1. il mondo come rappresentazione - theorein aletheia · 2020. 3. 10. · il mondo come volontà e...
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1. Il mondo come rappresentazione Il mondo fenomenico è una rappresentazione della coscienza ed è costituito dalle forme a
priori di spazio, tempo e causalità
Il mondo come volontà e rappresentazione si divide in quattro parti: la prima tratta del mondo come
rappresentazione, la seconda della volontà, la terza dell’arte e la quarta della nolontà, la negazione
della volontà. Il libro inizia con questa affermazione: «Il mondo è una mia rappresentazione ».
Schopenhauer riprende infatti la distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno.
Tuttavia:
• per Kant il fenomeno è l’unica realtà accessibile alla mente umana e il noumeno è un concetto-
limite che può essere solo pensato ma non conosciuto;
• per Schopenhauer il fenomeno è invece parvenza, illusione, sogno, e il noumeno è ciò che si
nasconde dietro al fenomeno.
Per spiegare questa distinzione Schopenhauer ricorre al termine sanscrito Maya (illusione, magia), e
conia l’espressione “velo di Maya”. In breve, la vera realtà esiste, ma è nascosta dietro un velo di
interpretazioni illusorie:
È Maya, il velo ingannatore, che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro vedere un mondo del
quale non può dirsi né che esista, né che non esista; perché Maya rassomiglia a un sogno,
rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegrino da lontano scambia per acqua;
o anche rassomiglia alla corda gettata a terra che egli prende per un serpente. (Il mondo
come volontà e rappresentazione)
Il fenomeno è dunque solo una rappresentazione e in quanto tale è simile a un sogno.
La vita e i sogni sono pagine di uno stesso libro […] e i sogni si distinguono, dunque, dalla
vita reale in quanto non rientrano nella continuità dell’esperienza che ininterrottamente vi
circola. (Il mondo come volontà e rappresentazione)
Ogni rappresentazione si compone di due aspetti: il soggetto rappresentante e l’oggetto
rappresentato. Soggetto e oggetto sono cioè semplicemente le due facce della stessa medaglia,
nessuno dei due cioè esiste senza l’altro, così come il sogno non esiste senza la realtà a cui si ispira.
Da questa distinzione si coglie l’errore tanto dell’idealismo quanto del materialismo:
1. l’idealismo pretende di ridurre l’oggetto al soggetto;
2. mentre il materialismo pretende di ridurre il soggetto all’oggetto.
Per Schopenhauer dunque la domanda che tanto turbava la riflessione di Kant - esiste un mondo
oltre a quello fenomenico? - non è neanche da porsi: tanto il soggetto conoscente quanto l’oggetto
conosciuto fanno infatti parte dello stesso mondo.
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Frontespizio de Il mondo come volontà e rappresentazione
(Die Welt als Wille und Vorstellung), Lipsia, 1819.
Il mondo viene colto come rappresentazione a partire da forme a priori del soggetto, che
Schopenhauer identifica con spazio, tempo e causalità
È la mente umana che fa del mondo una rappresentazione ricoprendolo con il velo di Maya.
Conoscere significa infatti “conoscere delle relazioni”, nel senso che noi non conosciamo mai un
singolo oggetto, ma gli oggetti inseriti in una trama di relazioni: la conoscenza è cioè una sorta di
tessuto che la nostra mente stende sulla realtà (per questo la metafora del velo di Maya è quanto mai
calzante). Bisogna dunque immaginare l’uomo come un ragno al centro della sua tela dentro cui
come mosche cadono tutte le cose. Ne consegue che «l’uomo ha la certezza assoluta di non
conoscere né un Sole, né una Terra, ma soltanto un occhio che vede il Sole, una mano che tocca la
Terra». Per spiegare la trama di relazione tra le cose Schopenhauer ricorre ancora al criticismo
kantiano. Per Schopenhauer infatti Kant ha avuto «l’immenso merito» di scoprire le forme pure a
priori, costituite da spazio, tempo e dalle 12 categorie. A differenza però di Kant, Schopenhauer
riduce le 12 categorie a una sola, la causalità. Per Schopenhauer dunque le forme a priori sono
soltanto tre: spazio, tempo e causalità. Inoltre, mentre per Kant la mente umana è descritta come
qualche cosa di etereo, per Schopenhauer è un organo molto concreto, il cervello. Le facoltà
cognitive di Kant diventano pertanto in Schopenhauer funzioni cerebrali. Il rapporto tra spazio,
tempo e causalità è paragonabile a una partita a scacchi: lo spazio e il tempo costituiscono la
scacchiera su cui si trovano gli oggetti; la causalità è invece ciò che li fa muovere. L’insieme
costituisce il mondo così come ce lo rappresentiamo. Ma quale forza spinge la causalità a
determinare e muovere gli oggetti? Il principio di “ragion sufficiente”, un’espressione introdotta nel
lessico filosofico da Leibniz per indicare ciò che fa sì che le cose esistano e siano quello che sono.
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Per Leibniz si trattava di Dio. Per Schopenhauer invece, che non credeva in Dio, la ragion
sufficiente è insita nelle cose.
SCHOPENHAUER E IL PANTEISMO
Sebbene Schopenhauer possa apparire vicino al panteismo, in quanto il principio del mondo è
immanente e non trascendente, in realtà se ne distanzia profondamente. Secondo i panteisti, come
indica l’etimo stesso, tutto è Dio. Dio dunque abita il mondo. Si tratta di una conclusione che
Schopenhauer non condivide né nel metodo, né nel contenuto. Nel metodo in quanto il panteismo
parte da qualche cosa di sconosciuto, Dio, per spiegare il conosciuto, il mondo, mentre lui parte dal
conosciuto, il fenomeno, per spiegare lo sconosciuto, il noumeno. Per quanto riguarda invece il
contenuto, Schopenhauer contesta ai panteisti il ritenere che il mondo sia divino e dunque positivo.
Si tratta di un ottimismo, a suo modo di vedere, davvero ingiustificato: nel mondo esiste infatti
troppo dolore e troppa malvagità per pensare che la realtà di cui siamo parte abbia un senso, e per
giunta positivo.
Le quattro radici del principio di ragion sufficiente sono il divenire, l’essere, il conoscere e
l’agire
Il principio di ragion sufficiente ha quattro radici, cioè quattro modi attraverso cui la causalità si
rapporta con il mondo fenomenico.
1. Il divenire regola i rapporti esistenti nel mondo dei fenomeni fisici: una ghianda diviene una
quercia, come un seme diventa un fiore, seguendo dei processi causali che si attualizzano in leggi
biologiche ben determinate, per cui il fiore non è che l’effetto necessario del divenire della sua
causa, che è il seme, come la quercia lo è della sua, la ghianda.
2. L’essere regola i rapporti matematici e geometrici su cui si fondano le leggi della fisica. Nella
geometria infatti, come nella matematica, ogni rapporto è fondato su relazioni rigidamente causali:
così come in geometria la somma di due angoli retti deve essere di 180 gradi, in matematica ogni
passaggio di un’espressione è la necessaria conseguenza del precedente. La causalità si manifesta
poi nei rapporti di spazio, per quanto riguarda la geometria, e di tempo per quanto riguarda la
matematica.
3. Il conoscere regola il funzionamento della ragione umana: questo è un punto importante perché
qui Schopenhauer smonta la presunta libertà del pensiero. Non vi è infatti libertà da parte della
nostra mente nel formulare ragionamenti. Come infatti nel mondo naturale una ghianda diventa
quercia, seguendo delle ben definite leggi causali, allo stesso modo i nostri ragionamenti si fondano
su determinate premesse a cui conseguono necessariamente certe conclusioni. Questo procedimento
avviene anche nel campo dell’agire.
4. L’agire regola i rapporti e le motivazioni sottese alle azioni morali degli individui: nel
momento in cui noi compiamo un’azione - e qualunque agire umano è sempre collocato moralmente
- essa è frutto di cause che l’hanno determinata. Se una persona decide, per esempio, di studiare,
questa azione sarà la conseguenza di motivazioni a loro volta causate da avvenimenti o situazioni
emotive precedenti. Non vi è, dunque, nelle motivazioni che ci spingono a compiere un’azione
piuttosto che un’altra, alcuna libera scelta tra il bene o il male, alcuna “legge morale” ma solo delle
concatenazioni causali. Queste quattro radici del principio di ragion sufficiente rendono complessa
la rappresentazione del mondo come si trattasse di una sorta di “incantesimo”. Tuttavia l’uomo in
quanto “animale metafisico” a differenza degli altri animali non può fare a meno di interrogarsi
sulla propria esistenza fino a stupirsene, in misura proporzionale alla sua intelligenza.
Nessun essere, eccetto l’uomo, si stupisce della propria esistenza; per tutti gli animali essa è
una cosa che si intuisce per se stessa, nessuno vi fa caso. […] La meraviglia filosofica è
condizionata da uno svolgimento superiore dell’intelligenza, ma non da questo soltanto. […]
Se la nostra vita fosse senza fine e senza dolore, forse non verrebbe in mente a nessuno di
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chiedersi perché il mondo esista e perché sia fatto così. (Supplementi al Mondo come volontà
e rappresentazione)
Questo interrogarsi dell’uomo può condurre alla conoscenza reale delle cose, cioè a “squarciare il
velo di Maya”? Di ciò tratta la seconda parte del capolavoro di Schopenhauer dedicata alla volontà.
2. Il mondo come volontà Quando l’uomo considera il proprio corpo, vi scopre l’esistenza della noumenica volontà di
vivere, irrazionale e cieca
La lacerazione del velo di Maya è possibile in quanto nell’uomo fenomeno e noumeno coincidono.
L’uomo cioè non è soltanto un soggetto conoscente, «un’alata testa d’angelo», ma in quanto corpo è
anche oggetto della conoscenza: di conseguenza in lui si agita la “cosa in sé”. Noi possiamo dunque
considerare il nostro corpo come qualsiasi altro oggetto, in questo caso è fenomeno, ma dentro di
noi avvertiamo che l’intima essenza delle cose, il noumeno, è volontà: un «cieco e irresistibile
impeto» di vivere che domina non solo noi ma tutta la realtà. In breve, il corpo è “volontà
oggettivata”, nel senso che è volontà resa visibile, così come il mondo.
Il mondo, nella molteplicità delle sue parti, e delle sue formazioni, è il fenomeno,
l’oggettivazione di un’unica volontà di vivere. L’esistenza stessa e i suoi modi, nel tutto e
nelle singole parti, non hanno radice che nella volontà. (Il mondo come volontà e
rappresentazione)
Dal momento che l’azione della volontà è irrazionale (qui sta l’antitesi radicale con l’Assoluto
hegeliano) non persegue alcuno scopo se non quello di riprodurre indefinitamente se stessa. La
volontà è presente in tutti gli esseri viventi, siano essi animali o piante, ma solo l’uomo ne è
consapevole, perché munito di una ragione capace di intuire la volontà, ovvero la “cosa in sé”. Ne
consegue un paradosso: il mondo fenomenico ci appare ordinato secondo le leggi di natura, perché
così lo descrive la mente razionale dell’uomo, mentre in realtà è assoluto caos in quanto è il
prodotto di un’energia irrazionale, la volontà. La conseguenza è dunque drammatica: non esiste la
libertà. Gli uomini credono infatti di prendere decisioni in piena autonomia, mentre in realtà chi
decide per loro è la volontà, un inconscio impulso alla vita e alla perpetuazione della specie.
Riassumendo, il velo di Maya ci descrive un mondo fatto di individui, oggetti, ragionamenti, forme
e colori. Si tratta però solo di apparenza. Sotto al velo di Maya c’è la volontà, una sorta di magma
indistinto dove non esistono individui e oggetti separati dagli altri, dove tutto è caos. Dunque la
volontà (intesa sempre come volontà di vivere) è:
• il noumeno, cioè l’intima essenza delle cose;
• unica, in quanto non è alcunché di individuale, ma un mare increspato da un’infinità di singole
onde;
• anonima, cioè senza volto, oscura, priva di ogni fisionomia;
• irrazionale, nel senso che non persegue nessun progetto;
• cieca, indifferente cioè ai risultati che persegue.
Dunque la volontà non può essere oggetto di rappresentazione ma è ovunque: la troviamo nella lotta
tra la forza di gravità e la rigidità nel mondo inorganico; nel fiore che cresce e nel piede che lo
calpesta; nella gazzella che scappa e nel leone che la insegue; nell’amore come nell’odio; nella
nascita come nella morte. Si tratta di una descrizione della natura non scientifica ma filosofica:
decadente è infatti secondo Schopenhauer il progetto di conoscere il mondo affidandosi alla scienza,
anziché alla filosofia che svela la verità oltre l’illusione dell’apparenza. In sintesi, la volontà è
l’essere del mondo, il male che lo pervade: il pessimismo metafisico di Schopenhauer non potrebbe
essere più radicale
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FILOSOFI a CONFRONTO
Quale rappresentazione?
KANT SCHOPENHAUER
Fenomeno
Il fenomeno è frutto dei sensi e
della costruzione del mondo
dell’esperienza operata dall’Io
penso.
Il fenomeno è solo una rappresentazione,
un’illusione e in quanto tale è simile a un
sogno.
Noumeno
La cosa-in-sé, un concetto-limite
che può essere solo pensato ma
non conosciuto.
L’intima essenza delle cose è volontà: un
«cieco e irresistibile impeto» di vivere che
domina non solo noi ma tutta la realtà.
Forme a
priori Spazio, tempo e 12 categorie. Spazio, tempo e causalità.
Mente
umana
È eterea, non materiale, coincide
con le facoltà cognitive. Coincide con il cervello e le sue funzioni.
Il dolore provocato dalla volontà che desidera incessantemente può essere interrotto solo dalla
noia che subentra allorché si ottiene quanto ricercato
Se la vita è dominata dalla volontà, allora la vita è dolore. La volontà infatti si esprime sempre nel
desiderio di qualche cosa, e questa tensione frustrata è il dolore. Ma poniamo il caso che il mio
desiderio venga appagato: che caratteristiche avrebbe questo successo? I caratteri di una vera e
propria sopraffazione. Il mio successo corrisponde infatti sempre all’insuccesso di qualcun altro in
quanto la mia volontà è sempre in contrasto con quella di qualcun altro. Questo perenne scontro tra
volontà fa sì che tutti siano colpevoli, e la colpa consiste nell’essere nati e di conseguenza nel dover
vivere a scapito degli altri. Prigionieri di un’illusione, gli uomini si oppongono quindi l’un l’altro
senza rendersi conto di essere una sola realtà. Tutta la natura soffre, non soltanto l’uomo: il mondo
animale si nutre di quello vegetale, e gli stessi animali si nutrono l’uno dell’altro; in particolare poi
la «specie umana ritiene la natura creata per proprio uso e consumo e rivela in sé medesima la lotta
e il dissidio della volontà: homo homini lupus». Più di tutti gli esseri viventi soffre però l’uomo
perché è colui che ha la maggiore consapevolezza della sua condizione, e tra gli uomini più di tutti
soffre il genio in quanto «più intelligenza avrai, più soffrirai». In questo contesto la ricerca del
piacere inteso come godimento (se riguarda il fisico) o gioia (se riguarda la mente) diventa assurda.
Non esiste infatti il piacere senza il dolore, in quanto il piacere null’altro è se non il rilassamento dal
dolore. Ma poiché il piacere consiste nel rilassamento, inevitabilmente sfocia nella noia.
Il fine, in sostanza, è illusorio: col possesso svanisce ogni attrattiva; il desiderio rinasce in
forma nuova e con esso il bisogno; altrimenti ecco la tristezza, il vuoto, la noia, nemici ancor
più del bisogno. (Il mondo come volontà e rappresentazione)
Come diceva Pascal, l’uomo è l’unico animale al quale per essere infelice basta restare da solo con
se stesso. Ma come può l’uomo sfuggire alla noia se non desiderando qualche cosa di nuovo? Il
ritorno del desiderio è però fonte di nuovo dolore. E così il ciclo ricomincia. Da qui la celebre
descrizione della vita umana paragonata a un pendolo che oscilla tra il dolore e la noia. Ne
consegue che dei sette giorni della settimana, sei sono di dolore e uno di noia. L’incessante oscillare
tra dolore e noia non potrà mai aver fine poiché l’uomo non può che volere infinitamente, e quindi
essere sempre insoddisfatto. In conclusione, la vita umana è una tragedia dal finale già scritto, e gli
sforzi per cercare di accaparrarsi un po’ di felicità sono «come quelli di chi cerca di gonfiare quanto
più, e quanto più a lungo possibile, una bolla di sapone, pur sapendola destinata a scoppiare».
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RIFERIMENTI CULTURALI DEL PESSIMISMO DI SCHOPENHAUER
Schopenhauer trovava conferme alla sua visione pessimistica nella sua vastissima conoscenza dei
classici antichi e moderni: numerosi sono infatti una serie di riferimenti alla condizione passeggera
o tragica dell’uomo, oppure alla natura ingannevole della nostra conoscenza. Ne ricordiamo alcuni
tra i più celebri.
Pindaro (518-438
a.C.)
Riguardo alla stretta parentela intercorrente fra vita e sogno, il grande poeta
greco scriveva: «Effimeri siamo. Cos’è qualcuno? Cos’è invece nessuno?
Sogno di un’ombra è l’uomo.» (Pitiche, VIII)
Sofocle (496-406
a.C.)
Anche il grande tragediografo greco si interrogava sulla natura passeggera e
umbratile dell’uomo: «Noi esseri umani che siamo? Spettri, impalpabile
ombra.» (Aiace)
Platone (428/27
347 a.C.)
Nella Repubblica gli uomini sono paragonati a prigionieri in una caverna che
scambiano le ombre degli oggetti per la realtà vera. Nello stesso dialogo,
Socrate chiede a Glaucone: «Non è forse vero che il sognare è questo,
quando uno sia nel sonno sia da sveglio creda che il simile sia non simile a
un altro, ma lo stesso cui assomiglia?».
Lucrezio (I sec.
a.C.)
Il poeta epicureo latino poneva in evidenza il dolore e la fatica del vivere:
«In quali tenebre della vita, in quanti pericoli è trascorso questo poco tempo
che ancora ci resta!» (De rerum natura)
Dante Alighieri
(1265-1321)
«Donde ha preso Dante la materia del suo Inferno, se non da questo mondo
reale? E nondimeno n’è venuto un inferno bell’e buono. Quando invece gli
toccò di descrivere il cielo e le sue gioie, si trovò di fronte a una difficoltà
insuperabile: appunto perché il nostro mondo non offre materiale per
un’impresa siffatta.» (A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e
rappresentazione)
William
Shakespeare
(1564-1616)
Secondo Schopenhauer, Shakespeare esprime «più degnamente» fra tutte le
testimonianze letterarie la parentela tra la vita e sogno quando scrive: «Noi
siamo della stessa sostanza di cui son fatti i sogni, e la nostra breve vita è
circondata da un sonno.» (La tempesta)
Pedro Calderón
de la Barca
(1600-1681)
Schopnhauer afferma che Calderón era «profondamente preso da questo
pensiero metafisico»: «Tutta la vita è sogno, e i sogni sono sogni!» «Poiché
il delitto maggiore dell’uomo è di essere nato.» (La vita è sogno)
Il pessimismo di Schopenhauer si applica alla storia, all’antropologia in quanto considera il
mondo null’altro che un inferno
Dalla visione tragica della vita deriva l’avversione di Schopenhauer nei confronti di qualsiasi forma
di storicismo, facendosi beffe soprattutto di quelle interpretazioni del mondo dominanti nella sua
epoca. Alla filosofia hegeliana, che vedeva la storia come il razionale dispiegarsi dell’Assoluto, e al
positivismo, che considerava il progresso come l’inevitabile conseguenza delle acquisizioni tecnico-
scientifiche della propria epoca, Schopenhauer contrappone la propria visione irrazionale della
storia. Cambiano cioè i nomi e gli avvenimenti si manifestano nelle differenti collocazioni spazio-
temporali, ma la realtà è sempre la medesima: la volontà assume cioè sempre diverse connotazioni,
rimanendo identica a se stessa. Di conseguenza la storia dell’uomo è una «tragedia che a furia di
ripetersi diviene una farsa», un assurdo destino simile a una ruota che gira all’infinito senza andare
da nessuna parte, come quella del criceto che nella gabbia si affanna a correre sempre più
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velocemente, senza spostarsi di un millimetro. Al pessimismo storico si associa poi anche quello
antropologico e sociale. Schopenhauer considera infatti il mondo null’altro che un inferno, in cui
«ognuno è diavolo per l’altro», tanto che «l’uomo è l’unico animale che faccia soffrire gli altri al
solo scopo di farli soffrire», mentre «gli altri animali lo fanno unicamente per soddisfare la loro
fame o nel furore della lotta». Noi conosciamo solitamente l’uomo nel momento in cui è in quello
stato di equilibrio chiamato civiltà, ma basta poco a rompere questo equilibrio e allora l’uomo si
rivela per quello che è, «un animale da preda» a cui, come dice Omero, «l’odio è più dolce del
miele». Di conseguenza, nessuno è da invidiare, mentre infiniti uomini sono da compiangere:
Come l’uomo si comporti con l’uomo è mostrato, ad esempio, dalla schiavitù dei neri. […]
Ma non v’è bisogno di andare così lontani: entrare nelle filande o in altre fabbriche all’età di
cinque anni, e da allora in poi sedervi per dieci, poi dodici, infine quattordici ore al giorno,
ed eseguire lo stesso lavoro meccanico, significa pagare caro il piacere di respirare. Eppure
questo è il destino di milioni, e molti altri milioni ne hanno uno analogo. (Supplementi al
Mondo come volontà e rappresentazione)
Anche le azioni che apparentemente ci sembrano motivate dai più alti intenti morali, vengono in
realtà compiute dai singoli individui sotto l’impulso della volontà. Per esempio, un individuo fa
beneficenza poiché la propria volontà egoista lo spinge a sentirsi buono, non certo perché gli
importi realmente delle altre persone.
L’amore e l’erotismo sono solo illusioni incapaci di dare felicità e che accrescono il dolore: il
piacere sessuale non ha infatti mai reso felice nessuno in modo stabile, ma solo per un
fuggevole attimo
Per sfuggire alla sua tragica condizione, l’uomo si rifugia nelle illusioni, la più tragica delle quali è
l’amore che secondo Schopenhauer è sempre indirizzato alla ricerca del piacere sessuale. L’amore
infatti è l’estremo inganno con cui la volontà perpetua se stessa e con essa il dolore della vita.
«Ogni innamoramento - scrive Schopenhauer - per quanto etereo possa apparire, affonda sempre le
sue radici nell’istinto sessuale». E ancora: «Se la passione di Petrarca fosse stata appagata, il suo
canto sarebbe ammutolito». D’altra parte il piacere sessuale non ha mai reso felice nessuno in modo
stabile, ma solo per un fuggevole attimo. E così anche gli amanti più focosi non possono che
sperimentare quanto sia vera la massima antica: “Dopo il coito ogni animale è triste”. Da qui la
lapidaria conclusione a cui giunge Schopenhauer: il concepimento altro non è che «due infelicità
che ne mettono al mondo una terza». Al tema dell’erotismo Schopenhauer dedica un saggio, la
Metafisica dell’amore sessuale (un collage di brani presenti in varie sue opere), in cui esprime la
sua visione della sessualità, anticipando chiaramente il pensiero di Freud. La Metafisica
dell’amore sessuale ha dunque un merito anche cronologico: per la prima volta un filosofo affronta
il tema della sessualità senza pudori o censure, assegnandole il posto che le spetta nella complessità
dell’essere umano
3. La consolazione estetica Tutti gli uomini sono in grado di vedere le idee ossia di intuire l’essenza delle cose, ma questa
facoltà è al sommo grado presente solo nell’artista
Tra l’illusoria conoscenza fenomenica e quella autentica della realtà noumenica c’è una via di
mezzo: la contemplazione di quelle che Schopenhauer, riprendendo il termine da Platone, chiama
idee. Le idee sono forme eterne e immutabili, al di fuori del tempo e dello spazio, considerate da
Schopenhauer modelli delle realtà naturali. L’idea non è quindi «qualche cosa che ci viene in
mente», ma è per l’uomo l’intuizione dell’essenza delle cose. Le idee trasformano cioè questo
amore nell’amore, questo dolore nel dolore, questa felicità nella felicità ecc. Ma chi è capace di
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raggiungere questa conoscenza? Solo l’artista, non certamente lo scienziato, il cui sapere è legato al
mondo fenomenico. L’artista infatti è quel genio capace di spezzare le catene della volontà per
diventare «puro occhio del mondo»:
• “puro”, perché guarda gli oggetti del mondo in modo disinteressato, e non per quello che possono
essergli utili o nocivi;
• “occhio”, perché vede negli oggetti le idee, cioè le essenze delle cose.
In che modo l’artista produce l’opera d’arte? Secondo Schopenhauer in modo assolutamente
intuitivo, spontaneo, totalmente privo di speculazioni intellettuali. In breve, “produce bruscamente”,
nel senso che l’artista nell’atto creativo vive una situazione simile al “furore romantico”:
L’idea è e resta intuitiva, l’artista non ha nessuna conoscenza in abstracto né dell’intenzione né del
fine della sua opera; non è un concetto, ma un’idea che brilla dinanzi a lui; egli dunque non può
rendersi conto di quello che fa; lavora (per usare un’espressione volgare) di sentimento,
inconsciamente, anzi, istintivamente. (Il mondo come volontà e rappresentazione)
Solo l’artista possiede questa capacità? Secondo Schopenhauer tutti gli uomini (tranne i casi di
gente refrattaria a ogni sentimento estetico) possiedono la capacità di vedere negli oggetti le idee.
La differenza consiste nel fatto che l’artista ha «il vantaggio di possedere tale facoltà in grado più
elevato». Per questo l’artista tende a trascurare la sua vita a tal punto da apparire agli occhi
dell’uomo volgare, un inetto incapace di vivere. Ecco perché, osserva Schopenhauer, «un poeta può
conoscere a fondo l’uomo, ma conoscere male gli uomini», e quindi cadere «facilmente nella
trappola degli inganni» tanto da divenire «un trastullo in mano agli astuti».
In base al tipo di idee da esse contemplate, Schopenhauer individua una gerarchia delle arti
Le arti seguono una classificazione gerarchica a seconda delle idee che contemplano,
dall’architettura fino alla tragedia, passando per la scultura, la pittura e la poesia. L’architettura
occupa il grado più basso di questa gerarchia. Attraverso di essa vengono intuite quelle idee che
rappresentano «le prime, più semplici e più oscure manifestazioni della volontà», quelle cioè
inerenti alla materia inorganica come «la pietra o il legno». Secondo Schopenhauer, visto che
solitamente le opere architettoniche vengono eseguite per scopi estranei all’arte, il «gran merito
dell’architetto consiste nel perseguire e raggiungere il fine estetico, pur tenendo conto delle altre
esigenze cui è subordinato». Attraverso invece la scultura e la pittura il mondo naturale, compreso
quello animale e umano, si offrono all’ammirazione estetica. La scultura ha come oggetto principale
la bellezza dell’uomo:
La bellezza è la rappresentazione esatta della volontà in generale per mezzo di un fenomeno
puramente spaziale. Allorché uniamo una perfetta bellezza con una perfetta grazia avremo la
manifestazione più notevole della volontà nel grado supremo della sua oggettivazione. (Il
mondo come volontà e rappresentazione)
Attraverso la pittura viene invece colto maggiormente il carattere spirituale dell’individuo «che si
esprime negli affetti, nelle passioni e nelle azioni»: tutte queste caratteristiche vengo espresse
meglio attraverso le posture del viso e dei gesti, e pertanto sono più consone al ritratto dei dipinti
che alle sculture. Nella poesia l’idea viene infine trasfigurata in un’immagine intuitiva. Si tratta però
di un’impresa così ardua che può riuscire solo se il lettore «concorre con la sua immaginazione». Al
poeta spetta pertanto il compito di favorire questa immaginazione, tenendo presente che il materiale
di cui si occupa è al tempo stesso il più vario e il più complesso tra quelli toccati dalle arti: la vita,
le emozioni, i pensieri dell’umanità.
La poesia ha dunque un compito fondamentale: farci conoscere l’uomo, il grado più alto di
oggettivazione della volontà. In ciò essa è superiore alla storia che ci fa conoscere gli uomini
piuttosto che l’uomo. (Il mondo come volontà e rappresentazione)
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La tragedia è l’espressione più alta della poesia, e quindi dell’arte, poiché in essa «viene in luce la
spaventosa lotta della volontà con se stessa» e viene dipinto «il quadro delle sofferenze umane, sia
di quelle provenienti dal caso e dall’errore sia di quelle che hanno sorgente nella stessa natura
umana». La tragedia incarna dunque perfettamente quel pessimismo schopenhaueriano secondo cui
«una e identica è la volontà che viene e si rivela in tutti gli esseri umani; ma le sue manifestazioni si
combattono e si dilaniano fra loro». Inoltre Schopenhauer esprime nelle sue analisi sulla tragedia
una concezione alquanto interessante che lo rapporta ai drammi della grande narrativa
contemporanea: nota infatti che, le cause della sventura umana, sebbene siano infinite, possono
essere ricondotte a tre tipologie, possono cioè essere prodotte:
1. da «caratteri di perversità straordinaria e mostruosa»;
2. da una «fatalità cieca»;
3. dal rapporto tra i personaggi, cioè «dalla situazione dell’uno con l’altro».
Nelle tragedie, ognuno di noi viene posto di fronte alla tremenda realtà in cui traspare con evidenza
come le «più grandi calamità siano prodotte da complicazioni in cui può venire essenzialmente
coinvolto il nostro destino, e da azioni che anche noi saremmo forse capaci di commettere». La
sventura che grava ineluttabilmente sulla vita umana assume così un aspetto ancora più spaventoso,
poiché riguarda ogni suo particolare momento, non solo quelli più nefasti, ma anche quelli
all’apparenza insignificanti e quotidiani.
FILOSOFI a CONFRONTO
La concezione dell’arte e dell’artista Schopenhauer è al tempo stesso colui che conclude la stagione delle grandi teorie estetiche del
primo Ottocento (Kant, Hegel e Schelling) e colui che inaugura quelle che saranno le tendenze
irrazionaliste, affermatesi a partire dalla sua stessa filosofia. Può dunque essere utile mettere a
confronto la concezione dell’arte e dell’artista di Schopenhauer con quelle di Kant, Hegel e
Schelling così da individuarne quell’originalità che lo contraddistingue.
KANT HEGEL SCHELLING SCHOPENHAUER
Arte
Produce oggetti
che ci
procurano un
piacere che
scaturisce
dall’armonia
che avvertiamo
tra essi e la
nostra
interiorità.
L’arte esprime la
verità assoluta
attraverso
l’intuizione
sensibile, nella
forma di una
creazione bella.
L’arte è costruzione
dell’Assoluto nella
forma della sua
manifestazione
sensibile: l’arte
deve mettere in
forma la natura e lo
spirito. È l’ organo
della filosofia.
È una consolazione
provvisoria dalla vita,
un “breve
incantesimo”.
Artista
Un genio che sa
essere originale
ma non
stravagante:
non crea
secondo una
regola, ma crea
la regola.
L’artista produce
un’opera che rivela
l’idea nella sua
purezza ed è fatta
per essere
contemplata per se
stessa; pertanto è
conforme all’idea
del bello, e mostra
la verità profonda
dell’esistenza.
L’artista riproduce
la medesima
produttività
inconscia che
caratterizza
l’assoluto, grazie ai
due momenti
conscio e
inconscio.
Un genio capace di
spezzare le catene della
volontà per diventare
«puro occhio del
mondo».
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MAPPA CONCETTUALE
La scala gerarchica dell’arte
La musica occupa un posto particolare perché essa non riproduce le idee bensì intuisce la
volontà stessa
Dopo aver concluso l’esame della tragedia, Schopenhauer constata come vi sia un’arte che è rimasta
«fuori dal nostro studio, e che doveva rimaner fuori, poiché non poteva trovare un posto
conveniente nella connessione sistematica dell’esposizione: la musica». Ma perché la musica viene
«totalmente isolata dalle altre sorelle» tanto da essere esclusa dalla scala gerarchica delle arti?
Secondo Schopenhauer la musica «non è come le altre arti una riproduzione delle idee, ma una
riproduzione della stessa volontà, una sua oggettivazione allo stesso titolo che le idee». Con la
musica abbiamo infatti l’intuizione della volontà stessa in quanto ignora completamente il mondo
fenomenico, tanto che potrebbe esistere anche se l’universo non ci fosse più. In breve, la musica è
capace di «cogliere il cuore delle cose». La peculiarità della musica è data anche dal fatto che al suo
interno riproduce una scala gerarchica simile a quella a cui danno vita tutte le altre arti; e se in cima
alla scala delle arti avevamo la tragedia, ora troviamo la melodia in quanto in essa la musica diventa
discorso non della ragione ma del sentimento. Di conseguenza la melodia è capace di «rivelare per
suo mezzo i più profondi segreti della volontà e del sentimento umano». Con la musica la
possibilità dell’intuizione artistica dell’autentica realtà giunge così al culmine: nella musica infatti,
più che nelle altre arti «il genio agisce evidentemente fuori da ogni riflessione, da ogni intenzione
cosciente, qui abbiamo la vera ispirazione».
Il sollievo provocato dall’arte nei confronti della volontà di vivere è soltanto momentaneo e
provvisorio Concludendo la sua riflessione, Schopenhauer definisce l’arte come «la cosa più consolante e
innocente della vita», una sorta cioè di gioco, in quanto riflette il gioco tragico della vita. Da qui il
suo limite: l’arte ci consente cioè di liberarci dall’oppressione della vita ma «soltanto per un breve
momento», non di esserne redenti per sempre. In altri termini, l’arte ci consola dalla vita, «ma è
soltanto una consolazione provvisoria». L’artista coglie infatti come nessun altro il dolore del
mondo e l’assurdità della vita, ma non riesce a elevarsi fino al punto di staccarsi per sempre dalla
volontà che lo lega a essa. È in grado solamente di contemplare il mondo nella sua purezza e nella
sua bellezza ideale, non di abbandonarlo; per questo l’artista non è che un “mistico mancato”. In
sintesi, l’arte è un “breve incantesimo” terminato il quale l’uomo ritorna vittima della volontà. La
strada di liberazione dalla volontà attraverso l’arte si rivela così inadeguata: non rimane quindi che
tentare un’altra strada, quella della morale.
4. L’esperienza del nulla: il nirvana La morale per Schopenhauer scaturisce da due sentimenti: il rimorso per le ingiustizie
compiute e la compassione per il dolore altrui
Mentre l’arte è un modo per consolarci della realtà, la morale impone un forte impegno nei
confronti del prossimo. Da un lato Schopenhauer condivide con Kant la convinzione che la moralità
si fondi sul disinteresse, dall’altro ritiene che la moralità non scaturisca come ritiene Kant
dall’imperativo categorico ma da due sentimenti: il rimorso per le ingiustizie compiute e la
compassione per il dolore altrui. Il rimorso spingendoci a ristabilire la giustizia nei confronti degli
altri è il primo passo verso la soppressione del male: consiste infatti nel riconoscere gli altri come
uguali a me. Si tratta di un riconoscimento importante, ma limitato, in quanto la giustizia ha un
carattere negativo, nel senso che consiste nel non fare del male agli altri. Inoltre pur considerando
gli altri uguali a me, la giustizia li considera ancora distinti da me, cioè diversi da me. Solo la
compassione (o la pietà) ci rivela invece il vero significato degli altri: letteralmente infatti com-
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passione vuol dire “patire con, patire insieme”. Solo chi compatisce ama veramente: il vero amore
(che possiamo anche indicare con termini quale agape, carità, bontà) non ha infatti nulla a che fare
con l’attrazione sessuale (eros) che è solo un falso amore in quanto inganno della volontà al fine di
perpetuare se stessa. Amare veramente significa invece percepire il dolore del mondo intero; quindi
non consiste tanto nel fare del bene al prossimo, ma nel soffrire insieme al prossimo sentendo nostre
le sue sofferenze. Di conseguenza, nel momento in cui proviamo compassione avvertiamo che tra
noi e gli altri sofferenti non c’è alcuna differenza: un concetto ben sintetizzato dalla sacra formula
che i Veda suggeriscono di ripetere tutte le volte che incontriamo una creatura: “Questo vivente sei
tu!” (Tat twam asi!)
Chi sappia ripetere a se stesso questa formula con piena coscienza e con salda intima
convinzione di fronte a ogni creatura con cui venga in contatto, è sicuro di possedere la virtù
e la beatitudine, di essere sulla via diritta della redenzione. (Il mondo come volontà e
rappresentazione)
Non è dunque la conoscenza che fonda la morale, ma è la morale che fonda la conoscenza: è per
mezzo della compassione che giungiamo a comprendere che siamo tutti fatti della stessa sostanza
metafisica, la volontà.
L’ascesi è la strada che permette all’uomo di annullare in sé la volontà e di accedere a uno
stato di suprema liberazione, il nirvana
Compatire significa tuttavia ancora patire. Inoltre la compassione rivela l’attaccamento alla vita, nel
senso che si soffre per il dolore degli altri e si desidera per loro una vita migliore. Anche la strada
della moralità dunque non ci libera completamente dal dolore che il vivere comporta. Non rimane
quindi che tentare un’ultima strada, quella dell’ascesi che scaturisce dall’orrore dell’uomo per la
volontà. Lo scopo dell’ascesi consiste pertanto nell’annullare in sé ogni volontà, estirpando cioè
ogni desiderio di vivere. Per questo il primo gradino dell’ascesi è costituito dalla perfetta castità,
cioè dalla liberazione dall’impulso alla perpetuazione della specie. Seguono poi la povertà
volontaria, il digiuno, il sacrificio fino a che si giunge alla soppressione della volontà: in una parola,
alla noluntas o nolontà. Annullando la volontà si entra così in uno stato di assoluta quiete in cui
ogni possibilità è indifferente, ogni sofferenza viene privata della sua causa, ogni volontà vanificata
e ogni dolore estinto: «Non più volontà, non più rappresentazione, non più mondo. Davanti a noi
non resta invero che il nulla». Mentre l’ascesi per il cristianesimo si conclude con l’estasi, cioè con
l’unione mistica con Dio, per Schopenhauer l’ascesi si conclude con il nirvana che consiste
nell’esperienza del nulla. Il nulla di cui parla però Schopenhauer non è il niente, nel senso che non
consiste nel nulla assoluto ma nel nulla relativo al mondo. In breve, il nirvana è la suprema
liberazione dal mondo, e in quanto tale non ha nulla di negativo ma è «un oceano di pace e di
luminosa serenità». Per coloro dunque che si liberano della volontà «questo nostro universo tanto
reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, è il nulla»: così si conclude Il mondo come volontà e
rappresentazione (TESTO L’ascesi). Ma se Schopenhauer era così convinto della validità della via
ascetica, perché non la intraprese ma la descrisse soltanto? Se avesse dato testimonianza della sua
filosofia, non sarebbe stato molto più credibile? La risposta a questa critica va ricercata nel fatto che
Schopenhauer si sentiva un filosofo e non un mistico, e il filosofo, a suo modo di vedere, non aveva
nulla a che fare con il mistico: il filosofo infatti nella concezione occidentale ricerca la verità
dall’esterno attraverso la riflessione razionale, mentre il mistico la ricerca dall’interno attraverso
l’esperienza.
Mistica, nell’accezione più ampia del termine, è ogni guida alla consapevolezza immediata,
per la quale non basta né l’intuizione né il concetto e quindi assolutamente nessuna
conoscenza. Il mistico si contrappone al filosofo, perché procede dall’interno, mentre il
filosofo procede dall’esterno. Il mistico parte cioè dalla sua esperienza interiore positiva e
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individuale, nella quale egli si vede come l’essere unico, eterno, eccetera. Ma di tale
esperienza non c’è niente di comunicabile. Il filosofo, invece, parte da ciò che è comune a
tutti, dal fenomeno oggettivo, presente in tutti noi, e dai fatti dell’autocoscienza così come si
trovano in tutti noi. Il suo metodo è quindi la riflessione su tutto questo e la combinazione dei
dati rivelati: ecco perché riesce a convincere. (Supplementi al Mondo come volontà e
rappresentazione)
In conclusione, Schopenhauer - che santo non era, e lo sapeva - individuò nella filosofia orientale la
strada che conduce alla suprema liberazione dal mondo, ma rimase sempre un filosofo occidentale
che ricerca la verità distinguendo tra pensiero e vita.
5. L’entusiasmo per la cultura orientale Schopenhauer vede nell’India la culla della sapienza umana, togliendo alla Grecia il primato
che a essa avevano attribuito i filosofi occidentali
Raggiunto il successo, Schopenhauer non perse occasione di rimarcare il suo debito nei confronti
della cultura indiana, tanto da affermare che per capire appieno le sue opere occorre leggere le
Upanishad.
Legga, ora, anche i meravigliosi scritti della sapienza indiana, che le raccomando
caldamente, e così lei avrà conosciuto tutto quello che il lettore dovrebbe sapere per capire
appieno le mie opere [...] le raccomando soprattutto, per uno studio più approfondito, le
Upanishad, che può trovare tradotte in latino da Anquetil- Duperron, nella biblioteca civica.
(colloquio con C. G. Beck, marzo 1857).
Schopenhauer aveva scoperto il pensiero indù nel 1813 grazie all’orientalista Friedrich Majer e
giunse a conclusioni assai simili a quelle che da secoli erano patrimonio dell’induismo e del
buddhismo. Illuminante è per esempio il giudizio che dà del buddhismo: «Se si studia il buddhismo
nelle sue fonti, ci si rischiara la mente: qui non ci sono le stupide chiacchiere sul mondo creato dal
nulla e su un tizio personale che lo avrebbe fatto». Inoltre, Schopenhauer contribuì in modo
vigoroso a denunciare i processi in atto di occidentalizzazione del mondo, valorizzando nel
contempo i contenuti notevoli della spiritualità orientale, misconosciuti in Europa. Contro la visione
eurocentrica della cultura scrive:
Voi andaste colà come maestri / E ne ritornaste come discepoli Dell’ascoso senso / Là
caddero per voi i veli. (Sull’etica, in Parerga e paralipomena).
Con questi versi Schopenhauer deride i messaggeri della cultura europea piombati in Oriente per
civilizzare e per convertire, e rimasti invece surclassati dalla superiorità della spiritualità orientale.
Occorre infine riconoscere che Schopenhauer fu tra i primi a mettere radicalmente in discussione la
tesi del “miracolo greco”, della Grecia antica come culla della civiltà. Basti pensare che, secondo
Schopenhauer, perfino Pitagora risulterebbe essere un allievo dei saggi indù: Secondo Apuleio,
Pitagora sarebbe addirittura giunto sino in India, e sarebbe stato ammaestrato dagli stessi brahmani.
Di conseguenza, io credo che la filosofia e la conoscenza di Pitagora, certo altamente apprezzabili,
non sono consistite tanto in ciò che egli ha pensato, quanto in ciò che egli ha imparato. (Frammenti
sulla storia della filosofia, in Parerga e paralipomena). In polemica con le tesi più diffuse negli
ambienti culturali suoi contemporanei, favorevoli ai greci e soprattutto all’Occidente, Schopenhauer
ribatte invece che l’India è la “culla del genere umano”, verità non riconosciuta dagli eruditi del
tempo, per un misto di arroganza e ignoranza, dato che in realtà essi poco o nulla sapevano
dell’Oriente: Come è supremamente ridicolo [...] il sorriso di tranquilla sufficienza con cui alcuni
servili filosofastri tedeschi e altresì vari orientalisti superficiali guardano dalle altezze del loro
giudaismo razionalista il brahmanesimo e il buddhismo. (Sull’etica, in Parerga e paralipomena).
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La profondità e il vigore della denuncia di Schopenhauer lasciano comunque aperte delle
questioni interpretative e di coerenza complessiva
La parte in cui la filosofia di Schopenhauer si interseca con la tradizione ascetica orientale è quella
giudicata più debole dalla storiografia. Per esempio, la critica ha messo in luce delle notevoli
divergenze fra il pensiero indiano e quello di Schopenhauer. Alcune di queste divergenze si
spiegano con il materiale a sua disposizione: fonti incomplete, traduzioni imprecise, una conoscenza
dell’India ai primi passi e non sempre a proprio agio nel districarsi fra le diverse tendenze della
filosofia indiana. Altre divergenze vanno invece attribuite a scelte interpretative dello stesso
Schopenhauer: ad esempio, Schopenhauer prende in considerazione soltanto l’ateismo del tardo
induismo, mentre è possibile trovare nell’induismo forme di teismo o panteismo. Allo stesso modo,
Schopenhauer recepisce del buddhismo solo l’aspetto pessimistico, mentre è lasciato in ombra
l’aspetto ottimistico del messaggio del Buddha, che mira a superare la sofferenza all’interno della
vita e non uscendo da essa. Scrive Schopenhauer: «Buddha, Eckhart e io insegniamo nella sostanza
la stessa cosa». Ritenendo la propria dottrina simile a quella del mistico cristiano medievale Meister
Eckhart, Schopenhauer offre della salvezza una visione puramente mistica e negativa, dove la vita e
la personalità sono ripudiate. Ma l’estensione al Buddha di questa concezione è nel complesso
sostanzialmente indebita, perché il maestro indiano intendeva proporre un messaggio di guarigione,
di trasformazione, aperto a tutti e non soltanto all’asceta o all’individuo eccezionale; per non parlare
del disprezzo di Schopenhauer per le donne e per la maggior parte degli uomini, che trova scarso
appiglio nelle dottrine orientali, quanto piuttosto nella visione tragica propria di molto pensiero
occidentale.
Infine, la filosofia di Schopenhauer lascia aperti alcuni interrogativi.
• Come può la volontà giungere a non volere più se stessa?
• L’isolamento e l’indifferenza dell’asceta non contrastano con l’ideale etico della compassione?
• Il pessimismo deve per forza condurre a un atteggiamento di distacco o può anche chiamare
all’impegno comune per combattere il male?
In ogni caso, è comunque innegabile l’entusiasmo con cui Schopenhauer si avvicinò alla cultura
orientale, dando così un contributo straordinario alla sua diffusione in Occidente ben più
significativo di tanti altri studi condotti con il massimo rigore scientifico.
COSÌ BUDDHA RAGGIUNSE IL NIRVANA
La vicenda storica di Buddha si fonda su dati storici non molto precisi e tradizioni spesso in
contrasto fra loro. Il suo nome era Siddharta Gautama e visse nel VI secolo a.C. Figlio di un
principe, ebbe una giovinezza agiata: una leggenda vuole che il padre gli impedisse di uscire dalla
sua ricca dimora perché il giovane non potesse vedere le miserie del mondo. Siddharta, invece, un
giorno uscì e incontrò un vecchio, un malato e un morto, restandone sconvolto. Più probabilmente
invece Siddharta cominciò a sentirsi insoddisfatto della religione induista brahmanica, molto
formalista e giustificatrice del sistema delle caste. Alla ricerca di una spiegazione del dolore nel
mondo, si dedicò alla meditazione e un giorno, mentre si trovava seduto nella “posizione del loto”
(a gambe incrociate) sotto un albero di fico, raggiunse l’illuminazione (bodhi), la comprensione
cioè di quattro nobili verità:
1. esiste il dolore;
2. l’origine del dolore è il desiderio del piacere: un desiderio che genera insoddisfazione ed è la
causa delle varie rinascite (reincarnazione);
3. per uscire dal ciclo delle rinascite, il desiderio del piacere va estinto nel nirvana;
4. la via che conduce alla liberazione dal dolore è l’ottuplice sentiero: 1) giusta visione della vita; 2)
giusto pensiero; 3) giuste parole; 4) giuste azioni; 5) giusta forma di vita; 6) giusto sforzo; 7) giusta
presenza di spirito; 8) giusta pratica della meditazione.
Da quel momento Siddharta fu chiamato “Buddha”, cioè “illuminato”. Attorno a lui cominciò a
formarsi una comunità di seguaci chiamati “bikkhu”, ossia mendicanti. Per quarantacinque anni
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Buddha continuò la sua predicazione lungo il corso del Gange finché, secondo i suoi discepoli,
raggiunse così l’illuminazione suprema, il nirvana finale.