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http://www.filosofico.net/tommaso105.htm Tommaso a cura di Diego Fusaro Al centro della novità costituita dall'ingresso delle opere filosofiche greche nel mondo latino e dei susseguenti conflitti sulla loro compatibilità con la fede cristiana, Tommaso d'Aquino prende decisamente posizione a favore di Aristotele, sviluppando anzitutto una precisa distinzione di piani tra discorso filosofico e discorso teologico. Entrambi prendono a proprio oggetto le ultime realtà, ma lo fanno con punti di partenza differenti: il primo quella della ragione naturale, il secondo quello della rivelazione di Dio. Solo il discorso teologico raggiunge dunque il fine soprannaturale dell'uomo, ma quello filosofico risulta non solo pienamente giustificato, ma anche indispensabile: l'esistenza di Dio è per esempio dimostrabile razionalmente, e solo con questa premessa la teologia cristiana può cominciare a muovere i suoi passi. Quest'ultima ha del resto un carattere pienamente scientifico in quanto al suo interno rispetta i criteri dell'argomentazione logica quanto qualsiasi altra scienza. L'originalità della metafisica di Tommaso discende in gran parte dall'integrazione creativa di tratti neoplatonici nel quadro aristotelico di fondo. L'elemento risultante che verrà dai posteri ritenuto più caratteristico è la distinzione reale tra essere ed essenza: l'“essenza” di ogni cosa, in quanto contingente, significa una semplice possibilità, che si realizza solo quando si esprime in un “atto di essere”. Questa distinzione costituisce anche il punto di partenza per dimostrare l'esistenza di Dio e la creazione del mondo: essendo contraddittorio affermare che una cosa conferisce l'essere a sé stessa e non potendosi andare all'infinito, bisogna ammettere che all'origine ci sia lo “stesso essere sussistente”, qualcosa cioè

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Page 1: :// · Web viewQuesto è un realismo metodico" (5). Le ricerche di Gilson porteranno ad una complessiva revisione della maggior parte dei manuali di filosofia scolastica circolanti

http://www.filosofico.net/tommaso105.htm

Tommaso a cura di Diego Fusaro

Al centro della novità costituita dall'ingresso delle opere filosofiche greche nel mondo latino e dei susseguenti conflitti sulla loro compatibilità con la fede cristiana, Tommaso d'Aquino prende decisamente posizione a favore di Aristotele, sviluppando anzitutto una precisa distinzione di piani tra discorso filosofico e discorso teologico.

Entrambi prendono a proprio oggetto le ultime realtà, ma lo fanno con punti di partenza differenti: il primo quella della ragione naturale, il secondo quello della rivelazione di Dio.

Solo il discorso teologico raggiunge dunque il fine soprannaturale dell'uomo, ma quello filosofico risulta non solo pienamente giustificato, ma anche indispensabile: l'esistenza di Dio è per esempio dimostrabile razionalmente, e solo con questa premessa la teologia cristiana può cominciare a muovere i suoi passi.

Quest'ultima ha del resto un carattere pienamente scientifico in quanto al suo interno rispetta i criteri dell'argomentazione logica quanto qualsiasi altra scienza.

L'originalità della metafisica di Tommaso discende in gran parte dall'integrazione creativa di tratti neoplatonici nel quadro aristotelico di fondo. L'elemento risultante che verrà dai posteri ritenuto più caratteristico è la distinzione reale tra essere ed essenza: l'“essenza” di ogni cosa, in quanto contingente, significa una semplice possibilità, che si realizza solo quando si esprime in un “atto di essere”.

Questa distinzione costituisce anche il punto di partenza per dimostrare l'esistenza di Dio e la creazione del mondo: essendo contraddittorio affermare che una cosa conferisce l'essere a sé stessa e non potendosi andare all'infinito, bisogna ammettere che all'origine ci sia lo “stesso essere sussistente”, qualcosa cioè in cui essere ed essenza non sono distinti, che va chiamato “Dio”.

Una valutazione profondamente positiva della realtà creata emerge dalla teoria dei trascendentali, che mostra che ogni cosa che esiste possiede, in quanto esistente, le caratteristiche dell'unità, della verità, della bontà, della bellezza, che le vengono partecipate da Dio.

La psicologia e la morale applicano tale sguardo positivo alla realtà umana. Riguardo all'anima, in polemica con gli agostiniani, Tommaso ritiene che essa ha il potere naturale

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di conoscere la realtà e non ha dunque bisogno di una continua illuminazione da parte di Dio.

Riguardo alla morale viene rivendicato il valore di un'etica naturale, che non è annullata dalla constatazione che il fine della perfetta beatitudine a cui aspira l'uomo non può essere raggiunto con le sole forze naturali.

Nella valutazione dell'atto umano Tommaso accoglie fin dove gli era possibile le coraggiose proposte di Abelardo, che assegnavano un ruolo determinante all'intenzione con la quale si agisce: per questo l'uomo ha sempre il dovere di agire seguendo la propria coscienza, e contemporaneamente il dovere di conoscere sempre meglio che cosa è veramente bene.

Armonia tra ragione e fede

Uno dei tratti più caratteristici del pensiero di Tommaso d'Aquino è senza dubbio il tentativo di armonizzare, nella loro reciproca autonomia, filosofia e teologia.

Per Tommaso il problema si poneva in maniera molto forte: la sostanziale accettazione della filosofia aristotelica, che pareva a prima vista conciliabile con molta difficoltà con il pensiero cristiano, poteva suscitare l'impressione di una subordinazione della rivelazione al pensiero razionale (come sembrava essere avvenuto nella filosofia araba di Averroè [1126-1198].

Bisogna quindi anzitutto mostrare che oltre le scienze filosofiche è necessaria all'uomo un'altra dottrina, superiore per valore alle scienze filosofiche e certa quanto esse.

La necessità della teologia è fondata da Tommaso sulla necessità della rivelazione stessa: dato che l'uomo è diretto per la sua natura ad un fine che eccede le sue capacità naturali (un tema che diverrà più chiaro parlando della morale), per la salvezza dell'uomo è necessaria una rivelazione divina.

La dottrina basata sulla rivelazione non va però confusa con la teologia razionale: quest'ultima prende a proprio oggetto Dio così come egli può essere conosciuto alla sola luce della ragione (come per esempio aveva fatto Aristotele), la teologia rivelata così come egli ha voluto rivelare sé stesso.

In questo modo è assicurata anche l'autonomia della speculazione puramente razionale: tutt'altro che essere esautorata, essa diviene invece la premessa (il preambulum) della teologia, presentando le verità cui l'uomo può giungere con le sue sole forze, che attendono poi completamento dalla rivelazione.

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Esistenza di Dio

“Un caso tipico è costituito dall'esistenza di Dio: Il fatto che dio esista, e altre cose di questo tipo che tramite la ragione naturale possono essere note su dio, come viene detto in Rom. 1,19, non sono articoli [= princìpi] di fede, ma premesse agli articoli: infatti la fede presuppone la conoscenza, così come la grazia presuppone la natura, e come la perfezione presuppone ciò che può essere reso perfetto. Tuttavia nulla proibisce che ciò che di per sé è dimostrabile e conoscibile venga accettato come credibile da qualcuno che non capisce la dimostrazione” (Somma teologica 1, q2a2ad1).

L'ultima annotazione significa questo: l'esistenza di Dio è per esempio una verità razionale, e quindi può essere “conosciuta”; ma chi non ne capisce la dimostrazione potrà semplicemente “credervi”, per esempio fidandosi di chi gli assicura che essa è corretta (se così non fosse la fede cristiana sarebbe accessibile solo al filosofo!).

Ma la teologia in sé (o “sacra dottrina”, come preferisce chiamarla Tommaso) può essere definita “scienza”? Ecco per intero la discussione del problema:

“Per il secondo articolo si procede così: sembra che la sacra dottrina non sia una scienza. Infatti ogni scienza procede da princìpi noti per sé. Ma la sacra dottrina procede dagli articoli di fede, che non sono noti per sé, non essendo ammessi da tutti: la fede infatti non è di tutti, come si dice in 2Tess. 3,2. Dunque la sacra dottrina non è una scienza. Inoltre, la scienza non riguarda le cose singolari. Ma la sacra dottrina tratta di cose singolari, per esempio delle gesta di Abramo, Isacco e Giacobbe, e simili. Dunque la sacra dottrina non è una scienza. Ma contro c'è ciò che dice Agostino in De Trinitate 14,7: “A questa scienza si attribuisce solo ciò tramite cui la fede che dà la salvezza viene generata, nutrita, difesa, rafforzata”. Ma ciò non appartiene a nessuna scienza se non alla sacra dottrina. Dunque la sacra dottrina è una scienza.

Rispondo dicendo che la sacra dottrina è una scienza. Ma bisogna sapere che ci sono due generi di scienze. Infatti alcune sono quelle che procedono da princìpi noti alla luce naturale dell'intelletto, come l'aritmetica, la geometria e le scienze di questo tipo. Altre invece sono quelle che procedono da princìpi noti alla luce di una scienza superiore: come la prospettiva procede da princìpi resi noti dalla geometria, e la musica da princìpi noti tramite la matematica. E in questo modo la sacra dottrina è una scienza, perché procede da princìpi noti alla luce di una scienza superiore, vale a dire la scienza che posseggono dio e i beati. Quindi, come la musica crede ai princìpi trasmessile dal matematico, così la sacra dottrina crede ai princìpi rivelatile da dio. Alla prima obiezione dunque bisogna dire che i princìpi di qualsiasi scienza o sono noti per sé, o si riconducono alla notizia di una

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scienza superiore. E tali sono i princìpi della sacra dottrina, come è stato detto. Alla seconda bisogna dire che le cose singolari vengono trasmesse nella sacra dottrina non perché si tratti principalmente di essi: ma vengono introdotti sia come esempio di vita, come nelle scienze morali; sia anche per rendere chiara l'autorità degli uomini tramite cui giunse a noi la rivelazione divina, sulla quale si fonda la sacra Scrittura ovvero la sacra dottrina” (Somma teologica 1, q1a2).“

In sintesi: la teologia trae i suoi princìpi da una “scienza” superiore, che è la conoscenza che Dio ha di sé stesso (e che posseggono per quanto possibile anche coloro che sono giunti alla beatitudine eterna); e come il musicista si fida delle informazioni che il matematico gli dà riguardo alla sua scienza, così il teologo (come ogni altro credente) si fida delle notizie che Dio ha dato di sé stesso rivelandosi.

Ma il carattere scientifico della teologia è assicurato dal suo metodo razionale e argomentato, che permette di ricavare conclusioni logiche da premesse di fede e anche di ragione. Ciò non significa per Tommaso (come s'intenderà più tardi) che la teologia sia esclusivamente una scientia conclusionum, una scienza cioè che non fa altro che tirare conseguenze da princìpi indiscutibili: anche nei confronti dei princìpi di fede la ragione ha infatti il compito di mostrare che essi sono credibili.

Ciò può essere fatto in due modi: o evidenziando l'autorità del rivelante, o dimostrando che i princìpi rivelati non solo non sono contrari alla ragione, ma anzi si trovano intimamente d'accordo con essa.

La fede non è infatti concepita come qualcosa di irrazionale e privato, ma l'atto tramite cui accettiamo come vero sulla base di buoni motivi qualcosa rivelato da qualcuno.

Questo è il senso anche delle molte dimostrazioni di “convenienza”: delle opere di Dio non è possibile mostrare la necessità (ciò significherebbe negare la libertà di Dio); si può però, a posteriori, comprendere che sono coerenti con la sua natura.

“Un esempio tipico tra i molti possibili è la discussione sull'incarnazione di Dio: La stessa natura di dio è la bontà. ... Quindi qualsiasi cosa appartenga al carattere del bene è conveniente a dio. Ma appartiene al carattere del bene che si comunichi ad altri. ... Quindi al carattere del sommo bene appartiene che si comunichi alla creatura nel modo più alto. Ciò in verità avviene per il fatto che “congiunge a sé la natura creata di modo che venga una sola persona da tre elementi, verbo, anima e carne”, come dice Agostino in De Trinitate 13,17. Dunque è chiaro che fu conveniente che dio si sia incarnato” (Somma teologica 3, q1a1c).

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Bisogna inoltre notare che Tommaso, nonostante affermi che l'unico scopo dei fatti “singolari” è servire o da esempio morale o da prova dell'autorità, non può rimanere fedele a quest'assunto di origine aristotelica. Una parte importante della Somma Teologica è infatti dedicata a Cristo: alla sua persona, alla sua vita, alla sua passione, morte e resurrezione, tutti aspetti o fatti singolari per eccellenza. È evidente allora che, malgrado le affermazioni di principio contrarie, la teologia di Tommaso non può rinunciare a quel fatto del tutto unico e particolare che è costituito dal compimento della salvezza nella storia. In questo modo la fede cristiana, eminentemente storica, rivendica i suoi diritti, costringendo Tommaso a trasgredire tacitamente le regole della scientificità della cultura del suo tempo.

Filosofia e teologia

Riassumendo, in Tommaso la ragione svolge un triplice compito a servizio della teologia:

1) dimostra le premesse che permettono l'accoglienza dei princìpi di fede;

2) mostra la “credibilità”, cioè in ultima analisi la coerenza, dei princìpi di fede;

3) offre il metodo argomentativo tramite cui dedurre dalle premesse razionali e dai princìpi di fede ulteriori verità.

Nel seguito toccheremo quasi esclusivamente gli aspetti più originali della filosofia di Tommaso che, proprio per le ragioni dette, è facilmente separabile dalle discussioni teologiche.

Si noterà tuttavia che si tratta di una separazione che ha un carattere provvisorio: la filosofia è infatti secondo Tommaso capace di comprendere i propri stessi limiti, e dunque di attendere un completamento da una scienza guidata da una luce superiore alla ragione naturale. Inoltre, il ruolo chiarificatore che la ragione assume nei confronti degli articoli di fede fa sì che molte delle discussioni filosoficamente più interessanti si trovino in un contesto propriamente teologico.

La metafisica

Nelle sue linee generali, la metafisica di Tommaso si presenta come un'intenzionale ripresa di Aristotele, le cui opere proprio in quell'epoca cominciavano a circolare nella loro interezza nel mondo culturale di lingua latina. L'aristotelismo di Tommaso d'Aquino è tuttavia fortemente impregnato di elementi neoplatonici, desunti da varie fonti (Porfirio [232-304], Proclo [410-485], Dionigi l'Areopagita [5º secolo], ibn Sînâ ovvero Avicenna [980-1037]).

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L'influenza neoplatonica si può rilevare anzitutto nella maggiore sottolineatura della distinzione tra gli enti sensibili e quelli puramente intellegibili, distinzione che in Aristotele veniva attenuata dall'identificazione dell'ousía con la “forma”.

Secondo Tommaso ciò è pienamente vero solo nel caso degli enti privi di materia (detti “sostanze separate” e identificati con gli angeli), la cui natura o essentia (questa è l'originaria traduzione latina di ousía) è solo forma; ma nel caso degli enti necessariamente possedenti materia (le “sostanze composte”, per esempio l'uomo), l'essentia è il composto di forma e materia.

Tale precisazione di sapore neoplatonico in Tommaso sembra però ottenere un risultato contrario a quello originario: non una svalutazione delle sostanze composte, ma piuttosto una maggiore stima della corporeità. Affermare che la materia fa parte dell'essenza significa infatti sostenere per esempio che la perfezione dell'uomo include necessariamente anche la corporeità (donde la giustificazione razionale dell'articolo di fede sulla resurrezione della carne).

Parimenti influenzata dal neoplatonismo è la diversa concezione dell'essenza. Mentre in Aristotele l'ousía e il tí én éinai (l'“essere-per-ciascuna-cosa”) erano anzitutto singolari, in Tommaso l'essentia (o quidditas) è universale, e viene così ad avvicinarsi alla nozione logica di éidos, cioè di specie. Da qui nasce un problema che in Aristotele non poteva porsi: vale a dire il problema dell'individuazione.

Se l'essentia è universale, ma la realtà è del resto solo singolare (in questo Tommaso accetta integralmente la critica d'Aristotele a Platone), che cosa conferisce l'individualità alla singola cosa?

Sfruttando un'osservazione marginale di Aristotele e seguendo Avicenna, Tommaso risponde che si tratta della materia:

“Il principio di individuazione è la materia. Da ciò sembrerebbe seguire che l'essenza, che comprende in sé la materia e assieme la forma, sia soltanto particolare e non universale. ... E dunque bisogna sapere che non la materia comunque intesa è principio d'individuazione, ma solo la materia determinata (materia signata). E dico materia determinata quella che viene considerata sotto certe dimensioni. ... Nella definizione dell'uomo viene posta la materia non determinata: infatti nella definizione dell'uomo non si pone questa carne e queste ossa, ma carne e ossa in assoluto, che sono la materia non determinata dell'uomo (Sull'ente 2,6). Nel caso dell'uomo dunque, non è l'anima in quanto tale che conferisce individualità (l'anima è forma), ma solo in quanto fatta per unirsi ad un corpo (“la moltiplicazione delle anime è secondo la moltiplicazione dei corpi”), Somma

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teologica 1, q72a2ad2).

Diverso è il caso degli angeli: non avendo essi materia, l'individualità sarà necessariamente data dalla forma, che dunque sarà diversa per ogni angelo e si identificherà con lui. È comunque solo l'ente pienamente individuato che può ricevere il nome di “sostanza” (traduzione del greco hypóstasis), indicante ciò che sussiste realmente e autonomamente. In questo mutamento di prospettiva c'è anche una importante conseguenza di carattere gnoseologico.

Con l'affermazione dell'universalità dell'essenza Tommaso riesce infatti ad aggirare una difficoltà della filosofia aristotelica, nascente dalla giustapposizione tra l'individualità della realtà e l'universalità della scienza: in quale modo la scienza può allora avere una sua verità?

In Tommaso il problema è risolto perché l'universale non è solo un prodotto dell'astrazione dell'intelletto (universale post rem), ma è anche realmente presente nella singola cosa (universale in re), anzi la precede pure (neoplatonicamente) nella mente di Dio, che possiede i modelli esemplari di tutte le cose create (universale ante rem, ovvero ideae). Questa era già la soluzione che aveva dato al problema degli universali Pietro Abelardo. La scienza dunque è valida anzitutto perché non si basa solo su generalizzazioni (in quanto tali fallibili), ma sulla capacità che l'intelletto possiede di riconoscere l'universale incarnato nelle singole cose. La totale assenza di materia negli angeli (sostenuta in polemica con il contemporaneo Bonaventura [1221-1274], che vedeva in essi la presenza di una “materia spirituale”) pone di fronte ad un ulteriore problema. Affermare che essi sono forme pure non equivale forse a designarli come “atti puri”, eguali quindi a Dio stesso?

Tommaso evita questa conseguenza con la dottrina della distinzione reale tra esse ed essentia:

“Qualsiasi cosa non faccia parte della comprensione dell'essenza o quiddità, le viene dall'esterno ed entra in composizione con l'essenza, perché nessuna essenza potrebbe essere compresa senza ciò che fa parte dell'essenza. Ma ogni essenza o quiddità può essere compresa senza che si comprenda alcunché del suo essere di fatto (de esse suo facto). Posso infatti comprendere che cos'è l'uomo o la fenice, e tuttavia ignorare se abbiano essere nella natura reale (an esse habeant in rerum natura). Dunque è evidente che l'essere è altro dall'essenza o quiddità” (Sull'ente 5,3).

Ciò significa che le cose di cui abbiamo esperienza sono contingenti, non posseggono cioè in sé stesse nulla che richieda necessariamente la loro esistenza. Anche nell'angelo,

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liberamente creato da Dio, c'è dunque una tale composizione tra essere ed essenza, che impedisce di considerarlo un essere assolutamente “semplice”.

Fin qui, Tommaso segue sostanzialmente l'opinione che era già stata di Guglielmo di Alvernia (1190-1249).

Il passo ulteriore è invece più originale. Come più chiaramente viene detto in testi successivi al Sull'ente e l'essenza, la relazione tra essenza ed essere va chiarita con l'aiuto dei concetti aristotelici di potenza e atto:

“Nelle cose materiali si trova una duplice composizione. La prima è quella di forma e materia, dalle quali viene costituita una certa natura [ovvero essenza]. Ma la natura così composta non è il suo essere, ma piuttosto l'essere è il suo atto. Dunque la stessa natura è in rapporto con il suo essere come una potenza con un atto. Dunque, eliminata la materia, e posto che la stessa forma sussista senza materia, rimane ancora il rapporto della forma con lo stesso essere, come della potenza con l'atto. E questa composizione bisogna intenderla negli angeli” (Somma teologica 1, q50a2ad3).

Quindi, i termini potenza e atto possono indicare due cose distinte: o la materia in rapporto alla forma (questo è il significato aristotelico), o l'essenza (materia più forma o forma pura) in rapporto all'essere.

Quest'ultimo andrà quindi definito “l'attualità di tutti gli atti” -- per questo viene spesso chiamato anche actus essendi -- e costituisce l'autentico vertice della conoscenza metafisica. In questo modo Tommaso integra all'interno della metafisica aristotelica la tendenza neoplatonica a considerare l'“essere” come un qualcosa dotato di una sua autonomia (non solo concettuale, ma reale) rispetto a tutte le possibili determinazioni degli enti.

La distinzione di Tommaso tra essere ed essenza, per quanto non venga presentata con molta enfasi da lui stesso, venne presto ritenuta il tratto più caratteristico del suo pensiero, e come tale vivacemente contestata o difesa, per lo più sotto la forma della coppia concettuale essentia / existentia (un termine quest'ultimo poco amato da Tommaso). Tale distinzione ha così costituito un punto di riferimento fondamentale per pressoché tutte le filosofie posteriori, fino all'esistenzialismo contemporaneo.

I trascendentali

Un'importanza particolare ha nella metafisica di Tommaso d'Aquino la teoria dei “trascendentali” (come saranno in realtà solo più tardi chiamati), sostanzialmente originale

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rispetto ad Aristotele (ma in parte ripresa da Alessandro di Hales [1185-1245]).

I trascendentali sono gli attributi generalissimi che riguardano l'ente in quanto tale. Essi quindi oltrepassano, “trascendono” le categorie (o “predicamenti”), che dividono invece l'ente in differenti generi (altro è la sostanza, altro la quantità, e così via).

La distinzione tra i trascendentali non è quindi reale, ma solo di ragione (e infatti “convertuntur”, dice Tommaso); proprio per questo però essi aiutano a comprendere la ricchezza di un termine -- “ente” -- che altrimenti rischierebbe di rimanere vago e indeterminato. Il passo più completo sui trascendentali si trova nella prima questione Sulla verità, che opera una precisa deduzione dei caratteri dell'ente:

“Alcune cose vengono dette aggiunte all'ente per il fatto che esprimono un modo dell'ente stesso che non viene espresso dal nome “ente”.

Ciò accade in due maniere: nella prima cosicché il modo espresso è un qualche modo speciale dell'ente [= categorie]. ... Nella seconda cosicché il modo espresso sia un modo generale che consegue ad ogni ente; e questo modo può essere inteso in due maniere: nella prima in quanto consegue a qualsiasi ente in sé; nella seconda in quanto consegue ad un ente in rapporto ad un altro. Se è nella prima maniera, ciò avviene in due maniere, perché esprime nell'ente qualcosa o affermativamente o negativamente. E non si trova nulla che sia detto affermativamente in modo assoluto, che possa essere inteso in ogni ente, se non la sua essenza, secondo la quale si dice che esso è; e così viene assegnato il nome “cosa”, che differisce da “ente”, secondo ciò che dice Avicenna all'inizio della Metafisica, perché “ente” viene tratto dall'atto di essere, ma il nome “cosa” esprime la quiddità o essenza dell'ente. E la negazione che consegue ad ogni ente in maniera assoluta è la non divisione, che viene espressa dal nome “uno”: infatti l'uno non è nient'altro che l'ente indiviso. E se il modo dell'ente viene inteso nel secondo modo, cioè secondo il rapporto di una cosa all'altra, ciò può avvenire in due maniere. Nella prima secondo la divisione di un ente dall'altro, che viene espressa dal nome “qualcosa”: infatti si dice “qualcosa” come se si dicesse “un'altra cosa”; dunque come l'ente viene detto “uno” in quanto è in sé non diviso, così viene detto “qualcosa” in quanto è diviso dagli altri.

Nella seconda maniera secondo l'accordo di un ente con un altro; e ciò però non può avvenire se non si prende qualcosa che possa per natura accordarsi con ogni ente: e ciò è l'anima, che è in un certo senso tutte le cose, come viene detto nel terzo libro Sull'anima. Ma nell'anima c'è una facoltà conoscitiva e desiderativa. Dunque l'accordo dell'ente con il desiderio viene espresso dal nome “buono”, così come all'inizio dell'Etica [Nicomachea] si

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dice che il buono è ciò che tutti desiderano. E l'accordo dell'ente con l'intelletto viene espresso dal nome “vero” (Sulla verità q1a1c).

I sei trascendentali dell’essere

In conclusione, sei sono (contando anche ens) le nozioni trascendentali: ens, res, unum, aliquid, verum, bonum. Ciò significa che ogni ente (cioè ogni cosa che ha essere) è una cosa in quanto determinato (cioè in quanto ha un'essenza), è un'unità in quanto identico a sé (come già esplicitamente rilevava Aristotele), è un qualcosa in quanto distinto dagli altri enti, è vero in quanto conoscibile, è buono in quanto desiderabile. Questo in sintesi lo schema del ragionamento di Tommaso: attributi speciali (praedicamenta) attributi generali (trascendentia) conseguono all'ente in sé affermativamente (res) negativamente (unum [indivisio]) conseguono all'ente in rapporto ad altro secondo la divisione di un ente da un altro (aliquid [aliud quid]) secondo l'accordo di un ente con un altro con l'intelletto (verum) con il desiderio (bonum)

Qualche osservazione aggiuntiva.

La prima riguarda il verum. Il fatto che esso sia un trascendentale dell'ente non significa che la verità sia una proprietà più delle cose che dell'intelletto: Tommaso tiene infatti ferma la nozione aristotelica di verità come corrispondenza soggettiva tra la mente umana e la realtà. Piuttosto, ogni cosa ha già, in quanto possiede essere ed essenza, una naturale predisposizione ad essere conosciuta. La definizione di verità come adaequatio rei et intellectus, che rimarrà classica nei secoli, intende tener conto sia dell'aspetto soggettivo, che è primario, sia di quello oggettivo, che è derivato.

La seconda notazione riguarda il trascendentale bonum. Esso suppone la tesi della “irrealtà” del male, che viene ripresa dal neoplatonismo: il male è soltanto la mancanza di bene, cioè di essere, e più precisamente di un essere dovuto: la cecità è un male per l'uomo, ma non per l'albero.

L'ultima osservazione riguarda il pulchrum, “bello”.

Esso riceve discreta attenzione, ma non viene incluso nella lista dei trascendentali in quanto sostanzialmente omologato al verum.

Tommaso interpreta infatti l'esperienza estetica come il piacere che si accompagna

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spontaneamente alla percezione della verità: Il bello e il buono in un soggetto sono lo stesso, perché si fondano sulla stessa cosa, cioè sulla forma: e per questo il buono viene lodato come bello. Ma differiscono per il carattere. Infatti il buono propriamente riguarda il desiderio: infatti il buono è ciò che tutti desiderano. E perciò ha il carattere di fine: infatti il desiderio è quasi un certo movimento verso una cosa.

“Il bello invece riguarda la facoltà conoscitiva: vengono dette infatti belle quelle cose che piacciono quando sono viste. Dunque il bello consiste in una debita proporzione, perché il senso prova diletto nelle cose debitamente proporzionate, come in cose simili a sé; infatti anche il senso è una certa ragione, come ogni virtù conoscitiva. E giacché la conoscenza avviene per assimilazione, e la somiglianza riguarda la forma, il bello propriamente riguarda il carattere della causa formale” (Somma teologica 1, q5a4ad1).

La dottrina dei trascendentali acquista anche un immediato rilievo dal punto di vista conoscitivo. Seguendo Avicenna, Tommaso afferma ripetutamente che l'ens è il primo oggetto dell'intelletto. Quest'affermazione non è contrapposta all'altra (di origine aristotelica) secondo cui l'oggetto proprio dell'intelletto umano è costituito dalla quidditas rei materialis, ma ne costituisce piuttosto la base: ogni essenza può essere conosciuta infatti solo in quanto esistente, e ogni concetto si formerà dunque “per addizione” rispetto alla nozione trascendentale di ente.

In questo modo viene affermata l'originaria e immediata consonanza della mente umana con la totalità della realtà, quantunque originariamente colta solo nella sua assoluta generalità (a questo proposito egli parla di esse commune). In questo modo è possibile fondare anche, in modo più rigoroso di quanto aveva fatto Aristotele, la supremazia del primo principio dell'intelletto, il principio di non contraddizione.

Esso infatti è la diretta traduzione in un giudizio del trascendentale unum, così come in campo morale è il trascendentale bonum a costituire la premessa per il primo principio pratico:

“Nelle cose che cadono sotto l'apprensione di tutti, si trova un certo ordine. Infatti ciò che cade per primo sotto l'apprensione è l'ente, la cui comprensione è inclusa in tutte le cose che uno conosce.

E dunque il primo principio indimostrabile è che è impossibile contemporaneamente affermare e negare, che si fonda sul carattere dell'ente e del non ente; e su questo principio si fondano tutti gli altri. Ma come l'ente è la prima cosa che cade sotto l'apprensione in assoluto, così il bene è la prima cosa che cade sotto l'apprensione della ragione pratica, che è ordinata all'azione: tutto ciò che agisce infatti agisce per un fine, che

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ha il carattere di bene.

E dunque il primo principio nella ragione pratica è quello che si fonda sul carattere del bene, che è: il bene è ciò che tutti desiderano. Questo è dunque il primo precetto della legge: il bene dev'essere fatto e cercato, il male evitato.

E su di esso si fondano tutti gli altri precetti della legge di natura: in modo che cioè facciano parte dei precetti della legge di natura tutte le cose da fare o da evitare che la ragione pratica conosce essere beni umani” (Somma teologica 2/1, q94a2c).

È difficile sopravvalutare l'importanza di questa dottrina. Con essa infatti sembra giungere alla propria meta l'originaria intenzione di Aristotele, quella di costruire una scienza dell'“ente in quanto ente”. La successiva storia della filosofia in gran parte seguirà questa intuizione di Tommaso, e già Giovanni Duns Scoto (1266-1308) definirà la metafisica scientia transcendens (una definizione questa che, seppure in una prospettiva diversa, giungerà fino a Kant).

In maniera simile a quanto avveniva in Aristotele, lo studio dell'ente in quanto tale culmina per Tommaso nella teoria dell'ente sommo, ovvero nella teologia: Tutto ciò che compete a qualcosa o è causato dai princìpi della sua natura, come la capacità di ridere nell'uomo, o viene da qualche principio esterno, come la luce nell'aria per influenza del sole. Ma non può essere che lo stesso essere sia causato dalla stessa forma o quiddità della cosa (intendo come causa efficiente): perché così una qualche cosa sarebbe causa di sé stessa, il che è impossibile. Dunque è necessario che ogni cosa, tale che il suo essere è diverso dalla sua natura, abbia l'essere da un altro. E poiché tutto ciò che è tramite un altro si riconduce a ciò che è per sé come alla causa prima, dunque è necessario che ci sia qualcosa che sia causa dell'essere per tutte le cose per il fatto che essa è soltanto essere. Altrimenti si andrebbe all'infinito nella cause, giacché ogni cosa che non è soltanto essere ha una causa del suo essere, come s'è detto. È chiaro quindi che l'intelligenza [l'angelo] è forma ed essere, e che ha l'essere dal primo essere che è soltanto essere (et quod esse habeat a primo esse quod est esse tantum); e questo è la causa prima, che è dio (Sull'ente 5,4). Perciò, Dio dev'essere indicato come ipsum esse subsistens, come cioè l'unico ente che è l'essere, a differenza di tutti gli altri che hanno l'essere.

Non soltanto egli s'identifica con la sua essenza (come gli angeli), ma anche con il suo stesso essere. In questo modo viene confermato razionalmente il nome che Dio rivela sul roveto ardente: “Così dirai a loro: "Io Sono mi ha mandato a voi"” (Es. 3,14): questo è infatti il nome che può indicare meglio di qualsiasi altro “il mare infinito dell'essere” (che

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però va tenuto chiaramente distinto dall'esse commune, l'essere che possiedono tutte le cose create considerate astraendo dalle loro determinazioni).

Il brano che abbiamo riportato presenta anche la struttura fondamentale della prova dell'esistenza di Dio secondo Tommaso: la stessa esistenza di cose che posseggono un essere soltanto partecipato mostra la necessità di qualcosa che sia originariamente l'essere e dunque causa prima di tutto il resto -- ciò che appunto si indica con la parola “Dio”.

Si noti che questo ragionamento ha una forma induttiva di tipo aristotelico (si parte da ciò che è sott'occhio per giungere al principio primo), ma un punto di partenza niente affatto aristotelico, e cioè la distinzione reale di essenza ed essere nelle cose diverse da Dio.

Breve sintesi

Un articolo celeberrimo della Somma Teologica (I, q2a3) elenca cinque diverse “vie” per dimostrare l'esistenza di Dio, alcune di ispirazione più aristotelica (la prima, la seconda, la quinta), altre di sapore più neoplatonico (la terza e la quarta).

La struttura delle cinque vie è però simile: in tutte infatti si tratta di mostrare come ciò di cui si ha esperienza sarebbe inspiegabile se non si ammettesse un Dio che sta al di fuori del campo dell'esperienza stessa.

Ecco in sintesi i ragionamenti seguiti:

1) il movimento è impossibile se non si ammette un primo motore che non è mosso da nulla;

2) il divenire è impossibile se non si ammette una prima causa efficiente;

3) il contingente o possibile non può essere se non c'è qualcosa che è di per sé necessario (questa via si identifica con la dimostrazione prima considerata);

4) i vari gradi di essere (e anche di verità, di bontà ecc.) sono impossibili se non c'è un ente supremo in riferimento al quale giudicarli;

5) il finalismo della natura, anche inanimata, è impossibile se non c'è un intelletto che la ordina.

Sulle stesse basi Tommaso dimostra razionalmente la creazione, cioè la produzione di tutte le cose “dal nulla” (cioè “non da qualcosa di preesistente”):

“È necessario dire che tutto ciò che è in qualsiasi modo, sia da dio (omne quod

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quocumque modo est, a deo esse). Se infatti qualcosa si trova in un'altra cosa per partecipazione, è necessario che sia causato in essa da ciò a cui conviene essenzialmente (così come il ferro diventa infuocato per opera del fuoco). Ma è stato mostrato ... che dio è lo stesso essere sussistente per sé. E poi è stato mostrato che l'essere sussistente non può essere che uno. ... Resta dunque che tutte le cose altre da dio non siano il loro essere, ma partecipino dell'essere (non sint suum esse, sed participant esse)” (Somma teologica 1, q44a1c).

E ricevere l'essere per partecipazione è proprio ciò che si indica con il termine “creazione” (ciò tuttavia non equivale a negare l'eternità del mondo, una tesi questa che viene confutata solo dalla rivelazione: è il tema dell'opuscolo Sull'eternità del mondo contro i mormoratori).

La nozione platonica di “partecipazione”, assente dalla metafisica di Aristotele, diventa allora centrale in Tommaso: essa indica appunto la condivisione di qualche cosa da parte di chi la possiede originariamente e dunque definisce il rapporto originario tra Dio e le creature. Altrettanto importante è la nozione di “analogia”, che significa non più, come in Aristotele, solo l'uguaglianza di rapporti tra cose diverse (analogia proportionalitatis), ma anche la diversità di rapporti rispetto ad una stessa cosa (analogia attributionis).

In questo secondo senso, l'analogia è una qualifica primaria della nozione di “ente”: l'essere infatti si trova in tutte le cose, ma non nello stesso modo, soprattutto nelle creature e in Dio: le prime “hanno” essere, il secondo “è” essere.

È perciò possibile formulare su Dio affermazioni che, pur limitate, non sono tuttavia false. La stessa cosa si dovrà anzi dire a proposito di tutti gli attributi che si possono dire di lui:

“Alcune cose vengono dette di dio in maniera analoga, e non puramente equivoca, né univoca. Infatti non possiamo nominare dio se non a partire dalle creature. ... E così qualsiasi cosa venga detta di dio e delle creature si dice per il fatto che c'è un qualche ordine della creatura rispetto a dio, come al principio e alla causa in cui preesistono in modo eminente tutte le perfezioni delle cose. E questo modo di comunanza si trova tra la pura equivocità e la semplice univocità. Infatti nelle cose che vengono dette per analogia non c'è una sola relazione (ratio), come in quelle univoche, né una relazione totalmente diversa, come nelle equivoche: ma il nome che così viene detto in molti modi significa diverse proporzioni nei confronti di qualcosa di unico” (Somma teologica 1, q13a5c).

Uno dei più importanti fili conduttori per parlare analogicamente di Dio è costituito per Tommaso dalla teoria dei trascendentali. Se infatti Dio è “ente” nel significato più alto, i trascendentali gli competono per eccellenza: “qualsiasi cosa conviene all'ente in quanto

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ente è necessario che si trovi soprattutto nel primo ente” (Commento a Boezio, Sulla trinità, q1a4ob1).

Si potrà dunque dire che Dio è assolutamente unico (in quanto unum), che racchiude in sé ogni possibile verità (in quanto verum), che è massimamente desiderabile da qualsiasi ente intelligente (in quanto bonum). Cose simili si potrebbero senza dubbio dire per gli altri trascendentali (anche se Tommaso non lo fa esplicitamente): Dio possiede l'essenza più ricca e anzi infinita (in quanto res), è massimamente individuato perché il suo essere coincide con la sua essenza (in quanto aliquid).

Anche in questo modo Tommaso si pone sulla scia di Aristotele, considerando la teologia (razionale) come il coronamento della scienza dell'ente in quanto tale: ma contemporaneamente l'immagine di Dio -- già ad un livello puramente razionale -- muta profondamente: se da una parte c'è un Dio “pensiero di sé stesso” che non può amare il mondo pena la perdita della propria perfetta attualità, dall'altra c'è un Dio che proprio in quanto atto puro partecipa il proprio essere a tutte le creature, come dono dalla propria ricchezza.

Infatti, il fatto stesso che le cose di cui abbiamo esperienza ci sono pur non godendo della coincidenza di essere ed essenza dimostra che il loro essere è ricevuto in dono.

Ciò che si deve dire dell'essere va allora ripetuto per tutti gli altri trascendentali: Dio partecipa l'essenza, l'individualità, l'unità, la verità, la bontà a tutto il creato, che così porta la traccia della sua perfezione.

Per la sua importanza storica, conviene inoltre toccare il problema della potenza di Dio (affrontato con dettaglio nelle questioni Sulla potenza e riassunto nella Somma).

In Dio c'è potenza? Certamente essa non c'è nel senso in cui si oppone all'atto: Dio è infatti atto puro. Tommaso sfrutta però un secondo significato di potenza, che era stato già evidenziato (ma meno usato) da Aristotele: la potenza cioè non come possibilità di essere modificato, ovvero imperfezione (potentia passiva), ma come possesso di un principio di movimento o mutamento, ovvero perfezione (potentia activa). In questo secondo senso Dio non solo è potente, ma anzi onnipotente, essendo perfettissimo. Ma che cosa significa che egli può tutto?

“Dio viene detto onnipotente perché può tutte le cose possibili in assoluto. ... Ma l'essere divino, sul quale si fonda il carattere della potenza divina, è l'essere infinito, non limitato a qualche genere dell'ente, ma recante in sé la perfezione di tutto l'essere. Dunque qualsiasi cosa possa avere il carattere di ente fa parte delle cose possibili in assoluto, rispetto alle

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quali dio viene detto onnipotente. Ma nulla si oppone al carattere di ente, se non il non ente. Esso dunque ripugna al carattere del possibile in assoluto, che è sottomesso alla potenza divina, perché implica in sé l'essere e contemporaneamente il non essere. ... Tutte le cose dunque che non implicano contraddizione fanno parte di quelle cose possibili rispetto alle quali dio viene detto onnipotente” (Somma teologica 1, q25a3c).

Tale precisazione consente a Tommaso d'Aquino di respingere l'opinione secondo cui il mondo creato da Dio sarebbe “il migliore possibile”:

“Quando si dice che Dio può fare qualcosa meglio rispetto a ciò che fa, se “meglio” è un nome, è vero: infatti di qualsiasi cosa può farne un'altra migliore. ... Ma se “meglio” è un avverbio e riguarda il modo da parte di colui che fa, allora Dio non può fare meglio di come fa: perché non può fare con maggiore sapienza e bontà” (Somma teologica, 1, q25a6ad1).

Insomma, lo stesso concetto di “mondo migliore possibile” è contraddittorio, perché di qualsiasi cosa finita è sempre possibile una più perfetta (allo stesso modo, per esempio, è contraddittorio il concetto di “numero maggiore possibile”).

Tuttavia anche in Tommaso, soprattutto nelle opere giovanili, si trovano dichiarazioni di ispirazione neoplatonica (analoghe a quelle che molto più saranno caratteristiche di Leibniz), in cui viene riconosciuto anche al male un ruolo nella bontà complessiva del mondo:

Un universo in cui non ci fosse nulla di male non avrebbe tanta bontà quanta ne ha quest'universo, perché non ci sarebbero in quello tante buone nature quante in questo, in cui ci sono alcune nature buone alle quali non si aggiunge del male, e alcune alle quali si aggiunge: ed è meglio che ci siano entrambi i tipi di nature piuttosto che le prime soltanto (Commento al Libro delle sentenze, 1, d44q1a2ad5).

La facoltà di parlare analogicamente di Dio non toglie che la sua essenza sia assolutamente impossibile da conoscere tramite le facoltà naturali dell'anima umana: questa, che essendo unita al corpo è la forma di una materia, può infatti conoscere solo ciò che le è connaturale: cioè le cose individuate nella materia (tramite i sensi) e le forme universali astratte dalle cose (tramite l'intelletto).

Ma conoscere lo stesso essere sussistente che è Dio è al di sopra delle possibilità naturali di qualsiasi intelletto creato, che possiede l'essere solo per partecipazione.

Dimostrare che Dio c'è (an est) è infatti ben diverso dal sapere che cosa egli sia (quid est). In questo modo Tommaso interpreta l'affermazione del prologo del vangelo di

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Giovanni: “Dio nessuno lo ha mai visto” (1,18), e contemporaneamente valorizza la tradizione della teologia “negativa” o “apofantica” (soprattutto Dionigi l'Areopagita), secondo la quale di Dio si può dire propriamente solo ciò che egli non è.

D'altra parte, l'ignoranza dell'essenza di Dio è l'unico motivo per cui Tommaso contesta Anselmo d'Aosta (1033-1109), che riteneva che l'affermazione dell'esistenza di Dio sia “per sé nota”, cioè immediatamente evidente.

Il difetto di questa opinione non consiste per Tommaso (come spesso poi affermato) in un indebito passaggio dal piano mentale a quello reale (per quanto riguarda Dio è perfettamente lecito dedurre dall'essenza l'esistenza), ma nella supposizione che l'uomo conosca l'essenza di Dio, il che equivale sostanzialmente ad una petitio principii.

Ma dato che così non è, il concetto di Dio come essere sussistente viene formato dall'uomo solo a partire dalle cose contingenti che sono a lui più vicine:

“Questa proposizione: dio esiste, in quanto è in sé, è nota per sé, perché il predicato è identico al soggetto: dio infatti è il suo essere. ... Ma poiché noi non sappiamo di dio che cosa egli sia, per noi non è nota per sé, ma ha bisogno di essere dimostrata tramite le cose che sono più note dal nostro punto di vista e meno note dal punto di vista della natura, vale a dire tramite gli effetti” (Somma teologica 1, q2a1c).

Il risultato finale della metafisica di Tommaso è dunque differente da quello di Aristotele: la domanda sull'essere, che muove la meraviglia dell'uomo, può giungere alla fine solo ad una indicazione, ma non ad una risposta intellettualmente completa. Si potrebbe dire che anche davanti ad una pietra risulta impossibile chiarire fino in fondo che cosa significhi per essa esistere: si potrà sì dire che ciò vuol dire avere l'atto di essere partecipato da colui che è l'essere, ma quale sia l'essenza dello stesso essere rimane ignoto.

La metafisica culmina così in un grande interrogativo, dietro al quale però è già assicurato che non si trova il nulla, ma al contrario la sovrabbondanza di tutte le perfezioni che conosciamo solo imperfettamente e limitatamente e tuttavia desideriamo spontaneamente nella loro totalità.

L’etica

Il problema dell'essere si sposta così dal campo speculativo al campo morale. Come la fisica nel suo complesso, anche la dottrina dell'anima è in Tommaso pressoché interamente ripresa da Aristotele. Alcune correzioni dovevano però essere introdotte per renderla compatibile con la rivelazione cristiana.

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I due punti più delicati erano costituiti dalla dottrina dell'intelletto agente (o “produttivo”) e dall'immortalità.

Riguardo al primo, Tommaso, prendendo posizione in una celebre questione che Aristotele aveva lasciato poco definita, ritiene che vada necessariamente ammesso che l'intelletto agente sia qualcosa appartenente alla singola anima:

“Alcuni hanno affermato che quest'intelletto separato secondo la sostanza sia l'intelletto agente, che, quasi illuminando le immagini sensibili, le rende attualmente intellegibili. Ma, concesso che ci sia un tale intelletto agente separato, purtuttavia bisogna affermare che nella stessa anima ci sia una qualche facoltà partecipata da quell'intelletto superiore, tramite la quale l'anima umana le rende attualmente intellegibili. ... E questo lo conosciamo sperimentalmente, quando percepiamo di astrarre forme universali da condizioni particolari, il che significa renderle attualmente intellegibili. Infatti nessuna azione conviene a qualche cosa se non tramite un qualche principio che gli inerisca formalmente. ... Ma l'intelletto separato, secondo i documenti della nostra fede, è dio stesso, che è creatore dell'anima. ... Dunque da lui l'anima umana partecipa la luce dell'intelletto” (Somma teologica 1, q79a4c).

In questo modo Tommaso modifica drasticamente anche la dottrina agostiniana dell'illuminazione: l'uomo conosce non perché attualmente lo illumini Dio (che alcuni identificavano con l'intelletto agente unico di cui parlava Avicenna), ma perché il suo proprio intelletto ha ricevuto -- una volta per tutte -- una luce naturale sufficiente a garantire l'autonomia e la correttezza della sua conoscenza.

A maggior ragione risulta confutata la teoria di Averroè e dei suoi seguaci, che teorizzavano l'unicità anche dell'intelletto possibile, affermando così un'unica anima per tutta la specie umana (questo è l'argomento affrontato nell'opuscolo polemico Sull'unità dell'intelletto contro gli averroisti).

La posizione di Agostino e dei contemporanei maestri francescani viene rifiutata anche da un altro punto di vista: in quanto cioè essa sosteneva che nell'uomo esistano più “forme”, che cioè le anime intellettiva, sensitiva e vegetativa siano realmente distinte. Seguendo Aristotele, Tommaso afferma invece che nell'uomo c'è un'unica anima intellettiva, che assume anche le funzioni delle anime inferiori e dev'essere dunque definita ancora “forma corporis”.

Infatti, è lo stesso uomo che percepisce di sentire (tramite il corpo) e di pensare (tramite il solo intelletto). Ciò è un ulteriore segno che solo l'unione di anima e corpo può essere indicata come “uomo”.

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Ma non viene in questo modo negata l'immortalità? Tommaso ritiene di no. La chiave dell'argomentazione è costituita dal mostrare che l'anima intellettuale, quantunque sia forma del corpo, è tuttavia un principio incorporeo e sussistente, cioè autonomo. Gli atti intellettuali infatti manifestano un carattere di universalità che non può essere attribuito ai sensi corporei, neanche come semplici strumenti: la corporeità impedirebbe infatti, essendo legata al qui e all'ora, lo svolgimento di una conoscenza universale.

Ora, qualcosa di sussistente può corrompersi solo perdendo la propria forma. Ma l'anima è forma, ed è impossibile che una cosa si separi da sé. Dunque l'anima è incorruttibile. Ma c'è anche un argomento più immediato, di sapore agostiniano, tramite il quale si può indurre l'immortalità dell'anima:

“Un segno di questa cosa può essere preso anche dal fatto che ciascuna cosa naturalmente desidera essere a suo modo. Ma nelle cose conoscenti il desiderio segue la conoscenza. Il senso non conosce l'essere se non sotto il qui e l'ora: ma l'intelletto apprende l'essere assolutamente e secondo ogni tempo. Dunque chiunque ha intelletto desidera naturalmente essere sempre. Il desiderio naturale non può del resto essere vano. Dunque ogni sostanza intellettuale è incorruttibile” (Somma teologica I q75a6c).

Il presupposto è ovviamente costituito dalla coerenza e dalla bontà dell'intera natura, che, in quanto esistente grazie alla partecipazione dell'essere divino e ad esso orientata, non può mai ispirare un desiderio irrealizzabile.

Sul piano teologico, con un argomento simile si può sostenere la convenienza della resurrezione finale dei corpi: quantunque infatti -- come si vedrà -- l'anima può giungere di per sé alla beatitudine, la riunione con il corpo la renderà più perfetta. La dottrina dell'anima di Tommaso suscitò numerose discussioni presso i contemporanei. In essa infatti sembravano essere presenti troppe concessioni alla filosofia pagana, che rendevano problematici perfino elementi essenziali della fede cristiana. Dietro alle discussioni speculative c'era tuttavia una questione fondamentale di atteggiamento culturale: in Tommaso la rivendicazione della verità della psicologia aristotelica supponeva implicitamente una piena valutazione dell'autonomia e della globale bontà dell'essere umano -- anima e corpo -- che poteva apparire pericolosa per la religione cristiana.

Il tempo avrebbe in realtà dato ragione a Tommaso, e la sua psicologia divenne addirittura parte dell'insegnamento ufficiale della Chiesa: nel 1312 il Concilio di Vienna addirittura anatematizzerà chi affermi che “anima rationalis seu intellectiva non sit forma corporis humani per se et essentialiter” (DS 902). Anche nella morale Tommaso d'Aquino si ispira da vicino ad Aristotele, tanto che la sua esposizione sembra spesso obbedire solo alla

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preoccupazione di mettere maggiore ordine e precisione nella teoria aristotelica.

In realtà, la stessa assunzione dell'etica aristotelica è molto significativa: essa sottolinea, una volta di più, che il piano puramente naturale -- quello che era stato raggiunto dalla filosofia pagana -- mantiene una sua autonomia e validità anche all'interno della prospettiva cristiana.

L'aspetto più interessante della morale di Tommaso consiste allora proprio nel modo in cui quest'ultima viene integrata all'interno della struttura classica. Il punto di partenza, così come per Aristotele, consiste nel precisare che l'uomo agisce sempre -- in maniera più o meno consapevole -- in vista di un fine, e nel cercare quale mai possa essere questo fine.

Anzitutto bisogna mostrare come tutti i beni naturali, che sono alla portata delle sole forze dell'uomo, non riescono a soddisfare la sua sete di felicità: né le ricchezza, né gli onori, né la fama, né il potere, né la perfezione corporale, né il piacere, né la perfezione dell'anima, né in generale alcun bene creato può costituire la sua felicità ovvero beatitudine:

“La beatitudine infatti è un bene perfetto, che sazia totalmente il desiderio: altrimenti non sarebbe il fine ultimo, se restasse ancora qualcosa da desiderare. Ma l'oggetto della volontà, che è il desiderio umano, è il bene universale (così come l'oggetto dell'intelletto è il vero universale). Da ciò è evidente che nulla può soddisfare la volontà dell'uomo all'infuori del bene universale. Ed esso non si trova in nulla di creato, ma solo in dio, perché ogni creatura ha solo una bontà partecipata. Dunque solo dio può soddisfare la volontà dell'uomo, secondo le parole del Salmo 102,5: “Colui che ricolma di beni il tuo desiderio”. Dunque, solo in dio consiste la beatitudine dell'uomo” (Somma teologica 2/1, q2a8c).

Dire che Dio è la beatitudine dell'uomo però non basta. Bisogna precisare più da vicino in quale modo l'uomo possa conquistare questa felicità ultima:

“La beatitudine ultima e perfetta non può consistere in altro che nella visione dell'essenza divina. Affinché ciò sia evidente bisogna considerare due cose. In primo luogo, che l'uomo non è perfettamente beato finché gli resta qualcosa da cercare e desiderare. In secondo luogo, la perfezione di qualsiasi facoltà è in rapporto al genere del suo oggetto. Ma l'oggetto dell'intelletto è il che cos'è, cioè l'essenza della cosa. ... Dunque la perfezione dell'intelletto procede in tanto in quanto esso conosce l'essenza di qualche cosa. Se dunque un intelletto conosce l'essenza di qualche effetto, tramite la quale non possa essere conosciuta l'essenza della causa (non si possa cioè sapere che cosa sia la causa), non si deve dire che l'intelletto abbia raggiunto in senso assoluto la causa, sebbene

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tramite l'effetto possa conoscere della causa che essa c'è. E dunque all'uomo rimane naturalmente il desiderio, quando conosce l'effetto e sa che esso ha una causa, di sapere anche che cosa sia quella causa. E questo desiderio è la meraviglia, che causa la ricerca, come viene detto all'inizio della Metafisica. ... Se dunque l'intelletto umano, conoscendo l'essenza di qualche effetto creato, di dio sa soltanto che c'è, la sua perfezione non raggiunge ancora in senso assoluto la causa prima, ma gli rimane ancora un desiderio naturale di cercare la causa. Dunque non è ancora perfettamente beato. Dunque per la perfezione della beatitudine si richiede che l'intelletto giunga alla stessa essenza della prima causa” (Somma teologica 2/1, q3a8c).

In questo modo morale e metafisica vengono legate in modo ancora più stretto di quanto già avveniva in Aristotele.

Se in lui la felicità maggiore veniva individuata -- al termine dell'analisi del comportamento umano -- nella vita teoretica, che però era realizzabile solo in maniera parziale (è impossibile per l'uomo passare la vita a contemplare soltanto), in Tommaso la stessa morale è fin dall'inizio mossa da quella meraviglia che costituisce il primo movente della ricerca, e dunque orientata ad un fine ultimo di sua natura assoluto e perfetto.

Si realizza allora un curioso contrasto: il fatto stesso che l'uomo possa desiderare il bene perfetto mostra che egli di fatto lo può raggiungere (altrimenti esisterebbe un desiderio naturale smentito dalla natura stessa, il che è contraddittorio); ma tuttavia le sue forze naturali sono palesemente insufficienti a raggiungerlo: ciascuna creatura infatti conosce “secundum modum substantiae eius”, cioè adattando l'oggetto conosciuto alla propria natura: ma l'essenza divina eccede infinitamente qualsiasi essenza creata.

Ciò mostra la necessità di ammettere razionalmente la possibilità di altre virtù oltre quelle intellettuali (dianoetiche) e morali (etiche): quelle teologiche (o teologali), la cui realtà è testimoniata dalla rivelazione cristiana:

“C'è una duplice beatitudine ovvero felicità dell'uomo. Una proporzionata alla natura umana, cioè alla quale l'uomo può giungere tramite i princìpi della sua natura. Un'altra è la beatitudine che eccede la natura dell'uomo, alla quale l'uomo può giungere solo per virtù divina, secondo una certa partecipazione da parte della divinità, secondo ciò che viene detto in 2Pt. 1,4, che tramite Cristo siamo diventati partecipi della natura divina. E poiché una tale beatitudine eccede la proporzione della natura umana, i princìpi naturali dell'uomo, in base ai quali procede per agire bene secondo la sua proporzione, non bastano per ordinare l'uomo verso la suddetta beatitudine. Dunque è necessario che all'uomo vengano aggiunti da parte di dio alcuni princìpi per mezzo dei quali egli venga

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ordinato alla beatitudine soprannaturale. ... E tali princìpi vengono detti virtù teologiche: sia perché hanno dio come oggetto, in quanto tramite esse veniamo rettamente ordinati verso dio; sia perché solo da dio vengono infuse in noi; sia perché solo tramite la rivelazione divina, nella Sacra Scrittura, simili virtù vengono tramandate” (Somma teologica 2/1, q62a1c).

Le virtù teologiche -- così come enumerate da Paolo in 1Cor. 13,13 -- sono fede, speranza e amore (caritas).

Ciascuna di esse porta a perfezione un aspetto dell'anima razionale in relazione al suo fine ultimo: la fede perfeziona l'intelletto, la speranza il tendere della volontà al sommo bene, l'amore il suo conformarsi al fine ultimo.

La loro trattazione è compito della teologia e non più della filosofia, ma ciò non toglie che anche su di esse è possibile e necessario riflettere in maniera razionale. Notiamo solo due aspetti interessanti. Il primo consiste nel fatto che le virtù teologiche, a differenza di tutte le altre (secondo Tommaso anche di quelle intellettuali), non consistono nel “giusto mezzo”: nei confronti di Dio non possono infatti esistere eccessi, ma anzi vi sono sempre difetti: nessun uomo -- in quanto creatura finita -- potrà infatti mai amare Dio o credere o sperare in lui quanto sarebbe giusto.

Il secondo consiste nella preminenza che viene accordata all'amore. Esso è da giudicare la più grande delle virtù, anzi la loro stessa “forma” (in quanto indirizza tutte le altre al fine ultimo che è Dio), ed è l'unica ad avere un carattere definitivo: la fede riguarda infatti ciò che non si vede (dunque scomparirà quando si vedrà l'essenza divina), la speranza ciò che non si ha (e dunque non avrà più motivo quando si possederà Dio): solo l'amore conduce in assoluto all'unione con colui che si ama.

Questo mostra anche che solo in un certo senso la meraviglia che motiva la vita morale è destinata ad essere spenta: nella visione dell'essenza divina infatti la cosa più importante non è comprendere Dio tramite l'intelletto, ma piuttosto amarlo:

“Le virtù teologiche hanno un oggetto che è al di sopra dell'anima umana. ... Ma in ciò che è sopra l'uomo l'amore è più nobile della conoscenza. Infatti la conoscenza si realizza nel fatto che le cose conosciute sono nel conoscente; ma l'amore, nel fatto che l'amante viene attratto verso la cosa amata” (Somma teologica 2/1, q66a6ad1).

In questo modo il tipico intellettualismo greco, che Tommaso dapprima sembra condividere, viene corretto sulla base della creaturalità dell'uomo e degli insuperabili limiti del suo intelletto.

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Il primo oggetto del pensiero dell'uomo è l'essere: ma questo nella sua forma più perfetta, dunque come beatitudine, è destinato a rimanere sempre incomprensibile, chiedendo solo l'adesione dell'amore.

Il principio della destinazione soprannaturale dell'uomo conferisce importanza centrale ad un tema che non poteva interessare molto un'etica puramente naturale: il problema cioè dei criteri di valutazione degli atti umani. Laddove in Aristotele il loro valore veniva immediatamente attribuito dalla capacità di contribuire ad una felicità naturale, in Tommaso essi sono tanto buoni quanto rendono l'uomo meritevole di ricevere in dono -- dopo il corso della vita terrena -- la visione dell'essenza divina.

In questo modo la felicità naturale non viene però negata, ma piuttosto ordinata alla felicità completa e infinita cui l'uomo aspira.

È per questo che il criterio fondamentale della moralità delle azioni resta ancora la recta ratio (corrispondente all'orthós lógos aristotelico): se la ragione è in grado di dirigersi verso un fine soprannaturale, essa sarà capace anche di ordinare le azioni dell'uomo verso di esso.

Il problema: il male della volontà

È insomma alla ragione che spetta l'insostituibile compito di dare senso e valore all'intero campo dei comportamenti autenticamente umani. In questa prospettiva però si crea un grande problema, che costituirà nelle sue implicazioni tema di interminabili discussioni nella morale cristiana. Nella sua forma più semplice può essere espresso così: se tutto ciò che viene fatto volontariamente dall'uomo è scelto sub specie boni, cioè perché in esso viene visto qualcosa di buono, su quale base si potrà parlare dal punto di vista della volontà -- l'unica che rende un'azione realmente umana -- di un'azione cattiva?

Ancora più semplicemente: come può esistere un peccato realmente imputabile all'uomo? Il problema nasce appunto perché viene presupposta l'esistenza di un giudice delle azioni umane che non guarda solo al loro aspetto materiale, ma piuttosto all'intenzione con la quale esse vengono compiute.

La risposta di Tommaso (in buona parte ispirata a Pietro Abelardo) è piuttosto articolata. Anzitutto bisogna distinguere più cause che possono rendere cattiva un'azione umana: “L'uomo, come anche qualsiasi altra cosa, ha naturalmente desiderio di bene (appetitum boni). Dunque il fatto che il suo desiderio devii al male accade a causa di una qualche corruzione o disordine in qualcuno dei princìpi dell'uomo: così infatti si trova l'errore nell'azione delle cose naturali. Ma i princìpi degli atti umani sono l'intelletto e il desiderio,

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sia razionale (che viene chiamato volontà), sia sensitivo. Dunque il peccato negli atti umani accade sia per difetto d'intelletto, per esempio quando uno pecca per ignoranza; e per difetto del desiderio sensitivo, come quando uno pecca per passione; così anche per difetto di volontà, che è un suo disordine” (Somma teologica 2/1, q78a1).

Esaminiamo brevemente i tre casi.

Il primo si verifica quando l'uomo agisce in sèguito ad un'ignoranza volontaria o a cui egli avrebbe potuto rimediare. Per esempio, nessuno potrà scusarsi dell'adulterio adducendo la sua ignoranza della legge di natura che proibisce di andare con la moglie di un altro: perché proprio questa ignoranza è colpevole.

L'unica ignoranza che scusa un'azione in sé cattiva è infatti quella che non è causata da negligenza né tanto meno intenzionale. Ma che cosa accade se la ragione, senza alcuna colpa, presenta ad un uomo come buona un'azione che invece in sé è cattiva?

L'uomo ha il dovere di seguirla; se viceversa agisse contro la propria ragione, commetterebbe peccato, perché sceglierebbe un'azione in quanto cattiva.

Un esempio estremo e paradossale:

“Credere in Cristo per sé è cosa buona e necessaria alla salvezza: ma la volontà non vi si dirige se non secondo ciò che la ragione propone. Dunque, se dalla ragione ciò fosse proposto come un male, la volontà vi si dirigerebbe come ad un male: non perché sia in sé male, ma perché è male per accidente, in seguito all'apprensione della ragione” (Somma teologica 2/1, q19a5).

In conclusione: l'uomo ha sempre il dovere di agire secondo ragione (o, come anche si esprime Tommaso, “secondo coscienza”).

Ma, parimenti, ha il dovere di rendere il più corretto possibile il giudizio della ragione. Il secondo caso succede quando l'uomo, pur conoscendo la legge universale (che è dettata dalla ragione), si lascia tuttavia sopraffare dalla passione sensibile, che gli suggerisce un bene che per quanto abbia una sua validità (per esempio il puro piacere), è tuttavia disordinato per l'uomo, in cui la forma essenziale è costituita dall'intelletto: si tratta quindi di un bene apparente, e non di un bene reale.

Il terzo caso avviene quando l'uomo coscientemente preferisce un bene subordinato ad uno sovraordinato: quando per esempio preferisce la ricchezza (che in sé è un bene) alla vita di un altro uomo (che è un bene immensamente più grande): in questo caso si può quasi dire che l'uomo scelga coscientemente il male, sebbene sarebbe più corretto dire

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che sceglie consapevolmente un bene palesemente minore.

Sostanzialmente originale rispetto ad Aristotele è anche la dettagliata trattazione che Tommaso offre del concetto di legge, definita come “ordinamento razionale diretto al bene comune, promulgato da colui che ha la cura della comunità” (“quaedam rationis ordinatio ad bonum commune, ab eo qui curam communitatis habet promulgata”, Somma teologica 2/1, q90a4c).

È lo strettissimo nesso con la ragione umana che permette di assumere la legge come criterio della bontà dei comportamenti. Ma non è certamente la legge umana quella che interessa di più Tommaso, ma piuttosto quella che, promulgata dal Dio onniprovvidente (o meglio coincidente con il suo intelletto), tende al massimo bene comune dell'intero universo: questo è il concetto di lex aeterna.

Nella misura in cui essa viene partecipata all'uomo tramite la ragione, essa va poi chiamata lex naturalis. Questa tuttavia sarebbe sufficiente solo se l'uomo fosse ordinato ad un fine puramente naturale: ma dato che la sua destinazione è soprannaturale, è necessario che egli riceva anche una lex divina positiva, tramite le quale anche la legge naturale acquisti maggiore certezza ed efficacia.

La legge divina -- la cui trattazione è compito non più della filosofia ma della teologia -- è quella che la rivelazione ci trasmette nella duplice forma di legge antica e legge nuova (cioè evangelica), la seconda delle quali perfeziona e adempie pienamente la prima. Ma in che cosa consiste la legge divina nella sua forma definitiva assunta nel Vangelo? Qui la risposta di Tommaso è molto originale: la legge nuova non è una legge scritta, non contiene quindi precetti, ma piuttosto è “la stessa grazia dello Spirito Santo, che viene data ai credenti in Cristo” (Somma teologica 2/1, q106a1c), che quindi è scritta nel cuore stesso dell'uomo.

La legge nuova non è così un insieme di norme da rispettare, ma piuttosto la stessa capacità, donata da Dio all'uomo, di portare a realizzazione l'obiettivo della sua perfetta umanità e perfetta felicità, nella comunione con lui.

Infatti, “come l'intenzione principale della legge umana è di fare amicizia reciproca tra gli uomini, così l'intenzione della legge divina è di costituire principalmente l'amicizia dell'uomo verso Dio” (Somma teologica 2/1, q99a1).

Per questo la legge nuova non è una legge che condanna, ma piuttosto una legge che iustificat, cioè perdona:

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“Alla legge del Vangelo appartengono due aspetti. Uno in maniera principale: cioè la stessa grazia dello Spirito santo data interiormente. Quanto a ciò, la legge nuova giustifica. Per questo Agostino dice in De Spiritu et littera, 17: “Là -- cioè nell'Antico Testamento -- la legge era posta dall'esterno, per spaventare gli ingiusti; qua -- cioè nel Nuovo Testamento -- è stata data dall'interno, per giustificarli”. Un altro elemento appartiene alla legge del Vangelo in maniera secondaria: cioè le testimonianze della fede e i precetti che ordinano gli affetti umani e gli atti umani. E quanto a ciò, la legge nuova non giustifica. Per questo l'Apostolo dice in 2Cor. 3,6: “La lettera uccide, ma lo Spirito dà la vita”. E Agostino spiega, in De Spiritu et littera, che con “lettera” s'intende qualsiasi scrittura che sta fuori dell'uomo, anche quella dei precetti morali quali sono contenuti nel Vangelo. Dunque anche la lettera del Vangelo ucciderebbe, se non ci fosse dall'interno la grazia sanante della fede” (Somma teologica 2/1, q106a2c).

Dunque, così come le virtù naturali vengono portate a perfezione e completate da quelle teologiche, così la legge naturale è assunta e trasfigurata all'interno della libera autocomunicazione di Dio attraverso quel dono di sé che è lo Spirito.

Lo straordinario successo ottenuto lungo i secoli tanto dalla filosofia quanto dalla teologia di Tommaso d'Aquino è certamente un segno del loro valore.

La profondità, l'equilibrio, l'armonia tra esigenze razionali ed esigenze di fede condussero rapidamente alla loro assunzione nell'insegnamento ordinario della Chiesa.

Non va però dimenticato che il pensiero di Tommaso si sviluppa in un contesto culturale estremamente vivace e ricco, all'interno del quale la sua figura non è affatto quella di un genio isolato. Bisognerebbe anzi notare che la recezione dei secoli successivi, oltre che essere legata ad un giudizio sul valore delle tesi di Tommaso, è in gran parte motivata dalla sua grande sensibilità didattica.

Il testo più letto e studiato diventa la Somma teologica, che si presenta espressamente come un'opera solo ad eruditionem incipientium, “per la formazione dei principianti”. Bisogna però rammaricarsi che spesso lo spirito del pensiero di Tommaso sia stato frainteso e dimenticato: la ricerca instancabile ed equilibrata di nuove soluzioni, rigorosamente confrontate usando tutti gli strumenti razionali e le più aggiornate premesse filosofiche, divenne così o una disquisizione puramente verbale su questioni pressoché impalpabili (che susciterà la rivolta del Rinascimento), oppure una stanca e arida ripetizione di tesi (che nella Chiesa cattolica sarà travolta dal rinnovamento ispirato dall'ultimo Concilio ecumenico). La riflessione e la valutazione della filosofia di Tommaso è così ancora oggi un compito in gran parte da svolgere.

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Tomismo http://it.wikipedia.org/wiki/Tommaso_d%27Aquino

Il suo pensiero filosofico, da molti considerato il più significativo dell'età medievale, viene definito Tomismo.

Il metodo della metafisica La metafisica studia la realtà tutta secondo l'orizzonte più ampio possibile e non si occupa delle singole determinazioni del reale, che sono oggetto delle scienze particolari, ma la studia in quanto tale.

«La scienza filosofica riguarda l'ente in quanto ente, cioè considera l'ente dal punto di

vista della ratio universale di ente, e non dal punto di vista della ratio specifica di qualche ente particolare.» (In Met. XI, l.3 n.1)

La realtà colta nella sua assolutezza ci rivela la sua struttura e i suoi principi che sono così evidenti da abbagliarci, tanto che se è impossibile coglierne in modo completo la verità, è altrettanto impossibile non coglierla in modo assoluto.

«Come gli occhi della nottola sono abbagliati dalla luce del sole che non riescono a

vedere, ma vedono bene le cose poco illuminate, così si comporta l'intelletto umano di fronte ai primi principi, che sono tra tutte le cose, per natura, le più manifeste.» (In Met. II, l.1

n.10)

Ecco perché lo studio della metafisica è facile e difficile allo stesso tempo. Facile perché i principi di cui tratta sono ovvi e di per sé noti a tutti tanto da essere impliciti in ogni discorso umano. Difficile perché, per quanto siano ovvi, questi principi non sono banali e non li si coglie mai in tutta la loro profondità. « ...la nostra conoscenza

è talmente debole che nessun filosofo ha mai potuto investigare in modo esaustivo la natura di una singola mosca... » (In Symbolum, proemium)

I principi della metafisica La verità dei principi non si afferma da sola, ed è sempre colta in modo umano, ossia imperfetto; per questo al filosofo è chiesta un'umile disposizione d'animo per accoglierla. Per cogliere questa verità nascosta non si può partire da principi, perché sono proprio quelli che si stanno indagando, ma si deve fare un'analisi fenomenologica della realtà e dell'esperienza dell'uomo per far venire a galla il non detto del detto, ossia ciò che necessariamente si deve ammettere, anche solo implicitamente, perché quello che si dice sia un dire sensato.

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Così come un illetterato può parlare correttamente la sua lingua pur non conoscendo le regole della grammatica, e solo studiando la sintassi si rende conto delle regole che ordinano il suo parlare; regole che peraltro anche ignorandole venivano da lui usate anche prima di conoscerle. Così tutti gli uomini nel loro pensiero e nel loro parlare usano correttamente i principi della metafisica, almeno implicitamente, e il compito del filosofo è condurre alla luce della ragione questi principi.

La grande forza della filosofia aristotelico - tomista è mettere in evidenza quei principi così innati nella ragione che, essendo verissimi, è persino impossibile pensare di negarli, perché nel momento in cui li si nega ne si fa surrettizio uso, e quindi li si riafferma. «I principi innati nella ragione si dimostrano verissimi: al punto che non è neppure possibile pensare che siano falsi.» (Contra Gentiles I, c.7 n.2)

Il metodo elenchico È da questa osservazione che nasce il famoso metodo confutativo (o elenchico), che confronta diverse tesi poste nell'agone della dialettica per scartare quelle che si mostrano contraddittorie, o quelle che risultano estranee all'esperienza.

I percorsi per invalidare una tesi metafisica sono, infatti, due: nel primo si mostra l'intrinseca contraddittorietà di quegli assunti che implicano la negazione e l'affermazione della stessa cosa nel medesimo tempo e sotto il medesimo aspetto; nel secondo si evidenzia l'insostenibilità di tesi che non hanno riscontro nell'esperienza comune e che quindi, non rientrando nell'indagine razionale, sono catalogabili come opinione o fede.

Il metodo confutativo procede per negazioni: scartando le dottrine contraddittorie e insostenibili fa emergere, come una statua da un blocco di marmo, la verità, e perché la figura che viene mano a mano emergendo sia ben definita, bisogna ricercare tutte le tesi possibili per vagliarle e ottenere, per negazione, una verità sempre più profonda.

In questa incessante ricerca non esiste un oggetto d'indagine perché chi ricerca si ritrova a studiare anche se stesso, il suo pensiero e il suo linguaggio. È più corretto dire allora che la metafisica abbia un tema, un tema che è come un orizzonte unico e ampio fino a comprendere tutto, la realtà e chi la indaga.

In proposito è bene ricordare che non è possibile separare acriticamente l'oggetto dal soggetto conoscente giacché: «uno e identico è l'atto del sentito e del senziente,» (De Anima III, l.2 n.9)

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per cui l'oggettività della cosa conosciuta, l'oggettività dell'oggetto, si risolve tutta nell'essere conosciuto, ossia nell'esser presente, mentre la soggettività del soggetto si risolve tutta nella presenza dell'oggetto. Soggetto e oggetto sono due concetti distinti ma non separabili, in quanto l'uno è tale grazie alla presenza dell'altro.

L'essere, il pensiero e il linguaggio L'essere, il pensiero e il linguaggio sono i poli del tema della metafisica, sono diversi modi di un'unica realtà, e questo non perché si stabilisce arbitrariamente che il pensiero dell'uomo sia rivelatore della realtà, bensì perché non è possibile che sia altrimenti. Il pensiero è sempre pensiero dell'essere, e l'essere è sempre colto nel pensiero. Ipotizzare una dimensione alternativa, come per esempio l'esistenza di una realtà che fugga di per sé la nostra conoscenza, è agli occhi del filosofo una tesi acritica e insostenibile in sede filosofica, essa può al massimo essere considerata come opinione o fede. « Se invero uno propone ad un altro cose

che non sono incluse nei principi per sé noti, o che non appaiono chiaramente incluse, non produrrà in lui sapere, ma forse opinione o fede» (De Veritate, q.11 a.1 - co)

L'unità intenzionale di essere e pensiero è l'esperienza stessa, intesa come insieme di conoscenze, sentimenti, cultura, vita e storia. L'esperienza è per questo un tema onnicomprensivo, circoscrivente e non circoscritto, tale da escludere assolutamente che ci si possa porre al di fuori di essa.

Nello studio della metafisica non esiste un inizio privilegiato, proprio perché essa non ha un oggetto isolato di indagine, ma un tema (e come tale non è possibile vederlo dal di fuori), non è possibile partire da principi e dedurre conclusioni, come si usa invece fare con le scienze esatte. Ogni esperienza non ci si presenta mai in modo di per sé concluso, ma la si coglie solo nel suo riferimento organico con tutte le altre esperienze.

L'identità di una singola cosa la si vede nella differenza dalle altre, e la differenza tra le cose la si vede nell'identità dei singoli; identità e differenza si intendono solo dialetticamente e si semantizzano reciprocamente (In Met. X, l.4 nn.33-34). Tutte le singole cose si relazionano a tutto, ogni entità viene intesa nella relazione con tutte le altre, e all'uomo non è possibile esaurire la verità su di una cosa, perché questa coinvolge il tutto. Se, per esempio, volessimo capire tutta la verità della Divina Commedia, non potremo esimerci dallo studiare l'autore e il suo pensiero, e così ancora dovremo studiare il suo tempo e la mentalità della sua gente. Quindi si

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dovrebbe recuperare tutta la storia precedente per capire come è potuto nascere un tale poeta, e la storia successiva per vedere come ha influenzato la società, e così ogni nuovo elemento ne richiede un altro, in una continua correlazione.

Un sistema filosofico Ma quando anche fossimo riusciti ad esaurire tutte le possibili relazioni della realtà, cosa impossibile vista la nostra finitezza, e fossimo in grado di costruire un enorme e straordinario puzzle dove ogni pezzo si incastra perfettamente con gli altri, e l'insieme ci si rivelasse come un grandioso disegno di cui allora capiremmo, forse, il senso, avremo allora finito le nostre domande? Potremmo dichiarare chiuso il problema della filosofia? Assolutamente no. Perché quand'anche potessimo vedere l'insieme del puzzle, che ripeto è cosa ineseguibile essendo noi stessi una tessera di quel puzzle, avremo risposto a tutte le domande del come, ma rimarrebbero insolute quelle del perché. Perché questo disegno e non un altro? Perché questa realtà e non un'altra? Cosa giustifica questa realtà, cosa le dà ragione di essere se non può darsela da sola in modo esaustivo?

Queste domande arrivano per ultime nell'indagine filosofica, ma sono di per sé le prime, in quanto riguardano il fondamento stesso della realtà. Dallo studio della realtà (in senso generico, la fisica), si arriva allo studio del suo fondamento che sta oltre la realtà: la metafisica. Per condurre un discorso metafisico si può partire da qualunque esperienza, ma se vogliamo insegnare la metafisica a qualcuno dovremo partire da esperienze che il discente possa personalmente verificare. Come già visto la conoscenza dei principi è naturalmente insita nell'uomo, e ogni nuovo apprendimento viene allora da una conoscenza già acquisita anche se non pienamente in atto. « I primi concetti dell'intelletto preesistono in noi come semi di

scienza, questi sono conosciuti immediatamente dalla luce dell'intelletto agente dall'astrazione delle specie sensibili...in questi principi universali sono compresi, come germi di ragione, tutte le successive cognizioni. » (De Veritate, q.11 a.1 - co)

Uno dei migliori inizi per il discorso metafisico è quello che descrive un'esperienza accessibile e verificabile a tutti: il processo di conoscenza e la sua espressione nel linguaggio. Non ci si aspetti però un discorso che parte da principi e giunge a conclusioni, questo è il metodo delle scienze particolari, il filosofo deve invece partire nell'esposizione da esperienze facilmente verificabili per introdurre una visione d'insieme della realtà che non può essere dedotta ma intuita. Colui che ascolta, se vuole capire, deve inizialmente accettare come valide alcune categorie di pensiero e alcune dimostrazioni, anche se la giustificazione è data in un secondo

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tempo. Questo perché è più importante intendere, intuendo, l'insieme del discorso che capire ogni singola dimostrazione, la quale dipende per la sua comprensione proprio dall'intero del sistema.

Lo sviluppo del sistema filosofico è sempre più dettagliato grazie all'esplorazione sempre più profonda della realtà, e tutti i discorsi in questo sistema si legano tra loro con un'infinita serie di relazioni, quindi si può sostenere che la validità del sistema è che sia rispondente all'esperienza e che tutto si tenga, ossia che non si contraddica internamente.

Le cinque vie di Tommaso e la metafisica Tommaso propone dunque 5 vie per dimostrare l'esistenza di Dio. Per rendere valide le argomentazioni, Tommaso ricorre (in ordine) alle categorie aristoteliche di "potenza" e di "atto", alla nozione di "essere necessario" e di "essere contingente" (desunta da Avicenna), ai gradi di perfezione (di stampo platonico) e alla presenza di finalità negli esseri privi di conoscenza.

▪Prima via: "Ex motu": « [...] tutto ciò che si muove è mosso da un altro. [...] Perché

muovere significa trarre qualcosa dalla potenza all'atto; e niente può essere ridotto dalla potenza all'atto se non mediante un essere che è già in atto. [...] È dunque impossibile che sotto il medesimo aspetto, una cosa sia al tempo stesso movente e mossa, cioè che muova sé stessa. [...] Ora, non si può procedere all'infinito, perché altrimenti non vi sarebbe un primo motore, e di conseguenza nessun altro motore, perché i motori intermedi non muovono se non in quanto sono mossi dal primo motore [...]. Dunque è necessario arrivare ad un primo motore che non sia mosso da altri; e tutti riconoscono che esso è Dio. »

▪Seconda via: "Ex causa": « [...] in tutte le cause efficienti concatenate la prima è

causa dell'intermedia e l'intermedia è causa dell'ultima [...] ora, eliminata la causa è tolto anche l'effetto: se dunque nell'ordine delle cause efficienti non vi fosse una prima causa, non vi sarebbe neanche l'ultima, né l'intermedia. Ma procedere all'infinito nelle cause efficienti equivale ad eliminare la prima causa efficiente [...]. Dunque bisogna ammettere una prima causa efficiente, che tutti chiamano Dio. »

▪Terza via: "Ex contingentia": « [...] alcune cose nascono e finiscono, il che vuol dire

che possono essere e non essere. Ora, è impossibile che cose di tal natura siano sempre state [...]. Se dunque tutte le cose [...] possono non esistere, in un dato momento niente ci fu nella realtà. Ma se questo è vero, anche ora non esisterebbe niente, perché ciò che non esiste, non comincia ad esistere se non per qualcosa che è. [...] Dunque, non tutti gli esseri sono contingenti, ma bisogna che nella realtà vi sia qualche cosa di necessario. [...] negli enti necessari che hanno altrove la

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causa della loro necessità, non si può procedere all'infinito [...]. Dunque, bisogna concludere all'esistenza di un essere che sia di per sé necessario, e non tragga da altri la propria necessità, ma sia causa di necessità agli altri. E questo tutti dicono Dio. »

▪Quarta via: "Ex gradu perfectionis": « [...] il grado maggiore o minore si attribuisce

alle diverse cose secondo che si accostano di più o di meno ad alcunché di sommo e di assoluto; [...] come dice Aristotele, ciò che è massimo in quanto è vero, è tale anche in quanto ente. Ora, ciò che è massimo in un dato genere, è causa di tutti gli appartenenti a quel genere [...]. Dunque vi è qualche cosa che per tutti gli enti è causa dell'essere, della bontà e di qualsiasi perfezione. E questo chiamiamo Dio. »

▪Quinta via: "Ex fine": « [...] alcune cose, le quali sono prive di conoscenza, cioè i corpi

fisici, operano per un fine [...]. Ora, ciò che è privo d'intelligenza non tende al fine se non perché è diretto da un essere conoscitivo ed intelligente, come la freccia dell'arciere. Vi è dunque un qualche essere intelligente, dal quale tutte le cose naturali sono ordinate a un fine: e quest'essere chiamiamo Dio. » (Tommaso d'Aquino.

Summa theologiae, I, questione 2, articolo 3)

Tommaso fornisce queste 5 prove dell'esistenza di Dio al culmine della metafisica, la disciplina nata nell'antichità con l'intento di partire dalla "physis" (natura) per raggiungere induttivamente e per caratterizzare il mondo immateriale ed invisibile. Forte è l'interesse di Tommaso per il mondo dei fenomeni e per le scienze (notiamo, che ebbe anche fama di alchimista di valore: secondo alcuni, avrebbe potuto disporre, grazie al maestro Alberto Magno, della pietra filosofale, ma si tratta di un accertato falso storico).

Però, ci avverte di non dare mai per assolutamente certe le teorie scientifiche, perché può sempre accadere che gli uomini pensino a qualche nuova teoria, da nessuno elaborata prima. Si noterà, qui, la fiducia critica nella ragione umana, che contraddistingue l'Aquinate: libertà di indagine, ma cautela nelle conclusioni.

Aristotele era giunto a concepire l'essere come pensiero di pensiero; essere che si pone pensando sé stesso, superando il politeismo antico verso un monoteismo più vicino al nostro. Tommaso inizia una trattazione teologica dell'essere, ritenendo questo compito un'opera che la ragione non può assolvere compiutamente. Si apre qui lo spazio per l'esame di quanto la fede ci propone, come sussidio ed integrazione del lavoro puramente razionale: Tommaso pensa che, in linea di principio, ragione e fede, provenienti entrambe da Dio, non possano mai essere in contrasto tra loro.

Le cinque vie di san Tommaso costituiscono tuttora per la Chiesa Cattolica e per

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altri laici un argomento valido e incontestato per giungere alla conoscenza di Dio.

Immanuel Kant argomentò che le cinque vie di san Tommaso sarebbero riconducibili alla prova ontologica di sant'Anselmo d'Aosta, prova di cui lo stesso Kant avanzò una confutazione, sebbene anche Tommaso l'avesse già a sua volta contestata: per Tommaso infatti la dimostrazione esclusivamente a priori di Anselmo non sarebbe valida, perché l'uomo nelle sue conoscenze procede anche a posteriori.

Sono note tra l'altro varie refutazioni all'argomento di Kant (che comunque non si occupò mai delle cinque vie: egli non le conosceva direttamente ma solo tramite le argomentazioni della tarda scolastica filtrate attraverso Wolff).

La Trinità ed i misteri della fede Il Dio cristiano è "Uno e Trino", ossia Dio è la comunione delle tre Persone nell'unica natura divina (Padre, Figlio e Spirito Santo). Tommaso nota come il Padre esca continuamente fuori di sé in estasi, in un'incontenibile esplosione di amore, rendendo il Figlio partecipe di tutto ciò che Dio ha creato; lo Spirito Santo è la relazione di amore che lega il Padre al Figlio. Come l'Uno ineffabile di Plotino (Neoplatonismo), il Padre uscendo fuori di sé diventa Uno-che-è, l'essere di pensiero che non avendo il bene fuori di se (l'Uno è ineffabile e nemmeno l'essere può vederlo o parlarne) pensa se stesso, divenendo pensiero di essere e infine (come diceva Aristotele) pensiero di pensiero. Queste operazioni avvengono nell'eterno, dove non esiste tempo, dove non è differenza fra il prima e il poi, e perciò non si deve confondere una priorità logico - ontologica con una temporale.

L'essere e gli enti La proprietà dell'essere è l'identità di unità-verità-bontà. Da ciò deriva che vi sono due cose che nemmeno Dio può fare: Dio non può fare il male (è buono) e non può creare un altro Dio (è uno, ergo non possono esservene due). Importante è anche che Dio non può mentire perché è vero (verità): a questo argomento ricorrerà Cartesio con i suoi studi scolastici per dimostrare che il mondo davanti a noi è reale e non un'illusione, in quanto creazione di un Dio che è verità e non può illuderci o mentirci.Gli enti creati (fra cui l'uomo) sono in qualche modo lontani dall'essere con infiniti gradi di perfezione (partendo dal più basso), non solo "sono meno" nelle singole attribuzioni, ma con infinite gradazioni viene anche a mancare la relazione d'identità esatta fra verità, bontà, unità. Ci sono persone veramente malvagie,

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unitamente (senza incoerenze interne) buone, ma non vere, ma per opportunismi, etc.

Causalità e Creazione Se due enti hanno qualcosa in comune, esiste allora un ente che è loro causa. L'ente-causa ha poco o nulla in comune con gli altri due enti che si ritengono un suo effetto. In essi causa-effetto non sono costruiti considerando un solo effetto e una sola causa (fra due enti), ma fra tre: due "enti-effetto" e un terzo "ente-causa". La ragione procede così a costruire non delle semplici catene causa-effetto, ma un albero ramificato in cui ogni nodo è causa dei due enti sottostanti, suoi effetti. La causa non è un ente completamente distinto dai suoi effetti, con gli effetti e fra loro anche la causa ha qualcosa in comune con i due effetti: due enti qualunque (anche di coordinate temporali e/o spaziali diverse), anche se non hanno niente in comune, hanno quanto meno in comune di essere nella stessa dimensione spaziale e temporale. In particolare, anche due enti di spazi ed epoche diverse a cui pensa un essere cosciente sono, comunque, nello stesso spazio-tempo, sebbene solo nella sua mente; quando nessuno li pensa, non sono proprio. Intuitivamente, se un ente è uguale a quello visibile, un istante dopo si pensa che si tratta dello stesso ente; quanto maggiore è la diversità tanto più è ipotizzabile che quello che si manifesta per primo sia la causa di quello successivo. La causa non è più definita dal precedere sempre un dato ente: diciamo che "A" causa l'ente "B", se prima di "B" vediamo sempre manifestarsi "A"; si aggiunge una seconda condizione per definire un ente come causa, che esso non ha poco o nulla in comune con gli altri due; e un'altra che si potrebbe raggruppare con la precedente, nota come pensavano la "causa" gli antichi Greci, che la causa si da se due enti hanno qualcosa in comune (la causa è di due effetti). Un ente è causa d'altri quanto meno ha in comune con gli effetti. Poiché l'essere è comune a tutti gli enti, non esiste un ente che sia causa dell'essere; la domanda "perché?" dell'essere non può avere risposta, ossia non si può dire perché il mondo è così e non altrimenti.

Essendo l'essere comune a tutti gli enti, esso se deriva da qualcosa, non può che derivare da un non-ente, ovvero dal nulla (che da Platone in poi è stato inteso in senso relativo anche dai filosofi che storicamente non poterono accedere ai suoi scritti). L'alternativa, come pensava Aristotele, è ipotizzare che l'essere non abbia proprio una causa e che il mondo esista da sempre.

Tommaso sostiene l'idea della Creazione per un motivo di fede (il racconto della Genesi), ma anche per un motivo filosofico che è una prova a sostegno del dato di

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fede ed una forte convinzione personale: l'esistenza delle cause seconde. Causa-effetto sono sinonimi di potenza-atto; parlare di cause seconde significa articolare la distinzione aristotelica di potenza ed atto in potenza di una potenza, potenza di un atto, atto di una potenza, atto di un atto. La potenza, come la definiva Aristotele, sarebbe potenza di un atto; quello che era chiamato "atto" è con maggior precisione "atto di una potenza". La prima e l'ultima di queste, sono categorie ignorate dalla filosofia antica; Tommaso estende la nozione di potenza ed atto in una che include le due categorie aristoteliche e va oltre (aggiungendone altre due); propriamente non si dovrebbero più usare le parole "potenza" ed "atto", ma una delle 4 categorie proposte. Il passaggio non è un vuoto cambio di parole, ma introduce due concetti che sono sostanzialmente diversi da quelli di potenza ed atto aristotelici.

La Creazione è avvenuta una sola volta; soltanto Dio può creare; Dio può agire nel mondo soltanto creando; ovvero il Creato non è dato una volta per tutte, ma la Creazione è continua, nel senso che in alcuni momenti (non in ogni causa-effetto), Dio vi interviene creando.

In particolare, lo stato che precede la Creazione è potenza di potenza, non potenza come la definiva Aristotele; in tale modo, col poter essere, è definibile una potenza che non è materia, e che può essere informe, essendo la materia indissolubilmente legata alla forma per Aristotele come per Tommaso.

Potenza di potenza e atto di un atto sono due modi di essere, due stati, in cui atto e potenza (forma e materia) non sono legati indissolubilmente. Entrambi dipendono dal fatto che potenza e atto possano esistere separatamente, e uno implica quindi l'altro. Il primo afferma la possibilità del mondo di evolversi, e il secondo l'esistenza di Dio come Atto puro.

Da notare è che il concetto di causa seconda che fonda l'idea di un mondo che evolve in modo indipendente (e libero, nel caso dell'uomo) dalla causa prima che è Dio, è lo stesso che fonda la potenza di potenza e la dipendenza del mondo da un Dio Creatore.

L'antropologia di san Tommaso L’antropologia tomista nasce dall’esigenza di conciliare la dottrina Platonico-Agostiniana dell’immortalità dell’anima e di per sé sussistente, e la concezione aristotelica, che spiegava bene il sinolon di anima e corpo, ma, vista secondo errate interpretazioni, poteva portare ad affermare la mortalità dell’anima. Averroè

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aveva provato a superare questa difficoltà affermando che l’anima non è la forma razionale del corpo, perché l’intelletto, sia passivo che attivo trascende il corpo ed è universale, unico per tutti gli uomini. In questo modo salvaguardava l’immortalità dell’anima, ma finiva per annullare l’individualità dell’anima del singolo, e tale interpretazione era contraria alla Bibbia, secondo la quale dopo il giudizio universale ogni anima si ricongiungerà col proprio corpo. Tommaso risponde affermando che: se la forma è il principio che caratterizza la natura di un ente, e quindi anche nelle sue specifiche facoltà, e se l’uomo è caratterizzato dal suo essere razionale e dalla sua facoltà intellettiva, necessariamente la sua forma deve essere un principio intellettivo. L’anima è fortemente legata e relazionata al corpo (e questo è dimostrato dal fatto che è lo stesso uomo quello che coglie i principi primi, le realtà intelligibili, e contemporaneamente avverte i più bassi appetiti sensoriali), ma possiede un’esistenza autonoma e indipendente dal corpo. A dimostrazione di questa duplice esistenza dell’anima (una legata al corpo, l’altra da esso indipendente) Tommaso porta tre fatti: la reale constatazione del fatto che l’anima conosce tutti i corpi (ciò non avverrebbe se fosse un ente reale e corporeo), la capacità di cogliere realtà immateriali o concetti universali, e la capacità di configurarsi come autocoscienza. L’immortalità dell’anima è dimostrata dal fatto che essa è caratterizzata dal desiderio di vita, e pertanto ogni desiderio presente sulla terra vi è stato posto da Dio, ed Egli non ha creato nessun desiderio che non possa essere soddisfatto. Pertanto anche la “sete” di vita dell’anima deve essere per forza soddisfatta. In questo modo, inoltre, conserva l’individualità della vita dopo la morte.

Ogni ente che si muove è mosso da altro, e nella natura non si ha un moto senza fine; al contrario, anche in fisica ogni movimento è descritto da un vettore che ha intensità, direzione e verso e dunque pare avere un qualche fine. Anche le traiettorie di comete ed astri, pur essendo ellittiche (senza verso, o meglio con una sua inversione periodica), mantengono una direzione calcolabile e avranno una fine del loro movimento (prima o poi si scaglieranno contro qualche corpo dell'universo). Anche alla luce di scoperte astronomiche posteriori a Tommaso si è confermata l'impossibilità teorica e pratica del moto perpetuo.

Il fine è per l'uomo qualcosa di unico (l'uomo tende a porsi un solo obiettivo per volta) e di vero, almeno in potenza, e completamente vero quando sarà atto raggiunto (poiché la ragione non ha senso che si dia obiettivi velleitari e non raggiungibili). Dall'identità ampiamente dimostrata di uno, vero e buono, segue che il fine che è unico e vero (in quanto raggiungibile) è anche il bene dell'uomo.

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Dunque, darsi degli obiettivi è una regola etica; il problema del contenuto si limita alla scelta di obiettivi raggiungibili che siano veri. I mezzi che ogni io impiega per raggiungere questo fine sono proporzionali a tale obiettivo e dunque l'"io" è un essere proporzionato al suo bene: il bene è il fine che cerca di raggiungere e, l'"io" è in quanto agisce. L'"io" è un agire (come più tardi diranno gli idealisti) ed è in vita solo mentre agisce e si muove per qualche cosa; Dio, come il nostro Io che è a sua immagine e somiglianza, è un agire. Senza la Provvidenza diviene inconcepibile l'esistenza stessa di Dio. Per una sorta di unità dei contrari, l'identità di unità, verità e bontà, che fondano le 5 vie per dimostrare l'esistenza di un Dio trascendente, coimplica anche la continua azione di questo Dio nel mondo e nella vita di ogni Io.

Nell'atto creativo la divinità è passata da uno stato di non-mosso e non-movente ad uno stato di movente non-mosso. Nel Creato vale che "omne quod movetur ab alio movetur" ed ogni ente è in uno stato di "mosso" (mosso non-movente o mosso-movente).

Per Tommaso questo movimento non può essere eterno e tende ad uno stato di non-mosso che, a seconda del grado di unità, verità e bontà della creatura, sarà uno stato di non-mosso e non-movente (fine di ogni movimento) oppure il ritorno alla causa prima del movimento nello stato di movente non-mosso, ossia una creatura fuori dallo spazio-tempo, fisicamente non più in grado di muoversi, ma comunque libera di muovere parte del mondo.

Questo movimento non è un vagare senza senso eterno, con una fine qualunque, ma ha una fine determinata (non infinite possibili) che, essendo unica, è anche il suo fine. Dunque, la fine è il fine.

Etica per approfondire http://it.wikipedia.org/wiki/Il_male_(Tommaso_d%27Aquino)

La natura dell'uomo Per Tommaso l'etica non è il pieno raggiungimento del fine ultimo dell'uomo, ma è solo un orientamento per la condotta umana che ha lo scopo di indirizzare l'uomo al suo proprio fine. Tale fine ultimo, come per Aristotele, è la felicità, cioè la beatitudine. Per Aristotele il bene era ciò che perfezionava l'uomo e portava a compimento la sua natura, ma Tommaso va oltre, e dice che è il sommo bene che realizza davvero e al massimo grado la natura umana. Poiché il carattere specifico dell'uomo è la ragione, allora, per Tommaso, l'unica "azione" possibile per raggiungere la beatitudine è di genere intellettuale; tuttavia, al contrario di Aristotele, che poneva l'uomo stesso come oggetto di tale contemplazione

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intellettuale, Tommaso pone invece Dio come oggetto primo ed ultimo della contemplazione. La beatitudine, per Tommaso, è infatti la visione dell'essenza di Dio, che è nient'altro che l'operazione più nobile e più alta dell'uomo. In ogni uomo, infatti, vi è naturale desiderio di conoscenza, poiché ciascuno, vedendo un effetto, vuole conoscerne la causa; questo vale per le cose superficiali e terrene, e tanto più vale per le cose spirituali e divine. Se l'uomo non si sforza di soddisfare tale desiderio andando oltre il mondo fisico, rimarrà in eterno insoddisfatto; tale, dunque, sarebbe la vera condanna eterna, cioè l'esser privati della visione di Dio.

Il libero arbitrio e la morale L'etica di Tommaso si fonda sulla libertà dell'uomo, poiché, come egli dice, solo l'uomo possiede il libero arbitrio, inteso nel senso originale di "libertà di giudizio", in quanto solo l'uomo è padrone del giudizio, in quanto egli solo può giudicare attraverso la ragione il suo stesso giudizio. Inoltre, il libero arbitrio, per Tommaso, non è affatto in contrasto con la Provvidenza divina che ordina le vicende del mondo, perché essa è al di sopra d'ogni giudizio e libertà umana, e nel Suo agire già ne tiene conto; il libero arbitrio non è in contraddizione nemmeno con la predestinazione alla salvezza, per Tommaso, poiché la libertà umana e l'azione divina di Grazia (che è la conseguenza della predestinazione) tendono ad unico fine, ed hanno una medesima causa, cioè Dio. Per quanto riguarda la morale, Tommaso, come Bonaventura da Bagnoregio, dice che l'uomo ha sinderesi, ovvero la naturale disposizione e tendenza al bene e alla conoscenza di tale bene. Tuttavia, egli necessita di opportuni mezzi, per valutare ogni caso di comportamento che gli si presenti. Tali mezzi sono:

1.La coscienza, intesa come capacità di ragionamento pratico e dunque di applicazione dei principi morali universali alle situazioni concrete particolari;

2.La prudenza, cioè la virtù pratica che consente di valutare rettamente in ogni caso particolare;

3.La volontà, che è il mezzo per decidere se tendere ad un bene per sé stesso, oppure per tendere ad un altro comportamento, moralmente sbagliato;

4.La virtù, ovvero l'agire secondo natura e secondo ragione. Tuttavia, la virtù è un "habitus", un abito consolidato nella natura.

Tommaso riprende da Aristotele le quattro virtù cardinali (ovvero giustizia, temperanza, prudenza e fortezza) ma introduce, in più, le tre virtù teologali cristiane (fede, speranza e carità), che occorrono al conseguimento della beatitudine eterna.

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Liceità della pena di morteSant'Agostino e san Tommaso d'Aquino sostengono la liceità della pena di morte sulla base del concetto della conservazione del bene comune. L'argomentazione di Tommaso d'Aquino è la seguente: come è lecito, anzi doveroso, estirpare un membro malato per salvare tutto il corpo, così quando una persona è divenuta un pericolo per la comunità o è causa di corruzione degli altri, essa viene eliminata per garantire la salvezza della comunità (Summa Theologiae II-II, q. 29, artt. 37-42). Il teologo sosteneva tuttavia che la pena andasse inflitta solo al colpevole di gravissimi delitti, mentre all'epoca veniva utilizzata con facilità e grande discrezionalità.

La posizione sulla donna Nella Summa Theologiae scrive: « dicitur Gen. II, non est bonum hominem esse solum; faciamus ei adiutorium simile sibi. » ( Iª q. 92 a. 1 co)

« Il Signore ha creato l'uomo, poi ha voluto creare la donna per dargli un aiuto simile a lui. [...] »Questo è nient'altro che è una riesposizione del testo biblico. Ma poi Tommaso prosegue dicendo che: «...necessarium fuit feminam fieri, sicut Scriptura dicit, in adiutorium viri, non quidem in adiutorium alicuius alterius operis, ut quidam dixerunt, cum ad quodlibet aliud opus convenientius iuvari possit vir per alium virum quam per muliebre m; sed in adiutorium generationis.» (Iª q. 92 a. 1 ad 1)

Si tratta qui di altri autori della Scolastica, cosa che indica dunque la presenza, all'epoca, di un dibattito sul tema della sessualità. Per Tommaso, dunque, la donna non avrebbe doveri pari a quelli degli uomini, ma il suo unico dovere sarebbe la generazione, cosa che nessun uomo potrebbe fare.

Il testo prosegue poi con una breve esposizione della differenza tra riproduzione asessuata e riproduzione sessuale, per chiarire il punto di vista: evidentemente, quello biologico. Tommaso, tuttavia, mantiene il legame con la tradizione del pensiero cristiano medioevale del secolo precedente (definito da alcuni storici il "secolo delle donne"), senza lasciarsi totalmente trascinare dal richiamo ai pregiudizi del mondo antico.

Pertanto, scrive anche: «Ad tertium dicendum quod, si omnia ex quibus homo sumpsit occasionem peccandi, Deus subtraxisset a mundo, remansisset universum imperfectum.» (Iª q. 92 a. 1 ad 3)

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Dalla teologia di Tommaso, attenta ai fenomeni naturali, la Chiesa deriva dunque la concezione della sessualità come complementarità soprattutto spirituale (in ogni caso antropologica), oltre che biologica, dove la donna non è solo un mezzo necessario per la generazione (che tale sarebbe la sua funzione biologica), ma è anche la parte mancante senza la quale l'uomo sarebbe monco, e lo stesso mondo, inteso come ordine, sarebbe incompleto, cioè privo di ordine. Per Tommaso, in sostanza, a livello biologico la donna è inferiore all'uomo, ma in ogni livello (compreso quello biologico) è l'armonico che completa la disarmonia (cioè l'uomo).

La legge e la politica Tommaso studiò a fondo il diritto e la giustizia, considerandoli i pilastri della società e differenziandone le fonti. Infatti, la prima fonte della giustizia, per Tommaso, è la ragione divina, insondabile e inconoscibile per l'intelletto umano, e che pure dev'essere accettata dagli uomini con umiltà. Tale giustizia concerne la legge divina, che è guida dell'uomo verso la beatitudine eterna. Altra fonte di giustizia è poi la legge naturale, che è ben conosciuta dalla ragione ed è formata da principi universali che sono comuni a tutti gli uomini (come ad esempio la generazione). Dunque, la legge umana ha come suo fondamento sia la legge divina che quella naturale, ma serve in realtà solamente a guidare ed a frenare in certi limiti il comportamento degli uomini che non si sottomettono alla legge divina e che, dunque, sono malvagi per definizione. Il teologo fa, anche, una precisa differenza tra diritto e giustizia: per Tommaso il diritto è "la proporzione tra il profitto che il mio atto produce ad un altro e la prestazione che questi mi deve in cambio"; la giustizia, invece, è "la perpetua e costante volontà di riconoscere e attribuire a ciascuno il suo diritto". Per quanto concerne lo Stato e la politica, Tommaso afferma che la migliore forma di governo è la monarchia, non solo come trasposizione nell'umano della monarchia divina, ma anche in quanto il re non è il tiranno, ma è bensì colui al quale il popolo ha delegato la propria libertà e sovranità in nome della pace, dell'unità e del buon governo (ovvero il bene comune). Comunque, anche se riconosce la positività dello Stato (monarchico), Tommaso pone dei solidi limiti all'azione della società e della politica quando afferma che l'uomo "nel suo essere, nel suo potere e nel suo avere deve essere ordinato a Dio" e non alla società politica. In sostanza, afferma che, al di là dei diritti e dei doveri sociali e politici, l'uomo deve tendere interamente a Dio, poiché il suo governo spirituale è affidato ad un solo re, cioè Cristo. Tale però non è affatto una visione teocratica, come hanno detto alcuni, ma è la distinzione tra la sfera visibile e la sfera invisibile

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dell'uomo: esteriormente egli deve obbedire ad un re terreno, ma interiormente deve obbedire solo a Cristo Re, e può (anzi, deve) disobbedire al re terreno solo se egli viene in contrasto col re interiore Gesù Cristo.

Le posizioni economiche della Scolastica La Scolastica condannò con durezza il prestito di denaro contro interesse, come usura, qualunque fosse il tasso d'interesse applicato. Tommaso fece un'apertura, dichiarando legittimo il pagamento di un interesse per la disponibilità (immobilizzo) di denaro del creditore, considerando che fino alla restituzione del debito il creditore è privato delle sue finanze.

La Scolastica sosteneva il valore convenzionale della moneta, per il quale la moneta vale soltanto se le persone che la usano le riconoscono un valore, usandola come mezzo di scambio. Tale condizione è necessaria, ma non sufficiente. Le monete non acquistano valore perché le persone lo riconoscono usandole; devono avere un valore intrinseco. La Scolastica univa valore intrinseco e valore convenzionale della moneta, che sono spesso contrapposti. Nell'Alto Medioevo cominciavano a circolare note-da-banco (poi chiamate banconote) di sola carta che erano utilizzate nei pagamenti e valevano quanto le monete d'oro: ciò provava che la moneta può avere un valore per il semplice fatto che le persone lo riconoscono (valore convenzionale come condizione sufficiente della moneta).

Secondo i filosofi scolastici la moneta era una merce come le altre che serve ad acquistare altre merci. La moneta-merce si compra contro un'altra merce che può essere un'altra moneta oppure oro; perché chi detiene moneta possa incassare oro è necessario che la moneta possegga un valore tale da giustificare il prezzo pagato. Tale valore non è la capacità di acquistare beni di importo equivalente che garantisce la moneta (valore della moneta, ma non intrinseco), ma è un valore intrinseco che avrebbe anche senza essere usata come mezzo di scambio; ad esempio l'oro con cui è coniata. In questo modo, chi compra monete compra l'oro di cui sono fatte, o l'oro che è depositato in garanzia della nota-da-banco. Il valore intrinseco implica un valore convenzionale, mentre non dovrebbe valere il contrario (anche se il valore convenzionale, cioè la sicurezza che altri accetteranno in pagamento il denaro, è un valore della moneta).

Noi diremmo che la moneta è un prodotto (della zecca) e, come avviene per definizione di prodotto, pagamento e fruizione sono contemporanei; anche per la

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Scolastica, la relazione fra chi acquista moneta e chi riceve in cambio oro, altra moneta o una merce si esaurirebbe con lo scambio. Non ci sono rapporti successivi che giustificherebbero il pagamento d'interessi. Un'apertura al mondo del credito avviene considerando che chi presta denaro se ne priva per un certo periodo, immobilizza delle somme che da al debitore; il pagamento di interessi secondo Tommaso è un legittimo risarcimento del denaro che il creditore tiene a disposizione del debitore.

Altrimenti chi emette moneta priva di valore intrinseco dovrebbe pagare quanti la accettano come mezzo di pagamento, che sono gli stessi che la acquistano. All'atto d'emissione una moneta non legittima alcun tipo di interessi e, se è priva di valore intrinseco, nemmeno il pagamento di un prezzo (deve essere emessa gratuitamente). Una moneta già esistente e prestata legittima un pagamento d'interessi per il tempo per il quale la sua disponibilità è stata sottratta al creditore.

Tomismo e neo-tomismo nell'Ottocento e nel Novecento

A cura di Andrea Porcarelli http://www.filosofico.net/ttom213297masdoe.htm

La ricchezza del pensiero di Tommaso e la grande varietà dei temi affrontati hanno fatto di lui un autore molto letto e citato, talora da studiosi che si sono addentrati in profondità nello spirito e nei contenuti del suo pensiero, talora da interpreti più frettolosi che hanno contribuito a diffondere una visione distorta del tomismo. È bene, in ogni caso, accennare anche solo di sfuggita al fatto che quando si parla di "tomismo" non ci si riferisce – ovviamente – al solo S. Tommaso, ma all'insieme di tutti coloro che – nel corso dei secoli – a qualche titolo ne hanno esplicitamente ripreso l'insegnamento, a partire dai grandi commentatori della "tarda scolastica", di cui ci limitiamo – in questa sede – citare i principali: Giovanni Capreolo (1380-1444), Francesco Silvestri da Ferrara, più noto come "Ferrarese" (1468-1528), Tommaso de Vio, più noto come "Gaetano" (1469-1534), Domenico Bañez (1528-1604), Giovanni di San Tommaso (1589-1644) che hanno prodotto studi monumentali, sia come commento alle opere di Tommaso, sia come veri e propri strumenti per lo studio. Alla linea tomista "domenicana" a cui si è appena fatto riferimento, si affianca la linea "gesuitica", visto che fin dalla "Ratio studiorum" del 1599 (ma anche prima, nella Ratio del Collegio Romano) l'ordinamento degli studi dei Gesuiti prescrive esplicitamente di attenersi alla dottrina di S. Tommaso; ma tale riferimento comporterà un certo grado di libertà interpretativa, per cui possiamo di fatto distinguere una linea ermeneutica distinta, che si esprime attraverso alcuni grandi autori, tra cui citiamo: Pedro Da Fonseca (1528-1599), Gabriel Vàzquez (1549-1604), Luis de Molina (1536-1600) ed il "doctor eximius" Francisco Suàrez (1548-1627).

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La filosofia tomista nell'Italia del XIX secolo

Tra i centri che hanno favorito la rinascita e la diffusione degli studi tomistici nel XIX secolo va ricordato, innanzitutto, il Collegio Alberoni di Piacenza, attivo dal 1751, caratterizzato fin dal suo sorgere da una particolare sensibilità per la filosofia aristotelico-tomista. Nel 1879, qualche mese prima della pubblicazione della stessa enciclica Aeterni Patris, Alberto Barberis fondò – presso il Collegio piacentino – la rivista "Divus Thomas", la prima al mondo interamente dedicata interamente a san Tommaso, che fu subito bene accolta in molti paesi d'Europa (Belgio, Francia, Spagna, Ungheria, Germania), da dove studiosi insigni mandarono i loro scritti e dove il periodico ebbe notevole diffusione (fatto, peraltro, non comune per la stampa del nostro Paese). Altri centri di diffusione degli studi tomistici in Italia furono strettamente legati all'azione dell'Ordine dei Gesuiti, soprattutto dopo la sua ricostituzione nel 1814.

Quando per esempio il Collegio Romano venne nuovamente loro affidato, nel 1824, il rettore (Luigi Taparelli d'Azeglio) si rese conto che le scienze ecclesiali potevano essere risollevate dalle misere condizioni in cui versavano attraverso la riproposizione dell'antica Ratio Studiorum del 1599, che concretamente comportava la ripresa dell'insegnamento della filosofia di Tommaso d'Aquino. Trasferito a Napoli dai suoi superiori, il Taparelli operò per rilanciare gli studi tomistici anche in quella città, finché nel 1846 un altro studioso (Gaetano Sanseverino) fonda l'Accademia di Filosofia Tomista di Napoli. Nel 1850, sempre a Napoli, appare per la prima volta la rivista "La Civiltà Cattolica", non dedicata specificamente agli studi tomistici, ma che ebbe di fatto una notevole importanza per il loro rilancio contribuendo alla diffusione del pensiero dei filosofi neoscolastici. Altri centri di studi tomistici, legati in particolare all'ordine domenicano, si trovavano a Bologna (1) e a Roma (presso il convento di Santa Maria sopra Minerva). Non va dimenticato nemmeno il centro di Perugia. Nel 1880 fu fondata l'Accademia Romana di S. Tommaso d'Aquino, inaugurata dallo stesso Leone XIII e caratterizzata per il fatto di essere una istituzione pontificia a carattere internazionale.

La filosofia tomista nell'area tedesca nel XIX secolo

Nell'area culturale di lingua tedesca il fenomeno della riscoperta di Tommaso d'Aquino nella seconda metà del XIX secolo si lega da un lato alle divisioni interne all'hegelismo dopo la morte di Hegel e – dall'altro lato – al rafforzarsi della coscienza cattolica dopo il 1848. Di particolare interesse è l'opera di alcuni autori, come Franz Jakob Clemens e Joseph Kleutgen. I principali centri di elaborazione culturale furono il liceo di Eichstätt, l'Accademia di Münster e i licei reali di Baviera, oltre alle istituzioni di alcuni ordini religiosi. I centri culturali cattolici ebbero un ruolo particolare durante gli anni del Kulturkampf, quando molte istituzioni cattoliche furono soppresse e gli studenti di teologia confluivano in quelle che erano state risparmiate. Dopo il fallimento del progetto di istituire un'università cattolica in Germania, nel 1876 – proprio nel cuore del Kulturkampf – i cattolici crearono un organismo di cultura a cui appoggiarsi, vista l'emarginazione che pativano nelle università statali, la Görres-Gesellshaft, la cui sezione filosofica fu largamente influenzata dal pensiero di autori neoscolastici.

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L'enciclica Aeterni Patris

Una sottolineatura a parte merita l'enciclica Aeterni Patris (4 agosto 1879) di Leone XIII, al secolo Gioacchino Pecci, che era stato uno degli animatori del Centro di studi tomistici di Perugia. L'enciclica parte dalla considerazione che molti errori del tempo presente derivano dall'adesione a visioni filosofiche false e fuorvianti e rilancia la "mirabile armonia" ed il "misurato rigore" della sintesi di Tommaso d'Aquino come modello di filosofia in grado di garantire quell'armonia tra fede e ragione che il razionalismo laico contemporaneo metteva fortemente in discussione. Il pontefice invita i vescovi a ripristinare pienamente l'insegnamento della filosofia tomista nei seminari e nelle università cattoliche, con l'esortazione ad andare direttamente ai testi di Tommaso e dei suoi immediati commentatori. La linea di Leone XIII fu proseguita ed accentuata dal suo successore – Pio X – che era particolarmente preoccupato per gli esiti infausti della crisi modernista e, nell'enciclica Pascendi (1907), rende più rigorosamente prescrittive le indicazioni dell'Aeterni Patris, probabilmente spingendosi con questo ben oltre le intenzioni del suo predecessore. Il contributo più duraturo dell'enciclica di Leone XIII non va tanto cercato nei riflessi che ha generato negli studi ecclesiastici perché – come si è detto – questi furono ben presto condizionati dalle chiusure che derivarono dalla reazione alla crisi modernista (2), ma piuttosto nell'impulso che fu dato al sorgere di nuovi centri di studi e dal lavoro svolto dalla "Commissione leonina", costituita nel 1880 con l'incarico di curare l'edizione critica di tutte le opere di Tommaso.

La filosofia tomista in Francia Tra Ottocento e Novecento

Il contributo fondamentale dell'area culturale di lingua francese al neotomismo contemporaneo si lega indubbiamente alla fondazione dell'Istituto Superiore di Filosofia a Lovanio (in Belgio), ad opera del Card. Mercier nel 1882, che di fatto pose le basi per un positivo incontro tra il pensiero di ispirazione tomista ed il pensiero filosofico moderno. Dopo la pubblicazione dell'enciclica Aeterni patris, fu lo stesso pontefice – nel 1880 - a prendere l'iniziativa, incaricando il Card. Dechamps, arcivescovo di Malines, di creare una cattedra speciale di filosofia tomista presso l'Università cattolica di Lovanio che era, all'epoca, l'unica università cattolica completa, che comprendeva – oltre alla facoltà di teologia – la facoltà di diritto, di lettere e filosofia, di medicina e scienze naturali. Nel 1882 i vescovi belgi designarono Désiré Mercier, allora professore di filosofia al seminario di Malines, di istituire a Lovanio un corso "di alta filosofia secondo san Tommaso". Per il Mercier la filosofia non è tanto una "dottrina" da insegnare, ma è soprattutto ricerca della verità, aperta e libera, accogliendo ogni pensiero saggio ed ogni scoperta utile, da qualunque parte provengano, come faceva ed invitava a fare lo stesso Tommaso. Verso la fine del secolo l'Istituto di Lovanio è già pienamente avviato e i primi discepoli e poi successori del Mercier vi operano con lo zelo dei pionieri, estendendo progressivamente il suo raggio d'azione ed il suo prestigio in tutta Europa. Interprete acuto del pensiero di Tommaso nella prima metà del XX secolo fu Antonin–Dalmace Sertillanges (1863-1948) che pubblicò nel 1910 la sua opera in due volumi dal titolo Thomas d'Aquin, in cui affronta con originalità sul piano speculativo alcune tematiche che saranno oggetto di acceso dibattito. Ci limitiamo qui ad

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accennare all'ultimo capitolo di questo testo che – significativamente – si intitola Il futuro del tomismo, in cui l'autore si domande in quale direzione il tomismo debba rivolgere le proprie ricerche, a partire da quella che il Sertillanges individua come la sua caratteristica peculiare, ossia "lo sforzo scrupoloso di soddisfare tutte le condizioni dell'esperienza, di accogliere tutte le idee reali, di raccoglierle in una struttura e limitarle di volta in volta secondo la necessità, ottenendo così il massimo equilibrio e una giusta comprensione per ogni momento di una scienza in continua evoluzione" (3). Caratteristica peculiare del pensiero di Tommaso è la ricerca di una visione d'insieme, in modo vivo e sotto l'influsso di alcune "idee guida". Tale è, per Sertillanges, la prerogativa che rende il pensiero tomista particolarmente adatto ad affrontare positivamente i problemi del nostro tempo: si offrono principi di unità per un mondo che va alla deriva per i troppi contrasti, lealtà e correttezza come metodo per le relazioni umane in un universo sempre più individualista, capacità di analisi per studiare chi ha opinioni differenti, al fine di cogliere ciò che può esservi di vero nel pensiero di chiunque. Di grande importanza sono anche le ricerche storiche sulla filosofia medievale che attraggono l'interesse di molti studiosi che estendono alle opere dei grandi autori il metodo storico-critico, che veniva applicato – non senza un dibattito ancora piuttosto vivace – alla stessa interpretazione delle Scritture.

Di particolare interesse sono i contributi della scuola francese di Victor Cousin, che si interessò in prima persona del pensiero di Abelardo e stimolò le ricerche di Jean-Barthélémy Hauréau sulla filosofia scolastica (nel 1850 e poi con la grande Histoire de la philosophie scolastique, in 3 volumi, usciti tra il 1872 e il 1880) e di Ernest Renan su Averroé e l'averroismo (del 1852). Sulla stessa linea si collocano le ponderose ricerche di alcuni autori tedeschi, tra i quali possiamo citare la Storia della filosofia del Medioevo di Albert Stökl (1864-1867), i cinque volumi de La scolastica del Tardo Medioevo di Carl Werner (1881-1887) e la sua opera su Tommaso d'Aquino in tre volumi (1889). Le opere di carattere storico-critico che segnarono una vera svolta nella ricostruzione del pensiero filosofico scolastico in genere e tomista in particolare furono quelle di Clemens Beaumker (1853-1924), Pierre Mandonnet (1858-1936) e Maurice De Wulf (1867-1947). Beaumker fondò, nel 1891, la collana di pubblicazioni chiamata Contributi alla storia della filosofia del Medioevo, che diresse fino alla morte, quando gli successe Martin Grabman (1875-1949), che pubblicò lavori ancora oggi importanti sulla Storia del metodo scolastico (2 voll., 1909-1911), su Tommaso d'Aquino e la scuola tomista. Ancora più illuminanti sono i contributi del domenicano francese Pierre Mandonnet, che coglie – da storico – il significato della reazione conservatrice contro Tommaso d'Aquino: la tradizione agostinista, che costituiva la dottrina tradizionale dei pensatori pre-tomisti fino a Bonaventura, si caratterizza per il fatto di conoscere senza rendere del tutto effettiva la distinzione tra filosofia e teologia tanto cara ad Alberto Magno e Tommaso d'Aquino. È Mandonnet il primo autore a cogliere la specificità del contesto storico-culturale dell'opera di Tommaso, simultaneamente impegnato su due fronti: nell'attacco contro l'averroismo latino e nella difesa contro l'agostinismo reazionario. Mandonnet inizia nel 1921 la serie di pubblicazioni della Bibliotèque thomiste, con lavori prevalentemente di carattere storico ed avvia, dal 1924, la rivista critica Bulletin thomiste, che si caratterizza sempre per la straordinaria attenzione alla ricostruzione storica del pensiero di

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Tommaso.

I frutti di tale paziente lavoro di indagine storico-critica confluiscono nella Storia della filosofia medievale di De Wulf (professore a Lovanio), pubblicata in prima edizione nel 1900 e costantemente rieditata, tenendo conto degli sviluppi progressivi della ricerca storica.

Étienne Gilson

Nel periodo fra le due guerre la ricerca storica sull'età medievale riceve un grandissimo impulso dalla fondazione di numerosi istituti di ricerca con questa specifica finalità: si avvia l'edizione critica dell'opera di molti autori (da Alessandro di Hales ad Alberto Magno, per citarne solo due), a Parigi inizia ad operare un altro grandissimo studioso, Étienne Gilson, che avvia nel 1926 la pubblicazione degli Archives d'Histoire Doctrinale et Littéraire du Moyen-Age e, dal 1930, della serie degli Études de Philosophie Médiévale, raccogliendo attorno a tali organi un cospicuo numero di collaboratori di grande valore. Gli orizzonti degli studi storici specialistici si aprono oltre oceano, con la fondazione della Medieval Academy of America, a Cambridge (Massachussetts) nel 1925 e l'Institute of Medieval Studies, fondato a Toronto nel 1929, con la collaborazione dello stesso Gilson. Egli si muove ancora come storico della filosofia, ma opera ad un livello diverso rispetto ai suoi colleghi e predecessori: non si è mai occupato personalmente di ricerca di manoscritti, ma ha sempre favorito il lavoro erudito e ne ha fatto la base delle sue ricerche, spostando solo l'asse della domanda storica non tanto sulla constatazione di "quello che è stato detto", quanto sulla ricerca "di che cosa si stesse veramente parlando", sempre su un piano di ricostruzione storicamente accurata. Il suo testo sul tomismo (Le Thomisme) appare per la prima volta nel 1919, riceve la forma attuale nella IV edizione, del 1941, ma la quinta e la sesta apportarono ulteriori cambiamenti. Lo stesso si dica del suo celebre compendio, La philosophie au moyen-âge (apparso nel 1922 e ripubblicato in diverse edizioni, sempre aggiornate alla luce dei progressi della ricerca storica). Un discorso a parte merita la sua opera, più filosofica che storica, L'être et l'essence, del 1948, mentre nel 1932 era stata pubblicata un'altra opera fondamentale, L'Esprit de la philosophie médiévale. Forse in tale opera – dal titolo particolarmente evocativo – risiede la cifra dell'importanza dell'opera di Gilson e della sua lettura della scolastica in genere e di Tommaso in particolare: la filosofia medievale si caratterizza in quanto filosofia cristiana, non nel senso che la ricerca filosofica sia "condizionata" dalla fede cristiana, ma nel senso che le verità della fede cristiana hanno offerto all'indagine filosofica gli "spunti euristici" (4) per porsi in modo nuovo alcune domande eterne dell'uomo. È attraverso la ricerca storica che è possibile ricostruire il vero volto di Tommaso e dunque essere, autenticamente, "tomisti". Nella sua opera esplicitamente dedicata al profilo speculativo di Tommaso (Le thomisme. Introduction au système de saint Thomas d'Aquin) in cui si sottolinea come i temi filosofici ed i temi teologici – nelle opere dell'Aquinate – siano materialmente congiunti e formalmente distinti: quando Tommaso si occupa di filosofia è sempre anche "teologo", nel senso che non trascura di mettere in luce i riflessi teologici delle proprie riflessioni, mentre nei passaggi del proprio ragionamento che non si basano su premesse desunte dal patrimonio della rivelazione egli non solo

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argomenta in termini strettamente filosofici, ma si premura di attivare un "dialogo a distanza" con i filosofi di varie impostazioni e correnti, proprio su quelle tematiche. In altre parole Gilson osserva come la teologia di Tommaso sia quella di un filosofo e la sua filosofia sia quella di un santo. Sl libro sul sistema filosofico di Tommaso in generale seguì, nel 1925, un testo sulle dottrine morali dell'Aquinate (il testo fu pubblicato con il titolo Saint Thomas d'Aquin nella collana dedicata ai moralisti cristiani), in cui Gilson sottolinea come la morale di Tommaso non sia separabile dalla sua metafisica, discutendo in particolare la dottrina del Sommo Bene come chiave di volta dell'edificio etico tomista. Oltre alla controversia sulla filosofia cristiana, di cui si è già fatto cenno, Gilson fu coinvolto – negli anni Trenta – in un altro dibattito molto vivace, circa la validità del realismo critico sostenuto da molti neoscolastici. Due sono le opere da lui pubblicate in tale contesto, Le réalisme méthodique (1936) e Réalism Thomiste et critique de la connaissance (1939), in cui prende in esame anche le idee di quanti sostenevano che per portare la riflessione scolastica al livello della discussione filosofica moderna fosse necessario assumere la prospettiva gnoseologica del dubbio cartesiano e del criticismo kantiano.

Gilson afferma che se si parte dal cogito cartesiano o dal criticismo kantiano non si potrà mai giungere all'affermazione "le cose esistono in sé": il realismo scolastico è tutt'altro che "ingenuo" (come asseriscono alcuni suoi detrattori), ma si tratta di "un realismo consapevole, meditato e voluto, che tuttavia non muove dal problema posto dall'idealismo, poiché i presupposti di questo problema implicano necessariamente l'idealismo stesso come sua soluzione. In altre parole: anche se questa tesi di primo acchito può sorprendere, il realismo scolastico non è al servizio del problema gnoseologico - piuttosto sarà vero il contrario - bensì la realtà viene vista in esso come indipendente dal pensiero, l''esse' viene posto come distinto dal 'percipi', e questo sulla base di una certa rappresentazione di che cosa sia la filosofia e come condizione della sua stessa possibilità. Questo è un realismo metodico" (5).

Le ricerche di Gilson porteranno ad una complessiva revisione della maggior parte dei manuali di filosofia scolastica circolanti nelle università cattoliche e nei seminari, anche per eliminare le numerose ingenuità sul piano della ricostruzione storica che non potevano sfuggire a studiosi che andavano progressivamente maturando una forte sensibilità di tipo storico-critico, pur mantenendo una costante tensione verso la acquisizione degli elementi teoretici di quella philosophia perennis, di cui Tommaso veniva – comunque – considerato maestro (anche da studiosi storicamente attrezzati come Gilson). In tale impostazione emerge una logica per cui da un lato vi sono dei motivi storici per cui è in un'epoca piuttosto che in un'altra e in un ambiente culturale piuttosto che in un altro che i filosofi maturano la convinzione della necessità di appellarsi a determinati principi e giungono – di conseguenza – a determinate conclusioni; dall'altro lato però il valore teoretico di tali principi e la coerenza logica dei ragionamenti che ad essi si appellano, non devono necessariamente venire relegati nel tempo in cui i principi ed i percorsi logici vennero – di fatto - pensati.

Fernand Van Steenberghen

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Su posizioni distinte, rispetto a quelle di Gilson, si collocano altri notevolissimi interpreti del pensiero di Tommaso, con particolare riferimento a Fernand Van Steenberghen, successore di De Wulf alla cattedra di Lovanio. Egli, evidentemente, non nega l'ispirazione cristiana della filosofia medievale, ma critica il concetto di "filosofia cristiana" nella forma indicata da Gilson che sarebbe estraneo alla cultura del periodo: autori come Bonaventura – per esempio – sono in primo luogo teologi, che non elaborano una filosofia autonoma, ma ne usano semplicemente alcuni concetti in funzione della trattazione teologica (in tali autori si può cogliere in senso più proprio una visione "ancillare" della filosofia nei confronti della teologia), mentre è prerogativa peculiare di Alberto di Colonia e più ancora di Tommaso d'Aquino l'avere organizzato in modo sistematico questa filosofia autonoma ed averne sottolineato l'importanza in rapporto alla teologia. Per questo motivo – afferma Van Steenberghen, che ha scritto un'opera in due volumi su Sigieri di Brabante attraverso le sue opere inedite – Tommaso è in grado di incontrare sul suo stesso piano (quello di una riflessione filosofica autonoma) sia l'aristotelismo "radicale" di Sigieri, sia i presupposti filosofici utilizzati dai teologi agostiniani, sia una rilettura più attenta della filosofia di Aristotele che passa attraverso l'analisi attenta delle sue opere. È interessante notare come Van Steenberghen da un lato prenda le distanze da alcuni elementi dell'interpretazione storica del pensiero medievale operata da Gilson, ma dall'altro affermi con forza la necessità di un "neotomismo" che sappia "riscrivere" la filosofia di Tommaso nello stile del nostro tempo e tenendo conto delle istanze proprie del nostro tempo.

La filosofia tomista in Italia nella prima metà del Novecento

In Italia un punto di riferimento importante è costituito, nella prima metà del XX secolo, dalla nascita della "Rivista di Filosofia Neoscolastica" (1909) e dalla fondazione dell'Università Cattolica del Sacro Cuore (nel 1921, riconosciuta dallo Stato italiano nel 1924); ricordiamo anche la rivista "Vita e Pensiero" (fondata nel 1914), che si rivolgeva ad un pubblico più ampio, con un largo ventaglio di interessi culturali.

Campeggia in questa fioritura di iniziative la figura di Agostino Gemelli (1878-1959) che animò il centro milanese per circa mezzo secolo, muovendo dalla convinzione che una robusta base filosofica fosse il fondamento ineludibile di tutta l'impresa culturale che fioriva attorno al centro milanese. Nel periodo che va dalla fondazione dell'Università al secondo conflitto mondiale la scena filosofica italiana è dominata dal neoidealismo di Croce e Gentile, con cui i docenti della Cattolica intrecciano un fitto dibattito. Di particolare rilievo in questo senso è l'opera di Amato Masnovo (1880-1955) che volse i propri sforzi nella direzione di una ricostruzione rigorosa ed essenziale della metafisica classica, insistendo in modo particolare sul problema del "fondamento" della metafisica stessa, a partire dalla domanda sul fondamento del possibile (il possibile è pensabile da un'intelligenza finita solo conseguentemente alla conoscenza di ciò che è attualmente reale). Interessanti sono le conseguenze di tale posizione nel campo della critica della conoscenza: "nell'ordine ideale, cioè dei principi, non vi può essere certezza riflessa senza la coscienza della possibilità dell'ente. Ora la coscienza della possibilità dell'ente – nozione

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semplicissima – non può essere conquistata per analisi: deve essere conquistata attraverso l'esperienza esterna o interna, secondo l'effato 'ab esse ad posse datur illatio': dalla realtà di una cosa si è autorizzati ad affermare la sua possibilità" (6). Francesco Olgiati (1886-1962), fondatore della Cattolica assieme a Gemelli, difese la purezza della metafisica classica saldamente ancorata al principio dell'immediatezza e trascendentalità del suo principio, l'ente. La tesi di fondo su cui si basa la sua difesa del tomismo parte dall'idea che la negazione del valore della prospettiva realista non era – in realtà – il cuore delle più autentiche acquisizioni del pensiero moderno, ma una conclusione indebita rispetto a premesse di cui era possibile recuperare il valore. I campi in cui la modernità ha portato i frutti migliori sono – secondo Olgiati – quelli della scienza e della storia, che possono trovare una loro fondazione sintetica ad un livello più profondo proprio nella prospettiva realista, attraverso un recupero della dottrina dell'astrazione, in una visione della riflessione filosofica che pone al centro e al culmine la speculazione metafisica.

Panorama complessivo della seconda metà del Novecento

Nella seconda metà del XX secolo, dopo la guerra, la situazione degli studi tomisti presenta un panorama decisamente interessante: sul piano dell'indagine storica la ricerca è proseguita in modo non del tutto uniforme, ma continuativo; giungono a conclusione alcune iniziative a lungo termine che erano state intraprese nel periodo tra le due guerre; le grandi edizioni critiche delle opere si arricchiscono di volumi completi, con ritmo lento, ma con una elevatissima qualità critica. Intorno agli anni '60 ha inizio un'ondata di ristampe anastatiche di libri ormai rari (soprattutto edizioni della prima età moderna), tra cui numerosi testi di fonti scolastiche che non costituiscono un vero e proprio progresso nel campo della ricerca, ma consentono una maggiore disponibilità di testi utili a quegli studi a cui viene così dato un notevolissimo impulso. Sorgono nuovi centri di studi come il "Thomas Institut" (fondato da Josef Koch presso l'Università di Colonia nel 1950). Sempre nel 1950 iniziano i "congressi medievistici" interdisciplinari, i cui contributi iniziano ad apparire dal 1962 nella collana Miscellanea mediaevalia. Nel 1954 Michael Schmaus fonda – a Monaco – il "Martin Grabmann Institut" e nel 1956 sorge il "Centre De Wulf Mansion" a Lovanio, per la storia della filosofia antica e medievale, dove – nel 1958 – si tiene il primo Congresso Internazionale per la Filosofia Medievale, con la fondazione della SIEPM (Société Internationale pour l'Étude de la Philosophie Médieévale) che, a partire dall'anno successivo, inizia a pubblicare un Bulletin, diffuso a livello mondiale. Centri analoghi, con compiti specifici che spaziano per tutto l'arco e le correnti della filosofia medievale, nascono in tutto il mondo, ma volendoci concentrare solo sui centri con un particolare interesse per lo studio di Tommaso d'Aquino sorti nella seconda metà del XX secolo, dobbiamo ancora citare perlomeno il "Thomas Institut" di Kyoto (Giappone), sorto nel 1955. Di particolare rilievo anche il fatto che Centri di studi operanti nel Medio Oriente (come quelli del Cairo, Beirut e Gerusalemme), particolarmente attivi nell'area delle ricerche sul pensiero arabo del Medioevo, siano ormai stabilmente entrati "in rete" con i centri operanti in Occidente, partecipando abitualmente ai congressi della SIEPM. Lo stesso Istituto di Lovanio si rinnova e si rafforza: nel 1946 la rivista dell'Istituto fu ribattezzata "Revue Philosophique

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de Louvain", a sottolineare la fisionomia specifica assunta dalla "scuola di Lovanio" nel corso degli anni; e nel 1951 il re del Belgio organizza celebrazioni "giubilari" in occasione del centenario della nascita del Card. Mercier, istituendo anche una Cattedra a lui intitolata, nel 1956 nasce presso l'Istituto una nuova sezione, ossia il "Centre De Wulf-Mansion, Recherches de philosophie anciénne et médiévale – De Wulf-Mansion Centrum. Navorsing over antieke en middeleeuwse filosofie".Sul piano della ricerca teoretica il panorama muta notevolmente – soprattutto a partire dagli anni del Concilio Vaticano II – rispetto alla prospettiva dell'enciclica Aeterni patris: si registra una generale apertura del pensiero scolastico alla filosofia e più ancora alle scienze moderne e contemporanee, con un progressivo affievolirsi di una prospettiva prevalentemente apologetica che aveva caratterizzato il tomismo del XIX e della prima metà del XX secolo. Il pensiero moderno viene preso sul serio nei suoi intenti più profondi, accettato come qualcosa di positivo (del resto Tommaso stesso affermava che "omne verum, a quocumque dicatur, a Spiritu Sancto est"), utile per ripensare ed approfondire la riflessione scolastica che non si limita più a "tramandare" una nobile tradizione (nella logica dell'Aeterni patris), ma si pone il problema di portare un proprio contributo per accrescere il patrimonio comune della riflessione umana, interrogandosi sulle grandi questioni del tempo presente.

Erich Przywara

Erich Przywara (1889-1972) può essere considerato – in questo senso – un autore che segna una linea di spartiacque: la sua apertura a problemi e pensatori in certo modo "nuovi" dal punto di vista della tradizione neoscolastica, contribuì a creare un clima culturale diverso, all'interno della cultura cattolica di area tedesca. Emblematiche le parole con cui annunciò il proprio programma teoretico in occasione del congresso della Società Accademica Cattolica a Ulma nel 1923: "Ciò di cui abbiamo bisogno e che quindi oggi ci proponiamo come programma, è una filosofia dell'equlibrio, un equlibrio non 'oggi per sempre', ma piuttosto 'che procede all'infinito': la filosofia della polarità, equidistante da una filosofia di inquieti capovolgimenti come da una filosofia della statica medietà, la filosofia della polarità dinamica" (7). La polarità, come "unità di tensione", richiama il senso del mistero, con un'apertura che va oltre una prospettiva riduttivamente immanentistica, senza configurarsi come una fuga immediata in un trascendentalismo ingenuo, ma si caratterizza come ricerca di risposte alle domande che provengono dall'abisso degli opposti. Tra le riflessioni di Przywara che più hanno fatto discutere vi è indubbiamente la sua lettura del tema – tipicamente tomista – dell'analogia entis, a partire dalle due parti che compongono la parola ana-logia. Il termine logia dice riferimento al nesso tra "Logos" e "leghein" e viene interpretato da Przywara come il "raccogliersi a formare un senso nella parola"; il suffisso ana può a sua volta designare un duplice significato. Da un lato può avere il senso di "conforme a", dall'altro si confonde in tutte le parole composte con anô , nel senso di "sopra, su, di nuovo". Il mondo può in tal modo manifestarsi secondo un duplice ritmo, sul piano dell'ana (dimensione orizzontale) e sul piano dell' anô (dimensione verticale) che si incontrano in quello che sarebbe il "proprium" dell'analogia intesa come "incrocio di coordinate" in una lettura dinamica di una realtà che si colloca su una pluralità di piani.

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Edith Stein

Interessantissima in questo senso è anche Edith Stein (1891-1942) (8), di famiglia ebrea, prima allieva e assistente di Edmund Husserl, poi avvicinatasi al tomismo dopo la conversione al cattolicesimo, ha operato profondi tentativi di sintesi tra la fenomenologia husserliana e la filosofia di Tommaso. Nel 1933 entra nell'Ordine Carmelitano di Colonia, continua i propri studi filosofici, ma non può pubblicare in quanto ebrea. Viene arrestata dalla Gestapo nel 1942 e condotta ad Auschwitz-Birkenau, dove troverà la morte nella camera a gas. Nel 1950 inizia l'edizione delle sue opere a Bruxelles; nel 1962 viene istruita la causa di beatificazione, il 1° maggio 1987, a Colonia, Giovanni Paolo II ha dichiarato beata la martire Edith Stein. La Stein abbracciò l'impostazione filosofica husserliana in un contesto culturale in cui il dibattito ruotava attorno alla fondazione delle scienze dello spirito di contro alle scienze della natura, ed ella si sentì "corresponsabile" di questa impresa scorgendo il metodo di tali scienze non nella spiegazione causale, ma nella "comprensione che si immedesima" per cui ogni soggetto spirituale afferra "per immedesimazione" gli altri soggetti e si rende presente come "datità" il loro agire. L'incontro con il pensiero scolastico le fece maturare la convinzione che il suo ruolo culturale dovesse proprio collocarsi in questa area di mediazione tra antico e moderno, attraverso la lettura di Tommaso con le chiavi interpretative della fenomenologia husserliana.

Jacques Maritain

Una figura del tutto particolare nel panorama del XX secolo è rappresentata da Jacques Maritain (1882-1973), di cui è davvero interessante seguire le vicende biografiche (9), e il cui pensiero campeggia nel panorama culturale della rinascita del tomismo per tutta la parte centrale del XX secolo. Dopo la "conversione" dalla prospettiva bergsoniana (che pure aveva avuto un ruolo importantissimo nella formazione della sua personalità intellettuale e spirituale) Maritain si proclama "un fedele seguace di S. Tommaso d'Aquino" e non propriamente un "tomista": la sua attenzione principale non è centrata sull'analisi ed il commento della dottrina di Tommaso, ma si preoccupa di riprendere e ri-esprimere secondo il proprio linguaggio e la propria sensibilità alcuni temi filosofici (talora centrali in Tommaso, talora più marginali) aventi come principale caratteristica la particolare "attualità" nel tempo in cui si svolge l'avventura intellettuale di Maritain. I più significativi punti di incontro tra Tommaso e Maritain riguardano il primato dell'esistente (prendendo le distanze dall'intellettualismo razionalistico che pervadeva anche gli studi tomistici del tempo), il ruolo decisivo dell'intuizione intellettuale, la pluralità dei gradi del sapere in funzione metodologica e per un incontro sapienziale tra le diverse discipline, il rapporto tra individuo e persona, l'elaborazione di un "umanesimo integrale" che possa fungere da modello, da "ideale storico-concreto" per una nuova umanità ed una nuova cristianità. Se leggiamo tali tematiche sullo sfondo delle vicende storiche con cui si è intrecciata la vita di Maritain (le due guerre mondiali, i totalitarismi, l'incontro con il pragmatismo edonistico americano, la speranza per una giustizia internazionale fondata sui Diritti Umani, il Concilio Vaticano II), possiamo capire quanto la sua rilettura di Tommaso fosse effettivamente orientata alla ricerca di risposte profonde alle

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questioni "epocali" dell'umanità. Volendo cogliere – a titolo puramente esemplificativo – alcune suggestioni dai numerosi temi affrontati da Maritain, ci soffermiamo sulla sua idea di un Umanesimo integrale (opera pubblicata nel 1936), in cui – di fronte al volto drammatico dei diversi totalitarismi – si propone una visione della società che ha al centro un ideale con due punti di riferimento, espressi dalle parole del titolo: un "umanesimo", perché l'uomo – la persona umana – deve essre posta al centro dell'organizzazione etico-politica della vita singola e associata; "integrale", perché integrato (nel senso di completato) da un'apertura alla trascendenza di Dio, contro le varie forme di "umanesimo riduzionistico" che di fatto costituivano il fondamento teorico dei totalitarismi del tempo. Nel testo, pubblicato nel 1932, Distinguer pour unir: ou Les degrés du savoir, Maritain offre in qualche modo i fondamenti della sua rilettura di Tommaso nella cultura del proprio tempo, in dialogo con il sapere scientifico che – a sua volta – si colloca entro un orizzonte sapienziale più ampio: "Il filo conduttore ci è fornito dalla dottrina dei tre gradi di astrazione, o dei tre gradi secondo cui le cose offrono allo spirito la possibilità di cogliere in esse un oggetto più o meno astratto e immateriale, quanto all'intelligibilità stessa che discende dalle premesse alle conclusioni e, in ultima analisi, quanto al modo di definire. Lo spirito può considerare oggetti astratti e purificati solamente dalla materia, in quanto è fondamento della diversità degli individui in seno alla specie, in quanto, cioè, è principio di individuazione; l'oggetto resta, così, e anche in quanto presentato all'intelligenza, impregnato di tutte le note derivanti dalla materia, eccettuate solamente le particolarità contingenti e strettamente individuali che la scienza trascura. (...) Oppure lo spirito può considerare degli oggetti astratti e purificati dalla materia in quanto essa, in generale, fonda le proprietà sensibili, attive e passive, dei corpi. Allora lo spirito considera soltanto una proprietà che isola dai corpi – quella che resta quando tutto il sensibile è caduto – la quantità, numero ed estensione considerati in sé: oggetto di pensiero che non può esistere senza la materia sensibile, ma che può essere concepito senza di essa (...). Infine lo spirito può considerare oggetti astratti e purificati da ogni materia, non conservando nelle cose altro che l'essere stesso di cui sono penetrate, l'essere in quanto tale e le sue leggi: oggetti di pensiero che non soltanto possono essere concepiti senza materia, ma che anche possono esistere senza di essa, sia che non abbiano mai l'esistenza nella materia, come Dio e i puri spiriti, sia che la loro esistenza si dia nelle cose tanto materiali quanto immateriali, come la sostanza, la qualità, l'atto e la potenza, la bellezza, la bontà, ecc. (...) Per precisare, notiamo che, poiché tutti i nostri concetti si risolvono nell'essere, che è il primo oggetto raggiunto (in confuso) dall'apprensione intellettuale, i concetti della METAFISICA si risolvono nell'essere come tale, ens ut sic, quelli della MATEMATICA in quella sorta d'essere (isolato dal reale) che è la quantità ideale, quelli della FISICA nell'essere mobile o sensibile, ens sensibile. Ma per la filosofia della natura, bisognerà, in questa espressione ens sensibile, mettere l'accento su ens: scienza esplicativa, essa rivela la natura e le ragion d'essere del suo oggetto. (...) Per la scienza empirica della natura, invece, quando diciamo ens sensibile, essere sensibile, non sarà su ens, bensì su sensibile che bisognerà porre l'accento" (10). Tra gli altri temi centrali del pensiero di Maritain segnaliamo ancora la distinzione tra individuo e persona, che rappresenta un'originale rielaborazione di temi tomisti e viene espressa con chiarezza nell'opera del 1925 Trois réformateurs: Luther, Descartes, Rousseau, in un percorso che tende a rinvenire le radici dell'individualismo moderno, in

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cui si assiste ad un'esaltazione dell'individualità "camuffata da persona" e – conseguentemente – ad un impoverimento della nozione autentica di persona (che, come dice Tommaso, è "nome che esprime una dignità", porta l'impronta del divino, un mondo di valori spirituali e morali, si configura come una singolarità ineffabile e inviolabile). Il tema forse più caro alla speculazione maritainiana è la proposta di un Umanesimo integrale, capace di reagire alla "tragedia dell'umanesimo contemporaneo" che si configura come un "umanesimo inumano", avendo perso il riferimento alla dimensione metafisica della persona umana, che la colloca all'interno di un quadro di valori che ha Dio al vertice. Un cenno meritano anche le opere educative di Maritain (11), in cui egli riprende la concezione educativa di Tommaso, sia per quanto esplicitamente scriveva l'Aquinate nel De Magistro, sia rintracciando nell'antropologia tomista i fondamenti di una filosofia dell'educazione capace di resistere alle opposte tentazioni del totalitarismo e del pragmatismo: "Il compito principale dell’educazione è soprattutto quello di formare l'uomo, o piuttosto di guidare lo sviluppo dinamico per mezzo del quale l'uomo forma se stesso ad essere un uomo. Questa è la ragione per cui avrei potuto adottare come titolo: l'educazione dell'uomo. (...) L'educazione è un'arte, un'arte particolarmente difficile. Tuttavia essa appartiene per la sua natura stessa alla sfera della morale e della sapienza pratica. L'educazione è un'arte morale (o piuttosto una sapienza pratica in cui è incorporata una determinata arte). Ora ogni arte è una spinta dinamica verso un oggetto da realizzare che è lo scopo dell'arte stessa. Non c'è arte senza finalità; la vitalità stessa dell'arte consiste nell'energia con cui tende al suo fine, senza fermarsi a nessuno stadio intermedio" (12).

L'Università Cattolica di Milano

L'opera dei grandi maestri dell'Università Cattolica di Milano che hanno operato nella prima metà del secolo è stata ereditata da Gustavo Bontadini (1903-1990) e Sofia Vanni Rovighi (1908-1990). Bontadini amava definirsi come "un metafisico radicato nel cuore del pensiero moderno" ed è proprio l'attenta lettura di molte opere di impostazione idealistica che lo porta ad affermare quella che egli considera la "verità metodologica" dell'idealismo: il primato metodologico della coscienza quale orizzonte per poter parlare dell'essere costituisce il guadagno speculativo dell'età cartesiana, ma proprio all'interno di tale guadagno si insinua l'affermazione aporetica che considera l'essere come "altro" dalla coscienza, ciò di cui si dovrebbe "provare" la corrispondenza con quanto è dato nella conoscenza sensibile o intellettiva; l'idealismo sopprime questa aporia (il dilemma del "ponte" per passare dalla coscienza all'essere), rimanendo però nell'orizzonte del "cogito", riaffermando l'originaria identità del pensiero con l'essere (in una sorta di ritorno a Parmenide). La prospettiva di Bontadini cerca a sua volta di cogliere – come si è detto – la "verità profonda" del superamento idealistico dell'aporia cartesiana, recuperando una prospettiva metafisica che egli chiama "neoclassica": "la metafisica neoclassica conserva la verità dell'idealismo (l'intrascendibilità del pensiero come organo dell'interno, come orizzonte assoluto...) e la perfezione inserendovi l'impianto problematico, la struttura della mediazione dell'esperienza: in una parola l'esatta – rigorosa! – metodica e non generica posizione dell'antinomia di trascendenza e immanenza, per cui si parlerà di trascendere – se mai sia

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possibile – l'esperienza nell'orbita del pensiero!" (13). Il principio o "cominciamento" della filosofia è, secondo quanto affermava lo stesso Tommaso, l'ente (ciò che per primo l'intelletto concepisce) a cui Bontadini applica quello che egli stesso chiama "Principio di Parmenide", riformulato in termini non-monisti: "la constatazione del divenire, da un lato, e la denuncia della sua contraddittorietà, dall'altro. Due protocolli che fanno capo rispettivamente, ai due piloni del fondamento: l'esperienza e il principio di non contraddizione (primo principio). I due protocolli sono tra loro in contraddizione, e tuttavia godono entrambi del titolo di verità ... sono verità, però, che in quanto prese nell'antinomia (antinomia dell'esperienza e del logo) si trovano a dover lottare contro un'imputazione di falsità. Giacché l'esperienza oppugna la verità del logo e il logo quella dell'esperienza" (14).

Cornelio Fabro

Da istanze simili muove l'opera di Cornelio Fabro (1911-1995) che ha dedicato gran parte della propria attività al tentativo di riscoprire un tomismo autentico, liberandolo dall'essenzialismo sistematico della tradizione greco-scolastica e dal soggettivismo immanentistico del pensiero moderno, per farne emergere i tratti caratteristici di filosofia dell'essere e della libertà. Principio o "cominciamento" del pensiero è proprio l'ens, l'ente, inteso come "trascendentale fondante" ogni possibile conoscenza concettuale. Oltre ai suoi contributi fondamentali nel campo dei fondamenti della metafisica, ci preme segnalare di Fabro le sue riflessioni sull'uomo e la libertà: all'umanesimo senza fondamento del pensiero moderno, la speculazione tomistica oppone l'idea che l'esse è implicato nella stessa struttura costitutiva della persona ed è questo il modo più alto di celebrare la dignità dell'uomo. Ogni uomo, in quanto essere spirituale, è un soggetto libero e intelligente e lo spirito umano risulta come costituito – nell'ordine etico-esistenziale – da una "libertà assoluta per partecipazione", la quale, ben lungi dal disperdersi in una cieca indifferenza rispetto agli oggetti da scegliere, si configura come facoltà autenticamente umana proprio in quanto capace di tendere a Dio come Sommo Bene.

Josef Pieper

Il contributo di Josef Pieper (1904 - 1997) muove a partire dalle aspre critiche che gli ambienti esistenzialisti (con particolare riferimento a Heidegger e Jaspers) hanno rivolto contro l'idea di una "filosofia cristiana" che Heidegger dipingeva come una sorta di "ferro di legno", una contraddizione in termini. Pieper sottolinea – sulla scorta del pensiero di Tommaso – come il domandare proprio della filosofia si configuri come una ricerca reale di una risposta: "Nonostante si sappia che alla fine sta l'incomprensibile, essere alla ricerca di una risposta e tenersi aperti per essa; mentre per Heidegger 'domandare' sembra piuttosto significare: rifiutare in linea di principio qualsiasi possibile risposta, e chiudersi di fronte ad essa (perché essa, di fatto, intaccherebbe il carattere di domanda della filosofia)" (15). Nella filosofia di Pieper si può riscontrare un'indubbia centralità del problema antropologico, che si dipana in tre filoni essenziali:

1) l'uomo deve lottare per vivere da uomo;

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2) l'uomo deve rapportarsi con la realtà (non è l'uomo la misura dell'essere, ma l'essere è misura dell'uomo);

3) l'uomo ha come fine supremo Dio e realizza pienamente la propria umanità nella misura in cui partecipa di Dio, conosciuto nell'amore.

L'attualità del tomismo, per Pieper, non risiede tanto nel fatto che esso offra alla modernità ciò che essa esplicitamente chiede, ma ciò di cui ha profondamente bisogno, come risposta ai propri problemi irrisolti. Pieper ha costruito una sintesi originale, che assimila in un impianto autenticamente tomistico elmenti platonici, neoplatonici, agostiniani e aristotelici: fossilizzarsi nella pura ripetizione di tesi tomistiche sarebbe decisamente "anti-tomistico". Il tomismo infatti – secondo Pieper – unisce alla capacità di cogliere i valori trascendentali e i principi metafisici della realtà, la consapevolezza del limite di ogni conoscenza umana, superando tentazioni storiciste o relativistiche; esso esclude altresì prospettive come quelle hegeliana e marxista che pretendono di possedere la chiave di lettura dell'Assoluto che si realizza nella storia. In conclusione di un saggio sulla questione della verità, Pieper scrive che "giammai l'uomo comprenderà – ossia conoscerà fino in fondo – la natura delle cose. E mai saprà misurare la totalità dell'universo. (...) La conoscenza dell'essenza delle cose e la conoscenza della totalità delle cose, è stata concessa all'uomo 'come speranza futura'. Ciò significa: ogni sforzo conoscitivo sarà sì un positivo progresso, e non sarà per principio inutile; ma avrà anche sempre come risultato un nuovo non-ancora. (...) L'uomo è capax universi (e a tal punto che lo stesso universo, proprio perché non è 'tutto', non riesce a saziarlo). (...) Perché l'uomo è situato nel centro di un mondo che al di là di quanto è da noi via via conosciuto tiene sempre pronto l'imprevedibile; perché egli è un essere che vive al cospetto della totalità delle cose esistenti e la cui interiore sconfinatezza non è che la risposta alla inesauribile immensità del suo mondo. Questo mondo a sua volta risponde – questa è la sua natura – al verbo creatore dell'intelligenza divina, nella cui 'arte' gli archetipi del mondo sono vita. Poiché l'universo delle cose esistenti 'è posto fra due intelletti', il divino e l'umano. E il ciò, come ben sa la tradizione metafisica occidentale, si fonda la verità delle cose" (16).

Note

(1) L'Accademia tomistica di Bologna fu fondata nel 1853 da Marcellino Venturoli, da Francesco Battaglini Ufuturo cardinale di Bologna, da Giambattista Corsoni e Achille Sassoli Tomba, per citare solo i principali.

(2) Possiamo anzi affermare che il "tomismo imposto per decreto" che caratterizza il pontificato di Pio X e si traduce nella pubblicazione, il 27 luglio 1914, delle 24 tesi tomiste, redatte dal p. Guido Mattiussi (successore di Billot alla Gregoriana) per conto della Congregazione degli Studi non ha certamente giovato al progresso dell'autentica riflessione filosofica genuinamente ispirata a Tommaso. Si trattava di un tomismo semplificato, coartato in formule riduttive, ben lontano dall'autentica tensione filosofica che caratterizzava gli scritti dell'Aquinate.

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(3) A. D. Sertillanges, Le Thomisme, cit. in Aa. Vv., La filosofia cristiana nei secoli XIX e XX, II. Ritorno all'eredità scolastica, Città nuova, Roma 1994, p. 570.

(4) Può essere utile citare un passaggio cruciale dell'opera del nostro autore: "Il contenuto della filosofia cristiana è dunque il corpo delle verità razionali che sono state scoperte, approfondite, o semplicemente salvaguardate, grazie all’aiuto che la rivelazione ha apportato alla ragione. Se questa filosofia sia realmente esistita, o se essa non sia che un mito, è una questione di fatto che noi chiederemo alla storia di risolvere. (...) Il filosofo cristiano si domanda semplicemente, se tra le proposizioni ch’egli crede vere, ce ne sia un certo numero che la sua ragione potrebbe saper vere. Finché il credente fonda le sue asserzioni sulla persuasione intima, che la sua fede gli conferisce, egli rimane un puro credente e non è ancora entrato nel dominio della filosofia; ma dal momento in cui egli trova nel numero delle sue credenze alcune verità che possono divenire oggetto di scienza, egli diventa filosofo, e se deve questi nuovi lumi filosofici alla fede cristiana, diventa un filosofo cristiano" [E. Gilson, Lo spirito della filosofia Medievale, trad. it. ed. Morcelliana, Brescia 1983, pag. 42].

(5) E. Gilson, Le réalisme, cit. in Aa. Vv., La filosofia cristiana nei secoli XIX e XX, II. Ritorno all'eredità scolastica, Città nuova, Roma 1994, p. 618.

(6) Amato Masnovo, Gnoseologia e metafisica, cit. in Aa. Vv., La filosofia cristiana nei secoli XIX e XX, II. Ritorno all'eredità scolastica, Città nuova, Roma 1994, p. 772.

(7) Cit. in Aa. Vv., La filosofia cristiana nei secoli XIX e XX, II. Ritorno all'eredità scolastica, Città nuova, Roma 1994, p. 660.

(8) Ci siamo permessi di collocare la figura di Edith Stein nella seconda metà del XX secolo, a dispetto delle coordinate anagrafiche in cui appare evidente la prematura morte nel 1942, perché – oltre ad essere contemporanea di altri intellettuali come Przywara (che ella conobbe personalmente e dal cui pensiero fu profondamente stimolata) e Maritain, il fatto che le sue opere non potessero essere pubblicate durante gli anni del totalitarismo nazista, ha portato ad una circolazione delle sue idee (quindi ad un suo influsso reale sulla storia del pensiero) solo nella seconda metà del secolo.

(9) Nato a Parigi nel 1882 in una famiglia di tradizioni repubblicane e di fede protestante, studiò filosofia alla Sorbona (in un clima di relativismo e scetticismo, mentre la cultura era dominata dalla tradizione positivista), visse in modo travagliato la propria esperienza religiosa, frequentò ambienti socialisti (dove conobbe Raissa, sua futura consorte, a sua volta atea, ma figlia di pii ebrei russi), finché non ebbe modo di ascoltare le lezioni di Bergson che fecero rinascere – in lui e molti altri – la fiducia nella verità, nella vita, negli alti ideali. Nel 1904 vi è l'incontro con Léon Bloy, da cui nasce un'intensa amicizia ed un profondo dibattito interiore che porta i coniugi Maritain (nel 1906) al battesimo cattolico. Maritain è ancora vicino al bergsonismo, finché l'incontro

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con il p. Clérissac lo introduce allo studio di S. Tommaso. La sua riflessione "tomista" inizia negli anni del primo conflitto mondiale (dove perdono la vita molti suoi cari amici) e prosegue nel periodo fra le due guerre, finché – nel 1940 – non è costretto a trasferirsi in America per sfuggire alla persecuzione nazista. Insegna a Princeton ed alla Columbia University. Torna a Parigi nel 1960, anno in cui muore l'amata consorte Raissa. Maritain si stabilisce presso i Piccoli Fratelli di Charles de Foucauld, a Tolosa, di cui entrerà a far parte nel 1970. Morirà nel 1973, più che novantenne.

(10) Jacques Maritain, Distinguere per unire: i gradi del sapere, tr. it. Morcelliana, Brescia 1974, pp. 58-61.

(11) Si tratta di due opere pubblicate negli anni del secondo conflitto mondiale, durante la permanenza di Maritain negli Stati Uniti: L'educazione al bivio (tit. originale: Education at the Crossroads, Yale University Press, New Haven 1943; ed. francese: L’éducation à la croisée des chemins, Egloff, Paris 1947), ed. it. a cura di A. Agazzi, La Scuola, Brescia 1963; e L'educazione della persona (tit. originale: Pour une philosophie de l'éducation, Librairie Fayard, Paris 1959), tr. it. di P. Viotto, La Scuola, Brescia 1962.

(12) Jacques Maritain, L'educazione al bivio, cit., pp. 14-15.

(13) Gustavo Bontadini, Conversazioni di metafisica, cit. in Aa. Vv., La filosofia cristiana nei secoli XIX e XX, II. Ritorno all'eredità scolastica, Città nuova, Roma 1994, p. 805.

(14) Gustavo Bontadini, Metafisica e de-ellenizzazione, cit. in Aa. Vv., La filosofia cristiana nei secoli XIX e XX, II. Ritorno all'eredità scolastica, Città nuova, Roma 1994, p. 806.

(15) Josef Pieper, Verteidigungsrede für die Philosophie (Monaco, 1966), cit. in Aa. Vv., La filosofia cristiana nei secoli XIX e XX, II. Ritorno all'eredità scolastica, Città nuova, Roma 1994, p. 760.

(16) Josef Pieper, Verità delle cose. Un'indagine sull'antropologia del Medio Evo (tit. orig. Wahrheit der Dinge. Eine Untersuchung zur Anthropologhie des Hocmittelaters, Monaco 1944, IV ed. 1966), tr. it. di L. Frattini, Massimo, Milano 1981, pp. 117-123, passim.

LA CONTROVERSIA TRA SEVERINO E BONTADINI: SPUNTI E RIFLESSIONI

 di Andrea Damiani http://www.filosofico.net/bontadiniseverinocontroversia.htm

 Iniziato nel 1964, con la pubblicazione dell’articolo Ritornare a Parmenide, il confronto tra Emanuele Severino e il suo antico maestro Gustavo Bontadini si protrasse per circa un

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ventennio. Stando al parere di molti critici, i due protagonisti della discussione, peraltro legati da profondo affetto e sincera stima reciproca, non hanno mai modificato in modo essenziale le loro posizioni originarie; questo anche se a volte, per quanto riguarda Bontadini, si è voluto parlare di un “certo cambiamento di rotta”.

Alcuni studiosi, poi, hanno riscontrato in tale discussione una specie di impasse, in cui essa è venuta a trovarsi, a causa dei non pochi fraintendimenti generati dal differente utilizzo, da parte dei due autori, di concetti basilari quali “essere”, “contraddizione” o “divenire”. In ogni caso, prendendo in esame gli scritti in cui è concentrato il dibattito fra i due, ci pare di poter concordare con quanti sostengono la seguente tesi: pur se la critica bontadiniana non riesce ad argomentare in modo risolutivo i problemi che emergono dalle considerazioni di Severino, occorre tuttavia ammettere che Bontadini ha ragione nel ritenere insoddisfacenti, in certi punti, le repliche del suo discepolo.

A distanza di più di quarant’anni dalla comparsa di Ritornare a Parmenide e dell’articolo di Bontadini Sozein ta fainomena, che di quello costituiva la prima e immediata risposta, che valore possiamo attribuire oggi a questa controversia? Non è possibile, in questa sede, presentare in modo esaustivo il pensiero dei due illustri filosofi, e non ve n’è neppure l’intento. Ciò che qui si vuole mostrare è lo svolgimento di questo interessante dibattito nei suoi punti più salienti, perché  questo potrebbe essere lo spunto per proporre alcune importanti considerazioni e riflettere su determinati problemi ancora aperti.

 

Nonostante Severino avesse già accuratamente elaborato ed esposto la sostanza del proprio pensiero ne La struttura originaria, (l’opera in cui tutti i suoi scritti, come egli stesso ebbe ad affermare nell’Introduzione del 1981, “ricevono il senso che è loro proprio”), il dibattito vero e proprio ebbe inizio, come già detto, con la pubblicazione di Ritornare a Parmenide nel 1964. Il neo-parmenidismo severiniano imponeva di ripensare, alla luce della verità del logos, tutta la storia della metafisica nei termini di un fondamentale nichilismo. Partendo dall’istanza parmenidea in base a cui “l’essere è e non può non essere”, si doveva constatare che, dopo Parmenide (ma forse già a partire dallo stesso eleate), questa caratteristica fondamentale dell’essere (cioè la sua eterna opposizione al non-essere, al nulla) fu applicata soltanto ad un certo tipo di essere, ossia l’Assoluto. Soltanto di questo ente privilegiato, trascendente rispetto al mondo, ci si sentì autorizzati ad affermare che esso non potesse non essere. Tutte le altre cose (uomini, alberi, case ecc…) di cui è costituito il mondo, e nelle quali quotidianamente ci imbattiamo, potevano tranquillamente essere concepite come indifferenti all’esistenza (come oscillanti, cioè, tra l’essere e il nulla). Questa l’essenza del nichilismo: l’essere è (almeno un certo tipo di essere), ma può anche non essere. Tale è la follia dell’Occidente, magistralmente

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espressa, secondo Severino, da questa breve asserzione tratta dal De interpretazione di Aristotele: “E’ necessario che l’essere sia, quando è, e che il non essere non sia, quando non è”. Il “quando” starebbe appunto ad indicare la possibilità di un tempo in cui l’essere non è ; o, che è lo stesso, l’inserimento dell’essere nel tempo.  E il nichilismo sarebbe oramai diventato il modo di pensare comune a tutti gli uomini.

Chiunque prenda in mano un manuale di storia della filosofia constaterà che, dopo le pagine in cui si discorre di Parmenide e dei suoi discepoli, i capitoli successivi sono quasi sempre dedicati a quei filosofi, detti “pluralisti”, che hanno tentato di risolvere l’aporia del divenire, generata dalla potenza argomentativa del pensiero dell’Eleate, che rendeva l’essere immobile ed immutabile, e dalla attestazione del divenire nell’esperienza, che negava invece tale verità. Anche dal punto di vista del senso comune, immagino che la maggior parte di quanti si siano accostati per la prima volta allo studio della filosofia (magari al liceo!) abbiano provato, leggendo il pensiero di Parmenide, un senso di ammirazione e di insoddisfazione al contempo; quasi che, dopo aver assurto alle alte vette speculative del pensiero (per altro affascinanti), si attendesse con ansia un ritorno alle cose del mondo, che da Parmenide erano state relegate nell’ambito di una mera illusione. Pena, un’irrimediabile scissione tra la verità che si può ottenere attraverso la pura teoresi e la nostra vita di tutti i giorni; e, da ultimo, la sensazione di una sostanziale inutilità della filosofia la quale, pur discorrendo di cose nobilissime, non riesce a spiegare la sterminata varietà e ricchezza di cose che popolano l’universo in cui abitiamo. Continuando a sfogliare il nostro manuale, questo processo di riconciliazione tra la verità del logo e il referto dell’esperienza sembra giungere alla sua prima rilevante tappa, dopo gli sforzi di Empedocle, Anassagora e Democrito, con il pensiero di Platone; l’intento del quale, come ben sappiamo, fu proprio quello di rendere ragione della molteplicità dei fenomeni e insieme dell’unicità dell’essere. E tale intento si realizzò mediante l’introduzione della “Dottrina delle Idee” e del cosiddetto “parricidio”.

 

Rendere ragione della molteplicità dei fenomeni, ossia “salvare i fenomeni”: Sozein ta fainomena, appunto. L’essenziale della prima replica bontadiniana si scorge già a partire dal titolo dell’articolo suddetto; la critica principale rivolta a Severino è proprio quella di aver lasciato il mondo dell’esperienza in balìa della propria contraddittorietà, e di non averla risolta. La storia della metafisica, dunque, contrariamente a quanto aveva sostenuto il suo antico discepolo, non era affatto per Bontadini la storia della comprensione inautentica dell’essere, dominata dal nichilismo. Al contrario, essa rappresentava lo sforzo filosofico di superare la contraddizione del divenire attestato nell’esperienza. In essa, infatti, il divenire è qualcosa di evidentemente manifesto; e se la ragione guarda a questo

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divenire come a qualcosa di contraddittorio (perché il divenire altro non è che il passaggio dall’essere al non essere, e viceversa) è compito della ragione stessa il togliere di mezzo tale contraddizione (che sarà quindi, soltanto, una contraddizione apparente). L’errore di Severino sarebbe quello di aver creato una distinzione ipostatica fra i due mondi, cioè quello immutabile dell’Essere e quello diveniente dell’esperienza; lo stesso errore che aveva commesso Parmenide, con l’aggravante che adesso non è più accettabile rinchiudere il sensibile-diveniente nella casella dell’illusione.

Lo sforzo filosofico della metafisica di conciliare i due mondi, dunque, dopo i tentativi inadeguati (ma sempre sullo sfondo della Verità) di Platone prima e del neoplatonismo poi, giungeva a realizzarsi pienamente con la filosofia patristica e con la scolastica, mediante il concetto (sconosciuto alla mentalità greca) di creatio ex nihilo.

Infatti, la potenza del Dio creatore (l’essere originario e immutabile) toglieva di mezzo la contraddizione del divenire, visto ora non più come qualcosa di originario, ma di derivato. Secondo Bontadini, dunque, se il divenire viene pensato come qualcosa di derivato (quindi non originario), allora esso non è più contraddittorio; l’immutabilità originaria dell’essere, (o, che è lo stesso, l’immutabilità dell’essere originario, Dio), rimane comunque garantita, e la sua potenza creatrice (e conseguenzialmente anche quella annichilitrice) permette di pensare senza contraddizione al divenire delle cose sensibili.

Non solo. Severino aveva affermato, sempre in Ritornare a Parmenide, che il Dio della patristica e della scolastica rappresentava la più grande elaborazione metafisica della ragione alienata, essendo un Dio creatore dell’assurdo (cioè di un essere che esce dal nulla e ritorna nel nulla; un essere che è ma può anche non essere; un essere che è un niente); Bontadini, al contrario, poteva replicare che l’unico modo possibile di pensare la non assurdità (cioè la non contraddittorietà) della realtà, in continuo divenire, era quello di pensare ad un Dio onnipotente che l’avesse creata. Non già un Dio assurdo creatore dell’assurdo, bensì un Dio che ci salva dall’assurdità.

 

La replica di Bontadini sembra a prima vista essere convincente. Non solo essa ci toglie da quell’imbarazzo misto a incredulità, che pervade il nostro animo dopo aver letto le pagine di Ritornare a Parmenide (sensazione molto simile a quella, cui si è accennato prima, provata dallo studente che s’imbatte per la prima volta negli scritti di Parmenide); ma presenta anche il vantaggio, molto rassicurante, di ripercorrere la storia della filosofia seguendo quell’impostazione “classica” che ci è stata trasmessa, da insegnanti e manuali, sin da ragazzi. Tutti noi, sicuramente, abbiamo avuto modo di leggere sui libri o di sentire in qualche lezione che la filosofia greca, mancando di concetti fondamentali quali “creazione” o “libertà”, non riesce a risolvere le aporie in cui essa è venuta ad imbattersi.

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Soltanto pensando ad una creatio ex nihilo, concetto ereditato dalla cultura giudaico-cristiana, ci è possibile ripensare le istanze della speculazione ellenica sotto una luce diversa, che elimina gran parte delle contraddizioni. Non si tratta di una adesione personale ad una fede particolare (di cui gli autori di patristica e scolastica sono stati illustri esponenti); non si vuole cioè affermare che l’unico modo possibile di pensare la realtà sia quello di credere in Dio; diciamo semplicemente che, se il pensiero metafisico ha ritenuto valido il principio parmenideo (l’essere è e non può non essere), allora ci accorgiamo che tale pensiero (sempre se vuol tenere saldo di fronte a sé il principio) va incontro a diversi problemi, e che questi problemi sembrano trovare un’adeguata soluzione soltanto attraverso il concetto di creazione, di origine cristiana.  

 

La risposta di Bontadini, dunque, ci potrebbe apparire soddisfacente e ci potrebbe far pensare a Severino come ad un bizzarro personaggio che, incallitosi testardamente con una delle prime sentenze del pensiero metafisico, ha poi deliberatamente ignorato due millenni e mezzo di storia  della filosofia, misconoscendone il valore. Ma l’apparenza spesso inganna, e Severino non è certamente un filosofo che si lascia intimidire dai manuali di storia della filosofia o dal senso comune; in effetti, con la pubblicazione nel 1965 del suo Poscritto, il filosofo bresciano chiarisce definitivamente quanto ancora era rimasto implicito del suo pensiero, rispondendo in modo inequivocabile alle obiezioni rivoltegli fino a quel momento (in primis proprio a quelle di Bontadini).

Se la critica mossa a Severino era stata, come si è detto, essenzialmente incentrata sul fatto che egli aveva deliberatamente lasciato il mondo dell’esperienza in balìa della propria contraddizione, cioè della contraddizione del divenire; ora, dalle pagine del Poscritto, emerge una considerazione ancora più sconcertante: il divenire (inteso come il passaggio dal non essere all’essere, e viceversa) non è assolutamente attestato dall’esperienza. La comprensione inautentica del senso dell’essere, che domina tutto il pensiero dell’Occidente, ha prodotto come sua principale conseguenza una comprensione inautentica del senso del divenire, sì che il divenire è erroneamente interpretato come un processo in cui ne vada dell’essere. Ma ciò è un’assurdità, perché all’essere (ad ogni essere) non è consentito in alcun modo di non essere.

L’esempio del pezzo di carta che brucia, addotto dallo stesso Severino, è rimasto celebre: vedendo un pezzo di carta che brucia, e che “diventa” cenere, il senso comune (o, come dice Severino, la “ragione alienata”) afferma appunto che, dopo essersi completamente bruciato, quel pezzo di carta non c’è più. Quell’essere, che noi chiamavamo “il pezzo di carta”; quell’essere che prima era e che, nel tempo in cui era, si opponeva al nulla; quel positivo, adesso che si è bruciato ed è stato ridotto in cenere, non esiste più. L’essere è

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trapassato nel non essere; l’essere che, appunto, si oppone al non essere fin tanto che esso è. E, secondo la ragione alienata, questo non esser più dell’essere è attestato dall’esperienza.

Ma l’esperienza, afferma Severino, non attesta affatto questo non esser più dell’essere. Il dato fenomenologico puro, libero da ogni interpretazione nichilistica, mostra soltanto che quell’essere, che è il pezzo di carta,  non appare più. Il fatto che quell’essere non appaia più non ci autorizza ad affermare che esso non è più. Esso si è semplicemente dileguato dalla scena dell’apparire, ma l’esperienza (vista alla luce della comprensione autentica del logos) non dice nulla circa le sue sorti una volta che abbia abbandonato tale scena. In tal modo, ciò che non viene mostrato all’interno dell’apparire (la sorte appunto di quel pezzo di carta che ora non appare più, perché al suo posto sta apparendo un’altra cosa) è comunque conosciuto in base alla verità originaria dell’essere. E’ soltanto la ragione alienata che, interpretando quanto si mostra nel phainesthai, deduce che ciò che più non appare non sia neanche più; in realtà, in base al principio del logos, noi possiamo sapere con certezza che quel pezzo di carta, che adesso non appare più,  è ancora (ed è eternamente).

A questo punto, risulta abbastanza evidente che quelle obiezioni di Bontadini comparse in Sozein ta fainomena, che abbiamo prima sommariamente riportato, vengono a cadere. Se infatti nell’esperienza, una volta che ci siamo liberati dei nostri pregiudizi alienati e nichilistici, non si dà alcuna attestazione del divenire (inteso come uscita e ritorno nel nulla da parte degli enti), in essa non v’è più alcuna contraddizione. Tale contraddizione, infatti, rimarrebbe insoluta se, una volta affermata l’immutabilità dell’essere, continuassimo a sostenere che, almeno in questa regione dell’essere, gli enti divengono; ma se il divenire non è un qualcosa di attestato, bensì soltanto il frutto di una nostra inautentica interpretazione della realtà, allora non si tratta più di dover conciliare la verità del logos col referto del phainesthai, giacchè questi due elementi non entrano più in contraddizione tra di loro.

La contraddizione del divenire, dunque, si risolve pensando il divenire stesso in termini di apparire-scomparire degli enti, anziché nei termini del loro essere-non essere. Solo in questo modo, per Severino, il mondo dei fenomeni è veramente tratto in salvo (giacchè esso è già stato tratto in salvo sin dall’eternità).

Al contrario, la contraddizione non potrebbe essere risolta pensando il divenire in senso nichilistico, come fa Bontadini insieme a tutta la metafisica occidentale; in realtà, è proprio in questo atteggiamento nichilistico che si viene creare una separazione ipostatica tra due mondi (quello “fisico” e quello “metafisico”) e l’introduzione di un Dio trascendente e creatore ex nihilo non solo sarebbe l’ammissione di un ente creatore dell’assurdo, ma non

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sarebbe neppure in grado di operare la riconciliazione fra i due mondi.

Ogni singola determinazione dell’essere (questa casa, questo albero, questo pezzo di carta) esiste eternamente; ciò che varia non sono dunque gli enti, ma è l’apparire di essi (poiché quando qualcosa appare, per esempio la cenere, qualcos’altro non appare più, per esempio il pezzo di carta). Il senso comune e la ragione alienata, invece, permeati dalla concezione nichilistica dell’essere, credono di constatare il divenire degli enti, cioè il loro passaggio dall’essere al non essere. E il linguaggio occidentale ha elaborato dei termini specifici per descrivere (inautenticamente) sia quelle situazioni in cui un ente (che non era mai comparso prima) compare per la prima volta, sia quelle situazioni in cui ente (che prima compariva) si suppone che non debba comparire più: tali termini sono appunto “nascita” e “morte”.

 

Siamo qui di fronte al nucleo vero e proprio  del dibattito: l’interpretazione del divenire. Questo nucleo ci sembra anche essere il luogo concreto da cui si dipanano tutte le successive argomentazioni dei due filosofi e, al contempo, l’occasione in cui la controversia si è imbattuta in quell’impasse di cui si parlava all’inizio. Il confronto fra Severino e Bontadini, naturalmente, non può essere circoscritto a questo argomento, giacchè tale confronto comprende tutta una serie di argomentazioni che spaziano dall’analisi del principio di non contraddizione alla definizione del pensiero contraddittorio, che in questa sede non è possibile ripercorrere in dettaglio. Tuttavia, il senso complessivo di tutte queste analisi, dell’uno e dell’altro pensatore, ci pare scaturisca da questo medesimo nucleo problematico, che è appunto l’interpretazione del divenire. E’ in base a tale interpretazione, infatti, che è possibile comprendere, dei due interlocutori, le istanze fondamentali coinvolte nel dibattito. Inoltre, è sempre a partire da questa problematica, e dai suoi successivi sviluppi, che si può rintracciare il senso di quel “certo cambiamento cambiamento di rotta” che alcuni addetti ai lavori (primo fra tutti proprio Severino) avrebbero riscontrato nella speculazione bontadiniana.

 

Abbiamo visto che le repliche di Severino alle obiezioni del maestro acquistano una valida potenza argomentativa allorchè venga dimostrato che, nel referto fenomenologico puro, non si dà alcuna attestazione del divenire in senso nichilistico. Tuttavia, a difesa di Bontadini, dobbiamo dire che solamente a partire dal Poscritto Severino fornisce un’adeguata spiegazione del mondo del divenire, in termini di apparire-scomparire. Infatti, se ci limitassimo alla sola lettura di Ritornare a Parmenide, noteremmo che l’autore, in alcuni passi, sembra lasciare spazio proprio a quell’interpretazione in base a cui egli, una volta affermata l’immutabilità dell’essere e l’impossibilità del divenire, non abbia spiegato

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come mai il divenire ci appare nell’esperienza. Naturalmente, il divenire di cui ora si discorre è quello inteso in senso nichilistico, ossia il processo in cui l’essere trapassa nel non essere (e viceversa). Dando modo di pensare che anch’egli intenda il divenire in base a questo significato, si comprende perché le obiezioni di Bontadini risultino ragionevoli e convincenti. Per confermare quanto si è appena detto, riportiamo alcune righe tratte dalle ultime battute di Ritornare a Parmenide:

 

“Obiettare a questo punto che la negazione che l’essere non sia resta smentita dal mondo, in cui l’essere sopraggiunge e dilegua, e cioè in cui l’essere non è, significa, né più né meno, non tener conto del discorso che è stato fatto. Questo albero è un positivo, e come tale è e non gli può accadere di non essere, e quindi è eterno, e come eterno dimora nella casa ospitale dell’essere: tutta la sua positività è già da sempre e per sempre tratta in salvo laggiù. Se a questo punto si obietta che quest’albero nasce e perisce, e quindi non è, e quindi c’è un essere di cui si può e si deve dire che non è, onde è manifesta nell’apparire la falsità della negazione che l’essere che non sia: se così si obietta, si dimentica che il positivo – ogni positivo -, che appare sottoposto alle vicissitudini del tempo, è già stato tratto in salvo (appunto mediante il rilevamento dell’impossibilità che esso, come tutto l’essere, non sia); si che non rimane una qualche porzione o dimensione del positivo, la quale non sia così salvata e resti abbandonata al tempo: ciò che resta nel tempo non è qualcosa che non sia posseduto dall’eterno (appunto perché di tutto, e quindi anche dell’essere che appare nel tempo, si deve dire che è eternamente); sì che il non essere dell’essere che è nel tempo non smentisce ciò che, per altro, non può essere in alcun modo smentito: che l’essere è e non può non essere.”  

 

Se teniamo presente il brano appena riportato e le considerazioni fatte poco prima, ci pare che Bontadini abbia ragione nell’affermare che Severino non tenga in alcun modo conto del problema del divenire che riscontriamo nell’esperienza, e nel ritenere “strano” questo suo discorso conclusivo:

 

“Strana, dico, questa Tua protesta, perché, eadem ratione, un tale, il quale avesse scritto dei grossi volumi, oppure un opuscoletto, sulla caducità delle cose umane e mondane, potrebbe, alla fine, lui pure protestare, contro chi gli obiettasse che ‘l’essere è e non può non essere’, che con ciò non si terrebbe conto di tutte le sue considerazioni. La verità è che entrambe le proteste sono ingiuste, in quanto è necessario tener conto di entrambe le istanze: salvare l’incontraddittorietà dell’essere, e, insieme, salvare i fenomeni.”

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Soltanto a partire dall’esplicitazione severiniana dell’autentico senso del divenire esposta nel Poscritto, dunque, è possibile interpretare Ritornare a Parmenide, e conseguenzialmente anche Sozein ta fainomena, sotto una luce diversa. E, dunque, come dicevamo, il nocciolo della controversia non sarà più incentrato sulla riconciliazione tra la sfera dell’immutabile e la sfera del diveniente, bensì sull’interpretazione del divenire, cioè sulla possibilità di accettare o meno la tesi di Severino in base a cui il divenire, inteso in senso nichilistico, non solo è assurdo, ma non è neppure attestato dall’esperienza.

Questa tesi è, come era abbastanza facile prevedere, respinta da Bontadini nell’articolo che costituisce la risposta al Poscritto e che egli intitola Postilla. Le argomentazioni che portano Severino a sostenere che, nell’autentico referto del phainesthai, non si dà alcun elemento per affermare la nascita o l’annichilimento dell’essere, non sembrano per Bontadini essere convincenti.

Anche ammettendo, infatti, che quel famoso pezzo di carta, che la “ragione alienata” afferma non esistere più, in quanto ha visto bruciare, esiste invece ancora (e eternamente) nella casa dell’essere; anche ammettendo questo, non si riesce però ad eliminare quel certo residuo di divenire, cioè il divenire dell’apparire della carta, che è attestato dall’esperienza. Eccoci qui di fronte alla famosa impasse! Ma per comprendere pienamente il senso di questa impasse, è necessario riportare, sinteticamente ma con precisione, alcuni passaggi chiave del pensiero severiniano, che sono stati in parte equivocati da Bontadini. Ciò che potremmo dire, dopo queste riflessioni, si allinea sostanzialmente con quanto è affermato nel saggio di Leonardo Messinese intitolato Essere e divenire nel pensiero di E. Severino:

 

“La critica di Bontadini non riesce a togliere la tesi di Severino che l’autentica fenomenologia non attesta il divenire in senso nichilistico. Eppure, occorre aggiungere che Bontadini ha delle ragioni per continuare a restare insoddisfatto della soluzione severiniana. Infatti, fermo restando che anche il divenire dell’apparire non può essere immediatamente identificato al suo ‘annullamento’, resta pur vero che Severino non è riuscito a fornire un’adeguata spiegazione del variare dell’apparire.”

 

Prendendo in considerazione alcune pagine fondamentali del Poscritto, ci accorgiamo che lo stesso Severino si era già in parte cautelato dalle possibili obiezioni che poi gli saranno effettivamente rivolte nella Postilla. Dopo aver esposto accuramente le sue considerazioni in merito al senso autentico del divenire, che andrebbe appunto inteso come un processo

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in cui non ne va dell’essere bensì dell’apparire, il pensatore bresciano osserva che questa soluzione potrebbe essere vista come un semplice spostamento dell’aporia; l’entrata nell’apparire, infatti, è essa stessa un positivo, cosicchè, prima che qualcosa appaia, e dopo che qualcosa scompare, questo positivo (che è l’essere dell’apparire) non è. (E’, come si vede, l’obiezione di Bontadini).

La base di questa obiezione, tuttavia, è anch’essa pregna, secondo Severino, di presupposti nichilistici. Per risolvere questa aporia, il nostro filosofo elabora una argomentazione per la verità alquanto complessa, sostenendo la seguente tesi: qualcosa può apparire soltanto se appare il suo apparire. Di solito, invece, si ritiene che l’apparire sia qualcosa cui sia consentito di non avere come contenuto sé medesimo, e quindi si pensa che l’apparire sia soltanto l’apparire delle cose, senza essere anche apparire del loro apparire. Ma questo, osserva Severino, è errato. Infatti, se un ente appare (ad esempio una lampada), ma non appare l’apparire di questa lampada, allora questa lampada non può apparire; se, quando questa lampada appare, appare anche il suo apparire, allora –se questa lampada incomincia ad apparire- incomincia ad apparire anche il suo apparire; e se questa lampada non appare più, non appare più nemmeno il suo apparire.

La base dell’obiezione fatta prima, dunque, non può essere una constatazione (ossia non può essere l’apparire dell’annullamento dell’apparire), perché il discorso che si era fatto più sopra sul pezzo di carta (o sulla lampada) vale anche per l’apparire di questo pezzo di carta (o di questa lampada). Come non appare che il pezzo di carta, bruciandosi, divenga nulla, così non appare nemmeno che l’apparire del pezzo di carta, svanendo, divenga nulla. Quando si obietta nel modo di cui sopra, si afferma (nichilisticamente) il non essere di ciò che è già stato posto come un non apparire. Pertanto, Severino può dichiarare che:

 

“E’ solo perché non ci si rende conto che il comparire e lo scomparire di qualcosa è insieme il comparire e lo scomparire dell’apparire di qualcosa, è solo per questo motivo che, in relazione alla posizione del divenire come comparire e sparire dell’essere, ci si sente autorizzati ad inferire che, dunque, se qualcosa compare e scompare, allora il suo apparire non è”.

 

Il divenire che appare è sempre il divenire di una determinazione particolare o empirica del contenuto che appare, e in ciò si distingue dall’apparire inteso come evento trascendentale, ossia come l’orizzonte della totalità di ciò che appare. Inoltre, come ogni altro positivo, l’evento trascendentale è eterno e immutabile: l’unico senso secondo il

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quale si può affermare il divenire dell’evento trascendentale è dato dunque dal divenire del suo contenuto empirico. Infine, si può supporre che delle determinazioni particolari del contenuto dell’apparire sarebbero potute non apparire, o che non appaiano più; ma non si può supporre che non sarebbe potuto non apparire nulla, o che potrebbe non apparire più nulla, perché in tal modo si supporrebbe che quel positivo, che è l’orizzonte totale dell’apparire, sarebbe potuto o potrebbe essere un niente.

 

A questo punto, possiamo rimetterci sott’occhio la critica di Bontadini che precedentemente avevamo iniziato ad esporre; la prima parte di questa, come si ricorderà, consisteva nel rilevamento che, se anche il divenire di un ente non poteva essere fenomenologicamente attestato dall’esperienza, tuttavia rimeneva una sorta di residuo di divenire (perciò di non essere) costituito dal divenire dell’apparire di quell’ente. Questa prima parte dell’obiezione, non potrebbe forse già essere tolta a partire dalle considerazioni di Severino appena riportate? Non siamo qui di fronte a quei passaggi chiave che il filosofo milanese ha in parte equivocato? Ma la critica di Bontadini non si arresta qui; infatti,  proseguendo immediatamente il suo discorso, egli fa notare che: nonostante sia possibile in qualche modo disgiungere un ente dal suo apparire (in quanto si afferma che tale ente esiste anche fuori dell’apparire), tuttavia non è possibile disgiungere l’apparire da sé medesimo (affermando che l’apparire dell’ente esiste anche fuori dell’apparire, cioè fuori di sé stesso!). Facciamo parlare l’autore stesso:

 

Quando Severino assevera che, come la carta è eterna, così è anche eterno, eadem ratione, l’apparire della carta, si deve osservare che, codesto eterno e immutabile apparire (chiamiamolo S, in omaggio al suo scopritore) non è lo stesso di quell’apparire (chiamiamolo A) in cui si verifica che, scomparendo la carta, vien meno, con ciò stesso, l’apparire della carta. Se, infatti, S e A fossero lo stesso, allora, essendo eterno l’apparire della carta in S, lo sarebbe anche in A. Perciò si deve ammettere che almeno questo residuo –“l’apparire della carta in A”, o, che è lo stesso, “l’apparire A della carta”- è soggetto al divenire (in senso classico, cioè come implicante il non essere dell’essere).

 

Oramai, ci sembra essere giunti proprio in quel punto nevralgico in cui la controversia si arena perché, se anche la critica di Bontadini non riesce a cogliere pienamente il senso del discorso severiniano (discorso che, lo ripetiamo, è tutto incentrato sulla considerazione che ogni divenire, quindi anche quello dell’apparire, deve essere pensato in base alle categorie dell’apparire-non apparire, e non in termini di essere-non essere); se anche

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avviene ciò, sembra che, per quanto siano pienamente coerenti con il suo sistema, le argomentazioni di Severino non riescano in fin dei conti a togliere quel fastidioso “prurito” causato dalla legittima domanda: perché accade che in un determinato momento mi appare qualcosa e nel momento successivo quel qualcosa non mi appare più? Vedremo più avanti che questo discorso ci porterà a svolgere alcune riflessioni intorno a quel particolare ente che comunemente chiamiamo “coscienza”, giacchè è proprio in questo elemento che si può riscontrare quel “residuo” di divenire di cui parla Bontadini.

 

Finora abbiamo preso in considerazione, dei due autori, soltanto quattro opere: Ritornare a Parmenide e Poscritto di Severino, e Sozein ta fainomena e Postilla di Bontadini. Le risposte di Severino alle ultime critiche di Bontadini di cui si è poco anzi parlato, apparse nella Postilla, sono esposte in un altro breve articolo, intitolato appunto Risposta ai critici. In particolare, all’obiezione bontadiniana per cui non era possibile disgiungere l’apparire da sé medesimo, Severino replica che il vecchio maestro, nella sua critica, non aveva tenuto in alcun modo presente la distinzione essenziale tra l’apparire empirico e l’apparire trascendentale; in base a tale distinzione, dunque, non si intende affatto negare che l’apparire empirico “venga meno”, ma il suo “venir meno” è il suo sparire, il suo uscire dall’apparire trascendentale, e non (come si era voluto sostenere) un divenire in senso classico (implicante il non essere dell’essere). Per la verità dell’essere, infatti, ciò che diviene è appunto l’eterno; l’eterno, che non può divenire in senso nichilistico, è appunto ciò che diviene in senso non nichilistico, e cioè si rivela storicamente, processualmente.

Per comprendere meglio il punto che è stato frainteso da Bontadini, è opportuno rilevare che, quando Severino si serve di espressioni come “entrare” o “uscire” dall’apparire, egli utilizza questi verbi di “movimento” in un senso fondamentalmente metaforico, e non per esprimere un qualche movimento reale; “entrare nell’apparire” significa semplicemente: l’apparire è attestato; così come “uscire dall’apparire” significa che l’apparire non è attestato. Ma, pur non essendo attestato, l’apparire comunque è, ed è eternamente. Una volta compreso questo, possiamo notare che:

 

Contrariamente a quanto sostiene Bontadini, si deve dire che l’apparire immutabile della carta (=S) è lo stesso apparire che entra ed esce dall’apparire ed è altro dall’apparire in cui esso appare, cioè l’apparire trascendentale, laddove il filosofo milanese, identificando “l’apparire della carta in A” con “l’apparire della carta” simpliciter, pone l’eguaglianza tra un’espressione che comprende l’apparire empirico e quello trascendentale, con un’altra che esprime il mero apparire empirico.

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Ma, come abbiamo già detto in precedenza, anche se Bontadini non riesce a cogliere appieno il senso dell’apparire severiniano, resta pur vero che un qualche “residuo” di divenire rimane ineliminabile, perché, anche laddove volessimo intendere il divenire come il rivelarsi progressivo e processuale dell’eterno, tuttavia ci sembra di poter dire che qualcosa “varia”, si “muove”,  perlomeno all’interno della coscienza. E dunque bisognerà fare alcune riflessioni intorno a questo particolare ente (che è l’ente che attesta l’apparire degli enti).

 

Severino, dunque, rimprovera il suo maestro di non aver tenuto conto della differenza tra apparire empirico e apparire trascendentale; Bontadini, dal canto suo, replicherà all’ex allievo che la sua critica era proprio basata su tale distinzione (che egli non accettava). A questo punto, ci troviamo di fronte ad una semplice domanda: ha senso dire che qualcosa appare, ma che non appare il suo apparire (e, quindi, non appare)? Per Severino, ciò che appare, appare eternamente; quindi, se qualcosa ora non appare più (per esempio il pezzo di carta che è andato bruciato), è semplicemente scomparso il suo apparire (e cioè il suo apparire non è più attestato): ma da ciò non si può inferire che il suo apparire non è più. Se questo pezzo di carta, ora, mi appare, ciò significa che non solo mi appare il pezzo di carta, ma che mi appare anche il suo apparire; e se il pezzo di carta non mi appare più, ciò significa semplicemente che non mi appare più il suo apparire, anche se in realtà il pezzo di carta continua eternamente ad apparire (solo che tale apparire non è più attestato).

Per Bontadini, invece, tutto questo discorso è errato, giacchè non ha senso dire che un ente, che non appare più, appare eternamente. Se in un momento x mi appare la carta, e nel momento x’ la carta non mi appare più, allora essa simpliciter non appare più.

Si è già notato che Bontadini, affermando che l’apparire eterno della carta S non coincide con l’apparire empirico della carta A, commette un errore, in quanto, nella prospettiva severiniana, l’apparire S è lo stesso dell’apparire A; l’apparire A significa che l’apparire S è attestato (o, che è uguale, che nell’apparire di A, ciò che appare è S).

Per meglio comprendere il concetto severiniano di “apparire dell’apparire” si può fare un esempio molto banale. Supponiamo di avere davanti a noi una penna; questa penna ci appare, e ciò significa che l’apparire è strutturalmente connesso a questo ente, che è appunto la penna. Ebbene, se noi ora prendessimo questa penna e la chiudessimo dentro un cassetto, in modo tale che non la vediamo più, potremmo sostenere – secondo la logica severiniana - che la penna appare ancora, solo che non ci appare il suo apparire.

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La penna, che ha come sua proprietà quella di apparire, appare anche quando è chiusa nel cassetto; ma, dal momento che noi non riusciamo a vedere che cosa c’è dentro il cassetto, avviene che il suo apparire non ci appare (cioè non è attestato, è uscito dall’“apparire trascendentale”).     

Tale considerazione, tuttavia, porta a spostare l’attenzione sull’elemento della coscienza (cui qualcosa appare). Se è la coscienza ciò a cui appare l’apparire, cioè se è la coscienza ciò che compie l’attestazione dell’apparire; e se, d’altra parte, “entrare” ed “uscire” dall’apparire trascendentale significano, rispettivamente, che la coscienza attesta oppure non attesta l’apparire; e se, infine, dire che il pezzo di carta non appare più significa che la coscienza non attesta più il suo apparire (eterno); in base a tutte queste premesse, possiamo fare due supposizioni:

a) O la stessa coscienza presenta nel “tempo” due determinazioni diverse, cioè (1)la coscienza che ha come contenuto l’apparire della carta e (2)la coscienza che non ha tale contenuto (cioè avviene che “prima” essa attesta l’apparire dell’ente, e dopo essa non l’attesta più); in tal modo è possibile recuperare l’obiezione bontadiniana in quanto quel positivo, costituito dalla mia coscienza che ha come contenuto 1 si annulla (diviene) per far posto a quell’altro positivo (che di quel primo costituisce il negativo, il non essere) costituito dalla mia coscienza che ha come contenuto (2).

b) Oppure, anche per la coscienza, vale il medesimo discorso che Severino ha fatto per gli altri enti. Se ogni determinazione dell’essere è eterna e immutabile, allora gli enti non divengono; il divenire degli enti sarebbe il semplice susseguirsi di tanti enti diversi. Prendiamo come esempio il solito pezzo di carta che brucia e consideriamo, per comodità, soltanto quattro momenti: 1) il pezzo di carta è integro; 2) il pezzo di carta inizia a prendere fuoco; 3) il pezzo di carta è bruciato a metà; 4) il pezzo di carta è tutto ridotto in cenere. Ebbene, laddove (secondo Severino) il senso comune e la ragione alienata sostengono che, ciò che si è visto nel susseguirsi di 1, 2, 3 e 4, è lo stesso pezzo di carta che si modifica e diviene, fino addirittura a diventare nulla; la verità del logos e l’autentico referto fenomenologico impongono invece di pensare che 1, 2, 3 e 4 sono tutte eterne determinazioni dell’essere che, semplicemente, appaiono in successione. 1 è eterno, così come eterni sono 2, 3 e 4. Ciò significa che la carta che appare in1 non è la stessa carta che appare in 2, e che la carta che appare in 2 non è la stessa carta che appare in 3, e così via. E così ci sarebbero tanti pezzi di carta, ognuno dei quali eterno e immutabile, che appaiono in successione. Ebbene, tale discorso, seguendo la logica severiniana, va applicato anche a quell’essere che è la coscienza; in tal modo, certamente, non saremmo più obbligati a pensare ad una coscienza in divenire (in quanto diviene il suo contenuto), ma dovremmo pensare che “la coscienza che attesta l’apparire della carta” non è lo stesso

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de “la coscienza che non attesta l’apparire della carta”. Entrambe le coscienze, coi rispettivi contenuti, sono eterne e immutabili e, semplicemente, si susseguono nell’apparire (in questo caso nel loro auto-apparire). Dovremmo allora discutere anche su questo aspetto, cercando di capire in che modo sia possibile una qualche unità della coscienza: giacchè, se anche di un pezzo di carta in divenire possiamo pensare che, in realtà, siano tanti pezzi di carta eterni e immutabili, il discorso sembra risultare un po’ più problematico per quanto riguarda la coscienza, sulla cui unità crediamo di avere maggiori certezze.

 

Le considerazioni che abbiamo appena svolto ci portano dunque a rivolgere la nostra attenzione su di un altro aspetto della controversia, che finora è stato discusso solo parzialmente. Ogni teoria filosofica, infatti, (ma in generale ogni teoria), non solo si può distinguere dalle altre per ciò che riguarda i presupposti da cui essa parte e per il modo in cui tali presupposti vengono sviluppati per costituire un “sistema”; ma anche in base alle conseguenze che tale teoria implica.

Una teoria materialistica, per esempio, non solo differisce da una teoria creazionistica religiosa per ciò che concerne l’origine dell’uomo o del mondo; ma è anche evidente che essa avrà, come coerente conseguenza, il toglimento di categorie quali “bene” o “male” intese in senso “assoluto”, e pertanto queste categorie verranno concepite in base ad un’accezione convenzionalistica o utilitaristica. E’ chiaro che queste conseguenze, poi, non sono riducibili a meri fatti; esse hanno invece un peso specifico per la condotta dell’uomo. Esse non solo rispondono alla domanda: come stanno le cose? Ma anche alla domanda: come ci dobbiamo comportare?

 L’aspetto della controversia su cui ora vogliamo discutere è appunto quello basato sulle conseguenze che sono implicate nelle tesi di Severino, perché anche su di esse Bontadini si è fermato a riflettere. Queste conseguenze sono chiamate da Bontadini “inconvenienti”, e vengono esposte dall’autore nella seconda parte della Postilla. Il primo di questi “inconvenienti” è la cosiddetta proliferazione degli enti. Se, infatti, eliminiamo la concezione “volgare” dell’unico pezzo di carta che, bruciandosi, diviene, e, infine, diventa un nulla (concezione nichilistica del divenire), allora, dato che  dobbiamo ammettere l’esistenza di un numero infinito di momenti in cui avviene questo bruciarsi della carta, dovremmo anche ammettere un numero infinito di pezzi di carta (tutti eterni e immutabili) per ognuno di questi momenti. E Bontadini osserva che questa è una “strana concezione del reale mondano”. Inoltre, se consideriamo valida tale concezione, sorge (sempre secondo Bontadini) un altro paradosso: non si comprende come mai al fenomeno “uomo con barba a1” debba succedere il fenomeno “uomo con barba a2”, e non piuttosto un’altra

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cosa (ad esempio un tubo di stufa!), dato che l’uomo con barba a1 è tutta un’altra cosa dall’uomo con barba a2.

Ma questo non è tutto; scorrendo infatti questo “elenco di inconvenienti”, ci troviamo a dover fare i conti con quel problema cui abbiamo accennato più sopra, cioè la questione dell’unità della coscienza. Di fronte a tale problema, infatti, gli aspetti paradossali della filosofia di Severino, diventano per Bontadini addirittura aporetici, giacchè quando si parla dell’io, si “tira di mezzo” l’autocoscienza: ovvero, rileva Bontadini, l’io è io perchè si riconosce come tale (e cioè perché si percepisce come unità, e come unità che diviene). Se invece eliminiamo questo aspetto, ci troviamo di fronte ad una serie di conseguenze inconcepibili, e per esempio dovremmo supporre che colui che fa una promessa non sia lo stesso che è tenuto a mantenerla, e che colui che pecca non sia lo stesso che si pente (di un peccato pertanto non suo). Ed è anche in questo aspetto che Severino opera una “deformazione del mondo umano”, in quanto elimina ogni unità del molteplice.

 

Anche a questo secondo gruppo di obiezioni, che consiste nel rilevamento dei principali “inconvenienti” che scaturiscono dal pensiero di Severino, il filosofo bresciano ha dato la sua risposta (in Risposta ai critici). E’ interessante notare che in un suo lavoro precedente, intitolato Sull’aspetto dialettico della dimostrazione dell’esistenza di Dio (su cui torneremo in seguito per accennare alla cosiddetta “svolta”), Bontadini aveva affermato che, qualora nel mondo intelligibile esistesse eternamente ogni singola determinazione che appare nel sensibile, allora Socrate dovrebbe essere eternamente seduto ed eternamente in piedi; ma questi positivi sarebbero tra di loro incompatibili, giacché solo nel tempo è possibile che il medesimo assuma atteggiamenti contraddittori.

Nella Postilla invece, come ha osservato Severino, l’autore milanese definisce tale molteplicità (lo abbiamo visto) una “strana concezione del reale mondano” e non più – si badi bene - come un concetto contraddittorio (come aveva fatto in precedenza), e così può pensare che Socrate in piedi e Socrate seduto esistono eternamente e incontraddittoriamente. Tuttavia, come si è rilevato prima, ammettendo questo si toglie di mezzo ogni unità del molteplice: Socrate seduto non sarebbe lo stesso che Socrate in piedi, e non si comprende nemmeno in che modo sia possibile l’ordine delle successioni.

Unità del molteplice e ordine delle successioni: questi, in sintesi, i concetti su cui si articola la risposta di Severino che andremo ora ad analizzare. E a questi due problemi egli risponde facendo due diversi rilievi.

Per quanto riguarda il problema dell’unità del molteplice, che secondo Bontadini sarebbe stata “tolta di mezzo”, Severino replica che in realtà tale unità continua ad esistere.

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Ogni molteplice, infatti, costituito per esempio da Socrate in piedi, Socrate seduto, Socrate giovane e Socrate vecchio, rimane comunque sotteso da una identità: l’essere Socrate, appunto. Questa unità è da Severino definita essenza, e tale essenza è ciò che comunemente viene chiamato “individuo” oppure “cosa”, e che si rapporta ad una molteplicità.

Ma come si spiega, a questo punto, che certe essenze coappaiono nel medesimo contenuto (dell’apparire), mentre altre essenze appaiono soltanto in successione? Perché, in poche parole, accade che l’essenza “uomo” si rapporta ad una molteplicità non successiva (cioè, per esempio, appaiono insieme e contemporaneamente Socrate e Alcibiade), mentre l’essenza “Socrate” si rapporta sempre ad una molteplicità successiva (di modo che non appaiono mai – nell’apparire trascendentale - Socrate seduto e Socrate in piedi contemporaneamente)?

Per comprendere bene la risposta di Severino è fondamentale tenere presente la sua definizione di “necessità”; la necessità è, per il pensatore bresciano, ciò la cui negazione è contraddittoria. Che un triangolo abbia tre lati è quindi necessario, perché la negazione di tale affermazione è una contraddizione. Ora, al concetto di “necessità” si oppone quello di “fatto”; il fatto è, per Severino, ciò che non è determinato dalla struttura della necessità. Un fatto è dunque qualcosa che accade, o che si mostra, o che si presenta in un determinato modo ma la cui negazione non costituisce affatto una contraddizione (così è avvenuto, ma poteva anche avvenire diversamente).

Tornando al nostro discorso, dunque, alla luce di quanto adesso abbiamo detto, comprendiamo perché Severino può rispondere alla domanda precedente in questo modo: che Socrate e Alcibiade coappaiano, mentre Socrate in piedi e Socrate seduto no, è un fatto. In quanto fatto, dunque, questo diverso modo di rapportarsi alla molteplicità da parte di alcune essenze (cioè in modo successivo o in modo non successivo) è un semplice accadere, ovvero non soggiace ad alcuna necessità. Infatti, Severino non ha problemi ad ammettere che:

 

Socrate eterno è pertanto una certa essenza, eternamente reale in una molteplicità di determinazioni eterne (e dove la stessa successione del loro apparire appartiene al loro eterno determinarsi). Nell’apparire ruota il ventaglio di questa eterna molteplicità, mostrando successivamente gli elementi che la compongono (ed è innanzitutto l’esperienza a dire di quali elementi sia composto). Ma la successione è un fatto, e il ventaglio potrebbe tutto insieme comparire, il passato insieme al presente e al futuro.

 

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Non solo: anche l’ordine delle successioni è, per Severino, un semplice fatto. E così, alla domanda di Bontadini che chiedeva perché al fenomeno “uomo con barba a1” dovesse succedere il fenomeno “uomo con barba a2”, (e non piuttosto un tubo di stufa), dal momento che si era eliminata la concezione “volgare” dell’unico uomo con barba in divenire, Severino risponde facendo due osservazioni: in primo luogo, come abbiamo già detto, anche l’ordine della successione è un mero fatto; in secondo luogo, secondo il filosofo bresciano, nemmeno la concezione “volgare” dell’unico uomo con barba in divenire sarebbe in grado di sostituire il fatto con una necessità.

 

Ancora una volta ci troviamo di fronte ad un problema che non è di poco conto.

Il discorso severiniano, infatti, introducendo il concetto di “essenza” (che sarebbe ciò che si rapporta ad una certa molteplicità) ci spinge a chiederci quale sia, in definitiva, il valore di tale essenza. Anche se volessimo prescindere da tutte quelle essenze che il linguaggio comune chiama “cose”, ci dovremmo comunque interrogare sul significato di quelle particolari essenze che il linguaggio comune chiama “individui”. Severino nega che esistano “individui in divenire” (cioè prima giovani e poi vecchi, prima seduti e poi in piedi), affermando che con questa espressione si intende in realtà un’essenza che si rapporta ad un certo molteplice, e che appare –come semplice fatto- in una successione ordinata. Ma non si ha qui l’impressione che il concetto di “individuo (che diviene)” stia qui, una volta cacciato fuori dalla porta, rientrando dalla finestra? Lo stesso Severino, infatti, riconosce che un’essenza, ad esempio l’essenza di Socrate, si rapporta ad un determinato molteplice omogeneo, rilevando che Socrate seduto e Socrate in piedi sono tra loro meno eterogenei di quanto non lo siano Socrate seduto e Alcibiade. L’essenza “Socrate”, dunque, è un’unità di molteplici omogenei, e questa omogeneità costituisce appunto l’individuo. Sarebbe interessante capire quale siano la natura di questa “essenza” e di questa molteplicità omogenea.

Bontadini, dal canto suo, rileverà che l’errore di Severino è dato in questo caso dal fatto che egli utilizza il termine “essenza” sia per indicare l’individuo, sia per indicare l’universale:

 

Altro è che due individui, che abbiano caratteri contraddittori (uno dotto e l’altro indotto) convengano nella stessa specie e/o nello stesso genere, altro è che lo stesso individuo abbia determinazioni contraddittorie (fuori del tempo). La praedicatio recta è “Socrate è uomo” e non “l’uomo è Socrate”; ma anche adottando questa ultima predicazione, non è contraddittorio affermare che “l’uomo è Socrate” e insieme che “l’uomo è Alcibiade” (= non

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Socrate), perché l’essenza uomo riceve i predicati contraddittori (se pure si vuol considerarli tali; giacchè non-Socrate significa diverso da Socrate e non la negazione di Socrate) in due zone diverse (le due individualità distinte). (Così come questa carta è bianca dove non è scritta e nera dove è scritta). La cosa va diversamente nel caso di Socrate dotto e indotto. E’ contraddittorio, cioè, che lo stesso soggetto abbia e non abbia (insuccessivamente) lo stesso predicato. La “proliferazione” degli enti è inevitabile.

 

Che Socrate e Alcibiade siano uomini, prosegue Bontadini in una nota dello stesso scritto, è un dato dell’esperienza, per cui la distinzione tra individuo e universale è necessaria per evitare la contraddizione (giacchè in tal modo è possibile pensare che l’universale “uomo” abbia predicati contraddittori, come dotto e ignorante, attribuiti a diversi individui). Ma che lo stesso individuo sia, contemporaneamente, dotto e ignorante, questa è una contraddizione insanabile. Ora, secondo Bontadini, la contemporaneità è un’espressione che riguarda il mondo empirico, sensibile; il suo analogo, nel mondo intelligibile è dato dalla eternità. Severino aveva sostenuto che è contraddittorio che “Socrate seduto” sia in piedi (così come è contraddittorio che Socrate sia Alcibiade), ma non è contraddittorio che l’essenza Socrate si realizzi, eternamente, come Socrate seduto e insieme Socrate in piedi. Ma, secondo Bontadini, è proprio il termine “insieme” che qui indica la contraddizione; com’è possibile, infatti, che chi è seduto sia insieme non seduto? Se è impossibile che Socrate-che-è-in-piedi sia seduto, è altresì impossibile che Socrate si realizzi eternamente come Socrate seduto e insieme come Socrate in piedi.

 

Prima di passare alla parte finale del nostro lavoro, nella quale faremo qualche considerazione personale in merito a questioni non soltanto teoretiche (ma anche metodologiche e antropologiche), è opportuno fare adesso una  breve incursione in quella questione di cui si è parlato all’inizio: il cosiddetto “cambiamento di rotta” da parte di Bontadini. Con questa espressione si è voluto alludere ad una specie di “ripensamento” che, dopo la lettura di Ritornare a Parmenide, Bontadini avrebbe operato nella sua filosofia; tale ripensamento non è stato osservato soltanto da Severino, ma pure da molti critici ed amici del pensatore milanese. Tuttavia è opportuno rilevare che, mentre Bontadini ha sempre considerato la sua “svolta” una mera esplicitazione di quanto, peraltro, egli aveva sempre sostenuto (e pertanto egli parla di “continuità” tra le sue prime e le sue ultime riflessioni, negando che contrastino le une con le altre); Severino, da parte sua, sostiene che l’unica continuità tra il primo e il secondo pensiero bontadiniano, radicalmente diversi, sia data unicamente dall’atteggiamento nichilistico.

Se, infatti, (osserva Severino), prima della comparsa di Ritornare a Parmenide, Bontadini

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aveva sostenuto, nella sua impostazione metafisica, l’impensabilità del divenire originario (e, quindi, non l’impensabilità del divenire in quanto tale) dimostrando di non avere nulla in contrario a sostenere che almeno un certo tipo di essere (quello che si incontra nell’esperienza) diviene; ora, dopo l’articolo del ’64, egli si rende conto che il divenire in quanto tale risulta contraddittorio (cioè è contraddittorio pensare che l’ente non sia), ma utilizza questa affermazione per costruire una “nuova dimostrazione dell’esistenza di Dio”. (Ricordiamo che le dimostrazioni metafisiche dell’esistenza di Dio, che troviamo ad esempio nella scolastica medievale, sono per Severino la massima espressione del nichilismo, in quanto esse suppongono che non l’ente in quanto tale, ma soltanto un certo tipo di ente, divino, privilegiato, abbia come proprietà quella di non poter non essere). E in tal modo Bontadini si sarebbe servito di un’istanza non nichilistica (l’affermazione che l’ente non può diventare un niente) per iscriverla all’interno di una prospettiva nichilistica (la dimostrazione dell’esistenza di Dio).

Questa dimostrazione dell’esistenza di Dio è contenuta in un brevissimo articolo di Bontadini, intitolato Sull’aspetto dialettico dell’esistenza di Dio, che appare negli Atti del “Sesto congresso internazionale tomista”, del 1965. All’inizio dell’articolo troviamo scritto:

 

La dimostrazione dell’esistenza di Dio si istituisce nell’incontro tra un’istanza razionale ed una empirica; la prima corrispondendo all’affermazione della immutabilità, e la seconda al riconoscimento della mutevolezza del reale. Sta in questo incontro la radice del suo carattere dialettico.

 

Se prendessimo in esame soltanto questo brano, potremmo affermare la sua sostanziale continuità con quanto si dice in Sozein ta fainomena,  poiché anche lì si prospettava la necessità di tenere presente sia la verità del logos (che parla dell’immutabilità dell’essere), sia il referto dell’esperienza (in cui si attesta il divenire). Proseguendo nella lettura dell’articolo del ’65, tuttavia, troviamo scritto poco dopo quanto segue:

 

L’essere è. Questa suprema identità, di cui il divenire è la suprema smentita, riguarda ogni essere [corsivo nostro]. Riguarda perciò ogni essere di cui abbiamo contezza. L’essere di cui abbiamo originariamente contezza, prima di ogni dimostrazione o mediazione, è l’esperienza. Ora l’esperienza stessa ci informa che ogni essere –ogni essere di cui essa è l’attestazione- non è. Contraddizione tra l’esperienza e la ragione. Contraddizione tra la contraddizione del divenire (che significa la sua impossibilità) e la sua realtà. (…) La metafisica è la conciliazione di tale suprema ed originaria contraddizione.

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Come abbiamo messo in evidenza in questo breve estratto, Bontadini sta ora affermando, categoricamente, l’impossibilità del divenire in quanto tale (la contraddittorietà di ogni atteggiamento nichilistico, l’assurdità che qualsiasi ente trapassi nel non essere). Ed è proprio in tale affermazione che, secondo Severino, il vecchio maestro avrebbe accolto l’eredità di Ritornare a Parmenide. Eppure, nonostante il filosofo milanese abbia colto il primo grande aspetto della verità dell’essere, contenuto nell’articolo suddetto, il suo atteggiamento nichilistico non gli avrebbe permesso, stando a quanto dice Severino, di cogliere l’altra istanza fondamentale di quello scritto: l’autentica interpretazione dell’esperienza (cioè il fatto che nell’esperienza il divenire non è attestato, bensì frutto di interpretazione nichilistica). E così, sempre secondo il suo vecchio discepolo, Bontadini si verrebbe a trovare adesso in un vicolo cieco, in quanto –da un lato- egli afferma l’impossibilità che ogni ente si annulli e –dall’altro- sostiene di vedere l’annullamento dell’ente. Infatti, nella seconda parte del brano che abbiamo riportato, l’autore afferma esplicitamente che, nell’esperienza, avviene che ogni ente non è (in quanto appunto diviene).

Siamo tornati, come si vede, ancora una volta a quel punto nevralgico della discussione, costituito dall’interpretazione del divenire. Infatti, mentre Severino continua a sostenere che, non riconoscendo l’autentica configurazione dell’esperienza (in cui non si dà il divenire), Bontadini è ancora affetto dall’infezione nichilistica, e non riesce pertanto –come invece vorrebbe- a salvare i fenomeni, perché la loro natura sarebbe irreparabilmente contraddittoria e la loro creazione da parte di un Dio non riuscirebbe a toglierne l’assurdità; Bontadini continua ad affermare che, dal momento che il divenire è attestato dall’esperienza, il compito della metafisica è quello di risolvere l’apparente contraddizione tra l’istanza empirica e quella razionale, e tale soluzione è data dalla postulazione di un Dio trascendente e creatore della realtà diveniente, e quindi dall’affermazione che il divenire non può essere originario.

Il “cambiamento di rotta” nella posizione bontadiniana risiederebbe nel fatto che, dopo Ritornare a Parmenide, l’autore milanese avrebbe riconosciuto la contraddittorietà logica di ogni divenire in quanto tale. Tale riconoscimento implica che, se ogni divenire è contraddittorio, allora è contraddittorio pensare che un qualsiasi ente divenga o si annulli. Ma Bontadini stesso rileva che ciò era già implicito nella sua affermazione precedente alla comparsa dello scritto severiniano: il divenire è contraddittorio se assolutizzato. Questa affermazione sarebbe dunque il risultato dell’incontro e della soluzione fra l’istanza logica dell’immutabilità ed il riscontro empirico del divenire.

In fin dei conti, come abbiamo più volte rilevato, e come anche lo stesso Bontadini ebbe a

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sottolineare in uno scritto (anch’esso rivolto a Severino) intitolato Dialogo di metafisica, la differenza fondamentale tra il pensiero del maestro e il pensiero dell’allievo è tutta qui: “nell’ammettere o no che l’esperienza attesti il divenire”.

 

Che si vogliano intepretare o meno come un “ripensamento” le istanze presentate da Bontadini nel periodo successivo alla comparsa di Ritornare a Parmenide, è pur vero che i due autori protagonisti della controversia non hanno modificato in modo rilevante le rispettive posizioni di partenza; e in tal modo, noi oggi ci troviamo non soltanto di fronte a due diverse “visioni del mondo” ma, in fin dei conti, anche a due differenti modi di intendere la filosofia. Forse, a parer nostro, quando si affronta il problema della controversia tra Severino e Bontadini, bisognerebbe prestare maggiore attenzione ad alcuni aspetti che, nonostante possano essere successivamente inclusi e rielaborati all’interno dei rispettivi sistemi, segnano tuttavia il punto di partenza dei sistemi stessi e, conseguenzialmente, determinano il valore e il metodo di ciascuna filosofia.

Negli scritti che abbiamo analizzato (che, lo ricordiamo, sono quelli espressamente coinvolti nel dibattito tra i due), questo punto di partenza è accennato, sia dall’uno che dall’altro autore; ma è accennato quasi di sfuggita, proprio perché esso non fa parte della struttura dell’argomentazione filosofica, bensì è (azzardiamo a dire) una scelta iniziale, un presupposto. Stiamo parlando, ovviamente, dell’adesione ad una Fede, la quale adesione può determinare il presupposto originario di tutto un approccio metodologico, rispondendo sostanzialmente a questa fondamentale domanda: qual è il luogo privilegiato in cui si mostra la Verità? In Ritornare a Parmenide troviamo scritto quanto segue:

 

La filosofia è il luogo, la custode della verità. Il disvelamento originario e assoluto dell’essere –la verità dell’essere, appunto- accade non altrove che nel filosofare. E nel filosofare autentico. Altrove –in ogni attività o dimensione che non sia la stessa apertura originaria della verità dell’essere- esiste la non-verità (che è pur sempre la non-verità dell’essere, il suo aprirsi non veritativo). Alla filosofia, intesa come il solo pensiero dell’essere (‘pensiero’ in senso forte, cioè come sapere assoluto e incontrovertibile), spetta inoltre di stabilire in che rapporto stiano con l’essere tutte le altre attività dell’uomo, e le trova tutte eccentriche rispetto alla verità dell’essere, le trova tutte decadute rispetto a sé: l’uomo che le vive non vive nella verità, vive nella doxa (nella non-verità). […] In altri termini, le convinzioni e forme di coscienza diverse da quella convinzione e coscienza assoluta, in cui consiste l’atto del filosofare autentico, possono trovare il loro fondamento (nel filosofare) solo in quanto siano sussunte nel filosofare e non in quanto siano vissute come tali.

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Risulta evidente, da questo brano, come per Severino sia soltanto la filosofia il luogo dell’apertura della verità dell’essere; tutte le altre attività umane, come ad esempio l’arte o la religione, non solo si trovano al di fuori della verità dell’essere, ma necessitano anche di essere dedotte e interpretate in base alle strutture della filosofia, perché essa sola ne può mostrare l’infondatezza e la mancata apertura alla verità. La filosofia e la fede, dunque, non possono entrare in contrasto tra di loro, giacchè esse non si trovano, per così dire, sullo stesso piano. La fede deve essere sussunta nella filosofia.

Leggiamo invece ora un brevissimo passo tratto da Sozein ta fainomena, di Bontadini:

 

Certo questo Tuo evangelo, secondo cui tutto l’essere è già salvo da sempre e per sempre presso di sé, sicuro da ogni insidia del divenire, “sottratto alla rapina del nulla”, come Tu sempre bellamente dici, stava per sedurmi […] Poi mi sovvenni che, purtroppo, ero impegnato, fin dalla puerizia, a mettermi in salvo, e che, per questa salvezza, mi ero affidato più alla parola di Cristo che non a quella della metafisica. E che non mi riusciva di cambiare parere.

 

Se analizzassimo questa diversità di vedute alla luce del classico problema del rapporto tra ragione e fede, probabilmente ci troveremmo di fronte ad un vicolo cieco; in effetti, prendendo in considerazione le due differenti impostazioni sistematiche di ciascun autore, si può notare che, all’interno di ciascun sistema, questo contrasto tra ragione e fede non esiste. Da un lato, infatti, troviamo l’approccio di Severino, secondo il quale, partendo dal presupposto che soltanto nella filosofia si dà l’apertura autentica della verità, tutte le forme di conoscenza non-filosofiche devono essere dedotte e spiegate a partire dalla filosofia. La fede, pertanto, non essendo un sapere autonomo (in quanto non trova in se stessa il proprio fondamento) non può entrare in contrasto con la ragione, poiché queste due forme di conoscenza non hanno la stessa validità. Questa concezione è ulteriormente sviluppata da Severino in altri scritti che non abbiamo preso in considerazione, in cui l’autore affronta il problema dell’incompatibilità della sua filosofia con i dogmi della Chiesa Cattolica; tale incompatibilità, in ultima analisi, sorge a causa dell’adesione (da parte della Chiesa) alla metafisica classica, quindi della sua apertura al senso alienato e nichilistico dell’essere. Non si vuole in questa sede discorrere di quanto Severino afferma in merito al contrasto tra la sua filosofia ed il pensiero religioso (in particolare quello cristiano-cattolico); ciò che qui interessa rilevare è semplicemente il fatto che, per il filosofo bresciano, ogni forma di conoscenza diversa dalla filosofia è, di per sé, non veritativa e può (anzi deve) essere

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dedotta ed interpretata (qualora se ne voglia conoscere il valore) dall’unico strumento valido in grado di mostrarci la verità dell’essere: la filosofia, appunto. Il valore della filosofia è, pertanto, onnicomprensivo. Nessun contrasto, dunque, può sorgere tra fede e ragione: perché si abbia contrasto, infatti, è necessario che due tesi contrapposte, egualmente fondate, forniscano entrambe delle valide motivazioni per essere considerate come assolutamente vere. Ma la fede non fornisce tali motivazioni: esse si trovano solo nella filosofia.

D’altro canto, neppure Bontadini, strettamente legato ad una concezione tomistica, può parlare di contrasto tra ragione e fede. Se, infatti, sia la ragione che la fede hanno il loro fondamento in Dio, il quale è autore di entrambe, allora non è possibile che tra le due ci sia un contrasto reale. Se vi è contrasto, se cioè la ragione produce un pensiero che è in disaccordo con una verità di fede, ciò avviene a causa della naturale imperfezione umana; giacchè, se è lecito supporre che l’intelletto umano nei propri ragionamenti possa sbagliare e non sia in grado di attingere la verità del tutto, non è invece lecito pensare che la Parola di Dio sia falsa. Ed è per questo che, per la sua salvezza, il nostro autore ha dichiarato di fidarsi più della Parola di Cristo, che di quella della metafisica!

Non v’è alcuna intenzione, qui, di analizzare il problema del rapporto tre fede e ragione nella sua impostazione tomistica; il nostro intento, invece, è quello di offrire qualche spunto, affrontando la questione sotto una luce leggermente diversa, guardandola (per quanto è possibile) dall’ “esterno”.

Si è parlato prima dei presupposti che, in un modo o nell’altro, stanno alla base dei due differenti sistemi proposti da Severino e da Bontadini. Ebbene, che cosa implicano tali presupposti? Quali scelte metodologiche ne derivano? Sembra che sia possibile, sulla base delle istanze di questi due autori, ricavare due differenti concezioni dell’uomo e della filosofia. Se prendiamo in considerazione l’impostazione severiniana, in base alla quale (lo ricordiamo) la filosofia è l’unica custode della verità, ne deriva che questa (la filosofia) non può essere considerata, in senso proprio, come un’attività umana, perlomeno non come un’attività simile alle altre. La filosofia, in questa prospettiva, non è un’atteggiamento dell’uomo in base al quale egli si mette in cerca della verità adoperando diversi strumenti (primo fra tutti quello razionale); non esiste più l’uomo che filosofa, nel senso “socratico” del termine. Esiste, invece, “La Filosofia”, appunto come il luogo unico ed esclusivo nel quale si dà l’autentica verità dell’essere; e le altre forme di conoscenza devono essere sottoposte al suo veritiero giudizio. Ma questo è l’unico modo possibile di intendere la filosofia?

In effetti, ci sembra che sia possibile inquadrare la filosofia secondo un approccio diverso, dando maggior rilievo, anziché all’aspetto logico, all’aspetto antropologico di questa.

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Potremmo pensare, infatti, che all’origine di tutte le attività umane (e di tutte le sue forme di conoscenza ad esse connesse) ci sia, appunto, l’uomo. In tal modo, ci troveremmo di fronte ad un ente che, per sua natura, si rapporta all’essere seguendo differenti approcci; e così potremmo definire la filosofia come la tendenza dell’uomo a comprendere se stesso e la realtà di cui è parte attraverso lo strumento della ragione; e, allo stesso modo, potremmo definire la religione come la tendenza, sempre  dell’uomo, ad istaurare un qualche tipo di rapporto con una realtà soprannaturale. Queste caratteristiche dell’essere umano, poi, allorchè si voglia aderire ad una fede (in particolare la fede cristiana), ricevono una giusta luce in virtù di una Rivelazione, intesa come l’irruzione della Parola divina all’interno della storia dell’uomo. L’evento della rivelazione, dunque, sarebbe quel particolare accadimento storico in base al quale ogni tensione dell’uomo riceve il senso che le è più proprio. La filosofia e la religione (intese rispettivamente come aspirazione alla conoscenza razionale e alla comunione col divino) non sarebbero in tal modo negate dalla fede (cioè dall’accoglimento della Parola rivelata) ma, al contrario, perfezionate da essa.

Questa concezione, tuttavia, è possibile soltanto se si riconosce, in primo luogo, che l’uomo ha una sua propria natura a cui sono legate tutte le sue tensioni e, in secondo luogo, che tale natura è imperfetta; dunque, neppure la filosofia (che è un’attività dell’uomo) può raggiungere un sapere incontrovertibile. Severino, lo sappiamo bene, non sarebbe d’accordo. L’istanza antropologica non è per lui alcunchè di rilevante giacchè essa non ha in sé il proprio fondamento. Egli, non partendo dall’anthropos nella sua totalità, bensì dal logos, dalla verità logica dell’essere, non può che relegare su di un piano secondario e derivato tutti gli altri aspetti dell’essere, compreso l’essere umano. La scelta, naturalmente, è legittima. Ma noi, personalmente, ci sentiamo più vicini alla considerazione di Bontadini, con la quale egli chiude il suo Dialogo di metafisica, e con cui anche noi vorremmo concludere il nostro articolo: “C’è infatti un certo primato dell’antropologico sul logico; ed è giusto che tale primato si faccia luce nel dialogo, soprattutto nel dialogo”.