste nella scialuppa da ogni parte più persone di quante essa ne poteva

contenere, mentre si svolgevano queste cose, gonfiandosi l’onda, cadde, essendo stata

rovesciata in mare la sua imbarcazione; per cui, sommerso dai flutti, si levò altissimo

il clamore di coloro che nuotavano. Invero, vinse i flutti, nuotando con tanta forza che fu

pronto a liberare non solo se stesso, ma portò fuori anche un altro, che stava per morire

vicino ai suoi piedi».

Dunque, la conquista del regno fu scandita da cadute, anche, per dir così, metaforiche. La maggiore fu quella del 5 agosto 1435, quando a Ponza, in seguito a una violenta battaglia

C a s t e l l o d i I s c h i a . I l C a s t e l l o A r a g o n e s e s o r g e s u u n i s o l o t t o d i r o c c i a v u l c a n i c a c o l l e g a t o a l v e r s a n t e o r i e n t a l e d e l l ’ i s o l a d a u n p o n t e i n m u r a t u r a l u n g o d u e c e n t o v e n t i m e t r i . I s c h i a , n e l c o n f l i t t o t r a l a c a s a t a d e g l i A n g i ò e q u e l l a d e i D u r a z z o , pa s sò c on d i s invo l t o o p p o r t u n i s m o d a u n a f a z i o n e a l l ’ a l t r a .

2 5 4 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 2 5 5

leggi, per le nuove concessioni e per l’antichità della sua stirpe, di avere a giusto diritto

il dominio del regno; e se negherai di uscire da esso, ti manda il guanto, perché combattiate

strenuamente in campo, così che ciascuno di voi possa uccidere o possa andare via gravemente

ferito: segua il danno a chi non arriderà la vittoria. E, come conviene a uno strenuo re, chiede

che tu accolga questa proposta, altrimenti puoi dire cosa pensi di fare”, dice... E il re Alfonso:

“Come è certamente lecito rispondere al tuo duca, affermo che egli dice da tiranno

che questo regno sia da assegnare a lui con diritto, poiché esso ci appartiene, dal momento

che la regina Giovanna, nostra madre defunta, mentre ancora era in vita, ci prese come figlio

ed erede, e quella concessione fu accettata pienamente da noi. Dunque, riferiscigli che,

per combattere potenza contro potenza il giorno di settembre dedicato alla festa della

vergine Maria, accetto come campo quel luogo in cui risplende maggiormente il valore

dei suoi amici, la Terra di Lavoro. Perciò daremo risposta alla sua proposta con un nostro

araldo, perché sia stabilito il termine per lo scontro”, aveva detto. Poi, diede molti doni

all’araldo e agli altri trombettieri che lo accompagnavano, e li rimandò al loro signore

con vestiti d’oro e di seta».

Insomma, ancora una sfida, come abbiamo letto in questo passo pure tratto da Gaspare Pellegrino, celebratore della conquista alfonsina. E, ancora una volta, quel duello non si fece. Fu fissato per l’8 settembre del 1438, ma ingloriosamente Renato si fece attendere invano. Giunto sul campo Alfonso lo fece chiamare per tre volte, per mezzo

navale, Alfonso fu fatto prigioniero dai genovesi. Fu una vera e propria disfatta, che sembrò cancellare ogni speranza di vittoria finale; ma Alfonso riuscì a ribaltarne le conseguenze. Affidato in custodia al duca di Milano, Filippo Maria Visconti (1412-1447), seppe incantarlo fino a farsene un alleato. Così poté riorganizzare le forze fino alla vittoria finale.Ma la guerra doveva proseguire ancora a lungo. C’erano da sconfiggere quei signori feudali del regno, che avevano acquisito privilegi e poteri durante il precedente periodo di debolezza della corona, e che li avevano incrementati approfittando del conflitto. Alfonso si trovò a combattere prima contro Luigi III d’Angiò, che era stato designato successore al trono da Giovanna II, e poi contro il di lui fratello Renato (1409-1480). Questi era stato a lungo prigioniero dei Borgognoni, per questioni di successioni dinastiche, e venne a Napoli a rivendicare il regno solo nel 1438. E anche lui, come il suo avo Carlo I, subito propose di decidere il possesso del regno con un duello.

«Per giungere alla soluzione definitiva, assumendo il comando lo stesso Renato, mandò

al re Alfonso un araldo e cavaliere, chiamato Provincia, a cui consegnò un guanto ferrato

da consegnare al re in segno di sfida finale. Questo messaggero fu rapido a venire avanti

al re, e, inchinatosi al suo cospetto, dice: “O potentissimo e strenuissimo re, il nostro

signore Renato, re di Gerusalemme, Ungheria e Sicilia, offre alla tua serenità questo guanto,

perché con rapido scontro si veda subito a chi spetta il comando del regno, ed esorta la tua

magnificenza a che tu non voglia turbare il suo regno. Egli è senz’altro certo, per le antiche

N e l l ’ a g o s t o d e l 1 4 3 5 , l e a c q u e a n t i s t a n t i l ’ i s o l a d i P o n z a f u r o n o t e a t r o d i u n a c r u e n t a b a t t a g l i a t r a l a f l o t t a g e n o v e s e e q u e l l a a r a g o n e s e . L a f l o t t a a r a g o n e s e v e n n e s b a r a g l i a t a e l o s t e s s o r e A l f o n s o f a t t o p r i g i o n i e r o .

I l l u s t r a z i o n e t r a t t a d a l L i b r o d ’ O r e d i A l f o n s o d ’ A r a g o n a , f o l i o 2 1 4 r, p r o b a b i l e o p e r a d e l M a e s t r o d i S a n G i o r g i o , s e c o l o X V. B i b l i o t e c a N a z i o n a l e V i t t o r i o E m a n u e l e I I I , N a p o l i .

2 5 6 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I

di un araldo; dopodiché, correndo a cavallo, mostrò a tutti il guanto di sfida pronunciando frasi derisorie. Insomma, ancora una volta, si consumò una farsa, che aveva l’unico scopo di ammantare di onore e virtù cavalleresche un’impresa che, su entrambi i fronti, aveva i caratteri ineludibili di una conquista che si profilava sempre più come una devastazione destinata a consumare ogni risorsa di un ricco territorio.La guerra durò ancora quattro lunghi anni, e la vittoria finale di Alfonso coincise con la presa di Napoli, avvenuta il 2 giugno 1442.

«Mentre Alfonso poteva sperare di impadronirsi di Napoli soltanto con la fame

o con il tradimento, la fortuna gli aprì un’inattesa via per la vittoria. Aniello, infatti,

un muratore che la fame aveva spinto a uscire da Napoli, recatosi da lui gli spiegò

che la città poteva essere presa con rischio minimo per i soldati, se ci fosse stata

una ricompensa, e promise tutto il suo aiuto per realizzare l’impresa. Il re gli fece grandi

elogi promettendogli cose maggiori di quanto la sua condizione potesse sperare, poi,

informatosi del modo di realizzare la cosa, preparato velocemente tutto il necessario,

scelse circa duecento uomini di valore che, con Aniello e il fratello, entrassero di notte

nell’acquedotto».

Così, nel settimo dei Libri rerum gestarum Alfonsi regis (Libri delle imprese del re Alfonso), Bartolomeo Facio (1400 ca-1457), storiografo ufficiale di Alfonso il Magnanimo. Attraverso un passaggio sotterraneo, che anticamente fungeva da condotta idrica e che già circa nove secoli prima aveva permesso al comandante bizantino Belisario di espugnare la città, Alfonso riuscì a far penetrare all’interno di Napoli alcuni suoi uomini scelti, mentre, contemporaneamente, un massiccio attacco condotto dall’esterno permetteva di sfondare le porte.

L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 2 5 7

M o n e t a d e l l ’ i n c o r o n a z i o n e d i F e r d i n a n d o d ’ A r a g o n a . M u s e o A r c h e o l o g i c o N a z i o n a l e , N a p o l i .

A f r o n t e : M e d a g l i a c o n F i l i p p o M a r i a V i s c o n t i i n b a t t a g l i a , o p e r a d e l P i s a n e l l o ( 1 3 9 5 - 1 4 5 5 ) . M u s e o N a z i o n a l e d e l B a r g e l l o , F i r e n z e .

2 5 8 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 2 5 9

di diversa provenienza, tra le quali spicca soprattutto Francesco Laurana (1432 ca-1502 ca). La simbologia del potere veniva, in quel modo, a far sfumare le insegne del potere politico e militare in quelle del patronato culturale e della propaganda organizzata attraverso i canali della produzione artistico-letteraria. Nell’epoca di Alfonso, tuttavia, continuarono a maturare anche i frutti di uno sviluppo artistico già iniziato negli ultimi anni del regno angioino di Renato, quando, con Colantonio (att. 1440-1460), Jean Fouquet (1415 ca-1480 ca), Barthélemy d’Eyck (a Napoli tra 1439 e il 1442) – l’autore del Trionfo della morte del palazzo Sclafani di Palermo – e poi col più rinascimentale Antonello da Messina (1430 ca-1479), si venne a realizzare quella fusione di elementi fiamminghi, provenzali, borgognoni e catalani che caratterizzò la prima epoca aragonese, prima di virare, all’epoca di Ferrante e Alfonso II, verso la cultura fiorentina, evidente, a Napoli, nella Porta Capuana, opera di Giuliano da Maiano (1432-1490), e nelle sculture di Antonio Rossellino (1427-1480 ca) e di Benedetto da Maiano (1442-1497) nella chiesa di Monteoliveto. Sin dal 1435, del resto, Alfonso aveva procurato di avere al suo seguito i più illustri letterati del tempo, consapevole che la cultura potesse essere un formidabile strumento per guadagnare consensi. Già nel 1434, poi, aveva istituito l’università di Catania, e per tutta la vita fu protettore di poeti e letterati, con i quali fu particolarmente munifico, e grazie ai quali venne ricordato come il Magnanimo. E i letterati, dal canto loro, si diedero da fare per organizzare nella maniera più consona e conveniente la propaganda in favore del sovrano. Basti ricordare soltanto

L ’ I M I T A Z I O N E D E I C E S A R I :

I L R I N A S C I M E N T O A R A G O N E S E

«Si affretta il giorno fissato per la festa, il 26 febbraio del 1443, per il quale fu costruito

il carro aureo del trionfo, la risplendente quadriga, che i cittadini prepararono con esimia

arte, perché il vincitore, nella sua imperiosa maestà, sedesse sul trono fissato sugli assi

del carro, trainato da cinque cavalli bianchissimi, per entrare nella città di Napoli.

E, perché l’opera apparisse con gloria più eccelsa, vennero abbattuti trenta piedi di mura

cittadine, in segno di vittoria. L’inclita maestà era protetta da un panno intessuto d’oro,

ed era condotta da cittadini vestiti di porpora... Riprese le insegne regie, si appresta

l’inclito trionfo. Infatti, l’insigne rappresentante della stirpe catalana era portato innanzi

in trionfo, seduto sul “seggio periglioso”, che veniva accompagnato, mentre era sull’alto

carro, dai più ricchi mercanti. Essi – i più illustri erano vestiti di splendidi abiti – con molte

festose rappresentazioni diedero vita a una grandiosa festa».

La conquista del regno costò ad Alfonso d’Aragona due decenni di guerre, affanni, tribolazioni. La presa di Napoli, pertanto, nonostante che l’Abruzzo non fosse ancora domo e che il papa Eugenio IV ancora non avesse riconosciuto il nuovo sovrano, rappresentò la realizzazione di un’impresa che troppo a lungo aveva stentato a concludersi felicemente. Per questo volle dare sfogo all’esultanza con una manifestazione imponente e inebriante, passando tra la folla che lo acclamava mentre egli era seduto sul trono, quel “seggio pericoloso” che divenne una sua insegna e che faceva riferimento alla leggenda arturiana legata al mito del Santo Graal, secondo cui il seggio avvolgeva di fiamme chiunque osasse sedervisi sopra e non fosse il predestinato puro di cuore. La celebrazione del trionfo fu organizzata come un vero e proprio spettacolo, arricchito da quadri plastici costituiti da sudditi che, organizzando e recitando scene suggestive, rappresentavano le virtù del sovrano, la fortuna o il potere dei Cesari. Il trionfo di Alfonso venne esaltato nelle opere latine del Porcellio (1405 ca-post 1485) e del Panormita (1394-1471), tuttavia, se ne trova ampia descrizione, pur se nell’ambito di una più vasta trattazione storico-encomiastica, anche nel decimo libro dell’opera già citata di Gaspare Pellegrino, da cui abbiamo tratto il passo sopra citato.Con quel festoso e solenne trionfo, ispirato a quelli con cui venivano celebrate le vittorie degli antichi imperatori e condottieri, cominciava una nuova fase del regno. Il cambio di governo, passato dalla dinastia angioina a quella aragonese, rappresentò un evento destinato a modificare le sorti politico-amministrative del regno, ma anche ad aprire le porte a nuove correnti culturali. Dunque, all’ingresso in città, il primo impegno di Alfonso fu di pacificare i sudditi e di ricostruire la città e la residenza reale, il Castel Nuovo: la sua ristrutturazione avvenne soprattutto a opera dell’architetto maiorchino Guillermo Sagrera († 1454), a cui si deve anche la conformazione trapezoidale, che si arricchì di cinque torri angolari. Nell’arco centrale della sua porta venne collocata un’ampia tavola di marmo riccamente scolpita che celebrava figurativamente i fasti del trionfo, frutto del lavoro di numerose maestranze

C r i s t o f a n o d e l l ’ A l t i s s i m o , r i t r a t t o d i p a p a E u g e n i o I V. G a l l e r i a d e g l i U f f i z i , C o l l e z i o n e G i o v i a n a , F i r e n z e .

A l l e p a g i n e s e g u e n t i : L’ A r c o d i Tr i o n f o d i C a s t e l N u o v o , N a p o l i . I l g r a n d i o s o p o r t a l e f u c o n c e p i t o a i m i t a z i o n e d e g l i a r c h i t r i o n f a l i r o m a n i p e r c e l e b r a r e l ’ i n g r e s s o a N a p o l i d i A l f o n s o I d ’ A r a g o n a i l 2 6 f e b b r a i o 1 4 4 3 . L a v o r a r o n o a l s u o c o m p i m e n t o s c u l t o r i d i p r o v e n i e n z a d i v e r s a c h e c o n f e r i r o n o a l l ’ o p e r a u n a p e c u l i a r e v a r i e t à s t i l i s t i c a .

2 6 2 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 2 6 3

«Eppure i ciechi non vedono il sole, perché sono privi della vista. Molto più splendida,

dunque, è la virtù, che anche i ciechi possono percepire con assoluta chiarezza».

Sorse, così, e si affermò anche a Napoli l’umanesimo, già fiorente a Firenze e a Roma. Del resto, Alfonso e, più tardi, il figlio Ferdinando, noto soprattutto come Ferrante (1423-1494), vollero dotare la corte di una ricca biblioteca, anche con libri splendidamente miniati. Probabilmente incrementarono quella che doveva essersi costituita ai tempi di re Roberto, ma sotto il loro regno essa diventò il luogo ideale di incontri e di raccoglimento per chi intendeva arricchirsi spiritualmente ed erudirsi, se è vero quanto dice l’umanista Giovanni Brancati (1440 ca-1481 ca):

«Sono lontano da Napoli, e da quello splendido domicilio delle muse, cioè da quella

tua degnissima biblioteca, fornitissima di libri di ogni disciplina, che tu stesso costituisti

con grande liberalità e con mirabile amore per le lettere».

Per rifornirla Alfonso non badò a spese. Inviò suoi emissari in ogni parte d’Italia e del mondo conosciuto. Ai testi latini volle che si aggiungessero testi greci in lingua e traduzione, e per questo incoraggiò la presenza a corte di Teodoro Gaza (1410 ca-1475) e di Giorgio di Trebisonda (1395-1484), i più noti conoscitori di quella lingua. Forse, in tal modo, intendeva creare le premesse di una possibile espansione verso Oriente, che avrebbe potuto giovare a incrementare gli interessi commerciali aragonesi, che egli ebbe sempre a cuore. D’altronde, tale azione politica avrebbe anche potuto dar risposta alle esortazioni papali a una crociata: esortazioni tanto più cogenti, dopo che i Turchi, nel 1453, si erano impadroniti di Bisanzio e di tutte le terre a essa legate. Del resto, vale la pena ricordare che Alfonso incoraggiò e appoggiò la lotta che Giorgio Castriota Scanderbeg (1403-1468) sostenne contro i dominatori turchi per la liberazione dell’Albania.

che, per il prestigioso posto di storico ufficiale di corte, a Lorenzo Valla – che aveva scritto una storia di Ferdinando (1380-1416), padre di Alfonso, e aveva intenzione di fare lo stesso anche per il Magnanimo – fu preferito Bartolomeo Facio, sostenuto dal Panormita. Il rifiuto opposto dal Valla a una ricostruzione ideologizzata della figura del sovrano non poteva rientrare facilmente nel progetto propagandistico di Alfonso, che mirava all’esaltazione della sua dignità regia. Il re aragonese fu abile e attento nel creare il mito della sua “magnanimità”, reso paradigmatico dagli uomini di cultura del suo tempo.

«Il re Alfonso, subito dopo pranzo, ascoltava Antonio Panormita, oppure qualche

altro dotto, giudicando che anche l’animo dovesse essere nutrito col suo cibo, dopo aver

rifocillato il corpo col pasto... Ogni giorno ascoltava le opere degli scrittori antichi, e, sebbene

fosse occupato in molte e gravi cure, non sopportò mai che il tempo dedicato ai libri venisse

portato via dagli impegni ufficiali».

Così Giovanni Pontano (1426-1503), scrivendo in latino, rappresentava come continuo, costante, quotidiano l’impegno culturale di Alfonso, che stimolò la fondazione dell’Accademia Alfonsina. Chiamata “Porticus Antoniana”, quando, dopo la morte di Alfonso, le riunioni presero a svolgersi in casa del Panormita; successivamente alla morte di quest’ultimo, prese, poi, il nome di Accademia Pontaniana. A parte la lettura e il puntuale commento dei classici, gli argomenti di discussione erano i più vari. In più occasioni non si disdegnava neppure di udire il parere di umili interlocutori. Come narra il Pontano nel De principe, un giorno, mentre si discuteva di virtù, Antonio Panormita volle chiedere a un contadino, se la virtù fosse così splendida come egli l’andava descrivendo. Alla risposta del contadino, che egli non aveva mai visto la virtù, il Panormita gli chiese che cosa per lui fosse veramente splendido. Il sole, rispose il contadino; al che il Panormita, di rimando:

M e d a g l i a c o n i l r i t r a t t o d i G i o v a n n i P o n t a n o , o p e r a d i A d r i a n o G i o v a n n i d e i M a e s t r i . M u s e o N a z i o n a l e d e l B a r g e l l o , F i r e n z e .

R i t r a t t o d i F e r d i n a n d o d ’ A r a g o n a , r e d i N a p o l i . O p e r a d i a r t i s t a i g n o t o , s e c o l o X V. M u s e o d e l L o u v r e , P a r i g i .

2 6 4 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 2 6 5

La cultura di epoca aragonese rifulse, dunque, di illustri umanisti che risiedettero a corte, a cominciare da Lorenzo Valla (1407-1457), che accompagnò Alfonso già negli ultimi anni della guerra di conquista del regno, e si trattenne presso la sua corte per più di un decennio, a partire dal 1434-35. Tra le opere scritte a Napoli, oltre all’opera storica dedicata al padre di Alfonso e a cui si è già accennato, spiccano il De libero arbitrio, dialogo in cui si dimostrava la separazione della prescienza divina dalla sua volontà onnipotente; le Dialecticae disputationes (Dispute dialettiche), in cui si cerca di spogliare l’interpretazione del pensiero aristotelico dalle sovrastrutture dei vecchi traduttori e commentatori; e, soprattutto, il De falso credita et ementita Constantini donatione (La falsa e mendace donazione di Costantino), in cui si dimostrava, con rigoroso metodo filologico, che la donazione di Costantino – l’atto con cui risultavano donati alla chiesa i possedimenti dell’impero romano – era un falso, anche giovando, in tal modo, alla causa del Magnanimo contro le rivendicazioni di Renato d’Angiò, appoggiato dal papato, che continuava ad accampare pretese di preminenza feudale sul regno.Tra gli umanisti che diedero lustro alla corte aragonese va ricordato anche Giannozzo Manetti (1396-1458), che a Napoli trascorse gli ultimi anni di vita, e vi compose il De dignitate et excellentia hominis (La dignità e l’eccellenza dell’uomo), in cui l’uomo appare finalmente liberato dalle strettoie e dalle miserie in cui avevano voluto involgerlo i vari trattati de contemptu mundi (sul disprezzo del mondo), che ancora trovavano eco nei sermoni di attardati predicatori e nei libri di timorati seguaci di antichi modi religiosi. Tuttavia, l’umanesimo napoletano si identifica soprattutto nel Panormita, nel Pontano e nel Sannazaro.Antonio Beccadelli, più noto come il Panormita, dal nome di Palermo, sua città natale, entrò a far parte dell’entourage aragonese nel 1445, e vi rimase fino alla morte, nel 1471. Riuscì ad attrarre presso la corte napoletana i letterati e i poeti del tempo, impegnandoli in convegni e dotte adunanze, da cui col tempo poté svilupparsi quell’Accademia che poi assunse il nome di Pontaniana, dal nome del Pontano, indicato proprio dal Beccadelli a presiederla. Alla corte di Alfonso e poi in quella di Ferrante, il Panormita compose le Epistolae Campanae, piene di delicate pagine in cui, tra l’altro, andò esaltando la moderazione di Alfonso, rapportandola a quella del Cesare descritto nell’orazione Pro Marcello di Cicerone. Poi, per consacrare il ricordo di Alfonso, dotato di ogni virtù e meritevole di elogio in ogni sua azione, compose in sei libri il De dictis et factis Alphonsi (I detti e i fatti di Alfonso) e, per compiacere i suoi signori, compose anche una storia del re Ferrante, il Liber rerum gestarum Ferdinandi regis (Libro delle imprese di re Ferrante). Allievo e protetto del Panormita fu Giovanni Pontano, che, in Accademia, venne ribattezzato, alla latina, Gioviano. Era Umbro di nascita, ma la sua attività si svolse quasi esclusivamente a Napoli, dove venne celebrato anche con una splendida cappella funeraria, opera di Francesco di Giorgio Martini (1439-1501) che si riconduce alla cultura classicistica dell’umanesimo toscano. Egli, con le sue doti letterarie e politiche, seppe guadagnarsi tanta benevolenza, da arrivare ai vertici degli apparati istituzionali, diventando Segretario di Stato. Fu autore fecondo e vario: cantò i pregi e le bellezze di Napoli, città in cui visse a lungo, e gli affetti familiari; ma fu anche trattatista politico attento

A l f o n s o I d ’ A r a g o n a e l a s u a c o r t e , A r c o d i Tr i o n f o d e l C a s t e l N u o v o d i N a p o l i , r i l i e v o d e l s o t t a r c o , l a t o d e s t r o . O p e r a d i F r a n c e s c o L a u r a n a .

2 6 6 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 2 6 7

e profondo, nonché dotto indagatore della filosofia morale e della scienza astronomica. Cominciò subendo l’influenza di Catullo e degli antichi elegiaci, scrivendo gli Amorum libri (Gli amori), ancora pregni di suggestioni classiche e di dottrina retorica, ma pian piano dimostrò tutta la sua piena sensibilità di poeta delicato nei libri De amore coniugali, che potremmo definire il resoconto poetico delle vicende di un marito e di un padre, e nelle dodici Neniae scritte per il suo piccolo Lucio. Poi, nell’Urania – opera che curò e rielaborò per circa venticinque anni, fin quasi alla morte – trasformò la tradizione classica e l’arido argomento astrologico in prodotto fantasioso e rigoglioso, con colorite descrizioni e leggiadri richiami al mito. Frutto di approfondita meditazione, soprattutto sui testi della tradizione classica, furono anche i trattati morali e politici dedicati alle virtù, che da un punto di vista precettistico-politico trovarono applicazione nel De principe, in cui si stabiliscono i caratteri e la condotta che devono regolare la vita e l’azione del sovrano, e, da un più ampio punto di vista storico, nel De bello Neapolitano (La guerra napoletana), in cui viene raccontata la guerra di re Ferrante contro Giovanni d’Angiò (combattuta negli anni 1458-1465). Con Pontano, insomma, l’Umanesimo napoletano giunse, probabilmente, al suo apice, e la sua personalità morale, intellettuale e artistica, caratterizzata da fervida operosità e lirismo appassionato, funse da lume, destinato a guidare l’opera delle più giovani generazioni.Se con Alfonso la produzione letteraria era stata soprattutto in latino e, in parte, in castigliano, con rarissime eccezioni in volgare italiano o, meglio, in italo-napoletano, con Ferrante e i suoi figli la situazione cambia. Intanto, infatti, era andata maturando una nuova generazione, di cui i monarchi napoletani potevano fidarsi. Non più costretto a dipendere solo da personaggi provenienti dalla sua patria d’origine, nella praticità del vivere quotidiano il sovrano vedeva più conveniente rivolgersi con maggiore immediatezza a coloro che lo circondavano. La necessità di stringere rapporti d’alleanza con chi più facilmente poteva sostenerlo lo portò a cercare alleanze con i Medici; e suo figlio Federico (1452-1504) – il “principe poeta”, come fu chiamato – ottenne che Lorenzo (1449-1492) e il Poliziano (1454-1494) preparassero proprio per lui una silloge dei poeti siculo-toscani, da Pier della Vigna († 1249) a Lorenzo. Con Federico, l’ultimo re della dinastia aragonese di Napoli, si chiudeva anche una stagione culturale, che aveva avuto un ultimo bagliore in Iacopo Sannazaro (1456-1530), amico fraterno di quel sovrano. Notevole e continua fu l’attività del Sannazaro, in volgare e in latino, che si estrinsecò, soprattutto, nell’Arcadia, nelle Eclogae piscatoriae, nei Salices (Salici) e nel De partu Virginis (Il parto della Vergine). Ma proprio nei suoi rapporti con Federico il Sannazaro mostrò la delicatezza d’animo e la squisitezza dei sentimenti, che in effetti lo accompagnarono per tutta la vita. Quando Federico, tradito dal re di Spagna, suo suocero, fu costretto ad andare in esilio in Francia, ospite del suo vincitore, il Sannazaro non esitò a seguirlo; anzi, vedendolo in difficoltà economiche, fu pronto a mettere a sua disposizione quanto aveva ricavato dalla vendita dei suoi beni. E fu con lui nella buona e nella cattiva sorte, fino al novembre del 1504, quando il re venne a morte.

A l f o n s o I d ’ A r a g o n a e l a s u a c o r t e , A r c o d i Tr i o n f o d e l C a s t e l N u o v o d i N a p o l i , r i l i e v o d e l s o t t a r c o , l a t o s i n i s t r o . O p e r a d i F r a n c e s c o L a u r a n a .

2 6 8 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 2 6 9

T R A R I N N O V A M E N T O E C O N S E R V A Z I O N E :

I L P R O B L E M A D E L L A S U C C E S S I O N E D I F E R R A N T E

«Fernando, primo di questo nome, morto Alfonso suo padre, prese l’amministrazione

del regno per ordinazione ultima sua e dispensazione di Eugenio IV, confermata da Nicolo V

pontefice. Calisto III subito intesa la morte, il decimo dì poi pronunciò per bolla il regno

di Puglia per la morte di Alfonso essere vacato e devoluto a la Chiesa; e a Fernando comandò,

sotto comminazione di e scomunica, che lo dovesse rilasciare e non se li intromettere,

assolvendo tutti li regnicoli da la obedienza sua. E questo faceva Calisto, per quanto allora

la fama pubblica vulgava, non per rispetto de la utilità ecclesiastica, la quale poco monstrano

di curare li pontefici moderni, ma per investire di quel regno un suo nepote, ovvero figliuolo

che ‘l fusse, chiamato Pierluigi Borgia, al quale ora il regno di Cipro e ora l’imperio

di Constantinopoli prometteva, come cieco da la grande affezione li portava, e ridotto

per l’età decrepita quasi a pensieri puerili».

Nel 1415 Alfonso aveva sposato la cugina Maria di Castiglia (1401-1458), dalla quale, tuttavia, non ebbe figli. Ne ebbe invece da relazioni extraconiugali. Soprattutto al figlio maschio, a cui diede il nome di Ferdinando, più noto come Ferrante, Alfonso dedicò le maggiori attenzioni. Lo fece venire presso di lui, in Italia, già nel 1438, mentre ancora ferveva la guerra di conquista, forse già pensando alla futura, non facile, successione. Tanto che già ai principî di marzo del 1443, a una settimana di distanza dal proprio trionfo, Alfonso investì Ferrante del ducato di Calabria e fece celebrare l’evento con una solenne e magnifica cavalcata per le vie di Napoli. Ma il problema della legittimità della successione di un figlio “bastardo” era sempre pronto a esplodere. Come accadde, infatti, alla morte di Alfonso, nel 1458.Il passo sopra riportato è tratto dalle ultime pagine del già citato Compendio di Pandolfo Collenuccio, e si riferisce, appunto, a ciò che accadde in quella occasione. Alla morte di Alfonso, papa Callisto III Borgia (1455-1458) dichiarò estinta la dinastia d’Aragona di Napoli e reclamò il possesso del regno per la Chiesa. Ma Callisto morì poco dopo, nell’agosto del 1458, e il suo successore, Pio II (1458-1464), riconobbe come legittimo sovrano Ferrante, il quale fu incoronato solennemente il 4 febbraio 1459 nella Cattedrale di Barletta. I problemi, però, erano appena incominciati. Il suo governo, infatti, fu costantemente reso incerto dalle rivendicazioni dei Baroni. Già il padre Alfonso si era trovato costretto a cercare l’accordo con i più autorevoli signori feudali del regno, per poter portare a termine la conquista. Essi, in alcuni casi, avevano possedimenti enormi, eserciti imponenti, potere smisurato. Sotto la più debole dinastia angioina, del resto, la feudalità aveva usurpato concessioni sempre più ampie, ottenendo autorità tanto maggiore quanto minore era la forza della Corona. Così, appena conquistato il regno, Alfonso non poté fare a meno di convocare un Parlamento generale nel convento di San Lorenzo, a Napoli; e in quell’occasione fece ratificare anche la successione al trono di Ferrante. Tuttavia, la situazione italiana continuava a rimanere delicata, tanto che Alfonso fissò definitivamente

L a c a t t e d r a l e d i B a r l e t t a . L a c h i e s a r a g g i u n s e i l m a s s i m o s p l e n d o r e d u r a n t e l e c r o c i a t e , e s s e n d o u n ' i m p o r t a n t e s o s t a i n t e r m e d i a p e r i p e l l e g r i n i c h e s i r e c a v a n o i n Te r r a s a n t a . L’ i n t e r n o , a t r e n a v a t e , v e n n e o r n a t o n e l l o s t e s s o p e r i o d o a o p e r a d i m a e s t r a n z e f a t t e v e n i r e d i r e t t a m e n t e d a G e r u s a l e m m e c h e , i n p a r t i c o l a r e , s c o l p i r o n o i r a f f i n a t i c a p i t e l l i d e l c i b o r i o .

2 7 0 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 2 7 1

R E E “ R E G U L I ” : L A “ C O N G I U R A D E I B A R O N I ”

«Dovendo io scriver cosa e per grandezza e per novità quanto alcuna altra memorabile,

non fie per aventura indarno il ricordare che lo stato regio, di tutti gli altri il più eccellente,

ne’ secoli ov’egli ha avuto luogo, di rado fu senza di quelli uomini, c’oggidì son chiamati

Baroni; i quali, benché secondo la diversità de’ tempi e delle regioni abbiano anche variato

di nome e di potenza, di effetto nondimeno sono stati sempre gl’istessi; e parvero a’ Romani

sì naturali e sì congiunti a’ regni, che perciò regoli gli denominarono: l’origine de’ quali

non poté esser più chiara né più onorevole, perciò che avendo i sudditi in pace o in guerra

ben meritato co’ padroni, vennero dalla gratitudine e dalla liberalità di quelli alle dignità

et a’ domini essaltati. Egli è ben vero che, per quanto si è osservato poi, questa sorte di persone

a molti regni è stata di nocumento et a molti di giovamento: hanno giovato i Baroni a’ regni

grandi e potenti, ma a’ piccioli e deboli hanno nociuto sempre: il che dall’umana ambizione

è avvenuto; la quale, per esser senza termine e misura, né contenta di parte alcuna di auttorità,

insino al supremo grado, ch’è il Reale, gli ha fatti aspirare».

È questo l’inizio della Congiura de’ Baroni del regno di Napoli contro il re Ferdinando I, scritta da Camillo Porzio (1525-1580 ca), un avvocato napoletano che attribuiva proprio all’evento che descrisse la principale causa della discesa, anni dopo, di Carlo VIII (1470-1498) in Italia: pertanto, la feroce punizione dei Baroni, chiamati con sprezzo e disapprovazione reguli, piccoli re, doveva servire da monito contro ogni futura ribellione anti-statale. La congiura, in effetti, trovò la propria motivazione più profonda nella resistenza opposta all’opera di modernizzazione dello Stato perseguita da Alfonso prima e Ferrante poi. Quest’ultimo, in particolare, aveva mirato a contrastare il particolarismo feudale con un maggiore accentramento del potere, effettuato attraverso una riforma organica dello Stato, che poggiava da un lato sullo sviluppo della vita economica, e dall’altro sulla promozione politico-sociale dei rappresentanti del ceto mercantile. Strumento di questa politica fu la riforma fiscale, che affidava nuovi compiti alle amministrazioni comunali (le Università), sottraendole, per quanto possibile, al peso feudale. La pressione anti-feudale, del resto, sembrava destinata a inasprirsi con la prospettata successione al trono di Alfonso II (1448-1495), figlio di Ferrante, che dimostrava apertamente la propria ostilità nei confronti dei Baroni e, appena quattordicenne, nel 1462, era già stato inviato dal padre in Calabria, a sedare una precedente rivolta.

la sua residenza a Napoli e non fece più ritorno in Catalogna, lasciando poi il governo dei restanti dominî, compresa la Sicilia, al proprio fratello Giovanni (1397-1479): il regno dell’Italia meridionale, appena unificato, si divideva nuovamente. Lo stretto di Messina divenne ancora una volta una barriera invalicabile, e la Sicilia continuò la sua strada di subordinazione diretta alla Spagna, iniziata, come abbiamo visto, nel 1402. E proseguì più nettamente ancora nel 1479, quando a Giovanni successe Ferdinando il Cattolico (1452-1516); egli, nel 1487, introdusse anche in Sicilia il tribunale dell’inquisizione, che aveva il compito di presidiare la monarchia e l’ortodossia cattolica e che ben presto si trasformò in istituzione stabile, con il proprio quartier generale posto nel palazzo reale di Palermo.Anche la parte peninsulare del regno avrebbe seguito, di lì a poco, la stessa sorte, ma attraverso un percorso diverso: ancora per qualche decennio, il regno napoletano godette di autonomia e splendore. Ma andava risolto, innanzitutto, lo spinoso problema del rapporto con i Baroni. Alfonso il Magnanimo provò a porvi rimedio con un’alleanza sancita dal matrimonio, nel 1444, di Ferrante con Isabella di Chiaromonte, figlia di Tristano (conte di Copertino) e di Caterina del Balzo Orsini, ma soprattutto nipote ed erede di Giovanni Antonio del Balzo Orsini, potentissimo signore della Puglia, colui che aveva avuto gran parte nella conquista del regno. Questo, però, non servì a evitare che i baroni più riottosi approfittassero del momento di difficoltà dato dal momento di successione al trono, non avallata dal papato, per rialzare testa e pretese. Così, contestando la legittimità dei diritti al trono di Ferrante, sostennero quelli del duca Giovanni d’Angiò (1427-1470), che giunse a Napoli sul finire del 1459 e per cinque anni riportò lo stato di guerra nel regno. Ferrante fu sconfitto più volte, ma, poi, con l’aiuto di Alessandro Sforza e del condottiero albanese Giorgio Castriota Scanderbeg, debitore al re della protezione avuta in passato da Alfonso, riuscì ad avere ragione dei suoi nemici, e nel 1464 riuscì a ristabilire la sua autorità nel regno.Ma il momento di crisi maggiore si ebbe in occasione della cosiddetta “Congiura dei Baroni”, che si consumò tra il 1485 e il 1486.

P a r t i c o l a r e d e l p o r t a l e d e l l a S a l a d e i B a r o n i , a l l ’ i n t e r n o d e l M a s c h i o A n g i o i n o . I l b a s s o r i l i e v o , r a f f i g u r a n t e u n a m a s s a d i p o p o l o e d i c a v a l i e r i i n l o t t a d a v a n t i a l c a s t e l l o m e d e s i m o , è o p e r a d i D o m e n i c o G a g i n i .

I n g r e s s o d i C a r l o V I I I a N a p o l i , 2 2 f e b b r a i o 1 4 9 5 . P a g i n a i l l u s t r a t a d e U n a c r o n a c a n a p o l e t a n a f i g u r a t a d e l Q u a t t r o c e n t o . T h e P i e r p o n t M o r g a n L i b r a r y , N e w Yo r k .

2 7 2 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 2 7 3

Dunque, mentre i Baroni di antico lignaggio, come Antonello Sanseverino, principe di Salerno, e Pietro Guevara, principe di Teramo, vedevano ridurre sempre più il proprio ruolo, i rappresentanti dei ceti in ascesa, come Antonello Petrucci, segretario del re, e Francesco Coppola, ricchissimo uomo d’affari e conte di Sarno, erano smaniosi di fasti e prestigio sempre più ampi: e le ambizioni di entrambi i gruppi vennero a convergere. Così, nel 1485 cominciarono i primi incontri interlocutorî, che esplosero in ribellione aperta nel successivo novembre. Nello scontro intervenne anche papa Innocenzo VIII (1484-1492), che inviò proprie truppe, e l’allargamento del conflitto su scala nazionale fu evitato dalla diplomazia di Lorenzo il Magnifico, signore di Firenze. Dopo vari scontri si giunse alla pace, siglata a Mignonico nell’estate del 1486: il re si impegnava a pagare alla Chiesa un tributo vassallatico, a perdonare i ribelli e ad accettare l’arrivo di un legato pontificio che avrebbe ricomposto i conflitti. Ma le cose andarono diversamente. Infatti, Ferrante punì in maniera feroce e spettacolare i congiurati più in vista, facendoli arrestare durante un festeggiamento di nozze, e giustiziare dopo un sommario processo.

R i t r a t t o d i C a r l o V I I I ( 1 4 7 0 - 1 4 9 8 ) r e d i F r a n c i a . D i p i n t o d i C r i s t o f a n o d e l l ’ A l t i s s i m o . G a l l e r i a d e g l i U f f i z i , F i r e n z e .

A f r o n t e : R i t r a t t o d i L o r e n z o i l M a g n i f i c o d i G i o r g i o Va s a r i . G a l l e r i a d e g l i U f f i z i , F i r e n z e .

2 7 4 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 2 7 5

P O L I T I C H E E M I N A C C E O R I E N T A L I .

I M A R T I R I D ’ O T R A N T O

«Non i nostri padri, ma noi abbiamo lasciato prendere dai Turchi Costantinopoli,

la capitale dell’Oriente, e mentre indolenti ce ne stiamo nelle nostre case, le armi

di questi barbari penetrano fino al Danubio e alla Sava... Tutto questo è accaduto sotto

i nostri occhi, ma noi dormiamo profondamente. Eppure no, noi possiamo combattere

fra noi, soli i Turchi lasciamo che spadroneggino liberamente. Per tenui motivi i cristiani

prendono le armi e combattono sanguinose battaglie; contro i Turchi invece, che oltraggiano

il nostro Dio, atterrano le nostre chiese e cercano sradicare il nome cristiano, nessuno

vuol levare la mano».

Il 29 maggio 1453, dopo un furioso assedio, Costantinopoli, la capitale dell’Impero d’Oriente, cadde nelle mani dei Turchi, guidati dal sultano Maometto II (1432-1481), salito al trono due anni prima: nell’assedio perse la vita, combattendo sugli spalti, anche l’ultimo imperatore d’oriente, Costantino XI Paleologo (1405-1453). L’evento produsse un’immensa emozione e gettò il mondo cristiano in una prostrazione profonda, accompagnata da quei millenari timori apocalittici che sembravano, infine, avverarsi. Numerose profezie associavano la caduta della nuova Roma all’avvento dell’Anticristo e alla fine dei tempi, e a esse si richiamava la bolla per la crociata emanata il 30 settembre del 1453 da papa Niccolò V (1447-1455), chiamando i prìncipi e i popoli cristiani alla difesa della loro civiltà contro Maometto II, prefigurazione dell’Anticristo, il dragone rosso dell’Apocalisse. La crociata invocata a gran voce dal papa, tuttavia, non venne organizzata: gli interessi particolari dei prìncipi e dei sovrani occidentali erano troppo forti. Di questo fu ben consapevole papa Pio II, l’umanista Enea Silvio Piccolomini (1458-1464), pronunciando quelle parole che abbiamo sopra citato nel discorso inaugurale del concilio di Mantova del 1459: un violento atto d’accusa nei confronti degli stati cristiani che troppo a lungo avevano trascurato la difesa della fede. Intanto, l’avanzata turca proseguiva senza posa: fermati faticosamente davanti a Belgrado nel 1456, gli Ottomani, nel 1469, fecero incursioni in Carniola, Stiria e Carinzia; nel 1470 occuparono l’isola veneziana di Negroponte; nel 1477 e nel 1478 le loro incursioni avevano toccato il Friuli. E nel 1480 toccò a Otranto, sul versante orientale della Puglia.L’interesse verso le cose orientali era stato sempre forte nei sovrani aragonesi. Tra gli impulsi che avevano spinto Alfonso il Magnanimo alla conquista del regno di Napoli, del resto, non era mancato quello di creare un saldo punto di appoggio verso levante per l’ulteriore sviluppo dei commerci catalani. A più riprese egli aveva fatto incursioni sulle coste settentrionali dell’Africa, proprio per cercare di creare nuove basi commerciali. Così, Alfonso, in un primo momento, sembrò accogliere con entusiasmo gli appelli alla crociata, promettendo navi e soldati. Ma più tardi si accontentò di rafforzare nella penisola balcanica il fronte di opposizione anti-ottomano: il regno albanese dello Scanderbeg costituiva, per di più, un comodo prolungamento della potenza aragonese sul versante opposto dell’Adriatico. L’entusiasmo iniziale dovette essere raffreddato,

R i t r a t t o d i M a o m e t t o I I ( 1 4 3 0 - 1 4 8 1 ) , s u l t a n o d i Tu r c h i a . D i p i n t o d i C r i s t o f a n o d e l l ’ A l t i s s i m o . G a l l e r i a d e g l i U f f i z i , F i r e n z e .

2 7 6 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 2 7 7

aragonese che custodiva la città non fu in grado di resistere, e l’11 agosto i soldati musulmani penetrarono nella città, fino a quel momento difesa con coraggio e disperazione dai soli cittadini. Poi, per tre giorni seguì il massacro: anche il vescovo Stefano Pendinelli fu ucciso nella sua stessa cattedrale. Il 14 agosto Ahmed Pascià ordinò di rastrellare tutti i superstiti di sesso maschile d’età superiore ai quindici anni.

«In numero di circa ottocento furono presentati al Pascià che aveva al suo fianco

un miserrimo prete, nativo di Calabria, di nome Giovanni, apostata della fede. Costui impiegò

la satanica sua eloquenza a fin di persuadere a’ nostri santi che, abbandonato Cristo,

abbracciassero il maomettismo sicuri della buona grazia d’Acmet, il quale accordava loro vita,

sostanze e tutti quei beni che godevano nella patria; in contrario sarebbero stati tutti trucidati.

Tra quegli eroi ve n’ebbe uno di nome Antonio Primaldo, sarto di professione, d’età

provetto, ma pieno di religione e di fervore. Questi a nome di tutti rispose:

“Credere tutti in Gesù Cristo, figlio di Dio, ed essere pronti a morire mille volte per lui”».

Così racconta Saverio De Marco, che nel XVIII secolo scrisse una Compendiosa istoria degli ottocento martiri otrantini. E Giovanni Michele Laggetto, figlio di un Otrantino scampato al massacro, nella sua Historia della guerra di Otranto del 1480, aggiunge che Antonio Primaldo, voltatosi ai Cristiani, disse:

«“Fratelli miei, sino oggi abbiamo combattuto per defensione della Patria e per salvar

la vita e per li Signori nostri temporali, ora è tempo che combattiamo per salvar l’anime

nostre per il nostro Signore, quale essendo morto per noi in Croce conviene che noi moriamo

per esso, stando saldi e costanti nella Fede e con questa morte temporale guadagneremo

la vita eterna e la corona del martirio”. A queste parole incominciarono a gridare tutti

a una voce con molto fervore che più tosto volevano mille volte morire con qual si voglia

sorta di morte che di rinnegar Cristo...».

La costernazione, il dolore e la paura produssero la pacificazione dei prìncipi fedeli alla croce, e con rinnovato ardore si ricominciò a predicare la crociata. L’improvvisa morte del sultano Maometto, il 31 maggio 1481, e le lotte per il potere tra i suoi figli, poi, facilitarono la riconquista. E il 10 settembre 1481 Alfonso di Calabria, figlio di Ferrante, entrò trionfalmente a Otranto, ormai liberata.

fra l’altro, dall’opposizione dei ceti mercantili iberici, i quali temevano che una politica antiturca troppo risoluta e aggressiva avrebbe potuto guastare gli interessi commerciali che ancora conservavano nel Levante.Evidentemente, però, il rischio di quella politica di attesa e di contenimento non fu ben calcolato, e a farne le spese fu re Ferrante, che negli anni immediatamente precedenti al 1480 aveva preferito dedicare la maggior parte del proprio impegno alla costruzione di una più forte politica italiana, giostrando tra i sempre accesi conflitti che dividevano i signori della penisola. Il 25 marzo 1480, infine, fu siglato un patto di pace tra Firenze e Napoli, ma nel frattempo era stato concesso troppo spazio al sultano turco che, se fosse riuscito a creare una solida enclave ottomana nelle Puglie, sarebbe riuscito a controllare il canale di Otranto e, di conseguenza, l’imboccatura dell’Adriatico.Il 28 luglio 1480 la città di Otranto, dunque, venne attaccata da una flotta turca comandata dal grande ammiraglio dell’impero ottomano Gedik Ahmed Pascià. La guarnigione

I l m a g n i f i c o r o s o n e c h e i m p r e z i o s i s c e l a f a c c i a t a d e l l a c a t t e d r a l e d i O t r a n t o . N e l 1 4 8 0 l a c i t t à f u a g g r e d i t a e a s s e d i a t a d a l l a f l o t t a t u r c a d i M a o m e t t o I I , i n t e r v e n u t a n e l l a l o t t a t r a Ve n e z i a e g l i A r a g o n e s i , s o t t o i l c o m a n d o d i A h m e d P a s c i à . N o n a v e n d o r i c e v u t o s o c c o r s i d a N a p o l i , l a c i t t à c a p i t o l ò d o p o s o l i q u i n d i c i g i o r n i ( 1 2 a g o s t o 1 4 8 0 ) . I Tu r c h i m a s s a c r a r o n o n e l l a c a t t e d r a l e i l v e s c o v o , i l c l e r o e t u t t o i l p o p o l o l à r i f u g i a t o ; i l 1 4 a g o s t o , s u l v i c i n o c o l l e d e l l a M i n e r v a , v e n n e r o t r u c i d a t i o t t o c e n t o p r i g i o n i e r i s u p e r s t i t i c h e s i e r a n o r i f i u t a t i d i a b i u r a r e l a l o r o f e d e .

2 7 8 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 2 7 9

L A D I S C E S A D I C A R L O V I I I

E L A F I N E D E L L A D I N A S T I A A R A G O N E S E

«Né mancava nell’animo di Carlo inclinazione a cercare d’acquistare con l’armi il regno

di Napoli, come giustamente appartenente a sé, cominciata per un certo istinto quasi

naturale insino da puerizia e nutrita da’ conforti di alcuni che gli erano molto accetti;

i quali empiendolo di pensieri vani gli proponevano questa essere occasione di avanzare

la gloria de’ suoi predecessori, perché, acquistato il reame di Napoli, gli sarebbe agevole

il vincere lo imperio de’ turchi».

Il 9 aprile 1492, ovvero nell’anno che tradizionalmente segna la fine del Medio Evo, morì Lorenzo il Magnifico, colui che fu caratterizzato da Francesco Guicciardini (1483-1540) – dalla sua Storia d’Italia abbiamo ripreso il passo sopra citato, riferito ad alcune motivazioni che spinsero Carlo VIII a venire a prendere possesso del regno di Napoli – come il principale artefice della politica di equilibrio fra gli stati italiani. Due anni dopo, il 25 gennaio 1494, morì anche Ferrante d’Aragona. Da quel momento, la nostra penisola divenne il teatro di scontro delle maggiori potenze europee, che se ne contesero il predominio. Negli ultimi anni di vita, Ferrante dedicò ogni energia, se non a scongiurarla, almeno a predisporre le forze che potessero opporsi alla discesa del re di Francia Carlo VIII (1470-1498), il quale, avendo legami di parentela con la dinastia angioina, vantava diritti di successione al regno di Napoli. Morì, però, prima di vedere il crollo della sua costruzione. Gli successe il figlio Alfonso II (1448-1495), che regnò solo per brevissimo tempo. Poco dopo la sua incoronazione, avvenuta all’inizio di maggio del 1494, mentre cercava freneticamente di stringere rapporti diplomatici con gli altri stati e di organizzare linee di difesa, cominciò l’inarrestabile marcia di conquista di Carlo VIII con il suo imponente esercito.

«Per unirsi con questo esercito erano state condotte per mare

a Genova quantità grande di artiglierie da battere le muraglie

e da usare in campagna, ma di tale sorte che giammai aveva

veduto Italia le simiglianti... Ma i franzesi, fabricando pezzi

molto piú espediti né d’altro che di bronzo, i quali

chiamavano cannoni, e usando palle di ferro, dove prima

di pietra e senza comparazione più grosse e di peso gravissimo

s’usavano, gli conducevano in sulle carrette, tirate non da buoi, come in Italia

si costumava, ma da cavalli, con agilità tale d’uomini e di instrumenti deputati

a questo servigio che quasi sempre al pari degli eserciti camminavano, e condotte

alle muraglie erano piantate con prestezza incredibile; e interponendosi dall’un

colpo all’altro piccolissimo intervallo di tempo, sí spesso e con impeto sì veemente

percotevano che quello che prima in Italia fare in molti giorni si soleva, da loro in

A f r o n t e : C r i s t o f a n o d e l l ’ A l t i s s i m o , r i t r a t t o d i F r a n c e s c o G u i c c i a r d i n i ( 1 4 8 3 - 1 5 4 0 ) . G a l l e r i a d e g l i U f f i z i , C o l l e z i o n e G i o v i a n a , F i r e n z e .

E l m o q u a t t r o c e n t e s c o p r o v v i s t o d i v i s i e r a m o b i l e c o n l a p o s s i b i l i t à d i f i s s a g g i o i n d i v e r s e p o s i z i o n i , s p e s s o s o r m o n t a t o d a c i m i e r i p i u m a t i d i m o l t e p l i c i f o g g e e c o l o r i .

2 8 0 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 2 8 1

pochissime ore si faceva: usando ancora questo più tosto diabolico che umano instrumento

non meno alla campagna che a combattere le terre, e co’ medesimi cannoni e con altri

pezzi minori, ma fabricati e condotti, secondo la loro proporzione, con la medesima destrezza

e celerità. Facevano tali artiglierie molto formidabile a tutta Italia l’esercito di Carlo;

formidabile, oltre a questo, non per il numero ma per il valore de’ soldati».

Con queste famose parole Francesco Guicciardini, ancora nella Storia d’Italia, caratterizza l’esercito francese sceso in Italia e la perfezione delle sue armi, capaci di incutere timore e di non lasciare quasi scampo agli avversari. Così, quasi senza trovare resistenze, Carlo VIII, col consenso di papa Alessandro VI, Rodrigo Borgia (1431-1503), entrò trionfalmente a Roma il 31 dicembre. Ormai il regno appariva indifendibile, e, alla fine di gennaio del 1495, «havendo conosciuto che non era accetto, e che suo figlio era a core di tutti li populi», come ricorda un contemporaneo, Alfonso II abdicò in favore del proprio figlio Ferdinando II, Ferrandino secondo la tradizione (1469-1496). Ma neppure questo servì: ormai l’esercito napoletano aveva «incominciato a impaurire del solo nome de’ franzesi». E, poco dopo, Napoli decise di accogliere entro le proprie mura le truppe francesi. Anche l’umanista Giovanni Pontano, dimentico degli onori ottenuti dai sovrani aragonesi, salutò il re francese con un’orazione celebrativa.

«Avevano in questo mezzo trovato Carlo in Aversa gl’imbasciadori napoletani mandati

a dargli quella città. A’ quali avendo conceduto con somma liberalità molti privilegi

e esenzioni, entrò il dì seguente, che fu il vigesimo primo di febbraio in Napoli, ricevuto

con tanto plauso e allegrezza d’ognuno che vanamente si tenterebbe di esprimerlo,

concorrendo con esultazione incredibile ogni sesso ogni età ogni condizione ogni qualità

ogni fazione d’uomini, come se fusse stato padre e primo fondatore di quella città;

né manco degli altri, quegli che, o essi o i maggiori loro, erano stati esaltati o beneficati

dalla casa d’Aragona. Con la quale celebrità andato a visitare la chiesa maggiore, fu dipoi,

perché Castelnuovo si teneva per gl’inimici, condotto a alloggiare in Castelcapuano,

già abitazione antica de’ re franzesi: avendo con maraviglioso corso di inaudita felicità,

sopra l’esempio ancora di Giulio Cesare, prima vinto che veduto; e con tanta facilità

che e’ non fusse necessario in questa espedizione né spiegare mai uno padiglione

né rompere mai pure una lancia».

E s e m p i d i b a l e s t r e d a l l e n u o v e f o g g e l e g g e r e e m a n e g g e v o l i , e l e g a n t i q u a n t o t e m i b i l i .

C o n l e c r o c i a t e , o l t r e a n u o v e t i p o l o g i e d i a r c h i t e t t u r a m i l i t a r e , a r r i v a n o a n c h e m o d i d i v e r s i d i c o m b a t t e r e e a r m i i n n o v a t i v e . S i d i f f o n d o n o e s i p o t e n z i a n o l e b a l e s t r e d a l l a l u n g a g i t t a t a e d a l l ’ e l e v a t o p o t e r e p e r f o r a n t e . G l i u s b e r g h i r i s u l t a n o p e r t a n t o i n s u f f i c i e n t i a l l a p r o t e z i o n e d e l c o r p o ; v e n g o n o a l l o r a a d o t t a t e n u o v e p r o t e z i o n i d a l l e f o r m e b o m b a t e p e r d e v i a r e i l p i ù p o s s i b i l e i p r o i e t t i d i b a l e s t r a .

A f r o n t e : U n ’ a r m a t u r a d e i p r i m i d e l ’ 5 0 0 . D a q u i a u n s e c o l o l e a r m a t u r e p e r d e r a n n o g r a d u a l m e n t e l a l o r o p r i m a r i a f u n z i o n e d i p r o t e z i o n e e i l l o r o d e c l i n o c o i n c i d e r à c o n l a f i n e d i u n ’ e p o c a , q u e l l a d e l f e u d a l e s i m o .

2 8 2 . S V E V I A N G I O I N I E A R A G O N E S I L ’ E T À A N G I O I N A E A R A G O N E S E . 2 8 3

Sono ancora tratte dalla Storia d’Italia di Francesco Guicciardini queste parole, nelle quali traspare l’implicito giudizio negativo sull’imbelle atteggiamento non solo dei Napoletani, ma anche di tutti i principi italiani, che, «con sommo vituperio e derisione della milizia italiana e con gravissimo pericolo e ignominia di tutti», avevano permesso che il regno meridionale passasse «dallo imperio degli italiani allo imperio di gente oltramontana».L’arrivo di Carlo VIII fu, tuttavia, un turbine di brevissima durata. Il 24 maggio 1495, dopo aver avuto appena il tempo di ricevere il giuramento di fedeltà dei nuovi sudditi, Carlo, resosi conto che stava venendo meno l’appoggio benevolo dei potentati italiani che poco prima l’avevano accolto favorevolmente, ripartì alla volta della Francia. Il successivo 7 luglio Ferrandino rientrò in città salutato dall’esultanza del popolo, come racconta sempre Guicciardini:

«Ferdinando, in questo mezzo entrato in Napoli, e messo con alcuni de’ suoi a cavallo

da’ napoletani, cavalcò per tutta la terra con incredibile allegrezza di ciascuno; ricevendolo

la moltitudine con grandissime grida, né si saziando le donne di coprirlo dalle finestre

di fiori e d’acque odorifere, anzi molte delle più nobili correvano nella strada ad abbracciarlo

e ad asciugargli dal volto il sudore».

Insomma, il regno era tornato nelle mani della dinastia aragonese, ma ancora per poco. Ferrandino morì il 7 settembre 1496, in seguito a una malattia durata pochi giorni. Non avendo lasciato figli, la corona fu ereditata dallo zio Federico I (1452-1504), fratello di Alfonso II e figlio di Ferrante.Ma, ormai, il vortice della storia aveva cominciato a spingere le vicende dell’Italia meridionale verso orizzonti più ampi, che travalicavano quelli della penisola. Con il trattato di Granada, stipulato segretamente nel 1500 tra il re di Spagna Ferdinando II il Cattolico (1452-1516) e il re di Francia Luigi XII (1462-1515), fu stabilita la spartizione del regno di Napoli: alla Spagna sarebbero andate la Puglia e la Calabria, e alla Francia la Campania, l’Abruzzo e il Molise. Federico accerchiato da sud dagli Spagnoli e da nord dai Francesi dovette capitolare.Così, anche il regno di Napoli, come già era accaduto alla Sicilia, perse la sua

A c c e s s o r i d i a r m a t u r a q u a t t r o c e n t e s c a : e l m o , g u a n t o , s p a l l i e r a , g i n o c c h i e r a .

A f r o n t e : R i t r a t t o d i L u i g i X I I r e d i F r a n c i a . D i p i n t o d i C r i s t o f a n o d e l l ’ A l t i s s i m o . G a l l e r i a d e g l i U f f i z i , C o l l e z i o n e G i o v i a n a , F i r e n z e . L u i g i p a r t e c i p ò a l l a s p e d i z i o n e i n I t a l i a d i C a r l o V I I I n e l 1 4 9 4 . R i f a c e n d o s i a i d i r i t t i e r e d i t a r i d e l l a n o n n a Va l e n t i n a V i s c o n t i , i n t r a p r e s e u n a p r o p r i a s p e d i z i o n e i n I t a l i a ( 1 4 9 9 - 1 5 0 0 ) e g l i f u f a c i l e l a c o n q u i s t a d e l D u c a t o d i M i l a n o .

indipendenza, ridotto a un vicereame di Spagna per due secoli. E Federico, l’ultimo re aragonese di Napoli, costretto ad andare in esilio in Francia nel 1501, finì i suoi giorni il 9 settembre 1504, circondato da pochi amici, fra i quali – come abbiamo già ricordato – il letterato Iacopo Sannazaro, che, nel Triunfo della Fama, esaltò gli ultimi sovrani della dinastia aragonese con questi versi:

«O spirti grandi,

o Alfonsi, o Ferrandi,

o Federichi,

pensate a’ vostri antichi,

e per quell’orme

sequite le mie norme.

Ecco qui ’l pregio,

ecco qui l’alto segio,

il qual vi chiama,

ecco qui la gran Fama

triunfante

che vien con sue volante

argute penne,

lodando il re che sì gran palma ottenne!».

I s a b e l l a e F e d e r i c o d ’ A r a g o n a , o p e r a i n l e g n o i n t a g l i a t o d o r a t o e d i p i n t o , d i P e r s i o A l t o b e l l o , 1 5 4 0 . I s a b e l l a , f i g l i a d i A l f o n s o d ’ A r a g o n a , f u d a t a i n s p o s a a G i a n G a l e a z z o S f o r z a . A m a n t e d e l l e a r t i , a b b e l l ì l a c i t t à e r e s e s p l e n d i d a l a s u a c o r t e c i r c o n d a n d o s i d i a r t i s t i , l e t t e r a t i e p o e t i .