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Osservatorio delle aree di crisi a cura di BloGlobal-Osservatorio di Politica Internazionale / Luglio 2013

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Osservatorio Aree di Crisi N°2, 7 luglio 2013

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BloGlobal – Osservatorio di Politica Internazionale World Crisis Watch

WORLD CRISIS WATCH N°2/2013 - Panorama

INFOGRAFICA DEL MESE: Conflitti e rischi alla sicurezza in Medio Oriente

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Osservatorio Aree di Crisi N°2, 7 luglio 2013

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BloGlobal – Osservatorio di Politica Internazionale World Crisis Watch

AFGHANISTAN - Secondo il Generale Joseph Dunford, nuovo

comandante della missione ISAF in Afghanistan, il Paese ha

recentemente compiuto sensibili progressi, ma tuttora

necessita del sostegno internazionale; quindi, la fase di ritiro

delle truppe nel 2014, senza alcun nuovo sforzo militare e

diplomatico, potrebbe condizionare negativamente quanto fatto in

oltre dieci anni. Dunford si è perciò dichiarato favorevole a

proseguire l’impegno di sostegno alle Forze Armate afghane

anche dopo il 2014 e ad includere i talebani nel processo di pace

attraverso negoziati diretti. In giugno, gli Stati Uniti hanno infatti

annunciato l’avvio di negoziati con i talebani a Doha, capitale del Qatar. Secondo quanto riferito ai media

dalle autorità americane, i colloqui si terranno solo se verranno rispettate alcune precondizioni da parte

talebana: il rispetto della Costituzione dell'Afghanistan, la scissione da al-Qaeda, l’abbandono di qualsiasi

violenza e il rispetto dei diritti delle donne e delle minoranze. Tuttavia, secondo alcune voci, la reale

posizione americana considera tali tematiche non come precondizioni, bensì come esiti auspicabili dei

colloqui. Già in passato gli Stati Uniti avevano negoziato con i talebani a Doha, ma mai in forma ufficiale.

L’iniziativa esclusivamente americana ha, però, contrariato il presidente afghano Hamid Karzai in

quanto non consultato e solo informato. In un colloquio con il Segretario di Stato, John Kerry, Karzai ha

reclamato che qualsiasi negoziato che riguardi il destino del Paese deve essere guidato da Kabul e non da

Washington, che non deve contraddire il principio stesso del processo di pace “a guida afghana”. In più, per

dare un seguito concreto alle lamentele, Karzai si è dichiarato pronto a sospendere i colloqui bilaterali

per la Strategic Partnership tra Afghanistan e Stati Uniti, che in sostanza permetterebbe agli americani di

avere alcune basi militari nel Paese dopo il 2014 in cambio di denaro. Una successiva videotelefonata tra

Karzai e il Presidente americano, Barack Obama, ha placato gli animi dell’afghano e riconfermato l’iniziativa

statunitense, pur ribadendo che il processo di pace e di riconciliazione nazionale deve essere guidato da

Kabul. Washington ha perciò ripiegato, garantendo a Karzai che i negoziati si terranno tra l’Alto Consiglio per

la Pace del governo afghano e rappresentanti degli insorgenti scelti dagli stessi talebani; è probabile,

comunque, che vi sarà una supervisione americana. Eppure, nonostante le basi siano state gettate, i colloqui

non sono ancora iniziati. I talebani sembrano aver fatto marcia indietro tra conferme e smentite, benché

l’apertura di un ufficio a Doha, alla stregua di un’ambasciata, facesse effettivamente pensare ad un passo

avanti nei negoziati. Nel frattempo, sono ripartite le trattative per la suddetta partnership strategica tra Kabul

e Washington, per cui nei giorni scorsi a seguito della videotelefonata tra i due Presidenti, secondo il

portavoce del Pentagono, George Little, sono stati compiuti importanti passi in avanti. Infine, nell’auspicio di

una soluzione regionale alla guerra, Kerry si è recato in India aggiornando New Delhi sulle intenzioni e gli

obiettivi americani, chiamando il governo indiano ad un ruolo responsabile per controbilanciare i legami tra

talebani e Pakistan.

WORLD CRISIS WATCH – in Focus

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COREA DEL NORD – Dopo gli scorsi mesi di tensione, la situazione

nella penisola coreana sembra essere in via di rasserenamento. A

metà giugno, la Commissione Nazionale per la Difesa della Corea

del Nord ha invitato gli Stati Uniti ad avviare discussioni di alto

livello senza alcuna precondizione per lavorare ad un accordo

di pace e per una reciproca denuclearizzazione. Benché gli Stati

Uniti si siano dimostrati scettici e riluttanti nell’accogliere l’invito di

Pyongyang, che è stato infine respinto, da Washington sono

trapelate speranze per giungere finalmente ad un accordo

negoziato in grado di stabilizzare l’area. Pochi giorni dopo, infatti, il

processo di rasserenamento è proseguito sul binario sino-coreano.

Il 20 giugno, Pechino e Pyongyang hanno avuto “colloqui strategici” sulla questione delle armi

nucleari e, più in generale, sui rapporti bilaterali. Parallelamente, a Washington, si sono radunati i

rappresentati degli Stati Uniti, della Corea del Sud e del Giappone per discutere i medesimi temi. Anche

l’ONU è intervenuta con il Segretario Generale Ban-Ki Moon che ha dibattuto il problema coreano

nell’incontro con il Presidente cinese, Xi Jinping. Il risultato di tale tela diplomatica è stata l’organizzazione

dei primi colloqui bilaterali diretti tra Seul e Pyongyang da due anni, che sono iniziati il 6 luglio a

Panmunjom, dopo una loro precedente cancellazione per dichiarati vizi di procedura. I delegati delle due

Coree si sono dunque incontrati per discutere la riapertura di una zona industriale gestita in modo

congiunto e, a livello strategico, per sondare la possibilità di un disgelo nei rapporti bilaterali. L’area

industriale di Kaesong, a nord della zona demilitarizzata che divide le due Coree, è stata dal 2004 il fulcro di

progetti intercoreani, avviati proprio per appianare la rivalità tra le due capitali, e quindi simbolo di una rara

cooperazione. Nel complesso di Kaesong sono dislocate imprese tessili e fabbriche ad alta intensità

del Sud che assumono manodopera a basso costo proveniente dal Nord; in nove anni, l’area aveva

generato un traffico commerciale tra Nord e Sud pari a circa 2 miliardi di dollari. Fino ad aprile, essa era

rimasta in funzione; la sua sospensione è stata decretata, però, unilateralmente da Pyongyang, che ha

imposto ai suoi 53mila lavoratori il ritiro in segno di protesta, adducendo come giustificazione l'aumento della

tensione militare causato, secondo i Nordcoreani, dall'inasprimento delle sanzioni internazionali e dalle

esercitazioni annuali congiunte tra Corea del Sud e Stati Uniti. A sua volta, la Corea del Sud ha risposto

ordinando ai suoi riluttanti dirigenti di lasciare Kaesong. Il 7 luglio, mentre Pyongyang e Seul hanno dunque

raggiunto un accordo di massima per la riapertura dell’area industriale in questione, dalla Corea del

Sud rimbalzano voci per cui sarebbe intenzione della nuova presidentessa, Park Geun-hye, cercare di

costruire la fiducia e la cooperazione tra i due Paesi su piccola scala, utilizzando proprio Kaesong come

trampolino di lancio verso una maggiore fiducia e collaborazione bilaterale. Proprio in vista dei colloqui

diretti, la Corea del Nord ha inoltre deciso di ripristinare la sua “hotline” ufficiale con la Corea del Sud.

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EGITTO – Allo scadere dell’ultimatum di 48 ore imposto dai militari, lo

scorso 3 luglio il Presidente Mohamed Mursi è stato destituito

con golpe dal Capo di Stato Maggiore dell’Esercito e Ministro della

Difesa Abdel Fattah el-Sisi. L’atto, anticipato da un’indiscrezione

giornalistica di al-Ahram, è divenuto ufficiale alle 21.15 (ora del

Cairo) quando il Generale ha comunicato alla nazione con un

discorso a reti unificate la scelta di esautorare Mursi e la

contemporanea decisione di sospendere la Costituzione di stampo islamista e di passare i poteri

presidenziali per un periodo transitorio al Presidente della Corte Costituzionale egiziana Adly Mansour, il

quale, dopo aver giurato venerdì 5 luglio, ha immediatamente sciolto il Parlamento e nominato un nuovo

capo dei Servizi Segreti, Mohamed Farid al-Tuhami al posto di Mohamed Raafat Shehata. In attesa di

un’ufficializzazione, Mohamed el-Baradei – leader delle opposizioni anti-islamiche – dovrebbe divenire

il nuovo Primo Ministro ad interim. Allo stesso tempo, el-Sisi ha indicato, di concerto con le opposizioni

laiche e religiose, una road map consistente nella creazione di un governo di transizione che si occuperà

della riscrittura di una nuova legge elettorale e della revisione della Carta costituzionale in modo da

traghettare il Paese verso elezioni parlamentari e presidenziali anticipate. La decisione dei militari è

stata spiegata con l’intento di favorire una riconciliazione nazionale e di rimettere in moto il processo di

democratizzazione arrestatosi con la rivoluzione del 2011. Nel frattempo, mentre l’esercito continua a

presidiare la tv di Stato, le piazze e i nodi strategici delle principali città del Paese, la procura egiziana e la

polizia hanno lanciato una vasta operazione di arresti al Cairo ponendo ai domiciliari il destituito Mursi e

il suo staff e arrestando 300 affiliati alla Fratellanza musulmana, i leader dell’Ikhwan Mohamed Badie e

Khairat el-Shater, nonché i vertici politici del partito Giustizia e Libertà, Saad el-Katatni e Rashad el-Bayoumi.

Parallelamente alla gioia della piazza festante, esplode la rabbia dell’altra piazza, quella dei sostenitori di

Mursi che hanno organizzato nel venerdì di collera (5 luglio) diverse marce a difesa dell’esautorato

Presidente. Al Cairo, Alessandria, Assiut, Ismailia e Suez sono state organizzate diverse manifestazioni che

hanno portato a scontri con gli oppositori al regime islamico e a violenze di ogni tipo contro polizia ed

esercito. Secondo il bilancio diffuso dal Ministero della Salute, sarebbero almeno 30 i morti e oltre 1.100 i

feriti nella capitale e altre 12 persone sono state uccise ad Alessandria. Ma il caos sociale delle città

investe anche il Sinai. Dopo l’uccisione di due militari nel villaggio di el-Guba vicino a el-Arish, i militari

hanno imposto lo stato d'emergenza nell’intera penisola e nella provincia di Suez, il coprifuoco in due

città del Sinai settentrionale (Sheikh Zuweid e Rafah) e hanno chiuso anche il valico di frontiera con la

Striscia di Gaza. Sempre l'esercito ha lanciato un appello alla riconciliazione e messo in guardia da atti di

vendetta che rappresentano “una minaccia per la pace sociale e gli interessi della nazione”, così come per la

sicurezza e l'economia nazionale. Il ritorno prepotente dei militari era stato annunciato nei giorni scorsi in

seguito alle manifestazioni organizzate dagli oppositori a Mursi, i Tamarrud (i Ribelli) lo scorso 30 giugno,

giorno, questo, del 1° anniversario dell’elezione democratica del leader Ikhwan. I Tamarrud sono ragazzi di

varia estrazione politica e sociale che hanno raccolto ben 22 milioni di firme in tutto il Paese chiedendo solo

ed unicamente l’uscita di scena dell’ormai ex Presidente senza tuttavia proporre un piano politico alternativo.

Le proteste, pur avendo avuto un carattere pacifico, si sono presto tramutate in scontri con i Tagarrud (i

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buoni islamici), i sostenitori vicini ai Fratelli Musulmani. Le violenze del 30 giugno e dei giorni

immediatamente a seguire sono state figlie del clima di forte tensione sociale e politica che si respirava

da tempo. Il crollo dell’economia – aumento dei prezzi di prima necessità, forte incremento del mercato

nero, continui black-out energetici – e il rischio di fallimento sempre dietro l’angolo da un lato, e, dall’altro, la

crisi istituzionale e la continua radicalizzazione delle posizioni nel governo e nel supporto allo stesso che

avevano portato ad uno spostamento sempre più a destra e verso i gruppi radicali salafiti, hanno reso a dir

poco incandescente il clima politico nazionale. A ciò si aggiungono anche alcune scelte “coraggiose” di Mursi

come la decisione di interrompere le relazioni diplomatiche con la Siria e quella ancora più pericolosa di

operare un rimpasto di governo – aumentando la presenza dei Fratelli Musulmani nella compagine nazionale

– e poi nominare 17 nuovi governatori, di cui uno era un salafita della Jama'a al-Islamiyaa già incriminato per

l’attentato terroristico del 1997 a Luxor, principale sito turistico nazionale. Tutte queste situazioni hanno

esacerbato gli animi, creando un’escalation delle tensioni sfociate in violenze continue tra le diverse fazioni.

Infine, le dimissioni in seno al governo (5 ministri di cui il titolare degli Esteri Kamel Amr e il Premier

Hisham Kandil) e la decisione dell’Alta Corte d’Appello egiziana di dichiarare illegittima la nomina di Tala’at

Abdallah, uomo vicino a Mursi, come Procuratore Generale e la paura di una nuova e incontrollabile rivolta

hanno pertanto convinto i militari a ritornare sulla scena politica lanciando il famoso ultimatum del 1°

luglio. Sebbene nessuno abbia indicato i tempi della transizione, le ipotesi più accreditate parlano di 9-12

mesi, anche se a margine del giuramento Mansour avrebbe accennato all’ipotesi di una transizione più lunga

e più verosimilmente vicina ai 2 anni. A livello internazionale la reazione al golpe è stata molto

differente. Se Stati Uniti e Unione Europea hanno espresso con cautela la propria preoccupazione per

quello che è successo nel Paese nordafricano, Tunisia e Turchia hanno invece accusato i militari di

ingerenza negli affari dello Stato condannando l’atto e chiedendo il ritorno allo status quo ante. Sulla stessa

lunghezza d’onda anche l'Unione Africana che ha sospeso l'Egitto da tutte le attività dell’organizzazione.

Anche il Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon è intervenuto nel dibattito egiziano mettendo

in guardia militari e opposizioni dal perseguire “vendette e rappresaglie e dall'escludere partiti e comunità

dalla vita politica nazionale”. Di diverso tenore l’atteggiamento dei Paesi del Golfo, i quali hanno porto le

proprie congratulazioni al neo Presidente Mansour ed elogiato l'intervento delle Forze Armate a tutela della

volontà popolare.

ISRAELE/PALESTINA - Continuano senza grande fortuna i colloqui di

pace tra Israeliani e Palestinesi mediati da Stati Uniti e Giordania.

Nonostante la continua spola tra Washington, Tel Aviv,

Ramallah e Amman di John Kerry, i negoziati – formalmente

fermi dal 2010 – non sono ancora giunti ad una svolta come invece

promesso o quanto meno auspicato al momento del suo

insediamento dall’attuale Segretario di Stato USA. Egli stesso dal

26 al 30 giugno ha incontrato il Presidente palestinese Abu Mazen

(Mahmoud Abbas) e il Premier israeliano Benjamin Netanyahu dichiarandosi fiducioso sui negoziati in

quanto “le due parti hanno ridotto le distanze su molte questioni e hanno registrato progressi, anche se resta

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ancora del lavoro da fare”. Il piano proposto da Kerry si basa su una riedizione dei precedenti piani di pace

in quanto si richiama ad un ritorno ai confini della guerra dei Sei Giorni (1967) come base per i negoziati con

scambi di territori tra le parti, a cui bisogna aggiungere da un lato le richieste palestinesi di liberazione dei

detenuti politici da più tempo rinchiusi nelle carceri israeliane, la rimozione dei posti di blocco e lo

smantellamento delle colonie in Cisgiordania, la possibilità di siglare accordi internazionali (che però non

riguardino la Difesa); dall’altro le istanze israeliane di uno Stato palestinese demilitarizzato e un

riconoscimento formale dell’identità ebraica dello Stato di Israele, quest’ultima pre-condizione per qualsiasi

negoziato. Al momento totalmente esclusa da consultazioni di vario tipo è Hamas e il ruolo della Striscia di

Gaza. A rendere accidentate le trattative vi sono, tuttavia, sia le accuse israeliane alla dirigenza ANP di non

impedire ad Hamas il continuo lancio di razzi dalla Striscia di Gaza verso le città del Sud del Paese, sia le

lamentele da parte dei Palestinesi circa il fatto che Tel Aviv non riesca ad arginare le pressioni dei

coloni e le loro richieste di ulteriori insediamenti a Gerusalemme Est e in Cisgiordania. Proprio in questi

giorni il Ministero dell'Edilizia sta pianificando 930 nuove unità ad Har Homa, nella parte araba di

Gerusalemme. Secondo uno studio condotto dal gruppo pacifista israeliano Peace Now, Tel Aviv nei primi

tre mesi del 2013 avrebbe aumentato la propria presenza del 355% rispetto al stesso trimestre del

2012. Ma al di là di qualsiasi intenzione di accordo, il problema per la risoluzione dell’annosa crisi rimane

prettamente politico e coinvolge anche il piano interno delle rispettive parti. L’Autorità Palestinese, infatti,

riversa in gravi difficoltà economiche, non gode più di legittimità popolare, non riesce più a coinvolgere la

Comunità Internazionale sulla questione – a parte il sussulto dello scorso novembre alle Nazioni Unite – e ha

problemi al suo interno come dimostrano le dimissioni del Premier uscente Salam Fayyad; anche il nuovo

Primo Ministro ad interim, Rami Hamdallah ha già rassegnato le dimissioni in quanto per sua stessa

ammissione ritiene impossibile governare un territorio all’interno del quale i problemi aumentano di giorno in

giorno, dal crescente numero di rifugiati alla continua crisi finanziaria. Per quanto riguarda il fronte israeliano,

invece, vi è l’indisponibilità di alcuni membri del Governo, come il Ministro del Commercio Naftali Bennett e il

Vice Ministro della Difesa Danny Danon - espressione di correnti radicali laiche e religiose che non

nascondono tutta la loro irrequietezza – a fare concessioni anche minime ai Palestinesi. Inoltre il Premier

Benyamin Netanyahu, da sempre contrario alla soluzione dei due Stati, ha però affermato che “Israele è

pronto ad entrare in trattative con i Palestinesi subito, senza precondizioni e senza frapporre impedimenti

alla ripresa di negoziati su un accordo definitivo” e che un eventuale accordo raggiunto sarà sottoposto ad

un referendum popolare. A tal proposito, pochi giorni fa, secondo un sondaggio del quotidiano Israel HaYom,

la maggioranza dei cittadini israeliani (50,9%) si è detta favorevole alla ripresa dei negoziati di pace con i

Palestinesi ma, allo stesso tempo, ben il 71,6% si è detta pessimista sull’eventualità di un accordo.

SIRIA – Nonostante gli auspici dell’invito ONU a Damasco, Lakhdar Brahimi, circa l’organizzazione già in

giugno della seconda Conferenza internazionale di pace sulla Siria, la diplomazia internazionale resta

ostaggio di veti (politici) e opposizioni incrociate, aggravate da uno stato del conflitto che – almeno nel

mese appena trascorso – sembra sia volto a favore delle forze lealiste ad Assad. Lo scorso 5 giugno, anche

grazie al sostegno delle milizie di Hezbollah, le forze del governo centrale hanno annunciato di aver

riconquistato la città e l’intera regione di Qusayr, punto di congiuntura strategico tra Siria e Libano e che

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mette in collegamento il nord e il sud del Paese. Tale disfatta, ammessa anche dai ribelli e che ha

evidenziato quanto il regime di Assad sia ben lontano dal cadere (pur dovendo ricorrere all’aiuto esterno), ha

immediatamente prodotto i primi effetti: le forze di opposizione hanno attaccato Baalbek, città del Libano

nella Valle di Beqaa, una delle roccaforti del “Partito di Dio”.

Già dalla fine di maggio il conflitto si era esteso al Paese dei cedri

coinvolgendo sia Beirut - colpita da due missili (probabilmente due

“Grad” di costruzione sovietica) lanciati da un’area a sud-est della città

verso il quartiere sciita – sia, soprattutto, i territori settentrionali e in

particolar modo Tripoli: qui si fronteggiano le fazioni rivali del principale

quartiere sunnita di Bab al-Tabanneh, che sostiene l'opposizione

siriana, e di Jabal Mohsen, abitato da sostenitori dei siriani sciiti alawiti

e dunque di Assad. Negli ultimi giorni di giugno il fronte libanese si è

esteso anche a sud della capitale: dal 23 giugno sono in corso a Sidone e nel villaggio di Abra scontri (18

morti) tra l’esercito e i sunniti sostenitori dello sceicco estremista Ahmad al-Assir, che – accusato di essere

finanziato dalle Monarchie del Golfo – recentemente ha spinto i militanti del suo gruppo a opporsi con più

decisione agli sciiti del Libano e in particolare al coinvolgimento nella guerra in Siria di Hezbollah. Lo

scenario bellico non sembra essersi esteso al solo Libano, ma rischia ora di contagiare anche le alture

del Golan, territorio israeliano che, dopo la recente fortificazione voluta da Netanyahu, è tornato ad essere

teatro di rappresaglie che nell’ultimo periodo sono cresciute di intensità: il 6 giugno i ribelli siriani hanno

lanciato un attacco contro il valico di Quneitra (l’unico lungo la linea di confine tra Siria e Israele),

prendendone il controllo per alcune ore, prima che l'esercito di Damasco lo riconquistasse. L’instabilità

dell’area - che ha portato Tel Aviv a dichiarare il lato israeliano del valico “zona militare chiusa” - e il

ferimento negli scontri di un peacekeeper filippino appartenente alla missione UNDOF dell'ONU, hanno

indotto il governo austriaco a ritirare i propri 377 caschi blu dal Golan: in una nota congiunta del

cancelliere Werner Fayman e del Ministro degli Esteri Michael Spindelegger, Vienna ha spiegato che "lo

sviluppo della situazione mostra che non può essere più giustificata un'ulteriore attesa". Alla proposta

russa di rimpiazzare pertanto il contingente danubiano, il Palazzo di Vetro ha risposto negativamente,

spiegando che "l'accordo concluso tra la Siria e Israele non permette più ai membri del Consiglio di

Sicurezza delle Nazioni Unite di partecipare alle Forze di osservazione". Ma la sempre maggiore

preminenza russa nel conflitto siriano non è visibile solo da questa richiesta e dalla discussa fornitura al

regime di Assad di batterie anti-missili S-300 (o ancora di sofisticati missili da crociera Yakhont), ma anche

dalla recente decisione di Vladimir Putin di tornare a posizionare per la prima volta dopo decenni la flotta

Russian Pacific nel Mediterraneo in corrispondenza del porto siriano di Tartus. La task force - che al

momento include la grande nave antisottomarino Severomorsk, la fregata Yaroslav Mudry, i rimorchiatori

Altai e SB-921 e il tanker Lena delle Flotte Northern e Baltic, cosi come la nave per il trasporto delle truppe,

la Azov dalla flotta del Mar Nero, e che potrebbe essere incrementata con sottomarini atomici come

dichiarato dall'Ammiraglio Navale Viktor Chirkov - risponde evidentemente non solo alla necessità di

fronteggiare il radicalismo islamico proveniente dal Caucaso settentrionale che secondo l’FSB russa

agirebbe di fianco ai ribelli siriani, ma anche il possibile intervento occidentale dopo che gli Stati europei

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hanno deciso di sollevare l’embargo alle armi per l’opposizione siriana. Secondo il Washington Post,

Russia e Iran fornirebbero al regime di Assad anche droni, sistemi di tracciamento anti-artiglieria - che

consentono di localizzare da dove parte il fuoco nemico - e sistemi per il disturbo delle comunicazioni, fattori

che spiegherebbero la rapida riconquista di varie parti del territorio e che hanno indotto la Casa Bianca a

mantenere sul territorio giordano F16 e batterie di missili Patriot (eventualmente utilizzabili per una no-fly

zone). Barack Obama, dopo aver asserito che il regime di Damasco ha superato la “linea rossa stabilita dalla

comunità internazionale” usando i gas - incluso il sarin - in “molteplici occasioni” (almeno 4 secondo un

documento segreto citato dal New York Times), il 14 giugno ha firmato il decreto che consegna alla CIA il

compito di occuparsi del coordinamento dell’invio di armi ai ribelli: secondo il medesimo giornale

durante il mese di luglio giungeranno a gruppi di ribelli individuati (per i quali sono previste anche attività di

addestramento) armi leggere, munizioni di diverso calibro e un numero – per ora limitato – di armamenti più

pesanti, come alcuni tipi di missili anticarro. Certamente, comunque, la strategia statunitense non è dettata

solo da quelle russe, ma anche dal rinvigorimento delle forze di Assad: Qusayr ha di fatto aperto

all’offensiva lealista su Aleppo (“Operazione Tormenta nel Nord”), nel nord della Siria, permettendo la

presa della località di Shwihneh e dando un duro colpo al gruppo ribelle Fronte Al Nusra. Gli insorgenti

restano ancora presenti nell’aeroporto militare di Minnigh, punto strategico per raid aerei in tutta la provincia.

Eppure anche Aleppo potrebbe non essere sufficiente per il controllo totale della nazione: è per questo che

dal 28 giugno si è tornato a combattere con più intensità ad Homs, roccaforte dei ribelli e fondamentale

perché di collegamento tra la capitale e la costa mediterranea. E nell’impasse russo-statunitense prova ad

inserirsi l’UE che, divisa sul piano del sostegno militare ai ribelli, vede il tentativo diplomatico di Catherine

Ashton – che il 30 giugno ha peraltro incontrato i Ministri degli Esteri del Gulf Cooperation Council per

discutere del dossier in questione – secondo la quale la soluzione dev’essere raggiunta attraverso un

processo politico.

SUDAN/SUD SUDAN – Lo scorso 16 giugno il governo sudanese ha

annunciato l’abrogazione degli accordi petroliferi e di sicurezza

firmati solo la scorsa primavera con il Sud Sudan. Dopo mesi di

tentativi infruttuosi, infatti, il 9 marzo i capi negoziatori dei due Paesi,

riuniti ad Addis Abeba sotto l’egida dell’Unione Africana e con la

mediazione dell’ex Presidente sudafricano Thabo Mbeki, avevano

trovato un’intesa sulla ripresa delle esportazioni di petrolio sud-

sudanese (lo scorso anno Juba aveva difatti bloccato l’erogazione a

causa di un contenzioso tariffario per l’utilizzo degli oleodotti gestiti

da Khartoum) attraverso le infrastrutture sudanesi e, a garanzia di

ciò, avevano previsto il ritiro delle proprie truppe da una zona di frontiera smilitarizzata con lo scopo

di allentare progressivamente le tensioni nelle tre aree di confine ancora – nonostante l’indipendenza

del Sud nel 2011 – contese: la regione di Abyei, Nilo Azzurro e Sud Kordofan. La decisione del Presidente

sudanese Omar al-Bashir di interrompere gli accordi è infatti una ritorsione per il sostegno che il governo

sudsudanese (che invece smentisce) offrirebbe ai ribelli del Fronte Rivoluzionario Sudanese (SRF),

un’alleanza tra vari gruppi di guerriglieri (JEM, SLM, SPLM) siglata il 12 novembre 2011 e che da anni

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combattono il governo centrale sia nelle province in questione – ricche peraltro di risorse naturali e

giacimenti petroliferi – sia nel Darfur. Anche la ricca regione petrolifera di Jonglei, formalmente facente

parte del Sud Sudan, è tornata ad essere teatro di scontri tra le forze armate di Khartoum e gruppi

autonomisti. Secondo l’Alto Commissariato dell’ONU per i rifugiati (UNHCR), che ha confermato tensioni

crescenti e abusi indiscriminati sulle popolazioni, ben 11.000 persone di etnia Murle sono in fuga verso la

capitale sud sudanese Juba e altre migliaia di rifugiati sono dirette verso Etiopia, Uganda e Kenya. Tentativi

di superamento della crisi sono tuttavia in corso. Secondo quanto riferisce l’agenzia Misna, nella prima

settimana di luglio si sono svolti a Khartoum incontri preliminari tra le due compagini governative per

tentare di ricomporre la crisi e riprendere almeno i normali flussi petroliferi dal Sud al Nord.

Photo credits: AFP, The Long War Journal, UN/OCHA, The Economist, Getty Images, Wikipedia.

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World Crisis Watch

Coordinamento editoriale a cura di

Maria Serra, Giuseppe Dentice e Davide Borsani