1. il mondo come rappresentazione - theorein aletheia · 2020. 3. 10. · il mondo come volontà e...

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1 1. Il mondo come rappresentazione Il mondo fenomenico è una rappresentazione della coscienza ed è costituito dalle forme a priori di spazio, tempo e causalità Il mondo come volontà e rappresentazione si divide in quattro parti: la prima tratta del mondo come rappresentazione, la seconda della volontà, la terza dell’arte e la quarta della nolontà, la negazione della volontà. Il libro inizia con questa affermazione: «Il mondo è una mia rappresentazione ». Schopenhauer riprende infatti la distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno. Tuttavia: • per Kant il fenomeno è l’unica realtà accessibile alla mente umana e il noumeno è un concetto- limite che può essere solo pensato ma non conosciuto; • per Schopenhauer il fenomeno è invece parvenza, illusione, sogno, e il noumeno è ciò che si nasconde dietro al fenomeno. Per spiegare questa distinzione Schopenhauer ricorre al termine sanscrito Maya (illusione, magia), e conia l’espressione “velo di Maya”. In breve, la vera realtà esiste, ma è nascosta dietro un velo di interpretazioni illusorie: È Maya, il velo ingannatore, che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro vedere un mondo del quale non può dirsi né che esista, né che non esista; perché Maya rassomiglia a un sogno, rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegrino da lontano scambia per acqua; o anche rassomiglia alla corda gettata a terra che egli prende per un serpente. (Il mondo come volontà e rappresentazione) Il fenomeno è dunque solo una rappresentazione e in quanto tale è simile a un sogno. La vita e i sogni sono pagine di uno stesso libro […] e i sogni si distinguono, dunque, dalla vita reale in quanto non rientrano nella continuità dell’esperienza che ininterrottamente vi circola. (Il mondo come volontà e rappresentazione) Ogni rappresentazione si compone di due aspetti: il soggetto rappresentante e l’oggetto rappresentato. Soggetto e oggetto sono cioè semplicemente le due facce della stessa medaglia, nessuno dei due cioè esiste senza l’altro, così come il sogno non esiste senza la realtà a cui si ispira. Da questa distinzione si coglie l’errore tanto dell’idealismo quanto del materialismo: 1. l’idealismo pretende di ridurre l’oggetto al soggetto; 2. mentre il materialismo pretende di ridurre il soggetto all’oggetto. Per Schopenhauer dunque la domanda che tanto turbava la riflessione di Kant - esiste un mondo oltre a quello fenomenico? - non è neanche da porsi: tanto il soggetto conoscente quanto l’oggetto conosciuto fanno infatti parte dello stesso mondo.

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    1. Il mondo come rappresentazione Il mondo fenomenico è una rappresentazione della coscienza ed è costituito dalle forme a

    priori di spazio, tempo e causalità

    Il mondo come volontà e rappresentazione si divide in quattro parti: la prima tratta del mondo come

    rappresentazione, la seconda della volontà, la terza dell’arte e la quarta della nolontà, la negazione

    della volontà. Il libro inizia con questa affermazione: «Il mondo è una mia rappresentazione ».

    Schopenhauer riprende infatti la distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno.

    Tuttavia:

    • per Kant il fenomeno è l’unica realtà accessibile alla mente umana e il noumeno è un concetto-

    limite che può essere solo pensato ma non conosciuto;

    • per Schopenhauer il fenomeno è invece parvenza, illusione, sogno, e il noumeno è ciò che si

    nasconde dietro al fenomeno.

    Per spiegare questa distinzione Schopenhauer ricorre al termine sanscrito Maya (illusione, magia), e

    conia l’espressione “velo di Maya”. In breve, la vera realtà esiste, ma è nascosta dietro un velo di

    interpretazioni illusorie:

    È Maya, il velo ingannatore, che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro vedere un mondo del

    quale non può dirsi né che esista, né che non esista; perché Maya rassomiglia a un sogno,

    rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegrino da lontano scambia per acqua;

    o anche rassomiglia alla corda gettata a terra che egli prende per un serpente. (Il mondo

    come volontà e rappresentazione)

    Il fenomeno è dunque solo una rappresentazione e in quanto tale è simile a un sogno.

    La vita e i sogni sono pagine di uno stesso libro […] e i sogni si distinguono, dunque, dalla

    vita reale in quanto non rientrano nella continuità dell’esperienza che ininterrottamente vi

    circola. (Il mondo come volontà e rappresentazione)

    Ogni rappresentazione si compone di due aspetti: il soggetto rappresentante e l’oggetto

    rappresentato. Soggetto e oggetto sono cioè semplicemente le due facce della stessa medaglia,

    nessuno dei due cioè esiste senza l’altro, così come il sogno non esiste senza la realtà a cui si ispira.

    Da questa distinzione si coglie l’errore tanto dell’idealismo quanto del materialismo:

    1. l’idealismo pretende di ridurre l’oggetto al soggetto;

    2. mentre il materialismo pretende di ridurre il soggetto all’oggetto.

    Per Schopenhauer dunque la domanda che tanto turbava la riflessione di Kant - esiste un mondo

    oltre a quello fenomenico? - non è neanche da porsi: tanto il soggetto conoscente quanto l’oggetto

    conosciuto fanno infatti parte dello stesso mondo.

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    Frontespizio de Il mondo come volontà e rappresentazione

    (Die Welt als Wille und Vorstellung), Lipsia, 1819.

    Il mondo viene colto come rappresentazione a partire da forme a priori del soggetto, che

    Schopenhauer identifica con spazio, tempo e causalità

    È la mente umana che fa del mondo una rappresentazione ricoprendolo con il velo di Maya.

    Conoscere significa infatti “conoscere delle relazioni”, nel senso che noi non conosciamo mai un

    singolo oggetto, ma gli oggetti inseriti in una trama di relazioni: la conoscenza è cioè una sorta di

    tessuto che la nostra mente stende sulla realtà (per questo la metafora del velo di Maya è quanto mai

    calzante). Bisogna dunque immaginare l’uomo come un ragno al centro della sua tela dentro cui

    come mosche cadono tutte le cose. Ne consegue che «l’uomo ha la certezza assoluta di non

    conoscere né un Sole, né una Terra, ma soltanto un occhio che vede il Sole, una mano che tocca la

    Terra». Per spiegare la trama di relazione tra le cose Schopenhauer ricorre ancora al criticismo

    kantiano. Per Schopenhauer infatti Kant ha avuto «l’immenso merito» di scoprire le forme pure a

    priori, costituite da spazio, tempo e dalle 12 categorie. A differenza però di Kant, Schopenhauer

    riduce le 12 categorie a una sola, la causalità. Per Schopenhauer dunque le forme a priori sono

    soltanto tre: spazio, tempo e causalità. Inoltre, mentre per Kant la mente umana è descritta come

    qualche cosa di etereo, per Schopenhauer è un organo molto concreto, il cervello. Le facoltà

    cognitive di Kant diventano pertanto in Schopenhauer funzioni cerebrali. Il rapporto tra spazio,

    tempo e causalità è paragonabile a una partita a scacchi: lo spazio e il tempo costituiscono la

    scacchiera su cui si trovano gli oggetti; la causalità è invece ciò che li fa muovere. L’insieme

    costituisce il mondo così come ce lo rappresentiamo. Ma quale forza spinge la causalità a

    determinare e muovere gli oggetti? Il principio di “ragion sufficiente”, un’espressione introdotta nel

    lessico filosofico da Leibniz per indicare ciò che fa sì che le cose esistano e siano quello che sono.

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    Per Leibniz si trattava di Dio. Per Schopenhauer invece, che non credeva in Dio, la ragion

    sufficiente è insita nelle cose.

    SCHOPENHAUER E IL PANTEISMO

    Sebbene Schopenhauer possa apparire vicino al panteismo, in quanto il principio del mondo è

    immanente e non trascendente, in realtà se ne distanzia profondamente. Secondo i panteisti, come

    indica l’etimo stesso, tutto è Dio. Dio dunque abita il mondo. Si tratta di una conclusione che

    Schopenhauer non condivide né nel metodo, né nel contenuto. Nel metodo in quanto il panteismo

    parte da qualche cosa di sconosciuto, Dio, per spiegare il conosciuto, il mondo, mentre lui parte dal

    conosciuto, il fenomeno, per spiegare lo sconosciuto, il noumeno. Per quanto riguarda invece il

    contenuto, Schopenhauer contesta ai panteisti il ritenere che il mondo sia divino e dunque positivo.

    Si tratta di un ottimismo, a suo modo di vedere, davvero ingiustificato: nel mondo esiste infatti

    troppo dolore e troppa malvagità per pensare che la realtà di cui siamo parte abbia un senso, e per

    giunta positivo.

    Le quattro radici del principio di ragion sufficiente sono il divenire, l’essere, il conoscere e

    l’agire

    Il principio di ragion sufficiente ha quattro radici, cioè quattro modi attraverso cui la causalità si

    rapporta con il mondo fenomenico.

    1. Il divenire regola i rapporti esistenti nel mondo dei fenomeni fisici: una ghianda diviene una

    quercia, come un seme diventa un fiore, seguendo dei processi causali che si attualizzano in leggi

    biologiche ben determinate, per cui il fiore non è che l’effetto necessario del divenire della sua

    causa, che è il seme, come la quercia lo è della sua, la ghianda.

    2. L’essere regola i rapporti matematici e geometrici su cui si fondano le leggi della fisica. Nella

    geometria infatti, come nella matematica, ogni rapporto è fondato su relazioni rigidamente causali:

    così come in geometria la somma di due angoli retti deve essere di 180 gradi, in matematica ogni

    passaggio di un’espressione è la necessaria conseguenza del precedente. La causalità si manifesta

    poi nei rapporti di spazio, per quanto riguarda la geometria, e di tempo per quanto riguarda la

    matematica.

    3. Il conoscere regola il funzionamento della ragione umana: questo è un punto importante perché

    qui Schopenhauer smonta la presunta libertà del pensiero. Non vi è infatti libertà da parte della

    nostra mente nel formulare ragionamenti. Come infatti nel mondo naturale una ghianda diventa

    quercia, seguendo delle ben definite leggi causali, allo stesso modo i nostri ragionamenti si fondano

    su determinate premesse a cui conseguono necessariamente certe conclusioni. Questo procedimento

    avviene anche nel campo dell’agire.

    4. L’agire regola i rapporti e le motivazioni sottese alle azioni morali degli individui: nel

    momento in cui noi compiamo un’azione - e qualunque agire umano è sempre collocato moralmente

    - essa è frutto di cause che l’hanno determinata. Se una persona decide, per esempio, di studiare,

    questa azione sarà la conseguenza di motivazioni a loro volta causate da avvenimenti o situazioni

    emotive precedenti. Non vi è, dunque, nelle motivazioni che ci spingono a compiere un’azione

    piuttosto che un’altra, alcuna libera scelta tra il bene o il male, alcuna “legge morale” ma solo delle

    concatenazioni causali. Queste quattro radici del principio di ragion sufficiente rendono complessa

    la rappresentazione del mondo come si trattasse di una sorta di “incantesimo”. Tuttavia l’uomo in

    quanto “animale metafisico” a differenza degli altri animali non può fare a meno di interrogarsi

    sulla propria esistenza fino a stupirsene, in misura proporzionale alla sua intelligenza.

    Nessun essere, eccetto l’uomo, si stupisce della propria esistenza; per tutti gli animali essa è

    una cosa che si intuisce per se stessa, nessuno vi fa caso. […] La meraviglia filosofica è

    condizionata da uno svolgimento superiore dell’intelligenza, ma non da questo soltanto. […]

    Se la nostra vita fosse senza fine e senza dolore, forse non verrebbe in mente a nessuno di

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    chiedersi perché il mondo esista e perché sia fatto così. (Supplementi al Mondo come volontà

    e rappresentazione)

    Questo interrogarsi dell’uomo può condurre alla conoscenza reale delle cose, cioè a “squarciare il

    velo di Maya”? Di ciò tratta la seconda parte del capolavoro di Schopenhauer dedicata alla volontà.

    2. Il mondo come volontà Quando l’uomo considera il proprio corpo, vi scopre l’esistenza della noumenica volontà di

    vivere, irrazionale e cieca

    La lacerazione del velo di Maya è possibile in quanto nell’uomo fenomeno e noumeno coincidono.

    L’uomo cioè non è soltanto un soggetto conoscente, «un’alata testa d’angelo», ma in quanto corpo è

    anche oggetto della conoscenza: di conseguenza in lui si agita la “cosa in sé”. Noi possiamo dunque

    considerare il nostro corpo come qualsiasi altro oggetto, in questo caso è fenomeno, ma dentro di

    noi avvertiamo che l’intima essenza delle cose, il noumeno, è volontà: un «cieco e irresistibile

    impeto» di vivere che domina non solo noi ma tutta la realtà. In breve, il corpo è “volontà

    oggettivata”, nel senso che è volontà resa visibile, così come il mondo.

    Il mondo, nella molteplicità delle sue parti, e delle sue formazioni, è il fenomeno,

    l’oggettivazione di un’unica volontà di vivere. L’esistenza stessa e i suoi modi, nel tutto e

    nelle singole parti, non hanno radice che nella volontà. (Il mondo come volontà e

    rappresentazione)

    Dal momento che l’azione della volontà è irrazionale (qui sta l’antitesi radicale con l’Assoluto

    hegeliano) non persegue alcuno scopo se non quello di riprodurre indefinitamente se stessa. La

    volontà è presente in tutti gli esseri viventi, siano essi animali o piante, ma solo l’uomo ne è

    consapevole, perché munito di una ragione capace di intuire la volontà, ovvero la “cosa in sé”. Ne

    consegue un paradosso: il mondo fenomenico ci appare ordinato secondo le leggi di natura, perché

    così lo descrive la mente razionale dell’uomo, mentre in realtà è assoluto caos in quanto è il

    prodotto di un’energia irrazionale, la volontà. La conseguenza è dunque drammatica: non esiste la

    libertà. Gli uomini credono infatti di prendere decisioni in piena autonomia, mentre in realtà chi

    decide per loro è la volontà, un inconscio impulso alla vita e alla perpetuazione della specie.

    Riassumendo, il velo di Maya ci descrive un mondo fatto di individui, oggetti, ragionamenti, forme

    e colori. Si tratta però solo di apparenza. Sotto al velo di Maya c’è la volontà, una sorta di magma

    indistinto dove non esistono individui e oggetti separati dagli altri, dove tutto è caos. Dunque la

    volontà (intesa sempre come volontà di vivere) è:

    • il noumeno, cioè l’intima essenza delle cose;

    • unica, in quanto non è alcunché di individuale, ma un mare increspato da un’infinità di singole

    onde;

    • anonima, cioè senza volto, oscura, priva di ogni fisionomia;

    • irrazionale, nel senso che non persegue nessun progetto;

    • cieca, indifferente cioè ai risultati che persegue.

    Dunque la volontà non può essere oggetto di rappresentazione ma è ovunque: la troviamo nella lotta

    tra la forza di gravità e la rigidità nel mondo inorganico; nel fiore che cresce e nel piede che lo

    calpesta; nella gazzella che scappa e nel leone che la insegue; nell’amore come nell’odio; nella

    nascita come nella morte. Si tratta di una descrizione della natura non scientifica ma filosofica:

    decadente è infatti secondo Schopenhauer il progetto di conoscere il mondo affidandosi alla scienza,

    anziché alla filosofia che svela la verità oltre l’illusione dell’apparenza. In sintesi, la volontà è

    l’essere del mondo, il male che lo pervade: il pessimismo metafisico di Schopenhauer non potrebbe

    essere più radicale

  • 5

    FILOSOFI a CONFRONTO

    Quale rappresentazione?

    KANT SCHOPENHAUER

    Fenomeno

    Il fenomeno è frutto dei sensi e

    della costruzione del mondo

    dell’esperienza operata dall’Io

    penso.

    Il fenomeno è solo una rappresentazione,

    un’illusione e in quanto tale è simile a un

    sogno.

    Noumeno

    La cosa-in-sé, un concetto-limite

    che può essere solo pensato ma

    non conosciuto.

    L’intima essenza delle cose è volontà: un

    «cieco e irresistibile impeto» di vivere che

    domina non solo noi ma tutta la realtà.

    Forme a

    priori Spazio, tempo e 12 categorie. Spazio, tempo e causalità.

    Mente

    umana

    È eterea, non materiale, coincide

    con le facoltà cognitive. Coincide con il cervello e le sue funzioni.

    Il dolore provocato dalla volontà che desidera incessantemente può essere interrotto solo dalla

    noia che subentra allorché si ottiene quanto ricercato

    Se la vita è dominata dalla volontà, allora la vita è dolore. La volontà infatti si esprime sempre nel

    desiderio di qualche cosa, e questa tensione frustrata è il dolore. Ma poniamo il caso che il mio

    desiderio venga appagato: che caratteristiche avrebbe questo successo? I caratteri di una vera e

    propria sopraffazione. Il mio successo corrisponde infatti sempre all’insuccesso di qualcun altro in

    quanto la mia volontà è sempre in contrasto con quella di qualcun altro. Questo perenne scontro tra

    volontà fa sì che tutti siano colpevoli, e la colpa consiste nell’essere nati e di conseguenza nel dover

    vivere a scapito degli altri. Prigionieri di un’illusione, gli uomini si oppongono quindi l’un l’altro

    senza rendersi conto di essere una sola realtà. Tutta la natura soffre, non soltanto l’uomo: il mondo

    animale si nutre di quello vegetale, e gli stessi animali si nutrono l’uno dell’altro; in particolare poi

    la «specie umana ritiene la natura creata per proprio uso e consumo e rivela in sé medesima la lotta

    e il dissidio della volontà: homo homini lupus». Più di tutti gli esseri viventi soffre però l’uomo

    perché è colui che ha la maggiore consapevolezza della sua condizione, e tra gli uomini più di tutti

    soffre il genio in quanto «più intelligenza avrai, più soffrirai». In questo contesto la ricerca del

    piacere inteso come godimento (se riguarda il fisico) o gioia (se riguarda la mente) diventa assurda.

    Non esiste infatti il piacere senza il dolore, in quanto il piacere null’altro è se non il rilassamento dal

    dolore. Ma poiché il piacere consiste nel rilassamento, inevitabilmente sfocia nella noia.

    Il fine, in sostanza, è illusorio: col possesso svanisce ogni attrattiva; il desiderio rinasce in

    forma nuova e con esso il bisogno; altrimenti ecco la tristezza, il vuoto, la noia, nemici ancor

    più del bisogno. (Il mondo come volontà e rappresentazione)

    Come diceva Pascal, l’uomo è l’unico animale al quale per essere infelice basta restare da solo con

    se stesso. Ma come può l’uomo sfuggire alla noia se non desiderando qualche cosa di nuovo? Il

    ritorno del desiderio è però fonte di nuovo dolore. E così il ciclo ricomincia. Da qui la celebre

    descrizione della vita umana paragonata a un pendolo che oscilla tra il dolore e la noia. Ne

    consegue che dei sette giorni della settimana, sei sono di dolore e uno di noia. L’incessante oscillare

    tra dolore e noia non potrà mai aver fine poiché l’uomo non può che volere infinitamente, e quindi

    essere sempre insoddisfatto. In conclusione, la vita umana è una tragedia dal finale già scritto, e gli

    sforzi per cercare di accaparrarsi un po’ di felicità sono «come quelli di chi cerca di gonfiare quanto

    più, e quanto più a lungo possibile, una bolla di sapone, pur sapendola destinata a scoppiare».

  • 6

    RIFERIMENTI CULTURALI DEL PESSIMISMO DI SCHOPENHAUER

    Schopenhauer trovava conferme alla sua visione pessimistica nella sua vastissima conoscenza dei

    classici antichi e moderni: numerosi sono infatti una serie di riferimenti alla condizione passeggera

    o tragica dell’uomo, oppure alla natura ingannevole della nostra conoscenza. Ne ricordiamo alcuni

    tra i più celebri.

    Pindaro (518-438

    a.C.)

    Riguardo alla stretta parentela intercorrente fra vita e sogno, il grande poeta

    greco scriveva: «Effimeri siamo. Cos’è qualcuno? Cos’è invece nessuno?

    Sogno di un’ombra è l’uomo.» (Pitiche, VIII)

    Sofocle (496-406

    a.C.)

    Anche il grande tragediografo greco si interrogava sulla natura passeggera e

    umbratile dell’uomo: «Noi esseri umani che siamo? Spettri, impalpabile

    ombra.» (Aiace)

    Platone (428/27

    347 a.C.)

    Nella Repubblica gli uomini sono paragonati a prigionieri in una caverna che

    scambiano le ombre degli oggetti per la realtà vera. Nello stesso dialogo,

    Socrate chiede a Glaucone: «Non è forse vero che il sognare è questo,

    quando uno sia nel sonno sia da sveglio creda che il simile sia non simile a

    un altro, ma lo stesso cui assomiglia?».

    Lucrezio (I sec.

    a.C.)

    Il poeta epicureo latino poneva in evidenza il dolore e la fatica del vivere:

    «In quali tenebre della vita, in quanti pericoli è trascorso questo poco tempo

    che ancora ci resta!» (De rerum natura)

    Dante Alighieri

    (1265-1321)

    «Donde ha preso Dante la materia del suo Inferno, se non da questo mondo

    reale? E nondimeno n’è venuto un inferno bell’e buono. Quando invece gli

    toccò di descrivere il cielo e le sue gioie, si trovò di fronte a una difficoltà

    insuperabile: appunto perché il nostro mondo non offre materiale per

    un’impresa siffatta.» (A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e

    rappresentazione)

    William

    Shakespeare

    (1564-1616)

    Secondo Schopenhauer, Shakespeare esprime «più degnamente» fra tutte le

    testimonianze letterarie la parentela tra la vita e sogno quando scrive: «Noi

    siamo della stessa sostanza di cui son fatti i sogni, e la nostra breve vita è

    circondata da un sonno.» (La tempesta)

    Pedro Calderón

    de la Barca

    (1600-1681)

    Schopnhauer afferma che Calderón era «profondamente preso da questo

    pensiero metafisico»: «Tutta la vita è sogno, e i sogni sono sogni!» «Poiché

    il delitto maggiore dell’uomo è di essere nato.» (La vita è sogno)

    Il pessimismo di Schopenhauer si applica alla storia, all’antropologia in quanto considera il

    mondo null’altro che un inferno

    Dalla visione tragica della vita deriva l’avversione di Schopenhauer nei confronti di qualsiasi forma

    di storicismo, facendosi beffe soprattutto di quelle interpretazioni del mondo dominanti nella sua

    epoca. Alla filosofia hegeliana, che vedeva la storia come il razionale dispiegarsi dell’Assoluto, e al

    positivismo, che considerava il progresso come l’inevitabile conseguenza delle acquisizioni tecnico-

    scientifiche della propria epoca, Schopenhauer contrappone la propria visione irrazionale della

    storia. Cambiano cioè i nomi e gli avvenimenti si manifestano nelle differenti collocazioni spazio-

    temporali, ma la realtà è sempre la medesima: la volontà assume cioè sempre diverse connotazioni,

    rimanendo identica a se stessa. Di conseguenza la storia dell’uomo è una «tragedia che a furia di

    ripetersi diviene una farsa», un assurdo destino simile a una ruota che gira all’infinito senza andare

    da nessuna parte, come quella del criceto che nella gabbia si affanna a correre sempre più

  • 7

    velocemente, senza spostarsi di un millimetro. Al pessimismo storico si associa poi anche quello

    antropologico e sociale. Schopenhauer considera infatti il mondo null’altro che un inferno, in cui

    «ognuno è diavolo per l’altro», tanto che «l’uomo è l’unico animale che faccia soffrire gli altri al

    solo scopo di farli soffrire», mentre «gli altri animali lo fanno unicamente per soddisfare la loro

    fame o nel furore della lotta». Noi conosciamo solitamente l’uomo nel momento in cui è in quello

    stato di equilibrio chiamato civiltà, ma basta poco a rompere questo equilibrio e allora l’uomo si

    rivela per quello che è, «un animale da preda» a cui, come dice Omero, «l’odio è più dolce del

    miele». Di conseguenza, nessuno è da invidiare, mentre infiniti uomini sono da compiangere:

    Come l’uomo si comporti con l’uomo è mostrato, ad esempio, dalla schiavitù dei neri. […]

    Ma non v’è bisogno di andare così lontani: entrare nelle filande o in altre fabbriche all’età di

    cinque anni, e da allora in poi sedervi per dieci, poi dodici, infine quattordici ore al giorno,

    ed eseguire lo stesso lavoro meccanico, significa pagare caro il piacere di respirare. Eppure

    questo è il destino di milioni, e molti altri milioni ne hanno uno analogo. (Supplementi al

    Mondo come volontà e rappresentazione)

    Anche le azioni che apparentemente ci sembrano motivate dai più alti intenti morali, vengono in

    realtà compiute dai singoli individui sotto l’impulso della volontà. Per esempio, un individuo fa

    beneficenza poiché la propria volontà egoista lo spinge a sentirsi buono, non certo perché gli

    importi realmente delle altre persone.

    L’amore e l’erotismo sono solo illusioni incapaci di dare felicità e che accrescono il dolore: il

    piacere sessuale non ha infatti mai reso felice nessuno in modo stabile, ma solo per un

    fuggevole attimo

    Per sfuggire alla sua tragica condizione, l’uomo si rifugia nelle illusioni, la più tragica delle quali è

    l’amore che secondo Schopenhauer è sempre indirizzato alla ricerca del piacere sessuale. L’amore

    infatti è l’estremo inganno con cui la volontà perpetua se stessa e con essa il dolore della vita.

    «Ogni innamoramento - scrive Schopenhauer - per quanto etereo possa apparire, affonda sempre le

    sue radici nell’istinto sessuale». E ancora: «Se la passione di Petrarca fosse stata appagata, il suo

    canto sarebbe ammutolito». D’altra parte il piacere sessuale non ha mai reso felice nessuno in modo

    stabile, ma solo per un fuggevole attimo. E così anche gli amanti più focosi non possono che

    sperimentare quanto sia vera la massima antica: “Dopo il coito ogni animale è triste”. Da qui la

    lapidaria conclusione a cui giunge Schopenhauer: il concepimento altro non è che «due infelicità

    che ne mettono al mondo una terza». Al tema dell’erotismo Schopenhauer dedica un saggio, la

    Metafisica dell’amore sessuale (un collage di brani presenti in varie sue opere), in cui esprime la

    sua visione della sessualità, anticipando chiaramente il pensiero di Freud. La Metafisica

    dell’amore sessuale ha dunque un merito anche cronologico: per la prima volta un filosofo affronta

    il tema della sessualità senza pudori o censure, assegnandole il posto che le spetta nella complessità

    dell’essere umano

    3. La consolazione estetica Tutti gli uomini sono in grado di vedere le idee ossia di intuire l’essenza delle cose, ma questa

    facoltà è al sommo grado presente solo nell’artista

    Tra l’illusoria conoscenza fenomenica e quella autentica della realtà noumenica c’è una via di

    mezzo: la contemplazione di quelle che Schopenhauer, riprendendo il termine da Platone, chiama

    idee. Le idee sono forme eterne e immutabili, al di fuori del tempo e dello spazio, considerate da

    Schopenhauer modelli delle realtà naturali. L’idea non è quindi «qualche cosa che ci viene in

    mente», ma è per l’uomo l’intuizione dell’essenza delle cose. Le idee trasformano cioè questo

    amore nell’amore, questo dolore nel dolore, questa felicità nella felicità ecc. Ma chi è capace di

  • 8

    raggiungere questa conoscenza? Solo l’artista, non certamente lo scienziato, il cui sapere è legato al

    mondo fenomenico. L’artista infatti è quel genio capace di spezzare le catene della volontà per

    diventare «puro occhio del mondo»:

    • “puro”, perché guarda gli oggetti del mondo in modo disinteressato, e non per quello che possono

    essergli utili o nocivi;

    • “occhio”, perché vede negli oggetti le idee, cioè le essenze delle cose.

    In che modo l’artista produce l’opera d’arte? Secondo Schopenhauer in modo assolutamente

    intuitivo, spontaneo, totalmente privo di speculazioni intellettuali. In breve, “produce bruscamente”,

    nel senso che l’artista nell’atto creativo vive una situazione simile al “furore romantico”:

    L’idea è e resta intuitiva, l’artista non ha nessuna conoscenza in abstracto né dell’intenzione né del

    fine della sua opera; non è un concetto, ma un’idea che brilla dinanzi a lui; egli dunque non può

    rendersi conto di quello che fa; lavora (per usare un’espressione volgare) di sentimento,

    inconsciamente, anzi, istintivamente. (Il mondo come volontà e rappresentazione)

    Solo l’artista possiede questa capacità? Secondo Schopenhauer tutti gli uomini (tranne i casi di

    gente refrattaria a ogni sentimento estetico) possiedono la capacità di vedere negli oggetti le idee.

    La differenza consiste nel fatto che l’artista ha «il vantaggio di possedere tale facoltà in grado più

    elevato». Per questo l’artista tende a trascurare la sua vita a tal punto da apparire agli occhi

    dell’uomo volgare, un inetto incapace di vivere. Ecco perché, osserva Schopenhauer, «un poeta può

    conoscere a fondo l’uomo, ma conoscere male gli uomini», e quindi cadere «facilmente nella

    trappola degli inganni» tanto da divenire «un trastullo in mano agli astuti».

    In base al tipo di idee da esse contemplate, Schopenhauer individua una gerarchia delle arti

    Le arti seguono una classificazione gerarchica a seconda delle idee che contemplano,

    dall’architettura fino alla tragedia, passando per la scultura, la pittura e la poesia. L’architettura

    occupa il grado più basso di questa gerarchia. Attraverso di essa vengono intuite quelle idee che

    rappresentano «le prime, più semplici e più oscure manifestazioni della volontà», quelle cioè

    inerenti alla materia inorganica come «la pietra o il legno». Secondo Schopenhauer, visto che

    solitamente le opere architettoniche vengono eseguite per scopi estranei all’arte, il «gran merito

    dell’architetto consiste nel perseguire e raggiungere il fine estetico, pur tenendo conto delle altre

    esigenze cui è subordinato». Attraverso invece la scultura e la pittura il mondo naturale, compreso

    quello animale e umano, si offrono all’ammirazione estetica. La scultura ha come oggetto principale

    la bellezza dell’uomo:

    La bellezza è la rappresentazione esatta della volontà in generale per mezzo di un fenomeno

    puramente spaziale. Allorché uniamo una perfetta bellezza con una perfetta grazia avremo la

    manifestazione più notevole della volontà nel grado supremo della sua oggettivazione. (Il

    mondo come volontà e rappresentazione)

    Attraverso la pittura viene invece colto maggiormente il carattere spirituale dell’individuo «che si

    esprime negli affetti, nelle passioni e nelle azioni»: tutte queste caratteristiche vengo espresse

    meglio attraverso le posture del viso e dei gesti, e pertanto sono più consone al ritratto dei dipinti

    che alle sculture. Nella poesia l’idea viene infine trasfigurata in un’immagine intuitiva. Si tratta però

    di un’impresa così ardua che può riuscire solo se il lettore «concorre con la sua immaginazione». Al

    poeta spetta pertanto il compito di favorire questa immaginazione, tenendo presente che il materiale

    di cui si occupa è al tempo stesso il più vario e il più complesso tra quelli toccati dalle arti: la vita,

    le emozioni, i pensieri dell’umanità.

    La poesia ha dunque un compito fondamentale: farci conoscere l’uomo, il grado più alto di

    oggettivazione della volontà. In ciò essa è superiore alla storia che ci fa conoscere gli uomini

    piuttosto che l’uomo. (Il mondo come volontà e rappresentazione)

  • 9

    La tragedia è l’espressione più alta della poesia, e quindi dell’arte, poiché in essa «viene in luce la

    spaventosa lotta della volontà con se stessa» e viene dipinto «il quadro delle sofferenze umane, sia

    di quelle provenienti dal caso e dall’errore sia di quelle che hanno sorgente nella stessa natura

    umana». La tragedia incarna dunque perfettamente quel pessimismo schopenhaueriano secondo cui

    «una e identica è la volontà che viene e si rivela in tutti gli esseri umani; ma le sue manifestazioni si

    combattono e si dilaniano fra loro». Inoltre Schopenhauer esprime nelle sue analisi sulla tragedia

    una concezione alquanto interessante che lo rapporta ai drammi della grande narrativa

    contemporanea: nota infatti che, le cause della sventura umana, sebbene siano infinite, possono

    essere ricondotte a tre tipologie, possono cioè essere prodotte:

    1. da «caratteri di perversità straordinaria e mostruosa»;

    2. da una «fatalità cieca»;

    3. dal rapporto tra i personaggi, cioè «dalla situazione dell’uno con l’altro».

    Nelle tragedie, ognuno di noi viene posto di fronte alla tremenda realtà in cui traspare con evidenza

    come le «più grandi calamità siano prodotte da complicazioni in cui può venire essenzialmente

    coinvolto il nostro destino, e da azioni che anche noi saremmo forse capaci di commettere». La

    sventura che grava ineluttabilmente sulla vita umana assume così un aspetto ancora più spaventoso,

    poiché riguarda ogni suo particolare momento, non solo quelli più nefasti, ma anche quelli

    all’apparenza insignificanti e quotidiani.

    FILOSOFI a CONFRONTO

    La concezione dell’arte e dell’artista Schopenhauer è al tempo stesso colui che conclude la stagione delle grandi teorie estetiche del

    primo Ottocento (Kant, Hegel e Schelling) e colui che inaugura quelle che saranno le tendenze

    irrazionaliste, affermatesi a partire dalla sua stessa filosofia. Può dunque essere utile mettere a

    confronto la concezione dell’arte e dell’artista di Schopenhauer con quelle di Kant, Hegel e

    Schelling così da individuarne quell’originalità che lo contraddistingue.

    KANT HEGEL SCHELLING SCHOPENHAUER

    Arte

    Produce oggetti

    che ci

    procurano un

    piacere che

    scaturisce

    dall’armonia

    che avvertiamo

    tra essi e la

    nostra

    interiorità.

    L’arte esprime la

    verità assoluta

    attraverso

    l’intuizione

    sensibile, nella

    forma di una

    creazione bella.

    L’arte è costruzione

    dell’Assoluto nella

    forma della sua

    manifestazione

    sensibile: l’arte

    deve mettere in

    forma la natura e lo

    spirito. È l’ organo

    della filosofia.

    È una consolazione

    provvisoria dalla vita,

    un “breve

    incantesimo”.

    Artista

    Un genio che sa

    essere originale

    ma non

    stravagante:

    non crea

    secondo una

    regola, ma crea

    la regola.

    L’artista produce

    un’opera che rivela

    l’idea nella sua

    purezza ed è fatta

    per essere

    contemplata per se

    stessa; pertanto è

    conforme all’idea

    del bello, e mostra

    la verità profonda

    dell’esistenza.

    L’artista riproduce

    la medesima

    produttività

    inconscia che

    caratterizza

    l’assoluto, grazie ai

    due momenti

    conscio e

    inconscio.

    Un genio capace di

    spezzare le catene della

    volontà per diventare

    «puro occhio del

    mondo».

  • 10

    MAPPA CONCETTUALE

    La scala gerarchica dell’arte

    La musica occupa un posto particolare perché essa non riproduce le idee bensì intuisce la

    volontà stessa

    Dopo aver concluso l’esame della tragedia, Schopenhauer constata come vi sia un’arte che è rimasta

    «fuori dal nostro studio, e che doveva rimaner fuori, poiché non poteva trovare un posto

    conveniente nella connessione sistematica dell’esposizione: la musica». Ma perché la musica viene

    «totalmente isolata dalle altre sorelle» tanto da essere esclusa dalla scala gerarchica delle arti?

    Secondo Schopenhauer la musica «non è come le altre arti una riproduzione delle idee, ma una

    riproduzione della stessa volontà, una sua oggettivazione allo stesso titolo che le idee». Con la

    musica abbiamo infatti l’intuizione della volontà stessa in quanto ignora completamente il mondo

    fenomenico, tanto che potrebbe esistere anche se l’universo non ci fosse più. In breve, la musica è

    capace di «cogliere il cuore delle cose». La peculiarità della musica è data anche dal fatto che al suo

    interno riproduce una scala gerarchica simile a quella a cui danno vita tutte le altre arti; e se in cima

    alla scala delle arti avevamo la tragedia, ora troviamo la melodia in quanto in essa la musica diventa

    discorso non della ragione ma del sentimento. Di conseguenza la melodia è capace di «rivelare per

    suo mezzo i più profondi segreti della volontà e del sentimento umano». Con la musica la

    possibilità dell’intuizione artistica dell’autentica realtà giunge così al culmine: nella musica infatti,

    più che nelle altre arti «il genio agisce evidentemente fuori da ogni riflessione, da ogni intenzione

    cosciente, qui abbiamo la vera ispirazione».

    Il sollievo provocato dall’arte nei confronti della volontà di vivere è soltanto momentaneo e

    provvisorio Concludendo la sua riflessione, Schopenhauer definisce l’arte come «la cosa più consolante e

    innocente della vita», una sorta cioè di gioco, in quanto riflette il gioco tragico della vita. Da qui il

    suo limite: l’arte ci consente cioè di liberarci dall’oppressione della vita ma «soltanto per un breve

    momento», non di esserne redenti per sempre. In altri termini, l’arte ci consola dalla vita, «ma è

    soltanto una consolazione provvisoria». L’artista coglie infatti come nessun altro il dolore del

    mondo e l’assurdità della vita, ma non riesce a elevarsi fino al punto di staccarsi per sempre dalla

    volontà che lo lega a essa. È in grado solamente di contemplare il mondo nella sua purezza e nella

    sua bellezza ideale, non di abbandonarlo; per questo l’artista non è che un “mistico mancato”. In

    sintesi, l’arte è un “breve incantesimo” terminato il quale l’uomo ritorna vittima della volontà. La

    strada di liberazione dalla volontà attraverso l’arte si rivela così inadeguata: non rimane quindi che

    tentare un’altra strada, quella della morale.

    4. L’esperienza del nulla: il nirvana La morale per Schopenhauer scaturisce da due sentimenti: il rimorso per le ingiustizie

    compiute e la compassione per il dolore altrui

    Mentre l’arte è un modo per consolarci della realtà, la morale impone un forte impegno nei

    confronti del prossimo. Da un lato Schopenhauer condivide con Kant la convinzione che la moralità

    si fondi sul disinteresse, dall’altro ritiene che la moralità non scaturisca come ritiene Kant

    dall’imperativo categorico ma da due sentimenti: il rimorso per le ingiustizie compiute e la

    compassione per il dolore altrui. Il rimorso spingendoci a ristabilire la giustizia nei confronti degli

    altri è il primo passo verso la soppressione del male: consiste infatti nel riconoscere gli altri come

    uguali a me. Si tratta di un riconoscimento importante, ma limitato, in quanto la giustizia ha un

    carattere negativo, nel senso che consiste nel non fare del male agli altri. Inoltre pur considerando

    gli altri uguali a me, la giustizia li considera ancora distinti da me, cioè diversi da me. Solo la

    compassione (o la pietà) ci rivela invece il vero significato degli altri: letteralmente infatti com-

    http://rsp.wtouch.it/liquidReaderCapitello/?ut=bGVhbmRyb3BldHJ1Y2NpNzBAZ21haWwuY29t&pw=QWdhcGUxOTcw&volume=CPAC67_4267523A&idpage=125&outsideapp=true#openModal1http://rsp.wtouch.it/liquidReaderCapitello/?ut=bGVhbmRyb3BldHJ1Y2NpNzBAZ21haWwuY29t&pw=QWdhcGUxOTcw&volume=CPAC67_4267523A&idpage=125&outsideapp=true#openModal1

  • 11

    passione vuol dire “patire con, patire insieme”. Solo chi compatisce ama veramente: il vero amore

    (che possiamo anche indicare con termini quale agape, carità, bontà) non ha infatti nulla a che fare

    con l’attrazione sessuale (eros) che è solo un falso amore in quanto inganno della volontà al fine di

    perpetuare se stessa. Amare veramente significa invece percepire il dolore del mondo intero; quindi

    non consiste tanto nel fare del bene al prossimo, ma nel soffrire insieme al prossimo sentendo nostre

    le sue sofferenze. Di conseguenza, nel momento in cui proviamo compassione avvertiamo che tra

    noi e gli altri sofferenti non c’è alcuna differenza: un concetto ben sintetizzato dalla sacra formula

    che i Veda suggeriscono di ripetere tutte le volte che incontriamo una creatura: “Questo vivente sei

    tu!” (Tat twam asi!)

    Chi sappia ripetere a se stesso questa formula con piena coscienza e con salda intima

    convinzione di fronte a ogni creatura con cui venga in contatto, è sicuro di possedere la virtù

    e la beatitudine, di essere sulla via diritta della redenzione. (Il mondo come volontà e

    rappresentazione)

    Non è dunque la conoscenza che fonda la morale, ma è la morale che fonda la conoscenza: è per

    mezzo della compassione che giungiamo a comprendere che siamo tutti fatti della stessa sostanza

    metafisica, la volontà.

    L’ascesi è la strada che permette all’uomo di annullare in sé la volontà e di accedere a uno

    stato di suprema liberazione, il nirvana

    Compatire significa tuttavia ancora patire. Inoltre la compassione rivela l’attaccamento alla vita, nel

    senso che si soffre per il dolore degli altri e si desidera per loro una vita migliore. Anche la strada

    della moralità dunque non ci libera completamente dal dolore che il vivere comporta. Non rimane

    quindi che tentare un’ultima strada, quella dell’ascesi che scaturisce dall’orrore dell’uomo per la

    volontà. Lo scopo dell’ascesi consiste pertanto nell’annullare in sé ogni volontà, estirpando cioè

    ogni desiderio di vivere. Per questo il primo gradino dell’ascesi è costituito dalla perfetta castità,

    cioè dalla liberazione dall’impulso alla perpetuazione della specie. Seguono poi la povertà

    volontaria, il digiuno, il sacrificio fino a che si giunge alla soppressione della volontà: in una parola,

    alla noluntas o nolontà. Annullando la volontà si entra così in uno stato di assoluta quiete in cui

    ogni possibilità è indifferente, ogni sofferenza viene privata della sua causa, ogni volontà vanificata

    e ogni dolore estinto: «Non più volontà, non più rappresentazione, non più mondo. Davanti a noi

    non resta invero che il nulla». Mentre l’ascesi per il cristianesimo si conclude con l’estasi, cioè con

    l’unione mistica con Dio, per Schopenhauer l’ascesi si conclude con il nirvana che consiste

    nell’esperienza del nulla. Il nulla di cui parla però Schopenhauer non è il niente, nel senso che non

    consiste nel nulla assoluto ma nel nulla relativo al mondo. In breve, il nirvana è la suprema

    liberazione dal mondo, e in quanto tale non ha nulla di negativo ma è «un oceano di pace e di

    luminosa serenità». Per coloro dunque che si liberano della volontà «questo nostro universo tanto

    reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, è il nulla»: così si conclude Il mondo come volontà e

    rappresentazione (TESTO L’ascesi). Ma se Schopenhauer era così convinto della validità della via

    ascetica, perché non la intraprese ma la descrisse soltanto? Se avesse dato testimonianza della sua

    filosofia, non sarebbe stato molto più credibile? La risposta a questa critica va ricercata nel fatto che

    Schopenhauer si sentiva un filosofo e non un mistico, e il filosofo, a suo modo di vedere, non aveva

    nulla a che fare con il mistico: il filosofo infatti nella concezione occidentale ricerca la verità

    dall’esterno attraverso la riflessione razionale, mentre il mistico la ricerca dall’interno attraverso

    l’esperienza.

    Mistica, nell’accezione più ampia del termine, è ogni guida alla consapevolezza immediata,

    per la quale non basta né l’intuizione né il concetto e quindi assolutamente nessuna

    conoscenza. Il mistico si contrappone al filosofo, perché procede dall’interno, mentre il

    filosofo procede dall’esterno. Il mistico parte cioè dalla sua esperienza interiore positiva e

  • 12

    individuale, nella quale egli si vede come l’essere unico, eterno, eccetera. Ma di tale

    esperienza non c’è niente di comunicabile. Il filosofo, invece, parte da ciò che è comune a

    tutti, dal fenomeno oggettivo, presente in tutti noi, e dai fatti dell’autocoscienza così come si

    trovano in tutti noi. Il suo metodo è quindi la riflessione su tutto questo e la combinazione dei

    dati rivelati: ecco perché riesce a convincere. (Supplementi al Mondo come volontà e

    rappresentazione)

    In conclusione, Schopenhauer - che santo non era, e lo sapeva - individuò nella filosofia orientale la

    strada che conduce alla suprema liberazione dal mondo, ma rimase sempre un filosofo occidentale

    che ricerca la verità distinguendo tra pensiero e vita.

    5. L’entusiasmo per la cultura orientale Schopenhauer vede nell’India la culla della sapienza umana, togliendo alla Grecia il primato

    che a essa avevano attribuito i filosofi occidentali

    Raggiunto il successo, Schopenhauer non perse occasione di rimarcare il suo debito nei confronti

    della cultura indiana, tanto da affermare che per capire appieno le sue opere occorre leggere le

    Upanishad.

    Legga, ora, anche i meravigliosi scritti della sapienza indiana, che le raccomando

    caldamente, e così lei avrà conosciuto tutto quello che il lettore dovrebbe sapere per capire

    appieno le mie opere [...] le raccomando soprattutto, per uno studio più approfondito, le

    Upanishad, che può trovare tradotte in latino da Anquetil- Duperron, nella biblioteca civica.

    (colloquio con C. G. Beck, marzo 1857).

    Schopenhauer aveva scoperto il pensiero indù nel 1813 grazie all’orientalista Friedrich Majer e

    giunse a conclusioni assai simili a quelle che da secoli erano patrimonio dell’induismo e del

    buddhismo. Illuminante è per esempio il giudizio che dà del buddhismo: «Se si studia il buddhismo

    nelle sue fonti, ci si rischiara la mente: qui non ci sono le stupide chiacchiere sul mondo creato dal

    nulla e su un tizio personale che lo avrebbe fatto». Inoltre, Schopenhauer contribuì in modo

    vigoroso a denunciare i processi in atto di occidentalizzazione del mondo, valorizzando nel

    contempo i contenuti notevoli della spiritualità orientale, misconosciuti in Europa. Contro la visione

    eurocentrica della cultura scrive:

    Voi andaste colà come maestri / E ne ritornaste come discepoli Dell’ascoso senso / Là

    caddero per voi i veli. (Sull’etica, in Parerga e paralipomena).

    Con questi versi Schopenhauer deride i messaggeri della cultura europea piombati in Oriente per

    civilizzare e per convertire, e rimasti invece surclassati dalla superiorità della spiritualità orientale.

    Occorre infine riconoscere che Schopenhauer fu tra i primi a mettere radicalmente in discussione la

    tesi del “miracolo greco”, della Grecia antica come culla della civiltà. Basti pensare che, secondo

    Schopenhauer, perfino Pitagora risulterebbe essere un allievo dei saggi indù: Secondo Apuleio,

    Pitagora sarebbe addirittura giunto sino in India, e sarebbe stato ammaestrato dagli stessi brahmani.

    Di conseguenza, io credo che la filosofia e la conoscenza di Pitagora, certo altamente apprezzabili,

    non sono consistite tanto in ciò che egli ha pensato, quanto in ciò che egli ha imparato. (Frammenti

    sulla storia della filosofia, in Parerga e paralipomena). In polemica con le tesi più diffuse negli

    ambienti culturali suoi contemporanei, favorevoli ai greci e soprattutto all’Occidente, Schopenhauer

    ribatte invece che l’India è la “culla del genere umano”, verità non riconosciuta dagli eruditi del

    tempo, per un misto di arroganza e ignoranza, dato che in realtà essi poco o nulla sapevano

    dell’Oriente: Come è supremamente ridicolo [...] il sorriso di tranquilla sufficienza con cui alcuni

    servili filosofastri tedeschi e altresì vari orientalisti superficiali guardano dalle altezze del loro

    giudaismo razionalista il brahmanesimo e il buddhismo. (Sull’etica, in Parerga e paralipomena).

  • 13

    La profondità e il vigore della denuncia di Schopenhauer lasciano comunque aperte delle

    questioni interpretative e di coerenza complessiva

    La parte in cui la filosofia di Schopenhauer si interseca con la tradizione ascetica orientale è quella

    giudicata più debole dalla storiografia. Per esempio, la critica ha messo in luce delle notevoli

    divergenze fra il pensiero indiano e quello di Schopenhauer. Alcune di queste divergenze si

    spiegano con il materiale a sua disposizione: fonti incomplete, traduzioni imprecise, una conoscenza

    dell’India ai primi passi e non sempre a proprio agio nel districarsi fra le diverse tendenze della

    filosofia indiana. Altre divergenze vanno invece attribuite a scelte interpretative dello stesso

    Schopenhauer: ad esempio, Schopenhauer prende in considerazione soltanto l’ateismo del tardo

    induismo, mentre è possibile trovare nell’induismo forme di teismo o panteismo. Allo stesso modo,

    Schopenhauer recepisce del buddhismo solo l’aspetto pessimistico, mentre è lasciato in ombra

    l’aspetto ottimistico del messaggio del Buddha, che mira a superare la sofferenza all’interno della

    vita e non uscendo da essa. Scrive Schopenhauer: «Buddha, Eckhart e io insegniamo nella sostanza

    la stessa cosa». Ritenendo la propria dottrina simile a quella del mistico cristiano medievale Meister

    Eckhart, Schopenhauer offre della salvezza una visione puramente mistica e negativa, dove la vita e

    la personalità sono ripudiate. Ma l’estensione al Buddha di questa concezione è nel complesso

    sostanzialmente indebita, perché il maestro indiano intendeva proporre un messaggio di guarigione,

    di trasformazione, aperto a tutti e non soltanto all’asceta o all’individuo eccezionale; per non parlare

    del disprezzo di Schopenhauer per le donne e per la maggior parte degli uomini, che trova scarso

    appiglio nelle dottrine orientali, quanto piuttosto nella visione tragica propria di molto pensiero

    occidentale.

    Infine, la filosofia di Schopenhauer lascia aperti alcuni interrogativi.

    • Come può la volontà giungere a non volere più se stessa?

    • L’isolamento e l’indifferenza dell’asceta non contrastano con l’ideale etico della compassione?

    • Il pessimismo deve per forza condurre a un atteggiamento di distacco o può anche chiamare

    all’impegno comune per combattere il male?

    In ogni caso, è comunque innegabile l’entusiasmo con cui Schopenhauer si avvicinò alla cultura

    orientale, dando così un contributo straordinario alla sua diffusione in Occidente ben più

    significativo di tanti altri studi condotti con il massimo rigore scientifico.

    COSÌ BUDDHA RAGGIUNSE IL NIRVANA

    La vicenda storica di Buddha si fonda su dati storici non molto precisi e tradizioni spesso in

    contrasto fra loro. Il suo nome era Siddharta Gautama e visse nel VI secolo a.C. Figlio di un

    principe, ebbe una giovinezza agiata: una leggenda vuole che il padre gli impedisse di uscire dalla

    sua ricca dimora perché il giovane non potesse vedere le miserie del mondo. Siddharta, invece, un

    giorno uscì e incontrò un vecchio, un malato e un morto, restandone sconvolto. Più probabilmente

    invece Siddharta cominciò a sentirsi insoddisfatto della religione induista brahmanica, molto

    formalista e giustificatrice del sistema delle caste. Alla ricerca di una spiegazione del dolore nel

    mondo, si dedicò alla meditazione e un giorno, mentre si trovava seduto nella “posizione del loto”

    (a gambe incrociate) sotto un albero di fico, raggiunse l’illuminazione (bodhi), la comprensione

    cioè di quattro nobili verità:

    1. esiste il dolore;

    2. l’origine del dolore è il desiderio del piacere: un desiderio che genera insoddisfazione ed è la

    causa delle varie rinascite (reincarnazione);

    3. per uscire dal ciclo delle rinascite, il desiderio del piacere va estinto nel nirvana;

    4. la via che conduce alla liberazione dal dolore è l’ottuplice sentiero: 1) giusta visione della vita; 2)

    giusto pensiero; 3) giuste parole; 4) giuste azioni; 5) giusta forma di vita; 6) giusto sforzo; 7) giusta

    presenza di spirito; 8) giusta pratica della meditazione.

    Da quel momento Siddharta fu chiamato “Buddha”, cioè “illuminato”. Attorno a lui cominciò a

    formarsi una comunità di seguaci chiamati “bikkhu”, ossia mendicanti. Per quarantacinque anni

  • 14

    Buddha continuò la sua predicazione lungo il corso del Gange finché, secondo i suoi discepoli,

    raggiunse così l’illuminazione suprema, il nirvana finale.