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L ETTERE M ERIDIANE Anno IX n. 35/37 - Gennaio/Settembre 2014 - 2,00 Una radice di pietra e di mare più forte della diversità delle rive (Franco Cassano) www.letteremeridiane.it continua a pagina 2 “P arlando di me spero di aver pure dato una voce ai più umili del- la mia terra” così Mario La Cava, una delle figure più importanti della nostra letteratura, commen- tava la sua opera, la sua “missio- ne” di scrittore. Quando si parla di responsabilità… Il caso Messina. Intervista a Tonino Perna pagina 3 Le nuove proposte del teatro calabrese pagine 4-5 Teresa e le altre nella Roma occupata pagine 12-13 Le novità della Città del Sole Edizioni pagine 32-39 Si abbia pietà della cultura ma prima di tutto si abbia pietà degli uomini Federica Legato

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Page 1: LETTEREMERIDIANE · uomini! La cultura è salva quan-do sono salvi gli uomini. Non la-sciamoci trascinare dall’afferma-zione che gli uomini esistono per ... sindaco in maglietta

LETTEREMERIDIANEAnno IX n. 35/37 - Gennaio/Settembre 2014 - €2,00

Una radice di pietra e di mare più forte della diversità delle rive (Franco Cassano)

www.letteremeridiane.it

continua a pagina 2

“P arlando di me sperodi aver pure dato unavoce ai più umili del-

la mia terra” così Mario La Cava,una delle figure più importantidella nostra letteratura, commen-tava la sua opera, la sua “missio-ne” di scrittore.

Quando si parla diresponsabilità…

Il caso Messina.Intervista a Tonino Perna

pagina 3

Le nuove proposte del teatro calabrese

pagine 4-5

Teresa e le altre nella Roma occupata

pagine 12-13

Le novità della Città del Sole Edizioni

pagine 32-39

Si abbia pietà della culturama prima di tutto si abbia pietà degli uomini

Federica Legato

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Anno IX - n. 35/37 - Gennaio/Settembre 20142 LettereMeridiane

Le parole, le sue, espressione “diun sentimento tragico della vita”sono state - e continuano ad esse-re - sostanza umana, viva. Parole come luci accese per l’uo-mo… per quell’uomo che ha, og-gi più che mai, in questo tempogravido di materia, fame di uma-nità, di recuperare il senso dellecose, degli eventi, di tutto ciò chelo circonda, fame ancora di diritti.Ed è in questa ricerca che si inse-risce il ruolo, o meglio, la respon-sabilità di chi scrive, di chi rac-conta, di colui che, come un “mi-natore, scava, scava dentro di séfino a trovare un punto che è co-mune a tutti gli esseri umani”, co-me diceva Giorgio Caproni.Lo scrittore è un uomo che si po-ne davanti ad un altro uomo – e diconseguenza di fronte a se stesso

-, per questo gli ‘deve’ innanzitut-to autenticità. E dev’essere im-placabilmente ‘invischiato’ nellavita e nel mondo da non potersisottrarre dalla vita e dal mondo.“La funzione dello scrittore è difar sì che nessuno possa ignorareil mondo o possa sentirsi inno-cente” sosteneva, infatti, Sartre,riferendosi ad una scelta netta nel‘lavoro culturale’: mantenere invita un mondo ingiusto o impe-gnarsi per cambiarlo, ossia con-tribuire alla costruzione di unasocietà di eguali. E come si costruisce una societàdi eguali? Come si costruisce, at-traverso la cultura? Considerandola Cultura un bene comune e tute-landone il diritto. Un diritto dacui prende forma l’intero oriz-zonte dei nostri diritti. Tutelando,

dunque, ciò che sta alla base del-la dignità della persona umana,ciò che garantisce la consapevo-lezza della persona umana, a ra-gione della quale l’individuo co-nosce e riconosce i propri inalie-nabili diritti, alla luce della qualel’individuo non può accettare unsistema che non assicuri libertà,uguaglianza, democrazia, giusti-zia sociale.Da qui, la responsabilità di chiopera nel settore culturale, con lacoscienza di amministrare un be-ne di tutti. Da qui, la responsabi-lità di tutti nel riconoscere la giu-sta dignità al lavoro culturale.«Si abbia pietà della cultura, maprima di tutto si abbia pietà degliuomini! La cultura è salva quan-do sono salvi gli uomini. Non la-sciamoci trascinare dall’afferma-zione che gli uomini esistono perla cultura, e non la cultura per gliuomini. (…) Riflettiamo sulle ra-dici del male! (…) scendiamosempre più in profondo, attraver-so un inferno di atrocità, fino agiungere là dove una piccola par-te dell’umanità ha ancorato il suospietato dominio, sfruttando ilprossimo a prezzo dell’abbando-no delle leggi della convivenzaumana (…), sferrando un attaccogenerale contro ogni forma dicultura. Ma la cultura non si puòseparare dal complesso dell’atti-vità produttiva di un popolo, tan-to più quando un unico assaltoviolento sottrae al popolo il panee la poesia». Sono le parole diBertold Brecht.

Federica Legato

3 Il Comune di Messina come laboratorio politico e sociale. Intervista all’assessore alla cultura Tonino Perna.

4 “La creatura prediletta” e “Clitennestra”, due produzioni della Compagnia Dracma.

5 Lo spettacolo di Loddo e Milasi “La Morte Addosso”.I volontari Auser in scena con “Memento ma non mento”.

6 Cento anni dalla nascita di Charlot.

7 Manifestarti, il progetto di “diversa cultura” dell’Aps Electradi Arezzo.La mostra “InCarte di Pane” di Marcello Sèstito.

8-9 Il ritratto di Pasquino Crupi. Il compianto meridionalista nelle parole di Mario La Cava.Al centro Cartella, un albero per Osvaldo Pieroni.

10 Biagi, Bocca e Montanelli: tre giornalisti che hanno fatto la storia della professione in Italia.

11 Roma e il mito de “Il gobbo del Quarticciolo”.

12-13 La storia di Teresa Gullace e delle donne diversamenteresistenti nella Roma occupata.

14-15 Emilio Argiroffi nel racconto della sorella Maria.

16-17 Recensioni

18-19 Messaggeri della conoscenza: l’esperienza di tre studenti calabresi in America.

20-21 La geografica acustica di Alfred Tomatis.

22-23 Max Perkins, l’Editor dei geni.Poemi omerici, il più grande editing di tutti i tempi.

24-25 La Cattedrale di Dio: un viaggio nell’Amazzonia profonda.Ritrovamenti e percorsi sotterranei a Taurianova.

26 La pittura totale di Antonio Saccà.

27 L’omaggio a Mattia Preti di Wilma Pipicelli.

28 Reggio non vende grano. Dialogo durante un meeting Erasmus.

29 Recensioni

30-31 Racconti

32-39 Le novità della Città del Sole Edizionisommar io

Direttore Responsabile:FRANCO ARCIDIACO

Direttore Editoriale:FEDERICA LEGATO

Coordinamento Editoriale:ORIANA SCHEMBARI

Stampa:Creative 3.0 S.r.l. - Reggio Calabria

Associato USPI Unione Stampa Periodica Italiana

CITTÀ DEL SOLE EDIZIONIREGGIO CALABRIA

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Città del BergamottoTel. 0965644464Fax 0965630176

www.cittadelsoledizioni.ite-mail: [email protected]

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€ 20,00 comprese spese postali da versare su CCP n. 55406987

intestato a Città del Sole Edizioni S.A.S.

Iscrizione Registro StampaTrib. di Messina n° 17 dell'11 luglio 1991Iscrizione R.O.C. n° 9262

«Questo periodico è aperto a quanti desideranocollaborarvi ai sensi dell’art. 21 della Costitu-zione della Repubblica italiana che così dispo-ne: “Tutti hanno diritto di manifestare il propriopensiero con la parola, lo scritto e ogni mezzodi diffusione”. La pubblicazione degli scritti èsubordinata all’insindacabile giudizio della re-dazione; in ogni caso, non costituisce alcun rap-porto di collaborazione con la testata che, quin-di, deve intendersi prestata a titolo gratuito.Notizie, articoli, fotografie, composizioni artisti-che e materiali redazionali inviati al giornale, an-che se non pubblicati, non vengono restituiti».

LettereMeridiane

Quando si parla di responsabilità…segue dalla prima pagina

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Anno IX - n. 35/37 - Gennaio/Settembre 2014 3LettereMeridiane

L o scorso anno la vittoria di unalista civica di un sindaco “an-tagonista” nella città di Messi-

na ha spiazzato tutti. Fuori dai partiti,eletto al secondo turno in una contesache sembrava tanto la contrapposizio-ne tra Davide e Golia, Renato Acco-rinti si è aggiudicato la guida dellacittà dello Stretto. Professore di scuo-la media, noto per il suo attivismo so-ciale, contro il ponte e a favore dellalegalità, della pace e dell’ambiente, ilsindaco in maglietta e a piedi nudi(così ha varcato la soglia del Comuneil giorno del suo insediamento) ha da-to vita a un’esperienza politica vivacee sorprendente. Un programma incentrato sulla lega-lità, il bene comune, la democraziapartecipata, strettamente intrecciatoai temi della tutela del territorio e del-lo sviluppo ecosostenibile; una giuntadi esponenti della società civile, pro-fessori universitari, persone impegna-te nell’associazionismo, e una ferreavolontà di combattere una battaglianon solo politica ma umana: «la poli-tica buona è il gesto più spirituale chepuò fare l’essere umano», sostiene.Insomma un miracolo, nato nella pro-vincia “babba”, Messina, un colpo alcuore della politica dei partiti e deisalotti, in nome di un new deal chemetta al centro il cittadino, i suoi bi-sogni e i suoi desideri: «Il primo pas-so verso il cambiamento sarà abbatte-re ogni muro che separa Palazzo Zan-ca dai cittadini», ha dichiarato, scar-dinando i vetri dei tornelli all’ingres-so del Palazzo del Comune. Gesti simbolici a parte, l’amministra-zione Accorinti non si può dire chenon pensi in grande, come il progettodi creare l’Area metropolitana insie-me a Reggio e rendere lo Stretto Pa-trimonio dell’Umanità dell’Unesco. Epoi i piccoli passi: la concessione gra-tuita di spazi verdi sotto la cura deicittadini, la volontà di istituire unamoneta locale per dare impulso all’e-conomia cittadina attraverso strumen-ti alternativi, sono diverse le iniziati-ve per avviare il suo progetto ma alcontempo riprendere in mano una si-tuazione alla deriva dopo la cadutadella precedente amministrazione e ilcommissariamento che ne è seguito. Perché Messina, come Reggio, ha unmare di debiti, talmente alti che laCorte dei Conti ha imposto alla Giun-ta di non effettuare spese non essen-ziali. E Accorinti ha, tra l’altro, rinun-ciato all’acquisto del cero votivo perla Madonna di Montalto (80 euro),

suscitando non pochi malumori tra isuoi concittadini.In bilico tra grandi ideali e program-mi concreti, l’esperimento Messinava avanti, guadagnandosi un altro pri-mato: aver superato il vecchio anta-gonismo tra le città dello Stretto,chiamando come Assessore alla Cul-tura un reggino, il docente di Sociolo-gia economica dell’Ateneo peloritanoTonino Perna. Già presidente del co-mitato etico della Banca popolare diPadova e del Parco Nazionale d’A-spromonte, autore di diversi saggisulla degenerazione del capitalismofinanziario, sullo sviluppo sostenibilee sull’economia etica, Perna è anchescrittore, autore di testi per il teatro eil cinema, editorialista per importantitestate, insomma un intellettuale atutto tondo.Per Messina ha ideato la Notte dellaCultura 2014, premendo affinché fos-se partecipata anche dai reggini e dal-le istituzioni calabresi. Sua è l’ideadell’istituzione di una moneta locale eil “Laboratorio dei Talenti e dei Sape-ri”, in collaborazione con la Bancadel tempo e Timerepublik, forme dieconomia collaborativa ispirate a unanuova concezione dei modelli di tran-sazioni e consumi. Gli abbiamo chiesto di tracciare unbilancio di questo anno (anche se ilsuo incarico è iniziato solo nel no-vembre 2013, quando ha sostituito ilprecedente assessore) percorrendoquello che è stato fatto ma anche leprospettive future. Cosa l’ha spinta ad accettare questoincarico? La proposta di Accorinti èsicuramente nuova e diversa, e ha ilsapore di un sogno?

Il motivo primo per cui Accorinti miha chiesto di fare l’assessore alla cul-tura del Comune di Messina, oltre allastima nei miei confronti, è legato alsuo obiettivo di costruire la città me-tropolitana dello Stretto. È la primavolta nella storia di Messina che un ca-labrese viene chiamato per fare l’as-sessore alla cultura di una città chevanta una Università che è nata nel XVsecolo! E poi c’era da abbattere l’anti-ca ostilità reciproca tra le due città. Le sue iniziative a Messina sono statemolto seguite. La notte della Culturaha avuto successo e ha spinto anche auna replica a Reggio. Il suo obiettivoè stato fin da subito valorizzare i ta-lenti locali e condividere idee e pro-grammi. Quali risultati ha ottenuto?Un ottimo risultato con la prima nottedella Cultura dedicata ad Antonelloda Messina. Ne erano state program-mate altre due, sempre tematiche, perla primavera-estate: una dedicata alle“comunità straniere residenti a Messi-na” e la terza dedicata alle “fortifica-zioni dello Stretto” che avrebbe dovu-to coinvolgere anche la costa calabre-se. Purtroppo, quando tutto era prontoper far partire la seconda notte dellaCultura è arrivata la lettera della Cortedei Conti che blocca ogni spesa non“indispensabile”. Come sappiamo lacultura nel nostro paese è all’ultimoposto ed è ritenuta una spesa super-flua! Ma non ci arrendiamo e stiamoprovando con le associazioni culturalied artistiche a trovare altre fonti di fi-nanziamento. È questo un caso esem-plare dove la partecipazione popolarepuò giocare un ruolo determinante. Ma quali sono le difficoltà nell’orga-nizzare attività culturali di valore inmancanza delle risorse economichenecessarie? Come si fa ad assicurarela qualità e la professionalità? Fa-cendo leva sugli sforzi volontari, purencomiabili, non si corre il rischio diassecondare il dilettantismo?Domanda difficilissima. Ne ha una diriserva? Le dico soltanto che bisognaagire come un regista teatrale che sa

valorizzare tutti i suoi attori senza ca-dere nella demagogia dando la partedi primo attore a chi potrebbe fare be-ne solo la comparsa.È vero che la cultura per vivere, pen-so a teatro, eventi, rassegne, debbaessere sostentata dalle risorse pub-bliche? Oppure è ora di pensare alsostegno privato, non solo dei cosid-detti mecenati, ma anche dei singolicittadini che forse sono troppo spes-so abituati agli spettacoli gratuiti dipiazza?Credo che in ogni territorio bisognatrovare la giusta proporzione tra inter-vento del pubblico e del privato. Inun’area povera di imprese significati-ve che possono sostenere investimen-ti nel campo culturale, il pubblico haovviamente un ruolo determinante.Sicuramente bisogna che anche i cit-tadini si abituino a comprare un bi-glietto per il teatro o una mostra, ecc.al posto, per esempio, dell’ultimo cel-lulare o tablet. Lo stesso vale per i li-bri. È vero che c’è la crisi, ma l’edito-ria è tra i settori più colpiti per unascelta dei consumatori. In ogni caso iltempo delle vacche grasse è finito persempre. Il mio assessorato, per esem-pio, ha concluso un accordo con unimpresario siciliano per due perfor-mance allo stadio comunale di VascoRossi e Jovanotti per il prossimo an-no. Nell’accordo la società darà alComune circa 50.000 euro, più co-prirà integralmente tutte le spese rela-tive alla sicurezza, ripristino del pratoverde, ecc. È la prima volta. Le prece-denti amministrazioni hanno semprepagato le società che organizzavanoquesti eventi. Non parliamo del casoReggio e di Elton John che ha ricevu-to dal Comune, nell’era Scopelliti, labella somma di 650.000 euro! Cosa pensa del futuro di Reggio? Lanostra città versa in condizioni disa-strose, ancora peggiori di Messinaprima delle scorse elezioni. Là ilvento del cambiamento ha portato auna piccola rivoluzione, ma nutre lestesse speranze per Reggio?Vorrei tanto credere che anche Reg-gio possa rinascere. Sicuramente ilfenomeno Accorinti non è ripetibile,ma c’è tanta gente che in città vorreb-be impegnarsi per un cambiamentopositivo e fattivo. Quello che è certo èche non c’è un salvatore della patria.La forza di Accorinti sta nel fatto diaver scelto una giunta di persone one-ste e competenti, eccetto il sottoscrit-to, perché non ha dovuto trattare conpartiti e partitelli che dopo le elezionidi coalizione presentano il conto. Quali sono i suoi progetti per unirein un progetto comune di natura cul-turale e sociale le due sponde?Tanti. Ma, per scaramanzia, preferi-sco prima fare che annunciare. Altri-menti dovrei continuamente aggior-nare l’agenda come fa il nostro primoministro che dai 100 giorni della rivo-luzione è passato ai 1000: un bel sal-to di qualità!

Il caso Messina: il Comune come laboratorio politico e socialeIntervista al reggino Tonino Perna assessore alla cultura della Giunta Accorinti Oriana Schembari

Renato Accorinti e Tonino Perna

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Anno IX - n. 35/37 - Gennaio/Settembre 20144 LettereMeridiane

La Calabria dei poeti, una Calabriaintrisa di amore e di abbandono,rivive nello spettacolo La creatu-

ra prediletta della Compagnia Dracma,che ha esordito lo scorso 25 aprilepresso l’Auditorium comunale di Poli-stena per la regia di Andrea Naso. Iversi di Répaci, Argiroffi, Costabile eCalogero si susseguono e si intreccianocon le musiche originali di Nino Fore-stieri, alcune delle quali scritte apposi-tamente per questo allestimento. Rac-contano una terra intrisa di forti con-traddizioni, amara e dolce, bellissima edisgraziata, come suggerisce il branoche apre lo spettacolo, “Quando fu ilgiorno della Calabria…” di LeonidaRépaci. La celebre narrazione dellacreazione, divina e luciferina, benesemplifica la storia e il presente diquesta terra; il “sonno divino” oscuròle bellezze donate alla Calabria, inflig-gendo «le dominazioni, il terremoto, lamalaria, il latifondo, le fiumare, le al-luvioni, la peronospora, la siccità, lamosca olearia, l’analfabetismo, il pun-to d’onore, la gelosia, l’Onorata So-cietà, la vendetta, l’omertà, la violen-za, la falsa testimonianza, la miseria,l’emigrazione. Dopo le calamità, le ne-cessità: la casa, la scuola, la strada,l’acqua, la luce, l’ospedale, il cimitero.Ad esse aggiunse il bisogno della giu-stizia, il bisogno della libertà, il biso-gno della grandezza, il bisogno delnuovo, il bisogno del meglio». Su questa dicotomia si muove la narra-zione teatrale; tre attori in scena, lostesso regista Andrea Naso, DanielaD’Agostino e Paolo Cutuli recitano iversi più celebri in un crescendo diemozioni, che va dalla gioia al dolore,passando per l’ironia e per l’orgoglio,in continuo dialogo con la musica. Afare da trait d’union, legando magi-stralmente le due anime dello spettaco-

lo, musicale e recitativo, le bellissimeperformance di Paolo Cutuli, il mimoche dialoga con il corpo e la gestualitàcon le note e la voce del maestro Fore-stieri e dei suoi musicisti Tato Barresi eRosario Columbro. Movimenti edespressioni che attirano l’attenzionedel pubblico, e danno note di autenticapoesia corporea ad uno spettacolo in-tenso e prezioso. La conclusione è poi un momento par-ticolarmente drammatico e appassiona-to, quando i tre protagonisti in scena sispogliano delle vesti di attori e tornanoad essere solo i figli di questa terra, ca-labresi dalle vesti stracce, dalle mem-bra stanche, che cantano rabbia e sgo-mento per un destino amaro e dolenteattraverso le parole di Franco Costabi-le con il suo Canto dei nuovi emigran-ti. «Non chiamateci/ non richiamateci/

con la leggenda del sole/ del cielo/ edel mare/(…) Siamo/ bene legati/ a unavita/ a una catena di montaggio/ deglidei./ Milioni di macchine/ escono tar-gate Magna Grecia./ Noi siamo/ legiacche appese/ nelle baracche neipollai d’Europa./ Addio/ terra./ Salu-tiamoci,/ è ora». Questo spettacolo nasce in un momen-to di intenso dibattito tra gli intellettua-li calabresi che si interrogano su qualetipo di narrazione abbia bisogno oggila nostra terra e su quale racconto si siainvece costruita l’immagine che dellaCalabria si ha e che la Calabria ha di sestessa. L’immagine di terra maledetta,di razza infame, è stata per troppo tem-po l’unica a filtrare nell’opinione pub-blica nazionale e internazionale, dal-l’Unità di Italia ai giorni nostri. «La teoria della “razza maledetta” –

spiega Andrea Naso - fu denunciata danumerosi meridionalisti come un “ro-manzo antropologico” e una comodascorciatoia per spiegare le differenzetra Nord e Sud, sulla scia di alcune teo-rie di fine ottocento (Niceforo, Lom-broso, etc.). Questa narrazione finì colgenerare un sentire comune e diffuso,all’origine di stereotipi ancor oggi ope-ranti. toccandone i suoi aspetti intimi,che non sono pochi e peregrini, tutt’alpiù “sottratti” alla divulgazione». Adessere scelta per un nuovo racconto èinvece la poesia, nei suoi autori piùrappresentativi.«Attraverso la poesia si vuole incontra-re questa terra, la Calabria. La poesiaassomma leggenda e realtà, suggestio-ni e sapori, senso di libertà e costrizio-ne di un luogo che, saputo vivere, puòdivenire luogo dell’anima ed esperien-za irripetibile».Una produzione nata nell’ambito dellaResidenza Etica Teatrale della Piana,un’esperienza di grande valore che ani-ma una delle zone più difficili ma an-che più vivaci della nostra regione. Lacompagnia Dracma, fondata solo nel2005, ha al suo attivo un nutrito curri-culum che l’ha resa una realtà teatraletra le più rilevanti in Calabria. Dal2012 ha ideato e gestisce la Residenzacon sede a Polistena “Alla ricerca delBello perduto”, titolo e manifesto di unprogetto che non solo vuole incentiva-re la cultura teatrale, ma che si proponedi contribuire alla crescita culturale esociale del territorio, all’insegna dellalegalità. Un progetto dalla forte conno-tazione “etica”, così come riportatonella sua denominazione. Partner dellaResidenza, oltre i soggetti istituzionali,Regione e Comune di Polistena, nume-rose realtà impegnate nel mondo dellacultura e del sociale, come Libera, Au-ser e Città del Sole Edizioni.

Un momento dello spettacolo

I spirato al testo di Marguerite Yourcenarcontenuto nella raccolta Fuochi, Cli-

tennestra o del crimine, lo spettacolo di-retto e interpretato dal giovane artista ca-labrese Paolo Cutuli, non smentisce le at-tese e suscita apprezzamenti di pubblico edi critica. Dopo essere stato rappresentatola scorsa primavera a Cosenza all’internodella rassegna “Nuovi talenti alla regia”dell’Unical, e a Roma, presso il TeatroAgorà, questa estate parteciperà al Festi-val Teatri di pietra, il prestigioso circuitoteatrale nei parchi archeologici del sudItalia, nell’ambito del quale andrà in sce-na il 6 agosto a Napoli. Lo spettacolo èstato inoltre selezionato alla I edizione delPremio Parodos, indetto dall’Ente Teatrodi Messina, il Tindari Festival e il Comu-ne di Patti, e sarà riproposto alla fine diagosto proprio nella suggestiva cornicedel teatro di Tindari, per la sezione finaledel Premio dove i tre spettacoli finalistisaranno giudicati da una giuria popolare e

di esperti. La storia tragica di Clitennestrache, dopo aver atteso per dieci anni il ri-torno del marito Agamennone dalla guer-ra di Troia, lo uccide insieme all’amanteEgisto, rivive attraverso la personale rilet-tura della Yourcenar e la sapiente e mo-derna regia di Cutuli. L’attore regala unadimensione di ambiguità sessuale a questopersonaggio che ha sacrificato tutto all’a-more (anche la figlia) e all’attesa. Rispet-tando il tema dell’opera, il sentimento to-talizzante, malattia e perdizione, Cutuli neindaga le pieghe più amare e spietate, at-traverso espedienti registici semplici macalzanti. Gli altri personaggi, Agamenno-ne, Egisto, Troia (al contempo la città cheequivale alla sete di potere e alla ricchez-za cercata, e Cassandra, la schiava profe-tessa che il marito conduce in casa al suoritorno, scatenando la sua furia omicida),sono rappresentati da semplici trolley daviaggio, fantocci delle proprie passioni.Come nel testo originale, la protagonista

si rivolge ai Signori della corte, il pubbli-co presente, che diventa la Giuria che do-vrà decidere la sua sorte, giudicare il suogesto, assolverla o condannarla per il suo

eccesso d’amore; ma il pubblico è anche ilcoro di vedove che aspettano il ritorno deiloro mariti, tutte forse potenziali assassinee potenziali vittime di questo gioco dolcee crudele, perché, come scrive la Yource-nar, «L’amore è un castigo. Veniamo puni-ti per non essere riusciti a rimanere soli».Sulle note da Loredana Bertè, 99 Posse,Depeche mode, Avion Travel, Clitennestrapuò disegnare le sue coreografie di lucidafollia, raccontando il suo corpo che atten-de e il suo corpo che uccide.Paolo Cutuli si conferma con questo spet-tacolo un vero talento del panorama atto-riale italiano. Già nel 2008 è stato il “paz-zo” del Don Chisciotte di Mariano Rigil-lo, poi baritono per Nicola Piovani, infine,ancora, Enea per “La barca di Enea” di Al-bertazzi nel 2011. Collabora da anni conla compagnia Dracma, con la quale è inscena con gli spettacoli Sira, Pinocchio eLa creatura prediletta.

M. Z.

La Clitennestra di Paolo Cutuli conquista critica e pubblicoLo spettacolo del giovane artista calabrese sarà in scena al Tindari Festival per il Premio Parodos

Paolo Cutuli in Clitennestra

La creatura prediletta. La Calabria in uno spettacolo intensoLa produzione Dracma racconta una terra “d’amore e d’abbandono” attraverso la musica e la poesia Maria Zema

teatro

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Anno IX - n. 35/37 - Gennaio/Settembre 2014 5LettereMeridiane

Q uanto dura un ricordo? Quale èl’estensione del suo dominio, lasua forza di persistenza davanti al

vuoto panico della dimenticanza?Come cronista ho già tradito due regolesemplici del giornalismo. Primo: mai ini-ziare un articolo con una domanda (e quisono addirittura due!). Secondo: la poesiadeve stare alla larga da ogni parola.Ma è impossibile trattenersi dopo aver as-sistito ad una magia sorprendente comequella andata in scena al Teatro Primo diVilla San Giovanni. La Morte Addossonon si limita ad essere teatro, ma diventapretesto metafisico, sguardo implacabilesulla natura umana. La storia parte in mo-do semplice, al capolinea di una fermatad’autobus, ma poi si complica, con l’in-contro-scontro delle protagoniste, dueportatrici sane di disperazione, che si sve-lano poco a poco, in un racconto che vaavanti e indietro nelle loro vite, tra tensio-ni e leggerezze, in un susseguirsi di mi-nacce, sorrisi, balletti e canzoni, mentreaspettano un treno o un autobus, un mari-to o un cliente, che come un principe az-zurro arrivi a salvarle dal mondo e da sestesse, soprattutto da se stesse. C’è so-vrabbondanza di emozioni, in questa par-titura di disperazione, e queste due mera-vigliose figure femminili ti prendono ilcuore, ti innamori di loro, vorresti alzartidal tuo posto in sala per salvarle, per gri-dare loro che sarai tu a prenderti cura diloro. E tutto questo coinvolgimento si de-ve ad una serie di motivi perfettamente in-castrati tra di loro: la qualità del testo,scritto a quattro mani da Domenico Loddoe Maria Milasi, le trovate registiche diAmerico Melchionda, la minimalisticascenografia di Luigi Maria Catanoso, leluci lievi di Guillermo Laurin Salazar esoprattutto le straordinarie interpretazioni

delle due attrici, Kristina Mravcova e Ma-ria Milasi, che si sono cucite addosso co-me una seconda pelle i loro personaggi,Alfa e Omega, archetipi di una umanitàsconfitta che spera ancora in una speranzache porti ad un qualche lieto fine. Questo è un lavoro sopraffino che meritatanti altri palchi e molto altro pubblico.Tutti dovrebbero vederlo, per specchiarsie rivedere se stessi, come monito a rad-drizzare in qualche modo la propria vitaprima dello schianto finale. “Il mio esiste-re ha mai fatto la differenza per qualcu-no?” sussurra ad un certo punto Alfa, e di-venta un invito a farcela tutti, questa do-manda. Continuiamo a vivere come nien-te fosse, in “modalità provvisoria”, un“passo avanti al presente”, ripetendo noistessi, le nostre abitudini, giorno dopogiorno dopo giorno, e nessuno si prende labriga di cambiarsi, di rendersi migliore,per “vivere all’altezza della vita”

Questo spettacolo è stato contagioso. Te loritrovi dentro anche a distanza di giornidalla sua esecuzione, ti arriva una frase,una citazione o una minaccia e allora tu tivolti, come me, mentre fai la spesa, aven-do la netta sensazione che Alfa e Omegasiano in fila là, da qualche parte, e tu an-dresti volentieri loro incontro, ad abbrac-ciarle.Lo spettacolo, una produzione OfficineArti (www.officinearti.it), è andato in sce-na al Teatro Primo di Villa San Giovanni il3 e 4 maggio scorsi. Per dar prova della grande capacità lingui-stica degli autori Domenico Loddo e Ma-ria Milasi, riportiamo integralmente que-sta loro folgorante nota:“Una nota de-nota l’intento, con-nota il si-gnificato, tenta una via d’uscita, una fuga,dall’inspiegabile. Ma può una parola spie-garne un’altra? Come se da sola non ba-stasse a se stessa, risultando inadeguata al

proprio significato. Le parole sono segnisegnati o pronunciati, forme conficcate inun foglio o naufragate in un tozzo d’aria,a disvelare misteri ed emozioni, o, ancorameglio, a stanare il mistero di una emozio-ne. La Morte addosso parte da un titolo edun assunto pirandelliano, ma poi diventacosa altra, piccolo contenuto di spazio conun grande contenuto di tempo, là dove iltempo è sostanza e lo spazio dominio.Questo testo nasce come territorio ma-schile, un testo-sterone, ma poi vira e si(e)vira su coordinate femminee, così chead ogni rigo fa capolino una identità fem-minile che si insinua tra gli spazi bianchidel racconto, e lo ispira, lo dirige, lo arric-chisce, e più d’ogn’altra cosa, lo rende ve-ro. Scrivere a quattro mani equivale allaconcitata pratica dell’autoerotismo con unintruso tra le parti (intime), e non sai maidove comincia uno e finisce l’altra, comeun Alfa e una Omega che si scambiano iruoli, fino a condividerne la sorte: Alfa eOmega come l’inizio e la fine di cosa?Il teatro ha finito col reclamare questo te-sto, cucito addosso alle due attrici comeun sarto chino sopra le trame del fato, aimbastire drammaturgie di sorrisi e lacri-me. Una fermata sperduta testimonia losmarrimento di queste due esistenze in ro-vina, sospese tra le tenebre della notte eun’alba che forse non arriverà più, comedue piccoli segni d’inchiostro mischiati aquel grande scarabocchio che è l’esisten-za, tragiche eroine archetipo di una uma-nità in parossistica migrazione senza me-ta, dove ogni singolo individuo cerca ilproprio ruolo al centro del palcoscenico oanche su una sedia vuota tra il pubblico,accontentandosi persino di stare in piedidopo l’ultima fila, per non ritrovarsi chiu-si fuori dal teatro, nel gelo siderale di uncapolinea senza speranza”.

Franco Arcidiaco

La Morte Addosso, lo spettacolo di Loddo e Milasi in scena al Teatro Primo

Una notte con Alfa e OmegaDue esistenze sospese, tra disperazione e speranza, emblema di una umanità senza meta

Un momento dello spettacolo

L a vita, quella vera, raccontata da unpalcoscenico con leggerezza, con iro-

nia, con uno sguardo schietto, autentico sul-la dinamica umana. “Memento ma non mento. Performance az-zardata di teatranti audaci” questo il titolodello spettacolo, per la regia ed elaborazio-ne drammaturgica di Andrea Naso, andatoin scena, con grande successo, all’Audito-rium comunale di Polistena. La rappresentazione teatrale, che ha trasci-nato ed entusiasmato il numeroso pubblicopresente, è giunta a conclusione del labora-torio di teatro di narrazione tenuto dallostesso regista e attore teatrale ai volontariAuser del circolo di Taurianova, nel corsodell’anno sociale 2013-2014.Due storie di vita, scritte e interpretate daGabriella Bruni e Graziella Marino e porta-te in scena, in un susseguirsi di momentiesilaranti e commoventi, insieme ai colle-ghi volontari Fabio Alessi, Francesca Ales-si, Giovanna Curatola, Rina Latella, AttilioOrefice, Liliana Pezzano, Maria Rosa Ro-meo e Assunta Spirlì.Un progetto nato dalla collaborazione tra laCompagnia Dracma – Residenza etica tea-trale della Piana “Alla ricerca del Bello

perduto” e l’Associazione di VolontariatoAuser del Comprensorio pianigiano, coor-dinata dalla presidente Mimma Sprizzi. Un’esperienza unica, che ha coinvolto per-sone di età compresa tra i 30 e 70 anni, vo-lontari impegnati quotidianamente nel cam-po della solidarietà sociale, che hanno spe-rimentato, attraverso la condivisione dei

propri vissuti, un nuovo modo di socializza-zione e di condivisione di una memoria col-lettiva e intergenerazionale. Un progetto importante, dunque, che si in-serisce nell’ampia serie di iniziative portateavanti dall’Associazione di Volontariato,attiva da diversi anni con servizi di assi-stenza agli anziani e alle persone non auto-

sufficienti, di aiuto e orientamento agli im-migrati - espletando una fondamentale ope-ra di accesso ai diritti -, di promozione so-ciale e culturale.Il filo conduttore, e scopo principale, del la-boratorio è stato la “cura del sé”, ovvero ilprendersi cura dei propri cambiamenti, nel-la piena accettazione d’un presente stretta-mente connesso ad un passato e in un climadi gruppo che ha favorito l’incontro e il rap-porto tra la rappresentazione artistica e larealtà sociale. L’utilizzo delle diverse tecni-che del teatro di narrazione e dello psico-dramma ha fatto emergere, mediante im-provvisazioni sceniche, e la loro analisi, te-sori nascosti. Così i volontari-attori, guidati da AndreaNaso, hanno intrapreso un percorso di riela-borazione e di recupero della propria iden-tità emotiva, si sono messi in gioco, guarda-ti allo specchio, trovandosi, riscoprendosisul volto dell’altro, a contatto con la propria‘umanità’, ironizzando sui propri limiti.Con una forza espressiva disarmante sonoriusciti a raccontare, a raccontarsi da unpalcoscenico… e sotto le luci della ribalta,per chi li ha guardati dal buio della sala, so-no stati, ancora una volta, una mano tesa.

I volontari Auser in scena con “Memento ma non mento”Successo per lo spettacolo nato dalla collaborazione tra l’Associazione di Volontariato e la Compagnia Dracma Federica Legato

I volontari Auser in scena - foto di Antonino Policari

teatro

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Anno IX - n. 35/37 - Gennaio/Settembre 20146 LettereMeridiane

I l 7 febbraio sono stati celebrati i centoanni dal giorno in cui Chaplin, allorasemisconosciuto attore inglese emigra-

to a Hollywood, comparve per la primavolta sul grande schermo nelle vesti dellasua maschera immortale, Charlot (comeviene chiamato in francese, spagnolo e ita-liano, in inglese è semplicemente “Thetramp”, il vagabondo, o più familiarmente“Charlie”). In quel giorno del 1914 nellesale americane uscì il cortometraggio targa-to Keystone (la casa produttrice che in-ventò lo slapstick) Kid Auto Races at Veni-ce, tradotto in italiano come Charlot si di-stingue. Cinque minuti appena, ma Charlot,più che distinguersi, irruppe prepotente-mente in scena per uscirne solo durante laseconda guerra mondiale, con Il GrandeDittatore del 1940. Il corto non è niente dispeciale, con il vagabondo che entra edesce dall’inquadratura disturbando le ripre-se di una corsa di macchinine, ma la crea-tura di Chaplin è già abbozzata: la miticabombetta, il bastone che nel corso degli an-ni comparirà e scomparirà a seconda deifilm, i vestiti sformati e gli indimenticabiliscarponi. Appena accennata, invece, la sto-rica andatura a piedi storti, ma sarebbe sta-to chiedere troppo; era chiaramente una co-mica improvvisata sul set, senza sceneggia-tura, e per il personaggio non vi era neppu-re un futuro certo.Chaplin all’inizio non si dedicò molto aCharlot, dipendeva ancora dai produttori enon poteva decidere autonomamente; ma ilcrescente successo di quell’ometto buffo fe-ce lievitare il suo cachet finché, con un mi-lione di dollari in tasca (una cifra enormeper un giovane attore del 1889) nel 1918 simise definitivamente in proprio, dirigendopersonalmente i propri film, cosa che già fa-ceva in precedenza, ma con minore libertà.E la libertà gli permise di elaborare meglioil suo personaggio. Se si guardano le comi-che dei periodi Keystone o Essanay (di re-cente restaurate e digitalizzate) Charlot èmolto diverso da come sarà nei successivicapolavori: cafone, pigro, ubriaco e perfinomolesto con le donne, è lontano anni lucedal tenero vagabondo che tutti conosciamo.Ma da Vita da cani (1918) in poi, Chaplinapporrà al cinema comico americano queltocco di originalità europea che ne fece ilgenio oggi celebrato, ma allora coperto an-che di critiche. Ispirandosi al comico fran-cese Max Lindèr, Chaplin squadernò tuttal’abilità acquisita nei cabaret di Londra percreare una maschera che si distaccò dallacaricatura tipica dei film comici del mutodiventando una rappresentazione diverten-te, ma anche amara, dell’uomo medio, delsognatore che deve fare a pugni con larealtà per emergere nel mondo; e spessonon ci riesce neppure. Premesso che tutte(o quasi) le comiche degli anni dieci e ven-ti erano impostate su una satira feroce ver-so gli ambienti della nobiltà e dell’alta bor-ghesia, tenendo conto che spesso erano pel-licole destinate alle sale di ultima visione,quelle di Chaplin andavano oltre questaconcezione del mondo, osando come nes-suno aveva mai fatto.Se nelle comiche dei pur grandi BusterKeaton e Stanlio&Ollio c’era uno schemabasato su “inizio – gag a ripetizione e anar-chia – ricostituzione dell’ordine”, Chaplinabbatte invece la narrazione della comme-dia: le gag sono complementari al protago-nista in ogni scena, non hanno nulla a che

vedere con la comicità fracassona di Kea-ton e spesso non sono inserite a caso soloper far ridere lo spettatore, ma costituisco-no degli espedienti per mandare avanti latrama o intuire una caratteristica psicologi-ca del personaggio. Il protagonista stesso ècompletamente diverso dai mattatori del ci-nema di quegli anni: Keaton, Harold Lloydo gli stessi Laurel&Hardy interpretano per-sonaggi ben inseriti nel contesto sociale acui appartengono, se ne combinano una è acausa della loro imbranataggine, ma poitorna sempre il lieto fine in cui l’apparenteanarchia ridiventa normalità; insomma,semplici borghesi pasticcioni.Un universo negato invece al povero Char-lot, eternamente emarginato dalla societàed escluso da un lavoro o da qualsiasi op-portunità di riscatto: è evidente che in que-sto personaggio Chaplin abbia condensatotutte le angosce e le umiliazioni di un’in-fanzia traumatica vissuta nei sobborghi del-la Londra dickensiana di fine ottocento in-sieme all’amato fratello Sydney e alla ma-dre Hannah. Charlot, all’inizio di ogni film,è sempre solo, non ha mai nessuno che sioccupi di lui o che gli tenga compagnia, èspesso vittima degli eventi e della crudeltàumana, gli equivoci e le gag scattano sem-pre quando deve difendersi da qualcosa oqualcuno. E, a differenza dei personaggi

sopracitati, non è neanche stupido, ma anziesce fuori da ogni situazione col sorrisosulle labbra ed escogitando un piano peruscire di scena allontanandosi su una stradadeserta. Pienamente consapevole di nonavere un posto stabile in seno alla società,ma per nulla disperato o depresso; addirit-tura, è più a suo agio in mezzo alla stradache quando cerca di imparare le regole delvivere civile. Un personaggio contradditto-rio, che conserva negli abiti un’aria digni-tosa, ma sempre aspirante all’assoluto, poe-ta, sognatore e romantico. Chiaramente, ilpubblico dell’epoca preferiva le scene co-miche rispetto a quelle in cui la malinconiafa capolino (e che, dopo Il Circo e altre vi-cissitudini umane dell’autore, andrà via viaaccentuandosi); ma quello che appariva in-digesto, nelle commedie, era la rappresen-tazione del mondo degli emarginati, deibarboni (e tale è Charlot) e dei disoccupati,con una sensibilità che affondava le maninel mondo reale. Per giunta, ciò che reseChaplin avverso alle istituzioni americane(con le conseguenze che tutti conoscono)era la sua visione del mondo comunitaria,in cui tutti hanno il diritto di essere felici enon presi a calci dal destino e dai prepoten-ti, ma il dettaglio peggiore era la vistosa sfi-ducia nel Potere in generale: i poliziottifreddi e minacciosi appostati dietro un mu-

ro, che non fanno rispettare la legge ma siaccaniscono sui poveracci, gli ispettori sani-tari o dei minori (come ne Il monello e Tem-pi moderni) visti come burocrati che svelti-scono le pratiche disinteressandosi total-mente del dolore e del disagio delle perso-ne, i “padroni” che pensano solo al lavoro ebrutalizzano i dipendenti non erano, comecredevano i soliti farisei, una critica controla società americana e neppure un’ammis-sione di fede comunista, ma solo il grido diqualcuno che voleva spiegare il suo perso-nale concetto di umanità (come farà nelcommovente finale del Grande Dittatore).Non è un caso che Charlot non abbia maiun amico vero accanto o una donna che loami, a meno che essi non appartengano al-lo stesso mondo da cui proviene lui: il ran-dagio e la povera cantante di Vita da cani,l’orfano nel Monello, l’affamato avventu-riero della Febbre dell’oro, la fioraia ciecadel bellissimo Luci della città o la dolce ra-gazza di Tempi moderni, sono altrettanticompagni di viaggio condannati come lui asoffrire, ma allietati dalla speranza e da unaffetto sincero come quello del vagabondo.E neppure nelle storie d’amore Charlot puòdirsi felice; a parte le prime comiche in cuiil lieto fine era d’obbligo, nelle opere piùpersonali il pessimismo cosmico di Chaplinsi accanisce sulle avventure sentimentalidel suo ometto, lasciandolo spesso abban-donato o all’inizio di una relazione che nonè neppure detto che duri. Infatti Chaplinnon mostra mai il “dopo” dell’innamora-mento, lo lascia in sospeso come se voles-se prendere in giro lo spettatore o non lo ri-tenga necessario. Charlot fa scoccare lascintilla, ma non lo vediamo mai sotto untetto con la consorte, dopo che lui e una ra-gazza scoprono di amarsi compare “THEEND”. Neppure l’amore, insomma, può es-sere vissuto borghesemente dal nostro vaga-bondo, ma non per questo, sottolinea Cha-plin, egli non ha il diritto di amare qualcunoe, sia che si tratti del suo primo piano sorri-dente che chiude Luci della città o la stradache si perde all’orizzonte di Tempi moderni,siamo rincuorati dal pensiero che affronteràfinalmente la vita accanto a una donna.Coerentemente simile a questa poetica, lostile cinematografico di Chaplin è sempli-ce, quasi scarno; a differenza di molti regi-sti “autori”, egli non ha mai adottato unostile di regia che lo contraddistinguesse,tant’è che per molto tempo parecchi criticinon lo hanno mai voluto considerare “ori-ginale”. Ma bastano le parole di Kubrick(«Il cinema di Chaplin è tutto contenuto eniente forma») o di Pasolini («Un film diChaplin si può vedere venti volte come sipuò leggere venti volte una poesia») percomprendere come la genialità di Charlotsia tutta nella messinscena e nell’amore cheil regista/protagonista prova per i suoi per-sonaggi; piani sequenza, campi lunghi e to-tali, montaggio quasi inesistente, ma ancheuna forte caratterizzazione psicologica e ungrande e sapiente utilizzo della pantomimaoltre ad una costruzione scenica quasi det-tata da un ritmo musicale (Chaplin era an-che un ottimo compositore e componeva lesceneggiature come degli spartiti). Sonoquesti gli unici ingredienti attraverso i qua-li la sensibilità di Chaplin poteva venirefuori e inondare lo schermo.Buon centenario Charlot e altri cento annidi vita al magico sognatore che alberga intutti noi.

Filippo Mammì

Cento anni dalla nascita di CharlotDal vagabondo pigro e cafone alla maschera tenera e amara dell’emarginato

Dipinto di Maurizio de Marco

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Anno IX - n. 35/37 - Gennaio/Settembre 2014 7LettereMeridiane

T renta giovani e adulti con disabilitàpsichica e motoria protagonisti di“Manifestarti. Espressioni di diversa

cultura”: uno straordinario progetto, messoin atto dall’Associazione di promozione so-ciale “Electra” onlus di Arezzo, nato conl’obiettivo di “lanciare segnali d’integrazio-ne e condividere linguaggi diversi, attraver-so l’arte, l’editoria e il teatro”, trasforman-do “lo spazio pubblico in spazio artistico, lospazio individuale in spazio collettivo, lospazio marginale in spazio centrale”.Il progetto, ideato dall’Aps Electra onlus,rappresentata dal presidente Nicola Beni-gni, - finanziato con il contributo del Dipar-timento per le Pari Opportunità (Presidenzadel Consiglio dei Ministri) -, è stato realiz-zato in tre fasi, attraverso varie iniziative, incollaborazione con “La fabbrica del sole”onlus, “Il velocipede” onlus, “Autobhn tea-tro” e con gli studenti degli istituti superio-ri aretini.Mostre, work-shop, laboratori di arte-tera-pia e di fotografia, spettacoli, visite guidate“per conoscersi e ri-conoscersi”, diversipercorsi finalizzati a promuovere la comu-nicazione e le relazioni mediante lo scam-bio e la reciprocità, che hanno impegnato –da giugno 2013 a giugno 2014 - i destinata-ri del progetto, coordinato da Serena Mari-nelli con il supporto di un nutrito gruppo diesperti e professionisti: Marco Tulli (psico-logo, supervisore); Annunziata Gentile(educatrice); Ilaria Gradassi (animatrice eillustratrice); Giulio Antonini (animatore dicomunità); Barbara Peruzzi (educatrice, in-segnate di teatro), Rosalia Carlino (danzaterapista); Luciana Bancone (amministra-zione e monitoraggio); Emanuela Rossi(amministrazione); Mariateresa Coppo (ilVelocipede onlus).La prima tappa è stata l’apertura di un ate-

lier di arte-terapia plastico pittorica, con laproduzione di elaborati che, dopo esserestati realizzati, sono stati scelti dal gruppodi lavoro, fotografati, rielaborati grafica-mente ed affissi (in formato 6mx3m) supannelli stradali, negli spazi occupati daimanifesti pubblicitari.L’idea di fondo è stata quella di trasformarelo spazio pubblico in spazio di comunica-zione artistica e di “diversa informazione”.Sostituire la pubblicità, con l’opera creativadi un gruppo di persone diversamente abili,ha assunto “il senso di una liberazione tem-poranea dalle logiche del consumo per di-venire esortazione a vivere in un ambientestimolante, fatto di segni umani, di tentativi,di ponti tra sensibilità”. Da qui, la realizza-zione di un vero e proprio “Museo stradale”che ha consentito ai partecipanti di “speri-mentare la gratificazione di produrre e vede-re esposto il risultato della propria creatività,

consentendo a chiunquedi conoscere le infinitepossibilità di coloro chesono generalmente rele-gati ai margini della so-cietà”.La seconda fase del pro-getto è stata incentrata,invece, sulla produzionedi una “Fanzine” – diffu-sa online (tramite face-book) e in forma cartaceaattraverso la distribuzio-ne nelle scuole, nei centrigiovanili, ricreativi e inallegato al giornale“Piazza Grande” – all’in-terno della quale com-mentare e promuovere gliappuntamenti culturali,ma anche “per dare voce

e corpo ai desideri, alla protesta, alle delu-sioni ed alle aspettative” e, dunque, “inco-raggiare e  ricreare  la presenza dei giovanidisabili sul territorio attraverso uno stru-mento di comunicazione, di partecipazionee di espressione creativa”.Il terzo momento ha visto gli utenti impe-gnati in un laboratorio teatrale che ha per-messo loro “di lavorare sulla delicata sferadei sentimenti, per rielaborare e restituirealla cittadinanza non solo i prodotti pittori-ci e grafici, ma il racconto di una straordi-naria esperienza”. A questo scopo, è statautilizzata la metodologia del “teatro del-l’oppresso”, che consiste nell’uso del lin-guaggio teatrale per avviare processi dicambiamento sociale, analizzando e trasfor-mando le emozioni negative in esperienzeaccettabili per normalizzarle ed integrarlenella propria esperienza. Tecniche e stru-menti di narrazione mirati ad imparare a

guardarsi dentro, ad avvicinarsi al propriomondo interiore, a riflettere su come i sen-timenti siano in grado di influenzare e de-terminare il processo di crescita e consape-volezza di sé. Un percorso intenso suggella-to da una performance intitolata “Atti O-scenici in luogo pubblico”. La scelta del termine “osceno” non è statacasuale ma rimanda al significato etimolo-gico della parola stessa: “obscénus” ossiaimmondo, brutto, deforme e si riferisce, alcontempo, al termine “scenico”. I protagonisti della performance, portata inscena lo scorso giugno, si sono “manifesta-ti” parlando di sé, raccontando al pubblico iloro vissuti e citando alcuni pensieri raccol-ti nelle Fanzine. Ancora con l’obiettivo didare vita a momenti di scambio e di condi-visone. Ancora con l’obiettivo di innalzareponti e di distruggere barriere. Quelle uma-ne. Le più resistenti… a causa del pregiudi-zio, dell’indifferenza, della paura e dell’e-marginazione del ‘diverso’.

P ubblichiamo la prolusione tenuta dall’ar-chitetto Marcello Séstito durante l’inaugu-

razione della sua mostra “InCarte di pane”, te-nutasi al Museo Archeologico Nazionale diReggio Calabria dal 4 al 20 ottobre 2013. L’e-sposizione ha ripercorso trenta anni di attivitàcreativa dell’architetto. Il catalogo che accom-pagna la mostra, edito da Città del Sole Edizio-ni, raccoglie circa mille e trecento disegni del-l’autore oltre ai contributi critici di EugenioBattisti, Giuseppa Saccaro Del Buffa, MarcoDezzi Bardeschi, Richard England, MarcelloFabbri, Alberto Fiz, Antonella Greco, France-sca Alfano MIglietti, Giorgio Muratore, Clau-dio Presta, Franco Purini, Pierre Restany,Giordano Tironi, Kim Veltman.

Cosa fa il disegno per chi non vuole diventare paz-zo ma è pazzo per il disegno come vorrebbe Smo-larz per Hokusai. Il disegno annusa l’aria e come ilrabdomante con la sua bacchetta bifida, biforcutacerca l’acqua, lui con la sua asta appuntita annusal’aria, compie circonvoluzioni nell’etere, scrutanel profondo delle cose, ne coglie i tratti istintivi equelli profondi, si nutre di tracce e indizi, rivela latrama sottostante, compie esercizi ginnici con lamano costretta a disinibite articolazioni, come sele ossa del carpo e del metacarpo delle multiple di-ta non bastassero, come se persino l’anatomia pen-tedattila non fosse sufficiente a compiere le gira-volte che impone il lapis. Il disegno ha questo dibuono, rende chi lo pratica ottimista, ma non diquell’ottimismo ottundente, bensì quello velato dimalinconia, di chi sa che solo una parte delle pro-

poste disegnate troverà conferma nel reale. Il dise-gno è il vero tramite tra la realta e la surrealtà, ri-vela di quest’ultima la sua natura seconda che nonè data semplicemente dalla prima ma ne coglie l’o-rigine come un dato implicito. Il disegno ha con-cesso ai sogni di manifestarsi non solo nel soporalbertiano o nella precognizione scamozziana enemmeno nello sdormire pessoano, ma proprionella consistenza dell’esistenza.Il disegno è atemporale, si sposta tranquillamente

e senza indugio tra i secoli, le epoche, le ere; le at-

traversa rimanendo se stesso, è a-geografico, sisposta tranquillamente tra i luoghi, le foreste, lepianure, i deserti, o gli oceani. Sottraendoli all’o-blio, il disegno muta i volti, ritraendoli li consegnaalla storia, e al futuro.Si disegna nel vuoto o sulle materie, è indifferen-te, con la luce o con le ombre. Con il fumo comefa il diavolo di Hogart, o col fiato sui vetri appan-nati. Si disegna col sangue o con l’inchiostro, è in-differente. Si disegna per piacere, per diletto o persopravvivere, per riconoscersi e per conoscere. Ildisegno si autosostiene, disegna se stesso dise-gnando la matita, lo stilo, la penna o il carboncinoo tutto cio che lo rende manifesto. È il disegno cheanimandosi produce mondi illusori e utopie fanta-stiche, personaggi inesistenti, rendendo vivo ciòche è inanimato. È il disegno che disegna le lette-re e quindi le parole per tutte le fiabe e le poesiedel mondo. È il disegno che disegna il pentagram-ma e le note ad esso connesse per tutti i suoni pos-sibili: non si dà musica senza notazione disegnata.Il disegno è mobile e immobile al contempo, la li-nea guizza repentina ma una volta fissata imponeun arresto temporale allo sguardo.Il disegno èClassicista, Manierista, Suprematista, Costruttivi-sta, Cubista, Minimalista, Memorista, Globalista,se ne frega degli Ismi, esso li produce e l’invera. Ildisegnare segue il flusso delle passioni interiori,ora collerico, ora sanguigno, ora flemmatico ed ilsolco che traccia risente delle pressioni del polso edell’impulso del cuore. Il disegno è ritmico, pro-duce anch’esso un suono sottile dato dallo stridoredelle penne e dei pennini, o dai lapis e dalla gra-fite sul supporto, il pulviscolo che produce nelle

sue scorie assomiglia all’universo. Il disegno co-pre le stagioni e le assorbe nelle sue grafie tutte,sollevando i venti e le maree, i terremoti o i som-movimenti tellurici. Si insinua nelle rocce, entrol’alveo del fiume, ne riproduce le sinuosità, affon-da con le sue radici. È il disegno che traccia le co-stellazioni, l’orsa, il cancro, la lira, il sagittario…che allinea le rotte delle imbarcazioni, che tracciadestinazioni, dalla Terra alla Luna, che cala perti-che come linee negli abissi, che geometrizza cittàmiletiane o naturalizza paesaggi e bustrofedica-mente ara i campi. Il disegno quando è continuodivide il mondo, quando è discontinuo lo rivela inparti. Ma c’è una cosa che il disegno ha l’obbligodi fare, deve caricarsi di senso e di preveggenza,pena lo scadere nel leziosismo, nel virtuosismografico nell’ombreggiatura ammiccante, peggionella scolastica o nell’accademismo, inutile all’ar-chitettura se il disegno non significa. Certo così di-cendo mi accorgo di far coincidere disegno e pro-getto, ma forse il primo è sgravato dal peso delleeccessive responsabilità previsionali, può essereludico e impertinente, persino irriverente e provo-catorio. Il disegno per l’Architettura è tutto, è ma-dre e padre, anticipa il costruire e definisce l’abi-tare, crea gli spazi del nostro quotidiano e della no-stra sopravvivenza, entro i luoghi del disegno noiabitiamo con le nostra gesta, del vivere semplice,costruiamo la sedia, il mobile, l’armadio o il tavo-lo per la mensa sotto il quale i nostri figli simule-ranno la prima capanna dove imparare ad abitare,giocare e vivere. I disegni in cArte di Pane hanno cercato di dire tut-to ciò ma molto ancora non hanno rivelato.

Marcello Sèstito. In sostanza: il DisegnoLa mostra “InCarte di Pane” ha riaperto il Museo della Magna Grecia di Reggio Calabria Marcello Sèstito

Federica Legato

Manifestarti: Arezzo capoluogo della “diversa” culturaUn progetto, promosso dall’Associazione Electra, per valorizzare l’espressione creativa dei disabili

I protagonisti di Manifestarti

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Anno IX - n. 35/37 - Gennaio/Settembre 20148 LettereMeridiane

P asquino Crupi è un giornali-sta che non ha peli sulla lin-gua. È il suo grande merito;

qualche volta è il suo difetto.Perché il suo difetto? Perché chinon ha peli sulla lingua non è uncalcolatore. Il calcolo, in taluni ca-si, può fare le veci della prudenza oaffiancarsi alla prudenza. PasquinoCrupi non è prudente.Gli piace giocare d’azzardo. L’au-dacia premia talvolta il giocatore,tal altra lo porta alla rovina.Mi lusingo di credere che non ab-bia sbagliato quando negli anni delmio prolungato silenzio di scritto-re, che poteva far pensare alla mor-te, egli si accinse a scrivere unamonografia sulla mia opera. Questaera rimasta a mezzo, a causa dellamia cattiva salute, dell’inimiciziadegli editori, dell’indifferenza delpubblico. Allora se qualcuno miconosceva in Italia, non era certo inCalabria. Ricordo le visite che mifaceva a Bovalino in quegli annidella mia quieta disperazione. Loaccompagnava spesso la sua fidan-zata. Parlavamo di letteratura quan-do io non ero troppo sofferente coimiei mali. Risultato fu la monografia sullamia opera pubblicata da Pellegrininel 1968, con pari baldanza. Ac-cadde così il fatto strano di unoscrittore che incomincia ad acqui-stare notorietà in Calabria, non per

merito delle sue opere, dimenticateo mai conosciute, ma per interces-sione del suo critico.Altro suo lavoro significativo, aparte la monografia su SaverioStrati, pubblicata da Qualeculturanel 1971, e che ebbe grande suc-cesso, è stata La Bibbia dei poveri,raccolta antologica di racconti diautori calabresi, commentata per lescuole con la cooperazione accorta

di Carmelo Filocamo e pubblicatadal D’Anna nel 1971. Ivi compaio-no tra gli altri nomi insoliti: quellidi Saverio Moltalto e di MariannaProcopio, per la prima volta propo-sti con straordinario successo a unvasto pubblico di studenti, di inse-gnanti e di comuni lettori. Tra gliautori noti, quello di FrancescoPerri, troppo presuntuosamentemesso da parte nel dopoguerra dai

critici distratti. Pasquino Crupi in-siste nel rinverdirne la fama nelsuccessivo La letteratura calabresecontemporanea pubblicato ancoradal D’Anna nel 1972; e ora nel sag-gio presentato al concorso del Pre-mio Villa San Giovanni sull’operadi Perri, che ha avuto la vittoria.Sappiamo che il critico ha modifi-cato il suo giudizio, dando maggiorrilievo che non avesse dato primaal Discepolo ignoto e all’Amante dizia Amalietta. Qui riconosciamo un altro aspettodel suo carattere: per quanto impul-sivo sia, per quanto a volte iperbo-lico, Pasquino Crupi è sempre ca-pace di ricredersi, nella ricerca diuna verità più effettiva. È l’altrafaccia di quella che potrebbe appa-rire la sua enfasi declamatoria infavore dei suoi autori preferiti.Inversamente è ferocemente pole-mico contro coloro che non glipiacciono, tanto in letteratura chein politica. Non direi che una misu-ra maggiore non sarebbe auspicabi-le. Tuttavia la sua buona fede do-vrebbe essergli riconosciuta. C’èun estro caricaturale nelle sue tro-vate polemiche, da rendere sempreviva e giovanile l’immagine chenasce del suo autore.

22.7.1975*“Il Giornale di Calabria”

del 26 luglio 1975

Mario La Cava

Ritratto di Pasquino CrupiLe parole di Mario La Cava sul compianto intellettuale meridionalista

Pasquino Crupi e Franco Arcidiaco

B uon compleanno papà Pasqui-no, non sento il rumore del tuo

esserci, il tamburellare delle tue di-ta sulla tastiera tace e il toscano ètornato ad essere “antico”, inanima-to e inodore nella scatola smarrita. Buon compleanno papà Pasquino!Dalla primavera della mia vita,troppo giovane per saper fare a me-no di te, troppo poco avvezza ad al-lenare il ricordo di te, buon com-pleanno a te che mi hai donato tuttointero il tuo amore anche quandocon il respiro piegato mi dicevi:“Sto bene” laddove stavi morendo.Buon compleanno papà Pasquino,buon compleanno a te che dalle bar-ricate della tua vita hai urlato “Vita”per i tuoi calabresi, “Vita” per la tuagente troppo a lungo oppressa evessata da una classe politica cor-rotta che ha generato silenzio suigiusti e disseminato dubbi sui gran-di spiriti del meridionalismo. Buoncompleanno papà, sei morto ab-bracciando il tuo Sud, sei morto conla tua Calabria stretta sul cuore, av-vinta nell’impiegabile pugno alzatoe urlante uguaglianza, giustizia, di-gnità e indipendenza e tutto hai sa-crificato per ridarle autenticità, per

ricondurre il suo dramma all’inter-no di una “Questione sociale” afronte di chi vuole truffaldinamentee codardamente rilegarla ad unasemplice “Questione criminale”.Per te papà, parlano i tuoi scritti,tuonano l’ira dell’uomo ribelle maiallineato alle regole della politicasfattona, di qualunque colore fosse.Nel tuo ultimo libro, La questionemeridionale al tempo della diffama-zione calcolata del Sud, esprimi leansie per la tua terra e il desideriogrande di vederla rinascere purifica-ta dagli insulti che secoli di storia edi malcostume politico le hanno ri-versato addosso riducendola adun’appendice ammalata di uno svi-luppo distorto. Nella tua ultima fati-ca ripercorri l’attualità dei padri delmeridionalismo, non vi è per te unnuovo meridionalismo. Attuale èPasquale Villari che contro l’impat-to criminale richiedeva lavoro eistruzione. Attuale è Gaetano Salve-mini che sperava nascesse, per ilprogresso di tutta l’Italia, una mag-giore attenzione tra “Nordici” e“Sudici”. Non superata è la tesi diNapoleone Colajanni e Saverio Nit-ti che vedevano il rinnovo del Mez-

zogiorno nella via dell’industrializ-zazione. Non superato è il pensierodi Antonio Gramsci che auspicava ilformarsi di un blocco democraticocapace di contrapporsi al bloccoconservatore che governava da Ro-ma. Ancora attuale la tesi di GuidoDorso che vedeva il riscatto delMezzogiorno nascere dalla capacitàdi liquidare quei politici che usava-no l’apparato statale per vanificarevittoriosamente gli sforzi che le op-posizioni facevano per liberare ilPaese dalla schiavitù in cui era te-nuto. Questa è la via, questa è la viadel riscatto del Mezzogiorno e dellaCalabria. Queste sono le bandiereche tu ritieni necessario rialzare perseppellire con la forza del pensieroe della cultura la diffamazione chedefinisci “Calcolata” del Sud perpoter affermare che:il Mezzogiorno non è un grandecorpo criminale;non è il regno di feroce barbariecontro cui si varò la legge eccezio-nale voluta da Giuseppe Pica;non è una palla di piombo che im-pedisce i più rapidi progressi allosviluppo civile dell’Italia; non è arretrato perché i meridionali

sono biologicamente degli inferiori,semibarbari per destino naturale,perché la natura li ha generati pol-troni, incapaci, criminali e barbari. La sua storia di degrado e dolore ètutta scritta nel sacrificio che il de-collo economico del Nord ha chie-sto al resto del Paese. All’idea, poi,dei “Terroni” o dei “Sudici” amma-lati nei geni, ci ha abituati tutta lagrande stampa del Nord che ci hasubdolamente convinti che gli ele-menti negativi presenti nella nostraterra, siano prodotti, dalle nostre vi-scere infette. Francesco SaverioNitti splendidamente ammoniscequando ci ricorda che il Mezzogior-no è un enorme gigante addormen-tato e che prima o poi si sveglierà ele masse si ridesteranno. Sì, papà Pasquino, le masse si ride-steranno e tu, se puoi, guidaci ancora.Buon compleanno papà, buon com-pleanno a te che il meridionalismolo avevi nei geni, nel tuo cuore pul-sante di amore e che ammalato nonfu mai.

Buon compleanno papà Pasquino...Benedetta Crupi

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P asquino Crupi è innamoratodella letteratura calabrese.Ci dev’essere un motivo.

Perché è una grande letteratura?Non per questo, benché ad essa nonsiano mancati i grandi scrittori.Perché rivelatrice di sentimenti benradicati nel cuore di un popolo delquale fa parte? Nemmeno, se è ve-ro che Pasquino Crupi è spesso in-sofferente di ciò che a lui sembraabbia apportato conseguenze nefa-ste nell’organizzazione sociale. Pa-squino Crupi ama la letteratura ca-labrese soprattutto per la sua condi-zione subalterna, in rapporto allaletteratura nazionale. Sa che è suf-

ficientemente conosciuta. Vuoleimporne il rispetto.Non per questo trova che i medio-cri non siano mediocri. Le storie let-terarie non possono non elencare fi-gure mediocri, sulle quali di tanto intanto spicca quella del grande scrit-tore. La letteratura calabrese non faeccezione alla sorte comune. Pa-squino Crupi reagisce, da innamora-to deluso, inventando sarcasmi fol-goranti che mozzano il respiro. Nonè paziente, non è circospetto.Chi volesse avere la prova, nonavrebbe che da sfogliare la sua Sto-ria tascabile della letteratura cala-brese (Edizioni Pellegrini, Cosen-za, 1977), leggere alcune pagine,fino ad imbattersi in qualcuno deisuoi giudizi definitivi e catastrofici.Siamo poco abituati alla schiettez-za. C’è chi potrebbe sussultare dal-la sorpresa. A noi la sua rude fran-chezza, vendicatrice delle ore per-dute sui testi immeritevoli, conso-la. Leggiamo l’agile libretto di cen-to pagine con l’interesse che si haverso le cose vive, anche quandosiamo costretti a dissentire da alcu-ne impostazioni e da alcune con-clusioni.Crupi ha adottato il criterio di farprecedere l’elenco degli autori ri-cordati da uno schematico giudiziostorico per ogni secolo di cui si par-la. Purtroppo, non ci sono che disa-stri nella storia calabrese.Dal lato letterario, ricaviamo chela Calabria è stata forse la regioneche più tardi delle altre abbia adot-tato la lingua italiana per espri-mersi. Il latino e anche il grecoerano di casa in Calabria. Si spie-ga così la perdurante tradizione

umanistica, che spesso sfocia inretorica, quando non sia di soste-gno a un pensiero esperto alle esi-genze vitali dell’uomo.Crupi rivela capacità e finezza nelcomprendere gli autori più legatialla tradizione, sia quando ne ripe-tano retoricamente i motivi, siaquando li rivivano in un modo au-tonomo con profondità e freschez-za. Si tratta nei riguardi di tali auto-ri di giustificare con sagacia il giu-dizio di merito che si deve dare, enoi non neghiamo che il Crupi nonci sappia fare, affidandosi a queicriteri estetici che in Italia si sonosviluppati partendo dal De Sanctis.Ma Crupi ha un altro rovello criti-co che lo tormenta: quella di dimo-strare la necessità, nel tempo pre-sente, di una letteratura che sia so-ciale al massimo, che accompagniil movimento progressivo del po-polo, lo determini magari, con la

suggestione della sua chiaroveg-genza. Tanto più degni di attenzio-ne sarebbero per Crupi gli autoridel genere, ed egli vi si abbandonacon impeto che non ammette di-scussione di merito. Del merito an-zi si prescinde. Quello che conta èl’impegno progressivo che si mani-festa.Ci pare che accordare le due ten-denze non sia facile per Crupi; eper nessun altro critico della sini-stra. Mi pare che esse, muovendosisu piani diversi, non potrebberomai incontrarsi. La loro coesistenzanello stesso critico non dovrebbetuttavia turbare il lettore: provereb-be soltanto quanto la personalitàdel Crupi sia umanamente com-plessa e come le sue parole, varia-mente argomentate, meritino atten-ta riflessione.

Bovalino, 24 febbraio 1978

Anno IX - n. 35/37 - Gennaio/Settembre 2014 9LettereMeridiane

I l Centro Sociale “Angelina Cartel-la” ha ricordato il 5 gennaio scor-

so il sociologo Osvaldo Pieroni,scomparso il 28 settembre 2013, inti-tolandogli uno degli alberi da fruttomessi a dimora nel parco di ViaQuarnaro di Gallico. Alla semplice cerimonia hanno parte-cipato gli amici e la famiglia che han-no voluto omaggiare con un gestosemplice e simbolico il professoreambientalista.Originario di Macerata, si era trasfe-rito da oltre trent’anni in Calabria,dove insegnava Sociologia dell’am-biente presso l’Università della Cala-bria. Attivista politico fin dagli anniSettanta, aveva coniugato impegnoprofessionale e sociale nell’ambito dimovimenti ambientalisti, per la pace,l’equità ed il rispetto della dignità diogni essere vivente.

Tra i maggiori sostenitori della batta-glia contro il progetto del ponte sulloStretto di Messina, aveva anche pub-blicato il volume Tra Scilla e Carid-di. Il Ponte sullo Stretto di Messina.Pieroni è stato anche un artista polie-drico, un fotografo e un creativo. «Lafotografia – diceva - accompagna lemie ricerche e la mia attività di socio-logo, oltre che essere una passione edun piacere personale, da moltissimianni».Tante le manifestazioni in suo ricor-do. Tra queste, nell’ambito della Cor-rireggio 2014 del 25 aprile, il Museodello Strumento Musicale ha ospitatola sua mostra fotografica “Con legambe e con il cuore”. Inoltre gli èstata dedicata la terza edizione delConcorso fotografico nazionale“Paesaggi d’Istanti” indetta dall’As-sociazione Pro-Pentedattilo Onlus.

Al centro Cartella, un albero in ricordo di Osvaldo Pieroni

Mario La Cava

La letteratura calabrese nella visionedi un critico “innamorato”

Crupi ha un rovello critico

che lo tormenta:quello di dimostrarela necessità, nel tempo presente,di una letteraturache sia sociale almassimo, che accompagni il movimento progressivo delpopolo, lo determinimagari, conla suggestione della suachiaroveggenza

La cerimonia di intitolazione

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Anno IX - n. 35/37 - Gennaio/Settembre 201410 LettereMeridiane

S e a qualsiasi giornalista, op-pure semplicemente al cosid-detto uomo della strada, al

più distratto dei lettori di notiziequotidiane, settimanali o mensilivenisse chiesto di fare tre nomi, tresoltanto, di altrettanti grandi giorna-listi italiani del passato recente, no-ve volte su dieci i nomi sarebberosempre gli stessi: Indro Montanelli,Enzo Biagi e Giorgio Bocca, chehanno inciso profondamente - conla loro penna - nel Novecento italia-no, finendo per segnare col loro ca-rattere e con le loro vite perfino lamaniera di interpretare il mestiere,esercitato da ognuno di loro all’ulti-mo giorno. Classe 1909 il primo,nati a pochi giorni di distanza l’unodall’altro nell’agosto del 1920 glialtri due, furono certamente accu-munati dalla passione per il giorna-lismo, che iniziarono a esercitare dagiovanissimi in riviste scolastiche:«Io mi considero un condannato algiornalismo, perché non avrei saputofare niente altro», spiegava Monta-nelli nel 1982; «Ho sempre sognatodi fare il giornalista – raccontò inve-ce Biagi nel 2005 – lo scrissi anchein un tema alle medie: lo immagina-vo come un “vendicatore” capace diriparare torti e ingiustizie».Bocca e Biagi interruppero o quasi laloro attività di scrittura nel corso del-la guerra, che vissero in manierauguale e diversa: finirono entrambiper entrare nei ranghi della Resisten-za, il primo come comandante dellaDecima Divisione Giustizia e Li-bertà nelle montagne piemontesi del-la natia Cuneo (dopo aver però com-battuto come alpino fino al 1943 –con Mario Rigoni Stern – ed esserein seguito sospettato di aver condan-nato a morte cinque prigionieri del-l’esercito della Repubblica SocialeItaliana a guerra già conclusa), il se-condo come staffetta del suo batta-glione emiliano-romagnolo (il suocomandante lo trovava troppo graci-le per combattere) e poi come redat-tore unico del giornale partigiano“Patrioti”, del quale uscirono quattronumeri prima che la tipografia venis-se scovata e distrutta dai tedeschi.Decisamente più complessa e di al-tro segno la vicenda di Montanelli,toscano di Fucecchio, che nel 1935lasciò la United Press e si arruolòvolontario per la campagna d’Afri-ca, divenendo sottotenente in unbattaglione coloniale di Ascari pri-ma di essere ferito e abbandonare icombattenti, solo per spostarsi l’an-no successivo a seguire come croni-sta la guerra civile spagnola. Mo-narchico e liberale, dopo averescritto degli articoli sulla superioritàdella razza per “Civiltà fascista” eaver girato come inviato mezza Eu-ropa, fino a scrivere dell’invasionesovietica della Finlandia, finì per ri-pudiare il fascismo e dopo l’8 set-tembre tentò di associarsi al movi-

mento “Giustizia e Libertà”, ma fuscoperto dai tedeschi, imprigionatoe condannato a morte. Riuscì a fug-gire, ma dopo la guerra fu momen-taneamente espulso dall’Ordine deigiornalisti, per venirvi reintegratoqualche mese più tardi. La vita e lacarriera di Montanelli furono spessocostellate di colpi di testa, battaglieaspre e in linea generale una grandecapacità di mantenere salda la lineadelle proprie idee, anche quando at-torno tutto stava cambiando; fu vit-tima di un attentato delle BrigateRosse il 2 giugno del 1977 (BrigateRosse che Giorgio Bocca due anniprima aveva definito «una favola

raccontata dagli inquirenti e dai ser-vizi segreti», salvo ricredersi pub-blicamente più tardi), e si impegnòin battaglie civili epiche, comequella condotta contro la chimica diPorto Marghera e per la salvaguar-dia della laguna di Venezia. Di Montanelli e di Biagi vanno ri-cordati i trascorsi alla direzione digrandi quotidiani italiani: Monta-nelli ne diresse due da lui stessofondati (“Il Giornale”, dopo l’ab-bandono del “Corriere”, e “la Vo-ce”, fondato in aperto contrasto conle scelte politiche di Silvio Berlu-sconi che in quel momento gli eraeditore); Biagi esordì alla direzionedi “Epoca”, per poi dirigere il Tele-giornale (fu lui a far assumere inRai i colleghi Bocca e Montanelli) e“il Resto del Carlino”; il primo gior-no di direzione del quotidiano bolo-gnese scrisse sul suo editoriale:«Considero il giornale un serviziopubblico come i trasporti e l’acque-dotto. Non manderò nelle vostre ca-se acqua inquinata». Bocca rimase invece volontaria-mente un inviato e un editorialista,fino all’ultimo. Tutti segnarono inqualche modo l’avvio alla figuramoderna del giornalista, e si fregia-

rono di incontri epocali. Enzo Biagilanciò nel 1962 “RT”, il primo roto-calco televisivo mai andato in ondain Italia; Montanelli fu il primo gior-nalista laico inviato a intervistare ilPapa, Giovanni XXIII, nel 1959.Sebbene tutti e tre non abbiano maiesitato a dichiarare le loro posizionipolitiche e i loro convincimenti eti-ci, o forse proprio per questo, sonoadditati a esempi di un giornalismoonesto, non disposto a scendere apatti con il mondo politico, con leposizioni di convenienza, con gliammiccamenti di ambienti anche aloro vicini. Giorgio Bocca fu forse ilpiù radicale dei tre, e spese l’ultima

parte della sua vita nel tentativo ditrasmettere alle generazioni più gio-vani i valori fondanti della Repub-blica. Ma si disilluse presto. Nel2007, intervistato da “l’Espresso”,dichiarò: «Sono certo che moriròavendo fallito il mio programma divita: non vedrò l’emancipazione ci-vile dell’Italia. Sono passato per al-cuni innamoramenti: la Resistenza,Mattei, il miracolo economico, ilcentro-sinistra. Non è che allora lapolitica fosse entusiasmante, peròc’erano principi riconosciuti: i giu-dici fanno giustizia, gli imprendito-ri impresa. Invece mi trovo un pae-se in condominio con la mafia». Fe-cero tutti e tre i conti col berlusconi-smo, che avversarono apertamente:Bocca lo fece dalle pagine di “Re-pubblica”, Montanelli arrivando ap-punto ad abbandonare “il Giorna-le”; Biagi rimanendo vittima diquello che passò alla storia come“Editto Bulgaro”, a seguito del qua-le finì per abbandonare la televisio-ne pubblica – dove conduceva la ru-brica quotidiana “il Fatto” – assie-me al conduttore Michele Santoro eal comico Daniele Luttazzi.Assieme al lavoro giornalistico e al-l’impegno sociale furono tutti scrit-

tori, di libri di storia o di saggi lega-ti all’Italia e alle sue contraddizioni:Bocca diede alle stampe una sessan-tina di opere, vincendo un PremioBagutta nel 1992 e il Premio IlariaAlpi alla carriera nel 2008; Biagi al-trettanto, più una serie sterminata difumetti a carattere storico e saggigeografici. Anch’egli vinse il Pre-mio Ilaria Alpi alla carriera, nel2005, e nel 1971 si aggiudicò il Pre-mio Bancarella; Montanelli più dicento, moltissime delle quali di ca-rattere storico, oltre a una decina dicommedie e ad almeno cinque sce-neggiature cinematografiche; fu an-che co-regista di una sua opera, “I

sogni muoiono all’alba”, film del1961. Insignito della nomina a sena-tore a vita offertagli nel 1991 dall’o-ra Presidente della Repubblica Fran-cesco Cossiga, non accettò la propo-sta, e anzi dichiarò: «Non è stato ungesto di esibizionismo, ma un modoconcreto per dire quello che penso:il giornalista deve tenere il potere auna distanza di sicurezza».Sono morti tutti e tre a Milano, cittàche ha rappresentato molto per leloro vite, nell’arco di un decennio.Nessuno di loro è sepolto in Lom-bardia. Giorgio Bocca è morto dopouna breve malattia nella sua casa, ilgiorno di Natale del 2011, a 91 an-ni. Indro Montanelli si era spentodieci anni prima, il 22 luglio 2001.Il giorno seguente il “Corriere dellaSera” pubblicò in prima pagina ilnecrologio, scritto da lui stesso sulletto d’ospedale. Aveva 92 anni. En-zo Biagi è morto la mattina del 6novembre 2007, a 87 anni. Pochigiorni prima di morire aveva citatoUngaretti a un’infermiera «Si stacome d’autunno sugli alberi le fo-glie», le aveva detto; aggiungendo:«ma tira un forte vento».

*da INPGI Comunicazione 12-2013

Andrea Camporese*

Giornalismo italiano: dici Novecento e pensi Biagi, Bocca, MontanelliTre nomi, tre giornalisti che hanno fatto la storia della professione in Italia

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Anno IX - n. 35/37 - Gennaio/Settembre 2014 11LettereMeridiane

“A ll’angolo tra via Prenestinae il lungo viale Palmiro To-gliatti, nella periferia sud di

Roma, si incontra il Quarticciolo, quar-tiere di palazzine che ospitò negli anni’30 immigrati meridionali e romani cac-ciati dal centro sventrato dalle grandiopere di Mussolini. Durante l’occupa-zione tedesca, i nazifascisti evitavano dipassare da queste parti, vista l’alta con-centrazione di partigiani e la difficoltàdi orientarsi nel dedalo di strade e ba-racche”.

Rosa e Viola Mordenti, Lorenzo Sanso-netti e Giuliano Santoro, autori di “Gui-da alla Roma ribelle” (Voland, Roma2013), tra i tanti altri episodi di resisten-za antifascista, ricordano quelli relativialla cosiddetta “banda del gobbo delQuarticciolo”, orientata dai partigianisocialisti di Franco Napoli, pure lui cala-brese di Gerace, e compagno di lotta diSandro Pertini. Già negli anni trenta, il militante sociali-sta, era stato arrestato in Calabria per untentativo di attentato a Mussolini. Negliultimi giorni di Agosto del 1943, assuntoil nome di battaglia “Felice”, in una riu-nione clandestina, svoltasi in una scuoladi Piazza Vittorio, aveva formalizzatol’attività partigiana dei compagni delcompaesano gibboso, appuntandola neidocumenti ufficiali dell’ANPI, comequella di “banda Napoli”. Durante quellefatidiche giornate, “Felice” viene arre-stato e condannato a morte, ma il 13 Set-tembre ‘43 riuscì fortunosamente a eva-dere, assieme a pochi altri partigiani, dal-l’allora sede del comando tedesco, VillaWolkonsky. Dopo aver ucciso, in Piazzadei Mirti, a Centocelle, un ufficiale tede-sco, buona parte del gruppo si trasferiscenella zona dei Castelli, fondendosi conun’altra cellula socialista, composta qua-si esclusivamente da membri della fami-glia Ferracci. Il tentativo di alleanza con un Partito Co-munista, dalle smanie legalitarie, sembraessere fallito perché non viene visto af-fatto bene questo gruppo di partigiani fintroppo “autonomi”, spesso provenientidalla “mala” di borgata. Franco Napoli,senza andare per il sottile, aggrega i se-guaci di Giuseppe Albano (1926-1945)all’organizzazione militare del P.S.I.,agli ordini di due futuri e prestigiosi pre-sidenti della repubblica, Giuseppe Sara-gat e Sandro Pertini. Proprio con que-st’ultimo, Felice aveva organizzato, perla data del 24 Marzo 1944, un assalto alcarcere tedesco di Via Tasso, dov’eranodetenuti i prigionieri politici dei nazisti, iquali nazisti, per l’occasione, sarebberodovuti nel frattempo essere distrattidall‘azione in Via Rasella da parte deipartigiani dei GAP comunisti. Ma questaloro impresa venne anticipata senza pre-ventivamente informare i compagni so-cialisti. La rappresaglia che ne seguì, ter-minata alle Fosse Ardeatine, bloccò l’a-zione del giorno successivo in Via Tasso.Da storico e scrittore, Silverio Corvisieriha condotto un lavoro di ricostruzionedella vicenda della formazione “Bandie-ra Rossa Roma” e del frangente in cuivenne assassinato Giuseppe Albano,chiamato appunto il “Gobbo del Quar-ticciolo“, e famoso per le sue repentine,quanto spericolate, azioni contro gli oc-cupanti nazisti. La ricerca di Corvisieri,concretizzatasi soprattutto in due suoi li-

bri: “Il re, Togliatti e il gobbo. 1944: laprima trama eversiva” (1998) e “Il magodei generali. Poteri occulti nella crisi delfascismo e della monarchia” (2001), evi-denziava decisamente torbidi sistemi dilotte di potere che si sarebbero perpetua-ti metodicamente, tali e quali, anche inaltre fasi della nostra storia e, in partico-lare, durante la strategia della tensione.Dedicato a Giuseppe Albano, di partico-lare interesse è senza dubbio il film diCarlo Lizzani del 1960, dal titolo difatti“Il gobbo”, tra i cui interpreti s’annove-rava un esordiente di Pier Paolo Pasolini,per la prima volta sullo schermo in favo-re della camera da presa, nella parte diLeandro detto “er monco“. Per esigenzeartistiche e di cassetta, la pellicola ripre-se solo in parte quegli spezzoni di storiainerenti alla personale vicenda del gera-cese, che nella finzione cinematograficaassume il nome di Alvaro Cosenza, inter-pretato dall’attore francese Gérard Blain.Un giovane diseredato che, negli annidella Roma occupata prende le armi con-tro i tedeschi e, a liberazione avvenuta,contro gli anglo-americani, diventandoun bandito tout court. Sullo sfondo delladominazione germanica e del primo do-poguerra, si svolge un film d’azione neitermini, sia pur rappresentati con vigore,comunque sempre di un romanzo popo-lare, con l’inevitabile risultato di appiat-tire un po’ troppo l’eroe protagonista nelmélange dell’abusato cliché del banditoenigmatico, soffuso nel tratto sanguina-rio e sbiadito in quello da gentiluomo.Un mese dopo la strage delle fosse Ar-deatine, il gobbo venne catturato e rin-chiuso nel famigerato carcere di via Tas-so, da dove esce, illeso, il giorno succes-sivo la liberazione della capitale, 4 giu-gno del 1944. Eppure, insofferente diogni disciplina, continuò con gli “espro-pri proletari”, anche dopo la cacciata deinazifascisti da Roma “città aperta”, com-portandosi, nei fatti, come un moderno“Robin Hood” utopista nei confronti de-gli arricchiti della “borsa nera”, distri-buendo alla popolazione affamata vetto-vaglie e generi di prima necessità e diconforto. Ma, in seguito all’uccisioned’un militare inglese e d’un carabiniere,a cui seguì un massiccio rastrellamento,la sua attività dovette inevitabilmenteaver termine in circostanze mai del tuttocompletamente chiarite.Ne “Il Gobbo del Quarticciolo – Vita emorte del calabrese Giuseppe Albano”(Città del Sole Edizioni, 2009), Bruno

Gemelli delinea più versioni, tutte accre-ditate. Il conflitto a fuoco con le “forzedell’ordine”, che lo braccavano per gliomicidi compiuti, fu la “versione ufficia-le”. Alcuni vi scorsero però il compitod’una spia dei nazifascisti, noto come“er Cipolletta”; altri invece una vera epropria esecuzione da parte dei comuni-sti che lo consideravano “una scheggiaimpazzita della Resistenza”, perché trop-po indisciplinato per accettare ed esegui-re pedissequamente gli ordini impartiti-gli. Una personalità, certo impetuosa edeccessivamente coerente, come il gobbosi dimostrava irriducibile alle accondi-scendenze della borghesia pseudo-demo-cratica, compromessi che invece tutti glialtri militanti partigiani, combattivi, for-temente ideologizzati, ma sotto il con-trollo diretto d’un ceto politico gerarchi-co, alla fine dovettero accettare.Altra ipotesi, l’operazione d’un killer as-soldato dal circolo “Unione Proletaria”,che, nonostante l’appellativo, rappresen-tava il nucleo dei nuovi qualunquisti (co-me il fondatore Umberto Salvarezza,detto “er Guercio”, squadrista della pri-ma ora) alla disperata ricerca di un rici-claggio, al tramonto del regime, con l’in-tento di svolgere nel contempo, e d’ac-cordo con ambienti monarchici, opera diprovocazione nei confronti delle forze disinistra. Il gobbo vi si sarebbe infiltratosu suggerimento dello stesso Pietro Nen-ni. In ogni caso, fu proprio all’uscita dal-la sede dell’Unione Proletaria, al rionePrati, che il 16 Gennaio 1945, GiuseppeAlbano, non ancora diciannovenne, verràproditoriamente raggiunto da un unicocolpo di pistola alla nuca. Franco Napoli, rientrato a Roma quattromesi dopo, suppose che l’assassino fosseun tal Giorgio Arcadipane, spia dei tede-schi infiltrato prima tra i detenuti di Regi-na Coeli e successivamente aggregatositra i provocatori dell’Unione Proletaria.Certo il mistero più impenetrabile, maforse unica chiave di lettura risolutrice,circonda gli eventi che si svolsero in quelcruciale aprile del ’44 quando, all’ag-gressione di tre soldati tedeschi nei pres-si di Cinecittà, fece seguito per ritorsione

la cattura di tutti i gobbi dei quartieri ro-mani. In via Tasso, forse protetto da unpartigiano di “Bandiera Rossa”, Giusep-pe Albano miracolosamente sopravvivealle torture più cruente; è uno dei pochis-simi, tra gli arrestati dopo la strage delleArdeatine (in cui morirono quattro cala-bresi), a non essere sommariamente fuci-lato. Qualcuno dice d’averlo visto sbar-bare il volto di ufficiali delle SS, qualcunaltro perciò legittima il sospetto del col-laborazionismo, proseguito poi con i po-liziotti della Questura, divenuti all’im-provviso tutti antifascisti. E questo è suf-ficiente a far di lui una potenziale vittimadi entrambi i fronti. Il destino l’attende-va nell’androne d’un’anonima palazzinadi via Fornovo.

Giuseppe M. S. Ierace

Gennaio - Aprile 1944: Roma e il mito de “Il gobbo del Quarticciolo”La vicenda del geracese Giuseppe Albano durante l’occupazione nazifascista

Bibliografia essenziale:Corvisieri S. Il re Togliatti e il gobbo.1944: la prima trama eversiva, Roma,Odradek, 1998Corvisieri S. Il mago dei generali. Po-teri occulti nella crisi del fascismo edella monarchia, Odradek, Roma 2001.D’Agostini L. e Forti R. (a cura di) Ilsole è sorto a Roma: settembre 1943(prefazione di Giorgio Amendola), AN-PI, Roma 1965 De Simone C. Roma città prigioniera. I271 giorni dell’occupazione nazista (8settembre ‘43-4 giugno ‘44), Milano,Mursia 1994Gemelli B. Il gobbo del Quarticciolo.Vita e morte del calabrese Giuseppe Al-bano, Città del Sole Edizioni, ReggioCalabria 2009Katz R. Morte a Roma. Il massacro del-le Fosse Ardeatine, Il Saggiatore, Mila-no 2004Mordenti R., Mordenti V., Sansonetti L.e Santoro G. Guida alla Roma ribelle,Voland, Roma 2013Musu M. e Polito E. Roma ribelle. Laresistenza nella capitale 1943-1944,Milano, Teti, 1999Napoli F. (“Felice”) Villa Wolkonskj,autoedizione, 1996.

Giuseppe Albano

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Anno IX - n. 35/37 - Gennaio/Settembre 201412 LettereMeridiane

Il testo che segue è la rielabo-razione ed in parte la fusionedelle due relazioni tenute, inoccasione delle celebrazioniper il settantesimo anniversariodella morte di Teresa TalottaGullace, nella sua città natale,Cittanova, e presso il Museostorico della liberazione di viaTasso a Roma, con la parteci-pazione del 1° Municipio di Ro-ma Capitale, rispettivamente ilprimo marzo ed il 4 aprile diquest’anno.

S ono qui per parlare della miaconcittadina Teresa TalottaGullace, medaglia d’oro al

valore civile dal 1977: per ricordar-la, a 70 anni dalla sua morte, a chiconosce la sua storia, sia pure attra-verso la trasposizione cinematogra-fica di Roma città aperta, il celebrefilm di Rossellini del ’45, e per rac-contare questa storia a chi, come itanti ragazzi qui presenti, non sannonulla di lei e molto poco del conte-sto della vicenda.Parlando di Teresa è impossibilenon vedere alle sue spalle quell’e-sercito silenzioso, solidale, senza di-visa e senza gradi che è stato, nei ter-ribili nove mesi dell’occupazione na-zista a Roma, l’esercito delle donnediversamente resistenti, quello di cuiCarla Capponi, la famosa ragazza divia Rasella, dice: non hanno combat-tuto con le armi, ma hanno rischiatopiù di me, e con meno gloria1.A Roma Teresa, nata a Cittanova nel1907, emigra, con il marito Girola-mo, che aveva già trovato lavoro co-me carpentiere nella capitale, proba-bilmente alla fine degli anni ’20:sappiamo che, avendo frequentato lascuola fino all’ottava classe, neglianni a cavallo della prima guerramondiale, è istruita in modo davve-ro inusuale per i tempi e i luoghi, so-prattutto se confrontiamo il datodella sua scolarizzazione con quelloche ci dice la Mafai, per esempio,per gli anni della seconda guerramondiale, anni in cui ancora unadonna su quattro al Nord, ed una sutre al centro e al Sud, non sapeva néleggere né scrivere.Ritroviamo Teresa una quindicina dianni dopo, nel 1944, con cinque fi-gli ed un sesto in arrivo, in una cittàcrudelmente ed inutilmente definita“aperta”, che ha subito, dopo questa“proclamazione”, ben 51 bombarda-menti alleati ed è stremata da tre an-ni di razionamento, dalla distruzionedelle vie di comunicazione, dallapresenza massiccia di sbandati, sfol-lati, clandestini (400 mila secondola stima di un grande storico dellaRoma prigioniera, De Simone….“metà Roma nascondeva l’altrametà”). Tre bambini di Teresa, aquella data, sono morti entro il pri-

mo anno di vita. La fame, il freddosono protagonisti assoluti nella cittàoccupata: sono anzi un’atmosfera edun colore, il colore livido di cui par-la Umberto Turco, uno degli sceno-grafi di Roma città aperta, difen-dendo appassionatamente le scelteestetiche e tecniche del film di Ros-sellini.La famiglia Gullace abita in unaborgata miserrima, adiacente a Por-ta Cavalleggeri, nell’antico quartie-re dei Fornaciari, in vicolo del Vi-cario 14: più ancora che una borgatasi tratta, in realtà, di un baraccamen-to spontaneo, che sopravviverà perdecenni, molto oltre la diaspora deiGullace. Nei confronti degli immi-grati il Fascismo ha adottato, in trediversi momenti di quegli anni (Or-dinanza prefettizia del ’29, leggi del’31 e del ’39), misure restrittive, ac-compagnate da accenti fortementediscriminatori e da una propagandasemi-razzista che ne ostacolava unasistemazione regolare. Sfrattati, di-soccupati, immigrati, saltuari aveva-no, come uniche alternative, barac-che ed alloggi di fortuna: la loro im-magine stride fortemente con quelladella città vetrina e con il segno mo-numentale che il regime vuole im-primere alla sua capitale. Ciò nontoglie, evidentemente, che di unamanodopera, qualificata e non, il re-gime abbia assolutamente bisognoper i numerosi ed imponenti cantie-ri aperti nella città, uno per tutti lafamosa via dell’Impero.La baracca in cui ritroviamo i Gulla-ce all’inizio del ’44 -siamo, da set-tembre del ’43, in una Roma occu-pata dai nazisti e devastata dalle lo-ro atrocità- è appunto della categoriapiù miserabile: un unico vano, senzaacqua, né luce, né gas. In realtà allafine degli anni ’30 erano già nate, oavevano cominciato a nascere, leborgate cosiddette “governatoriali”,

successivamente passate in gestioneall’Istituto Fascista Autonomo CasePopolari, ed una di queste borgate èproprio quell’insediamento di Pri-mavalle, nel quadrante nord-est del-la città, concepito per il ricolloca-mento di un primo nucleo di fami-glie baraccate, una cinquantina difamiglie presenti -si legge in un do-cumento dell’epoca- in un baracca-mento spontaneo nei pressi di PortaCavalleggeri. Ma la famiglia Gulla-ce non è tra quelle ricollocate. Lastoria che racconta Umberto Gulla-ce, uno dei figli di Teresa, che ho in-contrato nel gennaio di quest’anno,è una storia di fame (mi parla dellefamose minestre di favette tarlate, levegetine, che lui stesso, poco piùche bambino, faceva cuocere con un“tizzetto” di carbone e da cui“schiumava” un gran numero di“bacherozzetti”), di freddo (le co-perte se l’eravamo vendute per unpezzo di pane e quindi d’inverno secoprivamo coi cappotti, te poi‘mmagina!), di privazioni di ogni ti-po (le prime scarpe -i piccoli Gulla-ce possedevano solo zoccoli- sonoun’elargizione della Befana Fasci-sta). E Teresa?

Teresa -dice Umberto, Umbertuzze-du, come lo chiamava teneramentela madre, alla cittanovese- “combat-teva co’ cinque fiij” e in quel com-battimento mi sembra che ci sia lastoria di migliaia e migliaia di don-ne, non solo romane. Teresa lavava ipanni a domicilio, presso famiglieche evidentemente potevano per-metterselo e che probabilmenteignoravano il fatto che Teresa aves-se frequentato fino alla ottava. Co-me per centinaia di altre donne, ope-raie, casalinghe, studentesse, la ri-cerca del cibo e quella del carbone,per scaldarsi, sono la sua occupazio-ne principale: ogni giorno questedonne attraversano, e con estremorischio personale, la linea esile chedivide la ricerca della sopravviven-za dai sentimenti antifascisti ed anti-nazisti. Si faceva la fila all’alba, peril carbone -meglio che le file le fa-cessero le donne piuttosto che gliuomini soggetti ai rastrellamenti- sifaceva la fila per il pacco viveri set-timanale di uno dei tanti Enti comu-nali di assistenza, nati nella secondametà degli anni ’30. Teresa scambia-va i bollini del burro, nella tessera

annonaria, con quelli della pasta, in-dispensabile per nutrire sette perso-ne, e frequentava refettori e mensepopolari per far mangiare i bambini.Erano -quelli- i mesi in cui l’argen-to valeva, nel listino della Borsa Ne-ra di Tor di Nona, meno della farinaed il pane era fatto di ceci, segale esegatura. La storia del combattimen-to di Teresa si fonde con quella dimigliaia di donne impegnate nellesue stesse ed in altre simili battaglie:sono infermiere, staffette, portaordi-ni, fattorine, casalinghe che traffica-no in stampa clandestina, che na-scondono, procurandosi tessere an-nonarie false per far mangiare iclandestini, che scioperano per lapace, che rallentano la produzioneper sabotare lo sfruttamento delle ri-sorse da parte degli occupanti, cherischiano moltissimo e sono scono-sciute, come le impiegate delle Po-ste di San Paolo, di cui non posse-diamo neanche i nomi, che intercet-tano e fanno sparire le delazioni di-rette ai lugubri uffici delle SS di viaTasso, o l’eroica suorina che dà intesta ad un soldato tedesco, sorpresoa depredare un cadavere, un pesantecrocifisso di metallo. Sono soprat-tutto le donne degli assalti ai forni,ai magazzini di farina e ai treni cari-chi di viveri destinati alle forze dioccupazione: come le dieci donneprotagoniste dell’assalto al fornoTesei, che panificava per i tedeschi,e che finiscono fucilate sotto il co-siddetto ponte di ferro.I fatti del 3 marzo 1944, giorno del-la morte di Teresa, incinta al settimomese, sono sufficientemente noti,anche se non del tutto nitidi e conqualche variazione, peraltro trascu-rabile, nei dettagli. Sappiamo cheGirolamo era stato rastrellato neigiorni precedenti (i rastrellamenti -ènoto- preludevano ad una deporta-zione, per l’arruolamento forzatonella Repubblica Sociale, per il la-voro coatto in Germania, per il fron-te di Anzio, da fine gennaio, ed era-no, in quei giorni, indiscriminati,anche perché diretti ad ottenereinformazioni sui membri del CLNclandestino) e portato, assieme acentinaia di altri maschi adulti, nellasede dell’81.mo reggimento di fan-teria, in Viale Giulio Cesare.La mattina del 3 marzo Teresa, dopoaver lasciato il terzo dei suoi figli,Mario, a fare la fila per un pastopresso un Istituto religioso di via diPorta Fabbrica, si dirige con Umber-to, allora quattordicenne, e Caterina,quattro anni, verso Viale Giulio Ce-sare. La piccola viene lasciata (re-calcitrante per buoni motivi, la fa-miglia era in arretrato con le rette)presso un asilo del quartiere, mentreTeresa ed Umberto proseguono ver-so la caserma, dove, quella mattina,non c’è il solito, sparuto, raduno

Quella fedele infedeltà diMemoria e racconto delle donne diversamente

Teresa Gullace

Celebrazioni a Cittanova e a Roma, in ricordo di Teresa Gullace, a settant’anni dalla sua morte

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Anno IX - n. 35/37 - Gennaio/Settembre 2014 13LettereMeridiane

spontaneo di donne, ma una protestaorganizzata da vari segmenti, siafemminili che maschili, di gappisti.La strada è di fatto affollata da ma-dri, mogli, fidanzate, sorelle dei ra-strellati, che rumoreggiano e prote-stano contro gli arresti indiscrimina-ti dei giorni precedenti. Il raccontopiù plausibile e fedele di quelle oreè sicuramente quello di Laura Lom-bardo Radice, responsabile di unodei tanti coordinamenti femminilidella città (antesignani di quelli chesaranno i Gruppi di difesa, che arri-veranno ad organizzare 70 mila don-ne in tutto il paese), che, con altredue giovanissime gappiste (Marcel-la Lapiccirella, anche lei incinta, eAdele Maria Jemolo) si trova per ca-so a non più di cinque metri dal luo-go in cui cadrà Teresa.Probabilmente, nella folla di donne,tenute a bada, sul largo marciapiedeopposto alla caserma, da una sortadi ronda motorizzata delle SS, Tere-sa sgomita e raggiunge la prima fila.Ha, nella sporta, due sfilatini con lepatate lesse (una conquista di Giro-lamo delle settimane precedenti, aViterbo) e un po’ di vino rosso. For-se protesta ed inveisce imprudente-mente contro chi la sta fermando, unmilite fascista di guardia o, più pro-babilmente una delle SS che sosti-tuivano, quel giorno, i più inaffida-bili controlli italiani; forse, sempli-cemente, avanza troppo verso la fi-nestra dove, dietro le sbarre, Girola-mo è perfettamente visibile, sicura-mente a tiro di voce. Che Girolamosia così vicino lo sappiamo con cer-tezza: trova infatti il modo di farsisentire da Umberto e chiedergli direcarsi a Monteverde, in P.zza Roso-lino Pilo, per ottenere, dall’impresatedesca nella quale era occupato, undocumento che certifichi la sua con-dizione di lavoratore edile. Umbertonon è dunque presente quando la

madre è colpita dal proiettile di unaLuger tedesca: Girolamo la vede ca-dere, ma crede sia per la fatica, l’e-mozione, la gravidanza.Un silenzio doloroso ed irreale ac-compagna i minuti successivi: l’or-ganizzazione di un’improvvisata ca-mera ardente sul selciato, fiori checoprono in brevissimo tempo il cor-po di Teresa, il trasferimento quasiimmediato al vicino ospedale S.Spi-rito, probabilmente per interromperela forte corrente di emozione che stapercorrendo la folla presente. Manon è solo emozione. Si ricordanouna serie di fatti ai margini di quellamorte: Carla Capponi che estrae unapistola per sparare all’uccisore eviene arrestata ma subito liberataper la presenza di spirito di MarisaMusu, che le ha infilato in tasca latessera di un’associazione fascista,l’uccisione, nel pomeriggio, da par-te di un commando di gappiste, didue militi ai Parioli, il volantinaggioamericano, due giorni dopo, all’O-stiense, che incita il popolo romanoalla rivolta generale.Questi -più o meno- i fatti. Che Ros-selini, come è noto, trasfigura am-piamente. Ma quella di Rosselini è -ame sembra- una infedeltà a suo mo-do estremamente fedele. La sintesi,intensamente e drammaticamenteinterpretata da Anna Magnani (SoraPina), nella sua corsa verso la ca-mionetta che ha appena caricatoFrancesco, ed il suo volo sull’asfal-to, quando viene colpita da una raf-fica tedesca, in quel fotogramma in-dimenticabile per chiunque abbiavisto il film, è in realtà quella tra trestorie ibridate dal regista: quella diTeresa, la cui vicenda sembra siastata raccontata a Rossellini proprioda Carla Capponi, quella di CaterinaMartinelli, madre di sei figli, uccisada un corpo della PAI durante unodei tanti disordini per il pane al Ti-

burtino Terzo e quella di Rosa Rai-mondi Calò, che paga con la vita iltentativo di impedire l’arresto del fi-glio. Sono tre gesti, quelli di Teresa,Rosa e Caterina, assolutamente con-tigui gli uni agli altri e -potremmodire- orizzontali a quello di AnnaMagnani nel film: gesti sorti in unasfera di affettività familiare e diven-tati simultaneamente gesti di oppo-sizione, di resistenza, simboli sinte-tici anche di storie sconosciute e dieroine della letteratura che verrà,come la Iduzza Ramundo della Sto-ria della Morante e la lavandaia-par-tigiana Agnese della Viganò. Ma il merito del film è anche quellodi avere estratto dalla serie una mor-te singola e averci mostrato che ognimorte è singola e individuale, purenella serialità della morte di massache la banalità del male e la barbarienazista hanno dispensato a Roma.Sono morte, quelle vittime, una peruna: ingiustamente e nel posto sba-gliato, proprio come le 335 vittimedelle Fosse Ardeatine.

Quella di Teresa è una storia mini-ma: non le si può cucire addossonessuna classica iconografia resi-stenziale. Non ci sono, in quella suabreve vita, armi, esplosivi, barricate,ideologie e neppure i cosiddetti“ruoli minori”, nella rete -pure im-portantissima- di donne resistenti aRoma: lei, semplicemente, combat-teva co’cinque fiij, mentre la suaquotidiana battaglia si fondeva conquella di centinaia di altre donne,non in armi. Ma è insieme, quella diTeresa, una storia massima, portatri-ce del massimo significato, quello diun gesto d’amore che diventa un ge-sto politico, che diventa Resistenza,inciso per sempre in un’epopea po-polare che dice il proprio no in mil-le modi, quei mille modi che hannofatto dire a Ferruccio Parri: le donnesono la resistenza dei resistenti.Riavvolgendo il nastro… e tirandole fila, dovremmo chiederci forse dacosa dobbiamo ancora, a distanza di

settanta anni da quella guerra ai ci-vili che è stata l’occupazione nazistadella città, difendere quelle vittimeinermi ed innocenti. Direi che dob-biamo ancora difenderle da quelronzio di odio e di ignoranza checircola di frequente, purtroppo an-che per le strade di quella Roma co-sì ferita da quegli eventi. Abbiamoforse mancato, nelle due fasi delprocesso a Priebke, il glaciale tortu-ratore ed assassino di via Tasso, epoi nei giorni della sua morte, unagrande occasione di conoscenza erafforzamento della coscienza civi-le, soprattutto quella dei giovani cherischiano di apprendere, di quellastoria, versioni fortemente contraf-fatte e addirittura capovolte nei giu-dizi di valore. Il rischio è stato -ed èsempre- quello che sulla mancanzadi memoria si innestino spazi diesproprio, colonizzazione del passa-to e di perdita di senso, che ci rendo-no subalterni, come posseduti dauna memoria altrui, in uno spaesag-gio in cui tutto è eguale a tutto e chiha combattuto per la libertà e chi peril dominio sono considerati parti op-poste, ma complementari, di un’o-recchiabile armonia dei contrari.Il silenzio -ha scritto Eli Wiesel- èun premio immeritato per i carnefi-ci. Aggiungerei che la migliore ven-detta non è affatto il perdono, ma...il racconto. Questa memoria e que-sto racconto -dunque- spogliati daogni abuso e da ogni retorica, anchequella resistenziale, vanno conse-gnati ai giovani, ai ragazzi che oggisono qui, nella viva speranza che es-si li raccolgano, non tanto attraversol’emozione, che si consuma ed eva-pora troppo in fretta, quanto attra-verso la fatica della conoscenza, di-ventandone i nuovi testimoni. I nuo-vi testimoni: cioè quelli che raccon-teranno ancora.

Donatella Arcuri

Rossellini: Teresa e le altreresistenti nella Roma occupata

Una scena di "Roma citta aperta” di Roberto Rossellini

Il rischio è stato-ed è sempre-

quello che sulla mancanza di memoriasi innestino spazi di esproprio, colonizzazione delpassato e di perdita disenso, che ci rendonosubalterni, come posseduti da una memoria altrui…

1 È una resistenza taciuta quella del-le donne a Roma: e del resto i datiufficiali della partecipazione fem-minile alla Resistenza hanno scon-tato criteri di riconoscimento e dipremiazione puramente militari,quando non abbiano poi accoltostereotipi che riconducono ad uninnato pacifismo o ad un innatosenso materno il ruolo femminile,ridotto al famoso “contributo”.Anche se i dati dell’Anpi ci dico-no cose e numeri molto diversi,per es. che 4563 donne sono soloquelle arrestate e torturate dai tri-bunali fascisti, resta comunquenon solo un deplorevole ritardodella storiografia ufficiale, ma l’e-gemonia di un modello, anzi ilmodello, del maschio in armi, uni-co interprete e protagonista dellaResistenza.

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Anno IX - n. 35/37 - Gennaio/Settembre 201414 LettereMeridiane

I sabella Scalfaro mi ha chiesto:“Chi è Emma? Personaggiospesso citato” nelle “Azzurre

sorgenti dell’Acheronte” inedito diEmilio Argiroffi pubblicato dalRhegium Julii (Città del Sole Edi-zioni, 2006), con la preziosa colla-borazione di Alessandra Romeo,docente di lettere e filosofia all’U-niversità di Napoli, che, per benquattro volte, e sempre con entu-siasmo e grande competenza, ne hacorretto e curato le bozze.Sono convinta che la poesia non sipuò giudicare solo dai personaggi,anche se drammatici e densi di pa-tos, espressi con stupendo lirismo,come nel caso di Emilio. Rileggen-do quella sua poesia vi ritrovo tut-to “lui” con la sua scatenata fanta-sia, la musicalità incantatrice, ilmistero soffuso e sottile di questoleggendario viaggio che si puòidentificare come il percorso dellapropria esistenza, l’insicurezza rit-mica dei sentimenti, impetuosa co-me la piena di un fiume in tempe-sta, la ricchezza della cultura uma-nistica, lontanissima dalle nozioni,ma come l’esperienza di una vitavissuta. La capacità d’immedesi-marsi nelle sofferenze del mondocome l’olocausto degli ebrei, ilrazzismo contro i negri e i diversi,le mostruosità sui bambini di Mar-cinelle, le condizioni precarie disacrifici e d’inferiorità delle racco-glitrici d’ulive calabresi ecc. L’ac-cusa contro ogni forma di violenzae di sopraffazione sui deboli. Que-sta la poesia di Emilio che ti com-muove, ti trascina, ti coinvolge. Èautentica e diventa universale.Comunque sarò lieta se quantoscrivo potrà servire da chiarimentoal “grande libro”. Racconterò ladolce e patetica storia alla “Addioalle armi” di Hemingway di miopadre Giovanni Argiroffi e dellesorelle von Raber: Emma e Olga.Anche Adele Cambria mi chiede difarlo, anzi vuole che parli di un ar-gomento scottante: “La tubercolo-si” che ha curato nei paesi sottosvi-luppati come l’Africa. Non sonomedico, quindi le mie cognizioniin materia sono conseguenza diesperienze vissute. Si tratta, in so-stanza, di raccontare la storia dellamia famiglia e… la mia. La cosami disorienta, un po’ per una formadi pudore spirituale, un po’ perchéla scomparsa di Emilio avvenutaotto anni fa, mi ha creato unoshock dal quale non riesco ad usci-re del tutto. Sono vissuta con luipiù di cinquant’anni e sono quigrazie alla sua generosità. Starecon un uomo superiore e genialeha avuto molta importanza per

un’esistenza di cultura, ma può si-gnificare un handicap, anche a li-vello inconscio, per una propriarealizzazione. Eppure ricordo congioia le nostre giornate intense efelici e rimpiango solo quelle. Pre-paravo la tavola con la raffinata to-vaglia ricamata e i fiori, per la pri-ma colazione. Era il più bello e piùintimo. Si parlava di tutto, di amicivicini e lontani, di affetti presenti escomparsi. Si facevano progetti epropositi “Leggi quel libro, seguiquella trasmissione!”. Intanto Emi-lio prendeva l’uovo alla coque,mentre la caffettiera borbottava sulfuoco… Quasi sempre era lui aparlare e io ascoltavo, facevo do-mande e mi rispondeva, senza maiimpazientirsi, tranne poi a fermarsidi colpo per dirmi: “Non farmi piùdomande, ti prego, ma perché nonracconti la tua vita?”. E qui siamoal nocciolo della questione. Luicoltissimo, luminoso splendidoprotagonista di ogni evento cultura-le. Io silenziosa, quieta, che vivevonella sua luce, di cui spero sia rima-sta qualche scintilla in me. Gli hosolo dato serenità e affetto, perchésono una donna tranquilla, abituataa dire sempre la verità. “Ma ognu-no ha la sua verità!” mi direte. Be-ne allora racconterò solo i fatti.Mio padre conobbe le sorelle vonRaber nella prima guerra mondialedel 1915 – 18. Lui era al fronte intrincea. I von Raber erano origina-ri di quella striscia di terra che vada Klaghenfurt a Udine, fitta diabeti e tappezzata di muschio e ci-clamini profumati: Povolaro di Co-meglians, proprio dove avvenne laritirata di Caporetto. Fu un eventocrudele. I von Raber, Gian Battistae il fratello Giuseppe, grossi e ric-chi industriali che avevano la for-nitura, quasi totale, di tutto il fron-te dell’Esercito Italiano perdetteroogni cosa, compreso il “von” cherestò nelle atroci vicende e nellemacerie della guerra. Così restaro-no più brevemente Raber. Gli Au-stro – Ungarici furono cattivi evandali. Tragica e mostruosa laguerra come lo è sempre. Venivanocon enormi camion e portavano viatutto, a non finire mai: alimentari,vestiari, divise, legnami, cavalliecc… Non potendo tirar fuori, dal-le cantine, le botti da “100 ettoli-tri” aprivano i rubinetti e il vinoschizzava fuori gorgogliando. Tut-to il paese fu allagato da fiumi divini pregiati. Titta, il fratello piùgrande e anche il più furbo, intuì larovina e scappò all’estero con ilgrosso dei capitali. Mio nonnoGiuseppe, più onesto, restò cercan-do di salvare qualcosa. Ma fu solo

preso come ostaggio, assieme alprete e al sindaco, sotto minacciadi morte se il popolo si sarebbe ri-bellato. I figli tentarono di salvarsi,seguendo l’Esercito Italiano in fu-ga e fecero tutta la ritirata di Capo-retto attraversando le Alpi. Centochilometri sotto la neve arrivare alTolmezzo dove si trovavano le ul-time tradotti militari. Partirono conuna carrozza a cavalli, provviste,viveri, vestiari. Fu un’illusione!Poco per volta i cavalli cedetterosotto metri di neve. La carrozza sibloccò. La zia Emma con la sorel-la Olga e i fratelli Beppo e Leandrodovettero continuare a piedi. Cam-mina, cammina… tra atrocità terri-bili, con l’esercito in sfacelo, uffi-ciali che sparavano ai feriti che

non riuscivano ad andare avanti.Cannoni ed armi sperdute dapper-tutto, panico e terrore ovunque,sotto il fuoco implacabile del ne-mico. Mia madre, per il resto deisuoi giorni, quando raccontava tut-to, piangeva sempre. Fu lì, per laprima volta, che Emma sputò.“Sputò rosso!” dice Emilio nell’“Epicedio alla Signora che si al-lontana”. Né le fu d’aiuto la sosta a una ca-setta con un lumicino, che si vede-va lontano lontano… . Sulla sogliaun vecchietto ex garibaldino: “Ra-gazzi fermatevi e asciugatevi” dissegentile. Entrarono i Raber e preserorespiro al grande fuoco del camino.Mia madre, bambina di nove anni,si tolse le scarpe fradice di acqua dineve e le appoggiò per asciugarle.Quando le riprese erano irrigidite edure come tavolette. Così continuòad andare faticosamente, a piedinudi sulla neve… cammina, cam-mina, cammina, come nelle fiabe,

anche le più drammatiche, in cui sispera un lieto fine, arrivarono aTolmezzo ultima stazione dellaCarnia. Stazione senza ritorno!!!L’ultima tradotta militare si prepa-rava a partire! Carica, stracolma dicivili terrorizzati, ai soldati dispe-rati, di gente stremata che urlava.Emma, Beppo e Leandro riusciro-no a salire. Olga restò a terra. Nonc’era posto e la tradotta partivalenta, lentissima, drammatica! Dadove spuntò il soldato Bonaccorsomessinese, attendente di mio pa-dre? Afferrò quella bambina e labuttò sul predellino mentre la tra-dotta prendeva corsa. Mani pietosel’afferrarono e le trovarono un an-golino. Dopo non so quanti tor-mentosi chilometri arrivarono aRavenna e trovarono ospitalitàpresso la zia Giacomina alias Minasorella maggiore dei Raber.Mio padre intanto era sempre intrincea, che era così vicina a Povo-laro di Comeglians, che soldati eufficiali andavano e venivano dalpaese. Aveva già visto Emma, stu-penda creatura diciannovenne co-nosciuta per caso, prima dell’inva-sione Austro-Ungarica. Fu il suocapitano a fargliela notare, quandolei gli passò inavvertitamente go-mito a gomito. “Tenente Argiroffi,non ti accorgi delle meraviglie?”. Icapelli biondo cenere raccolti allasommità della testa armoniosa for-mavano tanti piccoli ricci leggiadrisulla nuca e sulla fronte. Gli occhidue laghi blu, la carnagione perla-cea, i linementi perfetti, la staturaalta, il vitino di vespa e l’elegantesignorilità facevano di Emma unafigura quasi lunare. Il ten. Argirof-fi si voltò e restò impietrito. Conun pretesto si presentò alla casa dei“bei” come era chiamata casa vonRaber, perché erano tutti belli. Ful’inizio di un delicato rapporto chesi tramutò in un grande amore. Co-sì quando Emma arrivò a Ravenna,con i fratelli e Olga, mio padretempestò di telegrammi il nonnoEmilio, sindaco di Mandanici, perfare scendere i profughi in Sicilia.Il Sud di allora era in piena “Que-stione meridionale”. I maschi pri-vilegiati e con le scarpe, frequenta-vano la scuola, le femmine scalze,con vesticciole di cotonina leggeraanche d’inverno, erano in statod’inferiorità. Nessuno se ne accor-geva! Questo spesso accadeva an-che nelle famiglie signorili. NegliArgiroffi gli uomini tutti professio-nisti: medici, notai, ingegneri ecc.mentre la nonna Maria, mitica“donna Mariuzza” che possedevala più alta forma d’intelligenza,

Il poeta e la sua storia: Emilio ArgiroffiNei suoi versi, la scatenata fantasia, la musicalità

Emilio Argiroffi

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Anno IX - n. 35/37 - Gennaio/Settembre 2014 15LettereMeridiane

quella della bontà e del misticismo,non sapeva “né leggere né scrive-re”. Non l’avevano mandata ascuola! E Lei imperterrita, imparòtutto da sola e molto bene… eral’epoca in cui la polacca di Varsa-via Maria… dal difficile e quasi im-pronunciabile cognome, collabora-va con il fisico francese Pierre Cu-rie, che poi divenne suo marito. As-sieme scoprirono la “radioattività”e nel 1903 ebbero il Premio Nobelper fisica. Morto il marito nel 1906in un’incidente stradale, MadameCurie continuò ad insegnare allaSorbona di Parigi. Isolò dalla plek-blenda l’uranio, il polonio e il ra-diometallico e nel 1911 ebbe un al-tro Premio Nobel per la chimica.Sappiamo che queste scoperte con-sentirono straordinarie ricerche allascienza, sia in medicina con radio-scopie, radiografie, stratigrafie, si-no alle moderne tac e risonanzemagnetiche. E poiché l’uomo trop-po spesso utilizza “male” la scien-za, si arrivò alla bomba atomica.Madame Curie si può definire un“mostro scandaloso” di sapere e disapienza rispetto alle altre donnespecie della sua epoca. Ma forsel’emancipazione femminile comin-ciò sin d’allora e restò in incubazio-ne sin ai giorni nostri. Quasi con-temporaneamente in Sicilia, le con-tadine erano tutte vestite di bianco,con candidi fazzoletti in testa e mu-tandoni di lana bianca che uscivanodalle gonne, e arrivavano alla cavi-glia sui piedi nudi. La piccola Olga,a questo spettacolo, con candore in-fantile chiese: “Ma qui dove siamoin Africa?” No! Eravamo nella Si-cilia del 15 - 18. Naturalmente esi-stevano due morali. “La morale delcostume” come dice Lombardi Sa-triani, e una speciale morale per gli“uomini”, ai quali erano concessele libertà. Mentre le donne doveva-no rigare diritto e stare con “duepiedi in una scarpa” perché ognipiccola cosa era scandalo.Beppo e Leandro si fermarono po-co in Sicilia e continuarono il loroamaro pellegrinaggio, tornando al-la fine nel loro Alto Friuli dove tro-varono solo macerie e i nonni in-vecchiati e impoveriti. Le ragazzefurono accolte in casa Argirofficon una certa cortese ospitalità,che durò sino a che gli eventi nonprecipitarono. Emma cominciò apeggiorare sempre più gravementee in fretta. Non esistevano medici-ne né cure per il bacillo di Kok. Lacasa era piena di bambini, figli dizio Ciccino e di zia Lina. Le co-gnate cominciarono la guerra fred-da e le scortesie. Non avevano tut-ti i torti, il contagio era assai peri-

coloso. I nonni erano brave perso-ne, molto addolorati della situazio-ne, ma non poterono evitare che leprofughe andassero via “cu tutta dacarusame in giro”. Emma e Olganon possedevano che i vestiti cheindossavano. Se n’andarono in unagiornata malinconica d’autunnopiovoso e triste come le circostan-ze. A questo punto successe un fe-nomeno che non si sa bene dove

collocare. Se sconfina nella psico-logia tanto studiata in questi tempimoderni, oppure se si deve attri-buire all’infinita grandezza e bontàdi Dio, con la famosa provvidenzamanzoniana. Le due ragazze eranoletteralmente in mezzo alla strada.Fu così che il piccolo paese diMandanici ebbe un sussulto di ri-bellione, un impeto di solidarietà,un rigurgito di immensa solida-rietà. Lo zio Peppino La Scala, pa-store evangelico e cappellano mili-tare al fronte, diede ordine di met-tere a disposizione la propria casa.Cominciò così la processione: chiportava i materassi, chi i cuscini,chi la biancheria, chi il vasellame,chi gli indumenti, chi gli alimenti,chi il letto, chi il tavolo, chi le se-die e tutto il necessario. La casa fucompleta in un giorno. Don Peppi-no Zucchero fine intellettuale e si-gnore di origine mitteleuropee, cheaveva sposato una gentil donnafrancese, ordinò alle sue “criate”(termine lasciato dalla dominazio-ne – in Sicilia – spagnola, che cor-risponde a “cameriere”) di fare pa-ne caldo e biscotti fragranti nel for-no a legna della sua bella villa. Di-rimpettaio di don Emilio Argiroffi,e suo acerrimo nemico politico, es-sendo di audaci idee socialiste, tro-vava il gusto santo di fare bene al-

le ragazze, ma soprattutto l’imper-tinente soddisfazione di usare di-spetti e mortificazioni a mio nonnoDon Milio, conservatore e politica-mente grande amico del duca diCesarò. Per tenere rancore non c’ècosa peggiore e irragionevole dellapolitica. Così le “criate” portavanoalle “signorine” giorno dopo gior-no, enormi ceste di grazia di Dio.Don Milio tra il sincero dispiacere

per le profughe e la rabbia per il di-rimpettaio, si rodeva il fegato eaveva molto amaro in bocca, per-ché si sentiva anche in colpa. NinoMena, un ometto basso un metro equaranta, tutto pancia sulle gam-bette corte, urlava da matto (faciabuci comu nu pacciu) rabbuffandole capre e la moglie Beppa. Ma pertutto il tempo che mio padre fu alfronte, portò alle “Signorine” latteappena munto, ricotta calda colsiero, formaggi, e “tuma” fresca.Rimase così, per gratitudine tuttala vita, amministratore dei nostribeni, perché mio padre non dimen-ticò mai. I contadini facevano a ga-ra con regali, frutta, verdura e sor-risi. In casa Argiroffi, solo la non-na “donna Mariuzza” De Luca mo-glie di Don Milio era calmissima,dolce, mistica. Imperterrita andavaa trovare le profughe con grandeaffetto, sfidando l’ira di figli e nuo-re, ma soprattutto sfidando il con-tagio. Intanto lo zio Peppino LaScala che aveva sposato un’Argi-roffi scriveva a mio nonno, letterecome questa: “Carissimo zio Emi-lio sono stato a trovare Giovanni-no. Non è un viaggio facile né leg-gero, ma per lui l’ho fatto congrande piacere e lo rifarò quandolui avrà bisogno anche solo di unaparola d’affetto. Giovannino sta

benissimo di corpo e di spirito. Ècalmo, paziente e forte di senti-mento d’italianità. Egli contribui-sce non poco a rendere la sua bat-teria ‘un pugno di eroi’”. Giovan-nino era mio padre, partito volonta-rio a diciotto anni coerente con l’e-poca in cui valori e sentimenti ave-vano grande importanza. Fu subitoin prima linea. Ma il suo sentimen-to non era solo d’italianità. Pensavaa Emma e capiva che stava semprepeggio. Aveva un solo desiderio:“sposarla prima che le morisse”.Così chiese al generale della suacompagnia il permesso per celebra-re il matrimonio per procura. Lui intrincea, lei a Mandanici. Fu unevento più unico che raro.Il mio bisnonno Don Giuseppe, alquale mio fratello Emilio somiglia-va moltissimo anche fisicamente,era uomo coltissimo, letterato emedico. A quei tempi prima di di-ventare medici bisognava laurearsiin lettere e filosofia. Don Giuseppedunque, aveva cresciuto assieme aisuoi figli Giovanni notaio ed Emi-lio gattopardo, un piccolo nipoteorfanello: Giuseppe Longo di squi-sita bontà e finezza. Fu appunto lozio Peppino Longo, che nella cat-tedrale di Mandanici, portò Emmaall’altare per il matrimonio perprocura. Ancora una volta, questastoria fece saltare il cuore in golaai Mandanicesi. Peppino Longo,fragile vecchietto, bianco di capel-li e di barba e la zia Emma bellis-sima, ma più che mai lunare comeun’ombra in un candido merlettosino ai piedi e aumentava la suatrasparenza, e un velo in testa lun-go… lungo… lungo fermato dauna coroncina di zagara fresca, at-traversarono il paese piano e a pie-di, tra due ali di popolo di ogni ce-to sociale: signori, gente semplice,gente umile. Man mano che anda-vano la strada si riempiva di petalidi rosa e di fiori di campo, sino acoprirsi del tutto e diventare un tap-peto fiorito. Tutti buttavano fiori.Emma sembrava di marmo. PadreStella, con gli occhi lucidi, li aspet-ta sulla soglia della Chiesa, sotto ilgrande portale di pietra rossa. Ilportone spalancato, le luci accese esplendenti. La cerimonia fu solen-ne e cantata, dolce e struggente conla folla muta…! Così Emma vonRaber diventò la signora Argiroffi.

*Il presente articolo, in omaggioalla compianta Maria Argiroffi,venuta a mancare lo scorso gen-naio, è stato pubblicato sul perio-dico “Arianova” diretto da Salva-tore Lazzaro, che ringraziamo perla gentile concessione.

Maria Argiroffi von Raber*

nel racconto della sorella Mariaincantatrice, il mistero soffuso e sottile

Maria Argiroffi

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Franco Arcidiaco

Il prezzo del coraggio di Enrico MatteiL'arte del romanzo-inchiesta nel libro di Rosario D'Agata

Rosario D’AgataIL PREZZO DEL CORAGGIO.Enrico Mattei e il cane a sei zampe tra mistero e realtàEdizioni Zines Agra, Roma, 2009pp. 476 - Euro 18,00

I l romanzo-inchiesta è un generenon troppo praticato in Italia,anche se il successo di “Gomor-

ra” di Roberto Saviano ha contribui-to in qualche modo a riportarlo inauge. Rosario D’Agata è un grandemaestro in questa materia e lo ha di-mostrato quando, nel 2009 alla tene-ra età di 74 anni, ha deciso di dare al-le stampe la sua poderosa e pondero-sa (ben 474 pagine) ricostruzionedella vicenda umana e professionaledi Enrico Mattei, del suo “cane a seizampe” e della “Supercortemaggio-re, la potente benzina italiana”. Ilprezzo del coraggio, questo è il tito-lo di quel suo primo romanzo, conse-gna su un piatto d’argento ai lettoriquel periodo della storia d’Italia cheva dalle speranze e gli entusiasmi deldopoguerra, all’avvio della tragicafase della “strategia della tensione” edei cosiddetti “anni di piombo”. È sorprendente, anche per il lettorepiù avveduto, scoprire come l’atten-ta ricostruzione (sia pur romanzata)di una vicenda possa contenere legiuste chiavi di lettura per interpreta-re le sconcertanti manovre interna-zionali che hanno segnato in modoindelebile la Storia contemporaneadel nostro Paese. Rosario è ben con-sapevole di questo e l’incipit dellasua prefazione parla chiaro: «Sem-bra impossibile che la vicenda narra-ta in questo romanzo possa riferirsi afatti realmente accaduti nel nostroPaese non molti anni or sono e chesolo in parte sono stati resi noti algrande pubblico... ». La spiegazionece la fornisce un po’ più avanti luistesso: «Viviamo in un periodo nelquale parlare di impresa pubblica

può sembrare una bestemmia e quin-di potrebbe apparire anacronistico,oltre che politicamente scorretto,raccontare la storia di un imprendito-re di Stato che operò a vantaggio delPaese senza cercare il proprio profit-to personale, suscitando sorrisi dicompatimento da parte degli ammi-ratori dei nuovi capitani d’impresatutti presi dall’obiettivo supremo difar soldi». Rosario D’Agata ha lavorato all’ENIdal 1968 (sei anni dopo la scompar-sa di Mattei) al 1995, all’Ufficio stu-di, alla Direzione relazioni esterne einfine come responsabile dell’imma-gine dell’Agip; fervente ammiratoredi Enrico Mattei, ha curato moltepubblicazioni sulla sua figura e sullastoria del Gruppo. Le sue sono, dun-que, fonti di primissima mano checonferiscono un’intaccabile patentedi credibilità all’impianto narrativodel suo “romanzo”. La Storia della seconda metà del’900 è ancora tutta da scrivere; biso-gna essere consapevoli che, fino adoggi, quelli che sono stati spacciaticome fatti storici, altro non sono chegli alibi precostituiti dalle potenzeeconomiche occidentali per giustifi-care le loro nefande manovre di con-solidamento delle posizioni di domi-nio conquistate dopo la SecondaGuerra Mondiale. Gli accordi inter-nazionali siglati nel febbraio del1945 durante la Conferenza di Yaltasegnarono sì ufficialmente la finedelle ostilità ma diedero, a tutti glieffetti, l’avvio ad una guerra ancorapiù spietata, poiché subdola e segre-ta, che ancora oggi determina i desti-ni del mondo: la Guerra Fredda. Ilgioco rimase saldamente nelle manidegli USA e le regole furono deter-minate dai canoni del più ferreo Ca-pitalismo; d’altra parte gli americaninon persero tempo a sfoderare il lorobiglietto da visita. Erano passati ap-pena sei mesi dagli accordi di Yalta,quando, il 6 agosto 1945, gli USAinaugurarono la lunga stagione del“Terrorismo di Stato” con il lanciodella Bomba Atomica sulle cittàgiapponesi di Hiroshima e Nagasaki.Da quel momento non ci fu un ango-lo del mondo (Italia compresa) chenon si trovò costretto a fare i conticon la legge inumana e sanguinariadettata dal potere economico sovra-nazionale, guidato con pugno di fer-ro dagli americani. La vicenda di Enrico Mattei e del-l’ENI s’inquadra in questo incredibi-le e complicato scenario; grande èl’abilità con la quale Rosario D’Aga-ta riesce a renderla fruibile anche alettori non avvezzi ad argomenti dipolitica ed economia. La narrazione,infatti, procede spigliata e fluentecon un ritmo da Spy Story, per nondire da fiction. Mattei, anche se ave-va partecipato alla Resistenza, nonera un Comunista; il suo intendimen-to non era, dunque, sconvolgere lapolitica economica imperante. Allabase del suo operato c’era solo un

grande amore per il nostro Paese e lavoglia di dimostrare che anche danoi esisteva una sana classe di im-prenditori e di manager e tante vali-de maestranze, in grado di fare del-l’Italia una potenza economica indi-pendente dalle altre nazioni. Matteiera convinto che l’intervento delloStato nell’economia fosse per l’Italiala sola strada per impedire che la de-bolezza politica di un Paese uscitosconfitto dalla guerra, praticamentealla mercé dei potenti vincitori, lo fa-cesse diventare una vera e propriacolonia da sfruttare. Non negava ilvalore dell’iniziativa privata ma eraaltrettanto convinto che taluni com-parti essenziali per l’autonomia di unPaese dovessero essere gestiti diret-tamente o indirettamente dallo Stato. Nel libro l’Autore prefigura l’esi-stenza di un Direttorio sovranaziona-le che regge le sorti del Mondo:«Quelle persone, sette uomini e unadonna, rappresentavano il Potere, ilpotere economico e finanziario cheda sempre ha governato il mondo.(...) Presidenti, generali, dittatori,politici, statisti, grandi industriali,pensatori e tutti coloro che appaionoin possesso, pur non essendone, delpotere di determinare i destini del-l’umanità - o di influire su di essi -,sono sempre stati inconsapevolmen-te pedine di una specie di direttorioinvisibile in grado di servirsi di vol-ta in volta di eserciti, di tecnologie,di demagoghi, di movimenti, per fi-nalità legate solo agli immensi inte-ressi di coloro che ne fanno parte».Solo un artificio narrativo quello diD’Agata?, al lettore la risposta; quelche è certo, è che non sembra affattofantascienza la risposta data da unodei membri del fantomatico diretto-rio a chi gli chiedeva come mai nonritenesse semplice sottomettere l’Ita-lia: «Non è così semplice, bisognatener conto del peso politico dei co-munisti italiani, della vicinanza conl’Est, della necessità, quindi, di nonsbagliare misura». Sembra propriol’avvio di quella barbara “strategiadella tensione” che non avrebbe esi-tato a insanguinare le piazze italianepur di tenere lontano il PCI dal go-verno del Paese. Il libro è disseminato di frasi, abil-mente contrassegnate dai caratteri incorsivo, che riportano espressionireali di vari funzionari americani re-perite da D’Agata grazie ai suoi ca-nali di informazione; fa tremare levene ai polsi il seguente passaggio:«Mr. Van Haas specificò innanzitut-to che quell’ufficio, che si occupavaufficialmente di rapporti commercia-li a latere dell’addetto commercialedell’Ambasciata degli Stati Uniti,non era in realtà una emanazione di-retta né del governo americano né diqualsiasi altro governo, ma che face-va capo a istanze decisionali dallequali dipendeva la sopravvivenza elo sviluppo del Sistema Occidenta-le». Scrive D’Agata: «Quello cheimportava era sempre e in ogni caso,

la difesa e l’incremento di quel pote-re che il controllo dell’economiamondiale poteva dare. Era il loro uncartello assoluto, senza morale, sen-za sentimenti, ma teso solo a conso-lidare quel potere con ogni mezzo, aldi fuori di qualsiasi remora e di qual-siasi regola». «E ora un piccolo ita-liano osava seminare in giro idee pe-ricolose che, pur non potendo recaredanni di qualche rilievo al meccani-smo di potere del Direttorio, avreb-bero potuto procurare dei fastidi ali-mentando qualche esaltato con sognirivoluzionari e costringendo il Diret-torio stesso a perdere tempo e soldiper tamponare qualche iniziativa didisturbo». Per fermare Mattei fu ten-tato di tutto, dalle pressioni politi-che, alle campagne di stampa falsa-mente ambientaliste, alle lotte sinda-cali prezzolate, ai sabotaggi degliimpianti, fino alla classica arma del-la diffamazione personale; la sua ir-riducibilità e la sua fermezza costrin-sero il “direttorio” a fare ricorso allasoluzione finale: l’attentato al suoaereo, precipitato il 27 ottobre 1962sui monti lombardi di Bascapé, dirientro da una missione in Sicilia.Quasi certamente la condanna amorte di Mattei fu decretata dopo lastorica conferenza dei petrolierimondiali, tenutasi al Grand Hotel diRoma, durante la quale fu lanciatoun vero e proprio atto d’accusa versoquel petroliere senza petrolio “colpe-vole” scrive D’Agata «di pretenderedi poter far parte di un monolitico ecollaudato consorzio di operatorisenza avere esperienze e risorse maal contrario creando confusione e fa-cendo il gioco del Comunismo inter-nazionale con i suoi flirt con i paesidel cosiddetto Terzo Mondo e delleforze sovversive che vi fioriscono».Fu in quell’occasione che Matteipronunciò quella che passò alla sto-ria come “la parabola del gattino af-famato”: «C’era una volta un gattinogracile e smunto, che aveva fame.Vide dei cani grossi e ringhiosi chestavano mangiando e, timidamente,si avvicinò alla ciotola. Ma non fecenemmeno in tempo ad accostarsi chequelli, con una ‘zampata’, lo allonta-narono. Noi italiani siamo come quelgattino: abbiamo fame e non soppor-tiamo più i cani grossi e ringhiosi,anche perché, in quella ciotola, c’èpetrolio per tutti»; ma la cilieginasulla torta doveva ancora arrivare:«Non passerà molto tempo che do-vrete accorgervi, a vostre spese, chenon potete fermare la storia. I Paesiche detengono le risorse petrolifere,e che oggi sfruttate, diventeranno lo-ro stessi i gestori diretti delle loro ri-sorse e voi dovrete adeguarvi, volen-ti o nolenti!». Da quel momento Enrico Mattei in-tensificò una campagna di sensibiliz-zazione, di sostegno e di affiliazioneall’ENI dei Paesi del Terzo Mondo(Iran, Libia e Egitto in testa) che

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possedevano giacimenti petroliferi;era veramente troppo, la misura peril Direttorio era colma, quell’italianofastidioso doveva essere fermato. E,con buona pace di chi veramente hacreduto alla favoletta dell’implosio-ne e del fallimento dell’Unione So-vietica, e alla sua caratteristica diImpero del male, sentite come Mat-tei rispondeva a chi si meravigliavadella sua decisione di acquistare pe-trolio dall’URSS: «Sì, acquisteremo

dall’Unione Sovietica, la cui realtànon deve essere intesa, come finora èaccaduto, soltanto come una minac-cia potenziale, ma anche come unfattore di equilibrio... un elemento ingrado di bilanciare lo strapotere del-l’economia americana. E vi dico dipiù... se un giorno l’URSS dovessesfaldarsi, sarebbe l’inizio di unasciagura per il mondo, perché sarem-mo tutti alla mercé di una sola super-potenza che governerebbe il mondoa suo piacimento, facendone un uni-co grande mercato». Profetico, come

tutti i grandi uomini, Enrico Matteiarrivò a delineare, con decenni di an-ticipo, la tragica situazione nellaquale ci saremmo catastroficamentevenuti a trovare dopo il crollo delMuro di Berlino. Oggi non è più tempo di eroi e di so-gnatori ma, come fa dire D’Agata auno dei membri del Direttorio, laspietata Inez: «di figure nuove,uguali e contrarie (a gente comeMattei, ndr) persone da aiutare a di-ventare imprenditori pigliatutto, chesappiano muoversi con vivacità, di-

sinvoltura e simpatia, che diventinoun punto di riferimento, persone chepossano essere considerate comeesempio da emulare, capaci di crear-si un’immagine che sappia fare so-gnare tutti gli ingenui fino a trasfor-marsi in un mito intoccabile per lemasse. Dobbiamo creare personaggi chesiano anche convinti sostenitori e di-fensori del mercato e delle sue leggi,esempi irresistibili di imprenditoriprivati che si sono fatti da sé». Viviene in mente qualcuno?

segue dalla pagina precedente

Giuseppe Gangemi

Il miracolo scippato di Marco PivatoUn libro racconta le occasioni sprecate della scienza italiana negli anni sessanta

Marco PivatoIL MIRACOLO SCIPPATOLe quattro occasioni sprecatedella scienza italiana negli anni sessantaDonzelli 2011pp. 208 - Euro 18,00

C’ era una volta una nazioneall’avanguardia nei setto-ri dell’informatica, del

petrolchimico, del nucleare e dellamedicina. Una classe politica medio-cre e servile, insieme agli interessicontrastanti degli Stati Uniti, hannodeterminato negli anni 60 del secoloscorso, l’interruzione degli esperi-menti di Adriano Olivetti, di EnricoMattei, di Felice Ippolito e di Dome-nico Marotta. L’Italia sta ancora pa-gando le conseguenze del ritardo inquesti settori strategici. I quattroeroici personaggi, ostacolati, uccisi oprocessati dallo stato che avevanofatto progredire ed emancipare, sonoi protagonisti del libro Il miracoloscippato di Marco Pivato (Donzelli2011), che ha come sottotitolo Lequattro occasioni sprecate dellascienza italiana negli anni sessanta. Adriano Olivetti è l’imprenditore il-luminato che concilia capitalismo esocialismo i quali separatamente si

erano dimostrati incapaci di rispon-dere ai bisogni dell’uomo. Egli uni-sce l’interesse dell’impresa e quellodei lavoratori per i quali realizza ca-se, asili, attività culturali, integrandopersino le prestazioni sanitarie pub-bliche. Per questo è visto con diffi-denza dagli industriali tradizionali.L’ingegnere Olivetti, oltre ad essereanticonformista per natura, è anchelungimirante: in collaborazione conl’università di Pisa produce nel 1959l’Elea 9003, il primo calcolatore atransistor commerciale della storiache alla fiera campionaria di Milanovince il premio Compasso d’oro peril design. È il primo calcolatore almondo interamente transistorizzatoche è concepito per la produzione inserie. I successi informatici della Oli-vetti subiscono un duro colpo il 9 no-vembre 1961 quando Mario Tchou, ilgeniale ingegnere del laboratorio diricerche elettroniche Olivetti, pionie-re dell’informatica italiana, muore inuno scontro con un camion. L’inci-dente ha suscitato sospetti sull’esi-stenza di un complotto per uccidereTchou, considerato il contesto politi-co nazionale e internazionale. L’a-zienda italiana stava facendo concor-renza agli Stati Uniti che miravano almonopolio in un settore importantedal punto di vista militare e civile.Inoltre l’ingegnere Tchou, di originicinesi, era stato contattato dall’amba-sciata della Cina interessata a svilup-pare studi sui calcolatori. Il computerP101 realizzato nel 1965 dall’ing.Pier Giorgio Perotto è l’ultimo gioiel-lo della Divisione elettronica dell’O-livetti (Deo). Considerate le sue di-mensioni ridotte e il suo prezzo, circadue milioni di lire, rappresenta il pri-mo personal computer della storia.Dopo la morte di Adriano Olivetti, lesocietà pubbliche e private che su-bentrano nella proprietà dell’aziendacedono la Deo alla General Eletric. Èla fine della gloriosa avventura infor-matica italiana.Il 27 ottobre 1962 si conclude il so-gno di Enrico Mattei il cui contribu-to alla indipendenza energetica e allaformazione del polo petrolchimico,consentì all’Italia di fare parte deipaesi più industrializzati del pianeta.Mattei scavalca il monopolio delleSette Sorelle, le compagnie statuni-

tensi che monopolizzano il mercato,per entrare in società con i paesi pro-duttori ai quali offre condizioni piùfavorevoli. L’ingegnere trasformaun’azienda statale in liquidazione,l’Agip, in una multinazionale del pe-trolio che si chiamerà Eni, consape-vole che «non c’è indipendenza poli-tica se non c’è indipendenza econo-mica». Questo progetto nasce e sisviluppa malgrado l’ostilità degliStati Uniti che premono fin dal 1945per la chiusura dell’Agip. Marco Pi-vato riporta il carteggio del marzo1945 tra l’ambasciata americana aRoma e il segretario di Stato ameri-cano Joseph Grew. L’ambasciatoreinforma Grew che «l’Italia non haabbandonato le intenzioni di una po-litica petrolifera fortemente control-lata dal governo». Il governo statuni-tense risponde «la partecipazione delgoverno italiano agli affari petrolife-ri creerebbe una posizione concor-renziale tale da offrire al governo lacontinua tentazione a ricorrere a pra-tiche arbitrarie […]. Il ripetersi di ta-le situazione sarebbe svantaggiosoper i consumatori italiani e nocivo al-le relazioni commerciali italo-ameri-cane». Secondo Grew, con il motivodelle riparazioni di guerra si potrebbecostringere l’Italia a cedere o liquida-re varie proprietà e attività posseduteo controllate dallo Stato. Mentre l’E-ni cresce, non mancano gli attacchipolitici e giornalistici a Mattei accu-sato di essere un autocrate. IndroMontanelli sulle pagine del Corrieredella Sera attacca il manager pubbli-co in una serie di articoli dal 13 al 17luglio 1962. Anche dopo la tragicamorte, Il Sole24ore non nascondel’ostilità degli imprenditori privativerso l’impresa di Mattei, accusatodi attingere «a piene mani e senzacontrollo dal pozzo senza fondo del-lo Stato». La vicenda del nucleare italiano è al-trettanto travagliata. La ricerca inquesto campo, promossa dal fisicoEnrico Fermi che si trova in America,è sostenuta particolarmente dal suocollega Edoardo Amaldi e dall’ing.Felice Ippolito che dirige il Centroinformazioni studi ed esperienze (Ci-se), una società senza scopo di lucroche intende favorire lo sfruttamentoindustriale dell’energia nucleare, e

che diventerà segretario del Comita-to nazionale per l’energia nucleare(Cnen), Il Cise, che è composto daaziende private, è contrario alla na-zionalizzazione dell’energia elettricache avverrà nel 1962 con la costitu-zione dell’Enel. Ippolito diventa con-sigliere dell’Enel e mantiene la cari-ca nel Cnen. Nel giro di pochi anni,dal 1962 al 1964 vengono costruitetre centrali nucleari che pongono l’I-talia al terzo posto fra le potenze oc-cidentali per produzione di energiaelettrica da fonte atomica, dopo GranBretagna e Stati Uniti. Si forma pre-sto un dissidio tra il Cnen di Ippolitoche spinge sul nucleare e l’Enel che ècontraria. Il leader del Partito sociali-sta democratico Giuseppe Saragatappoggia l’Enel e attacca Ippolito,accusandolo di dilapidare il denaropubblico. Dalle accuse politiche al-l’intervento della magistratura chearresta Ippolito, il passo è breve. An-che in questa occasione si ipotizzal’intervento statunitense per favorirele multinazionali del petrolio e perbloccare la tecnologia nucleare in unpaese troppo condizionato dai partitidi sinistra e per questo a rischio. Un anno dopo, nel 1964, viene ingiu-stamente arrestato anche DomenicoMarotta, che aveva commesso solodegli illeciti amministrativi per svel-tire l’attività dell’Istituto superiore disanità che sotto la sua guida era di-ventato leader nella produzione far-maceutica e nella ricerca terapeutica.Anche in questo caso la burocrazia,unita alla miopia di alcuni politici edi alcuni magistrati italiani, sarannodeterminanti per bloccare lo svilupposcientifico e tecnologico.Tempo fa il governo Letta ha annun-ciato l’ultimo scippo ai danni dell’I-talia: con il pretesto di fare cassa hadeciso di vendere quote di Enel, Eni,Finmeccanica e di altre aziende stra-tegiche, veri e propri gioielli di statoche operano nei settori dell’energia,dell’aerospaziale, delle comunicazio-ni e dei trasporti. Queste aziende fini-ranno probabilmente all’estero dovepagheranno anche le tasse. I politicistanno da tempo svendendo il nostroPaese e hanno provocato il desertoindustriale, agricolo e commerciale,siamo all’epilogo.

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Anno IX - n. 35/37 - Gennaio/Settembre 201418 LettereMeridiane

Q uattro mesi ricchi di nuoveesperienze, alla ricerca ditestimonianze di vita, quat-

tro mesi di incontri, inizialmente in-telaiati in una palese difficoltà co-municativa, quattro mesi vissuti nelsegno della diffusione della cono-scenza.Questo in breve quello che ho vissu-to insieme a Letizia Arena ed EmmaPerrone, le due colleghe del corso dilaurea di Scienze dell’Educazioneall’Università della Calabria, cono-sciute durante il progetto “Messag-geri della conoscenza: storie di mi-granti nella letteratura e nel cine-ma”, un percorso didattico finanzia-to dal Miur che ci ha portati, da gen-naio a maggio 2014, a Kingston.

L’Università del Rhode Island (Uri),lo stato più piccolo degli Usa e conla più alta densità di emigrati italia-ni o meglio di persone di origine ita-liana, ci ha ospitato ed è stata la ba-se di partenza per una serie di ricer-che che hanno finito per trasformar-si in un documentario dal titolo:“Testimonianze dell’emigrazionecalabrese in America”. Il progetto, coordinato dal professo-re Michelangelo La Luna, docentedi Lingua e Letteratura italiana al-l’Uri, ci ha visti impegnati anche inun tirocinio di didattica linguistica,durante il quale abbiamo avuto lapossibilità di affiancare il docentenelle lezioni. Ci siamo così messi al-la prova davanti ad un gruppo di ra-gazzi che parla una lingua differentee vive situazioni culturali a noi sco-nosciute. Ho avuto, quindi, l’occa-sione di testare un nuovo modo diconcepire l’insegnamento e di con-frontarlo con la nostra metodologia. Questa esperienza, come tutte quelleche formano gli individui che, para-frasando Carmine Abate “vivonoper addizione”, mi ha consegnato in-numerevoli impressioni, vissute allaluce di un’assenza fatta di terra e al-beri, di mari e monti, tradizione emorale. Mi sono, spesso, trovato davanti al-la forsennata competitività e al ruolofondamentale che il successo, innan-zitutto quello economico, riveste inquesta parte del mondo, riflesso inespressioni del tipo “desidererò avereun figlio, una volta guadagnato il mioprimo milione di dollari”; ho cono-sciuto la finta sicurezza di un siste-ma, in cui gli individui sono privi diveri e propri punti di riferimento, in

Messaggeri della conoscenza dall’Unical all’Uri:Un progetto di ricerca, finanziato dal Miur, alla scoperta di

La ricerca…

L a nostra ricerca è partita da Ellis Island, un isolotto sito di fronte aManhattan, alle foci del fiume Hudson che separa New York dal New

Jersey. Questo fu il primo step per tutti gli immigrati, circa 22 milioni,giunti in America tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900. Il picco venneraggiunto nel 1907, con un milione di persone giunte sull’isola nello stes-so anno. All’arrivo dei barconi i medici del servizio immigrazione sottoponevanoogni persona ad un primo controllo, contrassegnando con un gesso sullaschiena coloro che dovevano essere sottoposti ad un ulteriore esame. Chisuperava questa fase si spostava nella Sala di Registrazione (oggi trasfor-mata nel Museo dell’Emigrazione), dove doveva consegnare i propri datipersonali. Coloro che erano ritenuti idonei, venivano accompagnati al mo-lo per essere trasferiti a Manhattan. Chi, invece, non veniva ‘accettato’,era contrassegnato con una croce e doveva imbarcarsi di nuovo sulla navecon la quale era appena giunto. Molti sfuggivano al proprio destino, tuf-fandosi in mare, cercando di raggiungere Mahnattan a nuoto, altri preferi-vano addirittura suicidarsi che intraprendere il viaggio di ritorno. La sortedi intere famiglie veniva decisa in questo luogo, per questo noto anche co-me “Isola delle lacrime”.La cittadina del Rhode Island che si distingue per la nutrita presenza di im-migrati calabresi e siciliani è Westerly (sita a pochi chilometri da King-ston); su una popolazione di 22 mila abitanti, circa otto mila hanno origi-ni calabresi. Questa concentrazione di immigrati del Sud Italia è frutto del-la “chain migration”, una vera e propria emigrazione a catena, a seguitodella quale intere comunità - in questo caso quella di Acri, in provincia diCosenza -, si trasferiscono, fondando una nuova comunità oltreoceano.La vecchia rivalità tra le due regioni dello Stretto ha inizialmente caratte-rizzato anche la vita nel “nuovo mondo”. A Westerly, calabresi e sicilianisi sono collocati alle due sponde del fiume Pawcatuck, creando un nuovoStretto. Qui hanno continuato a mantenere le stesse tradizioni del luogo diorigine.Dalle interviste raccolte è emerso che il mantenimento delle tradizioni èsintomo di una emigrazione forzata da circostanze sociali e non dalla vo-glia di un cambiamento culturale ed è altresì motivato dall’attaccamentoalle proprie radici. Chi nasce in terra straniera, invece, esprime tale attac-camento, spesso visitando i luoghi di origine, spinto dalla necessità di ri-costruire la propria identità. Inoltre, da una piccola indagine presso il Dipartimento di linguistica ab-biamo appreso che la maggior parte degli studenti americani iscritti al cor-so di lingua italiana ha origini italiane.

L’ uomo tende a modificare ocambiare il proprio ambiente a

seconda delle proprie necessità,quando questo non gli è possibilecerca di farlo altrove, nasce cosìquello che viene definito fenomenomigratorio. Società, caratterizzate damancanza di libertà e di espressione,di culto, di realizzazione professio-nale, non permettono l’ottenimentodella felicità, la cui ricerca è insitanell’uomo. Quando le condizioni divita si riducono ad un punto tale daminacciare la sopravvivenza, l’uo-mo, mosso dal proprio istinto, tendea reagire. Le reazioni posso essere due: agire inmodo da modificare il proprio statussociale o abbandonare la società diappartenenza. Corrado Alvaro, in“Gente in Aspromonte”, mette in evi-denza due modi di cercare di sovver-tire le gerarchie sociali.

Nella sua opera si innesta l’atonalitàdella problematica della emigrazionenell’emisfero della consuetudine.L’emigrante è tale sempre per man-canza di denaro a sostegno di sé edella sua famiglia. Alvaro non emar-gina le motivazioni, ma è singolare lasua considerazione di quei particola-ri che diventano canoni esistenzialidi un uomo fuori del suo ambiente.Niente è più importante della gioiadel ritorno, anche il denaro, la cui ri-cerca è il motore stesso dell’emigra-zione, si colloca al gradino più bassodella scala dei desideri. È l’attualitàdella gioia interiore che passa levan-do le amarezze di una società merce-naria, la stessa in cui non si avvertepiù la necessità di guadagnarsi le tap-pe nel corso della vita, ma per Alva-ro le azioni degli uomini trovano giu-stificazione se inserite in un contestospecifico.

Alvaro scrive dell’emigrazione conla grazia e la sofferenza pacata di chisi sente emigrante a vita. Secondo lasua visione, l’uomo sceglie di emi-grare per la risoluzione dei problemidi esistenza, ma non può che soffrireper la lontananza dalla sua terra d’o-rigine, dai suoi affetti. Vivere in un luogo diverso da quelloin cui si è nati, abbandonare i propriusi, costumi, la propria terra, la pro-pria famiglia è un atto di rinuncia diparte della propria identità. L’amoreper la natura, per la terra natia, aiuta acostruire il nostro io, ad ammirare labellezza insita in noi e nel mondo checi circonda e che è “Madre” degli uo-mini. Rinunciare a se stessi è un’azio-ne estrema, un atto che non compi-remmo se non fossimo costretti. La difficoltà provate da chi lascia lapropria terra, indagando la prospetti-va di coloro che partono e soprattut-

to di coloro che restano, è, invece, lamateria dell’analisi dello scrittoreCarmine Abate. L’autore de “La collina del vento”pone l’accento su come sia difficilevivere modificando i propri usi e co-stumi, cercando di essere accettati inposti in cui lo straniero viene ‘non vi-sto’, a causa della diversità che locontraddistingue. Abate conduce, al-tresì, il tema dell’emigrazione allasua reale essenza, ovvero all’accetta-zione di sé stessi e di ciò che si di-venta a causa, anzi grazie, al viaggioin posti nuovi. Si tratta di quel click che scatta nellatesta di colui che riesce a considerarese stesso l’altro dell’altro, un io che ènato, cresciuto ed ha acquisito valoried usanze diversi dai propri, cittadi-no dei posti che lo hanno scelto, fie-ro di essere la somma dei posti che lohanno scelto.

Emigrazione e letteraturaLa Statua della Liberta

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Anno IX - n. 35/37 - Gennaio/Settembre 2014 19LettereMeridiane

primis la famiglia, basti pensare chebuona parte degli studenti che hoconosciuto ha un bagaglio di vicen-de familiari travagliate da divorzi.Al contempo, però, ho avuto anchemodo di appurare l’efficienza lavo-rativa, il senso di responsabilità neiconfronti del proprio ruolo, nel por-tare a termine i propri compiti, laflessibilità di un ambiente accade-mico ‘aperto’, dove chiunque ha lapossibilità di mettere pienamente afrutto attitudini e competenze.Intuizioni a parte, la pratica della ri-cerca è stata magnifica ed irripetibi-le per le dinamiche degli incontri eper il sentimento che contraddistin-gue ogni singola storia di vita: dal-l’arancia in tasca contro lo scorbutodei membri della famiglia Gaulle, altribolato viaggio di Gina Marzano

dall’America alla Calabria alla ri-cerca dei parenti lontani, vittima in-diretta dell’omertà di un tabaccaio acui chiese informazioni per rintrac-ciare i parenti di Palmi, ricevendoun timoroso “ieu non sacciu nenti”come risposta ad una domanda postacon “strani” accenti. Singole storie che, come tanti picco-li tasselli, fanno parte di un unicomosaico, un unico racconto, spessocommovente, divertente, a tratti‘folcloristico’. Come non ricordare,ad esempio, l’originale aneddotoraccontato dai fratelli Salvatore eAngelo De Caro che, giunti a We-sterly in giovanissima età, si presen-tarono a scuola per lo “show andtell” muniti di fisarmonica ed orga-netto, destando la curiosità dei com-pagni e dei giornali locali che si af-frettarono ad immortalare l’evento.E, ancora, Laura e Matteo, testimonidella realizzazione del classico so-gno americano. “In America troveraisempre qualcuno disposto a sostene-re e concretizzare la tua creatività, a

farne un business”, sono, infatti, leparole dei due giovani romani tra-sferitisi a New York, incontrati percaso in una pizzeria al centro diManhattan. L’una direttrice artistica,in continuo spostamento fra i duecontinenti, l’altro artista “emergen-te” ai primi anni di design. O, anco-ra, Pietro, ragazzo napoletano emi-grato nella grande mela dove “il bu-siness non è solo importante, è tut-to!”, che si è cimentato in diverseprofessioni, innamorandosi dellameritocrazia americana: “Se sei bra-vo e sei in grado di portare soldi al-l’azienda, qui lavori”. Le opportunità lavorative sono, co-munque, legate in modo inscindibileallo studio. Una situazione di certodifferente a quella italiana, in cui,troppo spesso, si finisce per cercare

un lavoro qualsiasi e che ha poco ache fare con agli studi effettuati. Andando ad analizzare le differenzefra la Uri e gli atenei italiani, la pri-ma cosa che è risultata evidente è ilriguarda le tasse universitarie e lestrutture a disposizione degli stu-denti. Mentre all’Unical, ad esem-pio, la somma delle tasse totali an-nuali non può superare i 1.800 eurocirca, quella statunitense prevede uncosto approssimativo di 12.000 dol-lari l’anno (8.800 euro circa) per glistudenti che non vogliono usufruiredell’alloggio all’interno del campuse 25.000 (18.000 euro circa) per chial contrario vive dentro la strutturauniversitaria. Un divario dei costi così netto èspiegato dalla differenza strutturalee dei mezzi messi a disposizione de-

gli studenti dell’Uri: palestre, pc diultima generazione, spazi adeguatialle più diverse discipline sportive,una grande biblioteca fornita ed ag-giornata, ma soprattutto una perfettaorganizzazione e la disponibilità ditutti gli “addetti ai lavori”. Per ciò che concerne, invece, piùprecisamente l’approccio e la meto-dologia didattica, abbiamo appuratoche gli studenti dell’Uri vengonocostantemente motivati dai docenti– che utilizzano tecniche quali il ri-scaldamento mentale e altri metodiper mantenere viva l’attenzione - etrattati quasi alla pari. La valutazio-ne dei ragazzi avviene per gradi, at-traverso test intermedi che andran-no, in percentuale, a contribuire alvoto finale. All’inizio dell’anno ac-cademico, inoltre, per ogni corso,viene reso noto il ‘Syllabus’, che èin sostanza il programma dell’esamesuddiviso per argomenti e accurata-mente dettagliato.In generale, ciò che incide maggior-mente sulla motivazione di ogni sin-golo studente è la possibilità di fareun lavoro inerente al proprio percor-so di studi.In conclusione, tutto sembra confer-mare l’idea di un luogo dove ognicosa, ogni ingranaggio funziona.Studiare e lavorare in America risul-ta molto più semplice. Il ‘modelloamericano’, è, però, debole nel mo-mento in cui, tale “semplicità” si ri-flette in una eccessiva segmentazio-ne del sapere. Il risultato è che lapreparazione, il bagaglio culturaledegli studenti americani è piuttostopovero se paragonato a quello deglistudenti italiani. D’altra parte, ol-treoceano, il sapere in sé, la culturasono quasi sempre in secondo piano.Prima c’è il ‘business’.

* Studente Unical specializzando in Media Education

Antonino Policari*

l’esperienza di tre studenti calabresi in Americatestimonianze dell’emigrazione nel nuovo mondo

Gli studenti del progetto Messaggeri della Conoscenza con il professoreMichelangelo La Luna

Il Monumento che ricorda l'arrivo degli immigrati a Ellis Island

La storia di Medoro Trombino, il big dei prodotti made in Calabria

I l migliore produttore di soppressata, nonché maggior importatore diprodotti calabresi, in Rhode Island, è la famiglia Trombino. La nascita

del loro “meat store” ha origini molto lontane. Fu Francesco Bruno, natoin Calabria, a Corigliano, nel 1859 che si trasferì in America nel 1892 al-la ricerca e nella speranza di migliori opportunità di lavoro, l’iniziatore diquesto negozio e della sua fortuna. Fu uno dei primi italiani a stabilirsi aWesterly (RI) e una volta giuntovi aprì un negozio di prodotti alimentarinei primi anni del 1900 su Pleasant Street, dove viveva la famiglia. Più tar-di suo figlio, Rico Francesco Bruno, specializzato in carni fresche, fecesubito di questa abilità un famoso marchio locale, facendo nascere così ilBruno’s meat market. Nel 1960, Rico morì e suo figlio Frank AnthonyBruno sostituì il padre nella gestione dell’azienda. Il passo decisivo nellaproduzione della ricercatissima soppressata avvenne nel 1978, quando lafiglia di Frank e genero, Palma e Medoro Trombino rilevarono l’attività,localizzandosi in quella che è la posizione attuale del market sulla Spring-brook Road. Dopo aver cambiato il nome in ‘Westerly Packing Company’si specializzarono, grazie al successo di carni preparate seguendo lo stiletradizionale calabrese, non solo nel “walk-in customers”, ovvero nellavendita diretta del prodotto al cliente, ma anche nella “wholesale”, ossianella vendita all’ingrosso. Oggi, con l’aiuto dei loro due figli Medoro II eBruno, hanno sviluppato il piccolo negozio in-house in un business fioren-te specializzato in molte categorie del settore alimentare.

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Anno IX - n. 35/37 - Gennaio/Settembre 201420 LettereMeridiane

F u grazie a dei cantanti venezianiche erano andati da lui a consul-to per una difficoltà a pronun-

ciare la lettera R che Alfred Tomatisipotizzò l’esistenza di un orecchio et-nico. Da quel momento iniziò le sue ri-cerche sull’argomento dando vita aquella che oggi è conosciuta come lageografia acustica di Tomatis.Alfred Tomatis era un otorino larin-goiatra francese di origine italiana, na-to a Nizza nel 1920. Figlio di un famo-so basso d’opera del tempo, egli rice-veva nel suo studio molti colleghi delpadre con problemi di voce. Compa-rando casualmente le analisi spettralidella voce e le curve uditive, si reseconto che le frequenze che mancavanoall’ascolto erano le stesse che manca-vano nella voce.Da lì mise a punto allora un’apparec-chiatura, l’orecchio elettronico, capacedi allenare l’udito a focalizzare megliole frequenze mal percepite, notandoche così facendo, queste ricompariva-no nella voce. L’esperienza, provatanei laboratori di fisiologia della Sorbo-na e confermata, verrà chiamata “Ef-fetto Tomatis”: la voce contiene sol-tanto gli armonici che l’orecchio riescea percepire.La nuova metodica sarà utilizzata damolti artisti, anche famosi, tra i qualiMaria Callas, Gerard Depardieu e altricon risultati eccellenti. Grazie ad essosi riescono oggi a risolvere in tempibrevi casi ostinati di dislessia e altri di-sturbi legati all’apprendimento.Tomatis riuscì a spiegare in termini fi-siologici la differenza tra udire e ascol-tare. Il primo è un atto passivo; tuttipossiamo udire, a meno di non aver leorecchie tappate o rovinate, ma non èdetto che tutti si riesca facilmente adascoltare.Ascoltare vuol dire essere capace difocalizzare con precisione e nitidezza isuoni che ci interessano e mettere sul-lo sfondo i rumori di fondo che non ciinteressano, i quali, se avessero il so-pravvento sui suoni a cui dobbiamoprestare attenzione (il discorso dell’in-segnante durante una lezione ad esem-pio), ci distrarrebbero. Ascoltare è unatto che richiede la partecipazione del-la coscienza, ma non possiamo decide-re liberamente di ascoltare. Tomatis di-mostra che per ascoltare bisogna aver-ne l’attitudine profonda, che dipendeperò da qualcosa di molto fisiologico.Questa attitudine è data dalla buonafunzionalità dei muscoli dell’orecchiomedio. Sono loro infatti che permetto-no la migliore accordatura del timpanoper meglio focalizzare i suoni del mes-saggio e nel contempo escludere il ru-more di fondo.Questo spiega perché un bambino an-che molto intelligente e non sordo, puòavere difficoltà di apprendimento. Se isuoni non arrivano chiari al cervello,l’alunno avrà difficoltà a seguire contranquillità le 4-6 ore di spiegazioniverbali in aula. Per approfondire que-

sto argomento consiglio di leggere ilfruibile “Le Difficoltà Scolastiche” diAlfred Tomatis.Ma cosa ha a che fare l’ascolto con lelingue straniere e la geografia acustica?L’episodio con i cantanti veneziani sti-mola Tomatis a verificare se è possibi-le che la lingua parlata nell’infanziacondizioni con il passare degli anni ilnostro orecchio a percepire con mag-giore chiarezza soprattutto le frequen-ze di cui essa è costituita e meno chia-ramente gli altri suoni.Analizzando con speciali apparecchia-ture le registrazioni di voci di personeparlanti una determinata lingua, risul-tava in maniera ricorrente che le fre-quenze acustiche utilizzate in quell’i-dioma rientravano all’interno di un de-terminato intervallo.Tomatis chiamò questo intervallo difrequenze “banda passante” della lin-gua. All’interno di questi intervalli difrequenza, poi, c’erano dei punti fre-quenziali dove l’orecchio era ancorapiù sensibile e per controreazione au-dio vocale, la voce più potente. Ciòvenne indicato da una curva la cuimaggiore o minore altezza sulle variefrequenze indica la maggiore o minorepotenza della voce. Quasi una sorta dicurva di equalizzazione, che sarà chia-mata curva di inviluppo.Contemporaneamente Tomatis notavache se la propria lingua contiene le fre-quenze di una nuova lingua che si vuo-le imparare, l’apprendimento diventapiù facile, più diretto e spontaneo.L’incapacità dei cantanti veneziani apronunciare la “R” veniva allora dallaimpossibilità a percepirla correttamen-te. È come quando un adulto italianoche cerca di imparare l’inglese e in-contra mediamente un certa difficoltàa ripetere con la pronuncia corretta unfrase inglese. La frase viene udita, manon percepita correttamente in tutte lesue sfumature frequenziali e ritmiche.Poiché la laringe emette le frequenzeche l’apparato uditivo riesce a percepi-

re più chiaramente, lafrase inglese sarà pro-nunciata con sonorità eritmi italiani.Tomatis diceva che quan-do un bravo poliglottapassa da una lingua all’al-tra, la tensione del suotimpano cambia di conse-guenza e questo gli per-mette di sintonizzarsi au-tomaticamente sull’altroidioma.Osservazioni successivelo avevano portato a ca-pire che non è soltanto lasonorità della lingua a es-sere influenzata dall’o-recchio, ma anche un al-tro suo parametro impor-tante, l’accento. Cometutte le attività nervose,la messa in ascolto del-l’orecchio richiede uncerto tempo. Quando noi

decidiamo, consciamente o inconscia-mente, volontariamente o involonta-riamente, di fare qualcosa come guar-dare qualcosa o muovere una parte delcorpo, tra il momento in cui decidiamodi compiere l’azione e il momento incui noi la compiamo realmente inter-corre un intervallo di alcuni millise-condi, detto tempo di latenza.Ciò vale anche per l’ascolto. Quandol’onda sonora colpisce il corpo, l’orec-chio non reagisce istantaneamente;passano alcuni istanti prima che la per-cezione avvenga.Tomatis notava che questo tempo dilatenza dell’ascolto varia a secondadella lingua che la persona parla. L’o-recchio reagisce con tempi diversi aseconda dell’idioma del parlante. Iltempo di reazione dell’orecchio condi-zionerà a sua volta il tempo d’emissio-ne sillabica, inducendo un ritmo chesarà riconosciuto come l’accento me-dio tipico di quella lingua.Ogni lingua sarà allora contraddistintafisicamente dalla banda passante, lacurva di inviluppo e il tempo di latenza.Avremo allora l’inglese, con un utiliz-zo di frequenze molto acute e il suotempo di latenza molto breve, che ècostretto a un gioco vocale acrobaticoper poter parlare ad una velocità quasiesplosiva su frequenze molto alte. Il ri-sultato sarà una lingua con pronunciamolto lontana da quello che è la suascrittura, proprio a causa della presen-za di molti armonici acuti che si allon-tanano dal suono fondamentale che siritrova nella scrittura.La lingua tedesca con un tempo di la-tenza lungo e una banda passante me-dio-grave situata tra i 100 e i 3000 Hzcon una zona di maggiore forza intor-no agli 800 Hz si presenta come unalingua scandita con una certa enfasi, ilcui accento tipico è caratterizzato dauna forte spinta laringea e un forte an-coramento a terra del corpo. Tomatisfa notare che ogni tipo di operatività

fonatoria finisce per avere una influen-za, anche se minima, sull’essere psico-fisico.L’italiano che con un tempo di latenzache sta a metà tra inglese e tedesco, hafavorito quella che oggi noi conoscia-mo essere la pronuncia di tipo italiano,data dalla giustapposizione di conso-nanti e di vocali ed emesse con una so-norità tra i 2000 e i 4000 hertz, la zonadi frequenziale tipica della melodiache rende la lingua molto musicale efavorevole al canto.Il francese, con un tempo di latenzapiù rapido di quello italiano, porta que-sta lingua ad avere meno lettere pro-nunciate rispetto a quelle scritte. Esso,poi, con il suo range frequenziale tra i1000 e i 2000 hz, viaggia sulle stessefrequenze del linguaggio.

Ascolto e immagine del corpo

C ome Tomatis spiega in molti suoiscritti, noi ascoltiamo con tutto il

corpo, al punto che, in funzione dellalingua parlata, la persona assume unatteggiamento mimico e posturale cheè tipico del gruppo umano che usaquell’idioma. Qui entra in gioco il con-cetto di “postura etno-linguistica”.Il tipo di pressione acustica a cui si èsottoposti giornalmente è in relazionealla lingua parlata nell’ambiente in cuiviviamo. Per meglio ascoltare ed ana-lizzare i suoni in quel determinato am-biente acustico, l’orecchio, abbiamovisto, adatta progressivamente la ten-sione del timpano tramite una modifi-cazione delle tensioni dei muscoli del-l’orecchio medio.L’adattamento però deve avvenire an-che a livello della percezione per viaossea, cioè la via che il suono percorredopo aver colpito il corpo, per arrivareall’orecchio interno e preinformarlodei suoni che stanno toccando il timpa-no. A questo punto, il vestibolo, l’orga-no dell’equilibrio, che fa parte dell’o-recchio interno, adatta la tensione deimuscoli di tutto il corpo per far sì chela postura sia la migliore per il passag-gio di quei suoni. Quella stessa postu-ra sarà quella più adatta a favorire l’e-missione fonatoria in quel determinatoambiente acustico e in quella lingua.Da qui deriverebbero le posture e lemimiche che caratterizzano i varigruppi linguistici.

L’impedenza acustica del mezzo

P er spiegare le diverse sonorità eaccenti delle varie lingue, Tomatis

introduce il concetto di impedenzaacustica del mezzo. Essa rappresental’insieme delle resistenze minime cheun mezzo offre alla propagazione delsuono. Ogni materiale attraverso cui ilsuono viaggia, pone una certa resi-stenza al suono stesso, favorendo omeno il suo passaggio, accentuando o

La geografia acusticaAscoltare con tutto il corpo. Come la lingua

Alfred Tomatis

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Anno IX - n. 35/37 - Gennaio/Settembre 2014 21LettereMeridiane

diminuendo la sua intensità su certefrequenze rispetto ad altre. Quando, adesempio, battendoci sopra, facciamovibrare una scatola di metallo o la pa-rete di legno di un mobile, la consi-stenza del materiale con cui essi sonocostruiti, favorisce l’emissione di alcu-ne frequenze rispetto ad altre e questoci permette di riconoscere quel tipo dimateriale.L’aria è il mezzo materiale attraverso ilquale si propaga il suono nell’ambien-te. Quando parliamo utilizziamo l’ariacome mezzo di propagazione delle vi-brazioni prodotte dalle corde vocali.Secondo Tomatis, è l’aria, diversa daluogo a luogo, a risuonare più su alcu-ne frequenze rispetto ad altre e a crea-re, nel corso dei secoli e per aggiusta-menti successivi, la curva di equalizza-zione o di inviluppo media di una lin-gua parlata in un determinato posto.L’esempio dell’emigrante inglese èmolto significativo. Questo si è instal-lato sul continente americano dove, adifferenza dell’Inghilterra, l’aria vibramaggiormente a 1500 Hz, una fre-quenza che lui può sentire ma che gliprovoca delle sensazioni diverse daquelle a lui abituali. Poco a poco la suapercezione cambia e con essa tutto ilsistema profondo di risposte uditive edi controreazioni neuronali. Piano pia-no ha acquisito un’altra postura, un’al-tra attitudine, molto vicina a quelladell’etnia che vive già sul posto. Hamodificato il suo comportamento,adottato un approccio psicologico nuo-vo. Queste nuove condizioni hannoobbligato il corpo ad adattarsi in rap-porto al nuovo universo acustico in cuisi trova immerso. La tensione del tim-pano non è più la stessa. Il sistema ner-voso, per essere in accordo con l’orec-chio interno, è costretto a modificare ilsuo funzionamento. A sua volta, unaparte dell’orecchio medio – in partico-lare il muscolo della staffa – deve cam-biare la propria modalità operativa. Es-sendo questo innervato dal nervo fac-ciale, i muscoli del viso sono sotto-messi ad una ginnastica insolita. Il mu-scolo del martello, che è innervato dal-lo stesso nervo che comanda la mandi-bola, sceglie anche lui delle posizioniadatte a questa nuova operatività. Itratti del viso subiscono di conseguen-za un lento ma inesorabile lifting fisio-logico.Certamente le influenze socioculturalirestano di grandissima importanza nel-la formazione di una lingua, però l’am-biente fisico in cui essa si va formandoha una sua fondamentale influenza.Sul continente americano – dice Toma-tis – gli abitanti non nasalizzano perpiacere. Gli antichi emigranti inglesi oolandesi non si erano particolarmenteinvaghiti delle lingue amerinde, carat-terizzate da questa particolarità foneti-ca. Certamente non è la lingua che fanasalizzare. È “l’aria del posto”, piùricca acusticamente intorno ai 1500Hertz, che obbliga l’orecchio e quindi

l’apparato fonatorio ad adottare la ban-da passante specifica della nasalizza-zione. Parallelamente, la lingua fran-cese, che utilizza preferibilmente lefrequenze tra 1000 e 2000 Hertz, pre-senta anch’essa la nasalizzazione nellasua fonetica.Ritornando a come il suono riesce amodificare l’immagine corporea, è fa-cile notare come gli americani, pur es-sendo di varia origine europea, presen-tano qualcosa nella fisionomia che licaratterizza come americani. Respon-sabile di ciò è, per Tomatis, la colataverbale, la parola. Il viso è una dellesuperfici privilegiate su cui essa si ri-versa. Ma ve ne sono altre come le su-perfici anteriori del torace e del ventre,i palmi delle mani, il dorso della manodestra all’altezza dell’incavo tra polli-ce ed indice.Per Tomatis noi trasformiamo la strut-tura del nostro corpo parlando, o me-glio, parlandogli, dal momento che ilcorpo è il primo ad essere interessatodal suono emesso. Un po’ alla volta, illinguaggio sensibilizza le zone atte acaptare le onde acustiche emesse nellafonazione. Le zone più suscettibili aquesta informazione si trovano eviden-temente laddove la diffusione delle fi-bre nervose specializzate nel misurarele pressioni è maggiore.L’orecchio, con i suoi meccanismi dicontrollo fonatori e muscolari, model-la la postura e la mimica facciale perfacilitare quel particolare programmaaudiofonatorio.

L’influenza dell’acustica e della lingua sul comportamento

P arlare una determinata lingua, si-gnifica sempre adottare un atteg-

giamento fisico e psichico determina-to. È stato verificato sperimentalmenteche trasformando la ricettività acusticadi un soggetto, lo si induce a sua insa-puta a cambiare la postura. Dando l’o-recchio tedesco ad un francese, peresempio, lo si vede alzare il tono,emettere le parole con la gola e rad-drizzare il busto; esattamente quelloche farebbe un attore al quale fosse

chiesto di interpretare il ruolo di unapersona tipicamente tedesca. Si intui-sce da ciò l’influenza profonda cheesercita sui comportamenti il parame-tro di impedenza locale.Essa agisce anche, attraverso il lin-guaggio, sulla mentalità, sul modo diragionare e di comprendere, sui com-portamenti fondamentali di fronte allavita. Private improvvisamente, per viasperimentale con una cuffia, una per-sona della sua capacità di ascoltarecorrettamente e la vedrete all’istanteingarbugliarsi non solo in difficoltà diespressione ma anche di pensiero. Per-derà di volta in volta la sua fluiditàverbale e la sua flessibilità mentale. È facile osservare nei seminari condot-ti all’interno di conservatori e scuoledi musica e nei training seguiti dai mu-sicisti nei nostri centri, come lo stessobrano, suonato al pianoforte o altrostrumento, dallo stesso musicista, condifferenti tipi di ascolto etnolinguisticoimposti attraverso l’Orecchio Elettro-nico, venga suonato di volta in volta inuna maniera che si avvicina alla moda-lità di suonare dei musicisti apparte-nenti al gruppo linguistico corrispon-dente. Ciò prova che la lingua madrefinisce per influire anche sul modo disuonare medio dei vari gruppi lingui-stici.

L’Orecchio Elettronico e l’assimilazione delle lingue

È tramite l’Orecchio Elettronico,l’apparecchio messo a punto da

Tomatis in seguito alle sue scopertesull’ascolto, che è possibile abituarecon una certa rapidità l’orecchio allemodalità di ascolto imposte dalla nuo-va lingua e quindi aiutare la persona aparlarla più facilmente.Nell’invenzione di Tomatis sono statitradotti in forma elettronica i parametrifisico acustici che caratterizzano le va-rie lingue. È molto interessante eistruttivo assistere ad una prova di let-tura in lingua straniera con l’OrecchioElettronico. La macchina, attraversoun gioco di filtri acustici porta la per-sona ad ascoltare alla maniera di un

madre lingua e quindi di migliorare intempi rapidi la pronuncia. In secondoluogo, fa apparire dei tempi di latenzainerenti all’accomodazione scelta chevanno ad influire sul tempo di rispostadelle risonanze laringee, origine del-l’accento tipico della lingua.La stessa metodica viene utilizzata an-che e soprattutto per aiutare problemidi linguaggio o per affinare le capacitàoratorie di speaker, oratori, attori.L’effetto avviene anche sul suonoemesso attraverso uno strumento mu-sicale. Lo stesso musicista, che suonapiù volte lo stesso brano, con il mede-simo strumento, a cui viene cambiatodi volta in volta l’ascolto attraversol’Orecchio Elettronico, imponendo unparametro linguistico diverso, lo si os-serverà suonare a sua insaputa secondola modalità imposta, ad esempio tede-sca, russa, francese o altra. Il metodoTomatis ha aiutato molti cantanti, mu-sicisti e attori a sfruttare meglio il loropotenziale o a superare momenti didifficoltà. Non hanno avuto difficoltà adichiararlo attori del calibro di GérardDepardieu, cantanti lirici e pop comeBenjamin Luxon, Maria Callas oSting, per citarne alcuni.Le scoperte di Tomatis hanno aperto lastrada a tutta una serie di filoni di ri-cerca complementari che spaziano dal-la fisiologia, alla psicoacustica, all’an-tropologia.Tra le varie onorificenze ottenute nelcorso della sua carriera di scienziato,nel 1995 il dottor Tomatis ha ricevutoa Villa San Giovanni, nell’ambito delPremio Calabria, una targa specialedella Presidenza della Repubblica Ita-liana per il contributo dato all’umanitàcon l’insieme delle sue ricerche.

Concetto Campo

di Alfred Tomatisinfluisce sul comportamento

Bibliografia:ALFRED TOMATIS, L’Orecchioe la Vita, Milano, Baldini e Castol-di, 1992- Dalla comunicazione uterina allinguaggio umano, Como, Ibis,1993- Come nasce e si sviluppa l’ascol-to umano, Como, Red, 2001- Siamo tutti nati poliglotti, Como,Ibis, 2003- Le difficoltà scolastiche, Como,Ibis, 2011

CONCETTO CAMPO, Introdu-zione al metodo Tomatis, Univer-sità degli Studi di Ferrara, Ferrara,2002

RAOUL HUSSON, Modificationsphonatoires d’origine auditives etapplications physiologiques et cli-niques, Bulletin de l’Académie na-tionale de Médicine, Tome 141,n.19 et 20, Paris, 1957

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Anno IX - n. 35/37 - Gennaio/Settembre 201422 LettereMeridiane

«S ebbene sia perfettamen-te in grado di criticareeccessi, lungaggini e

verbosità nelle opere degli altriscrittori, non mi riesce di fare altret-tanto su una mia stesura. Il lavoro diselezione e revisione per me è un ve-ro inferno: anche quando ce la met-to tutta per tagliare 50.000 parolec’è sempre il rischio che alla fine miritrovi con 75.000 parole in più».

(da una lettera di Thomas Wolfe a Maxwell Perkins)

Maxwell Perkins, l’uomo che neglianni Venti e Trenta del secolo scorsodiede un senso al mestiere di editor,non si toglieva mai il cappello,neanche in ufficio. Lavorò tutta lavita per una sola casa editrice, laCharles Scribner’s Sons. Nessun al-tro editor, in futuro, eguagliò il suorecord di aver scoperto e fatto pub-blicare così numerosi talenti: Fran-cis Scott Fitzgerarld aveva 23 anni,Ernest Hemingway 27, quando loincrociarono. Andres Scott Berg hadedicato alla figura mitica di que-st’uomo una ponderosa biografia(536 pagine): MaxPerkins. L’editordei geni” (Elliot). Le prime paginesono da antologia. Una piovosa seradel marzo 1946, Perkins, dopo averbevuto parecchi Martini nel suo barpreferito, il Ritz, si avventura nelcentro di Manhattan. Cammina sottola pioggia per parecchi isolati fino araggiungere un piccolo negozio, do-ve si tiene un corso serale sull’edito-ria organizzato dalla New York Uni-versity. Kenneth D. McCormick, re-sponsabile del corso, è riuscito aconvincere l’editor “più rispettato einfluente d’America” a dire due pa-role sull’argomento della serata, l’e-diting dei libri. Trenta giovani stu-denti, uomini e donne, lo attendonotrepidanti. Alla fine della lezione(evento rarissimo, l’uomo è moltodiscreto e modesto) gli chiedonocom’era lavorare con Fitzgerald.«Scott era sempre un gentiluomo –risponde Perkins. – A volte aveva bi-sogno di un sostegno extra – e dismaltire la sbornia – ma la sua scrit-tura era così potente che ne valeva lapena». Si parla anche di He-mingway: «Una volta mi raccontòche aveva riscritto alcune parti diAddio alle armi cinquanta volte».Prima che un autore distrugga laqualità della sua scrittura: ecco ilmomento, secondo Perkins, in cuiun editor deve intervenire, «ma nonun attimo prima». E poi c’è ThomasWolfe, forse il “figlio” più amato,l’impresa più impegnativa, affasci-nante ma anche più dolorosa dellasua carriera. Wolfe è un irrequietoragazzone di provincia, alto due me-tri. Scrive migliaia di pagine di qua-lità eccellente, ma non sa come ve-

nirne a capo per racchiuderle in unromanzo di senso compiuto. In Italiaè quasi sconosciuto, ma influenzòscrittori e poeti della beat generationcome Kerouac e Ginsberg. Perkins, che sarà una sorta di padreper lui, lo aiuta a ricavare un libro daquelle migliaia di pagine, ma senzadistruggerne la qualità. Wolfe stessoriconosce pubblicamente (contro ilparere dello schivo editor) l’aiuto diPerkins. Il libro di Berg si soffermamolto sul rapporto tra Wolfe ePerkins. Hemingway lo invitava allesue battute di pesca nel Golfo, l’esi-le editor ci andava ma non toglievamai la sua giacca e il suo gilet…Bellissime le pagine dove assistia-mo alla genesi del capolavoro diFitzgerald, Il grandeGatsby. Perkinscontinua a sostenere Fitzgerald, eco-nomicamente, fino alla fine, ma so-prattutto lo aiuta a tirare fuori la suascrittura dalle nebbie dell’alcol, astargli vicino quando vive il drammadi Zelda, finita in clinica psichiatri-ca. Wolfe ha il problema opposto,scrive troppo: «Il suo talento, comela sua visione dell’America, era cosìvasto che né un solo libro né unasingola esistenza avrebbero potutocontenere tutto quello che aveva dadire». Per anni si disse con insisten-za che Wolfe e Perkins erano stati

partner alla pari nella creazione deiromanzi più tentacolari di Wolfe, equesto fu il motivo della dolorosarottura… A soli 24 anni Fitzgeralddiventa non ricco ma famoso graziea Perkins che pubblica il suo primoromanzo, Di là dal paradiso, dopoavergli dato preziosi consigli di stilee di contenuto. Perkins era nato a Manhattan nel1884, ma era un uomo del New En-gland, amante delle lunghe e solita-rie passeggiate nel verde. Per annifece il pendolare tra l’ufficio di NewYork e la sua casa fuori città, finché,spinto dalla moglie che aveva ambi-zioni teatrali, non si trasferì definiti-vamente a New York. Perkins eramolto legato alle sue cinque figlie.Scriveva loro lettere tenerissime e lasera, a casa, dopo il lavoro, amavaintrattenerle con buone letture. Ave-va instillato nella più grande,Bertha, tali valori romantici che dagrande sognava di fare il cavaliere.Il padre le comprò una spada eun’armatura giocattolo. Quandol’altra figlia, Zippy, gli dice che lesarebbe piaciuto vedere una casa infiamme, lui prese una vecchia casadi bambole di famiglia, la riempì dicarta e le diede fuoco, con grandegioia della figlia. Come editor cam-biò i modelli della sua epoca grazie

ai nuovi talenti che via via pubblica-va. Sono noti i problemi economicie di alcol di Fitzgerald. Fino allamorte improvvisa del grande scritto-re per infarto, nel 1940, Perkins loaiutò sempre, anche quando i suoiracconti non vendevano e non riu-sciva a finire i suoi romanzi… Al dilà degli aneddoti sulla vita di un uo-mo particolare, sui suoi rapportiumani e di lavoro con scrittori entra-ti nella storia della letteratura mon-diale, il libro è bellissimo perché di-mostra quanto sia difficile, faticoso,anche per uno scrittore di talento, la-vorare alla propria opera. Perkinscon tatto faceva scrivere e riscrivereinteri brani.«La casa editrice per cui lavorò tut-ta la vita fece un salto improvvisodall’età dell’innocenza al cuore del-la generazione perduta», scriveBerg. Grazie a Fitzgerald che glieneaveva parlato, Perkins entrò in con-tatto con Hemingway. Cominciòpresto a familiarizzare con la suaabitudine di sparire nei posti più pe-ricolosi del mondo. Perkins, all’epo-ca di E il sole sorge ancora, gli scri-ve: «Non si uccida con tutte questecorride». Hemingway risponde chenon ha nessuna intenzione di fareuscire postumo il suo primo roman-zo. Si sa che Hemingway e Fitzge-rald ebbero un rapporto di grandeamicizia, reciproca ammirazione,ma anche difficile e tormentato.Perkins tra gli altri compiti si assun-se il ruolo di moderatore della loroamicizia: il suo ufficio, fino allamorte di Fitzgerald, sarebbe stato«la stanza di compensazione delleemozioni che viaggiavano tra i dueuomini, soprattutto quando deside-ravano comunicare senza rischiareuno scontro». Uno dei suoi compitiprincipali, negli anni a venire, saràridurre il numero di parolacce dai li-bri di Hemingway. Nel libro è de-scritto anche il lungo rapporto quasiesclusivamente epistolare (si incon-trarono poche volte) con ElisabethLemmon: soltanto a lei confidava ilsuo animo più vero, le sue malinco-nie più profonde.Altre abitudini curiose: «Quandoportava un libro a casa da metterenei suoi scaffali toglieva la sovrac-coperta, chiudeva istintivamente i li-bri che trovava aperti a faccia in giùe faceva una smorfia quando vedevaqualcuno che girava le pagine lec-candosi le dita». Il manoscritto delprimo libro di Wolfe aveva assuntodimensioni leggendarie, c’era chigiurava che fosse alto un metro, inrealtà era di 1113 pagine e alto “sol-tanto” 13 centimetri. Ogni tagliosuggerito da Perkins era discusso eridiscusso tra lui e Wolfe, poi effet-tuato. E finalmente, fu pubblicatoAngelo, guarda il passato.

L’editor dei geni: MaxDa Fitzgerald a Hemingway, l’uomo che scopriva

Max Perkins

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Anno IX - n. 35/37 - Gennaio/Settembre 2014 23LettereMeridiane

«Perché non comincia a scriverelei? Ho la sensazione che possascrivere molto ma molto megliodella maggior parte della genteche scrive», gli chiese MadeleineBoyd in una lettera del 1929.Perkins rispose: «Perché sono uneditor». Leggendario l’incontro di Perkinscon il vecchio editore CharlesScribner, per discutere delle paro-lacce da eliminare in Addio allearmi. Ce n’erano tre in particolareche non sembravano pubblicabili.Perkins non diceva mai parolacce.Addio alle armi sarà un notevolebestseller, nonostante la crisi del1929. Pubblicò anche ErskineCaldwell e molti altri, tra cui l’au-trice del bestseller Il cucciolo. Do-po il Proibizionismo, prese l’abi-tudine di bere uno o due Martini apranzo, poi sempre di più. Negliultimi anni ebbe un problema dialcolismo, come i suoi più grandiautori, del resto. La pubblicazio-ne, dopo una gestazione e infinite,tormentate stesure di Tenera è lanotte non salvò Fitzgerald dai de-biti e dai problemi economici.Wolfe dedicherà a Perkins Il fiu-me e il tempo: perfino nella dedi-ca, troppo lunga, l’editor dovetteintervenire per consigliare tagli.La stretta collaborazione tra Wol-fe e Perkins fu il motivo della lo-ro rottura. Wolfe, sensibile e tor-mentato, si convinse che il suo la-voro senza Perkins fosse impub-blicabile e forse non aveva tutti itorti: quando cambiò casa editricenon pubblicò più nulla. Morì an-cora giovane, per un’improvvisamalattia. Il suo legame conPerkins rimase fortissimo: anchese aveva cambiato casa editrice,dopo la morte si scoprì che lo ave-va nominato suo esecutore lettera-rio. Con estrema onestà, Perkinsfornì alla casa editrice concorren-te tutto l’aiuto possibile per veni-re a capo dei testi di Wolfe.Perkins, dopo la morte di Fitzge-rald, scriverà a Zelda: «In un cer-to senso, Scott è rimasto intrap-polato nella mente della gentenell’epoca alla quale ha dato ilnome e ci sono tante cose che hascritto che non dovrebbero ap-partenere a nessun periodo inparticolare, ma a tutti quanti».Perkins comprese prima di tuttiche identificare Fitzgerald conL’età del jazz lo aveva danneg-giato. Continuò a occuparsi dellafamiglia dello sfortunato scritto-re, fece in modo che alla figliaScottie venisse pagata la retta delcollege e le fosse versato un asse-gno mensile. Si batté da subito,generosamente, per far riviverel’interesse per Fitzgerald, ma for-

se era troppo presto. Come moltialtri autori, Marcia Davenportscoprì che i consigli di Max fun-zionavano a livello quasi subli-minale: «Tutto quello che Max faè diretto all’effetto complessivodel libro…Crede nei tuoi perso-naggi, diventano completamentereali per lui… Può prendere uncaos disastroso, darti l’impalca-tura, e poi tu ci costruisci soprauna casa». Negli ultimi anni fuossessionato dalla guerra. «Papànon stai bevendo troppo?» glichiese la figlia più giovane ungiorno, nel 1942. «Churchill be-ve troppo – rispose Max – tutti igrandi uomini bevono troppo».Le scrittrici pretendevano da luiattenzioni che lui, uomo retto efedele alla moglie, non intendevadare. Una volta una di loro gli te-lefonò piangendo perché il suogatto, John Keats, stava morendo,e non si placò finché Perkins, perfarla rimettere al lavoro, non lepagò il veterinario. Spinse AnaisNin a pubblicare i suoi diari (pur-troppo su questo tema il libro nonfornisce altri particolari) ma con-fessò le sue difficoltà a lavorarecon le donne, anche se seguì mol-tissime di loro. «Le signore scrit-trici si aspettano che uno facciamolte cose per loro oltre ai lorolibri». (In realtà abbiamo vistoche, per i suoi autori di sesso ma-schile, non aveva difficoltà ad oc-cuparsi anche di cose che non ri-guardavano i loro libri). Ebbe iltempo di conoscere e seguire Ja-mes Jones, autore del futuro best-seller Da qui all’eternità.Morì il 17 giugno 1947, dopo unimprovviso colpo di febbre, lo-gorato dal troppo lavoro e debili-tato dall’alcol. Nel 1952, He-mingway gli dedicherà Il vecchioe il mare.«Sepolta sotto una pila di cartesulla scrivania di Max, c’era l’in-troduzione alla Collezione Tho-mas Wolfe che Perkins avevascritto per la Harvard Library eche stava sistemando. Come le ul-time parole di Wolfe furono la let-tera sul letto di morte per Perkins,così le ultime parole che editòMax furono il memoriale perThomas Wolfe». Questa biografiaè soprattutto la storia bellissima etragica del rapporto umano e la-vorativo tra questi due uomini, eanche il film che ne verrà trattodarà spazio al meno conosciutoWolfe, rispetto a Hemingway eFitzgerald. Le notizie più recentiassegnano a Colin Firth la partedi Perkins, a Michael Fassbenderquella di Wolfe.

Maria Ielo

Perkinsi talenti letterari

C’ erano una volta due storie co-sì belle, Iliade e Odissea, chevenivano tramandate oral-

mente di generazione in generazione. Ledue storie, secolo dopo secolo, si arric-chivano di particolari interessanti, emo-zionanti colpi di scena. Anche lo stile sifaceva sempre più moderno. I protagoni-sti acquistavano spessore e tridimensio-nalità. A volte un cantastorie, girando perle contrade dell’antichità, cantando le ge-sta di Achille e Ulisse, eliminava ungruppo di versi che gli sembravano ri-dondanti o qualche epiteto e avverbio ditroppo. Gli aedi, come si chiamavano icantastorie in quei tempi mitici, cantandoe narrando, davano il loro contributo af-finché le due storie sfiorassero il più altogrado di perfezione artistica. La loro bra-vura era confermata dall’immenso suc-cesso di pubblico. Omero, cinematogra-fica figura di aedo cieco, non è mai esi-stito. La sua creazione è stata un’abileoperazione di marketing editoriale: ipoemi omerici, Iliade e Odissea, non sa-rebbero stati creati da un singolo poeta,ma da più autori che all’inizio lavorava-no senza scrittura (non era stata ancorainventata), soltanto oralmente. Dopol’invenzione della scrittura, sedici canti,frutto di accurata selezione (comprende-vano gli episodi dell’ira di Achille e delritorno di Ulisse), furono trascritti per or-dine di Pisistrato, il primo editor dellastoria della letteratura mondiale. Qualcu-no, nei secoli passati, ha tentato di indi-viduare, studiando stili e vezzi, le perso-nalità dei diversi autori che secondo laleggenda avrebbero composto i due poe-mi, ma il primo editor era stato così bra-vo a cancellare le differenze stilistiche ele incongruenze, che non si poté mai ve-nire a capo della questione (omerica). Nell’Ottocento o giù di lì, ci fu un tale,Adolf Kirchoff, che studiò l’Odissea egli sembrò di capire che fosse compostada tre poemi indipendenti: 1) Telemachia, la prima parte, quandoTelemaco lascia Itaca per andare alla ri-cerca di notizie sul padre. Una sorta diChi l’ha visto?, come intuì un noto stu-dioso omerico, stavolta della secondametà del Novecento, Nanni Moretti (cfrCaro Diario, l’episodio ambientato nellaterra di Eolo). 2) Il nostos, o viaggio di ritorno di Ulis-se: la parte più avventurosa, quella di Po-lifemo (ufficialmente figlio di Poseido-ne, il dio del mare, in realtà creatura in-dimenticabile creata dal mago degli ef-fetti speciali Mario Bava e dal suo alloragiovane assistente Carlo Rambaldi, sì,quello di ET, cfr lo sceneggiato RaiOdissea, Le avventure di Ulisse) le Sire-ne, la maga Circe. 3) L’arrivo in patria: quando finalmentescorre il sangue e Ulisse, aiutato dal fi-glio e dai servi rimasti fedeli, fa stragedei Proci con scene splatter degne delmiglior (o peggiore, dipende dai punti divista) John Woo.Un altro tale, sempre nell’Ottocento, ogiù di lì, Wolfgang Schadewaldt, era in-

vece tra quelli che pensavano che i duepoemi fossero stati composti in modounitario, con una trama costruita in ma-niera abile, episodi ben congegnati, su-spense al punto giusto, finale a sorpresa,come il più riuscito dei bestseller con-temporanei. L’uomo, tuttavia, non nega-va interventi e cambiamenti nei sacri te-sti, avvenuti nel corso dei secoli.E alla fine arrivò Milman Parry, che nonera neanche uno studioso di Omero (co-me chi scrive, del resto, ma arrivati aquesto punto si sarà capito): gli aediavrebbero cantato improvvisando, impo-stando elementi via via innovativi su una“matrice standard”. Parry immaginò chei due testi venivano tramandati di padrein figlio solo in forma orale, come face-vano i cantastorie dell’ex Jugoslavia cheegli studiò a fondo poiché ai suoi tempiancora sciamavano numerosi per le con-trade balcaniche intrattenendo il pubbli-co con i loro canti mandati a memoriacon tecniche (ripetizioni, formulari) benprecise. Successivamente intervennequalcuno che unificò le parti dell’eposomerico, e questo qualcuno potrebbe es-sere un Omero realmente vissuto o unafactory specializzata in editing di eposomerico, chiamata appunto Omero. Gliumani cominciarono a scribacchiare nel750 a.C. Iliade e Odissea furono messeper iscritto nella Ionia d’Asia intorno al-l’VIII secolo circa. La scrittura facilitavail lavoro degli aedi. Non dovevano piùmandare a memoria migliaia di versi, ba-stava solo imparare a leggere (e scrive-re). Forse furono proprio questi aedi dal-la memoria corta a fare una prima sele-zione dei testi da trascrivere. Omero, ochi si cela sotto il suo nome, stabilì cheavrebbe fissato nero su bianco 24 cantiper l’Iliade, 24 per l’Odissea, non uno dipiù. Poi arrivarono i grammatici alessan-drini che, si sa, erano molto precisini, co-sì l’editing di tipo artistico creativo la-sciò il posto alla più arida ma più affida-bile filologia e a un certosino lavoro diemendatio (pulizia del testo), e siamo al-l’incirca nel 300 a.C.Seguiranno secoli e secoli di studi com-parati, dispute filologiche, analisi delletradizioni popolari, scavi archeologici,fumetti, trasposizioni cinematografiche,sceneggiati televisivi, un’indimenticabi-le serie animata, “Pollon”, ispirata alleavventure della figlia di Apollo tra gli deipasticcioni dell’Olimpo, ma finalmentesi arriva a una conclusione soddisfacen-te. Non si nega l’esistenza di canti primi-tivi trasmessi oralmente che hanno ispi-rato il tutto, ma non si nega neanche l’e-sistenza di un singolo autore che ha avu-to la geniale idea di raccogliere gli anti-chi testi, sistemarli e riscriverli secondoil suo personale estro artistico, usandodialetto ionico e verso esametro. Il piùgrande editing di tutti i tempi. *

*questo articolo è privo di qualsivogliarigore scientifico e filologico

Il più grande editingdi tutti i tempiLa questione omerica tra ricerchefilologiche e successi popolari

M. I.

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Anno IX - n. 35/37 - Gennaio/Settembre 201424 LettereMeridiane

A ll’aeroporto di Manaus, nelcuore dell’Amazzonia, PadreIginio accolse me e mia figlia

Gabriella. Iginio era piccoletto, camicet-ta e infradito ai piedi. Passammo la not-te in città, nella canonica adiacente allachiesa, officiata da un confratello di Igi-nio. Il giorno dopo andammo in giro perManaus, due milioni di abitanti, che allafine del 1800 conobbe un periodo di flo-ridità con le piantagioni dell’albero del-la gomma. La città ora arrancava trabancarelle e negozietti e solo il magnifi-co Teatro dell’Opera era testimone dellagloria passata.Il giorno seguente Iginio, così lo chia-mavamo tralasciando il Padre, ci con-dusse in macchina all’imbarcadero sulRio delle Amazzoni, che proprio in quelpunto si forma con la confluenza di duegrandi fiumi, il Rio Negro, dalle acquenere, e il Solimoes, dalle acque bianche.Da una sponda all’altra il traghetto im-piegò più di un’ora e poi sbarcammo aimargini della foresta. Il governo brasi-liano aveva costruito di recente una stra-da asfaltata che però in molti punti erarotta o inondata. Il fondo stradale, comegran parte dell’Amazzonia, è costituitoda argilla rossa che si attacca a tutto, maè instabile. L’Amazzonia è perciò pocoadatta all’agricoltura e vi crescono rigo-gliose solo le piante originarie della fo-resta o, dove è stato disboscato, l’erbaper l’allevamento delle mucche. Ai latidella strada si vedevano ogni tanto ca-sette in legno su palafitte, necessarie aproteggerle dalle inondazioni e dai mol-ti serpenti chiamati indifferentementecobra. In estate il livello dell’acqua inquella zona si alza di ben sedici metri ri-spetto all’inverno a causa delle piogge esoprattutto per lo scioglimento delle ne-vi sulla catena delle Ande. Sopra la ve-getazione, ogni tanto svettava maestosoil castagno, alto circa cinquanta metri,un albero che produce un frutto legnoso,grande quanto una noce di cocco, chedentro contiene noci simili all’anacar-dio. Dopo circa cento chilometri, arri-vammo alla cittadina chiamata indiffe-rentemente Careiro o Castagno, abitatada poche migliaia di persone venute dal-la foresta o da altre parti del Brasile incerca di fortuna. Il villaggio, che ha orauna banca, scuole e ospedale, si snoda ailati della strada principale. Le casette so-no in legno, poche in muratura a causadella mancanza di sabbia, necessaria aimpastare il cemento. Il fondo alla stra-da c’è la missione, affidata a Iginio dal-la sua congregazione, quella degli Obla-ti di Maria Vergine, fondata dal sacerdo-te piemontese Pio Lanteri all’inizio del1800.Padre Iginio Mazzucchi è italiano, natoa Ronzo Chienis in Trentino. Perse lamamma all’età di tre anni e il padre aquindici. Decise di farsi sacerdote e, ap-pena conseguita la maturità, i superiorilo mandarono in Brasile dove seguì icorsi di teologia e prese messa. Poi con-seguì anche la laurea in letteratura e pe-dagogia nell’università pubblica e de-dicò tutta la vita ai bambini. Alla missione fummo alloggiati in unadecorosa casetta prefabbricata e prende-

vamo i pasti con una cinquantina di ra-gazzi che studiavano e imparavano i me-stieri. Pasta o riso con pollo o pesce, fa-gioli, patate. La cucina era sempre aper-ta e ognuno poteva mangiare a volontà.I ragazzi dormivano nelle camerate, manon c’erano letti: le amache erano rac-colte e appese a ganci sulla parete. L’idea di compiere il viaggio in Amaz-zonia, a marzo del 2011, era nata daquando avevo adottato a distanza unbimbo dal nome di Marinaldo, che oraaveva venticinque anni ed era già padredi quattro bei bambini. La missione eraaffidata alle cure di Joao e della moglieNeia, una coppia deliziosa che si dedica-va anima e corpo ai ragazzi e ai bimbidell’asilo infantile. Dopo alcuni giorni,mia figlia Gabriella rientrò in Florida,dove vive, mentre io avevo ancora unmese di tempo da passare alla missione.Iginio mi portava con sé nelle visite deinuclei abitati della sua vastissima par-rocchia dove il caldo, l’umido e le zan-zare non davano tregua. Spesso una gra-gnuola di tuoni e lampi, seguita da piog-ge fragorose, toglievano un po’ di umidoche si riformava col caldo. Quella zonaè molto vicina all’equatore e il cielo è diun azzurro plumbeo, non limpido e tra-sparente come nel Mediterraneo. Era la settimana santa e con Iginio anda-vo per le funzioni di rito nelle varie cap-pelle di legno sparse vicino ai piccoli

centri abitati. Con la sua macchina luifaceva miracoli per non rimanere bloc-cato nel fango rosso dei ramal, le stradi-ne sterrate che si dipartivano dalla stra-da principale. A volte era come viaggia-re sulle montagne russe su e giù, ma Igi-nio sapeva il fatto suo. Eravamo in pri-mavera e il livello dell’acqua comincia-va a salire inondando strade e foreste.Gli alberi portavano sui tronchi in alto ilsegno lasciato dall’acqua nelle estatiprecedenti. Avevo molto tempo libero e pensai diimpiegarlo per risolvere due problemi. Ilprimo era quello del titolo da dare al mioultimo libro, ormai completato. Inizial-mente avevo pensato a Cristo è arrivatoa Crotone, che richiamava troppo CarloLevi con il famoso Cristo si è fermato aEboli. Poi avevo pensato a Cristo ritor-na a Crotone, che si avvicinava alla te-matica trattata, ma mi appariva statico.Era come dire: finalmente è arrivato acasa! Una mattina stavo ad osservare sulterrazzo un uccellino colorato che bec-cava i piccoli frutti dell’albero di assaì,e pensai che la staticità di un ritorno aCrotone poteva essere superata dal con-cetto, contenuto nel libro, di seconda ve-nuta di Cristo ripartendo da Crotone. Fi-nalmente avevo il titolo giusto: Cristoritorna da Crotone. La notte del sabato santo eravamo anda-ti per la celebrazione in una chiesetta

isolata, piena di gente semplice, povera,che però andava avanti con coraggio ecominciava ad avere la luce elettrica cheil governo faceva arrivare nei posti piùsperduti. Durante il ritorno in macchina,mi misi a canticchiare il meravigliosoinno pasquale:Victimae paschali laudes / immolentchristiani…Iginio, che celebrava tutto in portoghe-se, si accodò:Agnus redemit oves / Christus innocensPatri / reconciliavit peccatores…Col favore delle tenebre e nel cuore del-la foresta, potevo finalmente vendicarmidell’abolizione del latino nella liturgia,quella lingua che avevo studiato per ottoanni consultando il vocabolario migliaiadi volte!Il secondo problema era assai più com-plicato del titolo del libro. Avevo di re-cente scritto il breve saggio Chi è Dio,che era piaciuto ai miei lettori. A scrive-re quel saggio, che ridefiniva Dio comela Massima Emozione, mi ero decisoperché mi sentivo quasi ufficialmenteincaricato da Simmaco che, nel quintosecolo dopo Cristo, aveva scritto:Il problema di Dio è così grande che nonlo si può affrontare in un modo solo.Parlavo di questo con Iginio che miascoltava mentre nuotavamo nella gran-de piscina nel cuore della foresta, dovenon era prudente addentrarsi. Un miotentativo maldestro era finito per fortunasenza complicazioni dopo appena un’o-ra: ci poteva essere qualche giaguaro,non serpenti che escono di notte per nonessere visti dal cielo dagli urubù, gli av-voltoi che volano a schiera, e di giornodanno loro la caccia scendendo in pic-chiata. Tra una bracciata e l’altra riandavo conIginio alle prediche di Pasqua, quandoegli aveva parlato della resurrezione diGesù, un argomento che mi appassiona-va per la sua complessità. Gesù risorgedopo tre giorni e nessuno lo riconosce,nemmeno i suoi discepoli né MariaMaddalena. Una stranezza! Egli promet-teva la vita eterna, ma prima bisognavamorire, e lui stesso era morto in manieraorribile. E ancora: noi speriamo nella re-surrezione, mentre il mondo orientalespera nella fine del ciclo delle reincarna-zioni, spera cioè nella non rinascita perpaura di dovere morire di nuovo…! Ec-co qual era l’elemento comune: la paura!Dunque, il problema non era la morte inse stessa, ma la paura della morte! Quin-di, si potrebbe supporre che, quando l’u-manità capirà cosa sia la morte, la mortecontinuerà, ma non farà più paura. Nonera successo così per l’eclissi di sole?Quando non si sapeva cosa fosse l’eclis-si, i Fenici offrivano il primogenito vivoin olocausto al dio Baal per paura che ilsole non comparisse più. Ora l’eclissicontinua, ma non fa più paura: si sa co-sa è, quando comincia e quando finisce.Dunque, in sostanza Gesù ci invita ver-so la scoperta della dimensione morte e,per tranquillizzarci, ci mostra da risortole piaghe delle mani e del costato… In-somma, i grandi sogni dell’umanità sirealizzano sempre: il volo umano, la

Salvatore Mongiardo

La Foresta, Cattedrale di DioUn viaggio nell’Amazzonia profonda e il ritorno di Cristo

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Andando a GeraceIl levante alza onde verdeggiantiChe si rompono a riva spumeggiando.O Mare Ionio del golfo di Squillace,Che non trovi mai pace,Quali tesori oggi scoprirai?Altri bronzi sommersi o antichi marmi?

Lascio Locri che Nòsside cantòEd a Gerace vertiginosa ascendo.Una monaca sola mi riceveDavanti a un monastero diroccatoChe un re di Spagna -la lapide è consunta-Colmò di benefici e privilegi:Ora un libro io dono dove ho scrittoDi Cristo che ritorna da Crotone.

Caduto è il vento e il mare si ricopreDi luce meridiana. O glauco Ionio,Il più grande tesoro oggi discopri:Dalle tue sponde che Crotone bagnanoCristo inizia il ritorno tra di noi.

Composta a Tanjore, In-dia del Sud, il 23 gennaio2014, in ricordo della vi-sita da me fatta a MadreMirella Muià, nel mona-stero di Monserrato a Ge-race. Madre Mirella vive-va a in Francia e ha la-sciato Parigi e la Sorbonaper tornare nella sua ter-ra, dove è stata consacra-ta monaca dal vescovoBregantini.

S.M.

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Anno IX - n. 35/37 - Gennaio/Settembre 2014 25LettereMeridiane

vittoria sulle malattie, la fine della pauradella morte. Ma c’è uno scarto, quasiuno scotto da pagare: i sogni si realizza-no, ma non come si pensa. Il sogno diIcaro non si realizzò con le ali di penneanimali, ma con il motore per l’aereo. Ilsogno di Gesù di vincere la morte si rea-lizzerà, ma il modo dobbiamo ancorascoprirlo: è un compito che spetta all’u-manità…Al termine del mio ragionamento, Iginiosi fermò ai bordi della piscina e riassun-se il mio pensiero con due semplici ter-mini della filosofia scolastica: “Tu vuoi dire che il quid, la vittoria sul-la morte, si realizzerà, ma il quòmodo, il

modo, potrebbe essere diverso dalla re-surrezione dei morti…”.Dentro di me pensai che in Brasile nonc’erano solo danze e carnevale: c’era an-che la filosofia di San Tommaso d’Aqui-no! Un giorno Iginio mi condusse conuna piccola barca a motore a visitare lacomunità di Nostra Signora di Fatima,un nucleo abitato nella foresta più vera.Alberi altissimi erano allagati per tutto iltronco e la barca si inoltrava tra i rami. Ilsilenzio era totale, salvo il canto degliuccelli e il guizzo di qualche pesce. Dadietro un albero spuntò una piroga conalcuni bimbi che si tuffavano nell’acquacon i loro corpi ben disegnati e scuri, lapelle levigata e gli zigomi chiari, quasiluminosi, come tutti gli indi amazzonici.

La foresta lacustre si rifletteva sull’ac-qua, quasi volesse tramortire il visitato-re raddoppiando la visione della suastrepitosa bellezza. E un profumo, appe-na percettibile, aleggiava sull’acqua.Quel profumo lo conoscevo: era antico,sottile, aromatico, buono… Cercai di ri-cordare il posto dove lo avevo sentito, ealla fine mi ricordai che era simile alprofumo dell’alloro nei boschi diSant’Andrea, il mio paese in Calabria.La visita si svolse con l’istruzione delleragazze catechiste che, guidando le lorobarchette, erano arrivate dalle case sper-dute nella natura: la lezione di Iginio fudi una semplicità disarmante e rassere-nante. Durante il ritorno, impressi nellamia mente le immagini di quella foresta

che da millenni dava agli uomini, gratui-tamente, l’ossigeno da respirare. Com-mentai questo fenomeno con Iginio chesentenziò:È grazia di Dio!Alla fine Iginio mi chiese che impressio-ne mi avesse fatto la foresta sull’acqua,e io risposi:È la cattedrale di Dio!

26 maggio 2014

Saluto affettuosamente tutta la mis-sione e Padre Iginio, che quest’an-no celebra il cinquantesimo dellasua ordinazione sacerdotale. Se vo-lete fargli un saluto, la sua mail è:[email protected]

G ià in passato avevo scritto, an-che su questa rivista, di quelleossa e di quelle gallerie rinvenu-

te a Taurianova, nella prima metà deglianni ’90 durante alcuni lavori pubbliciprogettati dal Comune, nelle adiacenzedella Chiesa di Maria SS. Delle Grazie,precisamente sul lato della via Gemelli.E lamentai anche che questi cunicolivennero velocemente risotterrati rite-nendoli, senza alcuno studio approfondi-to, delle strutture di scarso valore (voxpopuli dice siano stati considerati comearterie di un’antica rete fognaria… secosì è, niente di più falso).Ma veniamo al dunque. Perché tornaresull’argomento? Una nuova scoperta, ri-salente al febbraio 2013 e che nonostan-te l’importanza è stata obliata anche dal-la stampa a cui non arrivò mai alcunacomunicazione, conferma quanto da megià denunciato negli anni passati. Questanuova scoperta è avvenuta all’internodella Chiesa del Rosario, anch’essa inmaniera casuale durante alcuni lavori direstauro, è consiste in uno stanzone sot-terraneo all’interno del quale furono tro-vati frammenti ossei la cui natura umanaveniva confermata dalla presenza di te-schi conservati in stato integro. Un sot-terraneo che circa dieci anni fa, avendonotizia della sua esistenza (ne avevo giàaccennato in passato sulla stampa), an-dai a cercare, ma non avendo mezzi edesperienza fallii nel tentativo.Cosa c’entra tutto ciò? Per capire quale rapporto vi sia fra i dueritrovamenti, avvenuti a distanza di cir-ca un ventennio, dobbiamo ricostruiretutta la vicenda.

Nella prima metà degli anni ’90, durantealcuni scavi progettati dal Comune diTaurianova per il rifacimento del mantostradale, vengono fuori ossa e gallerie. Ilcantiere viene sequestrato allo scopo dicompiere degli studi, dopodiché, ritenutala scoperta di scarso valore storico e ar-chitettonico, i lavori vengono disseque-strati e l’Ente municipale può completa-re i lavori risotterrando quindi le galleriescoperte.Intanto, nel paese si rispolvera una leg-genda tramandata oralmente che parla diun antico sotterraneo che dalla Chiesa diMaria SS. della Grazie arriva alla Chie-sa del Rosario (sita a poca distanza dal-la prima) e poi prosegue verso il torren-te Razzà e che serviva come via di fugain caso di aggressione della città. Ovvia-mente si tratta di una leggenda, difatti

storie simili si narranoanche di altre città dellaPiana di Gioia Tauro.Nel volume Radicenaquel che vidi ed appre-si, scritto da DomenicoSofia Moretti tra il1911 e il 1913 - e pub-blicato postumo da unnipote con Ursini Edi-tore -, scopro che laChiesa di Maria SS.delle Grazie fu amplia-ta grazie alla donazionedi un’ala del palazzo diGianfrancesco GemelliCareri nel quale esiste-va, e continuò ad esi-stere anche dopo l’al-largamento del Tempio

del Signore, un cammi-namento interrato delquale l’autore succitatoscrive a pag. 74 “un an-tico sotterraneo di quel-li ch’esistevano a queitempi in qualsiasi pa-lazzo magnatizio; unsotterraneo che ponevain comunicazione l’o-dierno palazzo Cavato-re, olim abitazione delGemelli, con il sepol-cro Cavatore, appuntosotto la cappella delCrocefisso”, ed ancora“dalla esagerata imma-ginazione popolare e ditaluno della famigliade’ proprietari, si parlò

di quel cunicolo con una specie di terro-re e di mistero”.L’autore, inoltre, accennava anche all’e-sistenza di sotterranei nel Convento deiDomenicani del qualela Chiesa del Rosarioera parte integrante del-la struttura. E questoaccenno (pagg. 51 e 52)viene fuori quando ilSofia Moretti parla del“famoso padre probo,che i nostri avi conob-bero di persona”, unmonaco taumaturgoche per le sue gesta ve-niva accusato di strego-neria dai confratelli e“il povero monaco ve-niva punito con prolun-gati digiuni e con la pri-gionia nel più umidosotterraneo del conven-to”. Dal testo pare chedi padre Probo scrisseanche mons. Armentano, vescovo diMileto, che lo conobbe di personaquand’era superiore del convento tauria-novese.Curioso leggere a pag. 63 nota n. 6 (chesi riferisce al testo di pag. 59) “Il carce-re stava prima sotto il Palazzo Loschia-vo ove stava anco il Regio Giudicato”.Il Palazzo Loschiavo è sito proprio nelmezzo del tragitto tra le due Chiese e pa-re strano che un nobile della caratura delLoschiavo tenesse un penitenziario sottola sua dimora, viene invece da pensareche si tratta di un vasto sotterraneo pree-sistente e adibito a carcere nel momento

che il Loschiavo, dopo l’occupazionenapoleonica, fu nominato tenente co-lonnello della Guardia Civica quindiresponsabile della pubblica sicurezzalocale. Inoltre, a pag. 59, riferendosi al quartiereposto dietro del detto palazzo, il SofiaMoretti scrive “In quel quartiere, sotto ilpalazzetto del signor Giovanni Franco,immezzo ad un dedalo di viuzze prive disole, esisteva un tunnel in muratura lun-go una decina di metri”, poi “il tunnelavea lo scopo di facilitare, di accorciareil transito della gente, per lo più campa-gnoli che, immettendosi nel vico francone uscivano dalla parte opposta sui vico-letti «triangolo», «labirinto» e altri oveaveano altri tuguri”.Detto ciò non voglio sostenere che laleggenda di cui sopra possa essere vera,quanto meno per intero perché sarebbemolto improbabile, ma almeno, dopoaver ravvisato che vi siano gli estremiper ipotizzare che i primi ritrovamenti

ossei consistono nei resti di Cavatore e/ocongiunti mentre i secondi nelle spogliemortali di qualche monaco domenicano(magari dello stesso Padre Probo), so-stengo la necessità di verificare i lorocollegamenti e, comunque, l’esigenzache vengano riaperti, esplorati, studiati,quindi valorizzati, ricordando che questinel Regno Unito sono la fortuna del tu-rismo culturale e costituiscono dei veri epropri musei sotterranei ai quali si acce-de dietro l’irrisorio pagamento di un bi-glietto che dà diritto ad una visita guida-ta da personale esperto e all’uopo im-piegato.

Gaetano Errigo

Ritrovamenti e percorsi sotterranei a Taurianova: ancora dubbiUna nuova scoperta riapre il dibattito sulla necessità di uno studio e una verifica storica

segue dalla pagina precedente

Taurianova, Chiesa del Rosario - arca dentaria(foto Giuseppe Rotta)

Taurianova, Chiesa del Rosario - sotterraneo(foto Giuseppe Rotta)

Taurianova, Chiesa del Rosario - teschio (foto Giuseppe Rotta)

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Anno IX - n. 35/37 - Gennaio/Settembre 201426 LettereMeridiane

L’ opera di Antonio Saccàpresenta delle evidentisomiglianze con quella di

Maurits Cornelis Escher. Ma non ètanto questo il punto che ci interes-sa. Il punto (e il senso preciso) checi interessa in questa sede è che lostile (o corrente) fondato dal pittorenato a Reggio Calabria il 26 ottobredel 1948 – cioè l’intersezionismo –si configura come un gioco dell’in-telligenza all’interno del quale l’ar-te brilla di nuove potenzialità e pos-sibilità nonché alla fine di inediteprospettive – una parola, questa,tanto cara al nostro pittore. Se in Escher il concetto se ne stava«dietro», alle spalle, alla base, sot-to traccia (quasi fosse tessuto di unordito e di una trama che poi ilgrande litografo olandese riuscivaa restituire ed a costruire per far vi-brare, attraverso l’intelligenza, lecorde dell’emozione, riuscendoquasi a far dimenticare o trascende-re la costruzione concettuale primi-genia) in Saccà adesso – sia purenella notevole identità di intenti – ildiscorso diventa molto diverso.Antonio Saccà, infatti – pittore pre-miato, tra l’altro, coincidenza dellecoincidenze, anche con il GranPremio d’Olanda – non parte affat-to dal concetto. In effetti al nostroartista è del tutto estraneo il signifi-cato del tessuto al di sopra del qua-le imbastire la narrazione pittorica,ovvero l’immagine che parla.Saccà non conosce nuclei, basi dacui partire, agenti primigenei, ipo-tesi di lavoro, incipit lungamentemeditati. Saccà ha invece a che fa-re esclusivamente con intersezionidi figure, di elementi, di oggetti, diimmagini, di cose disegnate. Eglinon parte affatto da alcuna idea.Piuttosto: lascia che siano gli og-getti ad interagire fra di loro. Ma lofa non alla maniera in cui Escher,per esempio nella litografia Lizarddel 1942, mette in scena i suoi ret-tili che si intersecano sì fra di loroma non lasciano alcuni margini albianco della tela o alla traccia di unaltro possibile colore o ancora, per-ché no, anche a qualche altra ipote-tica figura da disegnare. No. PerSaccà l’intersezionismo è una fac-cenda molto più radicale. Alcunefigure non immediatamente ricono-scibili per quello che sono si inter-secano e giocano intelligentementecon gli occhi e soprattutto lo sguar-do dell’osservatore. Il gioco gioca-to dal giocatore Saccà non è il con-cetto e neppure la definizione.Questo era il gioco del giocatoreEscher. Quello del pittore reggino,invece, è il divertimento della figu-ra e dello spettatore. E questa inter-sezione (figura-spettatore) lontanadal produrre o secernere un orditoo una trama a sua volta concettua-

le, va a generare invece una serie eun coacervo di elementi. Allosguardo (dello spettatore) tali di-stinti elementi si decodificano e sidecifrano, poi, semplicemente co-me lucertole (anche qui!), labbra,volti di donna, occhiali, ecc. Ma, ancora una volta: non è neppu-re questo il punto! Saccà interse-cando sapientemente oggetto esguardo crea un’opera che si trovadel tutto al di fuori del quadro ecompletamente staccata dallosguardo dell’osservatore. A metàstrada tra l’oggetto dipinto (un cap-pello, ad esempio) e gli occhi diuna gentile signora della buonaborghesia che lo osserva, si stagliauna nuvola. Dentro questo nuovoelemento meteorologico, che non sitrova nella parete dove si trova ildipinto e non sta affatto nellosguardo ammirato della buona bor-ghese, esiste e finalmente si svilup-pa pienamente l’intersezionismo.All’interno della nuvola: la figura(il cappello) e gli occhi della spet-tatrice figliano una miriade di altrefigure ed elementi incrociati e uncoacervo di sguardi obliquamenterincorrentesi l’uno con l’altro. Ilpatchwork – a questo punto – ècompleto! E, nel quadro (volendotornare per un attimo alla parete),l’intersezionismo di labbra, anima-li, occhiali, ecc. restituisce adessostraordinari effetti oculari. L’operain sé (tutta quanta l’opera realizza-ta attraverso l’intersezionismo)aderisce allo sguardo. Le due cose diventano una. La sim-biosi è completa. Lo sguardo di-

venta oggetto. La visione sono lefigure dipinte e le figure dipinte di-ventano occhi. Lo sguardo si fa te-la: e quella di Antonio Saccà si ri-vela la pittura totale. Insomma: nonesiste più soluzione di continuitàtra chi guarda il quadro e quelloche viene dipinto nel quadro. Nelteatro, questo avvenimento, sareb-be esemplabile nell’occorrenza delpubblico che diventa la commedia.L’intersezionismo si configura co-me interazione: come nei Sei per-sonaggi in cerca d’autore di LuigiPirandello. Ognuno costruisce lapropria opera, il proprio quadro! Inqualche maniera (strana, stranissi-ma…) Antonio Saccà mette a di-sposizione dello spettatore la possi-bilità stessa di farsi, egli stesso, pit-tore, artista. L’opera di Saccà, allo-ra, è definitivamente il suo stessopubblico. Non più il quadro cheegli ha dipinto, egli ci consegna al-la visione, ma – fermo restando chetale quadro è un tramite per una co-struzione da bulbo oculare – lungouna intersezione generata da iridi eda cornee alla fine una nuvola den-tro cui avviene il collasso tra tela esguardo. Escher, lo si è detto, lavo-rava sul concetto. E gli oggetti cheegli dipingeva giungevano certa-mente nel transito della visione a ri-sultare molti simili a quelli dipinti

da Saccà. Essi pure, erano abba-stanza intersecati. Ma Escher eraun tipo chiaro (e Descartes, avrebbedetto: anche distinto): i suoi ele-menti erano immediatamente rico-noscibili. Saccà, invece, sviluppatrame e orditi in totale assenta ditessuto. Saccà lavora col vento, nel-le nuvole. Nella brezza fresca delmattino. Ecco perché si può pensa-re ad Antonio Saccà come al poetadello sguardo. Ovvero: il melodiosoaedo di quello sguardo dell’osser-vatore che egli, ad un certo punto,riesce a fare diventare quadro. Certo, per riuscire a fare questa co-sa è necessario un certo sguardo.Proprio come recita il nome dellasezione del Festival di Cannes fon-data da Gilles Jacob nel 1978 e cheriunisce tre sezioni fuori concorso:Un certain regard. Un certo sguar-do da parte di chi guarda il dipintoe un certo dipinto pronto ancorauna volta ad Un certain regard.Occorre insomma una armonia(oggetto-occhio). Escher ottenevae realizzava la propria armonia at-traverso postulati dell’intelligenza.Saccà, da poeta della pittura, la rea-lizza attraverso l’intersezionismo: lacompartecipazione, il reciprocoscambio di funzioni umane sensibilie di linee colorate. In Saccà tutto ri-sulta essere più aereo, indefinito maanche più magico. Forse il risultatoè lo stesso; forse il senso è il sensodi Escher. Anche Saccà in fondogioca (e gioca duro) con l’intelli-genza. Forse il risultato è identicoma il pittore reggino ha previsto epreventivato anche un certo sguar-do. Un certo modo di guardare leopere che egli dipinge. Un dover es-sere. Un Tu-devi. Un imperativo ca-tegorico. Saccà non è un pittore. No.È un mago. Il suo intersezionismonon può essere evitato da nessuno.Proprio come un mago – uno diquelli bravi – Antonio Saccà seducechi si ferma a contemplare i suoi di-pinti. Proprio come un mago, Saccàprende la mano di chi sta osservan-do. Proprio come un mago, Saccàfissa il suo interlocutore e gli dice:“A me gli occhi, please!”.

Gianfranco Cordì

La pittura totale di Antonio SaccàLo stile e l’opera dell’artista reggino poeta dello sguardo

www.bottegascriptamanent.it

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Anno IX - n. 35/37 - Gennaio/Settembre 2014 27LettereMeridiane

I n occasione del quarto cente-nario della nascita di MattiaPreti, l’artista Wilma Pipicelli

ha realizzato ben 40 opere unichetra sanguigne su cartoncino e di-pinti su piatti e vasi in terracottaraffiguranti tratti di opere del pit-tore di Taverna. La mostra ha fatto ufficialmenteparte delle iniziative collaterali delquarto centenario della nascita delgrande pittore ed è stata ospitata aTaverna, Torino (nell’ambito delSalone del libro), San Giovanni inFiore, Catanzaro, Pizzo Calabro eReggio Calabria e Cotronei. Le Sanguigne e le terracotte dipin-te a mano della Pipicelli, sono sta-te elogiate da tanti illustri perso-naggi e critici, tra cui VittorioSgarbi.

L’Omaggio a Mattia Preti di Wilma Pipicelli

Ho scelto di rappresentare

alcuni particolari deisuoi quadri su piatti e vasi in terracotta, in quanto materiale umile della nostra terra, e dei disegni sucartoncino con matitasanguigna per mettereancora di più in risaltola sua personalità digrande artista, ma anche di semplice ed orgoglioso uomodella Calabria

Note biografiche:Docente di Arte e Immagine pres-so la scuola media “G. Pascoli” diCatanzaro.Ultimati gli studi presso il liceo ar-tistico, si è successivamente diplo-mata all’Accademia di Belle Artidi Catanzaro.Ha avuto tra i suoi maestri lo spa-gnolo Emilio Contini e il napoleta-no Carmine Di Ruggiero.Ha frequentato lo studio di EmilioGreco e lo studio di Pinetta Gra-mola a Torino.Presente con la sua arte ormai dadiverse edizioni alla maratona perla raccolta dei fondi per Telethon.Ha realizzato per il Comune diMonterosso Calabro i bozzetti delgonfalone; per lo stesso comune harestaurato in collaborazione con ilpadre, gli arnesi del Museo dellaCiviltà Contadina e Artigiana. Harestaurato statue di arte sacra e rea-lizzato presepi artistici e quadridella Via Crucis per diversi comu-ni e chiese.Ha ricevuto vari riconoscimenti epremi, tra i quali:Premio Medaglia Presidente delSenato della Repubblica; Il Pinod’Oro; Assegnazione del TitoloAccademico - Riconoscimento Ar-te Moderna Tedesca; Premio Me-dusa Aurea; Premio Vanvitelli;Mostra Venezia; Metti una canzo-ne in cornice (Sanremo).Ha partecipato a numerose mostrein varie città italiane, al Salone delLibro di Torino e a Sidney in Au-stralia.Pittrice ufficiale dell’Omaggio aMattia Preti e ambasciatrice del-l’Arte pretiana.Wilma Pipicelli al Salone del Libro di Torino, maggio 2014

Wilma Pipicelli e Vittorio Sgarbi

Ad un tratto si udirono dei rumori, luci,spade e davanti a tutti Giuda col bacio del tradimento sulla labbra

Gesù lavò i piedi ai suoiApostoli da noi nessun

padrone si fece servitore

Demetrio Trunfio, artista di Mosorrofa (Rc),

ha donato questi due dipinti alla Chiesa Madre

di Pentedattilo

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Anno IX - n. 35/37 - Gennaio/Settembre 201428 LettereMeridiane

C i trovavamo nel Departmentof “Civic Design” dell’Uni-versità di Liverpool, il più

antico dipartimento di Urbanistica dilingua inglese. Per intenderci: un eu-femismo per non dire, chiaro e ton-do, “il più antico del mondo”. Una“delicatezza” usata nei confrontidell’interlocutore di una struttura ac-cademica che edita la rivista di setto-re fondata per prima, la “mitica”Town Planning Review. In questocaso la “delicatezza” era nei mieiconfronti, dato che venivo dalprofondo sud italiano ed europeo. Nello studio-redazione di TPR era-vamo in tre docenti di “Urbanistica”o di “Town Planing”: oltre a me e aDavid, che ne era l’Editor, c’era an-che, ma sempre silenzioso, Taner, unprincipe turco naturalizzato inglese,Collega dell’Università di Nottin-gham. Era il terzo partner, e pionierecome noialtri, di quel triangolo acca-demico coordinato proprio dall’Uni-versità reggina, la più giovane e me-no conosciuta delle tre. Ma capacedi proporsi e di innovare, di convin-cere e di confrontarsi alla pari.Era il 1988, vent’anni dopo la fonda-zione dello IUSA (Istituto universi-tario statale di Architettura), e la“Mediterranea” non si chiamava an-cora così ma Università degli Studidi Reggio Calabria. Si discuteva fracolleghi sull’insegnamento dell’Ur-banistica, e su come, dopo il finan-ziamento, avviare un programma co-mune e condiviso. Era il primo anno in cui era divenutooperativo il “Progetto Erasmus”, as-soluta novità su fondi europei, e si co-minciava a conoscerci meglio lavo-rando assieme, docenti e studenti del-le Università del vecchio Continente.«Ma non insegni a Roma?», mi chie-se David.Forse, lui che aveva imparato un po’d’italiano come atto d’amore per ilnostro Melodramma, aveva notato ilmio forte accento romano, soprav-vissuto ancor’oggi a una vita in Ca-labria.«No, non insegno a Roma ma in unanuova Università nel Sud, che mi haappena chiamato in cattedra».«Se non sbaglio ci insegnano soloromani... ».«Sì, ma – tagliai corto – sia chiaro,Colleghi di prim’ordine!».Volevo assolutamente evitare il soli-to “refrain” sul leggendario “pendo-larismo” universitario italiano, perdi più a settimane alterne, che neibreak dei raduni internazionali, da-vanti a un drink e non solo, era sfottòprediletto dagli universitari britanni-ci e non solo.«E dov’è la tua Università?».«A Reggio Calabria».«E dov’è?».«In fondo allo stivale, come diciamonoi». «Ok. Ma dove?».«Di fronte alla Sicilia». «Ok. Sì, ma dove esattamente?».«Sullo Stretto di Messina».

«Ok, ma allora non è una città tantoimportante?!?».«Molto importante, invece: c’è an-che l’Università, come sai!».«E allora perché non si chiama Stret-to di Reggio, se Reggio è così im-portante?».In evidente difficoltà, abbandonatodalla geografia, mi aggrappai alloraalla storia: «C’è stato anche un grande terremo-to, quasi un secolo fa!».«Vuoi dire il terremoto di Messi-na?».Cercai di prendere fiato.Messina, sempre Messina, pensai trame e me.Non citai “Reggio Città Metropoli-tana”, eppure eravamo tra urbanisti eci saremmo subito capiti, per il sem-plice fatto che da noi non se ne par-lava ancora, e oggi, quando da noi

ancora se ne parla, ciò avviene sem-pre con maggiore disagio, e poco sifa oltre a parlarne. E non mi azzardaia citare alcun “Modello Reggio”,non osando pensare che di lì a pocosaremmo stati capaci di diventarlo.E come potevo addirittura sognarmi,allora, la candidatura a Capitale Eu-ropea della Cultura?Parlai di Omero e dell’Odissea, diUlisse e le Sirene, ma fu silenzio.Recitai il «Credesi che la marina daReggio a Gaeta sia quasi la più dilet-tevole parte d’Italia… » dal Deca-meron di Boccaccio. Ma fu ancorapiù silenzio.La letteratura evidentemente nonaprì neanche una breccia. Dopo un attimo di silenzio semprepiù sconcertante, io e Dave ripren-demmo la conversazione, con Tanertuttora silenzioso.Imbarazzato, cambiai ancora discor-so, guardandomi però bene dall’ap-pellarmi al Ponte (implacabilmentedi Messina), o, conoscendo la suacompetenza operistica da vero melo-mane, di citare Francesco Cilea, chereggino non era, né tantomeno Nico-

la Manfroce, operista palmese anchelui, e, visto che non mi erano stated’aiuto né la geografia né la storia, eneanche la letteratura, e che con l’o-pera neanche ci provai, passai all’ur-banistica.«Lo so bene, my friend Enrico, chesolo da voi ed a Venezia laureate,oltre agli architetti, anche urbanisti-urbanisti e che tendete all’eccellen-za... ».«Altrimenti non saremmo qui da voicon l’Erasmus... ».«Certamente!»,Rincuorato, feci allora ricorso all’ar-te figurativa, ma non alle celebri tav-olette di Antonello (inesorabilmente“da” Messina, e praticamente invisi-bili), ma piuttosto alla scultura.«Beh, ascolta bene Dave, a Reggionel Museo ci sarebbero i due possen-ti guerrieri bronzei, i Bronzi di R... »

Stavo per dire “Riace” quando, aun’occhiataccia di Dave, la voce misi smorzò definitivamente in gola, ela mia fronte s’era leggermente im-perlata di sudore.Intanto si erano fatte le cinque e,quando alla porta di Dave si affacciòWilliam, un Collega Very British,ringraziai le tradizioni inglesi, e ilprovvidenziale sollecito di Bill ascendere al “Club” dei docenti perprendere il tè con gli altri colleghidel Dipartimento che non partecipa-vano al meeting ma volevano co-munque darmi un benvenuto.Quante volte, negli anni, ho benedet-to quel rito del tè, al latte o al limo-ne, con zucchero di canna e appeti-tosi muffìn, che ci fece cambiare di-scorso, unendoci ai fumatori di siga-ri o di pipa che parlavano del tempo,ahi noi!, noiosamente piovigginoso.

C’era anche però fra loro chi del tem-po non parlava, ma s’infervorava sul-l’esasperata ed esasperante politicadei tagli al loro sistema universitario.

Uno di loro mostrava rosso in viso uncartello su plastica ovale (con la scrit-ta University works for Country), cheavrebbe di lì a poco attaccato al lu-notto posteriore della sua Austin, perconvincere la gente comune che l’U-niversità lavora per il Paese. Intanto Patrick, un giovane ricerca-tore lentigginoso e rossiccio comequasi tutti gli irlandesi, e Liverpoolera di fronte all’Irlanda, esaminavaattentamente quel cartello per capirese poteva adattarlo al seggiolino delsuo bimbo attaccato al manubriodella sua bici. Patrick l’avevo giànotato nel Campus, e anche in giroper la città, perché si spostava sem-pre in bici, e sempre col suo mar-mocchio di tre anni lentigginoso erossiccio come lui.Mi sembrò fantascienza, qualcosa diimpensabile da noi, quell’austerityimposta proprio a ricerca e forma-zione, ma non molti anni dopo gli ef-fetti devastanti del liberismo sulla ri-cerca e sulla formazione universita-rie si sarebbero abbattuti, inesorabi-li, anche sulle nostre Università.Il mattino seguente, prima di andar-mene per un paio di giorni a Londraper poi rientrare in sede, Dave, Ta-ner ed io firmammo i protocolli pre-visti dall’accordo preliminare. Il sa-luto fu caloroso, consapevoli cheper Liverpool, Nottingham e ReggioCalabria l’Erasmus sarebbe stato unsuccesso.Durante il lungo viaggio di ritornodall’Inghilterra, funestato dai con-sueti scioperi e ritardi aerei, mentrepensavo soddisfatto su come renderefinalmente operativo un accordo cheavrebbe fatto crescere l’Università egli allievi reggini, ebbi modo di ri-flettere su come fosse difficile farcomprendere agli altri europei, maforse anche a noi non-reggini, l’i-dentità di una città di cui si dice, nelresto della Calabria, “Riggiu nonvindiu mai ranu” (Reggio non hamai venduto grano). E, riflettendo,appena mi sfiorò il pensiero, e non cifeci troppo caso, che, pur mettendo-cela tutta per carattere, con in piùl’entusiasmo del neo cattedratico, ilcammino che mi attendeva non sa-rebbe stato, qui piuttosto che altrove,una semplice passeggiata.Del resto Reggio millenaria, che so-pravvisse a terremoti quant’altro edanche se “… non vindiu mai ranu”,avrebbe potuto ugualmente conti-nuare ad essere Reggio senza laurea-re, come già venticinque anni fa sa-pevano perfettamente anche i variDave delle Università di tutt’Europae non solo, oltre agli Architetti, an-che “eccellenti” Urbanisti-Urbanisti.E senza tecnici per garantire una mi-gliore qualità della vita.Difatti nessuno, come invece nel1988 a Liverpool, Nottingham e pertutto il Regno Unito, ha attaccato adauto e moto in circolazione a Reggiocartelli con su scritto Planner worksfor your quality of life.

Enrico Costa

Reggio non vende granoDialogo di qualche anno fa a Liverpool, durante la pausa di un meeting Erasmus

Reggio Calabria

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Anno IX - n. 35/37 - Gennaio/Settembre 2014 29LettereMeridiane

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Stella Iaria

Gli insopportabili soprusi contro i bambiniGli orchi troppo vicini agli angeli raccontati da Nicolò Angileri

Nicolò Angileri - Raffaella CatalanoANGELI E ORCHIPrefazione di Ficarra e PiconeDario Flaccovio Editore, 2009pp. 180 - Euro 12,00

U n poliziotto è muscoli e ani-ma. O, almeno, Nicolò Angi-leri, autore di Angeli e orchi,

lo è. Gli angeli esistono, ma esistonoanche gli orchi. Le storie di abusi suiminori sconvolgono sempre e raccon-tano di orchi che sono turpi oltre lapiù truce immaginazione e che spessochiamano le violenze che consumanogesti d’amore. Questi orchi hanno ilvolto di un diavolo, spesso con unafaccia familiare, furbi abbastanza dafar credere, complice l’oscurità, di es-sere demoni del buio. Sembra di ve-derlo il mostro, il bruto, il violentato-re. Un aguzzino tanto crudele quantopiccolo e insignificante.

La parola pedofilia ci fa paura e cirende cattivi: è troppo doloroso im-maginare gli occhi spaventati dellepiccole vittime, le urla soffocate nellanotte dalle enormi mani degli orchi, illoro silenzio spesso estorto con la mi-naccia di un dolore più grande. Poi,un senso di vendetta verso il carneficefa vacillare i nostri più moderniprincìpi di umana comprensione e diperdono. Dalla parola pedofilia ci di-fendiamo: la releghiamo a notizia datelegiornale, che non riguarda la no-stra vita, i nostri piccoli, le nostre ca-se. Ma riguarda i “poverini”, “quellisfortunati”, quelli che in tv hanno no-mi diversi, ma tutti la stessa faccia.Leggere quindi di queste storie e, so-prattutto, saperle vere, richiede unosforzo voluto, perché quando si vedo-no certe cose, e il libro ha il merito difarcele vedere, non si può rimanere glistessi. Nicolò Angileri ci ricorda che ipedofili di cui sentiamo tanto parlare,nei sempre più distanti telegiornali delnostro tempo, possono essere così vi-cini da non riuscire spesso a ricono-scerli. Ed è questa preoccupazioneche ci lascia il libro, preoccupazioneperò subito confortata dalla certezzadi sapere che ci sono uomini che ognigiorno medicano le anime e i sorrisidei nostri angeli, quegli angeli cheforse torneranno a essere piccoli, e sa-ranno felici pensando che per fortunapasserà ancora molto tempo prima didiventare grandi.L’autore, che scrive insieme alla gior-nalista Raffaella Catalano, con sguar-do attento, acuto, profondo e, al con-tempo, tenero e puerile, ci racconta,con grande sensibilità e umanità, sto-rie di dolore e sofferenza, spesso con-sumate all’interno della famiglia, overabbia, frustrazione e insoddisfazionesi trasformano in violenza e prevari-cazione, subite per anni dai bambini

nell’oscurità e nel terrore. Storie cheattraversano ogni classe sociale e dif-ferenti livelli d’istruzione e orienta-mento culturale, unite inesorabilmen-te dall’orrore di un crimine che si con-suma e si reitera, condonato nel silen-zio e nella passività di un sistema chenon sempre è in grado di rispondereadeguatamente. Storie di vita infranta,raccontata nei particolari più racca-priccianti, e offerti all’ascolto di chi,con competenza e professionalità, hasempre rivolto attenzione e rispettoprincipalmente alla persona, piuttostoche ai drammatici eventi. Un grovi-glio di emozioni forti e contrastantiche accompagna questi lunghi e dolo-rosi momenti e che scandisce tuttal’attività investigativa, volta all’indi-viduazione del responsabile del reatoattraverso una ricerca affannosa dellaverità che sfugge all’attenzione deipiù, se non laddove l’orrore del crimi-ne ha superato ogni limite e desta in-dignazione inevitabile e collettiva.Rabbia e sconforto per quell’abuso in-quietante e inaccettabile e voglia direstituire speranza e dignità a chi, vit-tima indifesa, ha troppo a lungo e in-giustamente patito; a chi ha vergognae paura di svelare, schiacciato da unconflitto di emozioni che genera si-lenzio e sovrasta inesorabile, nelladrammatica certezza di non avereidentità e non meritare rispetto. Infi-ne, il sorriso dei bambini, autentico edisarmante, che ripaga. La lucidità e la sensibilità nella de-scrizione degli eventi, con il rispettoper il disagio di chi soffre e resta in si-lenzio per poi rivelare, con la paura disubire ancora, è un’analisi attenta eprofonda di un costante e continuoconfronto con noi stessi e le nostreemozioni. La lettura di queste storie èaiuto autentico e concreto nel correg-gere e orientare le nostre coscienze e i

nostri più profondi e intimi pensieri. Ad Angileri il merito di aver parlatonon soltanto della drammatica realtàdi tanti nostri bambini, ma anche delsenso del percorso di crescita umana eprofessionale di chi, quotidianamentee a diverso titolo, si impegna in unambito così complesso e delicato, conla coscienza di poter costituire quelpiccolo segmento che contribuisce ainterrompere drammi che, nel silenzioe nel segreto degli anni, maturano efanno crescere tutto il loro orrore. AdAngileri il merito di non aver mistifi-cato nulla, né la rabbia e lo sdegnoverso chi si è macchiato di colpe cosìgravi che hanno negato l’infanzia achi aveva tutto il diritto di viverla nel-la sua pienezza, né la voglia di dare li-bero sfogo alle pulsioni incontrollabi-li in nome del dolore delle piccole vit-time, né i pensieri che si nutrono del-l’idea che sia giusto “gettare la chia-ve” e lasciare che il colpevole viva ilresto dei suoi giorni dentro le gelidemura di un carcere, né, dall’altra par-te, i sentimenti di segno opposto ver-so il mostro e verso chi ha collusosenza intervenire. Ad Angileri il meri-to di un’iniziativa che, nata come unasorta di auto-terapia, si rivolge ai piùche, pur sapendo che gli abusi sessua-li in danno dei minori esistono, nonsanno, però, che sono più frequenti diquanto si immagini e incidono nellapsiche della vittima spesso in modoirreversibile; ai tanti che non sanno, inrealtà, quali brutalità sono costretti avivere i bambini all’interno delle mu-ra domestiche, luogo per antonomasiadegli affetti più sani, della sicurezza edella protezione dei piccoli, delle re-lazioni fondanti l’equilibrio psicolo-gico dell’individuo. Ad Angileri ilmerito di aver raccontato esperienzespesso impossibili da pensare e, quin-di, da raccontare.

L a mafia a Messina tra il 1982(anno in cui è stato introdottonell’ordinamento italiano il rea-

to di associazione a delinquere di stam-po mafioso) ed il 1994. Un pezzo distoria criminale che Marcello La Rosaha voluto raccontarci attraverso le pagi-ne di un libro, Il fenomeno mafioso - Ilcaso Messina (edito da Armando Edito-re). Una ricerca meticolosa degli avve-nimenti che hanno dato alla “città bab-ba“ un particolare imprinting, sino afarla divenire, appunto, un caso da stu-diare. Un testo, quello di La Rosa, suddivisoin due parti: nella prima viene svilup-pata la storia degli atti posti in essere daun’associazione criminale che «deveriuscire ad incutere timore in quanto ta-le, in forza di una fama di efficienzacriminale acquisita nel corso del tempoper effetto del pregresso esercizio dellaviolenza, senza aver bisogno di manife-

starsi tangibilmente ogni volta». Due lepeculiarità che contraddistinguono ilcrimine a Messina, a partire dalla com-posizione stessa della mafia. In Sicilia,alla base del fenomeno mafioso, trovia-mo le famiglie, non necessariamenteintese come gruppi costituiti da parenti,ma da persone che, attraverso il ritodell’affiliazione, entrano in un’organiz-zazione in cui il comando non è eredi-tario. La mafia nel centro peloritano,invece, prende più a modello lo stiledella ’ndrangheta calabrese, in cui lastruttura familiare rappresenta il puntodi forza dell’alleanza. E da qui nasce il“paradosso” del caso Messina, chel’autore ben spiega nell’ultima partedel suo testo, e che è legato al fenome-no del pentimento.Infatti, se in altre realtà locali le agevo-lazioni riservate ai collaboratori di giu-stizia hanno fatto sì che si aprisserodelle crepe in seno all’organizzazione,

a Messina non si è avuta la certezzadella veridicità di quanto riportato daipentiti, i quali hanno certamente contri-buito a fare luce su alcuni degli avveni-menti più bui di quegli anni, ma hannoanche dato luogo ad uno stratagemmache ha reso possibile che ci siano exmafiosi che non hanno mai pagato per icrimini commessi.Ammaliati dalla possibilità di evitare ilcarcere duro, un gran numero di mafio-si messinesi ha deciso di collaborarecon le istituzioni, con il risultato (ama-ro) che tutti i protagonisti di quel perio-do criminale sono tornati in libertà,hanno visto il dissequestro dei propribeni, ed hanno oggi una nuova vita chenessuna traccia porta di quella passata. «A cosa serve - conclude La Rosa -aver fatto luce su episodi criminaliquando tutti gli attori beneficiano dellalegislazione speciale? Tutti pentitiequivale a nessun pentito?».

Maria Cristina Rocchetti

Marcello La RosaIL FENOMENO MAFIOSOIl caso MessinaArmando Editore, 2013pp. 320 - Euro 18,00

Tutti pentiti, nessun pentitoMarcello La Rosa racconta la mafia messinese dal 1982 al 1994

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Anno IX - n. 35/37 - Gennaio/Settembre 201430 LettereMeridiane

E ra novembre e il sole era menoinsolente dei mesi estivi quan-do scotta la pelle e brucia i fio-

ri. A novembre il sole vuole stare ac-cartocciato tra le nuvole e lancia i suoiraggi nani mentre la terra concede lezolle all’aratro. I buoi vanno, i buoitornano, i buoi sono stanchi e a serarientrano sfiniti nelle stalle.Era novembre quando mi ritrovai nel-lo studio del professore basso tarchia-to e pelato per una visita oculistica diroutine. Il professore con l’oftalmo-scopio tra le mani impazzava ossessi-vo sulle mie pupille ripetendo «in altoa destra, in basso a sinistra» e poi «inalto a sinistra, in basso a destra».Lo guardai. Aveva in viso il colore delpallore.Lasciato il micidiale strumento di pic-cole luci, si sedette, prese penna, foglie incominciò a scrivere. Si fermò unattimo e mi chiese:«È proprio lei la signora Clorinda?».Scattai dalla sedia con smarrimento egli risposi:«Si, sono io, perché?».«Credevo di avere sbagliato scheda,non riesco a capire di che si tratta…».Non seppi mai cosa scrisse in quei fo-gli. Scappai dallo studio e avrei attra-versato a nuoto il mare se non avessitrovato una zattera semiaffondata chemi condusse dall’altra parte dellostretto.Meno male che c’è un mare, una zat-tera, uno stretto!Il giorno dopo mi ritrovai, spaventata eincuriosita, nello studio di un altroprofessore di passaggio nella mia città,proveniente da uno dei più grossi cen-tri oftalmologici italiani. Il professoreera bello, alto, abbronzato e con la sen-sibilità di un elefante. Tentò di farmileggere lettere e numeri stampati suquadri illuminati. Che orrore e che ter-rore! Quei quadri erano come giudiciche emanavano sentenze, senza difen-sori, senza prove, senza appello e sen-za cassazione. Nel mio caso ci sarebbevoluta una cassazione bugiarda.Il superoculista sentenziò, con il sorri-so abbronzato di chi veniva da Vulca-no, nelle Eolie:«Con la vista che ormai ha quasi defi-nitivamente perduto non potrà né leg-gere né scrivere!».Di rimando:«No, professore, non può essere unpercorso di buio, senza specchi, sguar-di, mani, fogli, penne, libri».Avevo un “kilt” rigorosamente scoz-zese, abbinato a un maglioncino rosso.Mi strinsi nel maglioncino e nel “kilt”e tornai a casa dove mi avvolsi in unplaid inglese. Mi strinsi fra le mani letempie che pulsavano. Le dita si dime-navano impazzite come sulla tastieradi un pianoforte.Stavo forse componendo la sonata diquella che sarebbe stata la mia vita?Sì, non potevo attenermi a un profes-sore che scrive non si sa cosa né a unaltro che decreta il percorso nullo del-l’altrui destino.Io, Clorinda, volevo costruire una gi-randola di luci accese, colorate, consteli alti fino al cielo che si incontras-

sero con le stelle, confrontandosi traloro su quel lembo di nero dove i ras-segnati e i poco coraggiosi si siedono,con le mani sul grembo, per raccontar-si lamenti e rimpianti.Decisi di piantare i piedi per terra perguardare la realtà con gli occhi dellamente che, sovrapposta a quella degliocchi, costituisce una doppia mente dadove scaturiscono idee in fluorescenzae i sogni spuntano da sotto le pietre. Io, Clorinda, sognatrice e con i piediper terra, mi dissi:«Non mi arrendo a fogli sibillini e averdetti emanati da illustri e maledettiprofessori. Credo in una realtà vissutaintensamente, comunque si presenti,per elevarla in bellezza e qualità.È bellissimo sognare di vedere, è bel-lissimo vedere sfilare i colori l’unodopo l’altro, in gran parata, come sefossero soldati che stanno aspettandol’inizio della battaglia per far com-prendere agli altri da che parte stianola forza e il coraggio di vivere e dache parte stia, al contrario, “le mal duvivre”. Io, Clorinda, sogno i miei desideri, lemie voglie, le mie incapacità, le miepossibilità. Io, Clorinda, scrivo i sogni su un qua-derno, su una mano, su una pietra, suuna foglia, sul mare, nell’aria, nellecrepe della roccia dove i pipistrelli,anch’essi ciechi, sbattono le ali nellenotti di mesi che non so, nei giorni in-gialliniti nella memoria.

Sognare di me, sognare di te, sognaredi noi, ad occhi aperti, perché è diver-tente sognare ciò che si vuole. Ma ilsogno è anche visione onirica ed èproprio nei simboli onirici che ci si in-contra, o meglio, che ci si scontra conla verità, sfuggente e occulta.Quella notte ero stanca e, come quan-do si è molto stanchi, non riuscivo adormire.Mi addormentai nel tardo pomeriggio,quando il sole si stava genuflettendonel mare. Il mio sonno fu profondo, esognai di loro, di bambini che nessunosogna mai e che tutti preferiscono nonsognare.Il sogno fu animato da bambini morti-ficati nel corpo e pronti ad accoglierecon l’anima i doni. Sognai di essere, in-sieme a cinque o sei bambini, nella sa-la dei Bronzi del Museo Nazionale del-la Magna Grecia di Reggio Calabria.I bambini erano pluriminorati, ovverociechi con menomazioni aggiuntive.Sì, fu molto divertente quel sogno,pieno di gioia e di entusiasmo e la sa-la pulsava insieme ai battiti del miocuore e di quello dei bambini. Nel so-gno, la piccola Matilde, bionda e congli occhi azzurri, era cieca, muta e suuna sedia a rotelle, ma il suo sorrisoesprimeva il sorriso del mondo, diquel mondo che noi tutti sogniamo,ma che in realtà è cupo e triste. Dalsorriso di Matilde sfociavano incredi-bili emozioni di gioia, di vitalità, divoglia di comunicare il bisogno di af-

fetto, di carezze e di comprensione.Furono talmente forti le emozioni chealla fine Matilde pianse.Alle spalle di Matilde c’era Fabrizio, ilbambino cieco e su una sedia a rotelleche parlava senza fermarsi un attimo.Diceva di conoscere molte cose, di sa-per scrivere, di saper leggere e di saperusare il computer. Fu molto colpitodall’ascia che si trova nella sala dellapreistoria di quel museo; che strano,chissà perché Fabrizio, facendo rotea-re l’ascia nelle sue mani, si divertivatanto.A volte i bambini ci sembrano moltostrani e non ci rendiamo conto che so-no molto creativi, percettivi e capacidi cogliere quello che a noi sfugge. Ilsenso comune dice: “Che strano quelbambino malato”.Sì, perché la gente non comprende cheproprio il bambino cosiddetto malato ècapace di capire quello che le personecosiddette sane non capiscono, anchese gli vengono spiegati tutti i dettaglidelle cose.Alessandro, cieco e paraplegico, eramolto furbo, voleva toccare tutto, vo-leva sapere tutti i perché e non si ac-contentava delle spiegazioni e, canti-lenando, continuava a chiedere, achiedere sempre.Maria Luce, sempre ovviamente cieca,camminando carponi, si spingeva con-tro le vetrine, voleva prendere tutto trale mani, perché sapeva che le sue ma-ni leggevano al tatto, cosa che agli uo-mini comuni non è concesso. Di que-sto lei era molto divertita e ripeteva«Io lo so, io ho capito e tu no». MariaLuce aveva i jeans strappati a furia digattonare e nel sogno mi apparve an-che alzata, sollevata verso l’alto comese implorasse qualcosa ad un Dio chenon conosceva, ma del quale avevasentito parlare.Non posso dimenticare in quel sognoil piccolo Francesco, che camminavaattaccato ad un piccolo bastone biancoe che ruotava gli occhi, forse nellasperanza di riuscire a vedere qualcosa.Ruotavano e ruotavano gli occhi diFrancesco, e Francesco non si rasse-gnava a non vedere, era cerebroleso,ma che importava? Francesco non losapeva e voleva conoscere il mondo.Non so il nome dell’ultimo bambino,si stese a terra e non volle sapere piùniente.Eccoci nella sala dei Bronzi, dove io,testarda e temeraria anche nel sogno,con la complicità di alcuni dipendentidel Museo, riuscii a far salire i mieipiccoli ciechi e pluriminorati sulla te-sta dei Bronzi. I bambini incomincia-rono a toccare, con il tocco delicato dichi non vede, i lunghi riccioli, il naso,la bocca, gli occhi e poi insieme tuttala testa dei Bronzi. E poi continuai, inquel meraviglioso sogno, facendoglitoccare le spalle, i muscolosi bicipiti etricipiti, i pettorali, il tutto, natural-mente, tra mille risate, tra tanta gioia,tra tanto stupore, tra tante manine, tratante domande, tra tanto piacere di tra-sgredire e di toccare l’intoccabile.

E fu sogno, e fu realtà...Natina Pizzi vince il primo premio del Concorso letterario nazionale “La vita e i suoi racconti”

N ATINA PIZZI ha vinto il primo Premio della Seconda Edizione(2013) del Concorso letterario nazionale “La vita e i suoi raccon-

ti”, promosso dalla Rivista “Poeti e Poesia” diretta da Elio Pecora. I racconti partecipanti, secondo gli organizzatori, erano circa 15.000 eNatina Pizzi vince con “E fu sogno e fu realtà”, un racconto che ha ilsuo fulcro narrativo all’interno del Museo Archeologico Nazionale diReggio Calabria dove è stata riaperta, finalmente, la Sala dei Bronzi.Sui Bronzi di Riace, questa volta, nell’atmosfera onirica del Racconto,non sguardi contemplativi ed estatici, bensì manine, risate, emozioni dibambini ciechi e pluriminorati. Un pubblico “capovolto”, ma capace divibrazioni e percezioni tattili sfuggenti al solito pubblico.La vita è un intreccio di sogno e realtà ed è sempre possibile l’aggan-cio e lo sgancio di questi due elementi in contrapposizione. La realtàvorrebbe predominare con lo scettro della ragione e comportare rasse-gnazione e assoggettamento su ciò che il sogno vuole fare esplodere edemergere, in tutte le sue componenti. “E fu sogno e fu realtà”. È pro-prio così, un indissolubile connubio tra il vero e il falso, dove si intrufo-la l’avvincente surrealismo che intriga e insegue alla lettura. Si arriva,infatti, alla fine, all’ultima parola del racconto, volendo poi ricomincia-re e riagganciarsi alla prima parola che dà il via al racconto stesso. Èuna ruota di vertigini che gira, non molla, chiude un sipario e ne apreun altro. Un personaggio, tanti personaggi, piccoli e grandi immersi nelmondo dell’emarginazione e della discriminazione. Sono questi i mon-di che riprendono il giro e non si fermano di fronte alla bruciante realtà. Così è… E fu sogno e fu realtà.

Post Scriptum: La riapertura della sala dei Bronzi del Museo di Reg-gio Calabria, e la vittoria, sia pure parziale, dei bambini ciechi e plu-riminorati protagonisti del Racconto premiato, è una visione profeticae visionaria di Natina Pizzi. Si sa bene, perché lo grida ai quattro venti, che Natina Pizzi ripete incontinuazione: «Aprite i cancelli e fate fruire l’arte laddove il vostropensiero è incatenato». continua alla pagina seguente

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Anno IX - n. 35/37 - Gennaio/Settembre 2014 31LettereMeridiane

Su di me si addensavano nuvole rossee credo fosse il piacere, finalmentesoddisfatto, di far fruire l’arte anche achi, per volere di un dio minore, è sta-to inesorabilmente proibito di vederecon gli occhi.I miei piccoli erano felici e non voleva-no scendere e non volevano tornare nelmondo perché sapevano che dietro l’an-golo li aspettava la discriminazione.Il sogno finì perché improvvisamente sisentì un rimbombo. Anche io mi spa-ventai vedendo venire verso di me deifantasmi con gli occhi coperti da oc-chiali spessi e con lo sguardo cattivo.Mi svegliai di soprassalto, trafelata eangosciata. Mi resi conto subito cheera stato un sogno, perché solo in unsogno i bambini ciechi e pluriminoratiavrebbero potuto toccare i Bronzi diRiace di cui il mondo parla, il mondoscrive, il mondo li ha guardati e non liha visti.No, non è un paradosso: la gente guar-da e non vede e stranamente non vedel’essenziale. I sogni dell’umano si ri-

petono notte dopo notte. Più o menofrequentemente riusciamo a sognare lestesse cose perché il sacco dell’incon-scio è pieno e vuole alleggerirsi. An-che a me accadde più di una volta chequel sogno dei bambini ciechi e pluri-minorati si sia ripresentato con prepo-tenza e in svariate sequenze.Rividi, a distanza di molti anni, ilbambino senza nome che si era scara-ventato per terra rifiutando di ascolta-re, di toccare e di sapere. Fin dal pri-mo sogno si rifiutò e rifiutò il mondo.Il mondo, forse, l’aveva rifiutato, co-me spesso sa fare. L’ultima volta miapparve sul pavimento e mi accorsiche la sua anima, bianca e trasparente,saliva per raggiungere la visione com-pleta che quaggiù gli era stata arbitra-riamente sottratta.Il piccolo Francesco appariva semprecon le cornee ruotanti, temerario e in-consapevole del malessere cerebraleche lo tormentava, sottraendogli larealtà che gli sarebbe spettata.Nel sogno molte vetrine del museoerano state spezzate dai pugni di Ma-ria Luce. Ormai adolescente, con i

jeans di misura variata, ma semprestrappati, continuava a gattonare e amostrare le mani dotate di quel tattosubliminale e raffinato che solo la cie-ca può possedere. Mi apparve col capochinato verso il basso, coi muscoli ri-lassati sul petto, e aveva dimenticatoquel Dio tanto cercato.All’angolo di una sala del Museo,sempre seduto sulla sua sedia a rotelle,quasi come un reperto archeologico,Alessandro taceva, la gente gli parla-va, Alessandro taceva. Alessandro nonchiedeva. Nel sogno anch’io mi sonoavvicinata ad Alessandro e da una miacarezza ho percepito che il suo handi-cap aveva inesorabilmente stroncato lecuriosità.In quel sogno che tornava, Fabriziochiedeva ossessivamente l’ascia prei-storica. Piangeva, gridava, si dimena-va, e a niente servì dargli quell’ascia.Aveva con sé un computer portatile,cercava di scrivere, cercava di leggere,e non ci riusciva. Fabrizio diceva abassa voce di non sapere usare il com-puter.Un raggio di luce, in quel sogno, col-

piva il volto di Matilde ormai donna, ei suoi occhi sembravano dei laghi cri-stallini. Le sue mani si muovevano,tremavano, cercando quelle del padreche le stava accanto. Matilde nonavrebbe acquistato alcuna autonomia,sarebbe rimasta dipendente, dipenden-te da un padre che l’amava, ma non di-pendente da sé stessa. Rividi Matildepiangere, piangere, piangere per sé.Al ritorno nella sala dei Bronzi tentai,come in quel primo sogno, di far sali-re sulla testa dei guerrieri di Riace imiei amici ciechi e pluriminorati, or-mai adulti. La delusione fu enorme,nessuno volle poggiare le mani sulbronzo, nessuno volle sfiorare queimuscoli, quei pettorali e quei linea-menti, nessuna risata, nessuna gioia,nessuna domanda.Le nuvole rosse si addensarono sulmio corpo, mi avvolsero e mi distese-ro. Nessuna trasgressione sarebbe ser-vita, l’esperienza artistica non è con-templata per i disabili. In effetti la di-scriminazione aveva imperversato sul-l’handicap con tutta la sua ferocia e lasua violenza sottile.

E mangiava piccoli pezzi divetro levigato, la giovaneOdette. Le ricordavano sem-

pre che l’odore delle strade dove vi-vi, dove hai vissuto, non ti si attaccainevitabilmente addosso. Quei pic-coli pezzi che raccattava sulla spiag-gia, spontaneamente levigati dallarisacca del mare, e quelli che ripuli-va rendendoli innocui, dopo averliraccattati vicino a cumuli di spazza-tura, quei pezzi la rendevano, boc-cone dopo boccone, più leggera.C’era un modo di dire in quella cit-tadina da dove veniva, quando unapersona ignara di ostruire la vista al-trui, si era soliti canzonarla con unafrase “ma credi di aver mangiato ve-tro a colazione?” Era un modo ironi-co di insinuare che la persona cre-desse di essere trasparente. Odette loconosceva bene questo detto, tantevolte se lo era sentito ripetere men-tre si intrometteva, distratta percom’era, in una conversazione. E daquando aveva 12 anni, che con enor-me costanza, lei il vetro lo aveva ini-ziato a mangiare davvero. Il suo or-ganismo lo rigettava con pochi pro-blemi, ma lei instancabile, mese do-po mese continuava a ingerire unpo’ di trasparenza dopo l’altra. Odette cresceva e mentre le altre ra-gazzine misuravano l’altezza, suglistipiti delle porte, lei sperava di tro-vare la sua pelle un po’ più chiara.L’esperimento però sembrava nonfunzionare, per quanto vetro ingeris-se continuava ad essere visibile atutti.C’erano degli uomini nella città, cheal di fuori della legge ordinaria, te-nevano le redini dell’ordine fra i cit-tadini. Gli uomini avevano dei nomicosì conosciuti, e dei visi così noti,che qualcuno ingenuamente conti-nuava a chiedersi perché coloro che

il potere ufficiale lo detenevano ren-devano loro la vita così semplice. Il potere che quegli uomini possede-vano era cresciuto su corpi di citta-dini, sui loro debiti e la loro paura.Questo Odette lo sapeva. Sapeva dicome, per quanto la sua famiglia co-me lei tentasse di diventare invisibi-le, i conti a fine mese arrivavanosempre. Richiamavano alla sua at-tenzione quei modi così educati, pa-cati che riservavano alle stesse fami-glie, spoglie, stanche e silenzioseche avrebbero a breve decimato, perrenderle ancora più spoglie più stan-che e totalmente mute. I regnantiche forse vivevano troppo lontanoda quella cittadina, non avevanoscuse, per giustificare come quelmondo venisse così palesementemalmenato, ma il potere a volte nonè d’oro come le corone o maestosocome i troni. La madre della ormai fanciullaOdette passava le sue interminabiligiornate afose sulla veranda, a orla-re vestiti, o a ricamare infiniti centri-ni, che ingiallivano nei cassetti. Ave-va solo una figlia, una piccola casa eun rimpianto solo, il non essere sta-ta capace di fuggire in tempo.«Quando tutti ormai ti vedono, nonhai più scelta» a volte le ripeteva, eOdette credeva sempre di più di avercapito il modo per poter ritrovarequella scelta. Se non ti vedono, seilibera. Se non ti vedono, potrai vive-re l’impensabile e senza rimpianti.Ma il vetro non sortiva nessun effet-to, lei non spariva, ed in più l’addo-me le doleva. A metà di Marzo tutta la città era infesta, la Signora Gialla, che venera-va, inspirava e proteggeva i cittadi-ni, si ergeva maestosa al centro del-la piazza, con un sorriso benevolo euna corona di rose. Le donne anzia-ne le carezzavano i piedi nudi, chie-

dendole sostegno, mentre quellosguardo era fisso in avanti.Odette passeggiava fra le schiere disignore che ora chinavano il viso,ora mandavano baci silenziosi aquella pelle candida ornata da unatunica dorata. Conosceva a memo-ria, come chiunque in quella cittadi-na, le preghiere, che da piccola invo-cava inginocchiata tra le file di com-pagnette vestite di bianco. Sapevaquando inginocchiarsi, chiedere per-dono, e alzare il capo, sapeva comee quando. Il perché non gliel’aveva-no spiegato, non era necessario, erasottinteso, come perché le botteghechiudevano, si sapeva, non si chie-deva.Il padre di Odette non tornava a ca-sa da due giorni ormai, e la madreaveva smesso di ricamare centrini.Lo zio, che li andava a trovare ognisettimana, aveva deciso di fermarsia dormire sul divano, che poi a dor-mire non riusciva mai, e fissava laporta, con quelle tende di perlineche accompagnavano i sogni tesidel resto della famiglia. La sera delterzo giorno la ragazza chiese allozio dove fosse suo padre, e perchéancora non fosse rincasato. «Sta la-vorando» le rispondeva quello, fin-gendosi distratto. «Ma tornerà» ag-giungeva sempre, prima che la pic-cola potesse continuare a cercare ri-sposte. I giorni passavano e mai una parolavenne spesa per preoccuparsi, perdomandarsi, per cercare una solu-zione, si continuava ad aspettare da-vanti alla porta di perline, aspettan-do i giorni ancora più afosi e le in-quietanti piogge estive. Solo unanotte, un signore, con in mano unapiccola immaginetta raffigurante laSignora Gialla, entrò in casa e dopoaver parlato con lo zio salutò labambina con un bacio in fronte.

La mamma pianse per i due giornisuccessivi, troppo per alcuni, troppopoco per altri, e poi ricominciò a tes-sere e a decorare. Odette compresedurante quei giorni di pianti che ilpadre non l’avrebbe più rivisto, eper rabbia più che per tristezza, fececompagnia alla madre per alcuneore. Il vetro non avrebbe funzionato,era ormai sicura di questo, ma sichiedeva se veramente fosse quellala soluzione al male che la circonda-va. La gente che cercava di essereinvisibile esisteva dalla nascita delmondo, ed alcuni c’erano addiritturariusciti agli occhi di altri. Erano sta-ti privati di tutto ciò che un uomo vi-sibile possiede, loro pensavano diessersi liberati della paura, dellapreoccupazione, ma insieme a que-sta avevano perso la parola, la forza,la loro stessa esistenza. Che forse è questa la volontà di chidi invisibilità si nutre, rendere ilmondo vuoto e stanco, per crescere,sotto lo sguardo sorridente di unaSignora dorata e di un principe inet-to e lontano.Odette ci pensava e ripensava, pas-sando davanti alle porte chiuse adenti stretti, fra stenti e preghiere.Una città invisibile è una città privadi libertà, e per quanto questo termi-ne per lei apparisse più ampio chechiaro, si impose di trovargli un sen-so, di applicarlo alla sua vita. Pensòche fosse il tempo di smettere dimangiare il vetro, che dell’invisibi-lità non ne ha mai goduto nessuno,che quel vetro sarebbe stato il suoscudo, la sua arma; lei l’aveva toc-cato con mano il mondo dell’invisi-bilità e aveva deciso di tornare inquello reale, definita, decisa, chiara.

Martina Piromalli

E mangiava piccoli pezzi di vetro levigato

segue dalla pagina precedenteracco

nti

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Anno IX - n. 35/37 - Gennaio/Settembre 201432 LettereMeridiane

Mario La CavaLA STORIA DI SLAVOJ SLAVIKDal romanzo Una stagione a Siena pp. 104 - Euro 10,00

I l Centro Studi Calabresi delFriuli Venezia Giulia e il CentroCulturale Sloveno, di Trieste, lo

scorso 28 gennaio, hanno concertatouna serata da dedicare ad una bellastoria di amicizia, nata tra giovani dibelle speranze, come si direbbe oggi,di buona famiglia, idealisti, con laprospettiva di realizzare i propri so-gni, ma purtroppo destinati ad esitidiversi, ognuno per diverse ragioni. L’evento, seguito da un foltissimopubblico, ha avuto luogo nel “Salonedegli Incontri”, all’ultimo piano diun palazzo delle Assicurazioni Gene-

rali, da cui si gode uno dei miglioriaffacci sul Golfo di Trieste, con spet-tacoli da mozzafiato nei tramonti mapure quando il mare s’increspa e siingrigisce sotto le raffiche della ama-ta-odiata bora. Sullo sfondo di un’opera letteraria,Una stagione a Siena, i protagonistidella serata erano il giovane universi-tario calabrese Mario La Cava, natonel piccolo paese di Bovalino, sullacosta ionica della aspra Calabria, e illaureando Slavoj Slavik, provenientedalla colta e multietnica Trieste, in-contratisi casualmente in una locandaper studenti a Siena, intorno al 1930. L’iniziativa rispondeva ad un duplicescopo, da un lato promuovere gliscambi tra il Friuli Venezia Giulia ela Calabria per continuare a tenerevivo il legame di tanti calabresi conla loro terra d’origine attraverso ma-nifestazioni culturali e folcloristiche,e nel contempo far riscoprire le vi-cende di questo triestino appartenen-te alla comunità slovena, sopravvis-suto agli anni difficili per le minoran-ze nel Ventennio fascista ed alla finevittima della ferocia nazista che, ne-gli ultimi spasmi della guerra, lo de-portò a Mauthausen, dove perse lavita.

La Tavola Rotonda ha avuto princi-pali relatori lo studioso Carlo Sparta-co Capogreco, docente di Storia con-temporanea all’Università della Ca-labria, la ricercatrice e specialista instoria locale slovena Lida Turk e ilgiornalista della Rai Slovena, IvoJevnikar, entrambi di Trieste. I lavori sono stati introdotti da Mau-ra Sacher, che fungeva da moderatri-ce, la quale ha ricordato il ruolo avu-to da Stelio Crise nella ricostruzionedelle notizie che tanto premevano aMario La Cava sull’amico scompar-so. A lui, infatti, allora Direttore del-la Biblioteca del Popolo, La Cava siera rivolto, su indicazione dello stu-dioso triestino Claudio Magris, nel1974, per poter sapere se esistevanodocumenti su Slavoj Slavik. Crise, dagrande genio della ricerca bibliogra-

fica, nel giro di pochi giorni spedì al-cune lettere con un’esauriente bio-grafia dell’avvocato e della sua fami-glia, esponendo anche le vicende deiprocessi e delle persecuzioni che vide-ro coinvolto Slavoj. Parte della corri-spondenza è inserita nel volumetto Lastoria di Slavoj Slavik (Città del SoleEdizioni, 2013), da cui è partito lospunto per la serata. Dopo il saluto deiPresidenti dei due sodalizi promotori,Nicolò Molea e Sergio Pahor, che han-no lodato l’iniziativa quale esempio dileale convivenza tra persone di originidiverse, accumunate dall’unico spiritorivolto alla difesa dei deboli e dei lorodiritti, i relatori hanno dato il loro ap-porto nella ricostruzione delle due fi-gure, anche aggiungendo loro perso-nali testimonianze in merito ai perso-naggi. Ivo Jevnikar ha illustrato i mo-tivi dai quali è scaturito il progetto,menzionando l’intreccio di casualità.Per una ricerca storica su cui stava la-vorando, nel 1982 ebbe modo di parla-re direttamente con la vedova di Sla-voj Slavik, la quale ricordò che, neglianni 1975-76, lo scrittore calabrese LaCava aveva pubblicato su qualchegiornale alcuni brani di un romanzoche tanto gli premeva di portare a ter-mine e che coinvolgeva il marito.

Contattato telefonicamente, MarioLa Cava confermò di aver da anniimpostato il romanzo, intitolandoloGli amici di Siena, ma di non essernesoddisfatto e di volerlo riscrivere. Ilromanzo alla fine arrivò alle stampenel 1988 con il titolo Una stagione aSiena. Da questo in seguito fu trattauna riduzione teatrale, portata sullescene con grande successo, il cui te-sto è contenuto ne La storia di SlavojSlavik, per volontà del figlio Rocco edella famiglia, a cui va il merito di te-nere viva la memoria dello scrittore.Il progetto di presentare a Trieste illibro è frutto di altre fortunate coinci-denze, grazie ad interessi condivisicon il prof. Capogreco, studioso distoria contemporanea.Il prof. Carlo Spartaco Capogreco,dopo aver esposto alcuni dati biogra-fici, ha descritto Mario La Cava percome lo ha conosciuto personalmen-te in diverse occasioni: persona di-sponibile, affabile, sempre pronto adare spiegazioni e consigli, con unaspiccata attenzione verso i giovani,fervido sostenitore dei valori dellacultura meridionale. Accanto ai pro-pri ricordi personali dell’uomo MarioLa Cava, Capogreco evidenzia lagrandezza dello scrittore di Bovalinoquale intellettuale attento ai cambia-menti nella società e a quanto avve-niva in Italia e nel mondo. Nelle sueopere, concentrate prevalentementesull’ambiente contadino calabrese,egli riversò le speranze di riscattodelle classi sociali più deboli. I suoilibri parlano con sentita partecipazio-ne di gente emarginata, di emigranti,degli ultimi nelle classi sociali. Il suostile semplice e schietto fu molto ap-prezzato dagli intellettuali e letteratiitaliani fin dai suoi esordi. Per Slavojvenne a Trieste alcune volte, entrandoin contatto con il mondo della culturalocale, tanto che anche qui venne ri-cordato nel centenario della nascita. Lida Turk ha ripercorso la storia del-la famiglia Slavik e di Slavoj (1836-1945), nato a Trieste, figlio primoge-nito di Edvard, avvocato impegnatoin attività culturale e politica in cuiricopriva importanti cariche. Slavojconseguì la laurea in giurisprudenzaa Zagabria ma dovette convalidarlaper lo Stato Italiano e nel 1930 siiscrisse a Siena, lontano dai pericoli

che in città correvano gli esponentisloveni. Una malattia del padre lo co-strinse ad affrettarsi ed a ritornare aTrieste per subentrare nello studio le-gale paterno. Si sposò con l’istrianaEleonora Ljubica Gržinić da cui ebbetre figli. Si batté in difesa dei dirittidella minoranza perseguitata da fa-scisti liberticidi, come patrocinato-re di tanti sloveni accusati anche in-giustamente di attività contrarie allapolitica del regime. Da liberale con-vinto, mite e pacifista, non partecipòmai ad atti di violenza, tuttavia, alloscoppio della guerra tra Italia e Yugo-slavia, venne prima confinato a Gra-do e successivamente arrestato e pro-cessato dal Tribunale Speciale per laDifesa dello Stato, assieme ad unasessantina di altri non solo sloveni, li-berali, comunisti, ma anche cattolici,classificati negli Atti come “esponen-ti di idealità politiche di varia natura”.Fu condannato a 15 anni di carcere edopo l’8 settembre ’43 venne libera-to. Tornato a Trieste, fu fermato dainazisti e deportato a Mauthausen do-ve morì di stenti nel 1945. La sua sto-ria è più complessa di quanto pocherighe possono riassumerla, anche per-ché, nel periodo più difficile per lacomunità slovena, e per tutte le mino-ranze e per tanti dissenzienti, l’oppo-sizione ai regimi oppressivi mietétante vittime innocenti. Dopo il rin-graziamento di Rocco La Cava perl’attenzione tributata al padre, altriinterventi del pubblico si sono con-centrati sui ricordi personali e sui le-gami tra triestini, calabresi e sloveni.Il Presidente del C.S.C., Molea, havoluto ribadire che Slavoj Slavik puòsenz’altro essere considerato “marti-re tra i martiri”, ricordando gli altarifatti innalzare da Giovanni Paolo IIai Nuovi Martiri del XX e XXI seco-lo, tra cui le vittime del Nazismo. Nel trarre le conclusioni, la Sacherha evidenziato l’importanza emersadell’incomparabile valore dell’Ami-cizia, sentimento che può unire per-sone e genti diverse, per età, cultura,provenienza, appartenenza, e che, sefosse più rispettato, salverebbe ilmondo da pericolosi odi e incom-prensioni.

Maura Sacher

Mario La Cava e la storia di un’amicizia calabro-slovenaNel romanzo Una stagione a Siena rivive la storia di Slavoj Slavik

Rocco La Cava (al centro), figlio di Mario, con i relatori dell’incontro

Nel numero di Giugno 2013 la pre-stigiosa rivista “Il Protagora” ha re-censito il libro “Incroci di sguardi -Il Mediterraneo e la Calabria traEtà moderna e contemporanea” diSalvatore Speziale edito dalla no-stra casa editrice

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Anno IX - n. 35/37 - Gennaio/Settembre 2014 33LettereMeridiane

Marika GuerriniROSSOACEROConosco il canto del muezzinpp. 120 - Euro 13,00

U n monologo, a tratti romanzo a trattisaggio, quello di Marika Guerrini inRossoacero. Conosco il canto del

muezzin. Una riflessione su uno dei temi piùscottanti della nostra attualità: il rapporto traOriente e Occidente, il dialogo mai concluso eattraversato da scontri e incontri che hanno se-gnato la storia e il sentire comune. L’autrice,antropologa e studiosa delle civiltà orientali edell’Afghanistan, affronta il tema in manierainsolita e, invece di consegnare la sua disami-na a un saggio teorico, sceglie una formulaestremamente personale e coinvolgente. Unalettera aperta a un’altra grande voce femmini-le del Novecento, quell’Oriana Fallaci, gior-nalista e scrittrice, che, all’indomani dell’at-tentato dell’11 settembre, intervenne in ma-

niera estremamente aspra contro il mondo mu-sulmano con il pamphlet La Rabbia e l’Orgo-glio. La feroce invettiva della Fallaci viene quiripresa e smontata senza livore, quasi con dol-cezza. La Guerrini costruisce un tessuto di ar-

gomentazioni, ricordi, storie per raccontareche quel sogno americano, tanto caro alla Fal-laci, lei lo conosce, lo ha vissuto attraverso lasua famiglia, ma che ad esso ha saputo amal-gamare e far emergere un altro sogno, quellod’oriente, del suo fascino e della sua storia,troppo spesso ignorata; così come continua adessere ignorato o volutamente dimenticato ilrapporto scambievole che intercorre tra le dueciviltà, destinate inevitabilmente al dialogo oall’autodistruzione.“Il germe del pensiero che ha permesso e per-mette all’occidente la Modernità è venuto dal-l’oriente, dai suoi uomini, dalle loro cono-scenze, dalle antiche saggezze. (...) Ma l’occi-dente, nella sua folla corsa, ha eluso il verosenso della Modernità, ha sviluppato un’unicamonade in un unico senso: Materia. (…) L’o-riente non può stare a guardare la propria di-struzione che sarà sempre più cruenta e visibi-le. Ci sarà quindi una risposta. Inizierà una ri-sposta…”Queste riflessioni della Guerrini, scritte pocoprima dell’attentato alle torri gemelle di New

York, risuonano particolarmente significative eprofetiche, soprattutto quando, continuando,prevede il rafforzarsi in oriente di frange estre-mistiche e il conseguente avanzare della parteopposta “in terre che non gli appartengono”.Proprio quanto è accaduto dopo l’attentatoamericano con l’occupazione dell’Afghanistan. Così le argomentazioni geopolitiche si accom-pagnano ad accenti più accorati e intrisi disenso del tragico e della morte. La voce diCassandra, che sa e conosce e non vorrebbe,risuona in queste pagine. Cassandra, colei chesi dispera per un destino che le si rivela e chenon può cambiare, è la figura, femminile, cheparla a due universi contrapposti e uniti, ci-viltà maschili dell’odio e dello scontro. Cas-sandra e tutte le altre, la nonna Melì, la stessaFallaci, la stessa Guerrini, “vedono” bruciareTroia e tutte le Troia che verranno. A loro ilcompito di continuare a raccontare e rivelare,nel confine incerto tra verità e follia.Il volume pubblicato nel novembre 2013 daCittà del Sole Edizioni è stato proposto in nu-merosi incontri in giro per l’Italia, a Roma, an-che alla Fiera Più Libri Più Liberi, a Torinopresso l’ultimo Salone del libro, a Napoli. Adaccompagnare l’autrice esperti della civiltàaraba come Angelo Iacovella, docente di Lin-gua e Cultura araba presso l’Università degliStudi Internazionali di Roma, che invita a co-gliere l’originalità di un testo che attraversouna lettura intima riesce ad aprire a una visio-ne “diversa” dell’Oriente, lontana da pregiudi-zi e stereotipi. E di quanto ce ne sia bisogno èchiaro oggi che le bombe hanno ricominciatoa cadere e i morti di Gaza e di Israele sono an-cora una volta “un ground zero quotidiano,d’ogni alba, d’ogni tramonto. A svuotare case,scuole, riempire ospedali, svuotare anch’essi.Muto d’ogni voce di muezzin”.

Ascoltiamo il canto del muezzinIn Rossoacero di Marika Guerrini un invito a conoscere l’oriente

Oriana Schembari

Tito RosatoLAGER 22 BARACCA 12 pp. 160 - Euro 12,00

A volte sono le speranze a darci la for-za per andare avanti, per non arren-

derci, per non mollare di fronte a situazio-ni difficili. La speranza di riabbracciarel’amata Matilde ha dato tanta forza al gio-vane reggino Tito Rosato, quella necessa-ria per superare ventidue mesi di prigionianel campo di concentramento di Linz inAustria.Tito Rosato nasce 94 anni fa a Reggio Ca-labria. Nel gennaio del 1941 viene arruola-to nel corpo dell’aeronautica. Il 9 settem-bre 1943, rientrando da una breve licenza,ignaro del proclama di armistizio di Bado-glio dell’8 settembre, viene arrestato dal-l’esercito tedesco ed internato. Di quei me-si trascorsi lì, Tito scrive un diario di pri-gionia, in stile gotico, in cui ricorda queiterribili giorni: atrocità, lavori forzati suicarri ferroviari, sofferenze e tanta fame.Questo diario è stato poi letto dal professo-re Domenico Minuto che, assieme allaprofessoressa Rosalba Pristeri, hanno de-ciso di farne motivo di incontro all’Acca-demia dei Vagabondi. Un successivo arti-colo di Pristeri, apparso su “Calabria sco-nosciuta”, ne ha messo in luce l’interesse

ai fini della conoscenza di fatti storici. Ec-co perché l’editore Franco Arcidiaco hapensato che la cosa più giusta fosse farneun libro, perché i libri sono la nostra me-moria. Il diario è stato presentato al palaz-zo della Provincia di Reggio Calabria, erapresente l’autore che è riuscito a trasmette-re al pubblico presente forte emozione.Inoltre la lettura di alcuni brani da partedell’attrice Cinzia Messina, ha permessoai presenti di catapultarsi all’interno del li-bro. Giuseppe Raffa, presidente Provinciadi Reggio Calabria, ha elogiato lo scritto-re. Il giornalista Tonio Licordari ha sotto-lineato il valore di questo libro, «un diarioche racconta fatti vissuti in prima persona,una storia di eroismo e coraggio, episodiche vanno dall’8 settembre del 1943 al 25luglio del 1945, quando Tito torna final-mente ad essere nuovamente libero». Sul-l’importanza del libro come testimonianzasi è soffermato anche il professore Dome-nico Minuto dell’Accademia dei Vagabon-di, che ha parlato dell’evoluzione del dia-rio, di come si è giunti alla pubblicazionecon la casa editrice reggina Città del SoleEdizioni. A prendere la parola la professo-ressa Rosalba Pristeri, che ha curato anchela prefazione del libro, definendolo «fontestoriografica che testimonia gli eventi delperiodo, raccontando non solo il dramma diun uomo, ma anche il dramma di un popo-lo, per questo motivo è una testimonianza

storica incontestabile».Ad intervenire il presideAngelo Vecchio Ruggeriche ha domandato ai pre-senti quale sia la funzionedi un libro: «È un simboloche consiste nell’indurci afarci pensare, a risvegliareil pensiero spesso in letar-go; il libro ha lo scopo di ri-svegliarci, grazie all’imma-ginazione riusciamo a co-struire il mondo descrittonel libro e quindi a risve-gliare il pensiero e a non di-menticare il passato». Ci-tando il politologo Giovan-ni Sartori, Vecchio Ruggeri ha proseguitoaffermando come oggi «l’uomo non è piùsapiens o faber, ma è videns, quello che stadavanti agli schermi, il libro ha lo scopo diriportarci alla realtà, di risvegliarci». Sonoi libri che ci insegnano la storia, come di-ceva Cicerone, sono maestri di vita che ciaiutano a non commettere gli errori delpassato ma a fare bene per il futuro, soloconoscendo il passato possiamo operareper un futuro diverso. Ecco perché la testi-monianza del libro di Tito Rosato deve va-lere da insegnamento per coloro che loleggeranno. A concludere gli interventi uno dei tre figlidell’autore, il dottor Sergio Rosato che ha

ringraziato il padre perchéla sua sofferenza non èstata vana: è dalla soffe-renza che nasce poi l’ap-prezzare le cose belle del-la vita. Il 27 gennaio2012, Giornata della me-moria, il Presidente dellaRepubblica Giorgio Na-politano ha conferito aRosato, al Quirinale, lamedaglia commemorativadi internato, per aver su-bito le nefandezze naziste

nel campo di concentramento di Linz. Sesi chiede a Tito Rosato perché ha scrittoquesto libro, lui risponde: «Questo il moti-vo principale perché ho scritto queste pa-gine, perché i miei figli, i miei nipoti, im-parino che, dopo le sofferenze, possonovenire anche le gioie e che solo chi ha su-bito la prigionia – anche per poco tempo -chi ha sopportato tante pene, chi ha patitola fame, chi ha dovuto sottostare alle umi-liazioni, sa apprezzare poi con molta gioiala libertà; sa assaporare con gusto quantopuò permettersi, senza cercare le raffina-tezze; sa vivere con molto entusiasmo lecose belle della vita; sa comportarsi condecoro e umiltà».

Valentina Raffa

La speranza dell’abbraccio: Tito Rosato e i suoi 22 mesi di prigionia

2 agosto 2013, Kabul

Marika, ho appena or ora raccolto l’ultima foglia del tuo grande albero “Ros-so Acero”. Ad ogni pagina, un’emozione profonda ha stretto fortemente l’ani-ma mia. In ogni momento di lettura ho forzato i miei occhi, che vedono male,a leggere una pagina ancora e ancora un’altra. Poiché abbandonare la tuascrittura, i tuoi pensieri, le profezie di Cassandra sarebbe stato come spezza-re un incanto. Ti sono grata di aver ricordato spesso la mia terra, la mia polvere, le mie stel-le, il mio minareto di jam. E da questa sfera del pianeta, in un mondo lontanissimo da quello che tu, contanta passione, racconti, in solitudine, ma con “Rosso Acero” nel cuore, ti sa-luto e ti abbraccio.

IndiaS.A.R. Principessa India d’Afghanistan

Ambasciatore alla Cultura dell’Afghanistan in Europa(Lettera pubblicata all’interno del volume)

Marika Guerrini e Angelo Iacovella durante un incontro

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Anno IX - n. 35/37 - Gennaio/Settembre 201434 LettereMeridiane

Elisabetta VillaggioUNA VITA BIZZARRA pp. 240 - Euro 12,00

I n un momento in cui il romanzo si èavvicinato sempre più al racconto(non è un cavillo critico filologico la

distinzione dei due generi) liofilizzandole pagine e gli avvenimenti, riducendole aenunciati più o meno da sms o a messag-gi email, leggere una storia che si apre atrecento sessanta gradi sul ventaglio com-posito di una vita, anzi di più vite, è unpiacere che ci riporta alle felici stagionidella narrativa degli anni sessanta e set-tanta…Una vita bizzarra ci accompagna da Pie-ve di Cadore a Roma, da Roma in varieparti del mondo facendoci incontrare per-sonaggi di ogni età e di ogni condizionesociale. Di ognuno traccia il profilo, diogni ambiente delinea le atmosfere. E levicende non sono mai momenti isolati,ma s’intrecciano ad altre vicende creando

una serie di rapporti che sfaccettano icomportamenti e ne danno la sostanza so-ciale e direi antropologica senza mai per-dere la loro carica umana. Così fin dall’incipit, dove troviamo unafamiglia semplice il cui padre, Antonio, èfalegname e ama il legno e non pensa népretende di cambiare il suo stato, dove tro-viamo Adele, la moglie, che sogna di usci-re dal piccolo borgo e raggiungere Romadove c’è una sua cugina, e due ragazzi,Rosina e Davide, felici di crescere in quel-l’ambiente sano, dove ci si conosce tutti,dove si vive con poco e senza pretese.Adele però è tenace, riesce ad ottenere iltrasferimento e così Antonio da falegna-me si improvvisa portiere di uno stabile aiParioli, il quartiere borghese romano. Unostravolgimento delle abitudini, un capo-volgimento totale di tutto, tanto che loscontento si tocca con mano. Per Rosinaperò le cose non vanno proprio male, per-ché all’attico abita Benedetta, sua coeta-nea, di famiglia ricca ma disposta imme-diatamente a fare amicizia nonostante la

disparità di ceto. Sipuò dire che le due ra-gazze crescono insie-me, poi frequentanoinsieme le scuole equindi i compagni, simuovono disinvolta-mente nelle situazionidella città, assistono aciò che accade, si ren-dono conto delle tra-sformazioni epocali inatto… Elisabetta Vil-laggio è attenta ai det-tagli, ai palpiti anchesegreti delle due fan-ciulle, ne descrive iturbamenti, i fastidi, le irritazioni, i sogni,e segue la vita quotidiana di Roma e del-l’Italia con una partecipazione “politica”che non diventa mai giudizio o presa diposizione. Lei narra, e narrando ci ponedavanti alla miriade dei problemi che sisgomitolano ora in maniera complessa eora in maniera distorta, ma sempre reali-stica. Vediamo Rosina che deve adattarsia una Roma caotica e immensa, entriamonei problemi della scuola, nei rapporti dif-ficili e complicati delle famiglie, nei con-trasti generazionali, nei rimescolamentidell’amore, nelle scelte del cibo, dei ve-stiti, della musica. C’è il rinnovamento edunque addirittura sulle spiagge si vedo-no ragazze senza reggiseno, che la nottevivono lo sballo delle discoteche, che nonsi scandalizzano dell’aborto e della leggesull’aborto coi suoi tanti problemi, dellalegge sui manicomi, sulle adozioni. Flau-bert chiamerebbe tutto questo, visto conl’occhio e l’esperienza di Rosina e di Be-nedetta, una educazione sentimentale vis-suta con pieno ritmo e in modo totalmen-te aperto. La vita, poi, però, s’incaglia spesso in pic-cole ramaglie che diventano mostruosepresenze. Per esempio, l’alcool, la droga.Entra nelle famiglie lo scompiglio, la de-vastazione, il dolore, la morte e le carte simischiano facendo un mulinello infernale

dove non si riescono a ricono-scere più le connotazioni ini-ziali. Insomma, il libro è densodi avvenimenti pubblici e pri-vati che sono dei punti di forzadella narrazione, ma il pregiomaggiore è dovuto alla effica-cia delle descrizioni, alle pre-cise indagini psicologiche deipersonaggi, alla ricostruzionequasi filmica degli ambienti, eperfino dei cibi e dei vestiti. AElisabetta non sfugge niente, ea ogni gesto fa corrispondere

un moto interiore dell’anima.Da non trascurare neppure il pregio lingui-stico che non ha cadute, che ha una bellatenuta e sa intrattenere piacevolmente. In-somma, ribadisco il concetto iniziale, laVillaggio non si esprime alla maniera bar-bara degli impiegati telematici, non è crip-tica né oscura. Aveva una bella, bizzarrastoria da raccontare e l’ha fatto coinvol-gendosi e coinvolgendoci, facendoci inna-morare di Rosina, di Benedetta e di Ma-rianne, facendoci visitare molte belle cittàdel mondo, toccando tematiche affasci-nanti e scabrose, ma attenta e sempre vigi-le e accorta al dettato. Per credermi, co-minciate a leggere il libro all’inizio maga-ri “distrattamente… poi con più attenzio-ne”, Non c’è dubbio che darete ragione alprefatore, a Paolo Villaggio, che afferma:“poi sono come risucchiato ed entro nellastoria che mi fa tornare in mente un pezzodi vita, che avevo dimenticato”.Dunque non c’è dubbio che si tratti di unromanzo esistenziale e storico, dell’affre-sco di un’epoca che per molti aspetti èstata cruciale soprattutto per le acquisi-zioni dei diritti umani, ma soprattutto per-ché ha esteso e chiarito non poco il con-cetto di libertà, di amore e di amicizia. Aquesto proposito credo che la dedica diElisabetta al figlio Andreas non sia casua-le né soltanto amore che “ditta dentro”.

Elisabetta Villaggio e la “sua” vita bizzarra nell’Italia degli anni Settanta

Dante Maffia

A utobiografia, diario intimo soprattutto,attenzione agli eventi ed ai loro riflessinella formazione della propria identità,

ma anche testimonianza storico-sociologica e dicostume sulle vicende italiane dal secondo do-poguerra ad oggi con particolare focalizzazionesulla provincia d’origine, Reggio Calabria. Lavita come “viaggio meraviglioso” , una sfidacon se stesso e l’ambiente, affrontata semprecon l’ausilio di un lascito valoriale, “l’affetto, lagenuinità, la pacatezza e l’amore” della madre e“l’umiltà e la semplicità” del padre. Un arco temporale di più di 50 anni, una narra-zione che segue un andamento cronologico conqualche flashback ad interrompere la continuitàlineare. La povertà dignitosa della famiglia,l’impegno, nella veste di primogenito, a miglio-rarne le condizioni, la simbiosi affettiva col fra-tello Nino, la rievocazione dell’infanzia tra di-sagi e privazioni, ma sempre confortato dall’a-more e dalla solidarietà di famigliari ed amici. Gli anni della scuola, dalle elementari al diplo-

ma, lo spirito di sacrificio, la priorità allo studioe l’incrollabile rispetto per i docenti con tanti ri-cordi, fra cui quello della professoressa Tripepi“donna alta, bruna,.. con un fisico invidiabile”,la scoperta del talento poetico e lo sport, prati-cato con lealtà e generosità, palestra formativa,momento di socializzazione, addestramento alladisciplina. Preminenza ai fatti, ma anche riflessioni interes-santi: la centralità della fede religiosa, l’impor-tanza dell’ambiente nella genesi del carattere, laricerca dello status aequlibratus, di un equili-brio, cioè, tra realtà sensibile e sovrasensibile.La storia si snoda con stile piano per diversi ca-pitoli e tra vari accadimenti tra cui, notevoli,episodi esilaranti quali il diverbio del banano ela boccaccesca vicenda di Tom e la prostituta. Eroe balzacchiano, da romanzo dell’ottocento,in lotta con le difficoltà esterne, nelle pagine de-dicate ai concorsi, affrontati e superati con spi-rito di abnegazione accettando con rassegnazio-ne anche una clamorosa ed immeritata bocciatu-

ra. Dagli anni di capostazione al nord all’appro-do nell’amata città d’origine, negli uffici del-l’amministrazione finanziaria, fino al pensiona-mento, sempre encomiabile per zelo, solidalecon colleghi e superiori, tra esperienze e perso-ne indimenticabili, quali i dirigenti Crimi e Pe-done, non senza qualche personaggio grottesco,disegnato con affettuosa ironia. La sollecitudine costante, poi, per gli umili, lefrecciate all’inettitudine della casta, nel surrealedialogo fra lui e l’amico politico, ed , infine, ilsenso di ammirazione per l’umanità e l’intuitivitàdelle donne, la commovente rievocazione dellamadrina di battesimo ed il matrimonio con Pina.Insomma un memoriale piacevole, avvincente,una vita avventurosa, da romanzo di formazione,un sentiero dell’umiltà, un percorso esistenzialeesemplare, illuminato da una costellazione di va-lori da trasmettere alle nuove generazioni.

Placido VillariPaolo NeriIL SENTIERO DELL’UMILTÀ pp. 96 - Euro 10,00

Il racconto di un’esistenza semplice e unica

Elisabetta Villaggio alla Fiera di Roma Più libri più liberi - dicembre 2013

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Anno IX - n. 35/37 - Gennaio/Settembre 2014 35LettereMeridiane

Giuseppe CaridiL’INVENZIONE DELLA MARINA.Il processo di urbanizzazione a valle di Bova (1742-1908) pp. 96 - Euro 10,00

L a Sala Conferenze del Diparti-mento PAU della Facoltà diArchitettura ha ospitato la pre-

sentazione del libro L’invenzione dellamarina. Il processo di urbanizzazionea valle di Bova (1742-1908) di Giu-seppe Caridi. Si è parlato dell’indagi-ne sulle complesse interazioni chehanno inciso nel processo di formazio-ne dell’insediamento della marina diBova, con particolare attenzione allastoria urbana. Ha introdotto SimonettaValtieri, direttore del DipartimentoPAU; relatori: Luigi Lombardi Satria-ni, antropologo e politico italiano, giàSenatore della Repubblica Italiana,Enrico Costa, professore ordinario diUrbanistica presso il Dipartimento Pa-trimonio Architettura Urbanistica del-l’Università Mediterranea, Enzo Ben-tivoglio, professore ordinario di Storiadell’architettura presso lo stesso Di-partimento, nonché autore della prefa-zione al volume oggetto della presen-tazione, e Giuseppe Caridi, autore dellibro.Simonetta Valtieri ha spiegato comeCaridi descriva la dinamica di Bovamarina nel Settecento e nell’Ottocentoattraverso fattori politici, economici,culturali e sociali che hanno inciso nelprocesso di formazione del nuovo in-sediamento utilizzando il metodo del-la ricerca archivistica; ha inoltro postol’accento su come nel libro emerga lacivitas sull’urbs con una prevalenzadella società e della realtà sulla piani-ficazione.

Il professor Luigi Lombardi Satrianiha dipinto un quadro teorico-criticodel libro, le cui fonti del passato so-no sapere critico e non attardamentodella realtà e che è impreziosito dadue scritti: la presentazione di EnricoCosta e la prefazione di Enzo Benti-voglio. L’antropologo ha spiegato come Costasottolinei che l’architettura non possaprescindere dalla storia. Una storiache è locale ma non è localistica: Ca-ridi ha valorizzato Bova senza metter-la al centro dell’universo. Riguardo alla prefazione di Enzo Ben-tivoglio, Lombardi Satriani ha sottoli-neato come non si limiti a una compia-cenza del giovane autore, ma individuil’importanza del progetto del 1847 diCarmine Tommasini per la “novellaBova”, della cui realizzazione fu pro-motore il vescovo Rozzolino e che co-stituisce, nell’inquadramento storicocondotto da Caridi, al di là dell’analisiin termini di pensiero urbanistico,l’antefatto di quanto i Regi Decreti del1861, 1862, 1866 e 1867 sancirono. Ese da una parte ciò, come ha richiama-to l’autore, è servito ad attenuare il do-minio incontrastato della élite fondia-ria napoletana su buona parte delle re-gioni meridionali, dall’altra ha conso-lidato ed esteso le proprietà di catego-rie sociali direttamente interessate allagestione della terra e di una piccola emedia borghesia cresciuta nei capo-luoghi di provincia e nei tanti centrirurali. Lombardi Satriani ha anche affermatola validità delle fonti letterarie: Benti-voglio ha evocato, infatti, Il gattopar-do di Giuseppe Tomasi di Lampedusa,ha richiamato Corrado Alvaro e i suoiriferimenti alla vita in Aspromonte, LaCava, Seminara e tanti altri scrittoridella Calabria reggina fino a Repaci. È

emersa anche la fi-gura dei picàri chehanno santificatocon la loro ultramillenaria presenza“luoghi di impene-trabili boscaglie e diperigliose marine”:Leo il “santo”, co-me tanti picàri,scendeva alle mari-ne a portare boli dipece che le ansioseimbarcazioni atten-devano per traspor-tarle in quel granporto di Messina eda lì in tutti i porti del Mediterraneocristiano. L’antropologo ha continuatoparlando sia dell’iconografia urbanache del catasto onciario e ha conclusoricordando Umberto Zanotti Bianco,meridionalista, dietro il cui esempio siformò una schiera di sostenitori locali,e Tiberio Evoli che fondò l’ospedaledi Melito Porto Salvo. Nella lettura dell’opera di Caridi,Lombardi Satriani ha ricordato anchel’impegno di Edoardo Mollica sul pia-no didattico e scientifico: Mollica rite-neva indispensabile bandire il vittimi-smo e calarsi nelle potenzialità econo-miche, culturali e turistiche del territo-rio. Enzo Bentivoglio ha preso la paro-la continuando il ricordo di EdoardoMollica. Ha ripreso il discorso sul progetto diTommasini, voluto dal vescovo, chemetteva quindi al centro la cattedrale,e poi, dopo l’unità d’Italia, il suo spo-stamento sulla strada provinciale. Ilprofessore ha elogiato il coraggio delgiovane autore e la sua teoria che ten-de a portare la conoscenza dei luoghiin primo piano. Enrico Costa si è inve-ce soffermato sul concetto di pregiudi-

zio localistico, ritenendo lastoria locale opportuna ed’interesse scientifico e na-zionale e che un urbanistacome Caridi bene ha fatto adoperare con metodo storico.Giuseppe Caridi ha sostenu-to che l’invenzione dellamarina di Bova sia applica-bile ad altri siti con la stessametodologia. Ha inoltre affermato come lamicrostoria attiri il turista,ma crei anche un senso di

luogo attraverso le tradizioni. La presentazione del libro è stata an-che l’occasione per un dibattito su co-me i giovani in questa terra di crisipossano legarsi a un discorso di cre-scita e Lombardi Satriani ha esposto lasua idea dicendo che Reggio è unarealtà provinciale e l’unico modo perrisultare provinciali è fingere di nonesserlo: bisogna guardare all’architet-tura mondiale ed europea per recupe-rare una spinta innovativa e non ope-rarne una traduzione meccanica. È ne-cessario ascoltare e interrogare il terri-torio per dare soluzioni personali ecomplementari, essendo fedeli a sestessi ma camaleontici, con un occhioal territorio e un orecchio a se stessi eagli altri. L’editore Franco Arcidiaco, ampia-mente citato dai relatori per il suo con-tributo alla conoscenza e alla culturadel territorio, ha espresso il suo com-piacimento per la collaborazione conl’Università. In conclusione, una notapoetica regalataci dalla poetessa Nati-na Pizzi: splendidi versi sulla neces-sità di imparare ad amare la città.

Le dinamiche urbanistiche della marina di BovaGiuseppe Caridi traccia la storia del centro costiero dell’area grecanica

Stella Iaria

I l caso del barone tedesco W. vonGloeden, grande fotografo vissuto aTaormina nella “Belle Époque”, e

dei suoi giovani modelli costituisce l’og-getto della minuziosa, erudita e docu-mentata ricerca di carattere antropologicodi Mario Bolognari, I ragazzi di vonGloeden. L’autore vuole condurre il letto-re, attraverso un’analisi che abbraccia piùdi un secolo di storia, a comprendere imeccanismi occulti che consentono lemanifestazioni di fenomeni, talvolta ri-provevoli, destinati a incidere sul singoloe sulla collettività. Il barone W. von Gloeden, imparentatocon il Kaiser e sostenuto da un congruoassegno mensile, venne a Taormina allafine del secolo XIX; era ammalato di tisie cercava un clima più adatto alla sua sa-lute. Taormina era la meta ideale per talepatologia e inoltre così arroccata sul ma-re, così affascinante nei suoi scorci, cosìricca di splendidi resti, non poteva nonattrarre il giovane esteta. L’ amore per lafotografia, coltivato anche attraverso lafrequentazione degli studi dei fotografilocali, e la grande miseria dei paesani fe-cero il resto. L’attenzione morbosa verso

la bellezza efebica e la libertà di poter fa-re tutto ciò che il denaro consentiva avvi-cinarono il barone a quel mondo subalter-no di poveri ragazzi, spesso ancora prea-dolescenti, pescatori o contadini che sivendevano non solo per un tozzo di panema anche per una carezza data da maninon ruvide. Il fotografo sceglieva, pren-deva, immortalava, nascevano le suesplendide foto: opere d’arte, da cui oc-chieggiavano lo sguardo torbido e mali-zioso del Moro o di altri splendidi volti, isorrisi accattivanti, le morbose nudità,minimamente celate da paramenti di gu-sto classico. Cultura e arte. Immagini cheper potere essere vendute al turista, veni-vano travestite con costumi di un miticopassato greco-romano, ignoto a quei ra-gazzi, ma gradito agli stranieri che, spes-so, approfondivano anche la conoscenzadei modelli. Ragazzi trasformati in mercementre il paese cresce e l‘economia sitrasforma. «Dominazioni in età antica,medievale e moderna hanno profonda-mente segnato la Sicilia, ma forse l’ulti-ma di esse, quella realizzata dal potereeconomico, politico e culturale euroame-ricano contemporaneo attraverso il turi-

smo, da un punto di vista antropologico èla più interessante». Alla fine dell’Ottocento, Taormina era“luogo eletto” e “paradiso concreto” dicerto turismo che vedeva nel mondo me-diterraneo la possibile realizzazione dellapienezza di sé, al di là dei rigidi schemi diun’educazione di tipo vittoriano. Tuttaviagli efebi, “i mori” dai languidi sguardi,dalle carni lucidate dal cerone, hannoavuto la loro rivincita: la violenza subitadai modelli di allora è stata riscattata da-gli eredi di quei modelli, divenuti cittadi-ni del mondo, portatori di civiltà e liberida ogni forma di subalternità nei confron-ti delle culture nordeuropee. Questo emolto altro ancora nel saggio di Bologna-ri, dedicato alla sua Taormina di cui Ste-fano D’Arrigo ha scritto: «Taormina, miaMignon, è dove mai/ sempre s’arriva,pellegrini/ dal cuore di rughe,/ in tempoper vivere/ “obliti-obliviscendi”/ una se-conda volta la vita».

* da Gazzetta Jonica web magazine

Pina D'Alatri*Mario BolognariI RAGAZZI DI VON GLOEDENPoetiche omosessuali e rappresentazioni dell’erotismo siciliano traOttocento e NovecentoPrefazione di Franco Battiatopp. 400 - Euro 20,00

Un viaggio nella geografia dell’anima: la Taormina di von Gloeden

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Anno IX - n. 35/37 - Gennaio/Settembre 201436 LettereMeridiane

Marzia MataloneLA PROFEZIA DEL QUINTO VERTICELa prova dei Quattropp. 120 - Euro 12,00

“F antasia” e “realtà”, “con-fini” e “aperture”, “desi-derio” da sottofondo.

L’opera prima di Marzia è un in-treccio continuo di fenomeni all’ap-parenza contrastanti e frammentati.Ma solo all’apparenza. Una letturapiù attenta, che rifugga dall’etichet-tare questo libro in un puro e solo“fantasy”, come del resto di primoacchito si presenterebbe al “carolettore” più volte richiamato all’at-tenzione dalla stessa giovane autri-ce, legittima, invero, una stimolan-te analisi introspettiva. È comunqueinnegabile che gli intrecci e “le vi-te” enarrate dividano il palcosceni-co con il fantasioso viaggio intra-preso dall’eroina principale, la no-vizia Metide (o Marzia?), svilup-pando nel lettore fantasticherie in-verosimilmente quasi realizzabili.Una prima conferma promana dal-l’intento professato dalla stessaMarzia nel breve prologo introdut-tivo all’opera: “Ho cominciato – dice l’autrice – ascrivere questa storia con in menteun’idea ben precisa: creare un uni-verso fantastico, che racchiudessein sé i tratti misteriosi di una terraantica e magnifica, la Calabria, trat-ti che potessero però esprimersi li-beramente, al di là dei vincoli sto-riografici”. È, se vogliamo, una presa di co-scienza che in parte si discosta dal-la stessa che portò l’irlandese Ja-mes Joyce a palesare una sua con-vinzione: “La fantasia attecchisceladdove la realtà vuole morire”.Nella “profezia” della nostra caraMarzia, invece, l’invenzione si legaarmonicamente al reale, mediante,in primis, riferimenti toponomasti-ci: la narrazione muove, infatti, dal-la cittadina di Metauros, storiogra-ficamente rinvenibile nell’area del-l’attuale Gioia Tauro, la costa detta“Capo del re” in Reggio Calabria,precedente dimora della giovanepenna; lo stesso Sud Penisola è perantonomasia la terra calabra, i“Monti del Faggio” esplicitanol’essenza forestale effettivamentepreponderante ad alta quota nel par-co aspromontano. Molte ancora le peculiarità tutte ca-labre rintracciabili: più propriamen-te, i nomi di quasi tutti i personaggiitineranti nella storia, nell’associa-zione storica (dunque reale!) chevuole la Calabria appartenente al-l’area magnogreca. Così il nomenMetide, la mistica novizia dei MagiGuardiani del nostro racconto, ri-sente della mitologia greca, la qua-

le vuole che una delle Oceanine, fi-glia del titano Oceano e della titani-de Teti, appunto Meti o Metide, in-dichi una personificazione duale,da un lato la “prudenza”, sintomati-ca nel nostro stesso personaggiodurante tutta la narrazione, dall’al-tro anche la “perfidia”, intesa inun’accezione più moderata di “in-telligenza o astuzia”, queste ultimerappresentate come poliforme ed incontinuo cambiamento: Meti, infat-ti, era in grado di assumere qualsia-si forma desiderasse. Non meno di-cotomica la personalità della nostraMetide: diffidente della propriaprodigiosa natura all’inizio, “pru-dente” perfino nel palesarla a sestessa, prescelta a mutare nel “Mes-saggero” dai doppi poteri positivi-negativi alla fine dell’opera analiz-zata. Di matrice grecanica anche inomi di altri predestinati al viaggiorisolutore delle sorti del pianeta:Danae, la ritrovata amica della gio-vinezza, dalla pelle olivastra, occhiscuri, esotica richiama ancora lamitologia ellenica nell’omonimamadre di Perseo; il fratello di que-sta, Neilos, personaggio scontroso,irascibile e turbolento, il cui nome èl’esatto corrispondente greco diquello del fiume Nilo. Apparentemente nordico, comevuole la nostra narrazione, il nomedel guerriero che accompagna Me-tide, divenendo coprotagonista delviaggio fantasmagorico intrapreso,il “volto pallido e ampio, gli occhiverdi scuro”, un nome nobile dellatradizione anglosassone, Evander.Eppure, forse anche inconsapevol-mente, la nostra Marzia ha utilizza-to ancora un ricorso alla mitologiaromana, che a sua volta richiamal’epos greco: Evander, cui corri-sponde l’italianizzato Evandro, fi-gura dell’Eneide virgiliana, alleatodi Enea e signore della città di Pal-lante sul monte Palatino, regno ap-punto dell’arcade Evandro, il cuipopolo proveniva dalla città grecadi Argo. Perfino i nomi di Nahia eMikel, i viaggiatori provenienti dal-le terre dell’ovest, sono dichiaratividi eventi storici legati alla nostraterra d’origine: il primo, di chiaraetimologia araba, allude alla “con-taminatio” con elementi della tradi-zione saracena o, comunque, me-dio-orientale, il secondo alla rino-mata dominazione spagnola (Mikelè di evidente derivazione spagnola,ancorché variante diffusa tra i PaesiBaschi). Ed è ancora innegabile il richiamoterminologico al mondo ed alle in-tuizioni dell’Ellade antica (se vo-gliamo, anche alle credenze bipola-ri del mondo mistico e pseudomedi-co proprie dell’ethos ellenico) vie-ne riscontrato e nell’individuazionenaturalistica dei poteri degli elettiMagi Guardiani, emblema dei tra-

dizionali elementicostitutivi dell’u-niverso antico (ac-qua, aria, fuoco,vento), e nellacontrapposta artenegativo-manipo-lativa dei Guardia-ni Ribelli, la “Ne-gromanzia”, il cuitermine, compostodai rispettivi lem-mi grechi “ne-cròs”, morto, e“manteìa”, predi-zione, delinea laforma di divina-zione i cui prati-canti, detti appunto “negromanti”,cercano di evocare “spiriti”, nel pri-mo Medio Evo dichiaratamente“demoni”.L’excursus proposto, dunque, ci in-duce a ritenere confermata una li-nea-guida prontamente percettibilenella narrazione: la legittimizzazio-ne e l’interazione della cara Marziacon il territorio nostrano, il bonarioattaccamento alla terra avita, l’au-spicata nobilitazione della propriaterra natale, il tutto stimolato dal-l’elemento fantastico, mediante ilquale, con le peculiarità e la descri-zione dei luoghi di origine, si tra-sforma nella “terra ideale”. Nostredivengono di conseguenza perfinole congetture di Luigi Pirandello, ilquale così si esprime: “La fantasiaabbellisce gli oggetti cingendoli equasi irraggiandoli d’immagini ca-re. Nell’oggetto amiamo quel chevi mettiamo di noi”. Altro tema rinvenibile da una lettu-ra critica è la ricognizione dell’ideadi “confine”, di “limite”, in un’ac-cezione da un lato “oggettiva”, dal-l’altro “soggettiva”, quand’anche ledue modalità tendano sovente allaricomposizione. “Oggettivamente”il viaggio intrapreso è direzionaleoltre il confine geografico del SudPenisola, alla ricerca della metaprofetizzata, è un movimento. Mala peculiarità è propria, altresì, del-l’aspetto “soggettivo”, ulterioreviaggio sì, sebbene cammino psico-logico, e mi spiego meglio. Al di làdei riferimenti agli spostamentienarrati e che tessono la trama del-l’avventura metidea, con conse-guenti ostacoli di ogni sorta, “con-fini” appunto, la restrizione mag-giormente cadenzata è rappresenta-ta dall’inquietudine d’animo di Me-tide, “ovattata” nell’accondiscen-dente propria intuizione di conosce-re se stessa ed il mondo in minimaparte, quasi rigettando la necessitàdi riconoscere la realtà che vivedentro di sé, la sua stessa missione.È un “confine” interiore che laidentificherà per tutta l’opera, nellascoperta continua dell’IO indivi-duale.

A questo punto, apparen-temente smentendo quan-to finora asserito, si pre-sentano necessarie ulterio-ri due considerazioni lega-te alla dualità del “limite”.Per quanto riguarda il de-lineato “confine oggetti-vo”, mi è parso che ilviaggio verso nuove realtàgeografiche sia in effettiun movimento che nonconduce mai fuori i confi-ni, ma rimanga perlustrati-vo della stessa terra di par-

tenza nei diversi paesaggi che lacompongono; in secondo luogo, il“confine soggettivo” è suffragatodall’idea che le personalità propo-ste, in fondo, non siano realmentetutti i Magi e i Guerrieri presentatialla nostra attenzione, ma sfaccetta-ture caratteriali dello stesso perso-naggio principale, Metide, idealiz-zata proiezione dei tratti propri diciascun appartenente alle diversegenerazioni umane. Metide rac-chiude così la propria prudenza, laconoscenza della mentore Elisia, laprontezza di Evander, tutto somma-to la sensibilità della sorella Maia,la purezza di Danae, la testardaggi-ne di Neilos, e via dicendo. Ciò nonfa comunque che confermare da unlato l’attaccamento alla propria ter-ra natia, dall’altro che l’opera diMarzia si possa definire un “fanta-sy psicologico”. Suggestiva è ancora un’ulterioreconsiderazione provocata dalla mialettura dell’opera. Oltre la presenza,facilmente intuibile, di una “triadestrutturale”, componendosi il volu-me di ben tre generi letterari qualila narrativa, la poesia e l’epistola-rio, vi è la compresenza anche diuna “triade intenzionale”, quella le-gata appunto all’andamento psico-logico, Metide rappresentando l’“IO individuale” (perfino quello diMarzia stessa!), il diario di Metidelo sviluppo della “coscienza del-l’IO”, lo “sconosciuto lettore” l’al-terità dell’IO. Quest’ultima, poi, èl’esplicazione più congeniale perevidenziare l’“apertura” verso laconoscenza di altre culture possibi-li: lo conferma, a titolo di esempio,l’inserimento di personaggi esclusi-vi della tradizione nordica, i cui no-mi confermano tale intuizione. Nel-lo specifico, Ken e Brig si presenta-no come nomi della tradizionenord-europea: in particolare Brig èderivazione dal nome irlandese“Brighid” o “Brigid”, basato sullaradice “brigh”, “forza, potenza” enella mitologia di quei popoli Bri-gid è la dea del fuoco, della poesiae della saggezza.

Un fantasy psicologico ambientato in CalabriaLa profezia del quinto vertice, opera prima di Marzia Matalone

Rocco Polistena

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Anno IX - n. 35/37 - Gennaio/Settembre 2014 37LettereMeridiane

Margherita CatanzaritiSEGUI SEMPRE IL GATTO BIANCOpp. 144 - Euro 12,00

P er le rue del borgo antico diPentedattilo si aggirano alcu-ni gatti. Uno in particolare è

famoso per essere il soggetto princi-pale di una foto vincitrice in un con-corso fotografico indetto dal proget-to di Borghi Solidali, un gatto nerodocile e fiero. Da sabato 8 febbraioun altro gatto si aggira furtivo e in-visibile per il borgo, un gatto biancoche Margherita Catanzariti invita aseguire lungo le tracce di una storiadi amori, incontri, dolori e addii. Ilcontrasto è forte e universale, dico-tomico e quasi manicheo, biancocontro nero, concreto contro invisi-bile, ieri contro domani, nostalgiacontro futuro. Noi crediamo che idue gatti si siano incontrati davveroe abbiano condiviso scorrerie e in-dolenze per le rue di Pentedattilo,osservando incuriositi tre personag-gi che intrecciano trame sentimenta-li e sensoriali mentre attraversano lepagine di un libro di esordio, Seguisempre il gatto bianco, appunto.Questo è il libro, edito da Città delSole Edizioni, che è stato protagoni-sta di uno dei sabati letterari orga-nizzati da Borghi Solidali. Un saba-to diverso dai consueti appuntamen-

ti letterari, che hanno insistito inprevalenza sulla cifra della memoriae della ricomposizione di legamistorici, affettivi, territoriali, comuni-tari, rendendo l’area grecanica sce-nario di vestigia e simulacri, terra dipassato e di passaggio, di attraversa-mento ed erosione. Eppure, nel rac-conto che la Catanzariti ci fa dei luo-ghi che osserva mentre vi colloca isuoi personaggi, questi territori equesti paesaggi hanno l’aspetto dicredibili scenari di contemporaneitàe modernità, luoghi dove non è perforza vero che tutto è già accaduto,altro può succedere e succede, e puòessere narrato con una cifra di attua-lità e universalità odierna e cosmo-polita. Un artista newyorkese navi-gato e una ragazza calabrese si col-locano a proprio agio tra le pietre ele mura del borgo antico e lo colora-no di presenza e di presente, anchedi futuro, per quanto nel futuro pro-spettato nel libro ritorni la cifra del-la nostalgia, sentimentale stavolta,differente dallo sguardo di Tarkov-skij che invece affida proprio allemura di rudere il compito di descri-vere lo strappo dalla terra materna.Tutto ancora può accadere, anche aPentedattilo, anche nell’Area Greca-nica, anche nei luoghi dello spopola-mento; nuovi personaggi di mitolo-gia incarnata, di carne e sangue, pos-sono attraversare i sentieri tracciatidagli altri uomini e guardare senzafiato l’incanto del paesaggio senza

tempo disegnatoda una mano chealla fine del suo la-voro rimane attoni-ta, conficcata nellaterra, a contempla-re il corso del tem-po. Il libro di Mar-gherita Catanzaritiha molti elementidi fascino in quan-to romanzo, e inquanto tale potreb-be essere ambien-tato virtualmenteovunque, ma pernoi, che pensiamodi contrastare lo spopolamento el’abbandono con i racconti dei nar-ratori e con le liriche dei poeti, que-sto libro racconta che tutte le storied’amore possono essere ospitate allaperfezione nei nostri territori e neinostri paesaggi. Ci sono luoghi e territori con le piùdifferenti vocazioni, quella indu-striale, quella agricola, quella infra-strutturale, quella turistica nel sensopiù comune del termine; i nostri luo-ghi hanno la vocazione dell’amore.Solo riportare l’amore nella nostraterra le può rendere giustizia e resti-tuirle l’identità originale, quella chesoffia costante come spirito per levalli impervie e di tanto in tanto ra-duna donne e uomini attorno a rac-conti e rime che fanno risuonare le

corde dell’amore, essenzadelle alte espressioni diumanità. Grazie a Margherita che hafatto vibrare queste cordecon la lettura di intensibrani del suo libro, grazie aPeppe Platani che ha pizzi-cato le corde della sua chi-tarra in splendido accom-pagnamento, grazie a Hol-den Matarazzo che ha illu-

strato con la sua arte grafica le paro-le recitate, grazie a Franco Arcidiacoche ha il coraggio dell’amore per laletteratura e rende possibile che tut-to possa ancora essere raccontato,quindi tutto possa ancora accadere,tutto si possa ancora costruire. Il fu-turo è nella nostra forza e volontà dinarrazione.

Mentre scrivevamo queste paroleè accaduto davvero qualcosa. Ilbooktrailer del libro di Margheri-ta Catanzariti ha vinto il concorsoBooktrailers Online Awards 2014in tre categorie, miglior montag-gio, migliore scenografia, miglio-re sceneggiatura. Il finale noncambia, anzi sì: il futuro DAVVE-RO è nella nostra forza e volontàdi narrazione.

Gatto nero, gatto bianco tra le rue di PentedattiloCon Margherita Catanzariti tra passato, futuro e letteratura nei borghi dello spopolamento

Alessandro PetronioVeronica Spinella

Un’ulteriore curiosità potrebbespingerci a considerare ancora lostesso personaggio alterità rispettoalla componente predominante delSud Penisola: la stessa radice“brig” è presente nell’onomastica“Brig- Glis”, italianizzata in Briga,cittadina del Canton Vallese sviz-zero, e quindi a nord del Sud Peni-sola, laddove per “Penisola” è leci-to ritenere possibile anche l’inter-pretazione più estensiva della “Pe-nisola Italia”. Le riflessioni che ho esposto, co-munque, sottendono un desideriounico, che la nostra Marzia ha benevidenziato: “trovare una realtà cuiappartenere e aderire perfettamen-te”. È l’augurio che dovremmoscambiarci gli uni gli altri, che lanostra amata terra divenga “realtàcui appartenere”, sottraendoci,perché no, anche fantasticando esoprattutto con una seria presa dicoscienza, ai “limiti” che la detur-pano e non la nobilitano, straordi-narietà che invece la nostra giova-ne autrice Marzia ha ripropostocon quest’opera che supera persinoogni pregiudizio connaturato.

segue dalla pagina precedente

Michela CogliandroMIA MADRE MI SPAZZOLAVA I CAPELLIpp. 104 - Euro 10,00

1 00 pagine di puro amo-re, incondizionato, ecco

l’ultimo piccolo tesoro frut-to della penna di MichelaCogliandro, delicato e pre-zioso come un bocciolosimbolo dell’amore filialeche lega per sempre le radi-ci alle loro appendici profu-mate. Mia madre mi spaz-

zolava i capelli, pubblicato per Città del Sole Edizioni,ha il respiro dei romanzi firmati dal Romanticismo in-glese, di quella letteratura mista di timori e pensieri tan-gibili che, soprattutto durante l’epoca vittoriana, hannoriempito il cuore di molte donne. Tra le righe è possibi-le leggere anche la rapidità del tratto con cui questa sor-ta di diario delle emozioni e dei ricordi è stato scritto, fu-gace ma permanente come solo i grandi dolori sanno es-sere. Michela ripercorre gli anni felici, l’infanzia com-posta e allegra divisa fra la Calabria e i ricordi di Pado-va nei racconti della madre veneta, la dedizione di que-st’ultima nel regalarle la serenità ad ogni costo e la li-bertà delle regole giuste.

Ma come spesso accade,la vita quella vera, irrom-pe a stravolgere la quoti-dianità. Ha gli occhi della malattia che non lascia scam-po. La donna che Michela ha sempre amato visceral-mente, interpretando carnalmente il legame che lega ma-dre e figlia, è ormai l’ombra di se stessa, sfigurata da unmale che non le lascia scampo. Davanti alla morte di ungenitore, poi, ogni figlio torna alla nudità natale, indife-so e solo nonostante il mondo attorno. La paura di vivere, di non riuscire a capire quale sia dav-vero la Vita e quale solo un’illusione di bellezza, un con-tenitore vuoto di speranze e ricordi. Ognuno di noi ten-ta di proteggersi dall’energia vitale o di aggrapparsi adessa come può. Ma quanto è difficile comprendere l’Al-tro in questi suoi sforzi? Quanto è difficile riuscire acomprendere fino in fondo i gesti, le parole ed ancor piùi silenzi di chi ci ha messo al mondo? La Cogliandro tenta di dare una risposta ai quesiti che legraffiano l’anima, la rendono fragile nei momenti in cuidovrebbe avere più forza. Diventa vittima e carnefice deisuoi stessi dubbi perché: “Perdere un’occasione d’amorenon significa non farsi amare, ma abbandonarsi all’amo-re che vuole esprimersi, non dare all’altro la possibilità diricevere il nostro amore, qualunque cosa ne voglia fare”.È ammirevole la capacità con cui Michela Cogliandro siariuscita a dar voce al proprio dolore, a trasformare l’inti-mità estrema del rapporto con la madre, abbia riapertoquei cassetti della memoria che si vorrebbero serrare. Unpiccolo libro ma con un grande messaggio di amore.

Da Michela Cogliandro un dono d’amore filiale Letizia Cuzzola

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Anno IX - n. 35/37 - Gennaio/Settembre 201438 LettereMeridiane

Antonino MeduriIL TRAM A REGGIO CALABRIA pp. 200 - Euro 20,00

G remita la Sala Conferenzedel Dipartimento di Giuri-sprudenza dell’Università

Mediterranea, per la presentazionedel libro Il tram a Reggio Calabria diAntonino Meduri. Si è parlato di unagrande opera realizzata in un periododi rinascita; la Reggio piegata e di-strutta dal terremoto del 1908 checon grande forza e una crescente vo-glia innovatrice, che andava al di làdella semplice ricostruzione dellacittà stessa, riuscì a far sorgere il de-siderio di proiettare Reggio verso unflorido avvenire e portò a compierescelte innovative adeguate alle futurenecessità della popolazione.L’idea del tram scaturì appunto dalbisogno di adeguare la città alle nuo-ve tecnologie in materia di trasportopubblico urbano. Relatori: FrancoArcidiaco, editore, Mirella Marra, di-rettore dell’Archivio di Stato di Reg-gio Calabria, Francesco Russo, ordi-nario del Dipartimento di Ingegneriadei Trasporti all’UNIRC, e AntoninoMeduri, autore del libro. Presenti insala anche i nipoti di Rodolfo Zehen-der e di Antonio Lombardo, fondato-re e liquidatore della società del tram. Dopo i saluti dell’editore Arcidiaco,è intervenuta Mirella Marra testimo-ne del grande lavoro di ricerca e discavo archivistico sviluppato dall’au-

tore. La direttrice ha posto l’accentosulla passione che mette le ali alla ri-cerca scientifica e sul grande amoreche porta a indagare minuziosamentesui documenti di tutti i fondi archivi-stici. Un esempio di questa passioneè costituito dalla donazione di più dicento fascicoli, che descrivono cro-nologicamente la società che ha datovita al tram, da parte dell’avvocato

Domenico Trapani Lombardo. Marraha esposto la sua sensazione nel leg-gere il libro, quella del forte deside-rio di rinascita a vita nuova della cittàad appena tre anni dal terremoto; neha sottolineato il valore storico e ilprocesso di osmosi con la PrimaGuerra Mondiale e la crisi economi-ca: una piccola storia che si coniugacon la grande storia. L’esposizionedel libro è piana, è una sequenza diavvenimenti che si legano tra loro.Leggendo il libro si possono evince-re anche gli eventi negativi, peresempio gli atti vandalici sulle vettu-re del tram, e con questo la dottores-sa Marra ci ha riportato con i piediper terra, parlando anche dei proble-mi che coniugano passato e presente.Francesco Russo ha posto invecel’attenzione sulle diverse interpreta-zioni alle quali si presta il libro. Unadelle prime letture è da giallo econo-mico: una società costituita intera-mente da imprenditori, espressionedella buona borghesia illuminata reg-gina, viene deliberatamente ostacola-ta e poi distrutta dall’Ente pubblico.Una seconda lettura è da libro storicoe riguarda l’imprenditoria formidabi-le del periodo post-terremoto, neemerge una storia civile inimmagina-bile capace di produrre un servizioche andrà a competere con città comeMilano e Torino. Una terza lettura è da storia negata:un servizio che dura un ventennio mapoi viene soppresso e relegato all’o-blio per quasi ottant’anni.

Secondo il prof. Russo la società chediede vita al tram era così avanzatache, nel 1918, arrivò a stilare un ban-do di assunzione che prevedeva ungrande impiego di personale femmi-nile; quello che è incredibile è chedall’Ente pubblico arrivò la sollecita-zione a licenziare le donne e sosti-tuirle con gli uomini. Fu una storia di grande civiltà che vi-

de nascere una società privata chenon percepì mai alcun contributopubblico; il risultato fu che la miglio-re società civile reggina si ritrovò asoccombere per mano del poterepubblico. Dalla ricerca emerge la fi-gura dell’ingegnere Rodolfo Zehen-der, un grande professionista regginoche, come ben ha sottolineato il prof.Russo, ha ben chiaro (nel 1918!) ilconcetto di “rete dei trasporti” e rea-lizza un progetto che ha una formida-bile valenza ingegneristica e unaconcreta struttura economica. La mi-gliore borghesia reggina rende Reg-gio la “Grande Reggio”, un punto diriferimento per il meridione d’Italia.Russo, nella sua esposizione, ha at-traversato tutti i momenti più impor-tanti della storia del tram reggino, fi-no allo scioglimento della società nel1937, che comporterà la soppressio-ne del servizio tranviario e la sua so-stituzione con gli autobus, ponendol’accento su come lo Stato fascistasia stato un grande responsabile diquesta scellerata decisione. Tra l’al-tro non si tenne in conto che il tramera alimentato dall’energia elettrica,di cui la nostra regione era una gran-de produttrice, mentre gli autobusavevano bisogno del petrolio che bi-sognava importare.L’autore Antonino Meduri nel suo in-tervento ha preferito esporre una pic-cola cronologia degli eventi, esaltan-do l’impresa e sottolineando le aspet-tative e le speranze: «La vicenda deltram è andata di pari passo con lagrande Storia di quegli anni, dallagrande guerra all’insediamento delfascismo». La serata è proseguita conun’immersione nella bella Reggio diinizi ‘900, una città in movimento,grazie alla proiezione di un videod’epoca che testimonia di una cittàcapace di reagire con tenacia e corag-gio al tragico evento del 1908. Sonoseguiti gli interventi degli storiciAgazio Trombetta e Franco Arillotta. Il primo ha raccontato un simpaticoaneddoto sul perché la fermata difronte al cine-teatro “Siracusa” fosseobbligata, lì infatti si suonava il pia-noforte anche di mattina e si accalca-va gente e molto spesso l’autista ap-profittava della sosta e scendeva a

bere un caffè. Il secondo haelogiato la passione di Me-duri, testimone di una“Reggio bella e gentile”, ri-costruita con in stile liberty,del quale è rimasta purtrop-po solo qualche pallidatraccia. A chiusura della serata Ar-cidiaco ha stimolato i pre-senti chiedendo se esistaancora una borghesia illu-minata in città; Aldo Vara-no, direttore di Zoomsud,ha sostenuto di non ricorda-re alcuna borghesia illumi-nata a Reggio, ma solo i

gruppi dirigenti voraci che imperver-sano dagli anni ’50. Varano ha parla-to di un grosso gap fra ricchezza chesi riesce a produrre e ricchezza che siconsuma, e come questo meccani-smo ne inneschi un altro altrettantopericoloso che chiama in causa la po-litica e la redistribuzione del reddito;affermando come l’intellettuale sisenta inutile in questo contesto e co-me tutto ciò tenga basso il profilodella città che, anche se ha avutopunti alti, è rimasta sempre indietrorispetto al resto d’Italia. E non si puòvivere con il culto del passato, biso-gna essere capaci di progettare. Toni-no Raffa, noto giornalista della Rai,si è ricollegato a Varano ricordandoche ci sono stati periodi in cui sem-brava che Reggio potesse rinascereper poi di nuovo cadere nel baratro.Ha invitato tutti a rimboccarsi le ma-niche e, citando Nelson Mandela, haricordato che dal basso si può riparti-re. È necessario un grosso esame dicoscienza tuttavia seguendo l’inse-gnamento di Kennedy: «Non ti chie-dere mai cosa l’America può fare perte, ma chiediti cosa tu puoi fare perl’America». L’ultimo intervento èstato del consigliere regionale Deme-trio Naccari Carlizzi che si è ricolle-gato a Varano sostenendo che biso-gna studiare il perché si è passati dauna città che produceva in agricoltu-ra a una città del terziario, fino a unacittà della crisi. Naccari pur nonmancando di cogliere l’aspetto ro-mantico del tram, ha ricalcato Russonel rimarcare il suo indiscutibile van-taggio rispetto all’autobus che è inso-stenibile sia sul piano economico chesul piano ambientale e ha sostenutoche il libro ci mostra come la lezionenel nostro territorio sia difficile daimparare e come dalle sue pagine tra-peli un insegnamento economico maanche di ingegneria dei trasporti. Civuole modernità e per questo un nuo-vo modo di concepire il trasportopubblico. La sintesi della serata l’ha tratta Arci-diaco che si è augurato che la rievo-cazione di questa bella e sana epo-pea, suscitata dal libro di Meduri, siadi buon auspicio per l’avvento di unanuova primavera di Reggio.

Il tram della bella Reggio nel post-terremotoUna storia imprenditoriale tra borghesia illuminata e miopia pubblica

Stella Iaria

Da sinistra: Francesco Russo, Antonino Meduri, Mirella Marra e FrancoArcidiaco durante la presentazione a Reggio Calabria

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Anno IX - n. 35/37 - Gennaio/Settembre 2014 39LettereMeridiane

Francesco Dell’Apa FUGGITIVO PER SCELTA pp. 156 - Euro 12,00

N on nascondo la mia delusio-ne se, quando ho finito dileggere un libro, non mi resta

che archiviare quelle pagine. Nonhanno suscitato nulla in me. Le pon-go a sciogliersi nell’acido dell’oblioche, di lì a poco, inclemente, le divo-rerà. Mi sento invece soddisfatta se, strin-gendo al petto il libro ormai chiuso,quasi realisticamente il richiamoistintivo è quello di farlo entrare fisi-camente in me e… ruminarlo. Sì, nonè una novità per chi ha imparato a co-noscermi, che io legga e commenti “amodo mio” attraverso lo strumentoche difficilmente falla - sempre perquanto mi riguarda - perché autenti-co mai preconfezionato, dei sensi econ essi, prima di tutto, quello dellapelle e dei suoi brividi.Mi piace cercare nell’autore non leassonanze con altri - seppur essi pos-sano essere nomi importanti della sto-ria culturale - ma, di più la sua origi-nalità, la sua specificità e personalità,il suo essere unico come apporto delnuovo.È quanto è successo con Fuggitivoper scelta di Francesco Dell’Apa direcente pubblicazione. Perché sonoveramente tante le riflessioni che na-scono dal trattare con la cura e la pe-rizia di un letterato, che non restaperò distante, un argomento che citocca direttamente nella vita quotidia-na: il mondo dei barboni in una gran-de città come Roma.Quando avevo letto altri testi che de-scrivevano la complessa realtà deiclochard della nostra capitale mi eroresa conto, con disappunto, che eranorimasti alla superficialità e alla bana-lità della facile retorica. Sentire avan-zare nello scritto e nelle sue pause

l’ombra grande grigia pericolosa del-l’assioma, o meglio del postulato(“teoria ad hoc”, accettata grazie allasua utilità) indimostrabile e falso: ipoveri sono i buoni, i ricchi sono icattivi. Si insinua fra le righe l’odio socialeche distrugge senza l’opportunità dicostruire. Un po’ il cuore, fra quelle parole, famale. La storia ci ha insegnato che lalotta di classe ha dato la morte e nonla vita. Ecco perché, prima di tutto, sono gra-ta a Fuggitivo per scelta mai in alto adare giudizi morali o a esternare quel-la retorica che ci insegna che, se vo-gliamo appartenere alla categoria de igiusti, dobbiamo dichiarare a chiarelettere la rivalsa. Per dimostrare almondo di amare gli ultimi, i disereda-ti, e che quindi noi siamo tanto buoni,dobbiamo necessariamente condan-nare senza appello chi ultimo e dise-redato non è? Una bella semplifica-zione che ci libera dalle responsabi-lità individuali dell’impegno e del-l’attenzione scaricati sulle spalle del-la generica e unica colpevole, che siha difficoltà a cercare e trovare: laSocietà! Trappola dalla quale congrande classe e capacità di discerni-mento Francesco Dell’Apa si tiene adebita distanza. Egli, invece, praticail sentimento più vero e sincero, sen-za colori né opportunismi, quello cheesprime il massimo dell’umanità: laCompassione.È per questo che sono riuscita a vola-re libera ed emozionata nelle paginedelle storie dei suoi barboni, mai dalui fatta prigioniera in quella obbliga-ta “condanna” dalla quale, alcuni di-cono, non si possa prescindere per as-serire di avere cura del prossimo chesoffre. Ci si sente uniti nella lettura, non al-lontanati dall’amore perché sospintidall’odio. Ci si affeziona senza faticaa Michele, il protagonista, e non per il

fatto che sia poveroe quindi necessaria-mente buono. Tuttociò esula da lui.Professore univer-sitario di filosofiaestetica, uomo col-to dal linguaggioforbito, sognatore eche, come lui stessoci dice, «ha abban-donato il cosiddettomondo civile, stan-co di obblighi e didoveri». «Ora sono libero,“invisibile” contento della mia scelta -ci tiene a sottolineare. Oppure afferma– Il bisogno di sottrarmi all’esistenzanoiosa del mio mondo di conoscenze,opprimente e ipocrita… Avevo persoil piacere di vivere e di muovermi sen-za curarmi di obblighi che mi rende-vano schiavo e incapace di volare conla fantasia…».Nelle situazioni-immagini, vere eproprie tele dipinte con le parole, fraspazi suggestivi della città antica equelli miserevoli del decadimento edell’incuria, Michele fa parte di quelpiccolo esercito di derelitti che vaga-no il loro cammino, pur provenendociascuno da itinerari di vita e stratisociali differenti. Un unico istinto liaccomuna, quello della sopravviven-za. Il professore e tutti coloro che in-contriamo perché si imbattono sullasua strada, vivono solo ed esclusiva-mente il presente, preoccupati di nonmorire di fame, di sete, di sonno. Fraelemosine e piccoli furti avere qual-cosa da mandar giù, un giaciglio sucui dormire al sicuro, questa la ricer-ca giornaliera. Anime, insomma, ca-late indissolubilmente nei loro corpi eche, non prefigurandosi un futuro cheineludibilmente li fa soffrire, seppel-liscono l’oltre nell’attimo. E la novità di fronte alla quale ci po-ne l’autore è quella che per molti diloro, magari non proprio tutti, nel pri-

vilegiare come dimora lastrada e il cielo come tetto,vi sia una diretta responsa-bilità individuale del tuttoconsapevole. La casa, illuogo del sé esteriore è iltutto fuori che esiste perognuno di essi. Libero gliappartiene e non si ha l’o-nere di difenderlo ma solodi usarlo.Michele è persona razioci-nante e cosciente, che la fu-

ga per scelta la pratica e la porta al-l’estrema conseguenza, fino all’auto-distruzione.Considera per sé limitativo e costritti-vo anche il contatto, il rapporto congli altri: una giovane donna con laquale ha un fugace incontro sessualeanche se partecipato da ambedue; ungiovane francese, Daniel, che in se-guito a delusioni e depressione decidedi girovagare per l’Europa; il poetaFelice che lo invita nella sua casa…Ma da tutti scappa, anche dai tantoamati libri della biblioteca di un mo-nastero benedettino dove, nella po-vertà francescana, nell’armonia deicanti gregoriani, aveva pensato di po-ter trovare pace. Una pace però chedura solo pochi giorni.Interrogando l’autore e le sue pagine,ci si chiede: Questa ostinazione, inrealtà, non potrebbe, al contrario, peril protagonista Michele, essere la suavera prigione? Una prigione che loporta alla morte? Non potrebbe essere vero che l’osses-siva ricerca di uno spazio infinitofuori non esprima l’incapacità dicrearsi uno spazio infinito dentro?Non è forse credibile che chi abbiaimparato ad amare se stesso, solo al-lora, abbia l’opportunità di non esse-re indifferente agli altri?Solo chi ama è libero.

Il racconto senza retorica di una vita da clochardGli invisibili di Roma narrati da Francesco Dell’Apa

Luciana Vasile

Francesco StaglianòL’URLO DELLA FARFALLAUna storia probabilepp. 176 - Euro 13,00

L a Città del Sole edizioni pubbli-ca L’urlo della farfalla-Unastoria probabile, il nuovo libro

di Francesco Staglianò, autore del qua-le ho già recensito Sguardi in controlu-ce, prima pregevole opera dello scritto-re-poeta “Calabrese di origine e tempe-ramento, Genovese per amore e resi-denza…”.L’autore ci propone una storia d’amoreesemplare, che si rivela un viaggio sug-gestivo sia attraverso una terra moltoamata, sia attraverso l’universo di emo-

zioni e fantasie che al sentimento del-l’amore si accompagnano.Sullo sfondo di una Genova, trasfigura-ta dal legame profondo vissuto dalloscrittore con la città, prendono vita per-sonaggi che nei loro tratti essenziali po-trebbero apparire stereotipati: l’inse-gnante profondo e carismatico, il medi-co dedito alla professione con abnega-zione assoluta, il giornalista colto e co-raggioso, l’amica sempre affettuosa esincera, la figlia riconoscente e capacedi assumere un ruolo genitoriale neiconfronti della propria madre e del pro-prio padre.Tuttavia alla lettura, che non può nondivenire sempre più attenta e coinvolta,questi tipi, che rispecchiano determina-ti e riconoscibili canoni letterari, diven-

gono via via più veri nel palesare auten-tica e profonda umanità. Questa secon-da fatica di Francesco Staglianò rivelala vocazione per un genere letterario in-timistico, alla ricerca della verità e del-l’ambivalenza dei sentimenti, capace diliberare dalla paura della vita e darneun senso. Anche la scrittura si propone,in questo secondo romanzo, nell’alter-nanza di pagine caratterizzate da unaprosa semplice e piana, ad altre paginedi interessante poesia, che si espandenei momenti più intensi della storia.La scrittura si offre, quindi, continua-mente in bilico tra prosa e poesia masempre affettivamente coinvolgente.

Anna Staglianò

L’urlo della farfalla, un amore probabile

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