vulnerabilità vs resilienza

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Atti del convegno Roma 08 Aprile 2010 Presso Università Pontificia Salesiana A cura di Laura Nardecchia VULNERABILITA’ VULNERABILITA’ VULNERABILITA’ VULNERABILITA’ VS VS VS VS RESILIENZA RESILIENZA RESILIENZA RESILIENZA

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Atti del convegno

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Atti del convegno Roma 08 Aprile 2010

Presso Università Pontificia Salesiana

A cura di Laura Nardecchia

VULNERABILITA’VULNERABILITA’VULNERABILITA’VULNERABILITA’ VSVSVSVS

RESILIENZARESILIENZARESILIENZARESILIENZA

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Atti del Convegno “Vulnerabilità vs resilienza” Roma, 08 Aprile 2010

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A cura di Laura NardecchiaA cura di Laura NardecchiaA cura di Laura NardecchiaA cura di Laura Nardecchia

Edizione Agosto 2010

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Atti del Convegno “Vulnerabilità vs resilienza” Roma, 08 Aprile 2010

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INDICEINDICEINDICEINDICE

Cap. 1 Cap. 1 Cap. 1 Cap. 1 ---- PRESENTAZIONE PRESENTAZIONE PRESENTAZIONE PRESENTAZIONE ............................................................................................................................................................................................................................ 4444

Cap. 2 Cap. 2 Cap. 2 Cap. 2 ---- PROGRAMMAPROGRAMMAPROGRAMMAPROGRAMMA........................................................................................................................................................................................................................................................ 9999

Cap. 3Cap. 3Cap. 3Cap. 3 ---- ABSTRACTS ABSTRACTS ABSTRACTS ABSTRACTS ................................................................................................................................................................................................................................................................ 11111111

CaCaCaCap. 4 p. 4 p. 4 p. 4 –––– RELAZIONI RELAZIONI RELAZIONI RELAZIONI ................................................................................................................................................................................................................................................................ 19191919

Divorzio: palestra della resilienza ................................................................................... 19 La resilienza nell'età adulta e nella comunità in seguito a eventi potenzialmente traumatici. ..................................................................................................................... 26 La resilienza quale fattore motivazionale: evidenze dal mondo dello sport .................... 49 Davanti alla morte: vulnerabilità vs resilienza Teoria e interventi clinici di Psicoterapia Integrata ........................................................................................................................ 61 Il trauma e la capacità di resilienza ................................................................................ 77 Pensare costruttivo con la Resilienza ............................................................................. 87 Vulnerabilità vs resilienza in età evolutiva: .................................................................. 103

Cap. 4 Cap. 4 Cap. 4 Cap. 4 –––– RINGRAZIAMENTI RINGRAZIAMENTI RINGRAZIAMENTI RINGRAZIAMENTI ........................................................................................................................................................................................................ 141141141141

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Gli studi sulla Resilienza hanno una lunga storia che inizia nella metà del 20° secolo, con ricerche in vari ambiti, diverse popolazioni e patologie. A tutt’oggi, in ambito internazionale, la Resilienza è al centro di interesse scientifico e clinico ed è considerata una caratteristica ordinaria, presente negli esseri umani, nelle famiglie e nelle comunità. Osserviamo comunemente comportamenti resilienti nelle famiglie per superare conflitti, favorire relazioni affettive positive e raggiungere obiettivi condivisi; nelle comunità per sviluppare risorse in modo da promuovere una convivenza pacifica e collaborativa; nell’individuo per migliorare la propria salute mentale ed emozionale e per risolvere situazioni difficili nella vita quotidiana, tutti con l’obiettivo di raggiungere un certo grado di benessere. Questo non significa che una persona non sperimenti difficoltà, emozioni di dolore e tristezza di fronte a situazioni traumatiche e drammatiche o che una famiglia o una comunità non si trovino a fronteggiare emergenze per lutti, avversità e catastrofi, ma che trovino risorse personali ed ambientali per fronteggiare al meglio le situazioni. La resilienza è un fenomeno ed un processo che riflettono un relativo adattamento positivo nonostante esperienze di avversità, traumi, tragedie, pericoli o fonti significative di stress, come problemi familiari e relazionali, seri problemi di salute, o stressor dovuti al lavoro ed a problemi finanziari.

Le definizioni proposte dagli studiosi sono molteplici in quanto si riferiscono a differenti presupposti teorici e sono diversificate in relazione alle aree indagate ed agli obiettivi. Dalle ricerche emerge che la Resilienza implica caratteristiche fenomenologiche, processuali, esperienze e risposte più o meno adattive che non sono un’acquisizione permanente ma sono variabili nello stesso individuo, nella famiglia, nella

Cap. 1 Cap. 1 Cap. 1 Cap. 1 ---- PRESENTAZIONE PRESENTAZIONE PRESENTAZIONE PRESENTAZIONE

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comunità in quanto nuove vulnerabilità e risorse emergono con cambiamenti delle circostanze di vita. Infine, bisogna aggiungere che la Resilienza risente dei molteplici contesti, realtà e culture dove le persone svolgono la loro vita.

La Resilienza non viene considerata, quindi, come un tratto stabile che le persone hanno o non hanno. Nel costrutto di resilienza sono presenti comportamenti, pensieri, emozioni, valutazioni, interessi ed atteggiamenti che possono essere appresi e sviluppati da ciascuno. Nello studiare questo argomento ed ai fini di pianificare interventi efficaci, va tenuto presente che ciascun essere umano dà un suo significato al comportamento resiliente in base ai suoi interessi e valutazioni insieme ai valori e principi veicolati dalla cultura e dal gruppo di riferimento.

Generalmente il costrutto di Resilienza è definito come “un processo dinamico di adattarsi con successo a situazioni di vita stressanti nonostante esperienze di avversità e traumi significativi”, approccio basato specialmente sulle risorse o punti di forza di un individuo, sull’abilità di auto-riparazione e di sopravvivenza.

Il Prof. M. Ungar, della Dalhousie University (Canada), propone, in accordo ad un approccio costruttivista post-moderno, di considerare la Resilienza sotto due aspetti 1) - la capacità dell’individuo di navigare per l’acquisizione di risorse benefiche per la sua salute ed una condizione della famiglia, della comunità e della cultura di fornire tali risorse nei modi culturalmente significativi; 2) - la negoziazione di risorse che sostengono e promuovono la salute, in un contesto socio-culturale. Per cui la resilienza è un concetto allargato e complesso che include l’individuo, coi suoi significati, insieme a fattori comunitari e culturali.

Comprendere come e perché alcuni bambini sviluppano disordini o comportamenti non adattivi, mentre altri bambini, nonostante valutati potenzialmente vulnerabili ed in situazioni avverse, si sviluppano normalmente, richiede l’identificazione sia di quei fattori di rischio e protezione che potrebbero minare o promuovere un positivo

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adattamento, sia delle convinzioni, delle euristiche e dei significati che ciascuno attribuisce a sé ed agli obiettivi che intende perseguire per il proprio benessere.

L’importanza del tema a fini di interventi nell’ambito evolutivo e preventivo, con obiettivi di sviluppo e promozione della salute ed il benessere psico-sociale, ci ha motivato ad organizzare un primo convegno dedicato alla Resilienza, come evento introduttivo al quale intendiamo far seguire incontri di approfondimento specifici.

Il programma ha visto l’intervento si diversi esperti del settore che hanno dato il loro contributo specifico per illustrare i diversi ambiti di applicazione di un costrutto fondante il benessere dell’individuo tale è il costrutto della resilienza.

Il convegno ha avuto luogo il giorno 08 Aprile 2010 presso l’Università Pontificia Salesiana in Piazza dell’Ateneo Salesiano, 1 a Roma.

Responsabile del Convegno:

Dott.ssa Gabriella Giordanella Perilli.

Membri del Comitato Scientifico:

Prof. Carlo Nanni (Magnifico Rettore Università Pontificia Salesiana)

Dott.ssa Luisa Lopez

Dott.ssa Gabriella Giordanella

Prof. Santo Rullo

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Sono intervenuti i seguenti relatori (in ordine alfabetico):

Dott. Roberto Cicinelli

Dott.ssa Gabriella Giordanella

Dott.ssa Susanna Loriga

Prof. Clemente Polacek

Prof. Gabriele Prati

Dott. Santo Rullo

Dott. Pietro Trabucchi

Il convegno è stato organizzato da:

Associazione Musilva

Scuola di Psicoterapia Integrata e Musicoterapia

(http://www.musilva-spim.it)

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Con il patrocinio de:

• Ordine degli Psicologi del Lazio

• Comune di Roma Assessorato alle Politiche Culturali e della Comunicazione

• Provincia di Roma

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Cap. 2 Cap. 2 Cap. 2 Cap. 2 ---- PROGRAMMAPROGRAMMAPROGRAMMAPROGRAMMA

Mattina

9:30 • Prof. C. NANNI Apertura Lavori

Chairman: Prof. C. NANNI

10:00 • Prof. C. POLACEK

Divorzio: palestra della resilienza

10:45 • Dott. G. PRATI La resilienza nell'età adulta e nella comunità in seguito a eventi potenzialmente traumatici

• 11:30 coffee break •

Chairman: Dott.ssa L. LOPEZ

12:00 • Dott. P. TRABUCCHI

La resilienza quale fattore motivazionale: evidenze dal mondo dello sport

12:45 • Dott.ssa. G. GIORDANELLA Davanti alla morte: vulnerabilità vs resilienza. Teoria e interventi clinici di Psicoterapia Integrata

• 13:30 pausa pranzo •

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Pomeriggio

Chairman: Dott.ssa. G. GIORDANELLA

14:30 • Dott.ssa S. LORIGA

Educazione socio – affettiva e resilienza

15:15 • Dott. R. CICINELLI Pensare costruttivo con la Resilienza

• 16:00 coffee break •

Chairman: Dott.ssa L. LOPEZ

16:30 • Dott. S. RULLO

Vulnerabilità vs resilienza in età evolutiva: il ruolo dell’ambiente, della cultura e delle sostanze di abuso nell’esordio dei disturbi psicotici

17:15 - 18:30 • Tavola Rotonda

18:30 • Discussione e conclusione

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Cap. 3 Cap. 3 Cap. 3 Cap. 3 ---- ABSTRACTS ABSTRACTS ABSTRACTS ABSTRACTS1111

“Divorzio: palestra della resilienza”

Prof. Clemente Polacek

Nel contributo viene definito il concetto di resilienza e poi vengono descritti tre modi con cui tre categorie di soggetti hanno gestito la nuova situazione creatasi dopo il divorzio dei loro genitori di cui una adottando la resilienza e le altre due il coping meno adatto.

Il costrutto di "resilienza psicologica" presenta delle importanti innovazioni teorico-operative rispetto ai vecchi modelli di "robustezza psicologica", tipiche degli anni '70-'80 (come, ad esempio, il classico costrutto di Hardiness proposto da Kobasa).

La resilienza non implica solo la capacità di "reggere frontalmente" ad impatti emotivi critici, ma soprattutto la possibilità di adattarvisi flessibilmente, ripristinando nuove forme adattative di equilibrio personale e psicosociale nel post-evento. Un costrutto complesso, quindi, che può essere applicato sia in ambito individuale che psicosociale.

1 Tutto i l materiale presentato è stato dato in gentile concessione alla Scuola di Psicoterapia Integrata e Musicoterapia e resta espressamente proprietà degl i autori . Ogni riproduzione necessi ta di dichiararne la fonte.

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“La resilienza nell’età adulta e nella comunità in

seguito a eventi potenzialmente traumatici”

Dott. Gabriele Prati

La ricerca sulla resilienza si è tradizionalmente focalizzata sull’infanzia e sull’adolescenza. Negli ultimi anni, tuttavia, quest’area di studi è stata estesa all’età adulta con particolare riferimento ad eventi critici (es. lutto o trauma). La finalità di questo intervento è quella di delineare lo stato dell’arte in due concetti di resilienza: resilienza nell’età adulta e resilienza di comunità. Questo intervento assume come prospettiva teorica la teoria di Hobfoll sulla conservazione delle risorse. Dagli studi sulla resilienza nell’età adulta emergono tre punti: la resilienza è diversa dal recupero, gli esiti di resilienza sono comuni e vi sono molteplici risorse (sia personali che ambientali) che li possono favorire. Le risorse personali riscontrate sono credenze centrate sull’accettazione e su un mondo giusto, hardiness, self-enhancement, regolazione emotiva (prima dell’evento), variabili di appraisal, autoefficacia legata al coping, emozioni positive e strategie di coping attive e orientate all’inibizione delle emotive negative (durante e dopo l’evento). Fra le risorse ambientali troviamo il sostegno sociale, soprattutto quello percepito, risorse materiali, senso di appartenenza e riconoscimento sociale.

Nella resilienza di comunità vi sono elementi che si collocano sul piano dei fattori di rischio, di protezione e di esito. Fra i fattori di rischio la letteratura ha indagato disastri, criminalità e violenza, fattori socio-culturali, fattori politici,

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economici e geografici. I fattori di protezione a livello di comunità risultano essere: fattori sociali, fattori culturali, fattori economici e politici. Fra gli esiti di resilienza applicati alla comunità in letteratura sono stati utilizzati indicatori economici, politici ed epidemiologici.

“La resilienza quale fattore motivazionale:

evidenze dal mondo dello sport”

Dott. Pietro Trabucchi

Uno degli aspetti più interessanti della resilienza sta nella sua caratteristica di generare motivazione e nel favorire la persistenza motivazionale. Questo aspetto della resilienza trova una delle sue massime espressioni nel mondo dello sport d’elite. Non solo perché la resilienza è uno dei fattori fondamentali di successo nelle carriere sportive. Ma anche perché, negli ultimi anni, per una serie di fenomeni legati sia alle trasformazioni sociali e culturali, sia alle innovazioni nelle metodiche di allenamento, l’età della massima prestazione si è alzata; inoltre le carriere degli atleti ai massimi livelli sono diventate più lunghe. Questo ha richiesto di investire e lavorare ulteriormente sulle capacità motivazionali degli atleti.

Nella relazione vengono brevemente analizzate alcune esperienze di costruzione della resilienza e delle risorse motivazionali nello sport d’elite; e vengono prospettate le possibilità di generalizzare queste esperienze d’eccellenza ad altri contesti, come quello educativo o al mondo delle organizzazioni e del lavoro.

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“Davanti alla morte: vulnerabilità vs resilienza.

Teoria e interventi clinici di Psicoterapia Integrata

(Guided Imagery and Music – BMGIM e Rational

Emotive Behavioural Therapy – REBT)”

Dott.ssa Gabriella Giordanella

Gli esseri umani vivono, generalmente, una morte tragica, improvvisa, prematura, in modo traumatico, così come nel confronto con la propria morte e/o malattia incurabile, gli stessi mostrano il loro lato vulnerabile. Questi eventi possono essere vissuti con notevoli differenze da un soggetto ad un altro, da un gruppo ad un altro, per una serie di variabili che possono riguardare livelli di vulnerabilità personali, nonché fattori di rischio e protettivi presenti nel contesto socio-culturale.

In accordo col concetto di resilienza, l’esperienza traumatica può portare, in alcuni casi, ad una crescita e ad un cambiamento, con l’acquisizione di una diversa consapevolezza di sé ed una diversa attribuzione di significato alla propria esperienza. Ciò che è più interessante e rilevante per l’organizzazione di interventi terapeutici, sembra che l’atteggiamento di resilienza possa essere appreso.

L’insieme di conoscenze attualmente disponibili sull’essere umano, suggeriscono, nella pratica terapeutica, l’utilizzo di interventi multidimensionali – come la Guided Imagery and Music di H. Bonny integrata con la REBT – per promuovere atteggiamenti resilienti in presenza di caratteristiche di vulnerabilità.

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Studi interdisciplinari ed esempi clinici illustreranno come l’intervento proposto sia efficace nel favorire lo sviluppo di caratteristiche di resilienza.

Il metodo presenta particolarità specifiche rappresentate dalla musica, stimolo sensoriale ad alta valenza emozionale, percepita in uno stato modificato di coscienza e la condivisione verbale con il terapeuta, durante lo svolgimento dell’esperienza. Queste caratteristiche comportano: 1) l’attivazione di un’ampia rete di regioni cerebrali associate all’attenzione, ai processi semantici, alla memoria, a funzioni motorie e processi emotivi; 2) la mappatura cognitiva di schemi immaginativo-metaforici tra aree cerebrali e livelli diversi di coscienza; 3) l’immaginario come attivo coinvolgimento del soggetto che permette all’organismo di simulare internamente eventi importanti/traumatici affinché possano essere rivisitati e modificati mediante la scoperta di risorse e l’elaborazione di abilità di coping; 4) la riflessione conclusiva in modo da integrare il vissuto esperienziale nella vita quotidiana; 5) effetti positivi sulla salute psicofisica e sul benessere soggettivo.

“Educazione socio-affettiva e resilienza”

Dott.ssa Susanna Loriga

Resilienza, deriva dal latino resalio, iterativo di salio, che significa saltare, danzare.

La letteratura scientifica internazionale suddivide la resilienza in: resilienza strutturale e resilienza congiunturale.

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Serge Tisseron, psichiatra, ne “Resilience ou la lutte pour la vie « agosto 2003, utilizza la metafora dell’ostrica per spiegare la resilienza. L’ostrica reagisce all’entrata di impurità producendo la perla. La resilienza rappresenta una ricchezza interiore.

La resilienza non scaturisce ipso facto dal trauma se, chi ha subito il vulnus, non riconosce il danno subito uscendo dallo stato di obnubilamento che ne impedisce un’elaborazione.

Educare alla resilienza significa anche: educare all’autoconsapevolezza e all’empatia attraverso i percorsi di educazione socio-affettiva all’interno delle scuole. Ergo, sviluppare l’intelligenza emotiva (Goleman), come capacità indispensabile per instaurare relazioni produttive e per elaborare i lutti nel proprio percorso di vita.

“Pensare costruttivo con la Resilienza”

Dott. Roberto Cicinelli

La resilienza può essere definita come la capacità di affrontare e superare le avversità. E’, di fatto, concepita come un processo attivo non solo di resistenza ma di auto riparazione e di crescita in risposta alle crisi ed alle difficoltà della vita che fonda la sua essenza sulle risorse e le potenzialità dell’individuo.

La riconosciuta capacità di superare le difficoltà mette in discussione l’idea, molto diffusa nella nostra cultura, secondo la quale non è pensabile che un trauma grave o precoce possa

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risolversi, o che le esperienze negative non condizionino costantemente la nostra vita.

Contro questo pessimismo deterministico, proponiamo la centralità della persona e ci focalizziamo sulla responsabilità da parte dell’individuo nel costruire la propria vita.

Il modo in cui l’individuo valuta i problemi e le opportunità determina la differenza tra la capacità di affrontare e padroneggiare le difficoltà ed il precipitare nella disorganizzazione funzionale e nello sconforto. Ne consegue che le credenze facilitanti ammettono le possibili alternative utili per la risoluzione dei problemi, per la guarigione e la crescita, laddove le credenze limitative perpetuano i problemi e riducono le possibili soluzioni.

“Vulnerabilità vs resilienza in età evolutiva: il

ruolo dell’ambiente, della cultura e delle sostanze di

abuso nell’esordio dei disturbi psicotici”

Dr. S. Rullo

Nell’eziopatogenesi dei disturbi psicotici ha acquisito grande importanza la vulnerabilità individuale pre-morbosa, con essa individuando quegli elementi eredo-familiari e quelle varianti genetiche legate ad una riduzione dell'attività della dopamina nella corteccia prefrontale per il coinvolgimento del gene COMT, che codifica per un enzima che modifica la dopamina prodotta nelle sinapsi.

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La complessità del disturbo e la particolare delicatezza dei processi di maturazione neuronale e psicologico-relazionale dell’età evolutiva, età di insorgenza dei disturbi schizofrenici, chiama in causa altre variabili legate all’interfaccia individuo-ambiente che verranno descritte in questo lavoro con particolare riferimento al rapporto vulnerabilità-resilienza.

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Divorzio: palestra della resilienza

Prof. Clemente Polacek

(Docente emerito della facoltà di Scienze dell'Educazione dell’Università Pontificia Salesiana di Roma; Psicologo)

1. Concetto

La resilienza è un costrutto nuovo adottato in psicologia solo recentemente e preso, per analogia, dalla fisica. Infatti, nel dizionario della lingua italiana il termine resilienza (dal latino resalio = saltare indietro, rimbalzare) viene utilizzato in fisica ed indica la capacità di un metallo di resistere ad urti improvvisi senza spaccarsi e, se piegato come una barra di acciaio, di riprendere la sua posizione o forma di prima di essere piegato.

Vettorato (2008) fornisce il significato della resilienza nelle scienze psico-sociali e educative riportando che essa è la capacità di un soggetto di fare appello alle proprie risorse interiori per reagire ad una situazione avversa e per sviluppare una personalità positiva nonostante le previsioni sfavorevoli. Alcuni vivono in situazioni di alto rischio senza essere piegati da esse. Vettorato riporta alcune disposizioni del soggetto “resiliente” che consistono nelle seguenti capacità:

a) esaminare con sincerità se stesso;

2 Per alcuni non verranno presentate del le relazioni scri t te ma verranno presentate le s lide usate per i l convegno.

CaCaCaCap. 4 p. 4 p. 4 p. 4 –––– RELAZIONI RELAZIONI RELAZIONI RELAZIONI 2222

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b) mantenersi a una certa distanza emozionale dai problemi senza però isolarsi;

c) affrontare i problemi, capirli e controllarli;

d) proporsi obiettivi per superare situazioni di rischio;

e) relativizzare gli avvenimenti negativi;

Queste capacità si formano in tenera età per mezzo dei buoni rapporti iniziali con la madre (attaccamento sicuro opposto a quello insicuro) che poi fondano la base per la sicurezza interna e per l’autostima del figlio.

2. Dati di una ricerca

Con i dati di una recente ricerca intendo illustrare come una situazione che si è creata nella famiglia può essere gestita in tre differenti modi, il primo dei quali è quello della resilienza mentre i rimanenti due sono della rassegnazione. La ricerca è stata condotta da Eldar-Avidan, Haj-Yahia e Greenbaum (2009) nello Stato di Israele. Allo studio hanno partecipato 22 giovani israeliani di età tra i 20-25 anni, i cui genitori hanno divorziato durante la loro infanzia o adolescenza, tra il 2° e il 18° anno della loro vita. Dei 22 soggetti 16 erano donne e 6 erano uomini, tutti celibi e tutti hanno completato l'obbligo scolastico. Dopo il divorzio la maggior parte (20) è stata affidata alla madre.

Con un’approfondita intervista semi-strutturata sono stati ottenuti dei dati su come hanno vissuto il divorzio. Le domande sono state poste in modo diretto e ai soggetti è stata data grande possibilità di rispondere liberamente. I dati raccolti sono stati poi esaminati dagli esperti con metodi adatti al tipo di intervista scelta e sono stati raccolti anche dati demografici.

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Dall'analisi delle risposte dei 22 soggetti sono emersi tre distinti profili con tre categorie di soggetti: i resilienti, i sopravvissuti e i vulnerabili. Cerchiamo di descriverli e poi trarre qualche conclusione.

2.1. I resilienti

I resilienti hanno considerato il divorzio come la transizione che offriva l'occasione al potenziamento della loro crescita e all'acquisizione di una nuova identità. Pur non minimizzando il peso della lacerante esperienza, pensavano che si presentavano loro nuove possibilità per la vita. Dei ventidue nove risultarono tali.

I resilienti valorizzavano molto i rapporti familiari e si rendevano conto dei vantaggi che la famiglia, benché in una nuova struttura, offrisse loro. Essi ricevevano notevole aiuto dal genitore affidatario, quasi sempre la madre, e la percepivano come persona capace di gestire i suoi doveri verso il figlio nonostante la sua difficile situazione. Il genitore al quale il figlio era stato affidato risultava fondamentale nella nuova situazione. Una giovane donna si è espressa così: “Mia madre è stata un «muro difensivo» che ci avvolgeva”. Dal colloquio è emerso anche che quasi tutti i resilienti avevano buoni contatti con il padre che partecipava regolarmente alla loro vita. La famiglia, nonostante il grande cambiamento, continuava ad essere l'ancora di salvezza e di aiuto nella nuova situazione.

Per qualcuno il divorzio è stato un'occasione di crescita e di maturazione anticipata secondo la testimonianza di una giovane donna: “Sono cresciuta più rapidamente e maturata prima dei miei amici”.

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2.2. I sopravvissuti

I sopravvissuti sono stati coloro che hanno interpretato il divorzio come un fatto complesso che richiedeva un adeguato adattamento.

Il loro atteggiamento verso la nuova situazione della famiglia era ambivalente. Da un lato si sentivano di poter fronteggiare la nuova situazione ma dall’altro avevano dubbi di riuscirvi. L’ambiguità della nuova situazione stava anche nel fatto che la consideravano guadagno e perdita nello stesso tempo. Dei ventidue otto appartenevano a questa categoria.

I sopravvissuti si mostravano verso il genitore affidatario benevoli ma non lo consideravano all'altezza della nuova situazione. Per loro il divorzio risultava un'esperienza dolorosa che ha segnato la loro infanzia o adolescenza.

Durante lo sviluppo fronteggiavano con difficoltà i loro compiti per formarsi la propria identità e nella giovane età sono stati restii a intraprendere un rapporto affettivo con una persona. Molti di loro hanno disapprovato il divorzio dicendo che un bambino ha bisogno di una famiglia mentre gli altri capivano che i loro genitori non avrebbero potuto mai essere una coppia affiatata e prevedevano che anche una nuova convivenza del genitore non sarebbe stata stabile.

I sopravvissuti erano convinti che il genitore a cui erano stati affidati non offrisse loro sufficiente sostegno e ricorrevano perciò ad altre persone per essere aiutati, principalmente ai nonni.

In quanto alla relazione stabile da adulti venivano assillati da dubbi. Si distanziavano anche dai matrimoni riusciti dei loro conoscenti in quanto hanno perso la fiducia di poter contrarre un matrimonio stabile.

Questa categoria è stata segnata soprattutto dallo scarso aiuto avuto dal genitore affidatario e dall'assenza (sembra totale) dell'altro genitore (il padre).

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2.3. I vulnerabili

I vulnerabili hanno vissuto il divorzio come un evento molto doloroso che ha segnato la loro vita fino a quella età. Dei ventidue cinque risultavano tali.

La loro vulnerabilità consisteva nella perdita della relazione con entrambi i genitori. Quando i vulnerabili hanno raggiunto l'età matura, la percezione della loro infanzia non è migliorata e sono stati ancora accompagnati dal dolore e dalla ribellione. Ecco il giudizio di una giovane donna: “Mia madre come madre ha fallito totalmente … mi sembra di sprofondare nel mare”. I padri hanno deluso i figli durante l'infanzia e tale delusione si è protratta fino alla loro età adulta. Un certo aiuto veniva reciprocamene dai fratelli e dalle sorelle. Del matrimonio dei genitori, superfluo persino a dirsi, avevano una totale disistima.

I vulnerabili godevano, se così si può dire, di una notevole indipendenza, ma la consideravano più come una mancanza di sostegno da parte dei genitori che un vantaggio e la intendevano come una possibilità di non dover avere dei contatti con i genitori come ha espresso un soggetto: “Il divorzio ha creato attorno a me un deserto”. Nell'età adulta i vulnerabili non possedevano un modello di matrimonio e il concetto di intimità non andava oltre i cliché offerti dai mass media. Tutti, tranne uno, non avevano un legame affettivo e nutrivano la convinzione pessimista della vita senza però manifestarla apertamente.

Le tre categorie di soggetti hanno avuto la seguente caratteristica in comune: la capacità o la incapacità dei genitori di agire in modo responsabile verso i figli per sostenerli durante la loro crescita.

3. Sintesi

Il divorzio è causa della crisi e l'occasione non desiderata della transizione che porta allo stress e richiede un adattamento. La

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transizione tocca l'intero sistema della famiglia e richiede la sua riorganizzazione. Essa porta ai rischi che senza il divorzio i membri non avrebbero corso. Dall'altra parte il dopo divorzio richiede la capacità del soggetto di fronteggiare la nuova situazione che può mobilitare le sue forze offrendogli la possibilità di mettere in atto la sua resilienza.

La resilienza, pur essendo una capacità personale deve essere sostenuta anche con l’aiuto esterno. Generalmente vengono distinti due tipi di fattori: interni ed esterni.

I fattori interni sono di natura razionale; la capacità di capire la situazione e la coscienza delle proprie risorse è di natura valoriale: un concetto positivo di se stesso con la conseguente stima; il desiderio di crescita e di considerare la nuova situazione come una opportunità di dimostrare a se stessi la capacità di gestire la situazione stressante.

I fattori esterni si riferiscono alla famiglia con la sua struttura che è rimasta ancora salda dopo il divorzio: la coesione, i validi legami, la capacità di gestire i conflitti degli ex-coniugi, la capacità di comunicare reciprocamente, le risorse economiche, sociali e culturali.

Nelle ricerche del passato venivano esaminate le conseguenze del divorzio sui figli considerandoli vittime, ora conviene vederlo anche in una prospettiva ricostruttiva, mobilitando le risorse interne ed esterne del soggetto e di tutto quello che è ancora rimasto della famiglia di una volta.

___________________

Riferimenti bibliografici

Eldar-Avidan D., M.M. Haj-Zahia e C.W. Greenbaum (2009), Divorce is a part of my life…Resilience, survival, and vulnerability: Young adults’ perception of the

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implications of parental divorce, in «Journal of Marital and Family Therapy», Vol. 35, No. 1, 30-46.

Vettorato G. (2008), Resilienza, in Prellezo J.M., G. Malizia e C. Nanni (a cura), Dizionario di scienze dell’educazione, Roma, LAS, p. 496.

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La resilienza nell'età adulta e nella comunità in seguito

a eventi potenzialmente traumatici.

Dott. Gabriele Prati

(Professore a contratto presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna, PhD, Psicologo.)

1. Introduzione

Nelle scienze umane e sociali il concetto di resilienza ha una storia piuttosto recente data la dominanza del modello patocentrico, che assumeva l’equazione rischio-disadattamento. Tuttavia a partire dagli anni Settanta alcuni studi longitudinali pionieristici compiuti da psichiatri e psicologi dello sviluppo come Garmezy, Anthony, Murphy, Rutter e Werner diedero avvio allo studio della resilienza che rappresenta attualmente un’area di studio ben consolidata pur tenendo conto delle sue problematiche a livello teorico ed empirico (per una rassegna critica del concetto si veda Caso, De Leo, De Gregorio, 2002).

La resilienza è un’area di studio che tradizionalmente ha avuto come focus l’infanzia e l’adolescenza. Negli ultimi anni, però, il campo di studio si è esteso lungo l’arco di vita includendo l’età adulta e senile (Bonanno, 2004). Il concetto di resilienza nell’età adulta, però, non ha avuto lo stesso seguito in termini di interesse scientifico, nonostante risulti che la maggior parte degli adulti affrontano, almeno una volta nella vita, un evento potenzialmente traumatico come il trovarsi in circostanze pericolose o il perdere, in maniera drammatica, una persona cara (Bonanno, 2005a).

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Fino ad una decina di anni fa, il focus principale nell’area degli eventi critici consisteva nella misurazione degli aspetti patologici delle reazioni a questi eventi, anche se dai dati era già chiaro che almeno la metà delle persone esposte a questi eventi non sviluppava nessun tipo di disturbo. Questi risultati venivano interpretati spesso in vari modi: come un adattamento superficiale oppure il risultato di un forte diniego o, al contrario, di una forza interiore eccezionale (ibid.). Lo scarso fondamento empirico di queste interpretazioni sarà evidenziato in questa relazione, la quale si centrerà sull’esposizione dei principali risultati emersi nello studio della resilienza nell’età adulta, limitando il campo dei fattori di rischio ad eventi potenzialmente traumatici.

2. Reazioni tipiche ad eventi potenzialmente traumatici

Fra le reazioni ad eventi potenzialmente traumatici Bonanno (2004; 2005a) distingue tra recupero (recovery) e resilienza. Da una parte il recupero denota la traiettoria evolutiva caratterizzata da un primo periodo (di solito almeno alcuni mesi fino ad uno o due anni) di sintomatologia sottosoglia, da problemi interpersonali e da difficoltà nello svolgere i compiti quotidiani, seguito da un graduale recupero al livello di funzionamento pre-evento. Dall’altra la resilienza indica la capacità di mantenere un certo equilibrio nel funzionamento al di là di possibili cadute momentanee. Naturalmente il ritorno al funzionamento precedente al fattore di rischio non deve essere preso alla lettera. Adottando una prospettiva sistemica, infatti, persone, famiglie e comunità sono sistemi in continuo cambiamento e, pertanto, non è possibile un ritorno ad uno stato precedente in senso stretto.

Queste due traiettorie rappresentano assieme al decorso cronico ed all’impatto ritardato le reazioni più comuni a traumi o lutti (FIG. 1). Da una parte abbiamo un decorso cronico che colpisce il 10-30% delle persone e si caratterizza per importanti problematiche nel funzionamento. Questo esito si differenzia da un impatto ritardato che colpisce il 5-10% delle

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persone poiché i disturbi nel funzionamento, benché presenti inizialmente, si aggravano nel tempo. La traiettoria del recupero (recovery), che riguarda il 15-35% delle persone, si differenzia dalla resilienza per la presenza iniziale di significative problematiche nel funzionamento che vengono poi gradualmente recuperate. La resilienza è, invece, l’esito più comune in quanto riguarda il 35-55% delle persone e si caratterizza per un sostanziale mantenimento del funzionamento nonostante possibili ripercussioni passeggere subito dopo l’evento critico.

A sostegno della validità di queste assunzioni vi sono alcune ricerche longitudinali.

L’esito di resilienza risulta essere collegato ad indici di migliore funzionamento prima dell’evento critico, in questo caso la morte di una persona cara, rispetto ad altri esiti caratterizzati da problematiche relative al lutto (Bonanno, Moskowitz, Papa, Folkman, 2005; Bonanno et al., 2002). Inoltre le differenze fra le diverse traiettorie, resilienza, recupero, impatto ritardato e decorso cronico, sono stati valutati in maniera longitudinale tramite diverse metodologie (self-report, interviste cliniche semistrutturate e giudizi da parte di amici o parenti dei soggetti) le quali hanno fornito risultati simili (Bonanno, Rennicke, Dekel, 2005; Bonanno, Moskowitz, Papa, Folkman, 2005).

Un altro problema relativo alla validità del concetto di resilienza riguarda la possibilità di confonderlo con un adattamento superficiale che si risolve in una compromissione del funzionamento nel lungo termine. Tuttavia questo esito è caratterizzato da un funzionamento più disturbato nel periodo immediatamente successivo all’evento critico rispetto a chi si trova in un percorso di resilienza (Bonanno, Rennicke, Dekel, 2005). Nella figura 1 l’emergere di problematiche nel lungo termine corrisponde ad un esito di impatto ritardato, differente come punto di partenza dalla resilienza.

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Un altro tipo di reazione ad eventi critici è quello relativo alla crescita post-traumatica (Prati, Pietrantoni, in corso di stampa; Tedeschi, Calhoun, 2004) che non verrà trattato in questa rassegna.

Figura 1

Primo perché, in accordo con Carver (1998), resilienza e crescita post-traumatica sono due costrutti diversi in quanto quest’ultimo fa riferimento all’acquisizione di benefici di tipo psicologico nella lotta contro l’evento negativo mentre la resilienza denota un ritorno omeostatico ad una condizione precedente. Anche se Bonanno (2004) ritiene che la resilienza implichi anche le potenzialità di esperienze trasformative ed emozioni positive, questo aspetto è periferico rispetto al tradizionale concetto di funzionamento integro in seguito ad

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avversità e raramente se ne tiene conto nelle sue operazionalizzazioni. Inoltre, cosa più importante, la ricerca sulla crescita post-traumatica ha evidenziato la contemporanea presenza di problematiche nel funzionamento ed esperienze di cambiamento in positivo (Tedeschi, Calhoun, 2004). Pertanto esperienze di crescita post-traumatica non presuppongono necessariamente un buon adattamento. Infatti, come sostiene lo stesso Bonanno (2005b), la crescita post-traumatica riguarderebbe maggiormente le persone caratterizzate da una traiettoria di recupero piuttosto che di resilienza.

Dopo aver esposto le differenze tra le diverse possibili traiettorie, si tratteranno gli altri due punti fondamentali espressi da Bonanno (2004; 2005a) che riassumono un decennio di ricerche longitudinali effettuate con persone che hanno subito un lutto o un evento potenzialmente traumatico. Il primo punto ha a che fare con l’alta prevalenza di esiti di resilienza ed il secondo con la molteplicità di risorse che conducono a questi esiti.

3. Gli esiti di resilienza sono comuni

Salzer e Bickmann (1999) e Vázquez (2005) parlano di mito per indicare l’eccessiva enfasi data alle reazioni di distress mostrate da persone esposte ad eventi traumatici. I diversi studi longitudinali riportati da Salzer e Bickmann (1999) dimostrano che la maggior parte delle persone esposte ad un disastro presenta un rapido recupero del funzionamento in quanto spesso si riscontra una relazione negativa fra tempo passato dal disastro e distress. I dati indicano che il disagio normalmente esperito in situazioni così drammatiche tende a ritornare ai livelli pre-evento nel giro di uno o al massimo due anni.

Parlando di eventi specifici, ad esempio, alcune ricerche hanno rilevato un’inaspettata resilienza fra i vigili del fuoco e fra gli operatori coinvolti nel recupero dei cadaveri nell’attentato terroristico di Oklahoma City del 1995 costato la vita a 168 persone (North et al.,

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2002; Tucker et al., 2002). Considerando i dati epidemiologici relativi alle popolazioni di New York e di Madrid in seguito agli attentati terroristici Vázquez (2005) conclude che, al di là di problematiche leggere e transitorie, la resilienza è la norma.

Nella sua rassegna sull’argomento Bonanno (2004a) rileva che la maggioranza delle persone esposte ad eventi potenzialmente traumatici come disordine pubblico, incidente stradale, attentato terroristico, disastro tecnologico e guerra non sviluppa un disturbo da stress post-traumatico.

Questi studi sono di grande importanza nello sfatare il mito del trauma come entità fortemente patogena. Tuttavia in queste ricerche la resilienza non era l’obiettivo della ricerca ma un esito inaspettato. Alcuni studi che hanno esaminato le reazioni psicologiche in seguito all’attentato del 2001 alle Twin Towers si sono proposti specificamente di studiare la resilienza definendola, in modo ristretto, come la presenza di non più di un sintomo di disturbo da stress post- traumatico.

Bonanno, Galea, Bucciarelli e Vlahov (2006) hanno indagato la resilienza a sei mesi dall’attentato alle Twin Towers in un campione di oltre 2.000 persone rappresentativo della popolazione di New York per diverse variabili sociodemografiche.

Dai risultati emerge che circa la metà delle persone dimostra esiti di resilienza. Fra le persone che hanno subito in prima persona l’attentato (ad esempio sono rimasti feriti oppure si trovavano nel World Trade Center al momento ed in più hanno perso una persona cara), la proporzione di esiti di resilienza si colloca intorno ad un terzo.

In modo simile Wortman e Silver (1989) sono stati fra i primi a parlare di mito nei riguardi delle reazioni patologiche al lutto. Nel loro lavoro si sostiene che non vi è supporto empirico alle assunzioni che un lutto comporti necessariamente reazioni di distress o che l’assenza di queste sia riconducibile necessariamente ad una patologia. Bonanno

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(2004; 2005a) nel prendere in rassegna ricerche longitudinali sul lutto conferma questi assunti.

Prendendo in considerazione la popolazione generale, dati statunitensi ci dicono che il 50-60% delle persone è esposta a stress traumatico almeno una volta nella vita (Ozer, Best, Lipsey, Weiss, 2003) ma la prevalenza lifetime del disturbo da stress post-traumatico si colloca attorno ad un 8% secondo il DSMIV- TR (American Psychiatric Association, 2000).

Questi dati ci confermano che la resilienza è un esito frequente, più di quanto si possa pensare, ma non dicono il perché, ossia il processo che porta a questo esito.

4. Molteplicità delle risorse che caratterizzano la resilienza

La letteratura sulla vulnerabilità e sui fattori di rischio nello sviluppo di patologie a seguito di eventi critici è ampia: per esempio recentemente Brewin, Andrews e Valentine (2000) e Ozer, Best, Lipsey e Weiss (2003) hanno condotto due meta-analisi sui fattori di rischio del disturbo da stress post-traumatico.

Tuttavia queste ricerche poco ci dicono sui fattori di protezione o sui fattori in grado di predire un esito di resilienza.

In questa parte della rassegna, pertanto, prenderemo in considerazione i diversi fattori psicosociali che promuovono l’adattamento in seguito ad eventi critici (per i fattori neurobiologici si veda Southwick, Vythilingam, Charney, 2005). L’esito di resilienza è, infatti, il frutto di un processo dai complessi, ed a volte inattesi, aspetti (Bonanno, 2004a; 2005) che interessano molteplici fattori psicosociali qui indicati come risorse.

La nozione di risorsa è molto importante al punto che Hobfoll (1989) ha elaborato la teoria della conservazione delle risorse come modello per concettualizzare lo stress. Secondo questa cornice teorica

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lo stress è la reazione ad un ambiente in cui vi è una minaccia alle proprie risorse o una reale perdita di queste oppure, ancora, un mancato incremento nelle risorse a seguito di un investimento di altri tipi di risorse. In questo caso la nozione di risorsa ha una connotazione ampia che include quattro macrocategorie: risorse oggettive (ad esempio possesso di casa, auto ecc.), ruoli sociali (ad esempio occupazione, amicizie, partner ecc.), caratteristiche personali (ad esempio età, sesso, autoefficacia ecc.) e potenzialità (energy), ossia qualità come tempo, denaro e conoscenze.

Dato che in letteratura si preferisce parlare di risorse personali o ambientali (Benight, Bandura, 2004), i prossimi due paragrafi riguarderanno le risorse personali (prima e dopo l’evento) e ambientali in grado di promuovere il processo di resilienza.

5. Risorse personali prima dell’evento critico

In precedenza si è evidenziato che una condizione essenziale per poter parlare di resilienza consiste nella presenza di un buono stato di salute prima dell’evento critico (Bonanno et al., 2002; Bonanno, Moskowitz, Papa, Folkman, 2005). Oltre a questo tipo di varabile relativa al funzionamento ve ne sono altre legate agli stili cognitivi ed alla regolazione emotiva.

Un set di credenze orientate a vedere il mondo come fondato sulla giustizia e ad accettare la morte come parte del processo della vita sono variabili importanti nel predire nel tempo l’esito di resilienza in seguito alla morte del coniuge (Bonanno et al., 2002).

Ancora più importante, però, risulta l’abilità di riformulare un evento in termini di sfida e di attribuire ad esso un significato positivo nel processo di resilienza (Southwick, Vythilingam, Charney, 2005).

Tra le caratteristiche di personalità che presuppongono questo tipo di abilità vi è sicuramente l’hardiness, intesa come la combinazione

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di tre atteggiamenti fra loro intercorrelati: impegno (cercare un coinvolgimento piuttosto che rinunciare), controllo (battersi per riuscire piuttosto che sentirsi impotente) e senso di sfida (affrontare eventi negativi come un’opportunità di apprendimento piuttosto che come una minaccia) (Maddi, 2002). Anche se questo costrutto è stato testato efficacemente come buffer allo stress quotidiano (soprattutto lavorativo) vi sono evidenze che ne dimostrano l’importanza nei confronti di eventi critici come la prigionia di guerra (Waysman, Schwarzwald, Solomon, 2001), il conflitto nell’ex Jugoslavia (Jovanovic, Aleksandric, Dunjic, Todorovic, 2004) o l’aver preso parte a operazioni militari nella guerra del Golfo (Bartone, 1999) e nel Vietnam (King et al., 1998). Dato interessante, l’effetto protettivo dell’hardiness sul disturbo da stress post-traumatico risulta essere parzialmente mediata da un aumento nel sostegno sociale (ibid.).

Una variabile collegata all’hardiness è il self-enhancement, ossia una concezione di sé in termini eccessivamente positivi (Bonanno, 2004a). Questo tipo di bias teso al miglioramento della propria immagine risulta essere di grande importanza nel predire longitudinalmente la resilienza di fronte ad eventi critici, come attentati terroristici (Bonanno, Rennicke, Dekel, 2005), guerra civile e lutto di una persona cara (Bonanno, Field, Kovacevic, Kaltman, 2002). Il concetto di self-enhancement è strettamente legato a quello di illusioni positive di Taylor e Brown (1988), anche questo molto importante nel processo di adattamento a circostanze avverse come la malattia tumorale. Nello specifico

Taylor e Brown (ibid.) sostengono che le illusioni positive riguardano una visione di sé eccessivamente positiva, un senso di padronanza o controllo esagerato ed un ottimismo irrealistico.

In aggiunta a queste variabili collocate sul versante più cognitivo vi sono anche gli aspetti emotivi, rintracciabili in ciò che Bonanno (2005) definisce una capacità di adattamento flessibile agli eventi critici. Uno studio sperimentale ha confermato, infatti, che la flessibilità nella regolazione emotiva, operazionalizzata come la capacità di aumentare o

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diminuire l’espressione emotiva in base ad una richiesta, predice un migliore adattamento a due anni di distanza fra studenti di New York nel periodo immediatamente successivo l’attentato alle Twin Towers (Bonanno et al., 2004).

Gli aspetti citati a livello individuale sono importanti anche perché consentono di affrontare gli eventi critici in modo adattivo, grazie all’utilizzo di specifiche strategie di coping.

6. Risorse personali nel processo di resilienza

Nel paragrafo precedente abbiamo illustrato caratteristiche individuali che sono predittori prossimali di strategie di coping adattive. Per esempio l’hardiness si collega ad un maggiore uso di coping trasformativo (transformational), ossia relativo alla trasformazione di crisi in opportunità, ed un minore uso di coping regressivo (regressive), ossia caratterizzato dal diniego e dall’evitamento (Maddi, 2002).

Tuttavia uno dei risultati più importanti emersi dalle meta-analisi sui predittori del disturbo da stress post-traumatico di Brewin, Andrews e Valentine (2000) e di Ozer, Best, Lipsey e Weiss (2003) riguarda il peso decisamente minore assunto dai fattori precedenti al trauma rispetto ai fattori collegati al processo di adattamento al trauma. Infatti le strategie di coping nei confronti di eventi critici dipendono non tanto dalle caratteristiche individuali quanto dalla complessa interazione tra fattori individuali e contestuali ed hanno luogo nel breve e lungo termine a partire dall’evento potenzialmente traumatico.

Questa interdipendenza fra fattori individuali come le cognizioni e fattori ambientali come il sostegno sociale è ben rappresentata dal concetto di percezione di autoefficacia legata al coping (perceived coping self-efficacy) che fa riferimento al ruolo positivo delle convinzioni circa le capacità di poter gestire o esercitare almeno qualche forma di controllo sull’evento avverso (Benight, Bandura, 2004). Nella loro rassegna gli autori sottolineano il ruolo chiave della self-efficacy nel fronteggiare un

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evento traumatico, in quanto la percezione di autoefficacia legata al coping risulta essere un forte mediatore nel processo di adattamento a diversi tipi di traumi: guerra, disastro naturale, attacco terroristico, aggressione e morte del coniuge. Infatti dalle ricerche emerge che una buona percezione di autoefficacia legata al coping consente una valutazione più favorevole del potenziale pericolo, minori reazioni di stress ad esso ed un più veloce adattamento. Secondo i ricercatori il ruolo protettivo del sostegno sociale è spiegato dall’aumento nell’autoefficacia legata al coping, anche se sottolineano che una migliore autoefficacia legata al coping può contribuire alla costituzione di una migliore rete di supporto sociale. Inoltre l’effetto di un’altra variabile ambientale, la perdita delle risorse, sul distress tende ad essere soppresso dall’autoefficacia legata al coping. Infine l’autoefficacia legata al coping è importante nel predire un minore uso di strategie di coping orientate all’evitamento ed un migliore adattamento al disastro naturale in maniera indipendente da strategie di coping adattive come il coping attivo.

Il valore adattivo delle strategie di coping attive nei confronti di eventi critici è ormai ben consolidato come dimostra la rassegna di Southwick, Vythilingam e Charney (2005). In questo caso il coping attivo si riferisce a due strategie, problem-focused ed approach, che includono la ricerca di supporto sociale, l’adozione di uno spirito combattivo, la riformulazione in chiave positiva dello stressor e l’intraprendere attività per risolvere il problema. Tuttavia non tutte le ricerche vanno a supporto delle strategie di coping attive e questo può essere dovuto all’uso delle ricerche correlazionale in base alle quali non si può stabilire se il coping influisce sul distress o viceversa (Norris et al., 2002).

North, Spitznagel e Smith (2001) hanno condotto una delle poche ricerche prospettiche sulle strategie di coping in seguito a un omicidio di massa. Le evidenze sottolineano il valore protettivo per la salute mentale di tre tipi di strategie di coping tese a ricercare e procurare aiuti in modo

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attivo (active outreach), rimanere informati e concentrati sul problema (informed pragmatism), assimilare l’evento, accettarlo e mantenere la pazienza (reconciliation/acceptance).

Fra le strategie di coping centrate sulle emozioni e sull’evitamento, tradizionalmente associate al disadattamento (Norris et al., 2002; Southwick, Vythilingam, Charney, 2005), Bonanno (2004a) sostiene che il coping orientato all’inibizione delle emotive negative (repressive coping) è un ingrediente chiave nel processo di resilienza al lutto e all’abuso sessuale poiché si tratta di eventi isolati che richiedono forme di coping particolari risultate disadattive in altri contesti.

Tuttavia l’inibizione intesa da Bonanno non significa un evitamento totale fino alla dissociazione delle proprie emozioni negative. Dopotutto le ricerche hanno documentato effetti negativi per la salute fisica dovuti alla repressione come strategia per affrontare eventi critici come un disastro (Benight et al., 2004). In un articolo successivo Bonanno (2005) precisa che le persone “resilienti” esprimono emozioni negative quando parlano degli eventi critici ma in misura minore e danno maggiore spazio alle emozioni positive rispetto alle persone non resilienti. In una precedente ricerca, infatti, si è dimostrato che l’espressione di emozioni negative in un’intervista da parte di persone che hanno perso il coniuge predice un lutto complicato, mentre le emozioni positive espresse genuinamente sono in grado di predire un migliore adattamento (Bonanno, Keltner, 1997).

Le emozioni positive sono facilitate dallo humor, il quale risulta una fra le strategie di coping che caratterizzano i “resilienti” fra i veterani di guerra o le persone con diagnosi di tumore (Southwick, Vythilingam, Charney, 2005).

Parlando dell’utilità delle emozioni positive Fredrickson (1998) ha messo in campo la broaden and build theory of positive emotions. Questa teoria sostiene che le emozioni positive sono estremamente adattive in caso di stress poiché sono in grado di ampliare (broaden) il

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repertorio cognitivo e comportamentale delle persone, e, grazie a questo ampliamento le persone costruiscono (build) le proprie risorse fisiche (ad esempio salute e longevità), psicologiche (ad esempio resilienza, ottimismo, creatività), intellettuali (ad esempio conoscenze) e sociali (ad esempio amicizie e supporto). A questo proposito Fredrickson, Tugade, Waugh e Larkin (2003) hanno compiuto uno studio longitudinale su studenti universitari statunitensi prima e dopo l’11 settembre 2001.

I risultati mostrano che le emozioni positive provate nel momento dell’attacco alle torri fungono pienamente da mediatori fra l’ego-resiliency, definita come «la capacità di modificare in modo flessibile ed elastico i propri livelli di ego-control» inteso «come modalità di regolazione del mondo interno» (Caprara, Steca, De Leo, 2003, p. 8), prima dell’attacco ed un migliore adattamento dopo l’attacco. Uno studio successivo ha riscontrato che le persone con alta ego-resiliency utilizzano le emozioni positive per migliorare la regolazione degli affetti e per trovare un significato in situazioni stressanti (Tugade, Fredrickson, 2004). Tuttavia Vázquez, Hervas e Perez-Sales (2006), in un’indagine condotta subito dopo l’attentato di Madrid del 2004, hanno trovato supporto per l’associazione fra emozioni positive e significato positivo all’evento ma non fra emozioni positive e minore psicopatologia.

Le emozioni positive, inoltre, possono essere legate a fattori sociali come sentimenti di solidarietà, di coesione e condivisione riscontrati in tragedie collettive (Vázquez, 2005).

7. Risorse ambientali nel processo di resilienza

La risorsa ambientale più citata nel campo della resilienza ad eventi critici è senza dubbio il sostegno sociale. Le già menzionate meta-analisi sui predittori del disturbo da stress post-traumatico (Brewin, Andrews, Valentine, 2000; Ozer, Best, Lipsey, Weiss, 2003) dimostrano senza dubbio il valore protettivo del sostegno sociale nel periodo successivo l’evento nello sviluppo di questo tipo di disturbo. In

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particolare l’effetto del sostegno sociale sembra essere di tipo cumulativo nel tempo in quanto è più forte negli studi che prendono in considerazione un arco temporale di almeno tre anni dall’evento (ibid.). Tuttavia, le ricerche esistenti ci dicono poco su quale tipo di sostegno sociale sia più indicato nel processo di resilienza. Per esempio in letteratura si riscontrano misure della rete sociale, del sostegno sociale ricevuto, percepito o della soddisfazione ad esso attribuita. Inoltre, non è ben chiaro quale sia la funzione principale svolta dal sostegno sociale, per esempio informativa, emotiva o strumentale. Infine,4 le ricerche differiscono anche per la fonte del sostegno sociale, come i pari o la famiglia.

Anche se si confrontano gli studi che prendono in considerazione lo stesso tipo di sostegno sociale, emergono inconsistenze, come fanno notare Norris et al. (2002) nella loro monumentale rassegna di 160 studi sui disastri. Nel loro lavoro il sostegno sociale è stato classificato in tre tipi: rete sociale, sostegno sociale ricevuto e sostegno sociale percepito. La maggior parte degli studi ha riscontrato l’effetto protettivo sulla salute del sostegno sociale percepito, seguito dal sostegno sociale ricevuto e, per ultimo, dalle misure di rete. Pertanto si ricavano due ipotesi: a) le rappresentazioni circa la disponibilità di sostegno (sostegno sociale percepito) hanno un maggiore effetto protettivo rispetto alle rappresentazioni circa il sostegno effettivamente ricevuto (sostegno sociale ricevuto); b) queste ultime hanno una maggiore importanza rispetto alle rappresentazioni della rete di relazioni in cui si è inseriti (rete sociale).

Un supporto per la seconda ipotesi arriva da una ricerca importante di King et al. (1998) su 1.632 veterani del Vietnam dalla quale emerge che le misure del sostegno emotivo sono maggiormente protettive nei confronti del disturbo da stress post-traumatico rispetto alle misure della rete sociale e questo vale soprattutto per le donne.

La conferma per la prima ipotesi arriva dal modello della deterrenza del deterioramento del sostegno sociale (social support

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deterioration deterrence model) di Norris e Kaniasty (1996) rappresentato nella figura 2. I ricercatori hanno proposto il modello per spiegare l’importanza del sostegno sociale nell’adattamento al trauma. Nello specifico il modello assume che un trauma, come un disastro naturale, ha un effetto negativo sulla salute in modo diretto solo a breve termine, passato il quale l’effetto è indiretto, ossia tramite il deterioramento del sostegno sociale percepito. Un evento tragico comporta inevitabilmente un deterioramento del sostegno sociale percepito che può, o meno, essere bilanciato dal sostegno sociale mobilizzato in seguito all’evento (ad esempio aiuti). L’adattamento al trauma deve prendere in considerazione sia il deterioramento del sostegno sociale percepito, sia un maggiore sostegno ricevuto che lo può compensare e favorire, indirettamente, la salute. L’effetto protettivo del sostegno sociale ricevuto non è tanto diretto quanto mediato da un aumentato sostegno sociale percepito, definito come le credenze nella disponibilità di aiuti in caso di bisogno. Pertanto il sostegno sociale ricevuto promuove l’adattamento in condizioni avverse grazie ad un aumentato sostegno sociale percepito, che si rivela il fattore centrale nel processo di mediazione.

Tuttavia, Norris et al. (2002), nel passare in rassegna i numerosi studi, riscontrano molte inconsistenze nelle ricerche sul sostegno sociale percepito fra i diversi campioni considerati, per cui questa ipotesi non va sottoscritta in maniera definitiva.

In generale, come sottolineano Salzer e Bickmann (1999), il sostegno sociale ha due funzioni, una di moderazione fra evento critico ed adattamento e l’altra di promozione della salute indipendentemente dalla presenza di stressor.

Tuttavia i ricercatori ipotizzano che nell’adattamento ad eventi avversi, come un disastro, non solo le risorse sociali ma anche le risorse materiali giochino un ruolo fondamentale per il successivo adattamento. Le ricerche riportate, infatti, dimostrano che la perdita delle risorse è il fattore maggiormente correlato al distress psicologico conseguente a disastri. A conclusioni simili giungono anche Norris et al. (2002) che

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passano in rassegna una decina di studi che supportano l’effetto principale della perdita di risorse nel predire l’adattamento ai disastri.

Figura 2

Da questi studi, di tipo correlazionale, Salzer e Bickmann (1999) ricavano l’ipotesi che interventi tesi a ristabilire le perdite materiali possano essere fondamentali nel processo di resilienza. Questa ipotesi è supportata in maniera indiretta da Norris et al. (2002), secondo i quali i disastri hanno un impatto maggiore per la salute nei paesi in via di sviluppo rispetto ai paesi economicamente sviluppati. Infatti le risorse di cui dispongono questi ultimi riescono con maggiore probabilità a controbilanciare le perdite materiali dovute ad un disastro rispetto a paesi le cui risorse finanziarie sono precarie.

Questa ipotesi ha un suo senso anche se vanno fatte due puntualizzazioni. Primo, la perdita delle risorse è misurata tramite self-

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report e quindi vi possono essere dei bias per cui chi è più stressato ricorda maggiormente le perdite. Ricerche longitudinali possono stabilire meglio il percorso causale. Secondo, recentemente Sattler et al. (2002) hanno dimostrato che la perdita delle risorse è il fattore principale nel predire il distress (in seguito all’uragano George). Tuttavia in questa ricerca le risorse sono state considerate separatamente in base al tipo. Ne emerge che le risorse personali e sociali hanno una maggiore importanza nel processo di adattamento rispetto alle risorse materiali.

Risultati simili sono stati ottenuti anche in una ricerca sul distress derivato dall’esposizione ad eventi critici fra i vigili del fuoco (Monnier, Cameron, Hobfoll, Gribble, 2002). Pertanto queste ricerche ridimensionano il peso delle risorse materiali in favore delle risorse personali e sociali.

Infine se si va ad indagare eventi traumatici che coinvolgono una collettività di persone come un disastro o una guerra, i fattori di resilienza che possono essere ascritti alla comunità, assumono una grande importanza. Una recente ricerca di Perez-Sales et al. (2005) ha preso in rassegna sei fattori di resilienza in situazioni traumatiche collettive. Due fattori fanno diretto riferimento al rapporto con l’ingroup, senso di appartenenza, e con l’outgroup, cioè la validazione e il riconoscimento sociale. Il senso di appartenenza rivela il ruolo protettivo dell’identificazione col proprio gruppo, sia in termini reali che tramite narrative personali. Il senso di comunità e la costruzione di narrative collettive che incrementino il valore delle persone traumatizzate sono elementi costituenti di questa dimensione. Nel rapporto con l’outgroup il riconoscimento e la validazione sociale delle sofferenze (vs isolamento o stigmatizzazione) sono fattori socio-culturali molto importanti nel processo di resilienza. Gli altri quattro fattori hanno a che fare maggiormente con gli aspetti organizzativi promotori di controllo sulla propria vita, senso di prevedibilità e sicurezza, rispetto per la dignità personale e prospettive future ottimistiche.

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8. Discussione

In questa rassegna sono stati introdotti gli elementi fondamentali della ricerca sulla resilienza nell’età adulta con riferimento ad eventi critici. Dalle ricerche emergono chiaramente tre punti fondamentali. Primo, la resilienza è qualcosa di differente rispetto al processo di recupero anche se, allo stato attuale, questa discriminazione così raffinata è tenuta in considerazione in poche ricerche.

Infatti, spesso si parla di adattamento senza specificare se si tratta di un recupero dopo circostanze iniziali effettivamente problematiche o se si tratta di una sostanziale integrità nel funzionamento psicosociale.

Secondo, contrariamente al senso comune e a decenni di ricerche cliniche, gli esiti di resilienza sono comuni e molto più diffusi rispetto ad esiti caratterizzati da psicopatologie. Ne deriva che la supposta alta vulnerabilità delle persone ai traumi è un falso scientificamente parlando e gli interventi che si basano su questo assunto possono risultare controproducenti (Vázquez, 2005).

Questi risultati non comportano certamente una colpevolizzazione delle persone non connotate da un esito di resilienza o una proposta di ridimensionare l’importanza degli studi traumatologici. Al contrario le ricerche sulla resilienza di fronte ad eventi critici sottolineano il bisogno di avere una conoscenza più completa sull’adattamento umano e sui fattori in grado di promuoverlo.

Questo discorso ci porta al terzo punto, ossia la comprensione dei processi che conducono alla resilienza. Le ricerche ci dicono che vi sono molteplici risorse implicate nel processo di resilienza. Le risorse personali sono ampiamente documentate al punto che sono state suddivise in risorse pre-evento (ad esempio hardiness, self-enhancement, regolazione emotiva) e post-evento o di processo (ad esempio autoefficacia legata al coping, strategie di coping, emozioni positive). Fra le risorse coinvolte nel processo di resilienza vi sono anche quelle ambientali (ad esempio sostegno sociale, risorse materiali) che offrono

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un contributo importante. Chiaramente quando il trauma non è solo individuale ma anche collettivo entrano in gioco nel processo di resilienza fattori relativi sia alla comunità o società come il senso di appartenenza e il riconoscimento sociale, sia ad una gestione dell’evento critico che favorisca la partecipazione, il controllo ed il rispetto.

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La resilienza quale fattore motivazionale: evidenze dal

mondo dello sport

Dott. P. Trabucchi

(Professore incaricato presso l’Università di Verona, Psicologo, collabora con il Centro di ricerca in Bioingegneria e Scienze motorie dell’Università di Trento e con l’Istituto di Scienze dello Sport di Roma.)

Cosa è la resilienza? La mia personale definizione del termine resilienza è la seguente: la resilienza psicologica è la capacità di persistere nel perseguire obiettivi sfidanti, fronteggiando in maniera efficace le difficoltà e gli altri eventi negativi che si incontreranno sul cammino.

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VITTORIE AL FOTO-FINISH DOPO 42,195 KM CORSI A TEMPI INCREDIBILI.

MOTORI IDENTICI ?

Sono coincidenze incredibili o c’è dell’altro?

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“…in the classic paradigm the limits to endurance are expalined by arguments of metabolic nature. (..) there are experimental situations where itis not possible to explain the limitation to endurance usingthis paradigm (Jones and Killian, 2000; Noakes, 2000; Noakes et al. 2001,; Walsh2000)” B. KAYSER, 2003

SIMILI CASI SONO DIFFICILI DA SPIEGARE SIMILI CASI SONO DIFFICILI DA SPIEGARE UTILIZZANDO I MODELLI CLASSICI DELLA UTILIZZANDO I MODELLI CLASSICI DELLA FISIOLOGIA: DOVE IL FISIOLOGIA: DOVE IL FATTORE LIMITANTEFATTORE LIMITANTE

LA PRESTAZIONELA PRESTAZIONE EE’’ METABOLICOMETABOLICO

L’individuo resiliente presenta una serie di caratteristiche psicologiche inconfondibili: è un ottimista e tende a “leggere” gli eventi negativi come momentanei e circoscritti; ritiene di possedere un ampio margine di controllo sulla propria vita e sull’ambiente che lo circonda; è determinato e estremamente motivato a raggiungere gli obiettivi che si è prefissato; tende a vedere i cambiamenti come una sfida e come un’opportunità, piuttosto che come una minaccia.

Non è un caso, dunque, che uno studio uscito nel 2002 – che esaminava le caratteristiche psicologiche di 32 atleti statunitensi vincitori di medaglie olimpiche –indichi nella resilienza uno dei requisiti irrinunciabili per l’atleta di alto livello.

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Già Wilmore nel 1969 aveva

dimostrato che in presenza di competitors il

“TIME TO EXHAUSTION”

si allunga

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GliASPETTI MOTIVAZIONALI –VOLITIVI

acquistano una rilevanza sempre maggiore nel mondo dello sport

PERCHE’ A LUNGO TERMINE

DETERMINANO LA

“CARRIERA”PERCHE’

SONO DECISIVI PER IL

LIMITE DELLA PRESTAZIONE

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Gli atleti di alto livello sono, e devono essere, molto resilienti: in parte perché le loro caratteristiche psicologiche sono già frutto di una selezione. Ma anche perché la pratica sportiva favorisce la costruzione della resilienza: c’è un bel detto di Eddy Ottoz a questo proposito, “l’allenamento è la rappresentazione della speranza”. Allenarsi, infatti, comporta il darsi attivamente degli obiettivi, credere che sia possibile raggiungerli, impegnarsi per farlo; superare imprevisti, impasse, frustrazioni ed infortuni; essere disciplinati, mantenere alta la speranza e la motivazione.

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Università di VeronaPIETRO TRABUCCHIPIETRO TRABUCCHIwww.pietrotrabucchi.itwww.pietrotrabucchi.it

I fattori motivazionalidiventano sono sempre piùimportanti perché le carriere agonistiche sempre più lunghe rispetto al passato…..

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……ee ll’’etetàà della massima prestazione della massima prestazione diventa sempre pidiventa sempre piùù elevata.elevata.

• Età media vincitori Coppa Mondo Sci di Fondo 2000-2007:– Primi 10: 31– 11-20: 28– 21-30: 2525

(Campaci, 2008)(Campaci, 2008)

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Nazionale 100kNazionale 100k

� Uomini: 33

� Donne: 35

Nazionale 24hNazionale 24h

� Donne: 40

� Uomini: 40

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la capacitla capacitàà di rimanere motivati di fronte ad ostacoli e di rimanere motivati di fronte ad ostacoli e difficoltdifficoltàà che si incontrano nel perseguimento di un che si incontrano nel perseguimento di un

obiettivo obiettivo

(sia in processi a lungo che a breve termine)(sia in processi a lungo che a breve termine)

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SI ACCORDANO ANNI ALLA COSTRUZIONE DELLE CAPACITA’ FISIOLOGICHE: PERCHE’ PRETENDERE ISTANTANEAMENTE QUELLE PSICOLOGICHE (nessuna

federazione investe nella preparazione psicologica giovanile)

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LA RESILIENZA HA UNA NATURA COGNITIVA. RIGUARDA LA RESILIENZA HA UNA NATURA COGNITIVA. RIGUARDA COME PERCEPIAMO E VALUTIAMO GLI EVENTI INTERNI COME PERCEPIAMO E VALUTIAMO GLI EVENTI INTERNI ED ESTERNI E CONDIZIONA LA RISPOSTA FISIOLOGICA E ED ESTERNI E CONDIZIONA LA RISPOSTA FISIOLOGICA E

COMPORTAMENTALECOMPORTAMENTALE

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FATICAFATICA

PERCEZIONE PERCEZIONE DOLOROSADOLOROSA

FREDDOFREDDO

GRADIENTE GRADIENTE DIDIDIFFICOLTADIFFICOLTA’’

ETC..ETC..

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Si modifica il senso di controllo:Si modifica il senso di controllo:

•• Cambiando lCambiando l ’’ INTERPRETAZIONE delle INTERPRETAZIONE delle difficoltdifficolt àà, mostrando come in parte esse , mostrando come in parte esse non siano assolute ma parzialmente non siano assolute ma parzialmente negoziabili;negoziabili;

•• Questo passa da un Questo passa da un cambiamento cambiamento cognitivocognitivo che disinneschi le reazioni che disinneschi le reazioni emozionali automatiche agli eventi emozionali automatiche agli eventi avversiviavversivi

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Tutti questi esempi ci conducono ad un concetto chiave: le persone non sono stressate dagli eventi in sé, ma dall’interpretazione che ne danno. E l’interpretazione ne orienta anche i comportamenti. Se io penso che il dolore sia qualcosa di assolutamente non gestibile in modo attivo, al primo indolenzimento terminerò il mio esercizio. Viceversa, vedrò la sofferenza come un elemento del gioco, che lo rende anzi più interessante.

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LAVORI SUL CONTROLLO LAVORI SUL CONTROLLO DELLDELL’’ATTENZIONEATTENZIONE

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Si modifica il senso di Si modifica il senso di controllo:controllo:

�� Inoltre dal proporre esperienze in Inoltre dal proporre esperienze in allenamento che aumentino il senso di allenamento che aumentino il senso di controllo e stimolino la controllo e stimolino la neuroplasticitneuroplasticitààaccogliendo gli insegnamenti recenti accogliendo gli insegnamenti recenti delle neuroscienze.delle neuroscienze.

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DISSINESCARE L’AMIGDALA !!

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Davanti alla morte: vulnerabilità vs resilienza Teoria e

interventi clinici di Psicoterapia Integrata

(Guided Imagery and Music – BMGIM e Rational Emotive

Behavioural Therapy – REBT)

Gabriella Giordanella

(Psicoterapeuta, P.hD, Direttore della Scuola di Psicoterapia Integrata e Musicoterapia)

1. Introduzione

Questo intervento si pone l’obiettivo di offrire un contributo teorico e clinico su modalità di psicoterapia che hanno dimostrato la loro efficacia nel permettere alle persone di scoprire e/o sviluppare capacità di resilienza davanti all’inesorabilità della morte o a crisi drammatiche associate a gravi malattie incurabili.

Gli esseri umani vivono, generalmente, una morte tragica, improvvisa, prematura, in modo traumatico, così come nel confronto con la propria morte e/o malattia incurabile, gli stessi mostrano il loro lato vulnerabile. Questi eventi possono essere vissuti con notevoli differenze da un soggetto ad un altro, da un gruppo ad un altro, per una serie di variabili che possono riguardare livelli di vulnerabilità personali, nonché fattori di rischio e protettivi presenti nel contesto socio-culturale.

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2. Resilienza

In generale la resilienza si riferisce ad una classe di fenomeni caratterizzati da modalità di adattamento positivo in un contesto di rischio o avversità rilevanti (Masten, 2001). Da una prospettiva salutogenica (Antonosky, 1987), la resilienza acquista un senso più ampio, non riguarda solo abilità di coping come processo adattivo di fronte ad eventi stressanti per superarli e ripristinare un funzionamento precedente, ma una prontezza nel recupero e la capacità di utilizzare l’esperienza traumatica come una spinta, un impulso alla crescita, alla trasformazione verso una qualità di vita positivamente intesa. Insieme al senso di autoefficacia-autostima, di benessere psicologico, un costrutto importante da considerare in terapia è quello di hardiness che include l’atteggiamento pro-attivo o impegno, il locus of control interno e la valutazione dell’evento traumatico come opportunità di crescita piuttosto che di minaccia.

In questo contesto, noi consideriamo la resilienza come 1 - un processo fluido piuttosto che tratti stabili; 2 – un miglioramento o una crescita che vanno oltre i precedenti livelli di funzionamento; 3 – un costrutto multidimensionale che attraversa aree emotive, spirituali, sociali cognitive e fisiche e che spesso procede in modo differente in ciascuna area (Sperry, 1992; Staudinger et al., 1995). Aggiungiamo che la resilienza, in una situazione particolarmente avversa, include sia la capacità individuale di esplorare l’ambiente per trovare risorse, come anche la disponibilità dell’ambiente a fornirle in modo significativo per l’individuo nel suo contesto socio-culturale, inclusi interventi volti al benessere psicologico.

Moos e Schaefer (1986) propongono cinque compiti adattivi che sono presenti nelle risposte a transizioni o crisi:

• stabilire il significato o l’importanza personale della situazione

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• confrontare la realtà e la risposta con le richieste della situazione esterna

• sostenere le relazioni con individui che possono essere di aiuto

• gestire i sentimenti/emozioni attivati dalla situazione

• conservare un’immagine di sé ed un senso di competenza soddisfacenti

3. Aspetti della resilienza e psicoterapia

In ambito psicoterapeutico è possibile occuparsi della promozione di alcuni aspetti che favoriscono la resilienza nell’individuo tra i quali: l’auto-consapevolezza, l’essere in grado di accettare l’incertezza della vita, l’auto-efficacia o il senso di poter disporre di risorse interne, la capacità di problem-solving, un atteggiamento che include una prospettiva ottimistica, l’empatia per gli altri e la capacità di comprendere gli altri, il porsi degli obiettivi ed avere delle aspirazioni, il mostrare un equilibrio tra la dipendenza e l’indipendenza dagli altri, un senso dell’umorismo, il senso di responsabilità per sé e per gli altri, (Ungar, 2008, 227) e la flessibilità emotiva o regolazione affettiva (Waugh et al., 2008).

Numerosi approcci terapeutici si pongono come obiettivo di favorire nel paziente un contatto più profondo con se stesso, in quanto il raggiungimento di questo obiettivo sembra aiutare a modificare le proprie emozioni di depressione, impotenza ed angoscia e, quindi, anche il vissuto relativo all’evento drammatico. Per cui non la negazione di un fatto traumatico reale né l’assenza di reazioni negative quanto piuttosto lo sviluppo di una ricostruzione di un’esistenza che abbia il valore di essere vissuta. Tisseron dice che “l’ostrica reagisce all’entrata di impurità

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producendo la perla”, produce una ricchezza interiore, la resilienza, scoperta in situazioni di crisi in modo che le persone possano essere responsabili del proprio miglioramento per trovare in sé risorse non conosciute.

Le persone resilienti mantengono sintomi di afflizione meno a lungo dopo la morte di una persona cara e mostrano un’adeguata flessibilità emotiva (Bonanno et al. 2002). Si tratta di un meccanismo psicologico che sottostà alla capacità di persone resilienti di adattarsi con successo ai cambiamenti ambientali drammatici (perdita di una persona cara, calamità e disastri, rischi seri di salute, ecc.). Tale flessibilità si esterna 1 - nell’utilizzare le risorse emotive richieste per adeguarsi ad una specifica situazione, 2 - nell’usare risorse fisiologiche quando necessarie (es. reattività cardiovascolare) e 3 - nel conservarle o recuperarle una volta che la situazione di pericolo o di sofferenza sia passata. Questo atteggiamento vale anche quando vengono anticipati eventi negativi, associati ad ansia anticipatoria, senza avere la certezza assoluta se, quando e come avverranno effettivamente. Per cui le persone resilienti sembrano mostrare emozioni e risposte fisiologiche adeguate in caso di eventi negativi come pure di essere in grado di modificarle quando l’evento non c’è o è passato. (Waugh et al. 2008).

4. L’intervento integrato per promuovere atteggiamenti resilienti

L’insieme di conoscenze attualmente disponibili ci propongono l’essere umano come un sistema complesso e dinamico che opera per mantenere una coerenza ed un’organizzazione come unità ed un funzionamento come parte di sistemi più ampi. Tale prospettiva ci suggerisce, nella pratica terapeutica, l’utilizzo di interventi multidimensionali – come ad esempio la Guided Imagery and Music di H. Bonny integrata con la Rational Emotive Behavioral Therapy – REBT

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di A. Ellis (1962) – per promuovere atteggiamenti resilienti in presenza di caratteristiche di vulnerabilità.

4.1 La Rational Emotive Behavioral Therapy - REBT

La REBT di A. Ellis consiste in un approccio di terapia cognitiva che tiene conto di orientamenti di filosofi tra i quali Epitteto per cui “Non sono i fatti in sé a turbare gli uomini bensì i giudizi che gli uomini formulano sui fatti”. Di conseguenza è necessario portare alla consapevolezza del paziente, per discuterli e modificarli, quei principi, regole, valutazioni e pensieri su sé e gli eventi che non sono sostenibili con prove di realtà e non sono funzionali al benessere psicologico dell’individuo. Con queste modalità gli esseri umani mantengono o accrescono il loro stato di sofferenza emotiva ed un funzionamento psichico inadeguato (Ellis, 1962; De Silvestri, 1982).

4.2 La Guided Imagery and Music - BMGIM

Siccome dell’intervento specifico con la REBT si occuperà più dettagliatamente il Dott. Cicinelli nel suo contributo, io centrerò il mio lavoro sulla Guided Imagery and Music – BMGIM, metodo di psicoterapia con la musica elaborato da Helen Bonny, agli inizi degli anni settanta a seguito di ricerche presso il Maryland Psychiatric Research Center, sull’interazione tra musica e droghe. I risultati evidenziarono come la musica classica, per la sua intrinseca ambiguità e complessità, potesse produrre stati alterati di coscienza se ascoltata in uno stato di rilassamento.

Il processo terapeutico della BMGIM tende a sviluppare l’auto-consapevolezza e modulare la flessibilità emotiva o regolazione affettiva, in una nuova ri-configurazione dell’immagine di sé.

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Sinteticamente possiamo dire che la BMGIM è: 1 – una forma di terapia individuale; 2 - al fine di esplorare il proprio universo interiore, mediante i processi metaforici, 3 – che include l’immaginazione spontanea, 4 – in uno stato modificato di coscienza, 5 – a programmi di musica classica, 6 – mentre il viaggiatore interagisce con il terapeuta, 7 – che usa interventi non direttivi, non analitici, basati sulla musica, 8 – per scopi terapeutici, 9 - all’interno di una seduta con le seguenti fasi: conversazione preliminare; rilassamento e focus; esperienza di immaginazione alla musica con interazione verbale; ritorno ad uno stato di vigilanza e riflessione conclusiva necessaria per dare un significato all’immaginario metaforico ed integrare il vissuto esperienziale nella vita quotidiana. La durata di una seduta è di circa 90 minuti. La GIM può essere adattata per esperienze di coppia e di gruppo.

In quanto la GIM unisce modalità della conoscenza tacita emozionale ed esplicita verbale, gli ambiti di lavoro con il METODO BONNY riguardano: 1 – esperienze per sostenere e/o rinforzare le attuali risorse del paziente; 2 – esperienze che portano alla consapevolezza memorie emozionali traumatiche; 3 – esperienze che riguardano l’integrazione di caratteristiche e funzioni dell’essere umano; 4 - lo sviluppo di risorse e modalità alternative per affrontare situazioni dolorose e/o traumatiche; 5 – l’elaborazione di valutazioni e significati funzionali su sé, gli altri e gli eventi (abilità di problem solving, di coping, resilienza); 6 – esperienze che includono una vasta gamma di emozioni e sensazioni.

4.2.1 BMGIM e Resilienza

Il contributo della BMGIM allo sviluppo della resilienza consiste in due peculiari aspetti che è interessante illustrare: la musica per esperienze immaginative metaforiche fondamentali per portare

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all’autoconsapevolezza anche livelli taciti di conoscenza e la vasta gamma di emozioni evocate dalla musica per la regolazione affettiva.

Vediamo questi aspetti in modo più dettagliato.

1 - La musica è considerata una forma espressiva intenzionale che aiuta a costruire la comprensione e la rappresentazione metaforica del Sé e della realtà quale è percepita soggettivamente (Giordanella Perilli, 2002). Il suono, o stimolo musicale, è un attivatore del canale sensoriale uditivo; viene processato, inizialmente, a livello neurologico e, in seguito, elaborato mediante funzioni cognitive superiori, quali l’attenzione, la percezione e la memoria, per poi essere associato a vissuti personali, a livello psicologico.

Lo stimolo musicale per la sua complessità ed ambiguità:

• richiede per il suo processamento funzioni di reti neurali corticali e sottocorticali dell’encefalo, tra cui il sistema dei neuroni specchio, la loro funzione empatica ed il fenomeno di sintonizzazione intenzionale (Gallese et al., 2005) ;

• interessa la coscienza primaria e quella di ordine superiore;

• favorisce lo sviluppo della conoscenza tacita ed esplicita;

• utilizza il codice analogico, coinvolgendo i processi immaginativi e metaforici;

• permette esperienze emotive, cognitive e motorie

• condivide schemi ritmico-temporali con processi neuro-fisiologici, emotivi, cognitivi e motori dell’individuo.

2 - Le emozioni primarie (sorpresa, felicità, rabbia, tristezza, paura, disgusto) associate a bisogni ed a funzioni fisiologiche fondamentali, formano l’impalcatura degli stati di coscienza di natura

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biologica, o coscienza tacita, che si presenta come un flusso ininterrotto per la continuità dei ritmi biologici e sensoriali, un teatro stabile dove si svolgono le esperienze di vita. A livello di coscienza tacita diversi stimoli sensoriali (uditivi, visivi, cinestesici, ecc.) vengono riorganizzati in diverse configurazioni che si intersecano fra loro favorendo l’emergere del pensiero simbolico e metaforico, funzioni della coscienza di ordine superiore (Edelman, 2004).

Dai suddetti nuclei di esperienze sensoriali, alle quali la percezione attribuisce un significato soggettivo, si sviluppa la coscienza di sé, o consapevolezza auto-referenziale, mediante le interazioni con l’ambiente esterno. In base alla qualità delle relazioni interpersonali gli esseri umani sviluppano, successivamente, emozioni complesse, quali amore, odio, ansia, ecc.

Gli schemi emozionali sono considerati strutture interne sintetizzanti che elaborano a livello preconscio una varietà di informazioni di origine cognitiva, affettiva e sensoriale per costituire la nostra percezione del significato personale (Greenberg et al. 2000, 17). Nella prospettiva cognitivista gli individui vengono considerati sistemi olistici, organismici, che, nel loro funzionamento, integrano l’affettività, i processi cognitivi, la motivazione e l’azione (Greenberg et al. 2000, 17).

3 - Musica ed Emozioni. Da studi internazionali emerge che la musica veicola alcune emozioni di base, come felicità, tristezza e paura. Queste emozioni sembra che utilizzino la stessa rete cerebrale, specialmente sottocorticale, sviluppata per trattare in modo veloce ed automatico emozioni utili per la sopravvivenza (Brattico et al. 2009).

Va tenuto presente che l’ascolto di musica può sollecitare emozioni contrastanti, accompagnate da reazioni fisiologiche (sudorazione, accelerazione del battito cardiaco (Peretz et al., 1998, 111-141), sensazioni soggettive (chills o brividi lungo la schiena), rilascio di endorfine, attivazione fisica, comportamento motorio e tendenza

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all’azione (Blood e Zatorre, 2001). Le emozioni che proviamo in risposta alla musica coinvolgono strutture profonde nelle regioni primitive del vermis cerebellare e dell’amigdala, il cuore dell’elaborazione corticale delle emozioni (Levitin, 2008, 23).

4 - Esperienze musicali e resilienza. Per la promozione del benessere psicologico, oltre che della resilienza, è importante la tendenza a sottolineare anche affetti positivi oltre quelli negativi (Bradburn, 1969). Se consideriamo l’esperienza vissuta comunemente con la musica da un gran numero di persone, possiamo dire che la musica 1 - facilita cambiamenti nel tono dell’umore e 2 - sollecita emozioni positive. Come conseguenza, si sviluppa una predisposizione ad un atteggiamento pro-attivo per superare disagi quotidiani e per il raggiungimento di obiettivi. (Bharucha et al., 2006, 157).

4.2.2. La BMGIM e l’intervento clinico

Da quanto sopra si evince che nel processo terapeutico per lo sviluppo di atteggiamenti resilienti è efficace disporre di metodi come la BMGIM che, attraverso stimoli musicali complessi ascoltati in uno stato di coscienza modificato, facciano sperimentare emozioni adeguate all’evento drammatico e permettano, poi, di modificarle con l’avvenuta consapevolezza di elementi significativi della situazione o di sé non considerati in precedenza. In conclusione nel processo di intervento con la BMGIM, oltre lo sviluppo della consapevolezza di Sé, un altro obiettivo è proprio quello di far esplorare la situazione traumatica e far sperimentare le emozioni concomitanti. In un secondo momento, sempre mediante esperienze immaginative metaforiche sollecitate dalla musica, viene facilitata la scoperta di risorse e la costruzione di possibili alternative, in maniera tale che la persona possa dare un significato accettabile a sé ed all’evento drammatico ed essere in grado di attuare

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una regolazione affettiva o flessibilità emotiva, includendo emozioni positive nella nuova configurazione della propria esistenza.

Alcuni esempi dalla nostra pratica clinica illustrano come le persone attraverso le esperienze trasformative con la Guided Imagery and Music, integrate con interventi REBT, riescono a sviluppare gli aspetti inerenti la consapevolezza di Sé e la flessibilità emotiva componenti fondamentali per un atteggiamento di resilienza.

5. Casi Clinici

Maria è una donna in carriera sposata di 43 anni. Dopo due anni di sintomi complessi tra i quali spossatezza e basso tono dell’umore, le viene diagnosticato l’HIV che lei doveva aver contratto durante un’unica breve relazione avuta con un uomo prima del matrimonio. Per cui Maria è fortemente depressa e sconvolta per diversi motivi che riguardano la sua salute ma anche perché non sa come dare la notizia al marito. Iniziamo gli incontri di psicoterapia integrata BMGIM e REBT. Riportiamo, come sintesi esemplificativa, parte della prima seduta dopo la traumatica notizia e parte dell’ultima, dopo 25 incontri. Il vissuto metaforico di entrambe le sedute illustra con molta pregnanza l’esperienza del dramma di Maria come pure la sua capacità di sviluppo di un comportamento resiliente. La salute psicofisica di Maria è migliorata notevolmente, anche secondo i risultati delle analisi cliniche. Il rapporto con il marito, dopo un periodo particolarmente difficile ha potuto riprendere rinsaldando un legame affettivo ed un sostegno reciproco.

Anna è una giovane donna di 30 anni. Il partner con il quale conviveva da cinque anni, muore dopo tre mesi dalla scoperta di un tumore allo stomaco. Anna è distrutta tanto che cade in depressione grave. Dopo circa un anno riesce a dormire solo tenendo vicini a sé capi

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di abbigliamento del suo partner, non frequenta amici ed, a fatica, ha ripreso a lavorare. Viene in terapia e, dopo alcune sedute verbali, accetta di intraprendere un percorso con lo scopo di modulare le emozioni di rabbia, angoscia e dolore che bloccavano la ripresa di una vita dopo il trauma e la perdita.

Due sedute sono state di particolare drammatica intensità: una nella quale A. ha ripercorso le tappe della malattia del suo partner dal momento della diagnosi alla fine ed un’altra durante la quale Anna ha sperimentato nuovamente, fisicamente ed emotivamente, le ultime ore e la morte del suo amato. Il programma utilizzato è intitolato “Mournful” (profondo dolore, lutto). (estratti: Goreczki, 3rd Symphony (2nd Movement); Russian Chant: The Joy of Those Who Mourn).

Riportiamo la descrizione e le riflessioni di A. dopo quella che è stata l’esperienza che ha segnato una svolta nei suoi atteggiamenti e stato emotivo, con lo sviluppo di un comportamento resiliente: “Quello che ho vissuto è stato sbalorditivo. Per me è stato sconcertante rivivere quel dolore, avvertire di nuovo quella sofferenza come se fossi tornata indietro nel tempo. Provare quelle emozioni così feroci e rivivere i momenti della disgrazia. Per la fiducia e la stima che avevo nel terapeuta mi sono lasciata andare ed ho vissuto questa esperienza sicura che poi il mio stato emotivo sarebbe stato diverso. All’inizio dell’esperienza, ignara del dopo, ho sentito che il corpo stava diventando leggero, prima le gambe poi il resto del corpo e la mente ha aperto quelle porte …di nuovo il baratro, il buio, il tormento, le sensazioni fisiche il blocco alla gola e la voglia di vomitare, il gelo. Accompagnata dalla musica, mi sono sdraiata sul letto con L. gli ho parlato esprimendogli tutta la mia rabbia, la mia amarezza perché mi aveva abbandonato, mi aveva lasciata sola, aveva deluso tutte le mie aspettative, i progetti fatti insieme, togliendomi quello che per me era più importante e cioè il suo amore. Nell’esperienza immaginativa lui mi ha risposto e mi ha spiegato la sua esperienza, l’ho

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sentito come se fosse realmente lì con me, ed ho compreso che era lui che aveva perso di più: l’amore e la vita. Allora ho provato emozioni completamente diverse, sono scomparse la rabbia, il rancore, sostituite da profonda compassione e intensa tristezza. L’ho abbracciato e baciato, condividendo con lui il profondo dolore per la separazione. Sono riuscita ad occuparmi di lui, a vestirlo come piaceva a lui ed a me. Mi sono presa cura di lui con amore. Lacrime di tenerezza hanno accompagnato questa parte dell’esperienza e l’addio. Poi è arrivato il momento di prendere di nuovo coscienza del mio corpo, delle gambe e del resto. Una volta ritornata ad uno stato vigile, mi sono sentita fisicamente stanca e provata come dopo una corsa, frastornata, intontita, ma non so come e perché sentivo già che del positivo si era fatto posto dentro di me. Sono tornata a casa ed ho riposato serena senza bisogno di avere con me il pullover di L. Da allora ho risalito, giorno dopo giorno, gli scalini della vita. Ho acquistato una casa mia ed ho una relazione stabile e soddisfacente. Non ho dimenticato L. ma ho imparato da quella perdita e da quel dolore l’importanza che ha per me la vita.”

Fabrizio è un giovane uomo di 28 anni affetto da una forma incurabile di leucemia dalla nascita. Vive in famiglia che gli offre un buon sostegno affettivo e materiale. Nonostante la gravità della situazione conduce una vita abbastanza normale, frequenta numerosi amici, ha l’hobby della musica e suona la batteria, è appassionato di gare con auto sportive per cui collabora alla messa a punto di macchine da corsa. Un giorno muore una persona che lui incontrava da anni al centro trasfusioni per la stessa malattia. Quasi contemporaneamente un suo amico muore per un incidente. Fabrizio cade in una forte depressione con ansia ed attacchi di panico tanto da non uscire più di casa e non riuscire a dormire da solo. Trascorre qualche mese, poi sempre più chiuso ed angosciato, in un clima familiare sempre più cupo, viene nel mio studio chiedendomi di iniziare un percorso terapeutico. Cominciamo con sedute di terapia verbale cognitiva, la REBT di Ellis,

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affrontando quasi subito l’oggetto della sua angoscia e paura, cioè la morte che lui sente imminente. Dopo sei-sette mesi, siccome per lui era importante dare un senso alla sua vita, gli ho proposto di fare esperienze mediante la Guided Imagery and Music, in modo da esplorare il suo mondo interiore ed elaborare nuovi significati per la sua situazione di vita, avvertendolo che potevano anche essere esperienze drammatiche. Lui ha accettato in quanto voleva riuscire a superare questo stato che lo bloccava e non lo faceva vivere per il tempo che gli restava. Presento alcune sedute che, metaforicamente, segnano delle tappe importanti riguardo lo sviluppo dell’atteggiamento resiliente di Fabrizio per affrontare più sereno la propria morte.

Durante la prima seduta, Fabrizio percepisce la musica con molta ansia e l’esperienza che fa si svolge quasi tutta all’interno di un tunnel completamente nero che sembra non abbia uscita, un ambiente totalmente buio. All’inizio sperimenta una forte ansia e paura, poi, sostenuto dal terapeuta, utilizza i suoi canali sensoriali per cercare di orientarsi e conoscere quell’ambiente che lo terrorizza. Fabrizio, attivandosi, riesce a sentirsi meno angosciato e capace di esplorare il tunnel tanto che, aiutato dalla musica percepita ora più serena, inizia ad intravedere una luce proveniente da un’apertura verso l’esterno. Egli, sostenuto dalla musica, si incammina verso l’uscita della galleria con un senso di liberazione e leggerezza. (estratti da Explorations: Debussy, Nocturne (Sirenes); Durufle, In Paradisum). In una seduta successiva, F. si sperimenta alla guida di una vettura mentre percorre una strada sconosciuta senza sapere dove questa lo condurrà. Comincia a gustare il percorso che sta facendo, ammira il paesaggio bello e nuovo che gli sta intorno. Decide di fermarsi ad un punto di ristoro ed incontra degli amici coi quali passa un po’ di tempo piacevole ed ai quali confida che non è importante sapere dove andrà ma che lui si sente appagato dal viaggio in sé. In una delle ultime esperienze, Fabrizio si impegna a mettere a punto una macchina per prepararla ad una gara. È felice e

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soddisfatto di sé e si dice “anche se io non gareggio, contribuisco a far vincere il pilota, insieme agli altri della mia squadra. Sono proprio contento!” (estratti da Affect Release: Bach, Toccata e Fuga in Re minore; Orff: Carmina Burana). Durante gli ultimi mesi era riuscito a sistemarsi un locale dove poter suonare con gli amici, aveva ripreso le attività che gli piacevano tanto, come far parte di un gruppo per far svolgere gare di auto sportive, coinvolgendo nel suo recuperato entusiasmo anche i suoi familiari. La morte per infarto sopraggiunse mentre sentiva di vivere una vita con un significato e questo fu di grande conforto ed esempio anche per la sua famiglia.

6. Conclusioni

I presupposti teorici e le esperienze presentate hanno inteso sottolineare che, davanti alla morte ed a situazioni drammatiche, gli esseri umani possono essere in grado di capacità spontanee di resilienza. Se questo non avviene o l’individuo ha particolari difficoltà a riorganizzare la propria vita, può essere possibile, mediante metodi terapeutici integrati come la REBT e la BMGIM, facilitare nelle persone lo sviluppo di atteggiamenti resilienti consentendo loro di acquisire una maggiore consapevolezza, modificare valutazioni e significati ed utilizzare una appropriata flessibilità emozionale.

Riportiamo, in conclusione, quanto già esposto a livello teorico e che è stato verificato nei casi clinici presentati, cioè che la resilienza viene considerata come 1 - un processo fluido piuttosto che tratti stabili; 2 – un miglioramento o una crescita che vanno oltre i precedenti livelli di funzionamento; 3 – un costrutto multidimensionale che attraversa aree emotive, spirituali, sociali cognitive e fisiche e che spesso procede in modo differente in ciascuna area (Sperry, 1992; Staudinger et al., 1995). Come già detto la resilienza, in una situazione particolarmente avversa, include sia la capacità individuale di esplorare l’ambiente per trovare

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risorse, come anche la disponibilità dell’ambiente a fornirle in modo significativo per l’individuo nel suo contesto socio-culturale, inclusi, come da noi proposto, interventi volti al suo benessere psicologico.

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Il trauma e la capacità di resilienza3

Dott.ssa Susanna Loriga

(Psicologa, criminologa, docente presso il dap di Sulmona, Vicepresidente Osservatorio Naz.le Abusi Psicologici, Consulente Ministero di Giustizia)

“Non dobbiamo cercare di vivere a lungo, ma di vivere bene: giacché il

vivere a lungo dipende dal destino, il vivere bene dall’animo. La vita è lunga se è

piena; diviene piena quando l’animo è riuscito a procurarsi il suo bene e ad

acquistare il dominio su se stesso”.

Seneca”Lettere a Lucilio”

Il termine stress, adottato nel secolo scorso, trae origine dal termine ingegneristico, indicante la pressione, lo sforzo cui veniva ad essere sottoposto un ponte al momento del transito di un veicolo. Successivamente il termine è venuto a significare, in diversi momenti, dapprima una serie di stimoli agenti sull’individuo a livello biologico, psicologico, sociale, in grado di produrre una reazione di difesa da parte dell’individuo, e quindi, a lungo termine, dei danni; successivamente, con Selye (1974) il termine stress è arrivato ad includere la risposta dell’organismo allo stimolo-stressor.

Selye usa l’espressione di “sindrome generale di adattamento” che comporta reazioni aspecifiche e generali che l’organismo mette in atto davanti ad uno stressor.

3 Durante il convegno la dott.ssa Loriga ha tenuto una relazione senza traccia fissa, toccando

diversi punti che riguardano la resilienza. Per gli atti ha inviato quanto segue come traccia di alcuni

degli argomenti trattati durante il convegno.

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Il trauma psicologico è una reazione psichica, da intendere come una ferita causata da un fattore traumatico (stressor), che comporta primariamente l’essere sopraffatti da emozioni molto dolorose e intollerabili.

Le manifestazioni psicopatologiche di un’esperienza traumatica possono derivare da ognuno o da entrambi i seguenti stressor:

Da un evento stressante e di natura violenta (morte, lesioni, minacce all’integrità fisica e psicologica)

Da una serie di microtraumi relazionali avvenuti nelle prime fasi dello sviluppo emotivo (separazioni precoci, maltrattamento, trascuratezza psicologica, carenza di sintonizzazione affettiva), che si sono stabilmente ripetuti nel tempo, compresa l’adolescenza.

La parola trauma deriva dal verbo greco che significa “perforare”, danneggiare, ledere, rovinare e contiene un duplice riferimento a una ferita con lacerazione, ed agli effetti di un urto, di uno shock violento sull’insieme dell’organismo.

Dal trauma deriva un “vulnus” che rende la persona vulnerabile rispetto agli impatti della vita.

Il trauma riguarda le conseguenze derivanti da un evento critico. E’ doveroso puntualizzare che: non è l’evento in se ad essere stressante, ma la valutazione che noi faremo dell’evento.

Esistono “traumi di tipo I”, singoli eventi traumatici, associati a maggiore supporto da parte della famiglia e della società e maggiore incidenza di disturbi post-traumatici, e “traumi di tipo II”, esperienze traumatiche durature e ripetute, connesse, invece, a minore supporto ambientale e maggiore incidenza di patologie depressive. Nel trauma di tipo II farei rientrare l’abuso psicologico. Abuso deriva dal latino “abusus”, consumazione completa, è un trauma subdolo e di difficile interpretazione. Una diagnosi differenziale è impresa, in alcuni casi,

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assai ardua principalmente a causa dei meccanismi di difesa che la vittima mette in atto. La vittima, in alcuni casi, mette in atto un’idealizzazione difensiva nei confronti del “carnefice” per difendere se stessa da un vissuto troppo doloroso. In alcune vittime dei sequestri questa idealizzazione difensiva prende il nome di “sindrome di Stoccolma”. Non è facile per gli operatori sociali, comprendere e contenere il vissuto di una vittima che, da una parte racconta le violenze subite e dall’altro difende il suo “carnefice”. Aiutare la vittima ad elaborare il trauma partendo dalla consapevolezza di ciò che ha subito, è una tappa imprescindibile per sviluppare la resilienza e, per esempio nelle violenze intrafamiliari, per evitare il ciclo di rivittimizzazione sui figli. Accanto a una concezione del trauma come evento che irrompe bruscamente nella vita del singolo, causando la lacerazione di una barriera protettiva normalmente efficace contro gli stimoli eccessivi, si fa oggi strada la considerazione del trauma come disturbo precoce della relazione tra il bambino e la figura di attaccamento.

Il concetto di trauma è collegato alla resilienza, ovvero, alla capacità di ogni individuo di resistere agli eventi critici della vita. Se da un punto di vista giuridico il rapporto tra vittima e psicologico. Spesso gli operatori trovano inconciliabile le violenze narrate dalla vittima con i sentimenti di amore e attaccamento provati nei confronti dei loro “aguzzini”.

Numerosi studiosi hanno studiato questo fenomeno definito “sindrome di adattamento” nelle esperienze di abuso sessuale e “sindrome di Stoccolma” nelle vittime dei sequestri di persona.

Nei bambini vittime di abusi in famiglia e maltrattati è molto diffusa l’idealizzazione difensiva che i bambini hanno bisogno di mantenere dei propri genitori. Non è infrequente che i bambini abusati siano convinti di aver essi stessi desiderato l’atto sessuale, il tema della colpa prende molto spazio all’interno della terapia ed è un aspetto centrale del trattamento. La stigmatizzazione è tipica del bambino

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abusato e viene incrementata dall’altro genitore per aver partecipato all’attività sessuale o addirittura per averla indotta.

La vittima può mettere in atto dei meccanismi difensivi tali da difendere il suo carnefice ed assumersi la colpa di quanto accaduto. Questo servirà a tollerare la violenza creando un adattamento che alcuni esperti hanno considerato altamente disfunzionale.

Nel 1894 Sigmund Freud descrisse per la prima volta l’esistenza di operazioni inconsce che in quel momento indicò con il termine generico di “rimozione”. Freud sostenne che tali operazioni inconsce erano volte a proteggere l’individuo da conflitti, idee ed emozioni e identificò alcune proprietà delle difese dell’Io:

• Sono lo strumento principale con cui il soggetto gestisce gli istinti e gli affetti.

• Sono inconsce.

• Sono discrete l’una rispetto all’altra.

• Nonostante spesso costituiscano la caratteristica distintiva delle maggiori sindromi psichiatriche, tendono ad essere reversibili.

• Possono essere adattive o patologiche.

“L’identificazione con l’aggressore”, inizialmente introdotto da Anna Freud e poi ampiamente ripreso da Ferenczi, propone delle spiegazioni per quanto da sempre osservato nei bambini.

Nel 1948 nasce la vittimologia con Von Hentig che elaborò l’analisi iniziale su tre concetti fondamentali:

• Criminale-vittima

• Vittima latente

• Relazione specifica tra il criminale e la vittima.

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Un altro concetto fondamentale è quello discusso da Mendelsohn nel 1965, ovvero quanta responsabilità attribuire alla vittima all’interno dell’azione deviante.

“L’attenzione posta alla vittima e al suo ruolo, più o meno attivo e

passivo, è fondamentale per capire come nasce e si sviluppa l’evento criminale”, spiega Guglielmo Gulotta, professore di psicologia giuridica all’Università di Torino. “Per questo nel 1948, con la pubblicazione di The criminal and his victim di Von Hentig, è nata la vittimologia, una disciplina

che studia il delitto dalla parte della vittima”. Gli obiettivi della vittimologia sono due: la prevenzione (attraverso la ricerca di particolari categorie a rischio) e la riduzione dei danni fisici e psicologici sia breve che a lungo termine.

Altro obiettivo della vittimologia dovrebbe essere l’educazione alla resilienza. Aiutare la vittima a scoprire le risorse interiori servirà per far fronte all’evento traumatico. Altresì, l’utilizzo di una modalità di studio prospettico e non solo retrospettivo, in vittimologia, sarà utile per prevenire in alcune vittime reazioni abnormi e disfunzionali. Per comprendere la resilienza è opportuno conoscere la vittimologia al fine di evitare stigmatizzazioni e valutazioni erga omnes e non ad personam.

Resilienza, deriva dal latino resalio, iterativo di salio, che significa saltare, danzare. Rappresenta in fisica la capacità di un corpo di resistere agli urti. In ecologia e biologia, la resilienza è la capacità di autoripararsi dopo un danno. Numerosi dibattiti sono sorti intorno al concetto di resilienza: la resilienza è legata alla dimensione intrapsichica o al contesto sociale?

La letteratura scientifica internazionale suddivide la resilienza in: resilienza strutturale, legata a situazioni sfavorevoli o a stress cronici come situazioni di povertà, violenza e abbandono; resilienza congiunturale, dovuta a una crisi sfavorevole e ad avvenimenti improvvisi e destabilizzanti come guerre e catastrofi naturali; resilienza

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congiunturale e strutturale, che comprende situazioni collegate alla presenza di deficit congeniti o acquisiti. “Gli studi sulla resilienza hanno avuto un excursus storico particolare. Partendo dalla metà degli anni Settanta si

sono intensificati, soprattutto in contesti di ricerca nord-americani, gli studi volti

ad identificare gli elementi di rischio nell’infanzia e nell’adolescenza e le relative

strategie di adattamento a situazioni di stress psicologico-sociale”. (A. De Filippo, 2007). La psicologia americana vede nell’intrapsichico l’origine della resilienza, trascurando l’aspetto del contesto socio-culturale. La scuola francese, accanto alle predisposizioni individuali, attribuisce grande importanza al contesto e alle risorse sociali. Serge Tisseron, psichiatra, ne “Resilience ou la lutte pour la vie” (agosto 2003), utilizza la metafora dell’ostrica per spiegare la resilienza. L’ostrica reagisce all’entrata di impurità producendo la perla. La resilienza rappresenta una ricchezza interiore.

Ogni persona ha le proprie risorse di resistenza allo stress, (resilienza), che possono essere raggruppate come caratteristiche di personalità. Altresì, oltre alle caratteristiche personali, una situazione può essere in grado di neutralizzare gli effetti di un’altra. In questo caso parleremo di effetto buffer (tampone), mutuando la definizione dalla chimica : un tampone è una soluzione che aggiunta ad un’altra a Ph acido o basico, è in grado di riportare il ph intorno a livelli neutri (ph 7). Si può dire quindi che la soluzione originaria è stata neutralizzata, perdendo quindi qualunque capacità corrosiva.

Il sostegno sociale può avere effetti di buffer: gli effetti benefici del sostegno sociale sono evidenti su vari parametri, dal semplice comportamento di malattia ad una serie di malattie acute e croniche, all’esito di gravidanze, alla possibilità di suicidio, incidenti ecc.

Ergo, gli esiti del trauma dipenderanno in misura considerevole dall’età in cui avviene, dal contesto sociale e dalla disponibilità di sostegno e risorse.

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Ogni individuo rappresenta, metaforicamente, uno scrigno all’interno del quale sono racchiuse le risorse per affrontare i momenti difficili della vita.

Lo studio sulla resilienza ha permesso il superamento del modello deterministico, sostituendo alla lettura lineare del trauma (processo causa effetto) una lettura circolare improntata sull’importanza dei feedback.

Resilienza non significa negazione o diniego dell’evento traumatico ma rappresenta la capacità di affrontare gli eventi (coping) evitando reazioni abnormi e disfunzionali per l’individuo. Altresì, rappresenta la capacità dell’individuo di riappropriarsi delle proprie reti sociali dopo aver vissuto un’esperienza traumatica. I fattori di vulnerabilità e resilienza possono essere attivi in qualunque momento del processo della risposta allo stress, ovverosia nel momento dell’evento, nei momenti immediatamente successivi, oppure in tempi lunghi. Uno stesso fattore può essere importante in un punto del decorso del disturbo ma non in un altro.

La consulenza psicologica, oltre alla psicodiagnosi, deve avere come obiettivo il miglioramento della qualità di vita potenziando la resilienza degli individui per affrontare gli stressor.

Gli studi retrospettivi sulle vittime dei lager nazisti, rappresentano il contributo più importante allo studio della resilienza. Scriveva Primo Levi in Se questo è un uomo (1956): “La facoltà umana di scavarsi una nicchia, di secernere un guscio, di erigersi intorno una tenue

barriera di difesa, anche in circostanze apparentemente disperate, è stupefacente,

e meriterebbe uno studio più approfondito”.

Gli studi epidemiologici condotti sui sopravissuti all’Olocausto hanno rilevato che molte delle vittime hanno ricordi intrusivi del trauma e qualche fenomeno di evitamento, ma non sono affette da DPTS. La resilienza riguarda maggiormente chi subisce traumi prolungati o

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ricorrenti che permettono alla vittima di sviluppare delle strategie per far fronte al trauma.

La capacità umana di far fronte ai traumi, come su scritto da Primo Levi, è stupefacente. Ho potuto constatare ciò nelle vittime dei sequestri di persona, la capacità di sviluppare la resilienza per alcuni di loro è sorprendente. Durante la prigionia possiamo parlare di meccanismi di difesa, secondo una lettura psicodinamica, messi in atto per sopravvivere ad una situazione che altrimenti sarebbe intollerabile. È puro istinto di sopravivenza legato alla capacità umana di adattarsi anche alle situazioni particolarmente critiche. La resilienza è una capacità che può svilupparsi dopo il rilascio e consiste nella capacità di costruire reti sociali, parlare dell’esperienza vissuta per aiutare altre vittime e, come l’ostrica, utilizzare le risorse personali per difendere la propria integrità psicologica e identità facendo leva sulla propria autostima.

Vulnerabilità e resilienza rappresentano, secondo la letteratura, i due possibili sviluppi al trauma. Concedendomi una licenza letteraria vorrei utilizzare l’ossimoro per descrivere un’altra possibile reazione al trauma, o meglio, una resilienza in itinere: la resilienza vulnerabile o borderline da me più volte notata durante gli assessment con alcune vittime. È, secondo il mio modesto parere, una prima fase di costruzione resiliente, il momento in cui si iniziano a formare “gli anticorpi” al trauma, una “convalescenza psicologica” che traccerà il “destino della resilienza”. È il momento in cui

Attraverso la resilienza l’individuo trasforma il trauma mettendo in atto un coping trasformativo.

La resilienza non scaturisce ipso facto dal trauma se, chi ha subito il vulnus, non riconosce il danno subito uscendo dallo stato di obnubilamento che ne impedisce un’elaborazione.

Parafrasando Khalil Gibran posso dire che: per vedere il giorno dobbiamo attraversare la notte.

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L’individuo deve sviluppare e coltivare la resilienza nel corso della vita. Deve educarsi, da “educere”, alla resilienza rifuggendo uno stile di coping regressivo improntato sulla fuga per non affrontare gli eventi critici.

Educare alla resilienza significa anche: educare all’autoconsapevolezza e all’empatia per sviluppare l’intelligenza emotiva (Goleman, 1999), capacità indispensabile per instaurare relazioni produttive e per prevenire il burn-out negli ambienti lavorativi.

Il lavoratore resiliente è una persona ottimista, ha una buona autostima, considera il cambiamento come una crescita, è consapevole di avere un controllo sull’ambiente lavorativo e ponendosi obiettivi significativi considera il cambiamento come una crescita. Altresì, evita “l’effetto domino” perché utilizza i diversi ruoli con effetto “buffer”, vedi sopra, non restando intrappolato, o meglio, prisonizzato (parafrasando Goffman) nel proprio ruolo professionale; così è possibile evolversi secondo un approccio eudemonico che determina la soddisfazione in campo lavorativo in una società postmoderna. (Annalisa De Filippo, 2007).

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Riferimenti Bibliografici

A. De Filippo, (2007); Stress e resilienza vincere sul lavoro. Psiconline.

S. Ferenczi (1989); Opere, vol. I, 1908-1912, Raffaello Cortina Editore.

A. Freud; (1985); Opere; Bollati Boringhieri.

S. Freud, (1989); Progetto di una psicologia(1892-1899); in Opere - Volume 2 a cura di Cesare L. Musatti, Bollati Boringhieri.

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D. Goleman, (1999); L’intelligenza emotiva. BUR Biblioteca Univ. Rizzoli.

P. Levi, (1956); Se questo è un uomo, Einaudi, Torino.

S. Tisseron (2003); Resilience ou la lutte pour la vie, Le Monde diplomatique.

B. Mendhelson, (1963). The Origin of Victimology. Excerpta Criminologica, vol. 3, pp 239- 256.

H. Selye, (1974); Stress without Distress. Philadelphia: J. B. Lippincott Co.

Von Hentig, (1948). The Criminal and His Victim, Yale University Press, New Haven.

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Pensare costruttivo con la Resilienza

Dott. Roberto Cicinelli

(Psicologo, Psicoterapeuta, Vice-direttore della Scuola di Psicoterapia Integrata e Musicoterapia)

L’ipotesi di base del modello di resilienza proposto riprende il modello compensatorio, sostiene cioè che le caratteristiche individuali e le risorse ambientali contrastino l’azione negativa delle esperienze stressanti.

Tale concetto era già stato delineato da Bandura nel 1982 con il termine self – efficacy e definito come quell’insieme di convinzioni che la persona possiede riguardo alle proprie capacità di organizzare ed eseguire le azioni necessarie al raggiungimento dei propri scopi.

Dal livello di self – efficacy che una persona possiede derivano la modalità di reazione alle difficoltà della vita, l’entità dello sforzo e la capacità di perseverare di fronte agli ostacoli e alle esperienze di fallimento e conseguentemente la quantità di stress e di depressione vissuta.

La resilienza personale deve quindi essere intesa come un insieme di processi attivi nel tempo. Più che una risposta immediata o una modalità di adattamento all’insorgenza di una crisi, la resilienza implica l’azione complessa di più processi interattivi nel corso del tempo, dal modo in cui l’individuo affronta una situazione di crisi, alla sua capacità di gestire stati transitori di disorganizzazione personale, fino alle strategie di coping adottate sia nell’immediato che nel lungo periodo.

Ma prima di procedere è opportuno chiarire un punto fondamentale: perché mai i problemi personali sono inevitabili?

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A questa domanda si può rispondere con tutta una serie di ragioni; io tuttavia mi limiterò a citare le due più importanti. Innanzitutto in quanto esseri umani noi tutti abbiamo sin dalla nascita la capacità di provare dolore e infelicità. Questa potrà non sembrare una grande scoperta, tuttavia ha importanti implicazioni per l'argomento che stiamo trattando.

Vi siete mai chiesti perché abbiamo la capacità di provare dolore e altre spiacevoli sensazioni? Ciò sarà dovuto a un capriccioso errore nel cammino dell'evoluzione? Perché mai non ci è possibile vivere la nostra vita felici e beati, invece di dover lottare per superare ogni giorno problemi e inaspettate tragedie?

Per quanto strano possa sembrare, la capacità di provare dolore e disagio costituisce un importante elemento di adattamento.

È proprio la nostra capacità di provare dolore, infatti, che ci aiuta ad imparare a sfuggire alle situazioni pericolose. Un bambino incapace di provare sensazioni si troverebbe in permanenza ostacolato nell'apprendere, e avrebbe ben poche probabilità di sopravvivere. È la nostra capacità di provare sensazioni che ci aiuta ad imparare ad evitare situazioni che minacciano la nostra vita. Le ammaccature e le contusioni che ci siamo fatti durante l’infanzia contribuiscono a renderci consapevoli, e a rispettare, un ambiente che è fonte di appagamento, ma che può anche essere molto minaccioso.

In altre parole, siamo dotati di un sistema nervoso che utilizza il dolore come segnale di pericolo, come stimolo di adattamento. Chi di noi ha superato l'infanzia ha imparato ad evitare gli oggetti appuntiti, l'acqua profonda, i luoghi elevati, il fuoco e così via. In realtà abbiamo imparato a prevedere i pericoli di ogni sorta, a stare sul chi vive di fronte a situazioni minacciose.

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Questa capacità è utile quando queste situazioni si presentano in gran numero; il problema è che spesso sopravvalutiamo la possibilità o l'intensità di una minaccia al nostro benessere.

Per sopravvivere dobbiamo essere capaci di sensazioni, ma anche di sviluppare adeguate competenze che ci consentano di bilanciare i vantaggi e gli svantaggi che una data situazione ci arreca, valutandoli in un contesto temporale che ricomprenda il nostro futuro possibile.

La seconda ragione risiede invece al di fuori della persona: ed è che il mondo che ci circonda è in continuo mutamento. L’adattamento non è affatto qualcosa di statico, per il quale ci si confronta col mondo e ci si piega alle sue esigenze. Queste esigenze, infatti, variano col tempo, e la persona che vuole adattarsi deve essere pronta a cambiare con esse. Pensate per un momento ai molti disagi che incontriamo comunemente dopo la maturità; per esempio:

• andare all'università, o iniziare un lavoro

• sposarsi

• traslocare

• cambiare lavoro

• mettere al mondo e allevare dei figli

• subire un incidente e sottoporsi a un'operazione

• far fronte alla perdita di un caro amico o di una persona amata

• essere soggetto a malattie ricorrenti

• affrontare una malattia terminale o la morte

Questi citati, naturalmente, sono solo alcuni dei momenti critici di una vita media. La nostra esistenza di ogni giorno è piena di molte altre tensioni grandi e piccole, che possono subire variazioni col tempo. Ciò che tutto questo intende sottolineare, naturalmente, è che il cambiamento è inevitabile e spesso causa di tensioni. Recenti

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esperimenti compiuti da ricercatori nel campo dello stress indicano che persino un cambiamento positivo è un’esperienza che sottopone a tensione. Una promozione sul lavoro, un matrimonio, un figlio da tempo desiderato possono essere cambiamenti benvenuti, ma l’affrontarli si traduce spesso in disagi per la persona, tali da porre nuove richieste alle sue risorse.

Un terzo punto sul quale è opportuno porre l’accento è l’affermazione che: il risolvere i problemi personali richiede sforzi e capacità. Tuttavia questi sforzi e queste capacità non vanno al di là delle nostre possibilità, e non occorre esser dotati di un'intelligenza o di una forza di volontà fuori dell'ordinario per poterle ottenere.

I principi per lenire la maggior parte dei problemi personali sono: una aumentata consapevolezza; una profonda valutazione ed accettazione di se stessi e del mondo; la capacità di agire per ottenere i risultati desiderati attraverso una ristrutturazione degli abituali stili di pensiero che consenta una lettura più realistica del mondo esterno e del proprio comportamento, consentendo il cambiamento dei processi di autoregolazione emotivi.

Dobbiamo quindi considerare che, benché l'ipotesi di base dalla quale partiamo è che i problemi personali sono qualcosa di inevitabile e quindi nessuno può sfuggirvi totalmente, l’approccio che proponiamo confida nella capacità potenziale delle persone di ridurre la propria vulnerabilità e di promuovere la resilienza, tale approccio esorta le persone a credere nelle proprie capacità e pone l’attenzione sulla ineluttabilità del cambiamento come processo auto poietico di riorganizzazione delle proprie esperienze che può avvenire in modo consapevole e può essere almeno in parte guidato o re-indirizzato dall’individuo. Ciascuno di noi può inoltre imparare nuove competenze ed abilità che lo aiuteranno a minimizzare la minaccia che certi eventi portano alla nostra possibilità di vivere un'esistenza piena e soddisfacente.

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In antitesi quindi a un modello clinico centrato sul deficit, questo approccio orientato alla resilienza fa riferimento alle risorse e alle potenzialità individuali per affrontare le difficoltà.

Un evento critico può perturbare l’equilibrio personale di una persona e può indurre un cambiamento importante nel sistema di credenze, cosa che a sua volta genererà delle conseguenze in termini di una riorganizzazione nei processi di adattamento. Le avversità possono quindi generare inizialmente una crisi di significato e una potenziale disorganizzazione del Sé, ma anche spingere l’individuo ad adottare strategie più efficaci ed a sviluppare una ristrutturazione degli schemi cognitivi intesi come capacità di adattamento autoregolato, di auto trasformazione delle proprie caratteristiche strutturali allo scopo di conservare la propria organizzazione, rivelando che una crisi può risultare un punto di svolta positivo e che gli eventi negativi della nostra vita non sempre ci danneggiano nel lungo periodo.

Allora l’interrogativo rilevante diviene questo: quali sono le risorse in grado di promuovere la stabilità e la salute in condizioni di perturbazione e cambiamento?

La nostra valutazione degli eventi stressanti e delle risorse su cui possiamo fare affidamento per affrontarli sarà fortemente influenzata dalla risposta che elicitiamo. Uno stesso avvenimento potrà essere percepito come pesante, minaccioso, lesivo, benigno o insignificante. Gli eventi stressanti della vita sono più perturbanti quando sentiamo di avere uno scarso controllo su di essi o quando pensiamo che rappresentino una grave minaccia per la nostra vita oppure per la comprensione che abbiamo di noi stessi, minando il significato che attribuiamo alla nostra vita o a noi stessi.

Un’autostima elevata e un alto livello di efficacia personale, uniti ad un sentimento di fiducia e di controllo sugli eventi, aumentano la possibilità di adottare strategie più efficaci laddove evidentemente un

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sentimento di impotenza aumenta la probabilità di passare da un disagio all’altro.

Elementi significativi sono:

1. La certezza di poter controllare o influenzare gli eventi in base alla propria esperienza;

2. la capacità di sentirsi profondamente coinvolti o impegnati nelle attività della vita;

3. l’anticipazione del cambiamento come sfida eccitante foriera di ulteriori evoluzioni positive.

C’è da tener presente inoltre che spesso vi è più di una causa a un problema.

È un punto importante da tenere a mente quando si cerca di capire esattamente cos'è che ci mette a disagio. Un secondo punto rilevante messo in luce è che spesso noi stessi contribuiamo a creare i nostri problemi. In altre parole, spesso noi pensiamo o agiamo in modo da aggravare i nostri problemi. Il terzo — che è forse il più significativo — è che tutti i problemi, che sono sensazioni d'insoddisfazione, sono causati dal modo in cui vorremmo che le cose fossero o da come sono realmente (o da tutt'e due) in violazione del principio di realtà. Questo non è che un modo diverso di dire che la causa di un problema è una discrepanza. Può darsi che sia la situazione a dover cambiare, ma è anche possibile che siano i nostri obiettivi a necessitare di una riconsiderazione. Quando eliminiamo una discrepanza, lo facciamo cambiando le cose in modo che si conformino alle nostre aspettative, oppure cambiando le nostre aspettative in modo che si adattino alle circostanze, oppure ancora trovando un compromesso tra i due.

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Appare quindi evidente che le varie persone reagiscono in modo diverso alla stessa situazione, questo perché percepiscono le cose in modo diverso, attribuiscono differenti significati agli avvenimenti e rispondono con azioni che sono in parte influenzate dai modi di affrontare le sfide della vita che hanno appreso — alcuni di noi hanno imparato ad affrontarle in modo più efficace di altri. Però, e questa è forse la cosa più importante, vogliamo sottolineare il fatto che il nostro modo di percepire le cose e di affrontarle può essere cambiato. Noi non siamo affatto un coacervo di tratti immutabili e immodificabili, che ci portano inesorabilmente ad avere la pressione alta, ad essere obesi, depressi e così via. Per quanto alcuni cambiamenti possano richiedere del tempo, noi tutti abbiamo la capacità di migliorare le nostre strategie.

Poiché le cause di un problema sono situazioni, schemi di comportamento e modelli di pensiero, non deve sorprendere che le soluzioni efficaci siano quelle che non tentino soltanto di modificare gli eventi, possibilità che spesso è imperseguibile, e che non si limitino a proporre cambiamenti comportamentali, ma che intervengono direttamente sulle cause che ne determinano una lettura patogena come i modelli di pensiero relativi.

CONOSCENZA TACITA

Nell’ambito della psicoterapia integrata per ottenere tali risultati dobbiamo muoverci su due livelli di intervento che, assumendo un modello rappresentativo dell’individuo ologrammatico, sono ovviamente profondamente interconnessi.

Un primo livello più intelligibile da un’ottica cognitiva classica è quello che pone l’attenzione sulle numerose modalità processuali che vengono utilizzate durante la selezione e l’elaborazione dell’informazione, quelle che Beck ha definito “distorsioni cognitive”, si

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pensi al pensiero dicotomico, all’astrazione selettiva, all’infereza arbitraria ecc.

E’ ormai noto che gli esseri umani sono portati a ragionare più per euristiche e schemi irrazionali che secondo la logica, ad avere convinzioni disfunzionali e a formarsi una visione del mondo contraddittoria, andando incontro a sofferenze e comportamenti assurdi, secondo la dicotomia funzionale/disfunzionale, che sostituisce quella classica normalità/patologia.

La caratteristica di questi pensieri è che non nascono da una riflessione o da un ragionamento, vengono dati “per buoni” senza un’effettiva messa in discussione da parte della persona, che tende ad accettarli e ad utilizzarli nella propria vita in modo acritico.

Le regole che una persona utilizza per elaborare i dati di realtà sono spesso distorte o irrealistiche, cosicché le conclusioni che ne vengono tratte sono considerate così ovvie e scontate da essere assunte come vere spingendo molto raramente l’individuo a sottoporle ad una verifica di validità.

Gli errori procedurali portano l’individuo a definire una propria filosofia di vita come una organizzazione cognitiva personale riassumibile in alcune regole tacite (si pensi alle idee disfunzionali di Ellis, alle Organizzazioni di significato personale di Guidano o alla teoria dei costrutti di Kelly) le quali determinano una chiusura organizzazionale che spiega perché l’elaborazione delle informazioni, nonostante la quantità e la variabilità delle esperienze possibili assuma sempre determinate caratteristiche.

Le credenze sono le lenti attraverso cui osserviamo il mondo mentre viviamo e influenzano quello che vediamo e rappresentano il nucleo essenziale di ciò che siamo, della nostra comprensione del mondo e del significato che attribuiamo alla nostra esperienza in questo modo esse finiscono per definire la nostra realtà.

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Le credenze primarie sono essenziali per definire l’identità individuale e le strategie di coping e si declinano in precetti che rappresentano modelli di linguaggio sincretico che modula regole tacite più organizzate e strutturate rendendo evidente che la consapevolezza non abbraccia tutte le regole che utilizziamo.

Appare dunque necessario rileggere il processo elaborativo alla luce delle recenti affermazioni sviluppatesi nel campo delle neuroscienze riguardo alla conoscenza tacita.

Il concetto di processamento analogico è stato chiaramente concettualizzato da Paivio negli anni 80 con la teoria della doppia codifica che prevede come l’informazione dopo essere stata raccolta dal sistema sensoriale sia assoggettata preliminarmente ad una fase elaborativa che dipende da una complessa interconnessione tra percezione, schemi anticipatori, attivazioni delle configurazioni di riferimento mnestiche, per poi essere immagazzinata in uno dei due sistemi specializzati preposti, le informazioni processate o processabili mediante il linguaggio, vengono immagazzinate verbalmente nel sistema analitico dove si utilizzano i ragionamenti astratti, sequenziali, finalizzati; dove il processamento è condizionato dall’analisi logico – formale e quindi risulta essere molto più preciso, ma proprio per questo più lento e più dispendioso da un punto di vista di economia psichica.

Diversamente le informazioni non verbali sono utilizzate dal sistema analogico dove prevale la sintesi e quindi le concezioni olistiche, le gestalt, è questo il mondo delle immagini dei sapori dei suoni. L’elaborazione dominante è quella tacita o come viene chiamata da Singer elaborazione primaria.

Nell’evoluzione umana l’elaborazione tacita è indubbiamente il livello di conoscenza che appare per primo durante lo sviluppo individuale: percezione immediata di sé e della realtà; scarsa capacità di verbalizzazione; scarsa astrazione concettuale. In questa fase mancano quindi tutte le caratteristiche mentali superiori e più sofisticate e

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troviamo in embrione tutte le componenti delle future distorsioni cognitive: visione dicotomica; generalizzazione arbitraria; doverizzazioni; visione assolutistica delle cose e del mondo; difficoltà a discriminare ed a verbalizzare gli stati emotivi e le regole di vita ecc.

Il paradigma dominante è la velocità non certo l’accuratezza.

Ciò detto, assumendo che i processi taciti esercitino un ruolo cruciale nell’organizzare l’ordine e la regolarità delle nostre esperienze ne consegue che le emozioni in generale hanno un ruolo primario nel processo di conoscenza.

Le sensazioni e le emozioni rappresentano senza dubbio il primo sistema conoscitivo auto-organizzato atto a strutturare un insieme di regolarità ambientali dalle quali diventa possibile ricavare un margine di previsione nei confronti del mondo esterno, in grado di favorire un adattamento efficace.

In questa ottica la primarietà delle emozioni nello sviluppo della conoscenza risulta evidente anche dal punto di vista ontogenetico. Fin dalle prime fasi di sviluppo, quando cioè non è ancora possibile identificare qualcosa che assomigli a una capacità cognitiva, seppure rudimentale, gli infanti già posseggono le qualità primarie delle sensazioni e la capacità di manifestarle attraverso schemi espressivi motori.

D’altra parte tutte le sensazioni di base sono processi, che per loro natura tendono ad essere globali e diffusi, e come tali non facilmente decodificabili e controllabili.

Nel corso dello sviluppo individuale viene progressivamente a stabilirsi una relazione dinamica e complementare tra i due livelli di conoscenza. Grazie a questa complementarietà le regole tacite che forniscono all’individuo gli aspetti invarianti della sua percezione del mondo e di sé, possono subire un continuo processo di ristrutturazione cosciente come risultato dell’assimilazione incessante dell’esperienza.

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I due livelli di conoscenza non vanno però considerati come le polarità di un continuum, ma piuttosto come due dimensioni tendenzialmente indipendenti legate da una costante e profonda interazione reciproca.

Questo potrebbe spiegare ad esempio perché le euristiche possono essere applicate a sé stessi e non agli altri o viceversa ed anche come possano convivere tranquillamente nell’individuo due o più convinzioni che sono in evidente contraddizione tra loro che derivano da due interpretazioni diverse dello stesso evento conseguenti dall’applicazione dei due sistemi di conoscenza.

Quindi un processo percettivo - valutativo inizia con le considerazioni consapevoli intenzionali che noi facciamo riguardo ad una data situazione e che vengono espresse con immagini mentali organizzate in un processo di pensiero, esse riguardano una miriade di aspetti delle nostre relazioni con quell’evento, riflessioni sulla situazione presente, sulle conseguenze che può avere per noi o per gli altri, in somma una complessa valutazione cognitiva consapevole.

Alcune delle immagini mentali che vengono evocate sono verbali (parole o frasi riguardanti attributi e significati ) altre non sono verbali e vengono assemblate in una serie di immagini in cui sono incluse sia le caratteristiche percettive delle situazioni sia gli schemi motori, espressivi ed emotivi, sia le regole tacite che forniscono all’individuo gli aspetti invarianti con i quali interpreta ed elabora i significati che caratterizzano soggettivamente tali situazioni.

Appare evidente, quindi, come l’immagine del Sé esplicita consista in un insieme più limitato e consapevole di modelli di se stessi e del mondo in quanto priva del livello tacito dell’elaborazione e parimenti rende ragione della miriade di differenti aspetti in continuo mutamento e spesso in contraddizione tra loro che concorrono ad una definizione del Sé come una articolazione di sottosistemi piuttosto che come una unità.

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Spesso la discrepanza fra i processi taciti ed espliciti ostacola la capacità o la necessità autointegrante del sé dando cosi luogo ad un livello di stress emotivo.

TERAPIA

In tali casi la terapia opportunamente assume la forma di un’indagine radicale il cui obiettivo è di portare alla luce le costruzioni tacite che necessitano del sintomo doloroso per porre poi le basi per la loro trasformazione.

In altri termini si presume che il sintomo sia effettivamente coerente con una costruzione della realtà tacita ovvero non consapevole da parte dell’individuo che può essere abbandonato solamente se e quando diventa possibile una ricostruzione di questo significato.

Un sistema vivente è auto poietico, esso si modifica in base alla sua organizzazione allo scopo di conservare costante la sua organizzazione stessa, questo processo di costante aggiustamento è il processo cognitivo.

E’ la cognizione, intesa come capacità di adattamento autoregolato, di auto trasformazione delle proprie caratteristiche strutturali allo scopo di conservare la propria organizzazione, il meccanismo attraverso cui i sistemi auto poietici gestiscono come sistemi chiusi la loro apertura all’ambiente.

Alla base delle attività e dei comportamenti di un organismo c’è quindi la tendenza a sviluppare un orizzonte coerente e significativo del suo mondo.

Si impone allora la necessità di disvelare la conoscenza tacita per poterla sottoporla ad un lavoro analitico che ci permetta di elaborarla attraverso il pensiero consapevole ovvero la forma più alta di elaborazione e di sintesi del dato percettivo e di quello informativo.

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Noi riteniamo in linea con le indicazioni forniteci dagli studi sulla memoria di Schacter che le configurazioni analogiche siano suscettibili di una più efficace attivazione e quindi risultino maggiormente permeabili ad una esplorazione immaginativa da parte dell’individuo quando l’attivatore ecforico, ovvero, l’innesco per la rievocazione e la rielaborazione degli engrammi (che rappresentano il cambiamento permanente o transitorio nel sistema nervoso, una sorta di traccia mnestica) risulta essere particolarmente efficace .

Quindi la possibilità di attivare ricordi ed immagini dipende anche dallo stimolo ecforico, dalla sua capacità cioè di riattivare queste configurazioni.

Ora che la musica abbia per la sua stessa struttura ritmica effetti o calmanti o stimolanti, come pure possa indurre stati melanconici o tristi è considerazione comune; non vi è dubbio che esista uno stretto rapporto tra percezioni dei suoni, attraverso la loro componente ritmica, l’affettività e la modificazione di alcuni comportamenti.

Ma il nostro è un approccio che vuole andare ovviamente oltre il senso comune e tende ad inserire a pieno titolo la musica nel novero dei metodi terapeutici ascrivibili al più vasto ambito delle scienze cognitive, cercando di definire le modalità attraverso le quali la musica agisce e sviluppare una metodologia clinica sistematica che possa selezionare le applicazioni e predire il beneficio terapeutico ottenibile.

E’ in tal senso che mediante l’imagery, è possibile evocare una vasta gamma di sensazioni ed emozioni, produrre cambiamenti affettivi e fisiologici, nelle modalità di coping, nonché nelle convinzioni irrazionali e nelle autovalutazioni. Il processo di cambiamento è favorito dall’utilizzo di metafore immaginative con alta valenza emotiva, evocate in particolare mediante l’esperienza con la musica.

Il sistema immaginativo come si è detto risulta interconnesso con il sistema verbale che è fondamentale, nella psicoterapia, per la

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riformulazione del dialogo interno, per sviluppare la capacità metacognitiva ed elaborare una narrativa coerente e significativa rispetto a se stessi ed all’interazione con gli altri.

L’immaginazione in quanto linguaggio analogico assume un ruolo di mediazione per facilitare l’accesso del paziente alle proprie conoscenze inconsapevoli; in particolare essa è applicabile alla conoscenza emozionale che risulta più facilmente traducibile in immagini piuttosto che in parole.

Le immagini sono spesso cariche di valenze emotive che il paziente non riesce immediatamente a decodificare nel qui ed ora ed a esprimere in parole, ma che percepisce direttamente in termini di sensazioni.

La presa di coscienza delle proprie conoscenze emozionali si attua in questo modo un riviverle direttamente del setting e successivamente attraverso la traduzione dell’espressione verbale.

Poiché i due sistemi elaborativi sono in una stretta e continua relazione dinamica che consente lo scambio e l’integrazione dei dati percepiti, le configurazioni che erano inizialmente analitiche possono essere divenute nel tempo analogiche e specularmene le configurazioni analogiche possono essere recuperate all’attenzione analitica.

Gli schemi immaginativi, basati su esperienze corporee, permettono lo sviluppo del processo di conoscenza mediante metafore che l’individuo utilizza per rappresentare e conoscere sé e l’ambiente. Lakoff e Johnson (1980) definiscono la metafora un atto cognitivo fondamentale per capire ed esprimere idee ed emozioni sul mondo.

La comprensione e le esperienze vengono trasferite da un dominio cognitivo ad un altro, in modo prevalentemente non consapevole. Per cui la metafora contribuisce all’immagine del mondo personale, ai suoi elementi ed alle sue dinamiche e ci aiuta a comprendere meglio noi stessi e ciò che ci circonda. In questo modo, la

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metafora unisce mente e corpo e trascende il dualismo emozione-cognizione.

E’ in modo particolare attraverso le esperienze immaginative, che è possibile far emergere nuove metafore che hanno il potere di creare una nuova realtà. Questo cambiamento si attua quando iniziamo a comprendere la nostra esperienza nei termini proposti dalla nuova metafora e questi termini divengono nuovi schemi elaborativi. Quindi, se una nuova metafora entra nel sistema concettuale sul quale basiamo le nostre azioni, altera tale sistema e le percezioni e le azioni che da tale sistema derivano.

Quindi per riassumere le immagini mentali che vengono rievocate dallo stimolo musicale sono anch’esse un prodotto delle costruzioni mentali che viene espresso, come buona parte della conoscenza, in termini metaforici, ma poiché la loro rappresentazione è visivo – immaginativa questa viene inizialmente sottratta all’analisi logico formale dei processi verbali ed è più condizionata dall’elaborazione primaria cioè da quella interpretazione dell’evento che avviene in modo grossolano e stereotipato utilizzando quegli schemi interpretativi dei quali abbiamo meno consapevolezza.

Rappresentandocele le rendiamo accessibili e assoggettabili ad un trattamento che promuove un cambiamento coerente e strutturato che è da sempre nelle potenzialità dell’uomo e che noi che facciamo questo mestiere amiamo definire psicoterapeutico.

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Riferimenti Bibliografici

Bandura, A. (1982a); Self-efficacy mechanism in human agency. American Psychologist, 37, 122-147.

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Beck A.T., (1984); Principi di terapia cognitiva – ed. Astrolabio

Benjafield John G., (1995); Psicologia dei processi cognitivi, ed. Il Mulino

De Silvestri C., (1984); I principi teorici e clinici della RET, ed. Astrolabio

De Silvestri C., (1999); Il mestiere di psicoterapeuta, ed. Astrolabio

Ellis A., (1989) ; Ragione ed emozione in psicoterapia, ed. Astrolabio

Ellis A., (1993); L’autoterapia razionale emotiva, ed Erickson, Trento.

Guidano V., (1988); La Complessità del Sé. Bollati Boringhieri, Torino.

Kelly G. A., (1955); The Psychology of Personal Constructs, Volume 1, Norton, New York.

Lakoff, G., Johnson, M., (1998); Metafora e vita quotidiana, Bompiani, Milano

Paivio A., (1991); Dual coding theory: retrospect and current status, in “Canadian journal of

Psychology”, 45, pp.255-287

Schacter D. L., (2001); Alla ricerca della memoria, ed. Einaudi, Torino.

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Vulnerabilità vs resilienza in età evolutiva:

il ruolo dell’ambiente, della cultura e delle sostanze di

abuso nell’esordio dei disturbi psicotici.

Dott. Santo Rullo

(Psichiatra; Professore Università Cattolica Sacro Cuore; Presidente Fenasco Regione Lazio; Direttore SIP Lazio e Società Italiana di Psichiatria Sociale)

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RESILIENZA

►La risposta di un soggetto agli eventi (la sua “capacità di resistere”) è il risultato di un’interazione dinamica tra fattori di rischio e fattori protettivi, appartenenti a diversi livelli:� biologico

� psicologico

� sociale

� ambientale(Cicchetti 1984, Sroufe-Rutter 1984)

►Entrano in gioco sia fattori di rischio (di vulnerabilità), che aumentano la probabilità di esiti negativi in risposta a situazioni stressanti, sia fattori protettivi (di resilienza), che hanno un effetto opposto e proteggono l’individuo da tali esiti.

BAMBINI VULNERABILI

►Vulnerabili perché meno resistenti a tutto ciò che può nuocere e alle aggressioni

► La vulnerabilità è in continuo cambiamento ed èun concetto clinico qualitativo

► La soglia e il livello di vulnerabilità rappresentano le risultanti di fattori genetici ed ambientali incorporati nell’individuo che ne costituiscono, momento per momento, le competenze

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Concetto di hardinessimpegno

committment

alienazionealienation

controllocontrol

impotenzapowerlessness

sfidachallenge

minacciathreath

Strategie di coping

capacità diesercitareun controllo

stresshardiness

Decision making

PrevisioneFunzionalitàIndipendenza

comfort

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Strategie di coping disfunzionale

incapacità diesercitareun controllo

stress ridottahardiness

distress

ImprevedibilitàDisfunzionalitàPassività

AnsiaFrustrazioneInadeguatezza

LL’’ESPERIENZA TRAUMATICAESPERIENZA TRAUMATICA

►Un evento è traumatico “… quando minaccia la salute e il benessere di un individuo, quando lo rende impotente di fronte ad un pericolo, quando viola gli assunti di base della sopravvivenza ed evidenzia l’impossibilità di controllare e prevedere gli eventi” (Eisen e Goodman 1998)

►Un numero di bambini compreso tra il 14 e il 43% ha vissuto almeno un evento traumatico nella propria vita(ISTSS 2000)

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I FATTORI DI RISCHIO

► I fattori di rischio riguardano tutte le condizioni esistenziali del bambino e del suo ambiente che implicano un rischio di psicopatologia superiore a quello che si osserva nella popolazione generale(Marcelli 1999)

► Insieme di variabili, tra loro interagenti, di tipo biologico, temperamentale, familiare e sociale, che possono rinforzarsi con effetti cumulativi

►Condizioni di rischio derivanti da ambiti diversi possono verificarsi contemporaneamente ed essere esacerbate o mitigate dal sistema familiare (Rutter 1987)

FATTORI DI RISCHIO CONNESSI ALLA GENITORIALITA’

► “Tutte quelle condizioni in cui la funzione genitoriale, nelle sue componenti fondamentali di cura e protezione dei figli, è fortemente disturbata e influisce profondamente sulla qualità della relazione genitori-bambino” (Ammaniti 2001)

Classificazione Diagnostica 0-3:- Ipercoinvolgimento

- Ipocoinvolgimento

- Relazione ansiosa/tesa

- Relazione arrabbiata/ostile

- Disturbo relazionale misto

- Maltrattamento (verbale, fisico, abuso sessuale)

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ICD 10, Asse V (situazioni psicosociali anomale associate):

0. Nessuna alterazione o inadeguatezza significativa dell’ambiente psicosociale

1. Relazioni intrafamiliari anomale2. Disturbo psichico, devianza o handicap nel gruppo di

sostegno primario3. Comunicazione intrafamiliare inadeguata o distorta4. Qualità anomale dell’allevamento5. Ambiente circostante anomalo6. Life events acuti7. Fattori sociali stressanti8. Stress interpersonale cronico associato alla scuola o al

lavoro9. Eventi-situazioni stressanti derivanti da disturbo/disabilità

propri del bambino

Trauma psichico

• Qualità• Naturalistico (terremoti, alluvioni, etc.

• Naturale (lutti, patologie, etc.)

• “dell’uomo sull’uomo” (terrorismo, lager, tortura, abusi sessuali, etc.)

• Secondario (vigili del fuoco, soldati, volontari, etc.)

• Sociale (rifugiati politici, prigione, etc.)

• Intensità? Lieve

? Moderata

? Grave

• Ripetitività? Unico o circoscritto? Multiplo o cumulativo

• Durata

• Prevedibilità

Trauma psichico

• Qualità• Naturalistico (terremoti, alluvioni, etc.

• Naturale (lutti, patologie, etc.)

• “dell’uomo sull’uomo” (terrorismo, lager, tortura, abusi sessuali, etc.)

• Secondario (vigili del fuoco, soldati, volontari, etc.)

• Sociale (rifugiati politici, prigione, etc.)

• Intensità? Lieve

? Moderata

? Grave

• Ripetitività? Unico o circoscritto? Multiplo o cumulativo

• Durata

• Prevedibilità

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GRAVIDANZA E MATERNITA’IN ETA’ ADOLESCENZIALE

► Età (età più giovane = minore competenza): dati non omogenei (negli Stati Uniti, ogni anno, 500.000 bambini da madri sotto i 20 anni; McElroy e Moore 1997)

► Povertà: vita in aree ad alto tasso di criminalità e violenza (Brooks-Gunn 1986, Bronferbrenner 1986)

► Caratteristiche famiglia di origine: mancanza di sostegno sia pratico che affettivo (il sostegno della propria madre funziona solo se si vive in contesti abitativi diversi; East e Felice 1996)

► Risorse personali: deficit di self individuation (Wakshlag et al.

1996); ritardo mentale; basso livello di autostima (Koniac-Giffin1989)

► Problemi legati alla salute mentale: depressione (Osofsky et al. 1993)

CONFLITTUALITA’ GENITORIALE

►Conflitto aperto: particolarmente distruttivo per la qualità dell’adattamento infantile

► Esposizione al conflitto fisico: grave minaccia al benessere emotivo e disadattamento (Carroll 1994)

►Disaccordi riguardanti l’accudimento: maggiore correlazione con presenza problemi di comportamento nei bambini di 3 anni (Jouriles 1991)

► Padri insoddisfatti: modello di distanziamento e di ritiro con il bambino;

madri insoddisfatte: tendenza all’ipercoinvolgimento (Cowan e Cowan 1992)

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SEPARAZIONE, DIVORZIO

►Fattori di rischio e vulnerabilità generali

►Variabilità clinica dei disturbi nei bambini in base all’età:

� particolare vulnerabilità sotto i 3 anni

� tra 2 e 3 anni, comportamenti di tipo regressivo con pianto, irritabilità e ritorno all’uso degli OT

� tra 3 e 4 anni, timore di perdere anche l’altro genitore, insicurezza, sensazione di atto ostile nei propri confronti, sensi di colpa (Wallerstein e Kelly 1980)

� in età successive, da lievi disturbi del comportamento ad accessi di angoscia, episodi anoressici o di insonnia, depressione, dist. della condotta (Horner et al. 2001)

TOSSICODIPENDENZA

►Assunzione di droga in corso di gravidanza: effetti diretti sullo sviluppo del feto (ma danno specifico su SNC non dimostrato)

►scarso accrescimento fetale, parto pretermine; dopo la nascita:

► disfunzioni neurocomportamentali (tremore e sobbalzi, diminuzione comp. interattivi, irritabilità, difficile consolabilità; Chasnoff et al. 1985, Ammaniti 2001)

► disfunzioni nell’area della regolazione (stati comp. piùdepressi, processi attentivi limitati e modelli anomali di comp. sociale e comunicativo; Beeghly e Tronick 1994)

►Abuso di alcol e di altre sostanze: accudimentodisfunzionale e maltrattamento (Bauman e Dougherty 1983, Belsky e Vondra 1898, Rutter 1989); rischio multiplo

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PSICOPATOLOGIA GENITORIALE (I)

►Disturbi affettivi marcati: disregolazioneemotiva, dist. somatici, difficoltà di apprendimento, sintomi depressivi (Beradslee et

al. 1983)

►Severità e cronicità: impatto maggiore della diagnosi specifica (Seifer e Dickstein 2000)

►Relazione con altri fattori di vulnerabilità(povertà, livelli di conflittualità familiare elevati)

PSICOPATOLOGIA GENITORIALE (II)

►Depressione: (Field 1992, Seifer e Dickstein 2000):

� disturbi della condotta

� attaccamenti insicuri

� disturbi depressivi

►Depressione cronica: esiti più sfavorevoli (Zeanah et al. 1997)

►Depressione post-partum: profonde ripercussioni sull’instaurarsi della relazione madre-bambino

►Psicosi

� primi 3 anni, patologia diagnosticata prima della gravidanza e con caratteristiche di cronicità

� rischio di morbidità = 10% con un genitore schizofrenico

30% se lo sono entrambi (Tienari 1985)

� relazioni fortemente perturbate nei più piccoli, deficit di attenzione, iperlabilità, ipersensibilità (Harvey et al. 1985)

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LA NASCITA PREMATURA

►I gravi prematuri presentano circa il doppio della psicopatologia della popolazione generale e percorsi di sviluppo profondamente anomali (Fava Vizziello 2003)

►“Il basso peso alla nascita è un provato fattore di rischio per deficit cognitivi e del comportamento, ritardo di crescita e difficoltà scolastiche e aumenta il rischio di disturbi del comportamento e psichiatrici” (WHO 2004).

MALTRATTAMENTO E ABUSO

►Il maltrattamento infantile si riferisce a“pratiche di accudimento aberrante dei bambini che risultano inaccettabili per la maggioranza della popolazione in una data cultura e in un particolare periodo storico” (Ammaniti 2001)

►“Non è dovuto ad una singola causa, ma è il risultato di un’interazione di fattori a cui partecipano: � 1) career predisposti, intrappolati in modelli

relazionali conflittuali

� 2) bambini vulnerabili

� 3) stressor esterni (Reder e Lucey 1997).

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CLASSIFICAZIONE DELLE FORME DI MALTRATTAMENTO

►Abuso fisico (22%)

►Trascuratezza� trascuratezza fisica (45%)

� trascuratezza educativa

� trascuratezza emozionale (22%)

►Abuso sessuale (18%)

►Abuso emozionale (18%)(Ammaniti 2001)

Spesso in forma mista (Mrazek 1993), spesso all’interno della famiglia

FATTORI FACILITANTI

► Genitori vittime di deprivazione/ maltrattamento nella propria infanzia

► Età precoce (nel 19% dei casi meno di 3 anni di età) (Mrazek 1993)

► Bambini nati prematuramente, disabili o malati, che non mangiano normalmente, che hanno subito separazioni precoci (Reder e Lucey 1997)

► Ambienti sociali svantaggiati, condizioni abitative inadeguate, numerosità della famiglia e scarso distanziamento delle nascite, atteggiamento negativo della madre nei confronti della gravidanza (Altemeier etal. 1982; predittivo di trascuratezza, Egeland e Brunnquell 1979)

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La genetica

► Esiste un “equivalente ambientale” del genoma umano: l’ambiente influenza l’espressione genetica, la programmazione dello sviluppo cerebrale, la struttura e il funzionamento del sistema neuroendocrino e quindi lo sviluppo cerebrale.

► Le esperienze possono influenzare i pattern dell’interazione interpersonale che diventano cosìinfluenti sulla manipolazione successiva dell’ambiente.

► Inoltre le esperienze influenzano il processamentoaffettivo e cognitivo sottostante e quindi il modo i cui gli individui influenzano la rappresentazione e i modelli di se stessi e del loro ambiente.

DISAGIO ADOLESCENZIALE AUTONOMIA e TRASGRESSIONE

Il disagio adolescenziale rappresenta ed interpreta un passaggio di transizione esistenziale verso un processo di autonomia ed un percorso di progressiva emancipazione dalle figure cardine della prima infanzia, non privo di arresti, di stasi, di drammatici regressi e rifiuti di crescita tramite trasgressioni, sconfessioni di norme e criteri precostituiti e confutazioni di punti di vista più o meno imposti ed impositivi.

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10 15 20 25 30 35

ETA DELL’INDIVIDUO

Il “passaggio adolescenziale”

CONDIZIONE

INFANTILE

CONDIZIONE

ADULTA

società

primitive

società

evolute

a

bc

a:

percorso

riuscito

b:

percorso

ritardato

c:

percorso

fallito

PUBESCENZA

CONDIZIONE

ADOLESCENZIALE

Mente e cervello in crescita

►Taciturni ed abulici un minuto, frenetici e logorroici quello dopo. La colpa sarebbe tutta del cervello che "cresce". Gli sbalzi di umore dei teenagers, capaci di passare in pochi secondi dalla gioia più sfrenata alla piu’ nera angoscia rappresentano la norma fisiologica piu’che un’eccezione

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Crescita delle sinapsi

A partire dagli 11 anni il numero delle sinapsi comincia improvvisamente ad aumentare, in particolare nella parte frontale della corteccia cerebrale: un'area che gioca un ruolo importantissimo per le funzioni superiori, inclusa la capacità di gestire e comprendere i rapporti sociali e la propria posizione all'interno di essi.

Riorganizzazione cerebrale e “sapienza sociale”

Il cervello dei teenagers, insomma, sarebbe così impegnato ad arricchirsi e riorganizzarsi, da avere meno risorse disponibili per la"sapienza sociale", lasciando i ragazzi confusi e incapaci di comprendere cosa accade attorno a loro e come dovrebbero reagire, e provocando in loro la tipica sensazione adolescenziale che la vita (e gli adulti in primo luogo) siano ingiusti nei loro confronti.

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Crescita e morte neuronale

►Processo di “potatura” che avviene nei primi anni di vita che segue il principio “o si usa o si perde”, ossia se le connessioni neurali e le sinapsi sono utilizzate, si mantengono, quelle poco utilizzate invece si perdono.

►Tutto ciò avverrebbe grazie al processo di morte programmata (apoptosi) giàutilizzato dall’organismo per altri tipi di cellule

Processamento degli stimoli affettivi

►Quando devono processare stimoli emotivi, gli adulti utilizzano soprattutto i lobi frontali cosa che gli adolescenti invece non fanno.

►Gli adolescenti hanno un’intensa attivazione dell’amigdala, a differenza degli adulti. Questa preferenza di attivazione dell’amigdala a stimoli emotivi diminuisce nel corso degli anni fino ad arrivare ad un’attività normale dei lobi frontali.

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Lobi frontali e amigdala► I lobi frontali hanno un ruolo fondamentale nel

controllo delle emozioni e nell’inibizione degli impulsi quando tali risposte non risultano adatte al contesto sociale in cui l’individuo si trova. Inoltre questa regione è la sede in cui si valutano i comportamenti giusti e sbagliati come anche il rapporto di causa-effetto.

► L’amigdala, invece, è coinvolta nelle risposte istintive di evitamento o di aggressione dello stimolo.

► Una bassa attivazione della corteccia frontale, dàluogo a scarso controllo del comportamento e delle emozioni, mentre l’intensa attività dell’amigdala èresponsabile di decisioni essenzialmente istintive e di un’ elevata sensibilità alle emozioni e alle situazioni emotigene.

Situazioni emotigene

Gli adulti sono in grado di utilizzare dei processi razionali per far fronte a situazioni emotigene, gli adolescenti semplicemente non sono ancora dotati delle strutture cerebrali che favoriscono questo comportamento

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Plasticità neuronale in adolescenza

► Cambiamento della densità della materia grigia nel periodo tra l’infanzia e l’adolescenza, con un sostanziale incremento in età prepuberale seguito da un netto decremento durante l’adolescenza.

► L’esatto processo che determina la perdita di materia grigia è sconosciuto. Si ipotizza l’apoptosi di reti neurali e sinapsi che non sono più utilizzate e contemporaneamente un aumento della materia bianca, ossia la mielinizzazione, come risultato del consolidamento di reti neurali forti e continuamente utilizzate.

Updating cerebrale

►La necessità del cervello di eliminare alcune reti e consolidarne altre anche nuove sta nella necessità di “aggiornare” il cervello delle nuove esperienze e delle nuove capacità acquisite nella crescita che, in alcuni casi, non possono instaurarsi sulle vecchie reti che sottostavano ai pensieri e le competenze dell’infanzia. I tempi di maturazione delle varie aree del cervello sono diversi e ben scanditi

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► Nell’adolecente ci sarebbe un rallentamento dell’identificazione delle emozioni legato ad una temporanea riduzione dell'efficienza dei circuiti cerebrali della corteccia prefontale causata dall'eccesso di crescita delle connessioni sinaptiche

► Tra gli 11 anni e i 12 anni, quindi alle soglie della pubertà, la capacità di identificare velocemente l'emozione risulta notevolmente rallentata, crollando quasi del 20 %.

► Tra 12 e 14 anni il calo prosegue, ma a un ritmo meno veloce, e si stabilizza intorno ai 15 anni.

► Tra i 15 e i 17 anni, tra l'altro, le ragazze mostrano un tempo di reazione ancora più lungo dei loro coetanei, ma la differenza tra i sessi sparisce quando la velocità di riconoscere le emozioni rientra nella norma, cosa che accade intorno ai 18 anni.

Social Social informationinformation processing networkprocessing network

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Cervello, alcol e droghe

► L’azione dannosa di droghe e alcool sul cervello è

� più grave negli adolescenti perché le loro strutture cerebrali attraversano una fase di profonda riorganizzazione

Cannabinoidi e adolescenti

► Il consumo dei cannabinoidi nella popolazione generale degli adolescenti tra 13 e 20 anni è estremamente variabile in relazione alle differenti metodiche di indagine

� Tra il 50% ed il 70% hanno sperimentato la sostanza almeno una volta

� Tra il 20% ed il 40% fa uso abituale della sostanza

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Atti del Convegno “Vulnerabilità vs resilienza” Roma, 08 Aprile 2010

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Sostanze e plasticità sinaptica

► Il periodo periadolescenzialerappresenta una finestra temporale di elevata vulnerabilità alle sostanze d'abuso perché queste sostanze

� sono in grado di modificare circuiti neuronali coinvolti in fenomeni di plasticitàsinaptica e in processi cognitivi

Vulnerabilità biologica e sostanze

► Le basi neurobiologiche della preferenza per l'etanolo e per i cannabinoidi consistono in

� una particolare vulnerabilità del sistema cerebrale che media la gratificazione (via dopaminergica mesencefalica e sulla sua area di proiezione, il nucleus accumbens NAc)

� un coinvolgimento del sistema cannabinoide nelle azioni neurofarmacologiche dell'alcol e nel comportamento consumatorio

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Sostanze e sviluppo psico-sociale

► L’utilizzo di sostanze psicotrope si pone in relazione ai compiti di sviluppo che si associano ai cambiamenti che il soggetto deve affrontare nella sua esperienza di vita, in particolare:

� quelli della pubertà sul versante biologico

� l’acquisizione di modalità di pensiero più astratte e complesse su quello cognitivo, l’impegno verso l’autonomia

� l’evoluzione del sé e il modificarsi delle attese e dei

ruoli sociali.

Invulnerabilità

► Negli adolescenti che precocemente si avvicinano alle sostanze si verifica:

� una sorta di “illusione di invulnerabilità”, psicologicamente determinata

� una bassa percezione del rischio attribuita a comportamenti di rischio biologicamente e psicologicamente determinate► l’assunzione di droghe, i rapporti sessuali precoci o

non protetti, etc.

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Uso adolescenziale e tossicodipendenza

►Nel periodo adolescenziale è assai più diffuso l’uso e abuso di droga che non la tossicodipendenza vera e propria. E’ opinione condivisa che la sperimentazione occasionale di sostanze psicoattive, lecite o illecite, costituisca un comportamento “normale” fra i giovani che hanno meno di vent’anni e che, a differenza dell’uso regolare, essa non implichi rischi elevati: farebbe invece parte di quelle attività e di quei comportamenti di sperimentazione che l’adolescente intraprende per ricercare la propria autonomia e la propria specificità, in rapporto ai genitori ma anche ai coetanei

Cultura dello sballo

► l’utilizzo dei vari tipi di alcolici appare legato a quello delle sostanze illegali, ma la correlazione più forte si è riscontrata nei confronti del numero di volte che i soggetti dichiarano di essersi ubriacati. Si può quindi dedurre come sia diffusa tra i giovani che utilizzano le varie sostanze una sorta di “cultura dello sballo”, ove cioè i ragazzi sono spinti alla ricerca dello stordimento con tutti i “mezzi” a loro disposizione.

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Comportamenti e disagio psichico

►Molte patologie psichiatriche della minore età e di quella di confine sono caratterizzate, da un punto di vista clinico, dalla manifestazione di un disagio “agito”attraverso canali comportamentali.

►La mentalizzazione degli stati d’animo e la consapevolezza del mondo emotivo compaiono successivamente

Fisiopatologia del comportamento nell’età evolutiva

►La concomitanza di manifestazioni comportamentali estremamente complesse in minori e/o adolescenti normali che rappresentano tappe di processi evolutivi psicologici, sociali e neurobiologici, spesso favorisce la mancanza di un chiaro approccio clinico-diagnostico.

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Comportamenti disturbati e comportamenti disturbanti

Infanzia ed adolescenza si caratterizzano per la presenza di comportamenti disturbanti (non adesione alle regole e comportamenti di rischio) che possono essere un segno di disagio personale significativo o rappresentare semplicemente un passaggio obbligato verso l’acquisizione della maturità

Disturbi di solito diagnosticati nell'infanzia, nella fanciullezza o nell'adolescenza

► La sezione DSMIV dedicata è stata costituita solo per comodità, e non è intesa a suggerire l'esistenza di alcuna chiara distinzione tra i disturbi "della fanciullezza" e "dell'età adulta".

► Sebbene la maggior parte dei soggetti con questi disturbi giunga all'osservazione clinica durante la fanciullezza o l'adolescenza, talvolta i disturbi

non vengono diagnosticati fino all'età adulta.

► Inoltre, molti disturbi inclusi in altre sezioni del DSMIV esordiscono spesso durante la fanciullezza o l'adolescenza.

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Atti del Convegno “Vulnerabilità vs resilienza” Roma, 08 Aprile 2010

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Disturbi di solito diagnosticati nell'infanzia, nella fanciullezza o nell'adolescenza

► Ritardo Mentale► Disturbi dell'Apprendimento (ex Disturbi Capacità

Scolastiche)► Disturbo delle Capacità Motorie► Disturbi della Comunicazione► Disturbi Generalizzati dello Sviluppo► Disturbi da Deficit di Attenzione e da Comportamento

Dirompente► Disturbi della Nutrizione e dell'Alimentazione dell'Infanzia

o della Prima Fanciullezza► Disturbi da Tic► Disturbi della Evacuazione► Altri Disturbi dell'Infanzia, della Fanciullezza o

dell'Adolescenza

Disturbi di asse I in età evolutiva

► Per la maggior parte (ma non per tutti) dei disturbi del DSM-IV, viene fornito un unico gruppo di criteri che si applica ai bambini, agli adolescenti, e agli adulti (per es., se un bambino o un adolescente presenta sintomi che soddisfano i criteri per il Disturbo Depressivo Maggiore, si dovrebbe fare questa diagnosi, a prescindere dall'età del soggetto).

► Le variazioni del quadro di un disturbo che sono attribuibili allo stadio di sviluppo del soggetto sono descritte nel paragrafo "Caratteristiche collegate a cultura, età e genere".

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► Disturbi Mentali Dovuti a una Condizione Medica Generale► Disturbi Correlati a Sostanze► Schizofrenia e altri Disturbi Psicotici► Disturbi dell'Umore► Disturbi d'Ansia► Disturbi Somatoformi► Disturbi Fittizi (es. sd. Munchousen by proxy)► Disturbi Dissociativi► Disturbi Sessuali e della Identità di Genere► Disturbi dell'Alimentazione► Disturbi del Sonno► Disturbi del Controllo degli Impulsi Non Classificati Altrove► Disturbi dell'Adattamento► Disturbi di Personalità

Disturbi di asse I in età evolutiva

“Shopping” for pathology

►► Esiste una serie di situazioni caratterizzate da Esiste una serie di situazioni caratterizzate da una una comorbiditcomorbiditàà psichiatrica funzionale nella psichiatrica funzionale nella quale il ragazzo/a cerca strategie quale il ragazzo/a cerca strategie disfunzionalidisfunzionalidiverse che lo porta a manifestare quadri diverse che lo porta a manifestare quadri sindromicisindromici diversi e spesso sovrapposti (es. diversi e spesso sovrapposti (es. DOC, DOC, distdist. . schizofreniformeschizofreniforme, , distdist. del . del conportamentoconportamento alimentare, alimentare, distdist. di personalit. di personalitàà, , etcetc……) )

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Più di 72.000 giovani in Gran Bretagna hanno "seri problemi legati alla droga, assumono regolarmente crack, cocaina, eroina e 1 su 10 (10% dei giovani) è vulnerabile alla dipendenza“(M.Kelly, direttore del NationalInsitute for Health and ClinicalExcellence - NICE). I giovani piùvulnerabili sarebbero principalmente quelli che vivono in famiglie con problemi di droga, gli adolescenti con pregressi problemi comportamentali e di salute mentale, i bambini esclusi dal sistema scolastico.

Adolescenti e droga

Adolescenti e droga:fattori di rischio

► madre che fuma o assume sostanze, fratelli che assumono sostanze

► traumi infantili

► problemi scolastici

► uso di sostanze da parte di amici

► tendenze antisociali nel gruppo di riferimento

► bassa autostima

► tendenza all’edonismo eccessivo

► deficit di attenzione con disturbo di iperattività (ADHD)

► fobie, depressione, ansia

► comportamento aggressivo

► basso reddito familiare

► inizio precoce assunzione fumo e alcolici Home Office Development and Practice Report 2007

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Schizofrenia infantile

►Stati psicotici generalmente a esordio dopo i 7 anni e con analogie comportamentali con la schizofrenia nell'adulto

►Costituisce un continuum con la schizofrenia dell'adolescente e dell'adulto

Schizofrenia: decorso precoce

► Sempre più frequentemente i sintomi prodromici o d’esordio precoce della schizofrenia vengono “auto-trattati” con uso di sostanze di abuso

► L’evoluzione della malattia nei bambini con disturbo schizofrenico varia enormemente. L’esordio precoce èspesso associato ad una prognosi peggiore poichéinterferisce con la frequenza scolastica e il completamento dell’educazione.

► Recenti studi hanno suggerito che trattamenti piùprecoci possono ridurre il declino del funzionamento e il deterioramento a lungo termine che comunemente sono associati con la schizofrenia.

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Schizofrenia: esordio

► L’intervallo di tempo compreso tra il primo episodio psicotico e il primo intervento psichiatrico, definito “Durata della psicosi non trattata” (Duration of Untreated Psychosis, DUP) èconsiderato un fattore predittivo e molti studi di follow-up dimostrano quanto un suo prolungamento incida negativamente sulla prognosi a lungo termine, sulla compliance al trattamento farmacologico e psicosociale, sui tempi di remissione con aumento delle ricadute

► Una DUP protratta sembra essere associata a quadri psicopatologici severi con fasi acute piùdurature ad un anno dall’esordio dell’episodio

Suicidio negli adolescenti

► Ogni anno negli Stati Uniti circa 2 milioni di adolescenti tentano il suicidio e circa 700.000 ricorrono alle cure a seguito del loro gesto. Secondo il Centro di Osservazione del Comportamento dei Giovani, nel 2001 risulta che il 2,6 % degli studenti ha tentato il suicidio ed èdovuto ricorrere alle cure.

► Si stima che ogni anno negli Stati Uniti circa 2.000 giovani di età compresa tra i 10 e i 19 anni si tolgano la vita.

► Nel 2000 il suicidio è stata la 3° fra le maggiori cause di decesso fra i giovani di età fra i 15 e 24 anni preceduta da traumi non intenzionali e omicidi.

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Suicidio: fattori di rischio► Più del 90 % dei giovani suicidi soffrono di almeno un grave

disturbo psichiatrico► Precedenti tentativi di suicidio► Concomitanza con l’alcolismo e l’uso di stupefacenti► Casi di precedenti suicidi in famiglia► Presenza di psicopatologie nei genitori► Stato di disperazione► Tendenza all’impulsività o all’aggressione► Facilità di accesso a strumenti letali come le armi► Tendenza al suicidio di membri della famiglia, amici o persone care► Precedenti di abuso sessuale o psichico► Tendenze omosessuali o lesbicismo (tendenza al suicidio ma non a

portarlo a termine)► Relazioni difficili fra genitori e figli► Stress della vita, in particolare improvvise perdite di relazioni

interpersonali, problemi legali o disciplinari► Mancanza di coinvolgimento nella vita scolastica o sul lavoro

Interventi clinici in età evolutiva

►La tendenza degli specialisti per le “patologie funzionali” è quella di attendere la “vis sanatrix naturae” anche, e soprattutto, per l’assenza di contesti clinici idonei a formulare diagnosi che leghino il disagio comportamentale a quello della sfera emotivo-relazionale.

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Funzione prefrontale e disturbi mentali - 1

► Importanza dei sistemi inibitori GABA-ergici della neocorteccia nella patogenesi della schizofrenia.

► Un meccanismo epigenetico controlla l’espressione dei geni implicati nella neurotrasmissione GABA-ergica durante lo sviluppo normale della corteccia prefrontale e nelle psicosi schizofreniche (Huang H.-S., et al. Prefrontal dysfunction in schizophrenia involves mixed-lineage leucemia 1-regulated histone methylation at GABAergic gene promoters. J. Neurosci. 27, 11254-11262, 2007).

��Le alterazioni dellLe alterazioni dell’’espressione degli espressione degli mRNAmRNA tipici dei tipici dei sistemi sistemi GABAergiciGABAergici hanno un ruolo rilevante nella hanno un ruolo rilevante nella disfunzione prefrontale della schizofrenia e di varie forme di disfunzione prefrontale della schizofrenia e di varie forme di patologia patologia neuroevolutivaneuroevolutiva (disturbi di personalit(disturbi di personalitàà?).?).

Funzione prefrontale e disturbi mentali - 2

► La corteccia prefrontale (PFC) esercita un controllo cognitivo sulle memorie processate dall’ippocampo, inclusi gli eventi traumatici, attraverso un meccanismo noto come soppressione della memoria. Si ipotizza una disfunzione del meccanismo di soppressione della memoria in soggetti con patologie psichiatriche quali depressione maggiore e disturbo borderline di personalitào in persone che hanno subito violenza sessuale o che presentano difficoltà relazionali (Nivedita Agarwal,

Harvard Medical School di Boston).

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Corteccia prefrontale e sintomi psichiatrici

► La funzione basilare della corteccia prefrontale è quella di prevedere, pianificare, valutare ed inibire azioni, comportamenti e piani inadeguati.

► Quest'incapacità di scelta fra ciò che è plausibile, funzionale ed accettabile e ciò che non lo è costituisce il denominatore comune di molti sintomi:� la disinibizione verbale, comportamentale e sessuale;� la confabulazione, intesa come disinibizione a verbalizzare il proprio

flusso di pensieri, anche quando questi sono irreali, falsi o inappropriati;

� incapacità a elaborare dei piani, ad adottare delle strategie;� sindrome d'uso (nota anche come sindrome da dipendenza

ambientale): pulsione ad usare gli oggetti che gli si presentano o imitazione compulsiva delle azioni dell'interlocutore;

� difficoltà a tenere in considerazione i feedback dell'ambiente, e particolarmente gli indizi a disconferma delle proprie ipotesi (perseverazione nell'errore).

Funzioni cognitive, comportamenti e disagio psichico in età evolutiva

► L’età evolutiva è caratterizzata da un’acquisizione disomogenea delle funzioni cognitive

►Molte patologie psichiatriche dell’età evolutiva sono caratterizzate, da un punto di vista clinico, dalla manifestazione di un disagio “agito”attraverso canali comportamentali.

► La mentalizzazione degli stati d’animo e la consapevolezza del mondo emotivo compaiono successivamente

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Disturbo della condotta, uso di sostanze e disturbi mentali

►Quando le manifestazioni disturbate della condotta portano al contatto con le sostanze o viceversa l’uso di sostanze conduce a problematiche comportamentali si verifica una impropria categorizzazione di disturbo di personalità

►L’uso di sostanze in età evolutiva determina un impatto notevole sulla vulnerabilitàindividuale alle psicosi ed ai disturbi dell’umore

Prodromi ed esordi della Prodromi ed esordi della schizofreniaschizofrenia

► I disturbi psicotici colpiscono prevalentemente nel periodo intercorrente fra la tarda adolescenza e la prima età adulta (fra i 16 ed i 34 anni), periodo cruciale ai fini della costituzione della propria identità e del proprio ruolo sociale.

► Inoltre è riportato che nel 73% dei casi il primo episodio psicotico è preceduto da un periodo –mediamente da 2 a 4 anni- in cui è possibile scorgere alcuni segnali di disagio e di difficoltà prima che si evidenzino in modo clamoroso i sintomi psicotici (Häfner et al.,1995; Häfner et al.,1999).

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Segni precoci

► in mancanza di un’individuazione tempestiva e di un intervento multidimensionale specifico e mirato i pazienti schizofrenici possono scivolare verso un aggravamento della patologia e della conseguente disabilità e verso una irreversibile compromissione della possibilità di realizzare un soddisfacente progetto esistenziale (scuola, lavoro, tempo libero, relazioni amicali ed affettive).

Schizofrenia: esordio

► L’intervallo di tempo compreso tra il primo episodio psicotico e il primo intervento psichiatrico, definito “Durata della psicosi non trattata” (Duration of Untreated Psychosis, DUP) èconsiderato un fattore predittivo e molti studi di follow-up dimostrano quanto un suo prolungamento incida negativamente sulla prognosi a lungo termine, sulla compliance al trattamento farmacologico e psicosociale, sui tempi di remissione con aumento delle ricadute

►Una DUP protratta sembra essere associata a quadri psicopatologici severi con fasi acute piùdurature ad un anno dall’esordio dell’episodio

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Prodromi ed esordi della schizofrenia

► Le manifestazioni prodromiche e l’esordio psicotico si collocano quindi in un’area di confine tra processi maturazionali normali e patologia, tra rischi e sintomi, tra le prime ambigue manifestazioni e difficoltà e un deterioramento stabilizzato.

► Si tratta anche di un’area condizionata da radicati e diffusi pregiudizi e da vincoli legati allo stigma che accompagna la malattia psicotica, dagli scarsi collegamenti organici tra i diversi ambiti della Sanità pubblica (medicina generale, neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, sportelli ed Agenzie rivolte ai giovani, ecc.).

FATTORI PROTETTIVI IN SITUAZIONI AVVERSE

► Temperamento, coesione e supporto familiare (Weist et al. 1998)

► Supporto sociale (Garmezy 1993)

► Elevato QI (Garmezy, Masten e Tellegen 1984; Tiet et al. 1998)

► Capacità di problem solving (Rutter 1987, Masten e Reed 2002)

► Buone capacità genitoriali a livello affettivo ed educativo (Masten et al. 1988)

► Presenza di relazioni profonde con le figure di riferimento, stabilità della famiglia (Garmezy, Masten e Telegen 1984, Masten etal. 1998)

► “Locus of control” interno, abilità sociali (Luthar 1991)

► Positiva percezione di sé (Masten e Reed 2002)

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UN’ ALTRA LISTA DI FATTORI PROTETTIVI (MASTEN 2001)

► Presenza di genitori competenti e protettivi► Buone abilità cognitive► Senso di autoefficacia ed elevata autostima► Positiva visione del mondo► Presenza di abilità riconosciute a livello sociale► Adattabilità e personalità pro-sociale► Presenza di relazioni profonde con coetanei pro-sociali e rispettosi delle regole

► Buone condizioni socio-economiche► Presenza di un buon ambiente scolastico► Legame con organizzazioni pro-sociali► Buone relazioni di vicinato e presenza di risorse nella comunità

LA PROMOZIONE DELLA RESILIENZA (I)

► Tutte quelle condizioni sfavorevoli al bambino che minano le basi del suo sistema immunitario e difensivo costituiscono le principali minacce per uno sviluppo adeguato.

►Nei bambini a rischio, di conseguenza, è necessario promuovere una serie di competenze e abilitàattraverso specifiche strategie di intervento, per la prevenzione, la riparazione o la compensazione dei danni arrecati a questi sistemi difensivi.

► “La promozione della salute e di competenze specifiche si pone gli stessi obiettivi ed è tanto importante quanto la prevenzione del disagio” (Masten e Reed 2002)

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STRATEGIE DI INTERVENTO (I)(Masten e Reed 2002)

►Strategie centrate sul benessere:

� ristrutturazione cognitiva secondo le dimensioni di benessere del modello Ryff (1989),

� focalizzazione sulle aree meno sviluppate (Well-

Being-Therapy), sulla qualità della vita, sulle strategie di coping, sul supporto sociale

►Strategie centrate sul rischio:

� rimuovere o ridurre l’esposizione del bambino a traumi di vario tipo

STRATEGIE DI INTERVENTO (II)

► Strategie centrate sull’assetto: incrementare o stimolare le risorse del bambino per lo sviluppo delle sue competenze

► Strategie centrate sul processo: influenzare i processi che cambieranno la vita del bambino� Aumentare la disponibilità di risorse per bambini a

rischio (ad esempio, mettendo al corrente gli insegnanti delle necessità dei bambini vulnerabili);

� Mobilitare processi protettivi (ad esempio, utilizzando servizi psicosociali di aiuto alla genitorialità).

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FATTORI DI RESILIENZA (I)

►L’incontro e la parola sono fattori importanti di resilienza;

“il bambino organizza in più leggere rappresentazioni verbali la percezione concreta” (Fava Vizziello 2003)

►Fattori di resilienza propri del bambino o attivabili tramite l’aiuto dell’adulto:

� la messa in scena dell’avvenimento traumatico (gioco, sogno)

� lo sviluppo del senso di colpa e di attività riparative

� le modalità con cui gli altri accolgono l’evento

� la capacità di farsi un’idea dell’agente del trauma e costruzione di una spiegazione

FATTORI DI RESILIENZA (II)

� particolari stili di attaccamento …

� il senso di reintegrazione sociale

� tutte le variabili legate all’ambiente, al tipo di trauma, alle teorie del mondo presenti nel bambino e in famiglia

� condivisione con altri se il trauma è collettivo

� se il trauma è inferto da cause naturali anziché umane

� se la figura di attaccamento è protettiva e non essa stessa colpevole o vittima

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Atti del Convegno “Vulnerabilità vs resilienza” Roma, 08 Aprile 2010

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La Scuola di Psicoterapia Integrata e Musicoterapia è lieta di ringraziare tutti i Relatori che hanno partecipato al convegno e che hanno reso questa giornata così ricca ed originale.

Vorremmo inoltre ringraziare il pubblico che ha partecipato con entusiasmo condividendo con noi questa interessante giornata e che pazientemente ha accettato anche i piccoli inconvenienti che sono occorsi.

Un ringraziamento anche all’Università Pontificia Salesiana di Roma e al suo Magnifico Rettore che ci hanno fornito l’opportuna logistica affinché il convegno potesse aver luogo.

Cap. 4 Cap. 4 Cap. 4 Cap. 4 –––– RINGRAZIAMENTI RINGRAZIAMENTI RINGRAZIAMENTI RINGRAZIAMENTI

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Atti del Convegno “Vulnerabilità vs resilienza” Roma, 08 Aprile 2010

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