vivere bene e morire bene

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Il testo che andrete a leggere in questo opuscolo informativo e formativo è la trascrizione integrale dell’intervento Vivere bene e morire bene realizzato dal Prof. Umberto Curi in occasione della Giornata Mondiale Hospice e Cure Palliative 2011, all’interno di una tavola rotonda coordinata a Loreto dal Dottor Massimo Mari con la presenza di medici e operatori dell’Hospice di Loreto, medici e psicologi provenienti dalla Toscana e numerosi cittadini che hanno partecipato attivamente con domande e testimonianze.Nel suo discorso il Professor Umberto Curi pone l'interrogativo su come come affrontare la morte, analizzando la Lettera di Epicuro a Meneceo, la Lettera di Seneca a Lucilio e la tragedia di Eschilo Prometeo incatenato.

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UMBERTO CURI

Vivere bene

e morire bene

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Collana BibliHospiceVivere bene e morire bene

Autore: Umberto Curi

© Ponte Blu Edizioni – 2012

Consiglio editoriale: Ayres Marques, Alessandro Finucci, Marina Baldoni

Consulenza: Gigliola Capodaglio

Fotografie: Marina Marques (copertina), Ayres Marques (ritratto dell’autore)

Stampa • Recanati • 09/2012

ISBN 978-88-98132-01-0

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Prefazione

Il testo che andrete a leggere in questo opuscolo informativo e formativo è la trascrizione integrale dell’intervento Vivere bene e morire bene realizzato dal Prof. Umberto Curi in occasione della Giornata Mondiale Hospice e Cure Palliative 2011, all’interno di una tavola rotonda coordinata a Loreto dal Dottor Massimo Mari con la presenza di medici e operatori dell’Hospice di Loreto, medici e psicologi provenienti dalla Toscana e numerosi cittadini che hanno partecipato attivamente con domande e testimonianze.Ci scusiamo fin d’ora per eventuali imprecisioni, ripetizioni ed incongruenze che possono apparire ad una attenta lettura del testo trascritto. Abbiamo comunque la certezza di compensare le piccole imperfezioni del discorso orale con l’estrema chiarezza di pensiero e la grande capacità comunicativa del Prof. Curi, al quale va tutta la nostra stima e gratitudine.

Ayres, Alessandro e MarinaCuratori della Collana BibliHospice

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Vivere bene e morire beneIntervento del Prof. Umberto Curi alla Giornata Mondiale Hospice 2011

Buongiorno e ben trovati a tutti. Ringrazio particolarmente Ayres per avermi invitato a questo importante appuntamento. Ayres sa che sono stato molto riluttante ad accettare l’invito, non perché volessi rendermi prezioso, ma perché, esattamente poi come è accaduto, temevo che le mie limitate competenze, riversate in un’occasione come quella di oggi, e soprattutto alla presenza di operatori come quelli che sono qui presenti, risultassero sostanzialmente inutili, perché se concepiamo, come molto spesso accade, la filosofia semplicemente come una riflessione che è incapace di cogliere le questioni profonde che riguardano la vita e la morte delle persone, allora imporre una analisi di carattere filosofico in un contesto in cui invece il tema della morte non è semplicemente una questione astratta, ma è un’esperienza pressoché quotidiana di vita, insomma mi sembrava essere poco opportuno e mi sembrava soprattutto di conferire un significato alla mia presenza qui tutt’altro che positivo. Poi, voi conoscete Ayres meglio di me e sapete che la sua tenacia è pari alla sua creatività, per cui alla fine ho ceduto, anche se devo dire che proprio dalla prima parte di questa

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iniziativa, mi sono confermato nell’idea che avevo molte più cose da imparare di quelle non dico da insegnare, ma da proporvi come temi di riflessione. E se non fosse che ho diligentemente predisposto un breve percorso di riflessione che vorrei svolgere con voi, sarei molto tentato di limitarmi a riprendere e commentare alcune delle molte cose importanti che sono state dette. Anzi devo dirvi che sarei talmente convinto di questa strada da poter concludere che non avete bisogno proprio di nulla, perché ormai quelli che sono i termini di fondo della questione, anche dal punto di vista filosofico, sono veramente padroneggiati con grande acutezza e soprattutto con grande partecipazione umana ed esistenziale da chi su questi temi lavora abitualmente. E allora siccome, come ci ricordava Massimo Mari, disponiamo di pochissimo tempo, se mi lasciate dieci minuti io vorrei semplicemente aggiungere qualche postilla, qualche ulteriore considerazione a quelle che avete già proposto riflettendo sulla vostra esperienza. Partirei da un paio di sottolineature che riguardano il testo che ci è stato letto.

Lettera di Epicuro a Meneceo

Come sapete, il testo che vi è stato ricordato è di un grande filosofo dell’antichità, Epicuro, e appartiene (insisto su questo perché vedrete che ha delle conseguenze non trascurabili) a un genere letterario molto diffuso in tutto il

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mondo antico greco-latino, cioè quel genere letterario che potremmo chiamare la letteratura consolatoria, nel senso che molto spesso ritroviamo autori, non necessariamente filosofi, i quali redigono dei testi o mandano delle lettere con lo scopo di consolare i loro interlocutori dalla condizione di angoscia, di solitudine, talora di disperazione nella quale essi si trovano. Non possiamo soffermarci su questo aspetto, ma se soprattutto i colleghi psicologi e psichiatri andassero a rileggersi questi testi troverebbero una specie di anticipazione di quegli strumenti psicoterapeutici che vengono abitualmente usati nel confronto con coloro che denunciano condizioni di sofferenza psichica. E questa lettera che viene inviata a Meneceo appartiene al genere consolatorio. L’interlocutore di Epicuro è appunto un personaggio che, per intenderci, si lamenta delle molte disgrazie che lo hanno colpito ed Epicuro vuole richiamarlo invece ad una pratica di vita che gli consenta, il termine greco è euthen, di vivere bene per poter euthanatein, poter morire bene. Per cui gli obiettivi che vengono perseguiti con la lettera che abbiamo ascoltato, la cui lettura abbiamo ascoltato, sono vivere bene per poter morire bene. E che cosa dice Epicuro, che cosa, secondo Epicuro, è indispensabile per vivere bene e morire bene? Dei molti argomenti che vengono addotti ve ne sono due che sono per noi particolarmente significativi. Il primo è che per vivere bene e morire bene non dobbiamo avere timore, degli dei e cioè dobbiamo scacciare quel timore che

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invece molto spesso pervade gli uomini, di essere soggetti all’imperscrutabile volontà degli dei che possono, di volta in volta, incidere sulla nostra vita positivamente o anche negativamente.Epicuro dice al suo interlocutore: questa concezione degli dei che si occupano delle vicende degli uomini è completamente sbagliata. Se noi, dice Epicuro, abbiamo una concezione giusta della divinità, se la divinità è appunto quell’essere superiore che vive come immortale e inviolabile, come possiamo pensare che si occupi delle nostre vicende? Quindi ogni timore degli dei è totalmente infondato: liberiamoci da questa preoccupazione. E poi c’è, per noi più importante, un secondo ammonimento, sempre finalizzato allo scopo di vivere bene per poter morire bene, e cioè non avere paura della morte. L’argomento che Epicuro adopera per scacciare questa paura è rimasto famoso, però io vorrei richiamare la vostra attenzione anche alla debolezza di questo argomento, perché Epicuro dice: non dobbiamo avere paura della morte, perché quando c’è la morte non ci siamo noi, e quando ci siamo noi non c’è la morte. Siccome non ci incontriamo mai, che senso ha avere timore di qualcosa in cui mai ci imbattiamo? Quindi fughiamo ogni preoccupazione completamente infondata. Se voi ci riflettete, al di là dell’intento consolatorio, questo modo di concepire la morte è un modo molto elusivo, perché in questo modo Epicuro non risponde alla domanda: ma la morte che cos’è? Perché, poiché essa c’è quando noi non ci siamo e viceversa, vuol dire che non è neppure un problema domandarsi che cosa essa sia.

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Lettera di Seneca a Lucilio

E c’è invece un altro testo, ma pensate che coincidenza significativa, il testo che volevo proporre io alla vostra attenzione, un’altra lettera, un’altra lettera che appartiene al genere consolatorio, alla letteratura consolatoria, che viene scritta non più da un autore greco, ma da un autore latino. L’autore è Seneca, e il destinatario di questa lettera è un giovane, si chiama Lucilio, ed è un giovane che si è rivolto a Seneca lamentandosi di tutte le disgrazie, i dolori, le sofferenze che doveva incontrare, sicché ancora una volta Seneca cerca di svolgere il suo compito, soprattutto rivolto ai giovani, li ammonisce di relativizzare anche la loro esperienza di dolore e di sofferenza. E c’è un testo piuttosto lungo, sul quale non ci soffermiamo, di questa che è la numero 65, se volete andarla a ritrovare, la lettera a Lucilio numero 65 di Seneca, nella quale, nelle ultimissime righe, quasi d’improvviso, Seneca formula un interrogativo. Se voi ci riflettete in qualche modo è un interrogativo che riprende ciò che invece Epicuro ha lasciato in ombra, perché Seneca dice - è una frase molto breve, la dico prima in latino perché è molto incisiva ma è anche trasparente il significato: “Mors, quid est?”, “Che cos’è la morte?” Qui ci sarebbe da osservare che proprio il termine adoperato da Seneca dice: la morte “quid” , cioè “che cosa” è la morte? E ci sarebbe da domandarsi se davvero possiamo considerare la morte un “quid”, cioè “una cosa”. O se essa

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non sia piuttosto un evento o magari un processo. E comunque la domanda di Seneca nella sua lapidarietà è molto incisiva: Che cos’è la morte? E poi subito la risposta, e la risposta viene formulata con una secca alternativa, come la diciamo anche noi nel nostro linguaggio quotidiano, con un aut aut, e la risposta è: “Aut finis, aut transitus”. Che cos’è la morte? O è la fine, la fine di tutto, la dissoluzione, l’annientamento, l’annichilimento, oppure è il passaggio, “transitus”. In altri testi troviamo anche un altro termine simile a “transitus”, che è “reditus”, che vuol dire ritorno, torniamo là donde siamo venuti. Allora attraverso le parole di Seneca noi abbiamo una sintesi delle due alternative secondo le quali il grande pensiero classico ha pensato la morte. L’ha pensata o come fine, fine di tutto, dopo quello non c’è nulla, o l’ha pensata semplicemente come passaggio. Qui ci sarebbe da osservare che soprattutto il pensiero giudaico-cristiano, in maniera particolare il pensiero cristiano, lavora su questa seconda ipotesi: la morte non è la fine di tutto, la morte secondo il pensiero cristiano è “transitus”, anzi, come leggiamo in alcuni fondamentali testi dei primi secoli dell’era cristiana, la morte è il vero “dies natalis”, la morte è il vero giorno della nascita. Perché? Perché attraverso la morte noi nasciamo alla vera vita: quella che viviamo attualmente proprio per la sua limitatezza, parzialità non è la vita autentica, la vita autentica è quella alla quale accediamo dopo la morte, sicché la morte è quel momento di passaggio che ha come

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caratteristica quella di essere il vero giorno della nascita. Ma per tornare a Seneca, o fine o passaggio. Senonché, e mi avvio verso la fine, mi aveva ricordato Massimo Mari che era bene coinvolgervi ponendovi qualche domanda, i veri filosofi dovrebbero fare questo, avere l’umiltà di porre domande nella maniera possibilmente più rigorosa, senza avere la pretesa di dare risposte, e allora in rapporto a questa alternativa, se voi ci pensate, resta un’altra questione di fondo che né Epicuro né Seneca affrontano. E cioè, comunque la si voglia concepire la morte, come la dobbiamo affrontare? Come si può affrontare la morte? Prima di proseguire, completare il percorso devo dire che basterebbe riflettere e commentare le cose che avete detto voi per trovare delle risposte, perché, tanto per riprendere alcuni passaggi, è apparentemente banale ma è fondamentale anche l’osservazione che faceva Ayres, il contrario della morte non è la vita, è la nascita. Perché? Perché nascita e morte fanno parte della vita, sono aspetti che riguardano la vita, anzi, qualcuno può dire, è stato detto anche da qualcuno di voi, che la morte è per l’appunto l’evento che conferisce alla vita il suo specifico significato. Qui potremmo intrattenerci a lungo con il riferimento a moltissimi testi, soprattutto a testi del mondo classico, greco, latino, dove appunto la morte è riconosciuta come ciò in rapporto al quale assume significato la vita. Lo diceva anche la Dott.ssa Elena Sagliocco, provate a pensare una vita che non abbia termine: ciò che accade in una vita interminabile perderebbe completamente il

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significato che invece ciascun evento specifico singolo viene ad avere nella nostra vita, proprio perché la vita è segnata da questo confine, che appartiene tuttavia alla vita. Ma per tornare e avviarmi a concludere all’interrogativo: come affrontarla? Mi sono chiesto in che modo potesse essere più opportuno con voi sintetizzare le diverse possibilità, le diverse ipotesi, e spero non vi dispiaccia se lo faccio attraverso il riferimento a due esempi che probabilmente ci fanno capire bene quali possono essere due possibilità, due approcci, molto diversi, al tema della morte, di come affrontarla. Il primo è quello che troviamo in un testo antico, un autentico capolavoro fondativo, non solo dal punto di vista letterario ma proprio dal punto di vista delle categorie culturali, uno di quei testi che segnano in profondità tutta la tradizione culturale dell’occidente: è una tragedia di Eschilo, è probabilmente il testo drammaturgico più noto di tutto il periodo classico della tragedia, quella tragedia che ha come titolo Prometeo incatenato e in cui Eschilo reinterpreta un mito che correva nel mondo ellenico già da molti secoli, cioè il mito di Prometeo. Ve lo riassumo molto brevemente per arrivare subito al dunque: lo scenario che viene descritto è lo scenario delle origini. Ed è perciò tanto più importante perché ci fa capire che la vicenda che ora viene descritta ha a che vedere col problema dell’origine, della genesi. Molte delle questioni importanti della nostra vita si riconducono alla genesi. In questo scenario dell’origine, Zeus è riuscito a vincere la

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sua lotta contro i Ciclopi e contro i Titani ed è diventato il Re degli dei, si è insediato sull’Olimpo. E per prima cosa, diventato Re degli dei, Zeus decide di sterminare il genere umano. Vi potrà sembrare curioso questo particolare, ma è stato notato che ricorre in quasi tutte le culture, le religioni del bacino del Mediterraneo la concezione di un dio sterminatore che ha in odio specificatamente il genere umano. Vi sono anche molte spiegazioni che sarebbe interessante approfondire, ad esempio, qui ci sono soprattutto medici, operatori anche del mondo sanitario, quindi queste cose le sapete meglio di me, dal punto di vista biologico la specie umana è la più indifesa. Dal punto di vista strettamente biologico, il cucciolo di uomo è l’unico cucciolo che è inetto alla sopravvivenza. Mentre le altre specie viventi riescono a riprodursi senza interventi esterni, senza l’intervento esterno il piccolo di uomo muore. È come se il genere umano di per sé fosse destinato all’estinzione. E questi racconti antichi dell’origine ci dicono qualcosa di più: che questa estinzione è proprio voluta dal dio che ha in odio il genere umano. Per cui, un importante studioso tedesco sottolineava che, insomma, da queste narrazioni quello che emerge è che il genere umano è inadatto a vivere e che sta sulla Terra quasi a dispetto di questa inidoneità a vivere. Sarebbe importante riprenderlo ma non ne abbiamo il tempo. Allora Zeus decide di sterminare il genere umano e, che cosa fa? Nasconde agli uomini il nutrimento.

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A questo punto l’estinzione della specie umana sembra inesorabile e interviene il Titano Prometeo - Titano che essendo di stirpe divina è immortale, non conosce la morte – interviene cercando di salvare il genere umano. Interviene per filantropia, proprio in senso letterale, cioè per amore per l’ανθρωπος, per amore verso il genere umano e, pur di salvare il genere umano, si macchia di un sacrilegio, cioè si ribella alla volontà di dio. E qui arriva l’interpretazione, la rilettura originalissima di Eschilo, che mi permetto di proporre alla vostra attenzione. Come fa Prometeo a salvare il genere umano? In che modo riesce a strapparlo a questo destino di morte? Nelle versioni precedenti del mito di Prometeo, quelle che forse conoscete di più, la salvezza al genere umano era portata da Prometeo attraverso il furto del fuoco, cioè delle tecniche che venivano donate agli uomini e gli uomini mediante le tecniche riuscivano a salvarsi. Eschilo, almeno a mio giudizio, è molto più rigoroso, nel senso che Eschilo sa bene che la tecnica non ci salva. E quindi sottolinea che, certo, Prometeo dona agli uomini tutte le tecniche e che le tecniche sono utili, ma di per sé le tecniche non sarebbero in grado di garantire la sopravvivenza del genere umano. E allora Prometeo salva gli uomini non attraverso il dono delle tecniche, ma attraverso un dono aggiuntivo, quello che risulta essere definitivo, risolutivo. Quando ho riletto la tragedia sono rimasto molto colpito, perché ero legato all’idea che Prometeo è colui che dona agli uomini la tecnica e che la salvezza del genere umano

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era affidata al fatto che, mentre gli altri animali sono adatti a sopravvivere ma non sono capaci di produrre tecniche, gli uomini hanno il dono della tecnica. E invece appunto Eschilo è consapevole dei limiti della tecnica: noi mediante la tecnica non ce la faremmo. Occorre l’altro più importante e risolutivo dono di Prometeo. E sapete qual è questo dono? Dice Eschilo, Prometeo dona agli uomini - il termine greco, l’espressione greca è τυφλή ελπίδες, “cieche speranze”. Cieche speranze. E per far capire di che cosa si tratta, scrive Eschilo: prima del dono di Prometeo, gli uomini, consapevoli di essere mortali, non riuscivano a pensare ad altro se non al giorno della morte. E quindi non facevano nulla e in realtà si lasciavano morire. Era talmente ossessiva la presenza di questo, il preannuncio della morte, che non riuscivano a dare significato alla loro vita. E allora qual è l’intervento di Prometeo? Li induce a non guardare più quel giorno, a non pensarci più. Li acceca rispetto a questo esito, conferisce agli uomini la speranza. Pensate un po’, noi saremmo persuasi che a salvare gli uomini sia chissà quale tecnica mirabolante. Veramente decisiva per la salvezza dell’umanità è la speranza. Ma la speranza, come capite, presuppone che noi distogliamo lo sguardo dal momento della morte, perché altrimenti - c’è un’espressione bellissima di Eschilo - altrimenti prima gli uomini vivevano come larve di sogno. Perché erano lì, trasognati, che pensavano sempre al giorno della morte e quindi alla fine si lasciavano morire. Allora, da questo

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straordinario racconto delle origini, come vedete, emerge un primo approccio al modo con il quale è possibile affrontare la morte: cancellarla, dimenticarla, metterla tra parentesi in nome della speranza. Avrete anche capito qual è il limite di questo approccio: certo si può dire che funziona. Credo che ciascuno di noi molto spesso nel corso della sua giornata, o sempre, viva come se la morte non ci fosse, non guardando all’ultimo momento che lo attende, perché probabilmente se continuasse a guardare quel momento finale, fatale, non troverebbe significato nel fare nulla. E però questo approccio su che cosa è fondato? Su due punti che ci mostrano la difficoltà di accogliere questo approccio: il primo è fondato su un sacrilegio. Questo dono di Prometeo è un dono che (si può essere credenti o non credenti) introduce una rottura tra il piano umano e il piano divino. Tanto è vero che Prometeo viene condannato ad una pena perenne, l’aquila gli divora il fegato che si riforma ogni tre giorni. Sottolineo, non devo dirlo ai medici, che il fegato è l’unico organo che si riforma, quindi proprio quello viene divorato, di modo che possa essere costantemente di nuovo divorato. Allora, il primo limite di questa soluzione, di questo approccio, è appunto il fatto che avviene, presuppone insomma un sacrilegio. E poi c’è un secondo limite fondamentale: che, in questa maniera, la nostra vita viene a fondarsi su una dimenticanza, su un oblio, su una cancellazione. Quella che forse i colleghi psicologi chiamerebbero rimozione. E allora, può essere genuina, autentica una vita che abbia il suo principio

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fondamentale, la sua ragion d’essere nell’oblio? E c’è un secondo approccio al come affrontare la morte, che ritroviamo in un testo che è di qualche decennio successivo al Prometeo incatenato di Eschilo. In questo caso è un testo che viene considerato classicamente filosofico e che mi permetterei di raccomandare come lettura anche a chi avesse avuto occasione di leggerlo ad esempio negli studi secondari. È un testo straordinario, perché abitualmente quando si parla, quando si discute della morte, il contesto in cui avviene questa discussione è, come quello di oggi, un contesto nel quale si svolge un ragionamento. Molto difficile ma particolarmente significativo è parlare della morte, riflettere sulla morte, discutere della morte mentre si sta morendo. Qui allora la riflessione sulla morte è intrecciata all’esperienza del morire. E questo mirabile intreccio è quello che viene descritto nel dialogo che si intitola Fedone dove viene descritta la morte di Socrate, le ultime ore della vita di Socrate. Socrate è stato condannato a morte perché ingiustamente riconosciuto colpevole di reati che egli mai ha compiuto, è in carcere circondato dai suoi discepoli più fidati, ha licenziato la moglie e i figli perché costoro piangevano e lui non voleva pianti e sofferenze intorno a sé nell’attimo decisivo della morte, e discute fino all’ultimo respiro con i suoi discepoli della morte e dell’immortalità. E che cosa dice Socrate della morte? Anzitutto ci presenta la morte, se volessimo riprendere la

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definizione di Seneca, usa per indicare la morte un termine greco che è fondamentale, perché dice che la morte è μετοίκησις, viene da οικος, che troviamo anche in economia in italiano, οικος è la casa e μετοίκησις è quando io cambio casa, quando faccio un trasloco, la morte è semplicemente un trasloco, un cambiamento di dimora, nel quale io so qual è la casa che abbandono e non so, però, qual è la casa verso la quale vado. E nel discutere di questo Socrate dice che in fondo tutta la nostra vita dovrebbe essere, per avere significato, non per continuare a compiangersi ma, anzi, per gioirne fino in fondo, dovrebbe essere μελέτη θανάτου, cioè dovrebbe essere un esercitarsi a morire. Non solo non si tratta di cancellare la morte, non solo non si chiede di dimenticarla, ma è esattamente all’opposto: la nostra vita dovrebbe essere un esercizio quotidiano di prepararsi a morire e, coerentemente con questo discorso, i veri filosofi sono quelli che sono coerenti tra le parole che dicono e gli atti che fanno. Socrate muore dopo aver trascorso la sua vita come un esercitarsi a morire, come un prepararsi a morire. Allora, per chiudere con un interrogativo, io devo dirvi: non lo so (magari lo sapessi!) se la morte è finis o se la morte è transitus. Non vi è un sapere che riguardi questo. Chi di noi può sapere se la morte è fine o se la morte è passaggio? E ancora mi interrogo conseguentemente per capire quale sia l’approccio che occorre avere nei confronti della morte: dimenticarla per poter sopravvivere o esercitarsi quotidianamente alla morte per vivere bene? Vi lascio con questi interrogativi.

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Collana BibliHospiceVivere bene e morire bene

Autore: Umberto Curi

© Ponte Blu Edizioni – 2012

Consiglio editoriale: Ayres Marques, Alessandro Finucci, Marina Baldoni

Consulenza: Gigliola Capodaglio

Fotografie: Marina Marques (copertina), Ayres Marques (ritratto dell’autore)

Stampa • Recanati • 09/2012

ISBN 978-88-98132-01-0

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Prefazione

Il testo che andrete a leggere in questo opuscolo informativo e formativo è la trascrizione integrale dell’intervento Vivere bene e morire bene realizzato dal Prof. Umberto Curi in occasione della Giornata Mondiale Hospice e Cure Palliative 2011, all’interno di una tavola rotonda coordinata a Loreto dal Dottor Massimo Mari con la presenza di medici e operatori dell’Hospice di Loreto, medici e psicologi provenienti dalla Toscana e numerosi cittadini che hanno partecipato attivamente con domande e testimonianze.Ci scusiamo fin d’ora per eventuali imprecisioni, ripetizioni ed incongruenze che possono apparire ad una attenta lettura del testo trascritto. Abbiamo comunque la certezza di compensare le piccole imperfezioni del discorso orale con l’estrema chiarezza di pensiero e la grande capacità comunicativa del Prof. Curi, al quale va tutta la nostra stima e gratitudine.

Ayres, Alessandro e MarinaCuratori della Collana BibliHospice

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Vivere bene e morire beneIntervento del Prof. Umberto Curi alla Giornata Mondiale Hospice 2011

Buongiorno e ben trovati a tutti. Ringrazio particolarmente Ayres per avermi invitato a questo importante appuntamento. Ayres sa che sono stato molto riluttante ad accettare l’invito, non perché volessi rendermi prezioso, ma perché, esattamente poi come è accaduto, temevo che le mie limitate competenze, riversate in un’occasione come quella di oggi, e soprattutto alla presenza di operatori come quelli che sono qui presenti, risultassero sostanzialmente inutili, perché se concepiamo, come molto spesso accade, la filosofia semplicemente come una riflessione che è incapace di cogliere le questioni profonde che riguardano la vita e la morte delle persone, allora imporre una analisi di carattere filosofico in un contesto in cui invece il tema della morte non è semplicemente una questione astratta, ma è un’esperienza pressoché quotidiana di vita, insomma mi sembrava essere poco opportuno e mi sembrava soprattutto di conferire un significato alla mia presenza qui tutt’altro che positivo. Poi, voi conoscete Ayres meglio di me e sapete che la sua tenacia è pari alla sua creatività, per cui alla fine ho ceduto, anche se devo dire che proprio dalla prima parte di questa

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iniziativa, mi sono confermato nell’idea che avevo molte più cose da imparare di quelle non dico da insegnare, ma da proporvi come temi di riflessione. E se non fosse che ho diligentemente predisposto un breve percorso di riflessione che vorrei svolgere con voi, sarei molto tentato di limitarmi a riprendere e commentare alcune delle molte cose importanti che sono state dette. Anzi devo dirvi che sarei talmente convinto di questa strada da poter concludere che non avete bisogno proprio di nulla, perché ormai quelli che sono i termini di fondo della questione, anche dal punto di vista filosofico, sono veramente padroneggiati con grande acutezza e soprattutto con grande partecipazione umana ed esistenziale da chi su questi temi lavora abitualmente. E allora siccome, come ci ricordava Massimo Mari, disponiamo di pochissimo tempo, se mi lasciate dieci minuti io vorrei semplicemente aggiungere qualche postilla, qualche ulteriore considerazione a quelle che avete già proposto riflettendo sulla vostra esperienza. Partirei da un paio di sottolineature che riguardano il testo che ci è stato letto.

Lettera di Epicuro a Meneceo

Come sapete, il testo che vi è stato ricordato è di un grande filosofo dell’antichità, Epicuro, e appartiene (insisto su questo perché vedrete che ha delle conseguenze non trascurabili) a un genere letterario molto diffuso in tutto il

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mondo antico greco-latino, cioè quel genere letterario che potremmo chiamare la letteratura consolatoria, nel senso che molto spesso ritroviamo autori, non necessariamente filosofi, i quali redigono dei testi o mandano delle lettere con lo scopo di consolare i loro interlocutori dalla condizione di angoscia, di solitudine, talora di disperazione nella quale essi si trovano. Non possiamo soffermarci su questo aspetto, ma se soprattutto i colleghi psicologi e psichiatri andassero a rileggersi questi testi troverebbero una specie di anticipazione di quegli strumenti psicoterapeutici che vengono abitualmente usati nel confronto con coloro che denunciano condizioni di sofferenza psichica. E questa lettera che viene inviata a Meneceo appartiene al genere consolatorio. L’interlocutore di Epicuro è appunto un personaggio che, per intenderci, si lamenta delle molte disgrazie che lo hanno colpito ed Epicuro vuole richiamarlo invece ad una pratica di vita che gli consenta, il termine greco è euthen, di vivere bene per poter euthanatein, poter morire bene. Per cui gli obiettivi che vengono perseguiti con la lettera che abbiamo ascoltato, la cui lettura abbiamo ascoltato, sono vivere bene per poter morire bene. E che cosa dice Epicuro, che cosa, secondo Epicuro, è indispensabile per vivere bene e morire bene? Dei molti argomenti che vengono addotti ve ne sono due che sono per noi particolarmente significativi. Il primo è che per vivere bene e morire bene non dobbiamo avere timore, degli dei e cioè dobbiamo scacciare quel timore che

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invece molto spesso pervade gli uomini, di essere soggetti all’imperscrutabile volontà degli dei che possono, di volta in volta, incidere sulla nostra vita positivamente o anche negativamente.Epicuro dice al suo interlocutore: questa concezione degli dei che si occupano delle vicende degli uomini è completamente sbagliata. Se noi, dice Epicuro, abbiamo una concezione giusta della divinità, se la divinità è appunto quell’essere superiore che vive come immortale e inviolabile, come possiamo pensare che si occupi delle nostre vicende? Quindi ogni timore degli dei è totalmente infondato: liberiamoci da questa preoccupazione. E poi c’è, per noi più importante, un secondo ammonimento, sempre finalizzato allo scopo di vivere bene per poter morire bene, e cioè non avere paura della morte. L’argomento che Epicuro adopera per scacciare questa paura è rimasto famoso, però io vorrei richiamare la vostra attenzione anche alla debolezza di questo argomento, perché Epicuro dice: non dobbiamo avere paura della morte, perché quando c’è la morte non ci siamo noi, e quando ci siamo noi non c’è la morte. Siccome non ci incontriamo mai, che senso ha avere timore di qualcosa in cui mai ci imbattiamo? Quindi fughiamo ogni preoccupazione completamente infondata. Se voi ci riflettete, al di là dell’intento consolatorio, questo modo di concepire la morte è un modo molto elusivo, perché in questo modo Epicuro non risponde alla domanda: ma la morte che cos’è? Perché, poiché essa c’è quando noi non ci siamo e viceversa, vuol dire che non è neppure un problema domandarsi che cosa essa sia.

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Lettera di Seneca a Lucilio

E c’è invece un altro testo, ma pensate che coincidenza significativa, il testo che volevo proporre io alla vostra attenzione, un’altra lettera, un’altra lettera che appartiene al genere consolatorio, alla letteratura consolatoria, che viene scritta non più da un autore greco, ma da un autore latino. L’autore è Seneca, e il destinatario di questa lettera è un giovane, si chiama Lucilio, ed è un giovane che si è rivolto a Seneca lamentandosi di tutte le disgrazie, i dolori, le sofferenze che doveva incontrare, sicché ancora una volta Seneca cerca di svolgere il suo compito, soprattutto rivolto ai giovani, li ammonisce di relativizzare anche la loro esperienza di dolore e di sofferenza. E c’è un testo piuttosto lungo, sul quale non ci soffermiamo, di questa che è la numero 65, se volete andarla a ritrovare, la lettera a Lucilio numero 65 di Seneca, nella quale, nelle ultimissime righe, quasi d’improvviso, Seneca formula un interrogativo. Se voi ci riflettete in qualche modo è un interrogativo che riprende ciò che invece Epicuro ha lasciato in ombra, perché Seneca dice - è una frase molto breve, la dico prima in latino perché è molto incisiva ma è anche trasparente il significato: “Mors, quid est?”, “Che cos’è la morte?” Qui ci sarebbe da osservare che proprio il termine adoperato da Seneca dice: la morte “quid” , cioè “che cosa” è la morte? E ci sarebbe da domandarsi se davvero possiamo considerare la morte un “quid”, cioè “una cosa”. O se essa

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non sia piuttosto un evento o magari un processo. E comunque la domanda di Seneca nella sua lapidarietà è molto incisiva: Che cos’è la morte? E poi subito la risposta, e la risposta viene formulata con una secca alternativa, come la diciamo anche noi nel nostro linguaggio quotidiano, con un aut aut, e la risposta è: “Aut finis, aut transitus”. Che cos’è la morte? O è la fine, la fine di tutto, la dissoluzione, l’annientamento, l’annichilimento, oppure è il passaggio, “transitus”. In altri testi troviamo anche un altro termine simile a “transitus”, che è “reditus”, che vuol dire ritorno, torniamo là donde siamo venuti. Allora attraverso le parole di Seneca noi abbiamo una sintesi delle due alternative secondo le quali il grande pensiero classico ha pensato la morte. L’ha pensata o come fine, fine di tutto, dopo quello non c’è nulla, o l’ha pensata semplicemente come passaggio. Qui ci sarebbe da osservare che soprattutto il pensiero giudaico-cristiano, in maniera particolare il pensiero cristiano, lavora su questa seconda ipotesi: la morte non è la fine di tutto, la morte secondo il pensiero cristiano è “transitus”, anzi, come leggiamo in alcuni fondamentali testi dei primi secoli dell’era cristiana, la morte è il vero “dies natalis”, la morte è il vero giorno della nascita. Perché? Perché attraverso la morte noi nasciamo alla vera vita: quella che viviamo attualmente proprio per la sua limitatezza, parzialità non è la vita autentica, la vita autentica è quella alla quale accediamo dopo la morte, sicché la morte è quel momento di passaggio che ha come

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caratteristica quella di essere il vero giorno della nascita. Ma per tornare a Seneca, o fine o passaggio. Senonché, e mi avvio verso la fine, mi aveva ricordato Massimo Mari che era bene coinvolgervi ponendovi qualche domanda, i veri filosofi dovrebbero fare questo, avere l’umiltà di porre domande nella maniera possibilmente più rigorosa, senza avere la pretesa di dare risposte, e allora in rapporto a questa alternativa, se voi ci pensate, resta un’altra questione di fondo che né Epicuro né Seneca affrontano. E cioè, comunque la si voglia concepire la morte, come la dobbiamo affrontare? Come si può affrontare la morte? Prima di proseguire, completare il percorso devo dire che basterebbe riflettere e commentare le cose che avete detto voi per trovare delle risposte, perché, tanto per riprendere alcuni passaggi, è apparentemente banale ma è fondamentale anche l’osservazione che faceva Ayres, il contrario della morte non è la vita, è la nascita. Perché? Perché nascita e morte fanno parte della vita, sono aspetti che riguardano la vita, anzi, qualcuno può dire, è stato detto anche da qualcuno di voi, che la morte è per l’appunto l’evento che conferisce alla vita il suo specifico significato. Qui potremmo intrattenerci a lungo con il riferimento a moltissimi testi, soprattutto a testi del mondo classico, greco, latino, dove appunto la morte è riconosciuta come ciò in rapporto al quale assume significato la vita. Lo diceva anche la Dott.ssa Elena Sagliocco, provate a pensare una vita che non abbia termine: ciò che accade in una vita interminabile perderebbe completamente il

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significato che invece ciascun evento specifico singolo viene ad avere nella nostra vita, proprio perché la vita è segnata da questo confine, che appartiene tuttavia alla vita. Ma per tornare e avviarmi a concludere all’interrogativo: come affrontarla? Mi sono chiesto in che modo potesse essere più opportuno con voi sintetizzare le diverse possibilità, le diverse ipotesi, e spero non vi dispiaccia se lo faccio attraverso il riferimento a due esempi che probabilmente ci fanno capire bene quali possono essere due possibilità, due approcci, molto diversi, al tema della morte, di come affrontarla. Il primo è quello che troviamo in un testo antico, un autentico capolavoro fondativo, non solo dal punto di vista letterario ma proprio dal punto di vista delle categorie culturali, uno di quei testi che segnano in profondità tutta la tradizione culturale dell’occidente: è una tragedia di Eschilo, è probabilmente il testo drammaturgico più noto di tutto il periodo classico della tragedia, quella tragedia che ha come titolo Prometeo incatenato e in cui Eschilo reinterpreta un mito che correva nel mondo ellenico già da molti secoli, cioè il mito di Prometeo. Ve lo riassumo molto brevemente per arrivare subito al dunque: lo scenario che viene descritto è lo scenario delle origini. Ed è perciò tanto più importante perché ci fa capire che la vicenda che ora viene descritta ha a che vedere col problema dell’origine, della genesi. Molte delle questioni importanti della nostra vita si riconducono alla genesi. In questo scenario dell’origine, Zeus è riuscito a vincere la

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sua lotta contro i Ciclopi e contro i Titani ed è diventato il Re degli dei, si è insediato sull’Olimpo. E per prima cosa, diventato Re degli dei, Zeus decide di sterminare il genere umano. Vi potrà sembrare curioso questo particolare, ma è stato notato che ricorre in quasi tutte le culture, le religioni del bacino del Mediterraneo la concezione di un dio sterminatore che ha in odio specificatamente il genere umano. Vi sono anche molte spiegazioni che sarebbe interessante approfondire, ad esempio, qui ci sono soprattutto medici, operatori anche del mondo sanitario, quindi queste cose le sapete meglio di me, dal punto di vista biologico la specie umana è la più indifesa. Dal punto di vista strettamente biologico, il cucciolo di uomo è l’unico cucciolo che è inetto alla sopravvivenza. Mentre le altre specie viventi riescono a riprodursi senza interventi esterni, senza l’intervento esterno il piccolo di uomo muore. È come se il genere umano di per sé fosse destinato all’estinzione. E questi racconti antichi dell’origine ci dicono qualcosa di più: che questa estinzione è proprio voluta dal dio che ha in odio il genere umano. Per cui, un importante studioso tedesco sottolineava che, insomma, da queste narrazioni quello che emerge è che il genere umano è inadatto a vivere e che sta sulla Terra quasi a dispetto di questa inidoneità a vivere. Sarebbe importante riprenderlo ma non ne abbiamo il tempo. Allora Zeus decide di sterminare il genere umano e, che cosa fa? Nasconde agli uomini il nutrimento.

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A questo punto l’estinzione della specie umana sembra inesorabile e interviene il Titano Prometeo - Titano che essendo di stirpe divina è immortale, non conosce la morte – interviene cercando di salvare il genere umano. Interviene per filantropia, proprio in senso letterale, cioè per amore per l’ανθρωπος, per amore verso il genere umano e, pur di salvare il genere umano, si macchia di un sacrilegio, cioè si ribella alla volontà di dio. E qui arriva l’interpretazione, la rilettura originalissima di Eschilo, che mi permetto di proporre alla vostra attenzione. Come fa Prometeo a salvare il genere umano? In che modo riesce a strapparlo a questo destino di morte? Nelle versioni precedenti del mito di Prometeo, quelle che forse conoscete di più, la salvezza al genere umano era portata da Prometeo attraverso il furto del fuoco, cioè delle tecniche che venivano donate agli uomini e gli uomini mediante le tecniche riuscivano a salvarsi. Eschilo, almeno a mio giudizio, è molto più rigoroso, nel senso che Eschilo sa bene che la tecnica non ci salva. E quindi sottolinea che, certo, Prometeo dona agli uomini tutte le tecniche e che le tecniche sono utili, ma di per sé le tecniche non sarebbero in grado di garantire la sopravvivenza del genere umano. E allora Prometeo salva gli uomini non attraverso il dono delle tecniche, ma attraverso un dono aggiuntivo, quello che risulta essere definitivo, risolutivo. Quando ho riletto la tragedia sono rimasto molto colpito, perché ero legato all’idea che Prometeo è colui che dona agli uomini la tecnica e che la salvezza del genere umano

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era affidata al fatto che, mentre gli altri animali sono adatti a sopravvivere ma non sono capaci di produrre tecniche, gli uomini hanno il dono della tecnica. E invece appunto Eschilo è consapevole dei limiti della tecnica: noi mediante la tecnica non ce la faremmo. Occorre l’altro più importante e risolutivo dono di Prometeo. E sapete qual è questo dono? Dice Eschilo, Prometeo dona agli uomini - il termine greco, l’espressione greca è τυφλή ελπίδες, “cieche speranze”. Cieche speranze. E per far capire di che cosa si tratta, scrive Eschilo: prima del dono di Prometeo, gli uomini, consapevoli di essere mortali, non riuscivano a pensare ad altro se non al giorno della morte. E quindi non facevano nulla e in realtà si lasciavano morire. Era talmente ossessiva la presenza di questo, il preannuncio della morte, che non riuscivano a dare significato alla loro vita. E allora qual è l’intervento di Prometeo? Li induce a non guardare più quel giorno, a non pensarci più. Li acceca rispetto a questo esito, conferisce agli uomini la speranza. Pensate un po’, noi saremmo persuasi che a salvare gli uomini sia chissà quale tecnica mirabolante. Veramente decisiva per la salvezza dell’umanità è la speranza. Ma la speranza, come capite, presuppone che noi distogliamo lo sguardo dal momento della morte, perché altrimenti - c’è un’espressione bellissima di Eschilo - altrimenti prima gli uomini vivevano come larve di sogno. Perché erano lì, trasognati, che pensavano sempre al giorno della morte e quindi alla fine si lasciavano morire. Allora, da questo

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straordinario racconto delle origini, come vedete, emerge un primo approccio al modo con il quale è possibile affrontare la morte: cancellarla, dimenticarla, metterla tra parentesi in nome della speranza. Avrete anche capito qual è il limite di questo approccio: certo si può dire che funziona. Credo che ciascuno di noi molto spesso nel corso della sua giornata, o sempre, viva come se la morte non ci fosse, non guardando all’ultimo momento che lo attende, perché probabilmente se continuasse a guardare quel momento finale, fatale, non troverebbe significato nel fare nulla. E però questo approccio su che cosa è fondato? Su due punti che ci mostrano la difficoltà di accogliere questo approccio: il primo è fondato su un sacrilegio. Questo dono di Prometeo è un dono che (si può essere credenti o non credenti) introduce una rottura tra il piano umano e il piano divino. Tanto è vero che Prometeo viene condannato ad una pena perenne, l’aquila gli divora il fegato che si riforma ogni tre giorni. Sottolineo, non devo dirlo ai medici, che il fegato è l’unico organo che si riforma, quindi proprio quello viene divorato, di modo che possa essere costantemente di nuovo divorato. Allora, il primo limite di questa soluzione, di questo approccio, è appunto il fatto che avviene, presuppone insomma un sacrilegio. E poi c’è un secondo limite fondamentale: che, in questa maniera, la nostra vita viene a fondarsi su una dimenticanza, su un oblio, su una cancellazione. Quella che forse i colleghi psicologi chiamerebbero rimozione. E allora, può essere genuina, autentica una vita che abbia il suo principio

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fondamentale, la sua ragion d’essere nell’oblio? E c’è un secondo approccio al come affrontare la morte, che ritroviamo in un testo che è di qualche decennio successivo al Prometeo incatenato di Eschilo. In questo caso è un testo che viene considerato classicamente filosofico e che mi permetterei di raccomandare come lettura anche a chi avesse avuto occasione di leggerlo ad esempio negli studi secondari. È un testo straordinario, perché abitualmente quando si parla, quando si discute della morte, il contesto in cui avviene questa discussione è, come quello di oggi, un contesto nel quale si svolge un ragionamento. Molto difficile ma particolarmente significativo è parlare della morte, riflettere sulla morte, discutere della morte mentre si sta morendo. Qui allora la riflessione sulla morte è intrecciata all’esperienza del morire. E questo mirabile intreccio è quello che viene descritto nel dialogo che si intitola Fedone dove viene descritta la morte di Socrate, le ultime ore della vita di Socrate. Socrate è stato condannato a morte perché ingiustamente riconosciuto colpevole di reati che egli mai ha compiuto, è in carcere circondato dai suoi discepoli più fidati, ha licenziato la moglie e i figli perché costoro piangevano e lui non voleva pianti e sofferenze intorno a sé nell’attimo decisivo della morte, e discute fino all’ultimo respiro con i suoi discepoli della morte e dell’immortalità. E che cosa dice Socrate della morte? Anzitutto ci presenta la morte, se volessimo riprendere la

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definizione di Seneca, usa per indicare la morte un termine greco che è fondamentale, perché dice che la morte è μετοίκησις, viene da οικος, che troviamo anche in economia in italiano, οικος è la casa e μετοίκησις è quando io cambio casa, quando faccio un trasloco, la morte è semplicemente un trasloco, un cambiamento di dimora, nel quale io so qual è la casa che abbandono e non so, però, qual è la casa verso la quale vado. E nel discutere di questo Socrate dice che in fondo tutta la nostra vita dovrebbe essere, per avere significato, non per continuare a compiangersi ma, anzi, per gioirne fino in fondo, dovrebbe essere μελέτη θανάτου, cioè dovrebbe essere un esercitarsi a morire. Non solo non si tratta di cancellare la morte, non solo non si chiede di dimenticarla, ma è esattamente all’opposto: la nostra vita dovrebbe essere un esercizio quotidiano di prepararsi a morire e, coerentemente con questo discorso, i veri filosofi sono quelli che sono coerenti tra le parole che dicono e gli atti che fanno. Socrate muore dopo aver trascorso la sua vita come un esercitarsi a morire, come un prepararsi a morire. Allora, per chiudere con un interrogativo, io devo dirvi: non lo so (magari lo sapessi!) se la morte è finis o se la morte è transitus. Non vi è un sapere che riguardi questo. Chi di noi può sapere se la morte è fine o se la morte è passaggio? E ancora mi interrogo conseguentemente per capire quale sia l’approccio che occorre avere nei confronti della morte: dimenticarla per poter sopravvivere o esercitarsi quotidianamente alla morte per vivere bene? Vi lascio con questi interrogativi.

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