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[ è ]

È la domenica mattina. D'inverno. Col sole. Che ti sembra di stare dentro una canzone di Venditti è nelle infradito delle inglesi e delle americane che le indossano pure il 25 gennaio è in quegli strani sassi che quando ci passi sopra in macchina tremi come un bambino il primo giorno di scuola è cornetto, cappuccino e corriere dello sport alle tre di notte. Caldi, bollenti, appena creati... è un pallone che rotola oltre una linea è un semaforo rosso coi tassisti concentrati a spogliare con gli occhi le ragazze sui motorini, manco fossero la madonna è un continuo scorrere d'acqua è la casa di tutti, la mamma di tutti, la moglie e l'amante è la colpa quando non sai a chi altro darla è una ricetta che ognuno sa fare meglio degli altri è un brutto voto a storia che un giorno rimpiangerai è un deserto che conosco, il giorno di ferragosto è un'ora della tua vita passata per fare un solo chilometro è un vecchietto fermo per strada a guardare i lavori è la certezza che ogni addio è solo un arrivederci è dimo, annamo, famo e poi si resta sempre al solito posto è tante piccole cose che unite ne fanno solo una.

/Federico Vergari/

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IO VI ODIO A NOI ROMANI Capita di non piacersi. Di stupirsi di se stessi in negativo. E capita di non riconoscersi nella propria famiglia. A volte, da bambini, capita di invidiare la mamma del tuo amichetto perché non l’hai vista mai sgridare il figlio, perché con te è gentile e sorridente, non come tua madre che urla sempre. Ed il papà di quel tuo compagno di scuola sembra sempre così paziente e comprensivo. Ti capita a volte di non riconoscerti nei tuoi genitori, di sentirti diverso, migliore. E poi improvvisamente, un giorno, quando sei più grande o forse solo più onesto con te stesso, riconosci che è molto meglio l’invadenza di tua mamma che l’indifferenza di quella del tuo amico, che in fondo a tua padre gli assomigli, e tanto, e soprattutto nei difetti, nei limiti. Improvvisamente ti scopri, in un gesto o in un intercalare, figlio dei tuoi genitori. Io non mi sento romano perché non guido con una mano sola, perché l’ A.S. Roma per me non è magggica per niente, e tantomeno la Lazio. Non mi sento romano perché la furbizia per me è tutt’altro che un pregio. Ma ho capito che non si è diversi dai propri genitori solo perché loro ascoltano Celentano e tu gli Ac/Dc. Non è questione di gusti, anche perchè Roma piace… a tanti, quasi a tutti. E a volte forse ti senti così geloso che l’unica cosa che puoi fare per sentirla tua è criticarla, lì dove gli altri non la conoscono. Esagerarne i difetti, le mancanze, rinfacciarle quello che non ti ha dato, incolparla di voler essere troppo bella e simpatica per gli ospiti. Di sorridere e farsi bella per tutti, che poi quando finisce la festa riesce ad essere così distratta con i suoi figli più sfortunati. Ti capita di sentirti come il figlio di una rockstar che vorrebbe dire a tutti i suoi fans: “mio padre è uno stronzo!”, solo per tenerselo più stretto. Roma è una famiglia grande, allargata, che ti trascura lì dove tu vorresti essere coccolato ma è una di quelle mamme di cui vantarti quando tutti quelli che la conoscono ne parlano con gli occhi sorridenti e fieri per averla conosciuta. A volte mi sarebbe piaciuto parlare toscano, oppure bolognese; altre avrei voluto avere la nebbia alla finestra per poter essere più crepuscolare e scrivere poesie pallose. Odio l’invadenza, l’arroganza e la prepotenza, il gusto di fregare gli altri per sentirsi più furbi. I difetti della mia città mi infastidiscono all’inverosimile. Ma del resto io ho sempre avuto la sensazione di sentirmi uno straniero in patria, una sorta di figliuol prodigo. Dev’essere per questo che mi piace viaggiare, sentirmi lontano. Dev’essere per questo che amo i motel squallidi delle statali americane anche se non ci sono mai stato. Amo il nord, per il freddo, per quel suo distacco educato. Mi piace familiarizzare con gli sconosciuti ma odio la confidenza, mi piacciono i paesaggi grigi, i passi svelti, gli sguardi furtivi. Amo ciò che non è Roma perché in fondo me la porto dentro ed è per questo che quasi automaticamente quando sono distante da lei mi esce quella cadenza che cerco sempre di nascondere quando invece sono a casa. Ed è lì che mi scopro romano, nella parlata pigra che mi fa dimezzare le parole, nell’ironia tagliente, nella spontaneità generosa, nella superficialità innocua, nell’ottimismo coraggioso, nella praticità, nel sapersi tirar fuori dai guai e dalle situazioni spiacevoli con una battuta simpatica, con un gesto così semplice e vero da sembrare geniale a tutti quelli che a Roma ci sono solo stati in vacanza o al massimo in gita con la scuola. Insomma, per dirla alla Gaber: io non mi sento romano ma per fortuna, o purtroppo, lo sono.

/Alessandro Corazzi/

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Catture/

Maglietta stesa con finestra. (Via Visconti)

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STORIA DI UN AMORE

CAP.1 Era un po’ che cercavo il tempo di scrivere e ora sono qui ad aspettare un treno che parte: il momento ideale. Ho un caffè bollente in mano, sono qui, in Nuova Zelanda, tra paesaggi da sogno, circondato da

gente affabile e disponibile, trascorro giornate piene e le sera sono sempre di quello stanco soddisfacente che ti fa apprezzare ancora di più la giornata che se n’è andata.

Sono nel punto più lontano al mondo da te (o giù di lì). Ho fatto surf, sono andato a sciare, ho fatto mountain bike: il viaggio che ho sempre sognato; in più il viaggiare da solo ti dà una dimensione unica, ti forza a venire a contatto con la gente del posto, con le dinamiche locali, io sto “vivendo” in Nuova Zelanda. Così prendo un treno da sogno che attraversa i paesaggi del “Signore degli Anelli” e porto con me una bici affittata (un vero cancello), uno zaino con

vestiti pesanti (qui è inverno), il sacco a pelo, la guida (a cui preferirò le indicazioni locali) e la videocamera.

Ma io ti cerco dietro ogni angolo, cerco un pezzo di te, mi manca il tuo abbraccio caotico e ficcante, la tua dimensione opprimente e cullante allo stesso tempo, cerco i contrasti che qui sono nei paesaggi ma

in te sono nell’atmosfera…

CAP.2 Ed eccomi qui a prendere un altro treno, il sole sorge e mi ritrovo a pensare a te. A dire la verità,

dall’ultima volta, ti ho pensato ogni giorno, ogni minuto, ogni secondo, mi rimprovero il fatto che magari non sono sembrato troppo entusiasta anche se qui è bellissimo e io sto facendo un viaggio da

sogno. Ero stanco, sorpreso di avere la testa affollata da pensieri riguardanti te, ma c’è anche altro: sono stufo di viaggiare da solo, mi manca il tuo brusio di sottofondo, vorrei poter portare tutto ciò che sto sperimentando lì da te, non è la compagnia che mi manca, ma la tua familiarità; mi sono reso conto di

non essere pronto: continuo a cercare di scappare, il viaggio per me è fuggire. Ora mi chiedo: con queste sensazioni come potrei trovarmi a mio agio con una nuova vita qui? Mi troverei comunque male,

e il motivo di questo malessere sei tu: mi rendo conto di aver bisogno di viverti fino in fondo, di completare la mia esperienza di te, di devo fare ancora troppe cose insieme a te che mi hai cresciuto.

Tutto questo però non perché sei un freno, ma perché sei così coinvolgente a livello emotivo, e sei così dentro di me che non posso perdonarmi di perdermi qualcosa di te.

Tutto questo lo realizzo solo ora.

CAP.3 Stavolta sarò breve, sono approdato su di una spiaggetta,sono senza pantaloni a maledire i traghetti che provocando onde me li hanno fracicati. Mentre aspetto che si asciughino un minimo penso alla bellezza di una giornata come oggi, alla sua straordinarietà ed estrema naturalezza espresse nello stesso tempo.

Qualcuno mi prenderà per matto vedendo il video e sentendo la descrizione della giornata che ho passato oggi, ma questo pizzico d’incoscienza è lo stesso che mi avvicina a te e che mi spinge ad aver desiderato di crescere più dentro e a contatto con la tua anima. Tante volte cerchi di farmelo capire

anche tu quanto sia folle questo mio pensiero, stressandomi attraverso lo sciorinamento dei tuoi così palesi difetti che ti rendono comunque unica. Ma questa follia è quella che sta permettendo alle più

belle esperienze della mia vita di scontrarsi con me.

N.B. Ogni riferimento a luoghi persone o cose realmente inventati è puramente casuale.

/Ivan Cusel a/ l

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Catture/

Vola tedesca vola. (Turista su marmo)

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Tracce/

“Tutte le strade nascheno da Roma e pporteno novunque”(M.Marè)

C’è Roma nel cuore del poeta “Mau-Ro Ma-rè”. Singolare che nel nome del più grande sperimentatore dialettale del secondo Novecento sia implicito quel gioco dell’allusione e del doppio senso che Marè andrà esasperando nella propria ricerca lirica. Singolare che in esso si fondano per natura l’uomo e la città, simbiosi cantata dal poeta nei versi di Iotuttaroma o in Roma romita. Singolare, anche, che estrapolando il nome della città dal nome del poeta, quello che rimane è il più affettuoso e romanesco richiamo al reghezzino, Maurè...

Mauro Marè (1935-1993), volto nuovo, originalissimo, il miglior tentativo italiano di sperimentalismo dialettale, che ha fuso nelle sue poesie l’angoscia del mondo perduto tanto sofferta da Pasolini e la nevrotica tensione scaturita nella vita presente in una metropoli infernale. La sua lingua meravigliosa tutta intricata di neologismi va sviluppandosi lungo le rive del dialetto romanesco, che come il Tevere scorre dal passato verso il futuro, eterno e mutante in un processo d’irreversibile dietrerioramento, poichè... “er monno ppiù vva avanti/ e ppiù sse dietreriora” Scrive il poeta: “Roma è una città fantastica. Non esiste. Tanto che ognuno deve costruirsela o ricostruirsela con la fantasia. Non ha una fisionomia perchè ne ha infinite. Romanizzato il mondo, essa si è definitivamente dissipata nella sua funzione universalistica”. L’esplosione della dimensione cittadina è esplosione dell’identità dell’uomo; si leggano i versi di Vicoli e versi in Silabbe e stelle: “Strade de Roma, vicoli:/ spesso ve vengo a trova./ Pe mano er còre,/ cerco mestessi smessi”, in cui il poeta riconosce la propria identità frantumata, frazionata in ogni cantone di mondo. Spia della moltiplicazione dell’identità ( “Capoccia va un mestesso regazzino/ che, fez in testa, fa volà una mazza./ Poi un mestesso arlecchino/ e un mestesso borghese conformista/ che porta a cavacecio/ n’artro mestesso artista”) è quello smessi; l’aggettivo fa pensare ad un significato plurimo, per cui dietro alla più ovvia traduzione di ‘vecchio, fuori uso’, si cela il più mareiano ‘s-me-sso, senza di me’. La moltiplicazione dell’identità è annientamento; questo il pensiero che sta alla base di concetti maturi in Verso Novunque e Controcore: quelli della niunquità e del novunque.

Controcore Ggente che ccampa pe ssentito dì

senza nerbo nè vverbo controcore

la traggedia è nner gioco la verità è nner mazzo

nissuno scopre la carta vincente ce sarva er filo tra nojjartri ggnente

tu ffilo mio purissimo m’apparijji ner gioco a ddisparì.

(da Controcore, 1993)

Roma è un girone di anime dannate, derelitti del caos metropolitano. Non c’è speranza per l’uomo, poichè “pia morte pjatutto/ umanità pjagnente”; nulla resta, se non lacrime amare. La gioia che vuole esplodere implode e brucia; da Roma tutto nasce e a Roma tutto muore. “Tutte le strade nascheno a Roma e pporteno novunque”.

/Antonella Saija/

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Roma Caput Mundi

- Intervista? Basta che ce paghi e famo tutto!

- Ma lascia perde i sordi, viè qua che te rispondo io. Me chiamo Gianni.

- Siete tutti di Roma? - C’è sta qualcuno de fori Roma, ma quasi

tutti so nati qua. Io abito a Marino, e vengo tutte le mattine co la moto a lavorà, pure la domenica.

- Da quanto lavora qui? - Io so dieci anni, dal 97, loro un po’ de

meno. - Le piace questo lavoro? - È meglio degli altri, fai un po’ come

vuoi, stai quanto tempo ti pare… sei un libero professionista. Poi ti abitui. Devi esse bravo a farlo, a conoscere le lingue, parlare con la gente devi saper far rfarli divertire. Perché per loro non è solo una foto. Quando tornano a casa hanno il ricordo di tutto quello che hanno provato in quella foto. Se tu li tratti male e fannofoto, giustamente ce rimangono male. Invece le cose belle gli rimangono impresse. Il gladiatorepiù simpatico ce l’hai davanti.

idere,

la

- Invece i turisti? - Niente, Ormai non è più una novità, non è facile fagli fa la foto. Ce stanno gli americani che se

li fai sentì padroni pagano, sennò… ma giustamente sono i padroni del monno. Poi qui impari a conosce la gente, ce parli e riconosci subito chi so e da dove vengono: Ohio, Massachusetts, California. Ce parli nella lingua loro senza nemmeno avelli mai visti.

- Durante la notte bianca ha lavorato? - No, ho fatto solo il giorno e la notte sono andato a dormì. Non ho mai fatto na notte bianca.

Anche perché la sera vado in palestra, poi ho i bambini e altre dumila cose… - La cosa che gli piace di più di Roma? - ‘A Roma! Tutta la vita - Lascialo ‘sta, lui è bugiardo… o chiamano er cobra. - Tu invece chi sei? - Eugenio, ma non ciò er nome da battaglia. So du anni che sto qua, ancora so un bambino. - Stai qui tutti i giorni anche tu? - Si. Certo se me voglio prende un giorno de riposo… Di solito me faccio mezza giornata. Arrivo

a mattina alle otto cor motorino, da Marconi. - Ti piace? - Il colosseo mi ha annoiato, piazza Venezia me piace de più, er monumento più bello de Roma. - Che lavoro facevi prima? - Lavoravo in una agenzia de viaggi, poi coi miei amici siamo entrati qui. Ora siamo 18 e più de

questi non possono entrà. Ognuno sta ar posto suo, sennò so cazzi. /Carmine Fiume/

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Catture/

Salvezza in Agosto (Magritte me fa’na pippa)

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Nevi frammenti irricomposti di un racconto e riflessioni

La neve cade sui vivi e sui morti J. J.

Ròma Karenskij aveva un nome strano. Quello di una città. Sua madre aveva insistito tanto alla nascita per chiamarla così, come uno dei suoi sogni più ricorrenti, come la meta delle sue chimeriche fughe da quell’ammasso di fumo e neve che era Grozny. D’altra parte Roma, per uno di Grozny che non l’ha mai vista, ha lo stesso effetto esotico-mitico di Malaga per esempio, o Capo Horn per uno di Cinisello Balsamo. Non che Roma nell’immaginario ceceno avesse qualcosa in più o in meno rispetto ad una qualsiasi altra città del globo, ma di sicuro il proverbiale sole italiano doveva affascinare chi per 365 giorni l’anno viveva circondato da un paesaggio coloristicamente in scala di grigio. La neve a Grozny, come in tutta la Cecenia, era pesante, dura e friabile come le ossa rachitiche di un vecchio cane. Ed era ovunque. Ovunque stava come una seconda gravità a sottolineare il franare dei muri in brandelli, ad afferrare come un predatore le caviglie di chi fuggiva dai rastrellamenti dell’esercito russo, a isterilire ogni centimetro di terra… ma era anche, per alcuni come Ròma, la sola via d’uscita, un immenso foglio bianco su cui disegnare i propri sogni, su cui costruire forzando ogni fantasia un mondo altro, lontano. Ròma il sole italiano ce l’aveva nel nome, e nella testa c’era entrato di prepotenza dopo che sua madre era stata fatta fuori dai soliti proiettili vaganti durante le perquisizioni dei soldati alla ricerca di dissidenti. L’immagine di quella neve rossa di sangue e di quel sangue che ancora caldo si scavava flebilmente la strada nel manto bianco, Ròma le avrebbe volute seppellire col corpo della madre, ma sapeva che non era possibile. Partì per l’Italia salutando il padre una mattina di ottobre sapendo che l’inverno in arrivo avrebbe facilitato la fuga cancellando le tracce (la neve talvolta ti aiuta anche a scappare) e che, con l’aiuto di qualche treno merci da rincorrere lungo i binari e di qualche contrabbandiere caritatevole, avrebbe potuto varcare il confine in un paio di giorni. Camminava Ròma, talvolta chiedendosi se la direzione fosse giusta. Nel viaggio si smarrivano spesso - oltre la direzione (anche se quella Ròma non l’ha mai avuta) - le motivazioni, il senso, i ricordi e le speranze e davanti gli occhi si parava dinanzi di nuovo un muro bianco di neve. Ogni villaggio, ogni città, ogni angolo compreso tra gli Urali e i Balcani, lei chiedeva se si trattasse di Roma. Non sapeva, Ròma, non conosceva il Colosseo o San Pietro, non aveva mai visto la Magnani in Roma Città Aperta - ma se l’avesse vista le avrebbe ricordato sua madre -, non immaginava il traffico, il fumo, la frenesia, non aveva un misticismo iconico tale da sospettare qualcosa come La Pietà di Michelangelo in S. Pietro in Vaticano, non poteva mai credere che tante sue coetanee e conterranee finivano schiave in uno scantinato o sui marciapiedi del raccordo…in fondo cos’era Roma per lei? Cosa poteva mai cercare una ragazza di Grozny a Roma? Aveva solo 17 anni Ròma ma era sveglia e decisa, come sua madre, per quanto potesse esserlo una ragazza di Grozny che nella sua vita ha visto solo tanta neve cadere su persone affannate; Ròma era graziosa, esile e alta, capelli lunghi sul castano e gli occhi verdi come quelli di sua madre, grandi e infantili. Aveva la bocca stretta, sottolineata dalle labbra sottili e delicatamente rosate, il seno piccolo timidamente si lasciava percepire sotto i vecchi cenci che portava addosso; era ancora una bambina nell’aspetto e forse anche nell’animo data la tenacia con cui perseguiva questo sogno di un luogo senza neve che lei chiamava Roma e che portava scolpito nel nome e nel sangue. Un luogo dove splenda un sole tanto forte da sciogliere tutte le nevi che si possono accumulare in un cuore; per alcuni cuori più che di nevi si può parlare di ghiacci perenni. E Ròma camminava con questa

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chimera nella testa in grado di disperdere l’acido lattico che si avvinghiava ai suoi muscoli come l’edera sulle case di tufo. Un po’ di neve, però, sembrava essere ovunque. Villaggio dopo villaggio, città dopo città, ovunque vi fossero uomini sembrava cadesse della neve. Mai la stessa. Magari molto simile da un posto all’altro ma ogni luogo aveva la sua, specifica, col suo bianco ora più chiaro ora più scuro, con la sua consistenza ora più dura ora più soffice… In lei la speranza di trovare la sua Roma si dilatava e restringeva di momento in momento, come le ali di un’aquila che sorvola il territorio alla ricerca di cibo. Mi chiedo, io che racconto questa storia, quanti altri posti avrà dovuto vedere Ròma prima di capire che Roma non esiste… che la neve cade sui vivi e sui morti… che Roma è come Dio: esiste se ci credi. E se ci credi, te lo poni come uno scopo, una meta. E ti da forza. E ti da speranza. Finché un bel giorno ti accorgi, se stai realmente vivendo, che la neve cade anche su di Lui, sì su Dio, su Roma, non risparmia niente. E dunque, Ròma, dov’è che vai?

/Leonardo Battisti/ Catture/

Esse o non esse… e mo’ so’ cazzi (Pensieroso contro cielo estivo)

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Tracce 2/ Roma Addio

Per questo numero di REV volevo semplicemente riportare una poesia di Remo Remoti su Roma.

Negli anni cinquanta io me ne andai. Come fanno oggi i giovani che vanno in India, vanno via. Anch’io me ne andai nauseato, stanco da questa Roma del dopo guerra. Io allora a ventenni mi trovavo di fronte a questa situazione e andai via da questa Roma anni cinquanta. E me ne andavo da quella Roma addormentata, da a quella Roma puttanona, borghese, fascistoide, da quella Roma del "volemose bene e annamo avanti", da quella Roma delle pizzerie, delle latterie, dei "Sali e Tabacchi", degli "Erbaggi e Frutta", quella Roma dei castagnacci, dei maritozzi con la panna, senza panna, dei mostaccioli e caramelle, dei supplì, dei lupini, delle mosciarelle… Me ne andavo da quella Roma dei pizzicaroli, dei portieri, dei casini, delle approssimazioni, degli imbrogli, degli appuntamenti ai quali non si arriva mai puntuali, dei pagamenti che non vengono effettuati, quella Roma degli uffici postali e dell’anagrafe, quella Roma dei funzionari dei ministeri, degli impiegati, dei bancari, quella Roma dove le domande erano sempre già chiuse, dove ci voleva una raccomandazione… Me ne andavo da quella Roma dei pisciatoi, dei vespasiani, delle fontanelle, degli ex-voto, della Circolare Destra, della Circolare Sinistra, del Vaticano, delle mille chiese, delle cattedrali fuori le mura, dentro le mura, quella Roma delle suore, dei frati, dei preti, dei gatti... Me ne andavo da quella Roma degli attici con la vista, la Roma di piazza Bologna, dei Parioli, di via Veneto, di via Gregoriana, quella dannunziana, quella barocca, quella eterna, quella imperiale, quella vecchia, quella stravecchia, quella turistica, quella di giorno, quella di notte, quella dell’orchestrina a piazza Esedra, la Roma fascista di Piacentini... Me ne andavo da quella Roma che ci invidiano tutti, la Roma “caput mundi”, del Colosseo, dei Fori Imperiali, di Piazza Venezia, dell’Altare della Patria, dell'Università di Roma, quella Roma sempre con il sole – estate e inverno – quella Roma che è meglio di Milano... Me ne andavo da quella Roma dove la gente pisciava per le strade, quella Roma fetente, impiegatizia, dei mezzi litri, della coda alla vaccinara, quella Roma dei ricchi bottegai: quella Roma dei Gucci, dei Ianetti, dei Ventrella, dei Bulgari, dei Schostal, delle Sorelle Adamoli, di Carmignani, di Avenia, quella Roma dove non c’è lavoro, dove non c’è una lira, quella Roma del "core de Roma"... Me ne andavo da quella Roma del Monte di Pietà, della Banca Commerciale Italiana, di Campo de’ Fiori, di piazza Navona, di piazza Farnese, quella Roma dei "che c’hai una sigaretta?", "imprestami cento lire", quella Roma del Coni, del Concorso Ippico, quella Roma del Foro che portava e porta ancora il nome di Mussolini, Me ne andavo da quella Roma di merda!

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(monumento a Pasolini : particolare)

Mamma Roma: Addio!

...e poi ce so' tornato!

/Alessandro Ibba/

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Indovina con chi vai a cena/

Sei un vero appassionato di REV? Hai letto e conosci a memoria ogni pagina della tua rivista preferita? Dimostralo indovinando chi si nasconde dietro al “caltagironico mostro messaggero” , apparso nel numero speciale di REV (n.5, luglio-agosto).

Invia una mail all’indirizzo: [email protected] Il più veloce a rispondere vincerà una pizza* con la redazione di REV**

* bevande escluse ** il vincitore sarà informato via e-mail

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Credits

Hanno partecipato al numero Sei di Rev

Alessandro Corazzi Ivan Cusella

Carmine Fiume Federico Vergari Antonella Saija

Leonardo Battisti Alessandro Ibba

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