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LA LAICITÀ IN FRANCIA E IN TURCHIA IL VELO ISLAMICO E L’ISTRUZIONE A cura di: Assirelli Viola Borghi Pietro Cecchi Giulia Conti Lara Schimkovits Gina 1

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LA LAICITÀ IN FRANCIA E IN TURCHIAIL VELO ISLAMICO E L’ISTRUZIONE

A cura di:

Assirelli Viola

Borghi Pietro

Cecchi Giulia

Conti Lara

Schimkovits Gina

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1. PREMESSE SUL CONCETTO DI LAICITÀ

Il dibattito sulla laicità come concetto giuridico e quale sistema di rapporti tra politica, diritto e religione all’interno di un ordinamento si è sviluppato, negli ultimi anni,in maniera sempre più articolata. L’indagine storica sulla genesi e lo sviluppo dell’idea di laicità è stata oggetto di molteplici analisi che spesso riflettono una lettura ideologica nell’attuazione del principio. È del tutto evidente che la laicità è un concetto metagiuridico ed essenzialmente politico che si precisa in rapporto alla storia concreta e alla realtà sociale di ciascun paese. È pur vero, tuttavia, che il concetto di laicità si sostanzia, in senso più ampio, nella non confessionalità dell’ordinamento che, in tal modo,garantisce l’autonomia delle coscienze nella scelta tra le diverse concezioni di vita spirituale: da un lato non impone, né costringe, ad una determinata e stabilita concezione del bene religioso individuale, dall’altro tutela, attraverso la pariteticità di trattamento, le diverse confessioni e i valori religiosi di cui esse sono portatrici. Per tal verso, la laicità diventa sinonimo di neutralità in campo religioso e affermazione della separazione non soltanto tra politica e religione, ma soprattutto tra valori che sono finalizzati alla realizzazione del bene pubblico, e pertanto condivisi o comunque al servizio di tutti, e valori che, in quanto espressione di fede religiosa, attengono al privato delle coscienze e non possono essere imposti ad altri che credono differentemente. Tale concetto di “separazione” appare distinguere la nozione più ampia e generale della laicità da quella che, in senso più circostanziato, può essere intesa come espressione di una determinata tradizione, tipica dello Stato liberale e frutto degli influssi dell’illuminismo, che si connota per un netto “separatismo” tra Stato e confessioni religiose. In tale prospettiva, la laicità si configura in prima istanza come lotta contro il clericalismo e le pretese confessionali, per assumere la connotazione della religione come fatto privato e l’emancipazione dei valori cui si ispira l’ordinamento rispetto a quelli religiosi, che così non avrebbero legittimità di espressione nella sfera pubblica e sociale.

In tal senso, è proprio la diversa concezione tra separazione e separatismo e la conseguente separazione tra sfera pubblica e sfera privata, in cui si inserisce il rapporto tra politica e religione, ciò che distingue l’esperienza della laicità in ciascun Paese.

2. ORIGINE E SVILUPPI DELLA LAICITÀ IN FRANCIA

Nel corso della storia europea l’ascesa delle monarchie nazionali, il contestuale declino dell’autorità imperiale e la riforma protestante posero le basi per una nuova legittimazione del potere secolare, che andava svincolandosi dall’idea di un’unica fonte del potere di origine divina. In tale contesto si aggiungono le guerre di religione del XVI e XVII sec. ,che, opponendo cattolici e protestanti in una lunga serie di otto conflitti, mostrano per la prima volta agli occhi degli europei la fede cristiana come fattore di divisione e conflitto, laddove per secoli questa era stata il principale fattore di unità e di coesione delle popolazioni europee. In questa dolorosa fase di crisi dello spirito europeo si situa l’origine e l’idea dello stato laico, cioè di un’unica fonte suprema del potere che, nell’esercizio delle sue funzioni di governo della comunità, prescinde dall’appartenenza confessionale dei sudditi,rinunciando di porsi al servizio di una salvezza ultraterrena e riguardando l’individuo solo nella sua dimensione secolare e nelle sue esigenze temporali. Questo travaglio culturale e

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istituzionale ebbe il suo culmine nella Rivoluzione Francese,che, nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789,espose le basi concettuali di una nuova società politica fondata sui principi della rappresentanza elettiva e del primato della legge, come espressione della volontà generale (art. 6), conferendo a questi istituti tali caratteri di assolutezza che solo l’annullamento dell’individuo poteva giustificare ed ammettere.

In tal senso è emblematica la formulazione dell’art. 3 di tale Dichiarazione: “Le principe de toute souveraineté réside essentiellement dans la nation. Nul corps, nul individu ne peut exercer d’autorité qui n’en émane expressément”, ove, accanto al superamento della monarchia di diritto divino e dei relativi privilegi, viene affermato il fondamento di un potere assoluto, sia pure a base elettiva, di fronte al quale sia l’individuo che la società civile perdono di ogni consistenza e autonomo fondamento.

In questo contesto anche la religione e la fede cristiana, sulla base dell’esperienza confessionista dell’Ancièn Règime, furono talora percepite come fattori di oppressione dell’individuo e di ostacolo alla piena affermazione dello Stato sovrano, inteso come potere assoluto sull’intera società. In particolare la Chiesa e la religione cattolica, che opposero sempre la maggiore resistenza ai tentativi di assimilazione politica e culturale, furono per questi motivi oggetto da parte degli Stati, prima liberali poi totalitari, di legislazioni ostili, e talora persecutorie, volte alla loro sostanziale emarginazione nella società.

L’esperienza nazionale più emblematica in tal senso è quella della Francia, ove il termine “laïcité” emerse nella seconda metà dell’Ottocento (Terza Repubblica, 1871), sullo sfondo di una drammatica situazione sociale interna, per indicare un preciso progetto politico di rimozione della religione cristiana dalla sfera pubblica, che si tradusse concretamente nelle leggi scolastiche del 1882 e del 1886, e nella legge di separazione del 1905. sulla base di queste leggi deriva un concetto ideologico di laicità inteso come neutralità religiosa dello spazio pubblico, di cui fa le spese innanzitutto il diritto di libertà religiosa, che viene garantito solo nell’accezione restrittiva di “libertà di culto” ed entro i limiti dell’ordine pubblico stabilito dalla legge, vale a dire nella sola sfera privata dell’individuo, non riconosciuto come diritto fondamentale dell’uomo e come espressione della sua personalità. Questa accezione militante e ideologica della laicità, denominata Laicitè de combat, ostile alla religione e alla sua rilevanza pubblica, ha dominato per lungo tempo in Europa, in primis in Francia.

Tale concetto ha comunque, nell’esperienza francese, subito un’evoluzione.Nei dibattiti che si svolsero in Assemblea Nazionale per l’approvazione della Costituzione del 1946, ove compare l’enunciazione del carattere laico della Repubblica, si affermò una concezione della laicità che, superando la sua accezione ristretta di mera separazione tra lo Stato e i culti (“läicité-separation”), venne accolta in termini più ampi come neutralità dello Stato rispetto a tutte le convinzioni non solo religiose, ma anche politiche, filosofiche e ideologiche: “contre toute philosophie d’Etat”.

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Questa posizione fu sostenuta in Assemblea costituente nella seduta del 3 settembre 1946 da Maurice Schumann, secondo il quale la laicità dello Stato significava “son indépendence vis-à-vis de toute autorité qui n’est pas reconnue par l’ensemble de la nation, afin de lui permettre d’être impartial vis-à-vis de chacun des membres de la communauté nationale et de ne pas favoriser telle ou telle partie de la nation”. Essa era pertanto da intendersi come “une garantie de véritable liberté (…). L’Etat a le devoir, alors que la nation est composée de personnes qui n’ont pas les mêmes croyances, de permettre a chacun de vivre conformément aux exigences de sa conscience”.

In questa concezione nuova della laicità s’inscriveva pertanto non solo la separazione tra lo Stato e le chiese, ma innanzitutto la neutralità filosofica dello Stato e la garanzia della libertà di coscienza, con precise conseguenze pratiche. In tal senso Schumann concludeva il suo intervento: “En votant pour la läicité nous votons, en même temps, pour la séparation entendue dans son vrai sens, en même temps pour la neutralité, c’est à dire contre toute philosophie d’Etat, pour la liberté de conscience, c’est à dire pour le libre choix de l’enseignement”.

La costituzionalizzazione del principio di laicità nell’ordinamento francese non si limitò quindi a recepirne i contenuti storici affermatisi a fine ottocento e consacrati nella legge di separazione del 1905, ma incise sulla sua interpretazione complessiva, affermandone un’accezione più rispettosa delle istanze di libertà religiosa: “une nouvelle laïcité plus souple et ouverte sur la liberté” (Barbier).

Questa poi si tradusse, nella Costituzione del 1958, in un’integrazione dell’art. 2, ove, accanto alla qualifica laica della Repubblica, fu altresì affermato che essa “assure l’égalité devant la loi de tous les citoyens sans distinction d’origine, de race ou de religion. Elle respecte toutes les croyances”; un’integrazione, voluta personalmente dal presidente De Gaulle, destinata a riequilibrare in positivo l’originaria valenza negativa del concetto di laicità come mera neutralità religiosa dello Stato.

Il concetto di laicità perdeva in tal modo quella univocità di contenuti e l’impronta laicista che ne aveva caratterizzato l’affermazione storica nella legislazione della Terza Repubblica, assumendo come parte del suo contenuto la tutela del diritto di libertà religiosa (laïcité-liberté). Si è aperta così una fase nuova nel complesso processo di instaurazione della laicità nell’ordinamento francese, fase che trova oggi un ulteriore sviluppo, con la posizione sostenuta dall’attuale presidente della Repubblica Nicolas Sarkozy, definita da molti studiosi il coronamento del processo di positivizzazione subìto negli anni dal concetto stesso di laicità.

3. INTERVENTI LEGISLATIVI IN MATERIA DI ISTRUZIONE CALATI NELL’EVOLUZIONE DEL PRINCIPIO DI LAICITÀ

Una prima formula di separazione tra Stato e confessioni religiose sarà sancita dalla Convenzione termidoriana con la Costituzione dell’anno III (1795) che all’art. 354 stabilisce: «la Repubblica non

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sovvenziona alcun culto».

Tale regime di separazione sarà, tuttavia, superato con il Concordato concluso nel 1801 da Napoleone con la Santa Sede, che venne promulgato nel 1802.

a) LES DEUX BLOCS LAICS DU 1882 ET 1886

Preciso progetto politico di rimozione della religione cristiana dalla sfera pubblica, si tradusse concretamente nelle leggi scolastiche del 1882 e del 1886, le quali estromisero ogni insegnamento, personale e simbolo religioso dalla scuola pubblica; sulla base di queste leggi (“les deux blocs laïcs”), maturate negli ultimi anni del sec. XIX, principio cardine del regime di laicità in Francia divenne la tutela della libertà di coscienza dell’individuo,contro ogni tentativo di condizionamento confessionale che possa pregiudicarne il vincolo di fedeltà esclusiva allo Stato e alle sue leggi: un tempo contro la Chiesa cattolica e la sua influenza sulla vita pubblica e sociale, oggi contro l’Islam e la manifestazione pubblica della propria appartenenza confessionale, simboleggiate dalla questione del velo nella scuola pubblica. Nello specifico per la scuola primaria la legge 28 marzo 1882 sopprime l’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche (di cui alla legge Falloux del 15 marzo 1850), sostituendolo con l’insegnamento dell’istruzione morale e civica (art 1) e prevede nel contempo,una journee riserve (art 2) per permettere ai genitori di fornire fuori dalla scuola un’educazione religiosa ai propri figli. Poi la legge del 30 ottobre del 1886 dispone la laicizzazione del personale docente. Per la scuola secondaria il richiamo va alla legge 21 dicembre 1880 che intraprende un’operazione analoga a quella della legge Ferry dell’ 82’ ma solo rispetto alle scuole femminili.

b) LOIS DE SEPARATION DU 1905

La laicità si radica nelle istituzioni francesi con la grande legge repubblicana del 9 Dicembre 1905 che separa le Chiese dallo Stato. La legge, che ridusse le confessioni religiose a mere “associazioni di culto” disciplinate dallo Stato, vietando ogni forma di finanziamento pubblico, soppresse le congregazioni religiose e introdusse alcuni forti limiti, sanzionati penalmente, ai diritti civili del clero.

Con la legge del 9 dicembre, verrà instaurato in Francia il regime di separazione tra Stato e Chiese, con la conseguente abolizione del regime dei culti riconosciuti. Negli articoli 1 e 2 della legge sono contenuti i due elementi giuridici caratterizzanti la laicità francese: il rispetto della libertà di coscienza e di libero esercizio del culto (art. 1) e il non riconoscimento e non sovvenzionamento di alcun culto (art. 2). In particolare all’ art. 1,la legge afferma: «La Repubblica assicura la libertà di coscienza. Essa garantisce il libero esercizio dei culti, con le sole restrizioni di seguito stabilite nell'interesse dell'ordine pubblico», mentre l’ articolo 2 «La Repubblica non riconosce, non finanzia né sovvenziona alcun culto […]»Proseguendo, la Legge di separazione del 1905 dispone all’art 28 che “il est interdit, a l’avenir,d’elever ou d’apposer aucun signe ou embleme religieux sur les monuments publics à l’exceptions de l’edifices servants au culte, des terreins de sepulture dans les

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cimetieres , des monuments funeraires”. Si è in presenza della prima statuizione legislativa-positiva di un nuovo sistema di relazioni tra lo stato e le chiese (laicitè-separation). Nella legge, al riconoscimento della libertà di coscienza e di esercizio dei culti -con i limiti previsti nell’interesse dell’ordine pubblico- prevista all’art.1, fa da contraltare la negazione di una qualsiasi posizione di ufficialità a qualunque culto, come di ogni relativo finanziamento.

Il fondamento giuridico della laicità, inteso come principio di neutralità rispetto a tutte le confessioni religiose e di tutela della libertà religiosa individuale, contenuto nella legge del 1905, verrà sancito quale principio costituzionale nel 1946 e nel 1958.

c) COSTITUTIONES

L’art. 1 della Costituzione francese del 1946 proclama: “la France est une république indivisible, laïque, démocratique et sociale”. La stessa formula è ripresa all’art. 2 della Costituzione del 1958 che all’art.1 aggiunge “assicura l’uguaglianza davanti alla legge di tutti i cittadini senza distinzione d’origine,di razza e di religione. Essa rispetta tutte le credenze”.. Con la costituzionalizzazione della laicità, si passa da un principio di separazione ostile e combattente, anticlericale e antireligiosa - come quello che si è attuato nel periodo di laicizzazione della scuola, negli anni 1880-1900 -, ad un principio di neutralità legata al rispetto della libertà religiosa. La laicità, pertanto, non è più un programma politico di indipendenza dello Stato dalle religioni, ma un sistema giuridico che assicura e garantisce il pluralismo della società.

d) LOIS DEBRE’ DU 1959

La legge Debré del 31gennaio 1959 sul finanziamento pubblico delle scuole private confessionali, segna un’ulteriore svolta nell’evoluzione complessiva del principio di laicità.

Questa legge infatti non si giustifica con il mero ricorso alla libertà di coscienza (“le libre choix de l’enseignement”), ma realizza un intervento attivo dello Stato a sostegno di concrete istanze di libertà religiosa degli alunni e delle loro famiglie. Inoltre essa comporta l’instaurazione di rapporti di cooperazione tra lo Stato e l’insegnamento privato confessionale, che, superando un’interpretazione stretta della laicità in termini di separazione, riflettono a loro volta una trasformazione delle relazioni tra lo Stato e la società. Con tale legge si attua un particolare riconoscimento e sovvenzionamento delle scuole private secondo diverse modalità (contratto di associazione e contratto semplice). E’ la legge Debré del 1959 che, riconoscendo alle scuole private confessionali un finanziamento pubblico segna un duro colpo alla laicità di stampo militante.

4. INTERVENTI LEGISLATIVI E GIURISPRUDENZIALI IN MATERIA DI VELO

AVIS DEL CONSEIL D’ETAT, CIRCOLARI E LEGGE 228\2004 (LEGGE ANTI VELO)6

A seguito dell’avvenuta espulsione di tre ragazze musulmane dalla scuola di Creil, dovuta allo sfoggio del foulard islamico, si ripose l’attenzione sul tema della laicità nell’ordinamento giuridico francese e si riaccese il relativo dibattito, che indusse il ministro dell’educazione nazionale Jospin a richiedere il 6 novembre 1989 un parere al Conseil d’Etat su tre diversi quesiti. Il primo riguarda la compatibilità dei segni di appartenenza religiosa con la laicità. Il secondo, in caso di risposta affermativa all’interrogativo iniziale, concerne le condizioni alle quali questi possono essere ammessi. L’ultimo quesito attiene alle misure sanzionatorie, da far eventualmente conseguire all’inosservanza delle regole di proibizione di detti segni. Il Conseil, il 27 novembre 1989, formula il parere, subito reso noto pubblicamente.Tale provvedimento merita un’attenta analisi poiché è proprio a partire da questo, nonché dalla successiva giurisprudenza elaborata dal Conseil medesimo in sede contenziosa e dalle circolari ministeriali che si sono succedute, che la materia è regolata per un quindicennio. Per il Conseil d’Etat « le principe de la laicitè de l’enseignement public, qui est l’un des elements de la laicitè de l’etat et de la neutralitè de l’ensemble des services publics, impose que l’enseignement soit dispensè dans le respect, d’une parte de cette neutralitè par les programmes et par les enseignants et, d’autre parte, de la libertè de con science des eleves », libertà che implica « le droit d’exprimer et de manifester leur croyances religieuses a l’interieur des etablissements scolaires, dans le respect du pluralisme et de la libertè d’autrui, et sans q’il soit portè atteinte aux activitès d’enseignement, au contenù des programmes et à l’obbligation d’assiduitè ». In sostanza il Conseil risponde positivamente al primo quesito,specificando che <<portare simboli religiosi da parte degli scolari non è di per sé incompatibile con il principio di laicità, nella misura in cui ciò costituisce esercizio della libertà d’espressione e di manifestazione di una propria fede religiosa>>.Tuttavia tale libertà non arriva a permettere agli alunni “di portare dei simboli d’appartenenza religiosa che, per loro natura, per la condizione in cui saranno portati, o per il carattere ostentatorio o rivendicatorio, costituirebbero un atto di pressione,di provocazione, di proselitismo o di propaganda, mettendo in pericolo la dignità o la libertà degli alunni o degli altri membri della comunità educativa, comprometterebbero la loro salute e la loro sicurezza, danneggerebbero lo svolgimento dell’attività d’insegnamento e il ruolo educativo degli insegnanti, infine turberebbero l’ordine nell’istituto o il normale svolgimento del servizio pubblico”.

La replica al secondo quesito consiste nel ritenere configurabile la predisposizione di una regolamentazione dello sfoggio dei segni d’appartenenza religiosa che tenga anche conto “de la situation propre aux etablissement”. Per quanto riguarda le misure sanzionatorie il Conseil stima che l’inosservanza di un tale divieto possa essere apprezzato dalle autorità disciplinari, sotto il controllo del giudice amministrativo, e che debba ammettersi la sanzione dell’espulsione. In dottrina si è rilevato come, attraverso questo àvis sia nata una nozione di laicità che incorpora l’elemento nuovo della “reconnaissance aux eleves d’une libertè d’expression etendue à leur croyances”. Si supera così un concetto rigidamente ideologico della laicità.

A seguito di detto àvis, sono intervenute due circolari sulle quali è utile porre l’attenzione: la prima è del 12 dicembre 1989, dovuta al ministro dell’educazione Jospin:questa nella sostanza ribadisce ciò che era stato già in precedenza affermato, rivolgendosi indifferentemente alla scuola primaria e secondaria, ribadendo il carattere obbligatorio dell’insegnamento e, nel contempo, prevedendo la

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possibilità che siano accordate alcune autorizzazioni d’assenza a titolo eccezionale per certi giorni nella misura in cui essi corrispandono a feste religiose,a condizione che non turbino il regolare svolgimento delle lezioni. Detta circolare supera il parere del Conseil allorchè espressamente, nella parte conclusiva, si occupa anche delle obbligazioni di laicità degli insegnanti, ricordando il principio di neutralità del servizio pubblico.

L’ulteriore circolare è del ministro dell’educazione nazionale Bayrou,del 20 settembre 1994, relativa alla <<neutralitè de l’insegnaiment public: porte des signes ostentatoires dans les etablissements scolaires>>, chiede ai capi d’istituto di non accettare manifestazioni di pressione e di proselitismo, ma di ammettere simboli discreti di appartenenza religiosa. Detto provvedimento, che segna una sorta di irrigidimento, è accompagnato dalle dichiarazioni tendenzialmente ostili al velo islamico del ministro e palesa il crescente disagio delle istituzioni di fronte all’emergere sempre più consistente di una spettacolarizzazione dell’appartenenza religiosa o comunitaria.

A seguito dei suddetti interventi, la giurisprudenza ha modo di pronunciarsi sulla materia in via contenziosa. Lo stesso Conseil il 2 novembre 1992, a livello contenzioso, conferma quanto espresso in sede consultiva nel 1989; per questo annulla il provvedimento di espulsione di tre studentesse di un collegio di Mont Fermeil, perché preso senza rispettare le condizioni elencate dal precedente parere dello stesso consiglio. Per quanto riguarda l’università, rispetto alla quale non sono operative le circolari Jospin e Bayrou, va ricordato il caso definito dal Conseil con decisione 26 luglio 1996, che rigetta il ricorso dell’università di Lille 2, avverso la pronuncia di annullamento del tribunale amministrativo della città, resa nei confronti delle ordinanze con le quali il presidente della facoltà dei scienze giuridiche, politiche e sociali, dispone il divieto di tre studentesse di accedere all’interno dell’università, se rivestite del foulard islamico.

Diversa è la problematica degli agents publics, rispetto ai quali s’impone lo stretto dovere di neutralità; questo è stato piu recentemente ribadito dal Conseil il 15 ottobre 2003, il quale ha rigettato la domanda di annullamento della sanzione inflitta ad un funzionario colpevole di aver utilizzato l’indirizzo elettronico della scuola in cui lavora e l’email di una collega a favore dell’Association pour l’unification du Christianism mondial.

Il quadro giuridico che esce dal parere del Conseil d’Etat del 27 novembre del 1989 e dalla sua successiva giurisprudenza, resa in sede contenziosa,sulla base delle circolari del 1989, 1993 e 1994, non permette l’ elaborazione di una linea generale netta e d omogenea sul tema. Sono da prendere in considerazione anche i fatti avvenuti a livello sociale a partire dalla fine dagli a anni ’70. In questo periodo, ad esempio, le comunità musulmane, hanno risentito di un crescente integralismo, provocato dall’ ondata fondamentalista che colpì l intero mondo islamico all indomani della rivoluzione in Iran e dall’ ascesa al potere dell’ayatollah Komheini. E’ in questo periodo che i credenti assumono un atteggiamento più intransigente e sono proprio gli immigrati di nuova generazione quelli più sensibili al richiamo del fondamentalismo. In quanto nati in Francia, essi credono nel mito di essere a tutti gli effetti del citoyens, ma ben presto il fallimento delle politiche di integrazione gli costringe a fare i conti con un sempre maggiore isolamento e con

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l’emarginazione nei ghetti delle periferie: è la vittoria del comunitarismo. Si apprende così, dalla cronaca nazionale, di bambini aggrediti e pestati nelle periferie come nelle scuole pubbliche delle grandi città; di donne scippate e aggredite nelle metropolitane; di episodi crescenti di razzismo e xenofobia persino nei servizi pubblici; di discriminazione e di vandalismo. Nel giro di pochi anni, la Francia diviene il paese europeo con il più alto numero di aggressione a sfondo religioso .I fenomeni più preoccupanti ai fini della sicurezza e dell’ ordine pubblico ben presto si ricollegano all’ attività dei gruppi musulmani delle periferie.

Gli attentati dell’11 settembre e le guerre in medio oriente che ne sono seguite hanno avvalorato la tesi di S.Huntintong sul conflitto di civiltà, ma hanno anche imposto ai governanti dei paesi occidentali una riflessione profonda sui sistemi e sulle politiche di integrazione,che la Francia non manca di cogliere.

È questo lo scenario nel quale vedono la luce due iniziative che, a livello istituzionale, nel 2003 conducono alla creazione di organismi deputati a fornire pareri o ad elaborare proposte in materia.

Procedendo in ordine cronologico nel 2003 si assiste, in primo luogo, alla creazione in seno all’assemblea nazionale, di una Mission d’information sur la question du port des signes religeux a l’ecole, che tiene la sua riunione costitutiva il 4 giugno 2003 sotto la presenza di Jean Louis Debrè. I toni del dibattito sono accesi ed evidenziano la presenza di una corrente all’ interno dell’ assemblea che vuole a tutti i costi una legge interdittiva. Tuttavia ciò che emerge è l’ idea che una semplice circolare non sia più sufficiente, anche se una minoranza dei membri della Mission paventa dubbi sulla possibilità che una legge di tal fatta possa risolvere tutti i problemi.

Come risultato di tal dibattito ne esce che l’ unica via perseguibile, per il ministro Ferry, è quella di una circolare, nella quale si ricordi chiaramente che i segni ostentatori sono proibiti, in attesa di inserire delle disposizioni nel quadro della legge di orientamento sulla scuola in corso di preparazione; legge che però appare ancora lontana. In tutta l’audizione il principio di laicità rimane però sullo sfondo; ciò che invece palesa l’ esigenza di un intervento è la presenza strisciante di una crisi della stessa idea repubblicana nonché l’ incremento dell’ islamismo radicale e l’ irrigidimento delle comunità musulmane in Francia. A conclusione dei lavori la Mission si pronuncia a grande maggioranza dei suoi membri a favore di una modifica legislativa che chiarisca le regole in materia di segni religiosi e politici nella scuola, e suggerisce l’ adozione di una norma in forza della quale “le port visible de tout signe d’appartenance religeuse ou politique est interdit dans l’enceinte des etablissements”.

Nello stesso anno il Presidente della Repubblica Jaques Chirac nomina con decreto 3 luglio 2004 n.607 la Commission de reflection sur l’application du principe de laicitè dans la republique, e la pone sotto la presidenza del mediatore della repubblica Bernard Stasi.

La commissione indipendente rimette al presidente della Repubblica, nei termini previsti, il suo rapporto l’11 dicembre 2003, dopo aver effettuato un gran numero di audizioni, ponendo una particolare cura anche nello studio della legislazione degli altri paesi dell’Ue, Italia compresa. Il

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testo è stato diviso in quattro parti: La laicità, valore universale, principio repubblicano; La laicità alla francese, un principio giuridico applicato con empirismo; La sfida della laicità: Affermare un laicità stabile e capace di unire. Fin dalle prime pagine si palesa l ‘esigenza di ribadire il valore della laicità, definita “pierre angulaire du pacte repubblican” e lo stesso rispetto del principio di laicità. Sin dalla prima parte l’analisi della commision si sofferma sul pericolo derivante dall’esacerbazione dell’identità culturale e sul rischio che tale fenomeno degenerativo si eriga a fanatismo della differenza, portatore di oppressione e di esclusione.<< Da questo punto di vista-si legge nel rapporto - il pericolo è doppio. La deriva del sentimento comunitario verso un comunitarismo bloccato minaccia di frammentare la società contemporanea … la laicità di oggi è sottoposta ad una sfida: forgiare l’unità pur rispettando le diversità della società>> Così il rapporto elenca i problemi derivanti dalle difficoltà della convivenza di gruppi etnici diversi all’interno delle forze armate come nelle carceri,luoghi dove le esigenze dell’ordine pubblico sono ovviamente preminenti; nonché quelli sorti a livello ospedaliero,circa l’applicazione di determinate terapie ai malati. Tuttavia,il vero casus belli riguarda i problemi all’interno degli istituti scolastici .Negli ultimi anni,infatti,come sopra accennavamo,sono notevolmente aumentati i casi di aggressione nelle scuole francesi,casi di maltrattamento,oltraggio ai danni degli studenti appartenenti a gruppi etnici minoritari. I casi più frequenti, hanno riguardato studenti musulmani che non rispettavano le insegnati di sesso femminile, appellandosi al modo in cui la donna viene trattata dall’islam, o ragazze musulmane che disertavano le lezioni di ginnastica adducendo ogni sorta di giustificazione e che pretendevano di portare l’hijab in classe. Per la commison de reflection la soluzione risiede nell’ adottare una legge generale sulla laicità che da una parte precisi le regole di funzionamento dei pubblici servizi delle imprese e dall’altra assicuri il rispetto delle diversità spirituali. In particolare per ciò che concerne la scuola si consiglia l’ adozione di una disposizione che vieti agli studenti i segni o le tenute che manifestino un’appartenenza religiosa o politica. Quanto al rispetto delle diversità spirituali il rapporto si limita a suggerire il riconoscimento per la scuola delle feste del Kippur e del aid el kebir e ad ipotizzare che i dipendenti delle imprese private possono scegliere di celebrare una festa religiosa fruendo di uno dei propri giorni di ferie e l’istituzione di una scuola nazionale di studi islamici. In sostanza per la commission si tratta di proposte che consentono di affermare l’ esistenza di valori comuni nel quadro di une “laicitè ouverte et dynamique capable de constituer un model attractif et federateur”.

Visionati gli atti della Commissione Stasi e della Commissione Debrè il Presidente della Repubblica Chirac, il 17 dicembre 2003 formula un discorso netto relativo al rispetto del principio di laicità nella repubblica in cui si pronuncia apertamente per una legge che proibisca i segni religiosi dalle scuole. Nel discorso, dove si conferma l’attaccamento ad “une laicitè ouverte et genereuse “, si auspica altresì la predisposizione di un codice della laicità che riunisca tutti i concetti e le regole ad essa relativi, nonché la costituzione di un osservatorio presso il primo ministro che informi sui rischi di attentato al principio.

5. LAICITÀ POSITIVA DI SARKOZY

Il 20 dicembre 2007,il presidente Sarkozy propone, da un lato, la rilettura della storia della Francia 10

e delle sue “radici cristiane”, ma soprattutto una interpretazione diversa della laicità rispetto a quella affermatasi tradizionalmente a livello istituzionale in Francia. I due punti centrali del discorso sono ben evidenziati dallo stesso Presidente: «[…] dobbiamo tenere insieme le due estremità della corda: accettare le radici cristiane della Francia e addirittura valorizzarle difendendo la laicità che è giunta a maturità. In realtà, come afferma lo stesso Presidente, non si tratta di mettere in discussione la legge di separazione tra le Chiese e lo Stato del 1905, ma di interpretarla in modo da valorizzare, nella difesa dell’identità della Francia, il riconoscimento nella vita pubblica e istituzionale del contributo delle religioni alla determinazione di una morale condivisa. Pertanto, Nicolas Sarkozy propone una sorta di “riconciliazione” tra le due morali, quella pubblica e laica, e quella religiosa e privata, che in Francia nel corso del XIX secolo sono state a lungo divise. Tale concetto di laicità matura e positiva che, rovescia completamente il concetto di laicità di matrice illuministica che, al contrario, relegava il ruolo delle religioni nell’ambito privato. Nei dibattiti francesi si era già affermata una visione della laicità positiva che, senza mettere in discussione il principio di separazione – neutralità, era tesa non a combattere, ma a favorire una maggiore partecipazione delle religioni alla vita pubblica del Paese. già durante il governo socialista di Lionel Jospin era stata avviata una politica di dialogo istituzionale con la Chiesa cattolica, sottolineata dallo stesso Giovanni Paolo II nella sua lettera inviata nel 2005 in occasione del centenario della legge di separazione. Ma Nicolas Sarkozy, a differenza dei precedenti capi di Stato francesi che nei loro discorsi si erano mostrati più cauti nell’esprimere posizioni particolari in merito soprattutto ai rapporti con la religione considerata tradizionalmente come convinzione privata, ha riconosciuto il ruolo della religione nella vita sociale proprio perché

«risponde al bisogno profondo degli uomini e delle donne di trovare un senso all’esistenza». La prospettiva spirituale, a lungo sottovalutata da una concezione “militante” della laicità, viene, in questo discorso, privilegiata quale antidoto alle insidie del «fanatismo» alle quali è sottoposta la morale laica. La laicità rischia di trasformarsi in laicismo sterile e sottoposto maggiormente «alle contingenze storiche e in definitiva all’acquiescenza».Sarkozy promuove, al contrario, una laicità “pacata”. «Penso che il lato più importante in ogni esistenza sia la speranza. […] La vera frattura […] si pone tra quelli che sperano e quelli che non sperano. […] C’è un bisogno di speranza connaturato alla vita umana, Il confine tra la fede e la non credenza non è e non sarà mai fra quanti credono e quanti non credono, perché esso riguarda in verità ciascuno di noi. Anche chi afferma di non credere non può al tempo stesso asserire di non porsi interrogativi su

ciò che è essenziale».Il significato della fede religiosa, nelle parole di Sarkozy, sembra essere racchiuso nel concetto di speranza34, ma la fede non necessariamente sembra identificarsi con l’osservanza dei riti e il senso di appartenenza ad una comunità religiosa. In realtà, il concetto di speranza non sembra essere usato quale sinonimo di fede o di credo religioso, ma indica piuttosto un atteggiamento di impegno concreto al servizio della comunità sociale che l’educazione religiosa può certamente favorire e sviluppare. Il ruolo

delle religioni è pertanto complementare e non antitetico agli ideali repubblicani perché i valori etici insiti nel messaggio religioso contribuiscono “a regolare una società fondata sulla libertà”. Ed è

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proprio questo il nodo centrale della concezione sarkozyana. Le religioni, o meglio il sentimento religioso, sono in un certo senso strumentali alla convivenza pacifica e civile. La morale religiosa, in tal senso, è un completamento e arricchimento della morale repubblicana, che da sola risulta insufficiente, poiché non riesce a rispondere agli interrogativi basilari ed essenziali dell’uomo. Si potrebbe sostenere che ad una “ideologia” laica, Sarkozy affermi la complementarietà necessaria di una morale religiosa, anche se intesa in senso molto esteso, fondata non esclusivamente sulla fede, ma sul concetto di “speranza”su descritto. Sarkozy riguardante il ruolo degli insegnanti della scuola pubblica: «Nella trasmissione dei valori e nell’apprendimento della differenza tra bene e male l’insegnante non potrà sostituire il parroco o il curato, anche se è importante che si avvicini ad essi perché a lui mancherà sempre la radicalità del sacrificio e il carisma di un impegno sostenuto dalla speranza»Se storicamente si è affermato per impedire la predominanza di una religione sulle altre, la vera essenza del concetto politico di laicità è quella non dell’esclusione, ma dell’inclusione, quale garanzia di libertà. La laicità è perciò positiva, dove però l’aggettivo non connota una qualificazione specifica rispetto alla laicità senza aggettivi, ma è soltanto una descrizione del significatointrinseco del concetto che non soltanto garantisce la libertà di credere e di non credere,ma soprattutto favorisce il dialogo e sviluppa le possibilità di incontrotra le diverse componenti della comune identità nazionale. «La laicità è al servizio dellalibertà per ogni cittadino della Repubblica di vivere o meno una religione e di trasmetterla, come crede ai propri figli. Se il significato specifico della laicità consiste nella sua funzionedi garanzia della libertà di coscienza di ognuno, religiosa o meno che sia, il suo fine concreto consiste nel “neutralizzare” qualsiasi deriva intollerante, non solo tra le religioni, ma anche della Repubblica rispetto alle religioni, come delle religioni rispetto alla Repubblica e ai suoi principi fondamentali. Il suo discorso politico si inserisce a pieno titolo nella tradizione tipicamente e storicamente francese dei rapporti tra politica e religione, caratterizzata da uno spirito di indipendenza del potere civile rispetto all’ingerenza o al predominio della religione. Come scrive nel libro-intervista: «Il denominatore comune è la legge della Repubblica, che si applica a tutte le confessioni. La legge repubblicana, elaborata ed applicata nell’ambito dello Stato di diritto, è sempre superiore alla norma religiosa, anche se di natura diversa, garantendo una l’ordine pubblico e l’altra l’ordine morale».se si analizza più profondamente il suo pensiero complessivo, è possibile evidenziare che l’attenzione rivolta da Sarkozy ad una diversa considerazione del fatto religioso all’interno di un sistema di laicità non significa concretamente favorire le religioni in quanto confessioni, ovvero alterare il sistema di separazione-neutralità tra politica e religione, ma «organizzare la pluralità delle religioni all’interno dell’autorizzazione repubblicana» Sarkozy, nel discorso di Laterano parla di correzione della laicità alla francese prospettando l’avvento di una “laicità positiva”, lasciando intendere che quella del 1905 sia stata del tutto negativa,portatrice di discordia.

6. RECENTI SVILUPPI IN MATERIA DI LAICITÀ

Sei anni dopo il grande dibattito sul velo nelle scuole, la Francia torna a interrogarsi sulla propria identità e sul posto da accordare alla comunità islamica. E ancora una volta al centro del dibattito

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sono le donne musulmane, quelle con il burqa. Nessuno sa con precisione quante siano: gli esperti parlano vagamente di alcune migliaia in tutto il paese. Rare nei centri urbani, sono invece numerose nelle "banlieues", sui mercati popolari. Nessuna, ovviamente, dice di essere vittima di un' imposizione. Le poche che accettano di parlare assicurano di aver fatto una scelta e a volte sbandierano il burqa come una reazione identitaria, come una protesta contro una società che lascia ai margini i propri immigrati e i propri cittadini di origini extra-europee. Ma la popolazione francese non l' accetta. E la classe politica riapre il dibattito, s' interroga: è ammissibile il burqa in un mondo che ha fatto della laicità e dell' emancipazione femminile due dei suoi valori essenziali? A rilanciare il dibattito è stato André Gerin, deputato e sindaco di Venissieux, comune della periferia lionese con un alto tasso di immigrati. Ha raccolto le firme di 72 parlamentari, in stragrande maggioranza di destra, per chiedere di studiare il fenomeno con una commissione d'inchiesta . Un' iniziativa esplosiva, perché riapre la problematica dei rapporti tra europei ed extracomunitari, del ruolo della religione nelle società secolarizzate, dei rapporti con i musulmani. Una volta varata la legge che vieta il velo e gli altri simboli religiosi nelle scuole e nelle amministrazioni pubbliche, la Francia sembrava essersi calmata, tanto che nelle scuole i casi di contravvenzione alla legge sono ormai rarissimi. Adesso, invece, è il burqa a infiammare di nuovo le passioni. Il termine indica due tipi diversi di abito: il burqa in senso stretto, che copre la donna da capo a piedi, con una retina a livello degli occhi; e il niqab, che a differenza del primo lascia gli occhi scoperti. Gerin non fa differenza tra l' uno e l' altro. Il problema, secondo lui, «è la crescita esponenziale del fenomeno».. All' interno dello stesso governo c' è chi è favorevole a una legge contro il burqa, chi chiede di riflettere, chi giudica inopportuno il dibattito. E l' opposizione socialista, per bocca di Martine Aubry, dice sì alla riflessione, ma aggiunge che le priorità del momento sono altre. Infine, c' è chi avverte: proibire il burqa potrebbe addirittura spingere alcune donne a vivere murate in casa, per volontà propria o del marito. Il portavoce del governo, Luc Chatel, non ha escluso il ricorso alla legge per proibire il burqa quando una donna è obbligata a portarlo (ma i contrari hanno subito chiesto: come si fa a sapere se il porto del burqa è volontario o imposto?). Intanto la Francia ha negato la cittadinanza a una donna marocchina che indossa il burqa e che supporta una visione dell’islam definita ‘radicale’. La donna ha 32 anni, vive in Francia dal 2000, parla bene il francese, è sposata con un uomo che già possiede la nazionalità francese e da cui ha avuto tre figli. Secondo i servizi sociali, la donna vive in uno stato di “totale sottomissione” del marito: a riprova, finché ha vissuto in Marocco non ha portato nemmeno il velo. La sua domanda era stata già rifiutata nel 2005: ora il Consiglio di Stato ha confermato tale decisione, sostenendo che la donna “non ha alcuna idea della laicità e del diritto di voto, e le sue dichiarazioni rivelano la non adesione a valori fondamentali della società francese”. Inoltre la corte francese dell’Halde (Alta autorità contro le discriminazioni e per l’ugugaglianza) ha confermato l’allontanamento di una donna che portava il burqa dai corsi di lingua obbligatori per gli immigrati che non conoscono bene il francese e intendono acquisire la cittadinanza. I responsabili dell’agenzia governativa che gestisce i corsi e l’accoglienza degli immigrati (Anaem) avevano contestato il fatto che la donna potesse portare il burqa durante i corsi, perché in questo modo diventava impossibile osservare le espressioni del viso e della bocca e comprendere bene i suoni – fattori indispensabili per fare in mdo che gli insegnanti possano istruire coloro che seguono un

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corso di lingua. Inoltre, data l’ufficialità dei corsi, era necessario identificare la persona, coperta dal burqa. Quindi alla donna non era stato consentito di seguire i corsi indossando il burqa.L’Halde qualche giorno fa ha sentenziato, giudicando il contenzioso tra la donna e l’Anaem, che il burqa può essere “pericoloso” per i valori repubblicani: il divieto di indossarlo in certi contesti non può essere considerato una discriminazione religiosa, specie in un contesto dove anzi ci si attiva per favorire l’integrazione (come i corsi dell’Anaem). “La libertà religiosa” afferma l’Halde “non è assoluta: può essere ridimensionata se esiste un motivo valido”.Tuttavia ad oggi, nessun obiettivo prefissato in tema di divieto totale del burqa è stato raggiunto,dal momento che:“Un divieto assoluto del velo integrale potrebbe venire contestato dal punto di vista giuridico, anche se l'obbligo del viso scoperto può essere giustificato da esigenze di sicurezza e di ordine pubblico in certi luoghi e circostanze. “ Questo, in sostanza, il parere espresso dal Consiglio di Stato francese sul divieto del burqa. Un parere che il primo ministro, Francois Fillon, aveva richiesto a gennaio e che e' stato consegnato ieri in un rapporto che esclude di fatto il divieto "generale e assoluto" che "non potrebbe trovare alcun fondamento giuridico incontestabile". Sì invece a un 'perfezionamento'' delle leggi che già vietano ''la dissimulazione del viso'' e all’estensione del divieto ''in certe circostanze particolari di tempo e di luogo''. Secondo il ministro dei Rapporti con il parlamento, Henri de Raincourt, ci sara' dapprima una risoluzione parlamentare che fissi il principio che il velo integrale non e' il benvenuto in Francia. In seconda battuta verra' discusso il progetto di legge che "conterra' le misure da prendere per raggiungere" l'obiettivo, ha spiegato il ministro.

7. CENNI STORICI SULL’EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI LAICITÀ IN TURCHIA

È opportuno tracciare un quadro storico di riferimento, per meglio comprendere le scelte fatte dalla Nazione turca in materia di laicità. Nell’impero ottomano, il Sultano aveva sia il potere esecutivo, sia il potere di giurisdizione che di garante dell’Islam. Essendo però vincolato alla sharia, poteva legiferare solo negli ambiti per i quali essa nulla prevedesse.

La vittoria dei nazionalisti turchi nella guerra d’indipendenza portò all’abolizione del sultanato (novembre 1922), alla firma del Trattato di Losanna (luglio 1923), alla proclamazione della Repubblica (29 ottobre 1923), alla soppressione del Califfato (3 marzo 1924). Seguì la soppressione dei tribunali religiosi e delle scuole coraniche sostituite da una rete sempre più capillare ed efficiente di scuole elementari di stato, primo livello di un sistema educativo basato su patriottismo e laicismo. Vennero messi al bando gli ordini dei dervisci, e nella costituzione fu eliminato il riferimento all'Islam quale religione di stato. Questi e altri provvedimenti, come il divieto di utilizzare l'arabo (o qualsiasi lingua diversa dal turco) nelle funzioni religiose, diedero vita a vivaci e diffuse proteste, energicamente represse, da parte dei settori più tradizionali. Analogamente fu colpita ogni espressione dell'autocoscienza etnica delle minoranze curda, armena e araba. Ancor più rivoluzionaria la riforma della scrittura, che sostituiva l'alfabeto latino a quello arabo, segnando una drastica rottura con la cultura del passato, in cui il turco era stato considerato la lingua dei contadini

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ignoranti, mentre la classe dirigente aveva assorbito con entusiasmo le influenze culturali arabe e persiane. All'introduzione dei caratteri latini, presupposto di una alfabetizzazione di massa, si accompagnò una campagna per l'eliminazione delle parole di origine araba e persiana: il modello da seguire era ormai la moderna Europa, non il mondo arabo o persiano di cui appariva evidente la subordinazione economica e politica. Vennero quindi adottate anche norme sull'introduzione dell'abbigliamento europeo e avviate campagne contro il velo femminile e l'onomastica tradizionale: nel 1934 l'uso del cognome fu reso obbligatorio e l'assemblea nazionale assegnò a Mustafà Kemal quello di Atatürk, padre dei turchi. Venne riconosciuto il diritto di voto alle donne e furono introdotti codici di ispirazione europea per il diritto civile, penale e commerciale. Per attuare le riforme volute da Atatürk era necessario inculcare nella mente dei turchi l'orgoglio etnico: perciò negli anni trenta fu incoraggiata la circolazione di teorie (poi sottoposte a revisione critica anche in Turchia) storiche e linguistiche esagerate, che attribuivano ai turchi un ruolo centrale nell'evoluzione dell'umanità e ponevano la loro lingua all'origine di tutte le altre.

Al tempo vi era un partito unico, il Partito Repubblicano del Popolo, (CHP), fautore d’una serie di riforme basate sui sei principi (le sei frecce) teorizzati da Mustafà Kemal: il repubblicanesimo, il laicismo, il progressismo, il populismo, lo statalismo ed il nazionalismo. Atatürk aveva guidato la lotta contro il governo di Istanbul e contro l'esercito greco, da lui sconfitto nel 1920-1922 con una serie di brillanti operazioni militari sfociate nell'armistizio di Mudanya (11 ottobre 1922). Divenne il fondatore della repubblica nel 1923.

Il nazionalismo kemalista mostra una concezione unificatrice ed integratrice, considerando come turco ogni persona legata allo Stato turco da legami di cittadinanza, e rifiutando discriminazioni basate sulla lingua la razza e la religione, giacché le convinzioni che vedono un’integrazione basata sulla religione o su una confessione religiosa sono escluse dal novero dei significati del nazionalismo turco. Essendo contrarie ai principî fondamentali formulati nel preambolo della Costituzione ed alle caratteristiche della Repubblica previste dall’art. 2, esse non hanno alcun valore dal punto di vista sociale e giuridico.

Dopo la morte, nel 1938, di Atatürk, il suo successore, Inönü, promosse la creazione d’un partito d’opposizione e l’introduzione del suffragio universale: nel 1946, dunque, alcuni dissidenti del CHP fondarono il Partito democratico, che vinse, nel maggio 1950, le prime elezioni a suffragio universale. Questo nuovo periodo vide il ritorno della preghiera in arabo (giugno 1950), e dell’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche rurali (marzo 1952). Il crescente malumore popolare dovuto ad una lunga crisi economica deflagrò, infine, il 27 maggio 1960, con un colpo di Stato militare.

Il potere fu rapidamente restituito ai civili, e già dal gennaio 1961 iniziarono i lavori per una nuova Costituzione, scritta da un’Assemblea costituente composta da membri nominati dai partiti politici e dalle organizzazioni sociali, ed approvata, con un referendum, il 9 luglio 1961.

Essa riconosce solennemente i diritti di libertà individuali e sociali, garantiti da una Corte

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costituzionale che ha persino il potere di sciogliere quei partiti che non rispettassero la Costituzione, ed impone le dimissioni, tre mesi prima delle elezioni politiche, dei Ministri degli Interni e della Giustizia, e la loro sostituzione con personalità neutrali, per garantire l’imparzialità delle operazioni elettorali; l’art. 135, inoltre, prevede che nessuna norma costituzionale possa essere

interpretata per giudicare incostituzionali le leggi di riforma kemalista, volte ad elevare la società turca al livello della civilizzazione contemporanea ed a proteggere il carattere secolare della repubblica (fondamentali le leggi sul copricapo, sull’unificazione dell’insegnamento, sul divieto delle Congregazioni religiose, sull’alfabeto, sul matrimonio civile).

Altri due colpi di Stato portati avanti dall’esercito, portarono nel 1982 alla nuova Costituzione tuttora in vigore.

Ad oggi, anche alla luce del possibile futuro ingresso della Turchia in Europa, è in discussione la bozza di una nuova costituzione per cui l’Akp, partito per la Giustizia e lo Sviluppo, che detiene la maggioranza in parlamento, ha raccolto le firme per la presentazione della bozza alla Commissione costituzionale del Parlamento. La nuova Costituzione divide non solo il Governo ma anche il Paese. Secondo una parte è il definitivo lasciapassare della Turchia verso l'Europa e la democrazia piena, secondo l'altra è la definitiva vittoria del premier islamico-moderato Erdogan su esercito e magistratura, da sempre considerati energici difensori dello Stato laico.

8. LA COSTITUZIONE DEL 1982

La Costituzione del 1982 contiene numerosi riferimenti alla salvaguardia del carattere secolare della Repubblica turca, a partire dal preambolo in cui si sancisce che: “come richiesto dal principio del secolarismo, non devono esserci interferenze di alcun tipo da parte dei sentimenti religiosi, che sono sacri, in affari di stato e nella politica.” Questa decisa impronta laica data al preambolo è solo l’inizio di continui richiami alla secolarità che attraversano la Costituzione.

All’ art.2, che descrive le caratteristiche della Repubblica, si dice: “la Repubblica turca è uno stato democratico, secolare e sociale governato dalle regole della legge; leale al nazionalismo di Ataturk, e basato sui principi fondamentali stabiliti nel Preambolo”.

Il nazionalismo a cui fa riferimento l’articolo è volto a sostituirsi al legame religioso e confessionale e considera la Nazione turca come il popolo di Turchia che fondò la Repubblica, senza basarsi su ulteriori distinzioni, come l’elemento religioso. Il comportamento reciprocamente laico da parte dello Stato e del cittadino risiede per Ataturk nello spirito del nazionalismo. Il principio per cui la sovranità risiede senza condizioni né riserve nella Nazione, è la prova che essa non può risiedere nella religione. L’antagonismo tra umma (comunità di musulmani) e Nazione, è insuperabile

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secondo Ataturk.

L’art.4 vieta espressamente che vengano sia attuati, sia anche solo proposti, emendamenti ai primi tre articoli.

L’art.10 stabilendo l’eguaglianza di fronte alla legge, proibisce al primo comma discriminazioni basate su lingua, razza, colore, sesso, opinioni politiche, credenze filosofiche, religioni e sette. Questo articolo mette chiaramente in evidenza come per Ataturk fosse importante raggiungere l’obiettivo della laicità dello Stato, al fine di garantire l’eguaglianza anche a favore di quelle minoranze professanti religioni diverse dall’islam, che si sarebbero trovate discriminate in un ordinamento di confessione musulmana. Per questa ragione la Repubblica turca attribuisce grande importanza a date simboliche come quelle dell’abolizione del Califfato e della legge sull’istruzione (3 marzo 1924), poiché esse segnano nel calendario rivoluzionario kemalista il passaggio dalla sovranità statale dall’ambito religioso a quello nazionale.

L’art.13 sancisce che le restrizioni dei diritti e delle libertà fondamentali non devono comunque essere in contrasto con la lettera e lo spirito della Costituzione con i presupposti dell’ordine democratico della società, con la Repubblica secolare e col principio di proporzionalità.

L’art.14 vieta che questi diritti e libertà siano usati con l’obiettivo di violare, tra le altre cose, l’ordine secolare della Repubblica turca, basato sui diritti umani.

A regolare la libertà di religione e di coscienza è l’art.24: al primo comma stabilisce che ognuno gode del diritto di libertà di coscienza e di convinzione e credo religioso. Il secondo comma consente la libera pratica di atti di culto, servizi religiosi e cerimonie, a meno che non violino l’art.14.

Il terzo comma garantisce che nessuno possa essere obbligato a professare una determinata religione, o a partecipare a riti e cerimonie religiose, a rivelare le proprio convinzioni e credenze religiose o essere incolpato o accusato a causa di esse.

Il quarto comma regola l’istruzione religiosa, dicendo che: “l’educazione e l’istruzione in religione ed etica deve essere condotta sotto il controllo e la supervisione dello Stato. L’istruzione in cultura religiosa e educazione morale (che si sostanzia di fatto nell’insegnamento dell’Islam sannita) deve essere obbligatoria nei programmi delle scuole primarie e secondarie. Educazione ed istruzione di altre religioni dovranno essere soggetto del proprio desiderio individuale, o in caso di minori, di richiesta dei loro rappresentanti legali.

Il quinto comma impone che “nessuno può, in qualsiasi modo, servirsi od abusare della religione, o dei valori considerati come sacri da una religione, al fine di fondare, anche solo parzialmente, l’ordine sociale, economico, politico o giuridico dello Stato su regole religiose, né al fine di ottenere

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vantaggi o influenza sul piano politico o personale”.

Sempre per quanto riguarda l’istruzione l’art.42 comma 3 sancisce che l’educazione deve essere condotta secondo le linee dei principi e delle riforme di Ataturk, sulla base della scienza contemporanea e dei moderni metodi di educazione e sotto il controllo dello Stato.

Gli art. 68 e 69 regolando la formazione e l’appartenenza ad un partito, e i principi che questo deve seguire, sanciscono che statuti e programmi, così come anche le attività dei partiti politici, non possono essere in conflitto con, tra le altre cose, i principi della repubblica democratica e secolare. La violazione di questo comma (il IV dell’art.68), può portare la Corte Costituzionale a decidere di sciogliere quel determinato partito, così come sancito dall’art.69 comma I. Questo è avvenuto più volte nell’arco della Storia turca, dapprima nel 1971 con lo scioglimento del Partito islamico (o Partito dell’ordine nazionale) e del Partito laburista turco, poi con lo scioglimento del Refah Partisi nel 1998, creando sempre aspre contestazioni per la forza forse eccessiva che viene riservata a questo giudice costituzionale.

L’art.81 (come anche gli art.103 e 112 riguardo al Presidente della Repubblica ed ai membri del Governo non parlamentari) impone ai membri della Grande Assemblea Nazionale Turca, nell’assumere l’ufficio, di prestare giuramento: “Giuro sul mio onore e sulla mia integrità, dinnanzi alla grande Nazione Turca, di salvaguardare l’esistenza e l’indipendenza dello Stato, l’indivisibile integrità del Paese e della Nazione, e l’assoluta sovranità della Nazione; di rimanere leale alla supremazia della legge, alla Repubblica democratica e secolare, e ai principi ed alle riforme di Ataturk; di non deviare dall’ideale secondo cui ognuno ha titolo per godere di diritti umani e libertà fondamentali sotto pace e prosperità nella società, solidarietà nazionale e giustizia e lealtà alla Costituzione”.

L’art.136 impone al Dipartimento per gli Affari Religiosi di esercitare i suoi doveri prescritti nella sua legge specifica, in accordo coi principi del secolarismo, eliminata ogni idea e veduta politica, e al mirando alla solidarietà ed integrità nazionali.

Infine l’art.174 indica una serie di riforme volte a elevare la Turchia al livello della civilizzazione contemporanea, e a salvaguardare il carattere secolare della Repubblica. Tra queste spiccano l’act. No 430 del 3 marzo 1924 sull’unificazione del sistema educativo, il principio del matrimonio civile adottato con il codice civile turco no. 743 del 17 febbraio 1926 e l’art.110 del codice.

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9. LO SCIOGLIMENTO DEL PARTITO POLITICO TURCO REFAH PARTISI

Il Refah Partisi, il partito della prosperità, era un partito politico turco che fondava la sua esistenza su principi islamici.

Entrò in politica nel 1983 e nel 1995 con la presidenza di Necmettin Erbakan e divenne il primo partito politico turco con il 21,3% dei voti (quasi sei milioni di elettori) alle elezioni legislative aggiudicandosi 158 seggi alla Grande Assemblea Nazionale (che si compone di 450 seggi), quindi salendo al governo con un governo di coalizione di centro destra (il partito della giusta via Dorul Yol Partisi). Fu disciolto il 16 Gennaio 1998 dalla Corte costituzionale turca.

Ripercorriamo i tratti salienti ed i motivi dello scioglimento del Refah Partisi.

Innanzitutto, occorre fare una premessa, ovvero precisare che questo non è il primo partito che venne sciolto in Turchia: già nel 1971 la Corte costituzionale sciolse il Partito islamico (o Partito dell’ordine nazionale, Milli Nizam Partisi, MNP), il 21 maggio 1971, e il Partito laburista turco (Türkiye Işçi Partisi, TIP) il 20 luglio 1971, per atteggiamenti e posizioni contrari alla Costituzione della Repubblica di Turchia.

Nel caso specifico del Refah Partisi (partito di Governo),il 28 maggio del 1997 fu intrapresa davanti alla Corte costituzionale turca da parte del Procuratore generale della Corte di Cassazione, un’azione volta allo scioglimento del partito, motivata dal fatto che quest’ultimo andasse contro i principi di laicità dello Stato.

A sostegno della sua tesi, il Procuratore generale adduceva diverse prove a carico di dirigenti e membri del partito e contestava anche la presunta illegittimità costituzionale del programma del Refah Partisi.

Esaminiamo alcune di queste prove:

I discorsi pubblici fatti da numerosi membri del partito, compresi quelli che rivestivano funzioni ufficiali importanti, con i quali si raccomandava la sostituzione del sistema politico laico con quello teocratico. Necmettin Erbakan aveva più volte invitato tutti i musulmani ad aderire al suo partito e a portare doni solo al Refah Partisi perché sarebbe stato il solo in grado di meglio instaurare la supremazia del Corano e di portare alla conclusione della guerra santa. In un discorso del 23 marzo 1993 (quindi 2 anni prima di salire al governo) davanti all’Assemblea Nazionale pronunciò: “Tu vivrai in maniera conforme alle tue convinzioni. Desideriamo che il disposto sia abolito. Ci devono essere più sistemi legislativi. Il cittadino deve potere scegliere il sistema di diritto che è adatto a lui, nel quadro dei principi generali. D’altronde questo è già esistito nella nostra storia. Nella nostra storia ci sono state varie correnti religiose. Ognuno è vissuto conformemente alle regole legali della propria organizzazione, così tutto viveva nella pace. Perché sarei obbligato a vivere secondo

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le norme di un altro?…il diritto di scegliere il proprio sistema legislativo fa parte integrante della libertà di religione”.

Il sistema multigiuridico, proposto da Erbakan, non si riferiva affatto alla libertà di concludere dei contratti, come sosteneva il Refah Partisi, ma portava a stabilire una concreta distinzione fra i cittadini secondo la loro religione e la loro credenza, in questo modo ogni cittadino avrebbe dovuto scegliere il movimento del quale desiderasse far parte, ed avrebbe così avuto i diritti ed i doveri derivanti dalla religione della sua comunità, fatto che avrebbe eliminato l’unità giudiziaria. Ad ogni modo, anche i dirigenti e i membri del Refah Partisi utilizzavano i diritti e le libertà per sostituire l’ordine democratico con un sistema fondato sulla Sharia. La procura sosteneva che nessuno Stato è obbligato a tollerare l’esistenza di partiti politici miranti alla distruzione della democrazia e del principio della preminenza del diritto e quindi sostituendo la legislazione della Repubblica con un regime teocratico fondato sulla multi giuridicità, e tale principio fu affermato da parte della Corte nella sua sentenza.

L’obbligo di portare il foulard islamico nelle scuole pubbliche e nei locali dell’amministrazione pubblica,fortemente affermato dal presidente e dagli altri dirigenti del Refah Partisi, era in aperto contrasto con i principi di laicità dello Stato, in particolare con l’articolo 2 della Costituzione Turca.

Si ricorda anche che tramite una sentenza del 13 gennaio 1997, il comitato dei ministri, dove i membri del Refah Partisi erano maggioritari, aveva riorganizzato le ore di lavoro negli stabilimenti pubblici in funzione del digiuno del Ramadan, ma il Consiglio di Stato aveva annullato il provvedimento per attacco al principio di laicità.

È interessante sottolineare come un partito inizialmente accusato di tendenze separatiste e secessionista sia stato poi in realtà sciolto per la sua posizione nei confronti del principio di laicità: la questione è regolata dalla legge sui partiti politici, n. 2820/198356 (modificata nel 1986), i quali non possono “incitare terzi […] a mettere in pericolo l’esistenza dello Stato e della Repubblica turchi, ad abolire i diritti e le libertà fondamentali, ad introdurre una discriminazione fondata sulla lingua, la razza, il colore della pelle, la religione o l’appartenenza ad una corrente religiosa o ad instaurare, con qualunque mezzo, un sistema statale fondato su tali nozioni e concezioni” (art. 78), e, per logica conseguenza, “gli statuti, i programmi e le attività dei partiti politici non possono contravvenire alla Costituzione né alla presente legge.”

L’EX premier Necmettin Erbakan, leader del partito turco Refah Partisi,

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e i suoi dirigenti, in seguito allo scioglimento da parte della Corte costituzionale turca sono ricorsi alla Corte europea dei diritti umani facendo riferimento agli articoli 10 (libertà di espressione) e 11 (libertà di riunione e di associazione) della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, affermando che lo scioglimento del partito non si rendeva né necessario sulla base di un bisogno sociale imperioso, né fondamentale in una società democratica.

I giudici europei, dopo aver analizzato il modo di operare del partito, hanno risposto che l’uso di alcune azioni violente riconducibili a pratiche islamiche era contrario ai principi della democrazia. E dunque, per tali motivi, non era possibile invocare protezione sulla base della Convenzione Europea per la tutela dei diritti dell’uomo.

La Corte Costituzionale Turca ha dunque avuto ragione a dichiarare illegale il partito, che pure nel 1995 aveva vinto le elezioni conquistando un terzo dei seggi alla Camera. E altrettanto legittima è stata, per la Corte di Strasburgo, la pronuncia di ineleggibilità dei suoi dirigenti per via delle loro affermazioni sostenute in discorsi pubblici.

Per i giudici della corte di Strasburgo, l’interpretazione del principio di laicità, su cui si fonda la sentenza di scioglimento del partito, si basa, secondo la Corte Costituzionale, sul contesto della storia del diritto turco. Essa ricorda che la società turca ha vissuto l’esperienza del regime politico teocratico durante l’impero

ottomano, ma successivamente sotto la direzione politica di Atatûrk, la Turchia è diventata una Repubblica laica, mettendo fine alla teocrazia. Le accuse che sia la Corte di Cassazione Turca che la Corte Costituzionale Turca hanno valutato per concludere che il Refah Partisi violasse il principio di laicità, si possano raggruppare in tre sottoinsiemi:

quelle secondo cui il Refah Partisi intendeva instaurare un sistema multigiuridico che istituiva una discriminazione basata sulle credenze;

quelle secondo cui il Refah Partisi avrebbe voluto l’applicazione della Sharia per la comunità musulmana;

quelle che si fondano sui riferimenti fatti dai membri del Refah Partisi alla “djihad”, la guerra santa, come metodo politico.

Sulla base di queste ragioni la Corte di Strasburgo ha dichiarato, con quattro voti favorevoli contro tre contrari, che non vi è stata alcuna violazione dell’articolo 11 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. La sentenza è stata pronunciata in udienza pubblica al Palazzo dei diritti dell’uomo, a Strasburgo, il 31 luglio 2001.

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10. IL VELO ISLAMICO IN TURCHIA

a) IL FENOMENO DEL TESETTUR

TESETTUR: pratica di coprirsi il capo e il corpo, conformemente ai principi religiosi islamici.

Il fenomeno del tesettur, oltre ad essere una caratteristica ideologica, culturale, legata alla tradizione del territorio turco, deve essere visto anche come fattore che subisce le influenze politiche del mondo turco.

b) TESETTUR COME CONNOTATO IDEOLOGICO

La regolamentazione dell'abbigliamento in Turchia ha subito una forte evoluzione e regolamentazione per volere di Ataturk che ha fortemente voluto la riforma dell’abbigliamento, attuata tra gli anni 20 e 30 del secolo scorso, generalmente descritta come un insieme di misure finalizzate a rimuovere dallo spazio pubblico i segni distintivi dell'appartenenza a una confessione religiosa - e soprattutto all'Islam -, ma che in realtà svolse la funzione più ampia, costituendo uno dei punti fondamentali del programma kemalista di modernizzazione dello Stato.

Secondo Ataturk il Paese doveva rigenerarsi e rifondarsi in una nuova comunità politica moderna, abbandonando il vecchio cammino, in quanto solo così la Turchia poteva prendersi il posto che gli spettava all'interno della Famiglia degli Stati civilizzati.

Oltre alla Turchia, anche i singoli cittadini dovevano essere nuovi, ed è per questo che il giornalista Mustafa Akyol parla ironicamente di “Homo Kemalicus”, un soggetto che appariva moderno e civile perché spogliato di quegli emblemi che anche se non appartenenti in senso stretto alla tradizionale musulmana, erano visti come segni distintivi di una cultura “altra” rispetto a quella dell'Occidente.

Mustafa Kemal Atatürk aveva come costante preoccupazione quella di far apparire la Turchia e la sua popolazione come “civilizzata” agli occhi degli Stati moderni (addirittura parlava di non mettere in ridicolo la nazione con atteggiamenti barbari) ed è per questo che il generale vedeva con preoccupazione al tesettur.

Sono infatti state formulate su questa linea norme come

legge sul cappello (l. 25 novembre 1925): imponeva ai membri della Grande assemblea Nazionale, ai funzionari e agli impiegati dello Stato e delle amministrazioni provinciali e di ogni altra istituzione e in generale a tutta la popolazione turca, di portare il cappello.

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decreto del 2 settembre 1925: imponeva a tutti gli impiegati a servizio dello Stato ( eccetto membri dell'esercito e della marina, degli ulema e della magistratura) di indossare vestiti “comuni a tutti i popoli civilizzati dell'universo”

divieto dell'uso del fez: non perché questo fosse un vero e proprio simbolo islamico( in quanto nell'ultimo secolo di vita dall'impero Ottomano questo fu portato da tutta la popolazione maschile senza distinzione di religione), ma perché tale era visto dagli occidentali come segno evidente del carattere orientale della nazione turca.

limitazioni al tesettur: anche se il tesettur era fonte di molta preoccupazione in Ataturk, questo non fu mai oggetto di divieto legislativamente imposto, ma ciò non perché il velo fosse meno imbarazzante per il generale rispetto al fez, ma soltanto perché Mustafa Kemal ritenendo che le questioni che poneva sarebbero state oggetto di forti opposizioni, non le portava neanche in parlamento, ma si limitava a farle oggetto di conferenze, interviste e dibattiti, in modo da guadagnare così il sostegno del popolo, e così avvenne anche per la questione del velo (e, a giudicare dalle affollatissime manifestazioni di piazza odierne svoltesi in Turchia in nome del principio di laicità, c'è riuscito benissimo).

c) PROPAGANDA

La propaganda a favore della donna svelata aveva come basi quella tesi secondo cui lo status della donna anatolica prima della convenzione all'Islam, era di tipo egalitario e fu perciò il contatto con le culture persiane e bizantine prodottosi con l'espansione dell'impero ottomano a produrre il crearsi delle pratiche del tesettur e della divisione dei sessi. Così facendo, perciò, Ataturk sosteneva che la riforma dell'abbigliamento, in realtà, non faceva altro che recuperare l'antico passato del popolo turco.

Così il simbolo della Turchia laica divenne la donna svelata, al contempo salvata dal fondamentalismo islamico e salvatrice in quanto chiamata a dare il proprio personale contributo alla causa della modernizzazione. Tuttavia il tesettur non scomparve mai del tutto, ma rimase confinato negli ambienti più tradizionalisti e nelle aree rurali.

La svolta si ebbe negli anni '80, quando questo uso varcò questi limiti e cominciò a diffondersi nei centri urbani e le studentesse universitarie tornarono ad indossare il velo, dismesso dalle loro nonne e madri.

Questi eventi scossero molto gli animi dei seguaci di Ataturk, che vedevano nelle “Figlie della Repubblica” le donne istruite, quelle che più di tutti dovevano essere consapevoli dei diritti di cui godevano e che non gli sarebbero stati garantiti all'interno di una società islamicamente orientata.

Analizzando la questione secondo gli sviluppi che si sono avuti negli anni '80, si nota che la

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questione del velo è considerata in maniera diversa dai sostenitori del tesettur, secondo cui il velo è un obbligo imposto dai precetti islamici e, perciò una manifestazione della identità religiosa, ed il Partito laico, che distingue tra:

basortusu, copricapo tradizionale delle donne anatoliche costituito da un foulard che si annota sotto il mento e non copre completamente i capelli, di cui non si contesta la legittimità, e

turban, che copre interamente collo e capelli e lascia scoperto solo l'ovale del viso e si allaccia dietro la nuca, che invece viene considerato come simbolo dell'Islam politico.

(L'arrivo al potere di Refah Partisi avrebbe poi politicizzato il dibattito sul tesettur, contestandolo e accusandolo di poter mettere in pericolo la pace sociale, e perciò andando contro al principio di laicità.)

Si vede perciò che il richiamo all'ideologia kermalista non deve essere visto come un mero rimando alla retorica, ma un vero e proprio rimando ai principi costituzionali. Infatti, nel preambolo della Costituzione, viene dichiarata l’illegittimità di “qualsiasi attività contraria ai valori morali e storici della Repubblica o al nazionalismo, ai principi, alle riforme ed al modernismo di Ataturk”

Oltre che da questi sviluppi ideologici, la pratica del tesettur è stata influenzata anche da fattori più pragmatici, come la ridefinizione degli equilibri di potere all'interno dello Stato turco.

La questione del velo è stata al centro di una evoluzione molto combattuta:

22 luglio 1981: il Consiglio dei Ministri adotta un regolamento sull'abbigliamento nelle istituzioni dell'educazione superiore, che obbliga a portare un abbigliamento semplice e moderno funzionari ed impiegati pubblici e personale scolastico e studenti, prevedendo inoltre che le donne della pubblica amministrazione, così come le studentesse, non indossino il tradizionale velo all'interno dei locali adibiti all'educazione.

20 dicembre 1982: il Consiglio dell'Istruzione superiore ribadisce il concetto, emanando una circolare vieta il velo nelle aule di lezione (divieto che due anni dopo, nel dicembre 1984, viene giustificato dalla Corte Suprema Amministrativa).

1988: il Governo, con a capo il Partito della Madrepatria, approva un emendamento alla l.2547/1981 sull'istruzione superiore, che permetteva di coprirsi il capo ed il collo per motivi religiosi all'interno degli istituti superiori e nei locali annessi.

7 marzo 1989: la Corte Costituzionale dichiara incostituzionale questo emendamento, perché contrario ai principi di laicità, ordine pubblico e sicurezza.

1990: caso “Leyla Sahin c. Turquie”: entrò in vigore un secondo emendamento alla l.2547 che stabiliva che “a condizione di non essere in contrasto con le leggi in vigore,

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l'abbigliamento era libero negli istituti di istruzione superiore”, la cui costituzionalità fu confermata nel 1991, stabilendo che con l'espressione “leggi in vigore”, la legge volesse includere anche la Costituzione ( e che perciò questo non includesse il diritto di portare il velo, perché già dichiarato incostituzionale del 1989).

16 gennaio 1998: la Corte Costituzionale dichiara disciolto il partito di maggioranza Refah Partisi, pur avendo questo regolarmente vinto le elezioni legislative del 1995.

In seguito agli eventi degli anni '90, il divieto del tesettur fu applicato con sempre maggiore rigore sia dentro che fuori dagli istituti universitari, andando a colpire quelle studentesse che fino ad allora avevano potuto godere di una relativa libertà in ambito all'uso del velo. Nel febbraio 1998 è stata emanata poi una circolare contenente le istruzioni per l’ammissione degli studenti con barba o copricapo islamico, dopo che la Corte Costituzionale si era pronunciata nel 1994 a favore delle limitazioni al tesettur, dichiarandole costituzionali.

d) FONDAMENTO DELL' OBBLIGO DEL VELO

L'obbligo del tesettur non trova un espresso fondamento in un qualsiasi tipo di fonte, in quanto:

Corano: parla della pratica del velo in due versetti: “E dì alle credenti che abbassino lo sguardo e custodiscano le loro vergogne e non mostrino troppo le loro parti belle...e si coprano i seni di un velo e non mostrino le loro parti belle altro che ai loro mariti, ai loro padri...”( Corano XXIV, 31) e poi “ O profeta, dì alle tue figlie e alle donne dei credenti che si ricoprano dei loro mantelli...” (corano XXXIII, 59).

Tuttavia qui si vede come il testo sacro non faccia altro che imporre alle donne( ma anche agli uomini) un atteggiamento pudico ed un generico velo, senza peraltro prevedere alcuna sanzione in caso di trasgressione dell'obbligo.

Fonti di produzione del diritto islamico: in quanto alla Sunnah non si fa nessun riferimento specifico al velo che copre i volto delle donne.

La vaghezza delle prescrizioni coraniche ha perciò portato al moltiplicarsi di tradizioni diverse all'interno del mondo islamico, in modo che a oggi succede che si abbiano una pluralità di veli e di discipline (es. in Iran la violazione dell'obbligo di portare il velo porta sanzioni durissime, mentre in Egitto l'ordinamento si pone in maniera indifferente). Mentre l'obbligo del velo non ha un fondamento, l'ordinamento turco, invece, offre al principio di laicità espressa previsione.

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11. IL PRINCIPIO DI LAICITÀ SUL PIANO EUROPEO

La questione del velo, tuttavia, non interessa solo i singoli ordinamenti nazionali ma riguarda anche la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, che si è trovata a pronunciarsi in ambito alle questioni turche più di una volta. Per quanto riguarda il velo, le sentenze “Senay Karaduman Vs Turchia” e “Leyla Sahin Vs Turchia”, vengono a contestare la legittimità dei fatti accaduti in Turchia alla luce dell'art. 9 CEDU.

a) ART. 9 CEDU: LIBERTA' DI RELIGIONE

Tutti hanno diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include anche la libertà di mutare la propria religione o il proprio credo, nonché la libertà di manifestare, insegnare, praticare e osservare la propria religione o credo da solo o in comunità, di riunirsi con gli altri in pubblico o in privato.

La libertà di manifestare la propria religione o credo è soggetta solo alle limitazioni prescritte dalla legge e che sono necessarie in una società democratica, all’interesse della sicurezza pubblica, alla protezione dell’ordine pubblico, della salute, della morale o per la tutela dei diritti e delle libertà altrui.

Vi sono tre elementi distintivi:

Libertà di coscienza: costituisce la premessa stessa della libertà di religione e implica l'impegno dello Stato a non proporre ulteriori limitazioni alla libertà religiosa oltre a quelle espresse direttamente dalla Carta CEDU, nella seconda parte dell'art. 9 (sicurezza pubblica e protezione delle libertà altrui, cioè le misure che si dicono necessarie in una società democratica). In via generale, però la Corte ha sempre riconosciuto l'ampia autonomia dello Stato nel valutare la necessità o meno di restrizioni del diritto, limitandosi a analizzare la mera adeguatezza delle motivazioni fornite ai fini della adozione della misura restrittiva.

Libertà di pensiero: libertà di ogni individuo da ogni restrizione ad opera dello Stato.

Libertà di religione: libertà di culto, di insegnamento delle tradizioni e delle pratiche religiose, tra cui l’abbigliamento religioso. La Corte, però, dà una interpretazione prettamente restrittiva delle pratiche religiose, dimostrandosi generosa per quanto riguarda quelle pratiche meramente formali (ad esempio le pratiche connesse al ramadan come la macellazione rituale, le preghiere, etc.), ma molto severa per quanto riguarda le pratiche vere e proprie (ad esempio il giudice dell'esercito turco non può richiamare la libertà di pratiche religiose per partecipare a riunioni di una setta il cui programma mette a repentaglio la laicità dello Stato (Kalac v. Turchia, 1997).

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b) CASO SENAY KARADUMAN v. Turchia

Tale caso è il segno che la CEDU fin dal 1993 garantisce la vitalità del modello laico comune, applicandolo alla questione di due studentesse turche che volevano veder apparire sul proprio certificato di diploma la loro foto con il foulard.

Fatto: La ricorrente, Senay Karaduman, studentessa presso la Facoltà di Farmacia di Ankara, completati gli studi universitari richiede al Dipartimento di facoltà il rilascio del certificato attestante la licenza, fornendo una foto di identificazione in cui indossa il velo.

Il Preside, il 28 luglio 1988, rifiuta di rilasciare il certificato adducendo che il documento di identità non rispettava il regolamento disciplinare dell'università e la circolare del 1982 del Consiglio Superiore di istruzione superiore, ma rimanendo pronto a rilasciarlo nel caso in cui la studentessa avesse prodotto una foto che rispettasse i regolamenti suddetti. Il 19 settembre 1988, la Karaduman allora si rivolge al Tribunale Amministrativo di Ankara impugnando la decisione del preside, adducendo, come motivazione del ricorso, la violazione di:

diritto alla libertà di religione

diritto alla libera manifestazione della religione

garantiti dalla Costituzione turca, nonché dall'art. 9 CEDU.

Il Tribunale amministrativo di primo grado respinge il ricorso adducendo:

in primo luogo che le regole sul vestiario che gli studenti devono portare valgono anche per le foto apposte sul diploma

in secondo luogo che la circolare del 1982 del Consiglio superiore dell'istruzione superiore stabilisce che gli studenti universitari devono indossare, nei luoghi universitari, abiti stirati, puliti e semplici, non devono portare niente in testa e che, ingenerale, devono essere ben curati.

Tenuto conto di questi regolamenti e accertato che la ricorrente aveva presentato una foto col velo che incorniciava il volto, il giudice rigetta il ricorso, invitando la ricorrente a riprodurre una foto di identificazione coerente col comportamento prescritto.

Il 25 dicembre 1989 la ricorrente si rifà al Consiglio di Stato impugnando la sentenza del Tribunale Amministrativo, denunciando la violazione del suo diritto di libertà religiosa e chiama a giustificazione della sua tesi il fatto che la foto velata è normalmente ammessa nei generici documenti di identificazione ( passaporto, documento d'identità, patente).

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La difesa dell'amministrazione invece si basa sulla circolare del 1982.

Il Consiglio di Stato, con decisione del 16 ottobre 1989, accoglie la decisione del Tribunale Amministrativo, appoggiata da tutta la precedente giurisprudenza, adducendo che la Karaduman non ha rispettato le norme sull'abbigliamento, anche se si ha la opinione dissenziente di due consiglieri che lamentano l'assenza nella regolamentazione sull'abbigliamento di una specifica disposizione sulla foto da apporre al diploma.

(Nel frattempo, la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale la legge che autorizzava l'uso del velo negli istituti superiore sulla base del fatto che era stato violato il principio di laicità)

Allora la Karaduman si rifà alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, lamentando la violazione di:

a) ART. 9 CEDU = a causa del rifiuto da parte del Rettore questa è rimasta sprovvista del diploma per due anni.

b) ART. 14 CEDU = in virtù del fatto che l' Autorità amministrativa pone in essere misure discriminatorie tra studenti di nazionalità straniera e quelli di nazionalità turca, sostenendo che i cittadini stranieri godono di una piena libertà di vestire nelle università turche, mentre gli studenti turchi sono sottoposti a subire peraltro anche una violazione della loro libertà di religione.

GOVERNO:

stabilisce che le norme del regolamento sull'abbigliamento da tenere nelle università non impediscono il godimento della libertà di religione, ma tali siano conformi con l'art. 9 CEDU, chiamando a sua difesa la sentenza della Corte Costituzionale del 7 marzo 1989.

KARDUMAN:

sostiene che l'atto di coprire il capo con un velo fa parte dei riti e delle pratiche previste dalla religione e perciò impedire l'uso del velo significa andare contro l'art. 9. Sostiene, inoltre che l'università non può chiamare a giustificazione del suo rifiuto il principio di laicità, in quanto tale principio vincola lo Stato, ma non l'individuo che, in quanto tale, rimane comunque libero di professare qualsiasi credo.

Tuttavia la Corte si è già pronunciata su fatti attenenti l'esercizio del proprio credo e non sempre ne ha giustificato le pratiche ex art. 9 CEDU, perciò resta da chiarire se in questo caso il governo abbia o meno violato la libertà di religione.

COMMISSIONE:

ha stabilito che

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la disciplina della foto, anche se non direttamente riguardante le norme che regolano la vita quotidiana dell'università, serve a conservarne la natura laica e repubblicana;

scegliendo di compiere i suoi studi universitari in un’università laica, uno studente decide altresì di sottomettersi ad un preciso regolamento universitario, peraltro volto a garantire la convivenza di studenti di credenze diverse.

la ricorrente non sottolinea il fatto di esser stata obbligata durante i suoi studi a rispettare contro la sua volontà il regolamento concernente il vestiario.

non rileva nessuna ingerenza nel diritto garantito dall’art. 9 della convenzione

e trova che l’affermare la violazione di questo diritto sia manifestamente infondata ai sensi dell’art. 27.

c) CASO LEYLA SAHIN v. TURCHIA

Leyla Sahin all'epoca degli eventi, nel 1998, è una studentessa iscritta alla facoltà di medicina dell'Università di Istanbul, è praticante musulmana e porta il velo. In seguito a una circolare del vice Rettore dell'Università che vieta agli studenti che si presentano in aula con il velo o con un qualsiasi copricapo la frequenza alle lezioni, alla Sahin viene impedito di sostenere alcuni esami scritti e di iscriversi a un corso. Il giudice amministrativo cui ricorre la Sahin statuisce per la assoluta legittimità della circolare emanata dalle autorità universitarie poiché il potere di regolamentare il vestiario degli studenti, in nome della garanzia dell'ordine pubblico, spetta all'organo esecutivo dell'Università che deve esercitarlo alla luce della legislazione e della giurisprudenza della Corte costituzionale e delle giurisdizioni amministrative. Nel frattempo la Sahin fu oggetto di procedura disciplinare assieme ad altri studenti, conclusasi con la sospensione per un semestre dall'Università.

La sentenza CEDU, perciò, interviene in una situazione già risolta in concreto, dal momento che la Sahin si era nel frattempo trasferita a Vienna e aveva conseguito la laurea in medicina.

I giudici di Strasburgo pongono la questione sul piano istituzionale, come conflitto tra potere giudiziario e legislativo, in quanto ci si chiede se l'interferenza nel godimento della libertà religiosa subita dalla Sahin fosse o meno una limitazione prevista dalla legge per finalità legittime.

Il caso Leyla Sahin è il primo in cui sia stato fatto presente che il divieto di portare il velo non era sancito dalla legge. L'art. 9 CEDU stabilisce espressamente che le limitazioni al diritto di manifestare liberamente la propria religione o il proprio credo possono essere oggetto solamente di restrizioni stabilite dalla legge: vi è stata quindi una violazione della libertà religiosa tutelata dalla CEDU.

Tuttavia il caso risulta controverso: la Corte di Strasburgo, prendendo in considerazione 29

l'espressione “stabilite dalla legge”, sostiene che la misura contestata deve:

avere una base nel diritto interno

essere accessibile a tutte le persone interessate

avere una formulazione abbastanza precisa, in modo da consentire ai soggetti interessati di prevedere le conseguenze che possono derivare da una determinata condotta.

La circolare dell'università che vietava di portare il velo all'interno del campus era conosciuta dalla ricorrente e conteneva disposizioni chiare in ambito alle conseguenze della sua inosservanza.

La ricorrente, davanti alle affermazioni della Corte, ha obiettato che:

la circolare universitaria contrastava con l’art.17 della l. 2547/1981 sull’istruzione superiore che non vieta espressamente l’uso del foulard.

non c’era nessuna disposizione legislativa suscettibile di costituire la base per la circolare.

I Giudici di Strasburgo hanno allora sottolineato come l'accezione “legge” deve essere intesa nel suo significato più ampio, comprendente anche il diritto elaborato dai giudici, i quali, con la sentenza costituzionale del 1991( Karaduman v. Turchia), avevano chiarito la portata della norma invocata da Leyla Sahin, escludendo che questa comportasse la possibilità di portare il velo. È infatti sulla base della sentenza di costituzionalità che la CEDU ha respinto l'eccezione invocata dal ricorrente di lacuna legislativa, e ha inoltre stabilito che nel caso non c'era stata violazione della CEDU, in quanto

l'interpretazione della legge data dalla Corte Costituzionale era chiara e precisa

Leyla Sahin, nel momento in cui si è iscritta a quella Università, era a conoscenza della regolamentazione interna

E' da osservare come da questo momento in poi (dalla questione sul caso Leyla Sahin) i più accaniti sostenitori del principio di laicità come cardine della società turca, che si caratterizzano anche come accaniti sostenitori del principio di sovranità nazionale, hanno chiuso una volta per tutte il discorso sul velo, richiamando l'auctoritas della CEDU.

Inoltre i giudici di Strasburgo si chiedono se la misura presa dallo Stato turco sia stata una “misura necessaria in una società democratica”, mettendo in evidenza la concezione turca del principio di laicità come elemento fondante dell'identità nazionale.

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Importante risulta sottolineare che con il caso Sahin c. Turchia, la CEDU affronta per la prima volta in modo diretto la delicata questione della libertà religiosa in uno Stato parte della Convenzione, socialmente islamico e candidato all'adesione all'UE.

Sulla questione la ricorrente fa valere in primis il carattere strettamente individuale della propria scelta; sostiene che non è stata guidata da nessun intento politico o finalità di proselitismo.

La posizione del governo turco è rigida: non sola la laicità è un principio fondamentale della moderna democrazia, ma i fattori specifici della società turca le attribuiscano un ruolo centrale rispetto a quello che il principio stesso gioca nelle democrazie liberali: solo la ferma applicazione di tal principio ha permesso alla Turchia di essere l'unico Paese islamico ad aver adottato una democrazia di tipo occidentale e la protezione di tale forma di Stato costituisce inoltre “un prerequisito essenziale” per l'applicazione della CEDU in Turchia.

In questo quadro, il velo delle donne nei pubblici istituti costituisce di per sé una sorta di fronte avanzato della guerra condotta dai movimenti fondamentalisti contro lo Stato laico e contro i diritti delle donne; ciò a prescindere dalle intenzioni della Sahin.

Il cuore del ragionamento turco è perciò il seguente: la richiesta di riconoscimento giuridico del diritto di portare il velo nei istituti pubblici equivale a richiedere per una religione un privilegio destinato ad avere una serie di ricadute su una molteplicità di situazioni.

Considerazioni finali: la Corte per un verso richiama la necessità di lasciare ampio spazio alla valutazione delle autorità locali, maggiormente in grado rispetto alla Corte stessa di valutare necessità e condizioni locali, e dall'altro accoglie nel merito l'argomentazione del governo turco, secondo cui il divieto mira a proteggere le donne che non intendono portare il velo.

Così facendo la Grande Camera mantiene fermo l'impianto della pronuncia precedente, limitandoci a ribadire ed articolare più puntualmente i passaggi; soprattutto, i giudici si impegnano ad inquadrare la pronuncia intervenuta nel 2004 in una linea di sviluppo omogeneo del pensiero della Corte, emergente da tutte le più celebri sentenze della Corte aventi ad oggetto l'art. 9 CEDU, come i casi Dahlab, Karaduman e Refah Partisi, Kokkinakis e Manoussakis.

La Grande Camera ribadisce in sostanza che, in assenza di una concezione uniforme del significato della religione nella società europea, essa dipenderà dagli accordi che, a seconda del tempo e del contesto particolare di ogni caso, andranno a regolare le questioni.

Opinione dissenziente del Giudice Tolkens: Il dissenso rispetto all’opinione espressa dalla maggioranza della Corte da parte del giudice Tolkens riguarda la mancata spiegazione, da parte della Turchia, del come e in quali termini lo specifico comportamento della signorina Sahin, ispirato alla pietas religiosa, violasse l'altrui diritto connesso con la libertà religiosa: la Corte avrebbe fallito nell'individuare in che cosa l'attività religiosa di Leyla Saghin andasse contro l'uguaglianza dei sessi e la parità religiosa. L’opinione dissenziente richiama quindi la necessità che ogni limitazione ai

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diritti di libera pratica religiosa sanciti dall'art. 9 venga valutata nella logica del singolo caso, e non sulla base del richiamo operato in astratto dallo Stato ad una ipotesi di deroga.

Vi sono però dei punti oscuri: la decisione non ha risolto a pieno la questione. La Corte, in particolare, non ha voluto misurarsi col problema fondamentale, cioè il fatto che lo Stato turco assume la pretesa di considerare la laicità come una sorta di metaprincipio giuridico,di parametro.

Tale problema, vien infatti affrontato dal giudice Trokler che accusa il governo turco di non aver fornito elementi circa il caso singolo e la Corte di non aver fondato il suo giudizio su tale mancanza.

Vi è peraltro da chiedersi se non sia lo stesso ordinamento costituzionale turco a stabilire un carattere rigidamente sovraordinato al principio di laicità rispetto a quello di libertà religiosa: è come dire che vi è una difficoltà obiettiva nell'applicazione del diritto di libertà religiosa ex art. 9

12. LA RIFORMA COSTITUZIONALE TURCA DEL 2008

Riguardo alle ultime modifiche legislative in materia di velo, il 9 febbraio 2008 la Grande Assemblea Nazionale della Turchia ha detto si all’emendamento costituzionale, voluto dalle forze politiche islamicamente orientate, volto a permettere la pratica del velo nelle università. Emendamento che si è tramutato nella legge di modifica costituzionale n. 5735 del 22 febbraio 2008, firmata dal Presidente della Repubblica Abdullah Gül ed entrata in vigore con la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale il giorno successivo.

Il contenuto della riforma è essenzialmente questo:

aggiungere una clausola all'art. 10 cost. in virtù della quale gli organi dello Stato e gli uffici amministrativi devono rispettare il principio di uguaglianza davanti alla legge in tutti i procedimenti e nell'uso di ogni tipo di servizio pubblico

aggiungere un comma all'art. 42 cost. secondo il quale nessuno può essere privato del diritto all'istruzione superiore per motivi che non siano espressamente stabiliti da legge.

Le opinioni davanti alla riforma si sono divise tra quelli che vedono nel programma del governo un progetto di re islamizzazione della società, e quelli che vi identificano un importante passo in avanti verso il consolidamento della democrazia, ponendo così fine alla discriminazione verso le studentesse universitarie che portano il velo ripristinando il loro diritto all'istruzione superiore.

Le vicende che hanno portato all'approvazione della legge cost. n.5735 non hanno avuto un eco solamente nazionale, ma sono state seguite con particolare attenzione anche sul piano internazionale, dagli altri governi nazionali, ma in particolare dall'UE che non ha assunto a riguardo un atteggiamento univoco. Infatti si registrano posizioni differenti tra Comitato del Parlamento Europeo per gli Affari Esteri (chiamata a pronunciarsi rispetto ai progressi compiuti dalla Turchia in

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vista dell'adesione all'UE) e quelle espresse dal Presidente della Commissione Europea Barroso.

Dal Parlamento europeo sono stati proposti emendamenti ( il n. 91 e il n. 101) che valutano negativamente la riforma costituzionale, anche se alla fine nessuno dei due è poi passato. Ad ogni modo l'atteggiamento di silenzio in cui si è posto il Parlamento europeo non fa altro che confermare l'atteggiamento di censura assunta da quegli eurodeputati.

Barroso, all'interno del suo discorso pronunciato davanti alla Grande Assemblea Nazionale durante la visita in Turchia, dopo aver affermato che la Commissione europea davanti alla questione del velo non si sarebbe pronunciata, aggiunge “l'unico principio cruciale che è essenziale difendere è la tolleranza di ognuno per le opinioni dell'altro (in questo caso la libera scelta di ogni donna), quali che siano le credenze”, ponendosi così a sostegno della legge di modifica costituzionale.

Le prese di posizione e le relative argomentazioni mosse sul piano internazionale non fanno che ricalcare le critiche che si registravano sul piano nazionale: in Turchia, infatti, gli argomenti che adducevano coloro che si vedevano contrari alla riforma erano:

timore di un indebolimento del principio di laicità (e conseguente timore della Trasformazione della Turchia in uno Stato Islamico), a cui si contrappone la necessità di rafforzamento del sistema democratico, mediante una più solida garanzia dei diritti umani

timore di discriminazione, in quanto si teme che le musulmane che non portassero il velo laddove tale pratica venisse liberalizzata, potrebbero essere soggette a pressioni. A questo timore si contrappone il diritto di ogni donna di manifestare liberamente la propria appartenenza religiosa, senza essere discriminata in ambito scolastico.

Se ci si sofferma ad esaminare attentamente le formule usate, si nota che l'emendamento non parla in nessun punto del velo. Infatti, la modifica all’art. 10 estende l'obbligo per gli organi dello Stato e gli uffici amministrativi di rispettare il principio di uguaglianza nell'uso di ogni tipo di servizio pubblico ( perciò anche nel servizio educativo), mentre quella all’art. 42 vieta che si possa privare alcuno del diritto all'istruzione superiore per motivi che non siano chiaramente espressi da legge.

In virtù di questa ultima clausola, è emersa la tesi secondo cui lo scopo di questa riforma è non solo garantire il diritto delle studentesse di indossare il velo nelle università, ma anche riaffermare il primato della legge.

Si denunciano infatti le continue ingerenze della Corte Costituzionale nel normale funzionamento legislativo e nella vita dei partiti; funzioni che spettano al Parlamento: soltanto disposizioni legislative possono porre in essere restrizioni alle condotte legate al libero esercizio dei diritti fondamentali dell'uomo, e nel far questo non deve essere condizionato dalle ingerenze dei giudici.

L'approvazione e l'esito della modifica costituzionale sono stati accompagnati da un lungo dibattito volto a sminuire la portata ideologica della riforma, sottolineandone invece, a opera

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prevalentemente dei partiti della Giustizia e dello Sviluppo e del Movimento Nazionalista, come tale modifica guardasse prevalentemente ai giudici: si chiarisce infatti che l'emendamento proposto mirava solo ad autorizzare il basortusu, lasciando fermo il divieto per il turban.

Per tutta risposta, il 5 giugno 2008, la Corte Costituzionale turca ha dichiarato incostituzionale l’emendamento in questione, ripristinando il divieto in vigore precedentemente. L’Akp ha reagito in modo forte alla decisione della Corte, sostenendo che essa agisce come se fosse il Parlamento, e così facendo va contro ai principi della democrazia e della sovranità nazionale. Tuttavia la decisione della Corte, benché più “politica” che “legale, risponde a quell’esigenza di protezione del carattere secolare e laico della Repubblica turca che tanto premeva al fondatore Ataturk, e che riveste un ruolo fondamentale rispetto al futuro ingresso della Turchia nell’Unione Europea.

13. L’ISTRUZIONE IN TURCHIA

L'“educazione religiosa e dell’etica” in Turchia è regolamentata dalle seguenti fonti legislative:

l’articolo 24 della Costituzione (che enuncia la libertà di religione e di coscienza), 4° comma: “l’educazione e l’istruzione in religione ed etica deve essere condotta sotto il controllo e la supervisione dello Stato. L’istruzione in cultura religiosa ed educazione etica deve essere obbligatoria nei programmi delle scuole primarie e secondarie. Educazione ed istruzione di altre religioni dovrà essere soggetto del proprio desiderio individuale, o in caso di minori, di richiesta dei loro rappresentanti legali.”

in linea più generale dal 3° comma dell'articolo 42 della Costituzione, il quale sancisce che l'educazione deve essere condotta svengono condotte sotto la secondo le linee dei principi e delle riforme di Ataturk, sulla base della scienza contemporanea e dei moderni metodi di educazione e sotto il controllo dello Stato.

dalla sezione 12 della Legge 1739 in materia di istruzione nazionale, la quale prevede che il secolarismo deve essere la base dell'educazione nazionale turca, e riafferma che la cultura religiosa ed etica deve essere materia insegnata nelle scuole primarie e secondarie ed in scuole di livello equivalente.

Nonostante la nozione di “cultura religiosa”, che dovrebbe essere in senso generale lo studio di molte religioni, però l'insegnamento della religione è maggioritario di una religione unica, ovvero quella islamica sunnita. Ciò è dimostrato anche dal programma di studio dei due gradi di educazione: per l'impartizione della materia sono applicati libri di testo (per le classi 4°, 5°,6°,7°,8°, ovvero i due gradi di educazione obbligatori, ma anche per il 9°, cioè il primo anno della scuola superiore) autorizzati dal Ministero dell'Istruzione.

Il libro del

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4° anno tratta della vita del profeta Maometto.

5° anno insegna i concetti fondamentali dell'Islam.

6° anno tratta delle preghiere dei musulmani

7°anno enfatizza la conoscenza del Corano (inoltre in 15 pagine sono presentate le religioni principali: Giudaismo, Cristianesimo, Islam,Buddhismo ed Indusimo.

8° anno discute dell'elevata moralità del profeta Maometto,ma tratta anche di temi quali il secolarismo e la libertà religiosa.

9° anno è quello che più si può definire dedicato alla cultura religiosa in senso generale, in quanto tratta della natura umana e del suo approccio alla religione, definisce i significati di monoteismo, politeismo, gnosticismo agnosticismo ed ateismo. Tratta i concetti di Stato secolare, e dell'Islam in Turchia sotto un contesto storico,e delle altre religioni presenti sul territorio statale.

Dai libri si evince che gli studenti devono imparare a memoria molti versetti del corano.

a) CASO HASAN AND EYLEM ZENGIN V. TURKEY

Nel 2001, il cittadino turco Hasan Zengin fece la richiesta alla Direzione della Pubblica Istruzione e dinanzi ai giudici amministrativi che sua figlia, Eylem Zengin, alunna della settima classe della scuola di Stato Avcilar ad Istanbul ed, ai sensi dell'articolo 24 della Costituzione turca e alla sezione 12 della Legge fondamentale di no. 1739 in materia di istruzione nazionale, obbligata a frequentare le lezioni di cultura religiosa ed etica, fosse esonerata da tali lezioni, sottolineando il fatto che lei e la sua famiglia erano seguaci dell'Alevismo, un ramo dell'Islam che ha radici profonde nella società turca (e rappresenta una delle religioni più diffuse in Turchia) ma che rifiuta la Sharia e la Sunna, e difende la libertà di religione, la democrazia, il modernismo, l'universalismo la tolleranza ed il secolarismo, e la cui preghiera non coincide con quella del rito sunnita.

Il padre sosteneva che in virtù della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, i genitori avevano il diritto di scegliere il tipo di educazione che volevano dare ai figli, e che il corso di cultura religiosa ed etica fosse incompatibile con il principio di laicità e con il principio di secolarismo, in quanto era essenzialmente basato sulla dottrina dell'islam sunnita. Però le sue richieste furono respinte, anche in sede di impugnazione dinanzi alla Corte amministrativa suprema in una sentenza del 5 agosto 2003, che sosteneva che il corso di cultura religiosa ed etica era in conformità con la Costituzione e la legislazione turca.

Il caso passò alla Corte Europea dei diritti dell'Uomo; i ricorrenti sostenevano che la maniera in cui era impartita la cultura religiosa ed etica in Turchia ledeva il diritto di garantire l'educazione dei

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figli in conformità delle proprie convinzioni religiose, quindi gli articoli 2 (diritto all'istruzione) e 9 (libertà di pensiero, coscienza e religione) della Carta dei Diritti, poiché il corso mancava di obiettività e rivolgeva l'attenzione principalmente all'interpretazione sunnita della fede islamica, e forniva solo informazioni generali delle altre religioni.

La Corte stabilì che i piani di studio per l'insegnamento nelle scuole primarie e al primo ciclo della scuola secondaria e dei libri di testo in questione davano maggiore priorità alla conoscenza dell'Islam che a quella di altre religioni e filosofie; i libri di testo infatti davano una panoramica generale delle religioni, che non potevano soddisfare i criteri di obiettività e pluralismo necessari nell'istruzione in una società democratica, ma fornivano insegnamenti nello specifico riguardo la fede musulmana (compresi i suoi riti culturali, come la professione di fede, le cinque preghiere quotidiane, il Ramadan , il pellegrinaggio, i concetti di angeli e creature invisibili e fede nel mondo) e gli studenti non ricevevano insegnamenti di egual specificità su altre confessioni, e nello specifico della fede Alevi vi erano informazioni solo nel libro di testo del 9° anno (ovvero dell'ultimo livello di istruzione), che non bastavano per rispettare le convinzioni religiose dei ricorrenti.

In secondo luogo, la Corte stabilì che per l'assenza di un testo chiaro in cui vi fosse enunciata la procedura per la richiesta dell'esonero dei figli dalla lezione di cultura religiosa, le autorità scolastiche avessero avuto il potere di rifiutare qualsiasi richiesta di esenzione, così come era accaduto per la parte ricorrente, e che i figli dei genitori di una convinzione religiosa o filosofica diversa da quella dell'islam sunnita avrebbero dovuto rivelare le loro convinzioni religiose per tentare la procedura di esenzione.

Di conseguenza, la Corte concluse che vi era stata una violazione dell'articolo 2 del Protocollo n. 1. in materia di Istruzione (ma non dell'Articolo 9).Tale violazione era dovuta ad una mancanza di metodi adeguati per assicurare il rispetto delle convinzioni dei genitori, e che portando il sistema educativo turco in conformità dell'art 2 protocollo 1 vi sarebbe stata una forma adeguata di compensazione.

14. CONCLUSIONI

In questa seppur rapida disamina delle modalità con cui viene affrontato il concetto di laicità in Francia ed in Turchia, è possibile evidenziare alcuni punti chiave, che mostrano le differenze e le somiglianze tra questi due sistemi, entrambi orientati con forza verso il principio di laicità.

In Francia lo Stato laico, nasce inizialmente come risposta e negazione del precedente concetto di “potere” dell’ancien regime, in cui il sovrano riceveva da Dio la sua legittimazione a regnare. Si vuole un potere che guardi all’individuo unicamente per le sue necessità secolari e terrene, senza badare alla confessione di questo. Per queste ragioni si va verso una laicità “negativa”, con

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l’accezione di neutralità religiosa dello spazio pubblico, che soltanto dopo un lungo processo di evoluzione, sembra stia diventando oggi, con Sarkozy più attenta alla tutela del diritto alla libertà religiosa del singolo. In Turchia la laicità nasce invece con ben altre ragioni. L’idea di Ataturk è tutta orientata a utilizzare la laicità per produrre un rapido e radicale cambiamento all’interno della società turca, così da spingerla a sentirsi unita e compartecipe del concetto di Nazione, senza divisioni dovute a ragioni religiose. In Turchia la laicità è vista come il caposaldo di tutto il sistema socio-politico, ed è questa la ragione per cui con tanta costanza la Corte Costituzionale turca si rifiuta di permettere cambiamenti o anche ammorbidimenti in questa materia. Troppo è il rischio di vedere il ritorno del confessionismo musulmano di Stato, e mandare in fumo il lavoro di quasi cento anni. Mentre in Francia il concetto di “laicità dello Stato” è bene o male ormai assodato, accettato e compreso dalla società, così non è in Turchia, dove ancora molte forze, in primis il partito di governo e il premier Erdogan, sono a favore di un ritorno dell’Islam come religione di Stato. Sia Turchia che Francia hanno fatto l’importante scelta di inserire esplicitamente nelle loro Costituzioni il principio di laicità e quello di secolarità dell’ordinamento. In quella turca in particolare questi principi sono richiamati in modo quasi ossessivo, mettendo in luce quanta importanza gli sia riservata, e quanto poco spazio vi sia per modifiche a questo tipo di ordinamento.

Interessante è notare come, mentre in Francia non vi sia obbligo, a nessun livello, di seguire l’istruzione delle materie religiose all’interno della scuola, in Turchia sia invece sancita in Costituzione l’obbligatorietà dell’ora di religione ed etica per gli studenti delle scuole primarie e secondarie. Riesce difficile comprendere la ragione per cui sia stata inserita in Costituzione una norma simile, alla luce di tutti gli altri articoli che sembrano andare esattamente nel senso opposto. Questo soprattutto considerato che questa ora di “religione ed etica” viene in realtà utilizzata per il solo insegnamento dell’Islam sunnita.

È forse questa l’unica “pecca” del rigidissimo sistema laico turco.

Bibliografia Francia:

- www.statoechiese.it/images/stories/2008.9/Cavana_laicit.pdf

- www.statoechiese.it/images/stories/2008.7/darienzo_la_laicitm.pdf

- www.oliri.it/areetematiche/74/documets/Ivaldi_velo.pdf

- www.olir.it/areetematiche/74/documets/Acanfora_Franci.pdf

- Articolo di Giampiero Martinotti

Bibliografia Turchia:

- http://www.olir.it/areetematiche/233/index.php?documento=470437

- http://www.olir.it/areetematiche/233/index.php

- http://www.olir.it/ricerca/?type_search=simple&Form_search_submitter=karaduman&x=0&y=0

- http://it.wikipedia.org/wiki/Turchia

- http://www.turchia.net/turchia/governo.htm

- http://www.statoechiese.it/index.php?option=com_content&task=view&id=179&Itemid=40

- Quaderni di Diritto e Politica Ecclesiastica, “Brevi considerazioni sul principio di laicità in Turchia alla luce dei recenti sviluppi” di Rosella Bottoni (n. 2, agosto 2008, pag. 431 a 447)

- Diritto, Immigrazione e Cittadinanza ( fascicolo 2, 2007)“Il volto conteso: velo islamico e diritto internazionale dei diritti umani” di Lauso Zagato

- Guida al Diritto, il sole 24 ore, 2004

- Diritti dell'uomo, cronache e battaglie, “L'interdizione del velo islamico in Turchia”(n.4, 2006)

- Diritto dell'Unione Europea, 2006

- Rivista di Studi politici internazionali, 2007

- Quaderni Costituzionali (n. 1, 2006 e 2007)

- Fenotipi della laicità costituzionale in Turchia, di StefanoTesta Bappenheim

- Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, “la Turquie et les dimensions internationales de la liberté religieuse” di Emre Öktem

- http://www.olir.it/ricerca/getdocumentopdf.php?Form_object_id=1153

- Aspetti della libertà religiosa in Turchia, di Matteo Pegoraro

- Sentenza della Corte Europea Dei Diritti: Hasan and Eylem Zengin v. Turkey

- http://www.flcgil.it/notizie/news/2009/ottobre/l_insegnamento_della_religione_in_europa 

INDICE:1. Premesse sul concetto di laicità.

2. Origine e sviluppi della laicità in Francia.

3. Interventi legislativi in materia di istruzione calati nell’evoluzione del principio di laicità.

a) Le deux blocs laics du 1882 et 1886.

b) Lois de separation du 1905.

c) Costitutiones.

d) Lois d’ebrè du 1959.

4. Interventi legislativi e giudiziari in material di velo.

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a) Avis del Conseil d’Etat, circolari e giurisprudenza successiva.

b) Legge 228/2004 (c.d. legge anti-velo).

5. Laicità positiva di Sarkozy.

6. Recenti sviluppi in materia di laicità.

7. Cenni storici sull’evoluzione del concetto di laicità in Turchia.

8. La Costituzione del 1982

9. Lo scioglimento del partito politico turco Refah Partisi.

10. Il velo islamico in Turchia.

a) Il fenomeno del Tesettur.

b) Il tesettur come connotato ideologico.

c) Propaganda.

d) Il fondamento dell’obbligo del velo.

11. Il principio di laicità sul piano europeo.

a) Articolo 9 CEDU sulla libertà di religione.

b) Caso Senay Karaduman v. Turchia.

c) Caso Leyla Sahin v. Turchia.

12. La riforma costituzionale turca del 2008.

13. L’istruzione in Turchia.

14. Caso Hasan e Eylem Zegin v. Turchia.

15. Conclusioni.

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