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UNIVERSIT DEGLI STUDI DI NAPOLI

LORIENTALE

LECTURA DANTIS 2002-2009

Dolce color dorental zaffiro

(Purg. I 13)

omaggio a Vincenzo Placella

per i suoi settanta anni

A cura di

ANNA CERBO

con la collaborazione di

ROBERTO MONDOLA, ALEKSANDRA ABJEK E CIRO DI FIORE

Tomo II

2004-2005

NAPOLI 2011

Lectura Dantis 2002-2009

omaggio a Vincenzo Placella per i suoi settanta anni

Opera realizzata con il contributo del

Dipartimento di Studi Letterari e Linguistici dellEuropa

e con i Fondi di Ricerca di Ateneo

2011, UNIVERSIT DEGLI STUDI DI NAPOLI LORIENTALE

ISBN 978-88-95044-90-3

UNIVERSIT DEGLI STUDI DI NAPOLI LORIENTALE

www.unior.it

IL TORCOLIERE Officine Grafico-Editoriali dAteneo

Edizione 2011

INDICE

Tomo II

LECTURA DANTIS 2004-2005 Lectura Dantis 2004 (a cura di Roberto Mondola) VITTORIO COZZOLI, Dante anagogico 315 ENRICO CATTANEO, Dante e i Padri della Chiesa 341 SERGIO SCONOCCHIA, Seneca tragico nella Commedia di Dante 361 ANNA CERBO, Il canto IX dellInferno 397 ROBERTO MERCURI, Il canto X dellInferno 415 BORTOLO MARTINELLI, Il canto XI dellInferno 431 MARIA CICALA, Il canto XII dellInferno 457 MARIO AVERSANO, Dante e il suo ritratto nella Sala della Pace di Ambrogio Lorenzetti 489 MARIA CONCOLATO PALERMO, La fortuna di Dante in Inghilterra 543 GIUSEPPE GRILLI, Qualche considerazione sulle traduzioni in catalano della Comeda 561 Lectura Dantis 2005 (a cura di Anna Cerbo, Aleksandra abjek e Ciro Di Fiore) FRANCO CARDINI, La Crociata e la Cortesia. Dante dinanzi allIslam, tra Maometto e il Saladino 575 MIRKO TAVONI, DanteSearch: il corpus delle opere volgari e latine di Dante lemmatizzate con marcatura grammaticale e sintattica 583 MARIA MALANKA-SORO, Dante e la tradizione della tragedia antica nella Commedia 609 DANIELE ROTA, Il canto XIII dellInferno 635 FRANCESCO PISELLI, Il canto XV dellInferno 651 MARIO AVERSANO, Il canto XVII dellInferno 659 SUZANA GLAVA, Il viaggio di Dante in Croazia tra realt e ipotesi 683 ALEKSANDRA ABJEK, Il De vulgari eloquentia in Slovenia 711

LUCIO SESSA, Borges e Dante: una sintonia sospetta 731 TOMMASO PISANTI, Dantismo in America 747 Indice dei nomi 755

Lectura Dantis 2004

a cura di Roberto Mondola

VITTORIO COZZOLI

DANTE ANAGOGICO Un caro saluto a tutti i presenti e un grazie particolare al professore

Placella per loccasione offertami di trattare, pur nei limiti qui consen-titi, la questione sulla quale lavoro da un trentennio e che, con una formula di cui mi sono servito per dare il titolo al mio primo volume dantesco, chiamo IL DANTE ANAGOGICO.

Il titolo della presente relazione, genericamente espresso con tale formula, prevede un sottotitolo che specifica un aspetto conseguente, cos formulabile: La questione dellanagogia dantesca.

In realt quella dellanagogia di Dante non per me una questio-ne, risultando chiaro il suo fondamento e il modo del suo porsi e significare; lo diventa, per, nel momento in cui desidero aprirla, nella sua novit, anzi, nella sua novitas, ai lettori, anche specialisti, della sua opera. Non sempre infatti il secondo Dante e il secondo la dan-tologia coincidono.

So, infatti, quanto essa non sia ancora oggi n intesa secondo Dante, n debitamente affrontata come una questione, di essenziale pertinenza per lermeneutica, per lesegesi, per lallegoresi dantesca. In sostanza, per il commento che Dante ancora attende dai suoi com-mentatori, occorre liberare il significato spirituale (lallegorico vero e proprio e lanagogico) dallgypto della retorica intesa unicamente in funzione letteraria e di molta metodologia critica di stampo storici-stico.

A questo proposito vale per me per quanto mi riguarda in questo lavoro di ri-novamento dellesegesi dantesca, e che mi conduce in territori ancora inesplorati quanto Dante afferma nellincipit del Monarchia:

[] e per non essere un giorno incolpato di avere sotterrato il talento, desidero non solo accumulare, ma dare frutti per la pubblica utilit e rivelare verit che nessuno ha mai tentato (Mn. I, i).

Vittorio Cozzoli 316

Tra le verit che finora ancora non sono state correttamente inte-se, vi quella, qui essenziale, che riguarda la persona di Dante: la sua speciale condizione, che possiamo indicare come mistico-carismatica.

questa infatti che non solo fonda il Dante anagogico, ma con-sente, soprattutto, di rinnovare il senso reale della lettera e di tutto il suo sistema polisemico.

Ma dire questo porre la questione sine qua non per la compren-sione di Dante, sia litteraliter che allegorice.

Perci mi servo del termine questione proprio considerando il fatto che, in genere, per la dantologia lanagogia dantesca non una questione, ma un fatto tecnico-retorico, oppure ideologico-culturale. Cos essa rimane non intesa nella sua realt, e dunque nella sua signi-ficazione, che spirituale.

Infatti il problema dellallegoria e della specifica anagogia, senza essere posto come autentica necessaria questione, viene aperto e chiu-so con un tecnico riferimento ai processi retorici o a quelli dellesegesi biblica medievale o delle tecniche previste dalla retorica classica utilizzate durante quel Medioevo, di cui Dante stesso espressione.

Al contrario, il mio porre la questione dovuto al fatto che lana-gogia dantesca, come vedremo, ha necessario riferimento al Dante anagogico: dunque non ad un complesso di modelli retorici ed esegetici, ma alla specifica realt di un uomo, Dante, il quale merita unattenzione ed una considerazione pi approfondita, proprio a par-tire da quanto dice di s lungo la propria opera.

sulluomo Dante, sulla sua persona che dobbiamo intrattenerci, volendo impostare correttamente la questione dellanagogia dante-sca.

Siamo autorizzati a farlo da Dante stesso, sulla base dellinces-sante, forte ed esplicita autotestimonianza circa la propria personale condizione. Questa, come vedremo, diviene, con i suoi luoghi privile-giati, lunico autoaccessus alla comprensione della propria opera, e del suo messaggio.

Si potr capire, per mezzo di questa via nova, quanta e quale sia per Dante limportanza e la cura data allautoesegesi. La quale deve essere tenuta in debito conto dalla filologia, alla quale auguro di farsi dantescamente nova.

Il motivo dellautotestimonianza di Dante e di autoaccessus a Dante assai pi profondo di quello che normalmente si intende, cio come supporto dato da un autore perch sia correttamente intesa la propria opera.

Infatti, indirizzando il lettore alla giusta interpretazione, il Dante anagogico ben cosciente di dottrina dare la quale altri veramente

Dante anagogico 317

dare non pu (Cv. I, ii). E capiremo il perch, a partire dalla conside-razione della novit di Dante, della sua specialissima novitas.

Certo, parlare della novit di Dante, dopo secoli di dantologia, potrebbe apparire o incosciente, o provocatorio, ma, chiariti i termini in cui si pone questa novit, apparir quanto feconda sia la novit del Dante anagogico, o meglio, mistico-carismatico, che si fonda su quanto egli stesso dice, nominando la novitade de la mia condi-zione (Cv. II, vi). Su questa novitade della speciale e carismatica sua condizione bisogner lavorare molto attentamente. Anche questa novitade e questa condizione vanno intese polisemicamen-te.

Dunque, riduttivo porre lattenzione alluso dantesco del novo in rapporto alla sola dimensione letteraria, come appunto sarebbe po-nendolo in relazione alla sola novit stilistica stilnovistica. Ne prova il dialogo tra Dante e Bonagiunta (Purg. XXIV, vv. 49-63; in particolare i vv. 55-62).

su un altro piano che ci si deve porre nellimpostare la questione anagogica. Cos facendo, si comprende che tutta lopera di Dante si compie viaggiando dalla realt nova ai novissimi, cio dallincipit vita nova allexplicit comeda.

La propria speciale condizione, che gi abbiamo anticipato come mistico-carismatica, dona a Dante una diversa esperienza della realt nova si intenda quella dello spirito come realt in-visibile rispetto a quella concessa ai comuni uomini dalla naturale quotidiana espe-rienza.

giunto il tempo di indagare, guidati da Dante stesso, la novit della sua persona, senza cercare, per ora, more filologico, altre fonti, esterne a quelle che sono la fonte primaria di Dante: la propria, forte-mente testimoniata, esperienza, da cui linsistenza nellautoesegesi come chiave di accesso alla polisemica significazione della propria opera.

Dunque, il riferimento va ora posto sia alla speciale condizione della sua persona, sia ai vari e numerosi eventi che connotano incessantemente la sua vita, e che possiamo chiamare correttamente carismatici, i quali, insieme, danno allanagogia dantesca un fonda-mento ben altrimenti che retorico.

Ecco perch intendo, con il mio lavoro, aprire la questione anagogica dantesca, ponendo una rinnovata interrogazione su quei passi che indicano tutto questo non come momento accessorio o estraneo, in quanto unicamente privato, alla vita di Dante scrittore, ma come momento fondante la propria concezione della realt e dellopera. La quale di tale realt altissima testimonianza.

Vittorio Cozzoli 318

Qui, dunque, si fonda il rapporto, cos necessario, tra Realt (lesperienza speciale e carismatica) e Fictio (la sua raffigurazione).

Qui si fonda la sua polisemia, il rapporto tra lettera e allegoria, di cui lanagogia parte necessaria per il compimento della significa-zione. Da qui viene a Dante le realizzazione della propria intentio profundior. Che altro sarebbe senza riferimento alla propria missione scrittoria: apocalittica, in quanto rivelativa della realt del cosiddetto aldil, e profetica, in quanto politica (rivelazione degli esiti della storia, del necessario rapporto tra tempo ed eterno, tra giustizia e giu-dizio).

Duro tutto questo da accettare da parte di un dantismo storicistico ed ideologicamente non aperto alla realt nova e novissima. Ora occorre presentare un poco meglio il Dante anagogico, il Dante secondo Dante.

Non , perci, il caso di aprire un discorso sui rapporti tra filologia ed ideologia, tra ideologia ed epistemologia, tra epistemologia ed esegesi. Basta ricordare che una filologia degna di tale nome non ha altro compito che quello di rispettare, nella sua pienezza ed auten-ticit, lintentio profundior che mosse lo scrittore a fondare, secondo questa, la pi corretta lettura dellopera.

Si lascia infatti ancora in esilio (qui si comprende il perch vero dellautoprofetico Se mai continga [] con altra voce omai, con altro vello / ritorner poeta, Par. XXV, 1 e 7-8) la parte pi bella e si-gnificativa della sua opera, quella altra, che emerge da una lettura del livello pi profondo, spirituale, anagogico della sua opera. Il quale livello viene teorizzato e fortemente difeso da Dante: ancora coperta-mente in Vita Nuova e in molte della Rime e pi scopertamente nel Convivio e nella Comeda, giungendo, infine, a sottolinearlo particolar-mente nellEpistola XIII a Cangrande.

Accettando lindicazione autoesegetica data da Dante, il mio lavo-ro intende seguirla nei momenti privilegiati del proprio autoaccesus, soprattutto l dove offre ai suoi lettori una guida sicura per consenti-re loro di seguirlo, di livello in livello, fino al termine del proprio polisemico altro viaggio. Il quale pu divenire il viaggio stesso della nostra intelligenza.

Sappiamo bene quanto gli stia a cuore, e non per motivi retorici, rivolgersi ai suoi lettori, al punto da invitare a riveder li vostri liti coloro che senza esoterici riferimenti non siano, o non in simile grado, fedeli dAmore, oppure ancora non sappiano come mettersi per lalto sale dellanagogica significazione. Infatti, perdendo me, rimarreste smarriti (Par. II, 6). Non a caso lo dice.

Non neppure un caso che, proprio nel sonetto conclusivo della

Dante anagogico 319

Vita Nuova e sottolineo questo Nuova, quella che rende tale la personale carismatica novitas parli di intelligenza nova (V.N. XLI, Sonetto Oltre la spera che pi larga gira, v. 3), intendendo quella che causata da un vedere nuovo dato dagli occhi dello spirito che si concluder con la finale vista nova (Par. XXXIII, 136).

Tutta lopera di Dante, se lo si nota con la dovuta attenzione, corre intorno a questo termine, per cui si passa dalla trattazione della vita resa nova dalla conoscenza della realt nova, ai novissimi (Morte, Giudizio, Inferno, Paradiso). Anche in questo senso il viag-gio di Dante anagogico.

Il suo altro viaggio non frutto di fantasia, ma reale viaggio carismatico (di cui Dante non nasconde le precise fenomenologie) che concede la conoscenza di tutta la realt: la nova e la novissima. Solo cos la realt viene ri-unita nellunit sua.

La realt nova, rifacendoci al latino, quella ultima, quella oltre la quale non ve n altra concepibile, cio quella dello spirito. E Dante dello spirito ha carismatica esperienza.

Dal momento dellapparuit iam beatitudo vestra, la sua vita resa nuova. Questa realt, gloriosamente sconcertante, proiettata in Beatrice, diviene la fondante il suo divenire il Dante anagogico. Ma Dante sa bene che non verr creduto confessando apertamente, e certamente con ingenuit, la propria straordinaria esperienza; perci la vela, la scherma.

La realt dellesperienza lo induce a raffigurarla mediante una proiezione, cio iniziando quella fictio che diverr altissima con la Comeda.

La lettera dellesperienza fonda la allegoria della sua manifesta-zione.

Per far questo Dante si appropria dei modelli stilnovistico-cortesi in modo da celebrare, cantare, servire, indicare agli altri uomini (e studiosi) che non intendono, questo amore del tutto nuovo, il solo che pu rendere veramente nuova la vita.

Per far intendere pi compiutamente la vita nova su questo piano di intelligenza nova rinvio al mio commento alla Vita Nuova, il primo che possa dirsi coerente con lanagogia, carismaticamente fondata, propria di Dante.

Esprimendomi cos come finora ho fatto, ho chiara coscienza dei rischi cui vado incontro anche sul piano cosiddetto scientifico, critico, filologico in senso storicistico. Ma, considerando il fatto che la natura del documento storicamente inteso non possa valere per altri pi sottili e profondi documenti, che sono di natura spirituale, ne deriva che Dante ci debba informare non altrimenti che allegorice intorno alla

Vittorio Cozzoli 320

realt del proprio esperire lo spirito. Sa bene che non tutto pu essere spiegato n dimostrato. Perci in

Convivio cos dice: N si maravigli alcuno se queste cose e altre ragioni che di ci avere potemo, non sono del tutto dimostrate (Cv. II, v).

E come potrebbe dimostrare la realt del suo carismatico altro viaggio, che realt e non altissima fantasia, cos che si intenda come laltissima fictio sia fondata su realt di esperienza?

Come potrebbe dimostrare quanto va dicendo di s, quando parla de la novitade de la mia condizione, la quale, per non essere da li altri uomini esperta, non sarebbe da loro intesa come da coloro che ntendono li loro effetti ne la loro operazione (Cv. II, vi)?

Come potrebbe dimostrare per tutti quelle realt, che appaiono piene del loro valore solo per pochi, se cos afferma: a le secretissime cose noi dovemo avere poca compagnia (Cv. I, i)?

Il rischio che si corre, parlando delle cose sacre, le pi finemente anagogiche in quanto carismatiche, con chi le rifiuta arrivando anche ad averne fastidio, testimoniato dal Vangelo quando invita a non dare le cose sacre ai cani perch non si rivoltino contro.

Non , dunque, per caso o per retorica necessit il fatto che Dante, confessando apertamente la propria straordinaria esperienza paradi-siaca (il fu io), si occupi di coloro che non credono a quanto testimonia, e cos scriva, quanto a s ed alla propria condizione cari-smatica:

Se poi latrassero contro la disposizione a elevarsi per il peccato di chi parla, leggano Daniele, dove troveranno che anche Nabuccodonosor per volont divina ha visto alcune cose contro i peccatori, e le dimentic. Infatti chi fa sorgere il suo sole sopra i buoni e i cattivi, e piove sui giusti e gli ingiusti, ora pie-tosamente per conversione, ora severamente per punizione, manifesta, pi o meno, come vuole, la sua gloria a coloro che vivono per quanto male (Ep. XIII, 28).

Il passo serve a Dante esule, inquisito e braccato, non asceta, ma

preso dalla propria missione scrittoria in pro del mondo che mal vive per ricordare ancora una volta che la sua esperienza alta-mente carismatica.

Seguendo san Tommaso, che tratta dei carismi (nella q. 171 alla fine della Secunda Secundae), sappiamo che ciascuno di essi va inteso come una gratia gratis data, da Dio concessa non per la sola santifi-cazione personale di chi ne ha dono, ma per il bene della Chiesa e

Dante anagogico 321

delle altre anime. Perci Dante esprime giustamente il proprio pensiero, la propria intentio profetica, confermando lAutorit dalla quale proviene la propria condizione carismatica, quando cos scrive ai Cardinali dItalia:

S, vero: io sono una delle ultime pecorelle dei pascoli di Ges Cristo; vero, io non abuso di nessuna autorit pastorale visto che non sono ricco. Ma questo vuol dire che sono quel che sono non grazie alle ricchezze, ma per grazia di Dio e lo zelo della sua casa mi divora (Ep. XI, 5).

Se letto, questo per grazia di Dio, nel contesto di tutta la sua vita

e di tutta la sua opera, non pu non aprire altrimenti la questione anagogica dantesca.

La quale inizia col primissimo manifestarsi nella vita di Dante delle fenomenologie riconducibili a quelle descritte dai grandi mistici esperienziali, siano essi santi e non.

Con lincipit della vita nova inizia il Dante anagogico, che tale diviene a partire dalla sconcertante visione della mirabile Beatrice, cio della realt beatrice, quella dello spirito, dal quale unicamente pu venire la beatitudine dei beati, come mostrer in Paradiso.

Per quanto possa risultare incredibile agli uomini, che comune-mente mancano di questa esperienza di visione-veggenza, Dante vede la Beatrice, cio la realt che sola pu dare la beatitudine. Possiamo anche definire questa realt come la parte divina della-nima. Che proietta in una donna reale, la Beatrice storica.

Perci Beatrice donna da intendersi duplicemente: sia come la giovane donna fiorentina amata da Dante, sia come proiezione della propria anima. Interessanti e importanti risultano, da questo momen-to, gli scambi tra lettera e allegoria.

A questo proposito Dante esplicito quando definisce lanima come la donna che nel dificio del corpo abita (Cv. III, viii).

Precisando ulteriormente il legame tra anima e spirito, Dante ricorda che dei due fassi unalma sola (Purg. XXV, 74).

perci assai preciso Dante quando parla di quella Beatrice beata che vive in terra con la mia anima (Cv. II, ii). Ma in altri passi ancor pi preciso; se ne abbia un esempio in questo, che ci aiuta a cogliere la stretta relazione donna-anima: Per dice qual donna, cio qual anima (Cv. III, xv).

Dante intende la fiorentina Beatrice come significante di un signifi-cato che lo Spirito, il proprio spirito, la cui identit di luce. Perci, correttamente, la chiama gloriosa. Anzi, pi giustamente, la glorio-

Vittorio Cozzoli 322

sa donna de la mia mente: come a dire che questa la donna che diviene domina della sua mente. domina in quanto lo dellanima (parte animante-animale), rispettando lordine gerarchico secondo Dio.

La documentazione autoesegetica diventa chiara rileggendo noi, con speciale attenzione, il secondo paragrafo della Vita Nuova, dove gli spiriti del corpo si lamentano della supremazia che ora su Dante ha la gloriosa innamorante bellezza dello Spirito.

Dante, per, sa bene che unesperienza cos carismaticamente straordinaria non avviene nei comuni uomini, la cui mente da altro pu farsi dominare. Di pi, essi non riconoscono la mente cos come fa Dante, quando cos scrive: Onde si puote omai vedere che mente: che quella fine preziosissima parte de lanima che deitade (Cv. III, ii).

Lesperienza sconcertante della Beatrice lo guida, dunque, alla conoscenza piena e completa della realt antropologica delluomo, intesa come unit di corpo anima spirito, cio come espressione della realt tutta: visibile e invisibile, materiale e spirituale, temporale ed eterna, umana e divina. Cio unione di aldiqu-sensi e di aldil-spirito. A unire corpo e spirito lanima, che fa da ponte tra i due. lanima a produrre le immagini.

Non facile, in ogni tempo, parlare di anima e spirito, soprattutto distinguendo tra anima e spirito, visto che, tra gli altri, gli stessi carismatici san Paolo e santa Teresa dAvila ne trattavano con pru-denza, se non con tremore, proprio perch ne avevano conoscenza esperienziale. Conoscevano la realt del verba deficere.

Dante, per, quando ci dice che delle due realt, lanima e lo spiri-to, fassi unalma sola (Purg. XXV, 74), assegna allanima il compito proprio di ogni essere animale, cio lessere animato, ed allo spirito quello proprio delle attivit intellettuali pi alte, fino alle pi anagogicamente, misticamente, fini.

Ci vorrebbero ora, a sostegno del Dante anagogico, i grandi misti-ci a dirci qualcosa di pi sul rapporto che lanima ha col corpo e quello che ha con lo spirito; oppure, pi correttamente, quello che lo spirito ha con lanima.

Dato che Dante non lo nasconde, solo un commento anagogico, del tutto novo, potr adeguatamente dirci di pi su questi aspetti delle relazioni spirituali presenti nella sua opera, che, sempre pi, si evi-denzia come opera di un dottore (dottrina dare).

A noi ora interessa, parlando del Dante anagogico, ricordare quanto importanti siano le particolari fenomenologie vissute durante lesperienza della vita nova. E questo, a partire da quegli strani

Dante anagogico 323

sonni che danno in speciali sogni in cui si manifestano visioni (non il caso ora di approfondire la questione della visio in somniis o in veglia e neppure quella della realt delle visione o della veggenza nelle loro diverse manifestazioni). Di queste potrebbero un poco pi importare quelle e non sono poche che diventano profetiche circa la propria vita e che Dante cerca di capire, in questo aiutato dalle sue guide (Amore in Vita Nuova e Virgilio-Beatrice-Bernardo nella Comeda).

Tuttavia, qualora fossero lette ed intese solo psicologicamente e non spiritualmente, esse risulterebbero riduttive rispetto alla loro real-t e, soprattutto, rispetto alla funzione che hanno nellopera di Dante, intesa anche e soprattutto in pro del mondo che mal vive. Non scorretto ricordare che il mal vive dipende anche da difetto di dottrina (dottrina dare, la quale altri veramente dare non pu, Cv. I, ii), di ammaestramento (Detto che per difetto dammaestramento gli antichi la veritade non videro de le creature spirituali, Cv. II, v) intorno alla realt nova e novissima.

Si deve perci leggere con ri-novata attenzione quanto Dante dice a proposito di Beatrice, in vita e in morte. Si dice in morte perch anche questa pu essere letta come espressione di unaltissima feno-menologia mistica. Sono state, infatti, ormai ben studiate tanto la na-scita quanto la morte mistica. E a questultimo proposito mi soffermo su un punto assai importante per lintelligenza del Dante anagogico.

Se, come si detto, allegoricamente, o meglio anagogicamente, si accetta Beatrice come proiezione dello spirito di Dante, allora si risolve facilmente la crux, per la quale Dante lascia ad altri la celebra-zione della morte di Beatrice in quanto, se lo facesse, egli si farebbe laudatore di se medesimo. Perci lascia ad altro chiosatore il compi-to, che potrebbe essere il mio ora.

Il considerare Dante e Beatrice come la stessa persona, o meglio Beatrice come parte della totalit di Dante, rinvia ad un particolare non trascurabile in chi legga allegoricamente nel senso qui indicato Beatrice. Il Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice (Purg. XX, 73), nel Paradiso terrestre, sottolinea quel ci che rinvia ad un noi non altrimenti intelligibile.

Il Dante anagogico questo Dante che non pu essere inteso per vie storico-filologiche, ma per altra via, mistico-carismatica.

Infatti il rapporto tra la propria carismatica esperienza personale e la sua resa allegorica viene da Dante associata ad un versetto biblico, preso dal salmo CXIII: In exitu Israel de gypto. Tra i mille possibi-li, questo, tre volte reiterato, viene elevato da Dante allo status di chiave ermeneutica.

Vittorio Cozzoli 324

Mi pare che fino ad oggi non si sia sufficientemente dato valore a questo dato. un fatto incontestabile: ogni volta che Dante sottolinea la propria polisemia, sempre si serve di questo versetto, cos altamen-te simbolico.

I luoghi della citazione, ben conosciuti, sono: Cv. II, i, 6; Purg. II, 46-48; Ep. XIII, 7.

A noi interessa far emergere dalla spiegazione del rapporto lettera-allegoria quanto faccia riferimento allanagogia, soprattutto allana-gogia che riguarda personalmente Dante.

Ci significa comprendere il fatto che, quando Dante allude, autotestimoniando anagogicamente, alluscita dellanima dal corpo, con preciso riferimento alla propria esperienza, lo fa servendosi di questo versetto.

Luscita, lin exitu dellanima dal corpo, pu accadere in due modi: ordinario, con la morte che separa definitivamente il corpo dallanima; straordinario, con una uscita temporanea (in qualche modo ricondu-cibile ad una morte mistica, carismatica).

Questo pu essere dato per fare un esempio preso dalla fenome-nologia mistica straordinaria da stati particolari, che vanno dai vari gradi di estasi (che, secondo san Tommaso, pu essere di due tipi: affettiva e di conoscenza), al ratto, fino a particolari altri stati di veggenza.

Torniamo allIn exitu Israel de gypto, poich riguarda diretta-mente il Dante anagogico.

Dante, riferendosi allallegoria, in Convivio e mi scuso per il ripe-tere cose risapute dice che sempre

lo litterale dee andare innanzi, s come quello ne la cui sentenza li altri sono inclusi, e sanza lo quale sarebbe impossibile ed in-razionale intendere a li altri, e massimamente a lo allegorico (Cv. II, i).

assai importante questa sottolineatura della preminenza del

letterale, poich serve anche da base di riferimento per la realt degli episodi mistico-carismatici di cui protagonista. Essi sono la lettera di Dante. Perci, quando nellEpistola XIII a Cangrande assegna allanagogia la funzione di indicare lin exitu dellanima dal corpo, cos scrive: [] se a quello anagogico, significa luscita dellanima santa dal servaggio di questa corruzione alla libert della gloria eterna (si ad anagogicum, significatur exitus anime sancte ab huius corruptonis servitute ad eterne glorie libertatem, Ep. XIII, 7).

In che senso tutto questo fa riferimento alla persona di Dante, al

Dante anagogico 325

Dante anagogico? Lo si pu meglio intendere ritornando alla Vita Nuova. Scelgo un paio di passi di preciso riferimento a stati per i quali

appropriato parlare di esperienza in exitu. Il primo fa riferimento ad un episodio che cos descrive:

Allora fuoro s distrutti li miei spiriti per la forza che Amore prese veggendosi in tanta propinquitade a la gentilissima donna, che non ne rimasero in vita pi che li spiriti del viso; e ancora questi rimasero fuori de li loro istrumenti [] (V.N. XIV).

Ci muove lamico a chiedere spiegazioni a Dante, il quale risponde con parole apparentemente enigmatiche: Io tenni li piedi in quella parte de la vita di l da la quale non si puote ire pi per intendimento di ritornare.

Non il caso di sottilizzare per cercare unaltra spiegazione per questo straordinario in exitu, sul quale, appena dopo, Dante torna con queste parole esplicative: [] cio quando dico che Amore uccide tutti li miei spiriti e li visivi rimangono in vita, salvo che fuori de li strumenti loro. Parole queste cui fa seguire immediatamente, come necessarie qui pi che altrove:

E questo dubbio impossibile a solvere a chi non fosse in simile grado fedele dAmore; e a coloro che vi sono manifesto ci che solverebbe le dubitose parole: e per non bene a me di dichia-rare cotale dubitazione, acci che lo mio parlare dichiarando sarebbe indarno, o vero soperchio.

Infatti inutile sarebbe per chi non gli crede e superfluo per chi crede alla realt della sua esperienza in exitu.

Laltro cenno, a proposito dellesperienza in exitu del Dante anagogico, si trova nel paragrafo XXIII della Vita Nuova, l dove la strana assenza di Dante fa dire ai presenti: Questi pare morto.

Al Dante che in quegli speciali momenti pare morto, ma morto ancora non e non ha ancora subito i primi due novissimi, morte e giudizio, concesso il provvidenziale altro viaggio per avere espe-rienza dello status animarum post mortem (Ep. XIII, 8). Per questa via e per questo modo pu dare immagine visibile a realt invisibili, data la condizione smaterializzata degli spiriti.

E questo per ricordare, a s e ai suoi lettori, che gli uomini sono spiriti incarnati, chiamati al compimento ultimo della propria libera

Vittorio Cozzoli 326

scelta, che Dio conosce ab aeterno e luomo compie, rendendola concre-ta nel tempo, per mezzo di quella scelta della diritta via, diritta via della giustizia (dando a questa un valore pi spirituale che stretta-mente giuridico), che pu essere smarrita o ritrovata o perduta per sempre.

Questo Dante, il Dante anagogico, quello che conosce per espe-rienza carismatica la realt di cui parla incessantemente, riunendo, alla fine in un tutto, il principio di tali esperienze fatte in vita nova con il loro compimento avvenuto con la divinizzazione in Dio.

Non qui possibile iniziare una campionatura delle esperienze anagogiche cui fa riferimento Dante e che vanno colte litteraliter quan-to alla loro realt, ma allegorice quanto alla loro resa, cio nella fictio. Cosa che pu essere riferita a quella confessione di mistico e di scritto-re chiamato a dire lindicibile, come leggiamo nel XXIII del Paradiso, a proposito del figurando (Par. XXIII, 61):

Ma chi pensasse il ponderoso tema

e lomero mortal che se ne carca nol biasimerebbe se sottesso trema

(Par. XXIII, 64-66) Con queste parole, vengo a me ed al mio personale ponderoso

tema, che consiste nellaprire una via nova a Dante, dando credito alla realt del Dante anagogico e, per conseguenza, cercando di dare documentazione di quanto egli, a questo proposito, dice di s nella propria opera.

Il mio contributo, sul qual si potr continuare la ricerca, pu essere veramente inteso come nuovo. Cio secondo Dante.

Da parte mia devo, dunque, confessare di aver avuto il coraggio di credere in quella via nova, in quella vista nova e in quella intelligenza nova, di cui Dante parla sul finire della Vita Nuova, la cui novitas, intesa secondo Dante, divenendo luce nuova (Cv. I, viii), fa riferimento alla realt ultima della Realt, cio alla realt dello Spirito, oltre la quale non vi altro da concepire (Ep. XIII, 33), n da perseguire. Sigilla, infatti, lEpistola a Cangrande con queste parole: Vedere Te il fine (Ep. XIII, 33).

questo, e solo questo, il fine del suo altro viaggio, cio quel viaggio anagogico, col quale Dante, guidato da Virgilio (proiezione della sua anima naturale non ancora divinizzata), da Beatrice (proie-zione dellanima divinizzata, cio del suo spirito in quanto divino) e da Bernardo (proiezione della sua personale condizione mistico-carismatica straordinaria) giunge alla divinizzazione, compiendo cos

Dante anagogico 327

la propria missione scrittoria e profetica. Questultima , dunque, da intendersi sia in chiave apocalittica (in quanto rivelatoria delle realt spirituali, le perenni e lEterna), sia in chiave politica, che non pu essere scissa da quella apocalittica.

Essendo il mio lavoro, per tutti questi aspetti, veramente nuovo, non ho potuto valermi di studi precedenti, sia pure come fonti secon-darie rispetto a quanto Dante, come fonte primaria, dice di s. Ho do-vuto perci muovermi con particolare attenzione sul piano delle con-seguenze metodologiche. Ritengo possa essere considerato scientifico almeno il contributo consistente nellaver reperito i luoghi in cui nella propria opera Dante dichiara, apertamente o velatamente, la propria personale diversitade.

So bene che tutto questo potrebbe muovere a resistenza chi abbia della scientificit e della realt una concezione diversa da quella di Dante. Tuttavia Dante stesso il primo a comprendere quanto fossero, al proposito, dubbiose le proprie parole anagogicamente allegoriche (in quanto proiezioni di esperienze straordinariamente carismatiche), a partire dalle iniziali della Vita Nuova.

In questo giovanile libello, il proprio pu apparire come alcuno parlare fabuloso (V.N. II), ma, in difesa della realt di esso, si servir di altre parole, come queste:

[] e per dico che questo dubbio io lo intendo solvere e dichiarare in questo libello ancora in parte pi dubitosa; e allora intenda qui chi dubita, o chi qui volesse opporre in questo modo (V. N. XII)

oppure invita il lettore dubitoso a rileggere quanto dice in Convivio quando sottolinea la radice de luna delle diversitadi chera in me (Cv. II, vii), oppure quando scrive:

Dico adunque: Io credo, canzone, che radi sono, cio pochi, quelli che intendano te bene. E dico la cagione, la quale dop-pia. Prima: per che faticoso parli faticosa dico per la cagione che detta ; poi: per che forte parli forte dico quanto a la novitade de la sentenza . Ora appresso ammonisco lei e dico: Se per avventura incontra che tu vadi l dove persone siano che dubitare ti paiano ne la tua ragione, non ti smarrire, ma d loro: Poi che non vedete la mia bontade, ponete mente almeno la mia bellezza (Cv. II, xii).

Dice questo l dove inizia ad aprire la verit allegorica della

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Canzone Voi che ntendendo il terzo ciel movete. dunque, ora di aprire un discorso non generico sullallegoria,

ma specifico sullallegoria dantesca ed in special modo sulla sua anagogia, veramente nuova, con la quale parla del proprio essere il Dante anagogico. lanagogia che ci porta in alto nellintelligenza spirituale di Dante.

A tuttoggi, infatti, manca una corretta e piena trattazione intorno allallegoria anagogica, cos che, per conseguenza, manca un commen-to filologicamente corretto dei significati anagogici sottesi a tutta lopera di Dante.

Dicendo tutta, si intende rivolgere lattenzione non alla sola Comeda, ma anche alla fondante Vita Nuova, al Convivio che la porta rationaliter pi in l. Non vanno dimenticate certe specialissime alle-gorie anagogiche proprie delle Rime, nonch essenziali cenni presenti nel Monarchia. Non possibile, rispettando gli spazi oggi consentiti, arrivare allindicazione ed allanalisi di tanti luoghi cos specifici, meritevoli dellattenzione di una filologia veramente nova.

A conforto di questa tesi, tuttavia, pu essere detto che oggi anche le scienze cominciano ad avere un diverso e meno ideologico approc-cio alle fenomenologie mistiche straordinarie.

Un segno importante, riguardo al nuovo atteggiamento scientifico, dato dal rifiuto di considerare tali fenomenologie come unicamente prodotte da alterazioni patologiche. Le metodologie scientifiche, coerentemente col proprio statuto epistemologico, non possono uscire dallambito loro proprio e sentenziare intorno alla realt smaterializ-zata, dello Spirito. Gli stessi mistici si mostrano assai prudenti (e non solo per umilt) quando, per riferire le altissime esperienze, devono usare le limitanti e limitate parole umane.

Lo scienziato epistemologicamente corretto sa che, non potendo uscire dal limite della fisicit, non vuole andare al di l della sua scientifica leggibilit.

Proprio questo ben compreso e comunicato da parte di Virgilio a Dante, che sta guidando fino al limite dellintelligenza razionale, che da sensato apprende. Muovendolo al di l del s razionale ed avvicinandolo alla realt beatrice (cio lanima divinizzata e proiet-tata nella figura di una donna), cos pu dirgli: Quanto ragion qui vede, / dir ti possio; da indi in l, taspetta / pur a Beatrice, ch opra di fede (Purg. XVIII, 46-48). La questione del da indi in l e lana-gogica.

Lo spirito, per il quale guida Beatrice, richiede altri modi di cono-scenza, di esperienza. Se Virgilio lo aiuta a conoscere secondo le leggi dellanima naturale, Beatrice gli insegna altre leggi, quelle dellanima

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divinizzata, secondo la conoscenza soprannaturale propria dello spiri-to.

La realt, di cui Dante tratta, una, e nella sua totalit fatta di visibile e di invisibile, di materiale e di spirituale, di temporale e di eterno, di umano e di divino.

Anche la realt antropologica, coerentemente, secondo questo schema, concepita e vissuta da Dante come una, nella triplicit delle sue dimensioni: visibile il corpo, invisibili lanima e lo spirito.

Didatticamente, si pu dire che lanima fa da ponte tra corpo e spi-rito. E lo si intenderebbe pi a fondo se leggessimo anagogicamente anche il Purgatorio, regno temporaneo della purificazione dellanima, dato che il Paradiso e lInferno sono perenni nelleterno.

Per Dante lunit delluomo si fonda sul modello col quale Dio lha creato, cio con quel perfetto equilibrio tra corpo-anima-spirito, che fu sperimentato dal solo Adamo, nelle poche ore di sosta nellEden, come leggiamo nel XXVI del Paradiso.

infatti con queste parole che Dante, rientrato nellEden dove ha ri-guadagnato la divinizzazione (ma non ancora lindiazione) gli si rivolge: O pomo che maturo / solo prodotto fosti (Par. XXVI, 91-92).

Qui maturo fa riferimento a quella unit in perfetto equilibrio (equilibrio tra corpo-anima-spirito) che si perdette a causa dello squilibrante trapassar del segno, cui consegu lin exitu dallEden. La maturit questo perfetto equilibrio, cos difficile da raggiungersi da parte dellhomo viator.

Fuori dallEden luomo fa esperienza della perdita delloriginario equilibrio (lunit di quella forma, orma, norma che si nomina allinizio del Paradiso) e sperimenta lo squilibrio per cui, per malo uso della libert, pu divenire selva. Ci accade quando il corpo si ribel-la allo spirito e chiede prepotentemente, dis-misuratamente, il suo.

Gli istinti-alberi del corpo, creati buoni e per il bene, capovolgono il loro senso e scopo, non pi ponendosi come mezzi al servizio dello spirito. Cosa questa che san Paolo spiega assai bene, indicando la leg-ge delluomo de-caduto dalloriginaria condizione.

Non a caso Dante dice che questa selva, che ognuno sperimenta in s, non solo selvaggia, aspra e forte, ma ha anche il duro potere di rendere oscura lintelligenza.

Questultima perde progressivamente il suo rapporto con la realt nova, la quale per sua natura luminosa, e chiede di essere nuova-mente restituita alla gloria originaria.

Selva diviene il corpo, quando, rottosi lequilibrio originario, e sostituendosi alla gloriosa donna de la mia mente, la donna-domina, domina con i suoi istinti lintelletto e impedisce alluomo di

Vittorio Cozzoli 330

vedere la luce e goderne. Di pi, se gli fosse possibile impedirebbe, negandola, lesistenza stessa dello spirito, la sua presenza reale.

Per questo Dante nel suo Convivio scrive:

ch non altrimenti sono chiusi li nostri occhi intellettuali, men-tre che lanima legata per li organi e incarcerata per li organi del nostro corpo (Cv. II, iv).

Non dice questo perch la sua fonte Platone, ma perch conosce

per personale esperienza, grazie allin exitu, cosa anima-spirito (unalma sola, Purg. XXV, 74) e cosa corpo: solo grazie a questa esperienza carismatica conosce la differenza qualitativa della cono-scenza tra per mezzo del corpo e fuori del corpo.

Il corpo rende in-visibile il visibile; lo tiene come prigioniero, tanto da muovere Dante (in quanto mistico gi esperto delle straor-dinarie fenomenologie carismatiche) a desiderare spesso, come accade ai grandi mistici, quellin exitu Israel de gypto, che sperimenta a partire dalla puerizia e dalla prima giovinezza. Qui si comprende il valore del finale lardor del desiderio in me finii (Par. XXXIII, 48).

Tuttavia, perduti lin exitu e gli episodi carismatici dopo la morte di Beatrice, essi saranno salvificamente a lui ri-donati in modo da poter compiere (in pro del mondo che mal vive) il suo carismati-co altro viaggio.

questo il motivo per cui Dante richiama la necessit dellin exitu nei luoghi pi importanti dei suoi riferimenti allanagogia.

Lin exitu il modo straordinario che consente il ritorno nella realt alta dello spirito, nellaltus/profondo dello spirito. Cio in Cielo.

Per Dante tutto questo, di cui andiamo parlando, non pura fictio, ma realt, e proprio da ci viene la fortissima insistenza sulla necessit di unintelligenza allegorico-anagogica.

A richiamare i suoi lettori si applica non solo teoricamente l dove (soprattutto in Convivio) esplica la dottrina allegorica (Cv. II, i), ma soprattutto in quei luoghi dove esplicita spesso, tuttavia, scherman-do, a partire dalla Vita Nuova il riferimento alla propria fenomenolo-gia mistico-carismatica straordinaria.

Fino ad oggi non si ancora posta realmente la questione della-nagogia in Dante, n, tanto meno, quella della speciale condizione personale di Dante. Pi spesso la si colta in termini di pura retorica e cos si finito per ridurne limportanza. Infatti la si ridotta o emar-ginata, o in toto negata.

Per questo dicevo che Dante prepotentemente tornato tra noi, ma non tutto, poich la parte pi bella e nova della sua opera anco-

Dante anagogico 331

ra viene lasciata in esilio, non lasciandogli dire quello che era sua intenzione comunicare secondo la sua intentio profundior. Cio ricorda-re agli uomini, testimoniando per carismatica conoscenza, la loro identit di spiriti incarnati ed il loro novissimo fine.

C un altro aspetto da considerare circa la questione anagogica e la specifica anagogia dantesca: quello per cui Dante non fa coincidere la propria anagogia con quella tipica dellesegesi biblica medievale. Non la nega, anzi ortodossamente se ne serve, non trovando contrasti tra la propria esperienza anagogica (nova e novissima) e quella dei novissimi (Inferno, Paradiso).

sempre veritiero a questo proposito, dato che si sempre preoc-cupato di dare fondamento al litterale (Cv. II, i), indicando come letterale la straordinariet delle proprie esperienze (Ep. XIII). Non un caso che nellEpistola ai Cardinali dItalia, facendo riferimento alla propria missione profetico-scrittoria, cos dica di s:

[] s, vero: io non sono una delle ultime pecorelle dei pascoli di Ges Cristo; vero, io non abuso di nessuna autorit pasto-rale visto che non sono ricco. Ma questo vuol dire che sono quel che sono non grazie alle ricchezze ma per grazia di Dio e lo zelo della sua casa mi divora (Ep. XI, 5).

Il richiamo risente dellincessante ammonimento profetico della

Chiesa carismatica alla Chiesa istituzionale, cosa che rinnova un contrasto, o una invito alla collaborazione, gi presente, a partire dagli inizi stessi della Chiesa (con la disputa tra Pietro e Paolo, ma anche presente nel Vangelo di Giovanni).

Quella dantesca unallegoria da considerare con attenzione. E prima di entrare nella questione del Dante anagogico, con i riferimenti necessari che Dante fa circa s, forse opportuno riconsi-derare quale allegoria possa essere idonea a Dante.

In genere, studiando lallegoria di cui si occupa lesegesi biblica medievale, ci si rif agli studi di Henri de Lubac oppure a certi altri condotti dai domenicani sul sistema esegetico di san Tommaso, evitando di giungere a certe esasperazioni intorno al letteralismo o allallegorismo.

Comunque sia, lallegoria, fondata sulla lettera, prevede tre succes-sivi livelli: lallegoria vera e propria, la tropologia e lanagogia. Dante stesso ne d conferma nel Convivio e nellEpistola XIII.

Certo, c stato chi ha voluto invertire la posizione della tropologia e dellanagogia, con ragioni giustificanti tale inversione, cos da mo-strare il perch finale di un livello piuttosto che dellaltro. Basterebbe

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riandare alle dispute medievali tra francescani e domenicani, ma in termini danteschi la questione risolvibile proprio a partire dalla retta impostazione della sua allegoria. Che potrebbe essere cos espressa: Dante va dalla terra in Cielo, e questo salire la sua anagogia, ma poi torna dal Cielo in terra a profetizzare intorno ai tralignamenti, e questo la sua tropologia.

Ce da aprire nuovamente il discorso, posto dal Dante anagogico, intorno alle due parti della triplice allegoria.

Per avvicinarci in modo pi approfondito ad essa, ora vorrei fare due riferimenti.

Il primo allEnciclopedia dantesca, cio alla voce dedicata al termine anagogico; il secondo al Dictionnaire de Spiritualit, di cui pi avanti mi servir.

LEnciclopedia dantesca dedica alla voce anagogico poco pi di una colonna, contro, per fare un esempio, le pi di cinque concesse alla voce anafora, che la precede. Gi questa una spia dellat-teggiamento, o non ancora inteso o violentemente riduttivo, di molta dantologia verso lanagogia dantesca.

Secondo lestensore della voce, lanagogico termine tecnico, col quale si designa

quel procedimento interpretativo (senso allegorico) per il quale il testo della Scrittura, letto alla luce delle verit supreme, diviene uno strumento di superiore conoscenza.

Afferma anche che Dante lo chiama sovrasenso, ma non lascia

meglio comprendere come vada ci inteso, lasciando il lettore in una condizione di dubbio interpretativo. Il che significa: o intenderlo come un senso riposto sopra un altro di base (con fondamento storico-letterale, ideologico-culturale) attraverso unarbitraria attribuzione aggiuntiva di significato, che in s la lettera non avrebbe; oppure come un senso posto a livello pi altus, nella lettera stessa e che ne costitutivo integrale ma nascosto.

Questultima la posizione di Dante (vedi Cv. II, i): sempre lo letterale dee andare innanzi, s come quello ne la cui sentenza li altri sono inchiusi). Pertanto, per essere inteso secondo il Dante anagogi-co, la pienezza del suo sistema polisemico richiede al suo lettore unintelligenza nova, spirituale.

Torniamo alla voce dellEnciclopedia: essa chiude la breve trattazio-ne intorno allanagogico con queste parole: probabile che Dante non ritenesse in definitiva di poter attribuire alla sua opera il pi tipico dei sensi biblici. E questo nonostante lesplicita dichiarazione

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di Dante a proposito della propria intentio. Su questo non poter attribuire alla sua opera un significato anago-

gico Dante potrebbe sorridere, vedendo quanto scarso credito e quan-ta scarsa attenzione viene data a tutta la propria autotestimonianza, donata come indispensabile autoaccessus, nonch alla propria insosti-tuibile autoesegesi. Il problema, come si pu ben capire, assai pi che di natura metodologica.

Il discorso si fa qui sottilmente filologico e potrebbe indurre pi di un lettore a ricordare certi avvertimenti di Dante a chi non capisce quello che va dicendo, pregandolo, come in Convivo, di lasciar perde-re.

Dante richiede, anche alla nostra filologia, di essere fedele, pi che al proprio statuto scientifico, storico-culturale, al proprio compito originario, che quello di restituire ai lettori unopera nella originalit dellintentio profundior che lha originata.

Nel caso di Dante ci induce a considerare nuovamente la sua opera, rispettandone la totalit e la pienezza. Nel caso di Dante, lattenzione deve essere posta sulla totalit della sua produzione e sulla pienezza della sua polisemica scrittura.

La quale, a rettamente considerare secondo Dante, tutta posta sotto il segno della novitas, iniziandosi essa con la vita nova e concludendosi con la trattazione dei novissimi: Morte, Giudizio, Infer-no, Paradiso.

Tra noi e Dante la distanza o la vicinanza sta nella maggiore o minore condivisione del concetto di Realt. Ma sappiamo bene: quelle che per Dante sono delle realt, non lo sono pi per una cultura, come la nostra, a dominanza pi scientista che scientifica.

Perci, se la filologia opera con un metodo a base marcatamente storicistica e scientista, si trova epistemologicamente privata degli strumenti necessari per indagare una realt che, pur essendo ugual-mente reale, altra rispetto a quella fisica.

Perci manca degli strumenti per porsi in corretta lettura dei signi-ficati allegorici propri di Dante, che ha in comune con luniverso me-dievale molta della simbologia, ma rispetto a questa ha a disposizione la personale esperienza, carismatica, delle realt che sono di fede.

Lo si ripete, perch ancora una volta necessario: Dante la fonte prima delle proprie conoscenze della realt altra, la in-visibile; non il risultato di una trascrizione poetica di altre fonti. Quando opera in questo modo, lo fa ad esperienze avvenute, in modo da poter comuni-care le proprie per mezzo di un immaginario accessibile ai propri let-tori.

Dante, infatti, d forti segnali di autotestimonianza mistico-

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carismatica, tali da porre la sua stessa allegoria sotto la categoria della allegoria dei mistici, diversa sia da quella dei retori sia da quella dei teologi o biblica.

Con questultimo modello di riferimento possibile superare quel-lo, tradizionalmente accettato, della distinzione tra allegoria dei poeti (retorica) e allegoria dei teologi (biblica).

Dovendo noi affrontare lanagogia, che uno dei modi dellalle-goria, o meglio, dovendo noi affrontare pi specificamente quella dantesca, la bipartizione precedentemente richiamata non basta.

Seguendo le indicazioni date dalla voce allgorie del Dictionnaire de Spiritualit, possiamo fare riferimento ad una triplice distinzione tra le modalit dellallegoria: allgorie des retheurs, allgorie de la Bible, allgorie des mystiques.

Dopo aver ripetuto inizialmente la definizione che dellallegoria d santAgostino, cio un tropus ubi ex alio aliud intelligitur (De Trin. XV, 9, 15), la voce passa a trattare lallegoria dei retori, citando la definizione che Quintiliano d attraverso laliud verbis, aliud sensu ostendit (Inst. orat. VII, 6); ad essa lestensore della voce fa seguire le precisazioni sullallegoria della Bibbia o spirituale.

Qui si pone una distinzione fondamentale rispetto a quella dei re-tori: questultima verbale, la biblica o spirituale reale; cio, quella dei retori sta nelle parole, quella biblica nei fatti cui alludono. Per que-sta via si intende in modo nuovo, o novo, il rapporto tra realt e fictio, nel quale si ritrovano, accomunati, gli uomini di tutti i tempi.

Il riferimento alla realt dello spirito, se tale, non appartiene solo agli uomini del Medioevo cristiano, ma anche ai credenti ed agli uomini spirituali di ogni tempo. Tra questi ultimi emergono i mistici esperienziali, i quali esprimono le loro fenomenologie attraverso un linguaggio particolare (ampiamente studiato nei nostri anni), carat-terizzato dalle indicazioni date circa i modi ed i livelli dellesperienza stessa, sia pure ad modum recipientes (Ep. XIII, 20).

Detto questo, possiamo avvicinarci allallegoria dei mistici per meglio avvicinarci a quella dantesca, tenendo, per, ben presente che questa non coincide, come parrebbe ai pi, con quella dei poeti.

La voce del Dictionnaire de Spiritualit dice che la allegoria dei mi-stici tient de litteraire et de lallgorie biblique, cio partecipa delle caratteristiche sia retorico-letterarie, sia biblico-spirituali.

A meglio intendere, precisa che la allegoria dei mistici non pu consistere solo nelle metafore verbali, in quanto le parole dei mistici, quelle in cui si esplica lallegoria, hanno un valore che presuppone una rivelazione privata e certe segrete relazioni con Dio; nello stesso tempo, tuttavia, non pu coincidere con lallegoria biblica, visto che il

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carattere privato delle comunicazioni mistiche tale da indurre a prudenza (psicologica, oltre che teologica) chi le riceva. Rimane, tuttavia, sconcertante il fatto che solo Dante, allinfuori degli scrittori biblici canonici, si serve coscientemente della polisemia biblica. Anche su questo aspetto ci sar da indagare.

Certo, la prudenza! Non si dimentica, infatti, che gli stessi grandi mistici-dottori (resi tali da carismatica missione scrittoria) invitano a non vedere ovunque allegorie. Questo insegnano, come Dante fa nel Convivio, san Tommaso, santa Teresa dAvila e molti altri.

La voce del Dictionnaire de Spiritualit precisa ancor meglio questa allegoria propria dei mistici. Cos la traduco: Come le due altre, lallegoria dei mistici introduce una cosa dal campo ideale nel campo del mondo sensibile per ricondurla, attraverso il veicolo della metafo-ra, dal campo del mondo sensibile a un nuovo campo ideale. Occor-re, nel nostro caso, che Dante, evitare lequivoco di identificare lideale con lo spirituale (che viene dallesperienza dellin exitu dal corpo).

Ci significa portare unesperienza dello spirito nel campo della sensibilit, fisica o corporea che sia, attraverso la parola metaforizzata, in modo da ricondurre questultima alla sua significazione spirituale, altrimenti indicibile.

il discorso della successione dei momenti generativi: lesperienza in spirito la realt da esprimere; solo a posteriori la sua creativa trascrizione avverr per mezzo di una fictio.

Qui sta il problema del Dante anagogico: nel comprendere che la realt esperita viene poi scritta attraverso la pi alta fictio mai espres-sa.

Perci il mistico, che esprime la propria esperienza, ha in s la fonte prima del proprio vedere, conoscere.

Le risorse per esprimere tale carismatico vedere variano da misti-co a mistico, ma esse si esaltano nei mistici chiamati a missione scrit-toria. La categoria dei mistici scrittori o quella degli scrittori mistici tendono a confondersi, anche se non a coincidere.

Tutto questo, sia pur detto in grande sintesi, serve per far intende-re che lallegoria di Dante, di cui lanagogia parte integrante, pu essere avvicinata a quella propria degli uomini resi mistici dai doni carismatici di Dio.

Lo stesso Dante sa bene che pochi avrebbero dato credito allauto-testimonianza circa le fenomenologie carismatiche, di cui gli excessus mentis sono solo una delle forme da lui sperimentate, essendovene altre (le visioni in somniis si alternano a quelle in veglia). Sa che i pi inclinano ad intendere come fantasiose o fantastiche le sue visioni e il

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suo altro viaggio, cio accettandolo non come realt ma come espe-dienti poetici, squisitamente letterari, negandogli quel credito che vie-ne riconosciuto dalla Chiesa quando canonizza i propri Santi, e che, pur canonizzando, riconosce come private le rivelazioni del mistico.

Dante non era n asceta, n era riconosciuto per particolare santit. Di pi, era perseguitato da una Chiesa non certo disposta a dare credito alla sua profezia politica n, meno ancora, alla sua speciale condizione carismatica ed alla verit del suo altro vedere. Ma questo doversi proteggere dallincomprensione o dagli attacchi dei suoi ne-mici era cominciato assai prima delle questioni politiche. Era iniziato negli anni della prima infanzia e della giovinezza, quando la sua vita era stata sconvolta dallapparuit beatitudo vestra, dalla esperienza della gloriosa donna, della realt beatrice, proiettata stilnovisti-camente nellamore per una donna, chiamata Beatrice, senza che gli altri avessero coscienza del che si chiamare. Da qui prese ad auto-commentarsi, a scrivere opere che altro non erano che un autocom-mento di straordinarie esperienze.

Dante diviene Dante per questa via, nova e novissima. Assai importante , dunque, quanto espresso allinizio del Convi-

vio, dove si leggono queste parole, assai conosciute, ma forse non intese pi a fondo, cio secondo il Dante anagogico:

E se ne la presente opera, la quale Convivio nominata e vo che sia, pi virilmente si trattasse che ne la Vita Nuova, non in-tendo per a quella in parte alcuna derogare, ma maggiormente giovare per questa quella; veggendo s come ragionevolmente quella fervida e spassionata, questa temperata e virile esser conveniente (Cv. I, i).

Veramente decisivo questo passo, per intendere il Dante anago-

gico, cio il Dante che conferma le esperienze mistico-carismatiche della propria vita nova, ma sente la necessit di dirle in modo tale da non farle apparire un parlare fabuloso, ma uno degno di essere trattato razionalmente, secondo ragione, e quindi di renderlo altri-menti intelligibile.

Col Convivio Dante rinviava allinizio stesso della propria vita, resa appunto nova dalla visione della realt nova, cio ultima, che lo spirito, che viene proiettato in Beatrice, resa cos figura della realt Beatrice presente in ogni uomo.

Tale non potrebbe essere n la realt del corpo n quella dellani-ma, dato che n luno n laltra danno beatitudine, ma passeggeri, non appaganti soddisfacimenti e stati emotivi, come gli innamoramenti

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passionali. Per questo Dante parla di amore nuovo in un ambito, quale

quello stilnovistico, che pensava di aver fissato una nuova condizione e un nuovo linguaggio dellesperienza damore.

La novitas di Dante ancor pi sconcertantemente nuova di quella stilnovistica, del cui linguaggio, tuttavia, si serve, ben comprensibil-mente, per pi di un motivo. Lamore nuovo di Dante supera quali-tativamente quello stilnovistico: psicologico questultimo, spirituale il suo.

lo spirito novo che rende lanima non pi solo animata e animale, ma in qualche modo divina, cio simile al Dio che ha voluto creare luomo simile a S, facendone uno spirito incarnato. A questo riconoscimento Dante vuole condurre i suoi lettori, per condurli poi assai pi in l.

C, insomma, una questione anagogica dantesca che riguarda la sua persona, cio quella sua speciale condizione che gli consente di esprimersi con parole come queste, testimonianti

la novitade de la mia condizione, la quale, per non essere da li altro uomini esperta, non sarebbe da loro intesa come da coloro che ntendono li loro effetti ne la loro operazione (Cv. II, vi).

Questo lo autorizza a dire quello che ad altri non concesso:

Laltra quando, per ragionare di s, grandissima utilitade ne segue altrui per via di dottrina [] muovemi desiderio di dot-trina dare la quale altri veramente dare non pu (Cv. I, ii).

Cos si rivolge a coloro che nel suo e nel nostro tempo non inten-

dono le diverse forme del vedere nella loro totalit e mancano dellesperienza del vedere in spirito.

Per questo Dante deve essere evangelicamente prudente. Sa che il consiglio di non dire a tutti le realt pi profonde e sacre non solo un comandamento necessario per distinguere il dire essoterico da quello esoterico, ma un nascondere la propria esperienza, che sarebbe assai da pochi intesa e condivisa. Rinvia, perci, al Voialtri pochi del canto II del Paradiso.

Cos, quando in Convivio, per confermare quanto rivelato di s nella Vita Nuova, scrive E avvenga che duro mi fosse ne la prima en-trare ne la loro sentenza, finalmente ventrai entro, quanto larte di grammatica chio avea e un poco di mio ingegno potea fare; per lo quale ingegno molte cose, quasi come sognando, gi vedea, s come ne

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la Vita Nuova si pu vedere (Cv. II, xii), d conferma, anni dopo, alla realt della fenomenologia mistica, che lo pose in relazione alla realt dello spirito. Ed ci che fa di Dante il Dante anagogico non ancora riconosciuto, lasciato ancora in esilio.

Poeta e saggista, Cremona

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

VITTORIO COZZOLI, ERMINIA LUCCHINI, Lettura anagogica del canto XXIII del Paradiso, Borgo alla Collina, Arezzo, Accademia Casentinese di Lettere Arti Scienze ed Economia 1981.

VITTORIO COZZOLI, Il Dante anagogico. Dalla fenomenologia mistica alla poesia anagogica, Chieti, Solfanelli 1993.

DANTE ALIGHIERI, Vita nuova; introduzione e commento di Vittorio Cozzo-li, Milano, EDIS 1995.

VITTORIO COZZOLI, Il viaggio anagogico. Dante tra viaggio sciamanico e viaggio carismatico, Trieste, Battello 1997.

ID., Dante anagogique, Coscience. LAge dHomme, III (2001). ID., Dante et la paix, in Congrs International de lAssociation des Socits de Philosophie de Langue Franaise, Paris, Vrin 2002.

ID., Ubi amor ibi oculus. Locchio di Pound, La profezia della poesia, Gli oc-chi di Beatrice, Rimini, Raffaelli 2005.

ID., La guida delle guide. Dante secondo Dante, Trieste, Battello 2007. ID., Leggere Dante secondo Dante. Tre lezioni dantesche (14, 21, 28 aprile

2010), Cremona, Editrice ADAFA 2010.

ENRICO CATTANEO

DANTE E I PADRI DELLA CHIESA Nel Canto IX del Paradiso, Dante fa dire a Folco da Marsiglia,

poi vescovo di Tolosa, una parola critica contro gli ecclesiastici del suo tempo, e conclude nei seguenti termini (vv. 133-135):

Per questo lEvangelio e i dottor magni

son derelitti, e solo ai Decretali si studia, s che pare a lor vivagni.

Dunque, secondo Dante, i mali che affliggono la Chiesa sono

causati dal fatto che si abbandonato lo studio della sacra Scrittura (lEvangelio) e dei Padri della Chiesa (i dottor magni), per occuparsi di Decretali, cio di quelle questioni di diritto canonico, che regolavano le assegnazioni delle rendite e dei benefici. interessante anzitutto notare come Dante associ la Scrittura e i Padri in uno stretto binomio: in effetti, per i Padri della Chiesa la Scrittura fu un costante punto di riferimento; essi, come dice una Istruzione della Congregazione per lEducazione Cattolica, sono in primo luogo ed essenzialmente dei commentatori della Sacra Scrittura1. Senza alcun dubbio, la Sacra Scrittura era per essi, come si legge ancora dal suddetto Documento,

oggetto di incondizionata venerazione, fondamento della fede, argomento costante della predicazione, alimento della piet, anima della teologia. Ne hanno sempre sostenuto lorigine di-vina, linerranza, la normativit, la inesauribile ricchezza di vigore per la spiritualit e dottrina2.

Vale per tutti ci che il grande studioso e storico dellantichit cristia-na, Henri-Irne Marrou, ha detto a proposito di santAgostino:

1 CONGREGAZIONE PER LEDUCAZIONE CATTOLICA, Lo studio dei Padri della Chiesa nel-

la formazione sacerdotale. Istruzione, 10 novembre 1998, n. 26. Cfr. AGOSTINO, Il libero arbitrio, 3,21,59; La Trinit, 2,1,2: i Padri sono divinorum librorum tractatores.

2 Lo studio dei Padri, cit., n. 26.

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La sacra Scrittura per lui la somma di ogni verit, la fonte di ogni dottrina, il centro di qualsiasi cultura cristiana e di qualsia-si vita spirituale; se la sua teologia strettamente biblica, la sua catechesi non lo meno. Via via che ci si familiarizza con lopera e lo stile di SantAgostino, si avverte sempre pi distin-tamente questa presenza della Scrittura3.

Dante non usa lespressione Padri della Chiesa, ma nel passo sopra citato ne adopera una equivalente: i dottor magni, cio i grandi maestri. In effetti, il titolo di magnus fu dato gi nellantichit, ricalcando un uso ellenistico pensiamo ad Alessandro Magno ad alcune rilevanti figure di pastori e maestri: basti citare, per lOriente, Atanasio il Grande (295ca-373) e Basilio Magno (330-379); per lOccidente, i papi Leone Magno (440-461) e Gregorio Magno (590-604). Questultimo nominato da Dante in Par. XXVIII, 133, a proposi-to delle gerarchie angeliche.

Labbandono dello studio dei Padri, lamentato nel canto IX del Paradiso, sottolineato, quasi negli stessi termini, anche in un passo della Epistola XI, 16 ai cardinali. Scrive il sommo Poeta apostrofando la Chiesa e non senza una certa enfasi retorica:

Iacet Gregorius tuus in telis aranearum; iacet Ambrosius in neglectis clericorum latibulis; iacet Augustinus abtectus, Dionysius, Damascenus et Beda; et nescio quod Speculum, Innocentium et Ostiensem declamant. Cur non? Illi Deum querebant, ut finem et optimum; isti census et beneficia conse-cuntur.

Anche qui Dante contrappone lo studio dei Padri della Chiesa,

ormai negletti, a quello dei decretalisti: i primi cercavano Dio, i secondi invece inseguono i benefici ecclesiastici. Oltre a quattro Padri occidentali (Gregorio Magno, Ambrogio, Agostino e Beda il Venerabile), lAlighieri nomina anche due Padri orientali, Dionigi lAreopagita e Giovanni Damasceno, conosciuti in Occidente grazie alle traduzioni latine delle loro opere.

Nel Canto X del Paradiso, nella corona dei dodici sapienti sono nominati alcuni autori che secondo i nostri canoni appartengono al periodo patristico4: Dionigi lAreopagita, Severino Boezio, Paolo

3 HENRI-IRENE MARROU, Saint Augustin et l'Augustinisme, Paris, Aubier 1955, p. 57.

Cfr. La Bibbia nei Padri della Chiesa. L'Antico Testamento, a cura di Mario Naldini, Bolo-gna, EDB 1999.

4 Per convenzione, si ritiene comunemente che il periodo patristico si chiuda nellVIII secolo, con Isidoro di Siviglia (nominato in Par. X, 131) e Giovanni Damasceno.

Dante e i Padri della Chiesa 343

Orosio5, Isidoro di Siviglia6 e Beda il Venerabile7 (Par. X, 121-131). Due terzine sono dedicate al filosofo Severino Boezio (480-526), console e senatore, fatto uccidere da Teodorico:

Per vedere ogni ben dentro vi gode

lanima santa, che l mondo fallace fa manifesto a chi di lei ben ode;

lo corpo ondella fu cacciata giace giuso in Cieldauro; ed essa da martiro e da esilio venne a questa pace (Par. X, 124-129)

Circa linfluenza di Boezio su Dante ha scritto recentemente Francesco Tateo:

Il diretto influsso di Boezio pu riconoscersi come fondamenta-le, quantunque intrecciato con altre fonti, nella formulazione della dottrina del libero arbitrio, che occupa la parte conclusiva del De consolatione e diviene uno dei punti nevralgici del mes-saggio dantesco8,

aggiungendo ancora:

Le parti metriche del De consolatione, che costituiscono talora splendidi esempi di lirica religiosa, divennero per Dante spunti assai suggestivi, specie per quelle parti della Commedia in cui la narrazione si apre al tono mistico dellinno9.

Quindi i grandi santi medievali, come Francesco, Domenico, Pier Damiano, Bernardo, Alberto, Tommaso, Bonaventura e cos via, sono esclusi dalle nostre considerazioni.

5 Par. X, 118-120: Ne laltra piccoletta luce ride / quello avvocato de tempi cristia-ni, / del cui latin Augustin si provvide. Se si segue la variante templi, al posto di tempi, sembra evidente lallusione ad Ambrogio, come facevano gli antichi commentatori. Oggi preferita la lezione tempi, e allora il personaggio sarebbe Paolo Orosio, prete spagnolo, che scrisse una Historia adversus paganos proprio su invito di s. Agostino. Dan-te conosceva questopera, di cui cita alla lettera un passo, diventato famoso, a proposito della lussuriosa regina Semiramide, che libito f licito in sua legge (Inf. V, 56). Orosio aveva scritto della regina: Praecepit [] ut cuique libitum esset, licitum fieret (Hist., I 4, 8). Altri per ritengono che quello avvocato de tempi cristiani sia Mario Vittorino, o Tertulliano, o Lattanzio (cfr. UGO NICOLINI, in Enc. dant., I, p. 201).

6 Isidoro di Siviglia (+ 636) considerato negli attuali manuali di Patrologia come lultimo dei Padri latini.

7 Beda il Venerabile (+735) considerato il pi grande erudito dell'Alto Medioevo, e annoverato tra i Dottori della Chiesa.

8 FRANCESCO TATEO, in Enc. dant., I, p. 656. 9 Ivi, 657. Cfr. ERMINIA ARDISSINO, Tempo liturgico e tempo storico nella Commedia di

Enrico Cattaneo 344

Nella seconda corona di sapienti, i personaggi sono tutti medieva-li, eccetto Giovanni, vescovo di Costantinopoli, chiamato Crisostomo (= bocca doro) per la sua eloquenza, morto in esilio nel 407 (Par. XII, 136-137).

DIONIGI LAREOPAGITA

Merita una speciale menzione Dionigi lAreopagita, citato nella prima corona di sapienti. In realt il nome uno pseudonimo, anche se lautore vero, nonostante tutte le ricerche, rimasto finora scono-sciuto. Lignoto autore si presenta come discepolo di san Paolo, identificato con quel Dionigi, membro dellAreopago, menzionato in At XVII 34 come uno dei pochi convertiti da Paolo nella sua breve e infruttuosa missione ateniese. Non fa dunque meraviglia che gli anti-chi abbiano preservato con cura gli scritti di questo Dionigi, ritenuto cos vicino ai tempi apostolici. Ecco i titoli delle opere a noi pervenute: I nomi divini, La teologia mistica, La gerarchia celeste, La gerarchia ecclesia-stica, Lettere10. Questo corpus di scritti teologici, redatto in greco verso la fine del V secolo, appare fortemente influenzato dal neoplatonismo e da un marcato apofatismo, cio da una riflessione in cui domina un senso acuto della trascendenza divina, inaccessibile a ogni umano concetto (teologia negativa). Ci non significa per Dionigi cadere nellagnosticismo, bens riconoscere che ogni discorso su Dio, che de-ve sempre fondarsi sulla rivelazione biblica, inadeguato di fronte alla realt stessa11. Queste opere, singolari e uniche nel loro genere, costruiscono, secondo il giudizio autorevole di Etienne Gilson, una delle fonti pi importanti del pensiero medievale12. Dante pone Dio-nigi, come abbiamo detto, nel cielo del sole, nella prima corona dei dodici spiriti sapienti (Par. X, 115-117):

Appresso vedi il lume di quel cero

che gi, in carne, pi a dentro vide langelica natura e l ministero.

Qui Dionigi presentato come colui che durante la sua vita terrena

Dante, Citt del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana 2009, pp. 148-150.

10 DIONIGI LAREOPAGITA, Tutte le opere. Trad. di Pietro Scazzoso, Introduzione, pre-fazioni, parafrasi, note e indici di Enzo Bellini, Milano, Rusconi 1981.

11 Cfr. CHARLES-ANDRE BERNARD, La triple forme du discours thologique dionysien au Moyen ge, in YSABEL DE ANDIA (ed.), Denys lAropagite et sa postrit en Orient et en Occident. Actes du Colloque International, Paris, 21-24 septembre 1994, Paris, Institut dtudes Augustiniennes 1997, pp. 503-515.

12 TIENNE GILSON, La filosofia nel Medioevo, Firenze, La Nuova Italia Editrice 1997, p. 93.

Dante e i Padri della Chiesa 345

(in carne) ebbe pi di ogni altro la rivelazione della natura e della funzione degli angeli, tutti ordinati gerarchicamente. In effetti, nel canto XXVIII Dante scorge una luce intensissima: Dio, circondato da nove cori angelici, corrispondenti ai nove cieli, a cui essi comunicano la loro virt (Par. XXVIII, 46-78). Lordinamento degli angeli in nove gerarchie e i rispettivi nomi sono esposti da Beatrice proprio secondo la dottrina di Dionigi, che espressamente nominato (vv. 127-132)13:

Questi ordini di s tutti sammirano,

e di gi vincon s, che verso Dio tutti tirati sono e tutti tirano.

E Donisio con tanto disio a contemplar questi ordini si mise, che li nom e distinse comio.

Questi ordini formano come una catena, in modo che ciascun coro attratto verso Dio, e attrae a s gli ordini sottostanti14.

A parte queste menzioni esplicite, vi molto del pensiero dioni-siano, nella sua ricezione medievale, che si riflette nelluniverso dantesco. Ricordiamo che san Tommaso dAquino aveva scritto un commento al De divinis nominibus. Come nota tienne Gilson,

il trattato Dei nomi divini doveva agire sulla speculazione teolo-gica e filosofica, proprio perch si pone su di un piano intermedio tra laffermazione impulsiva del semplice fedele e il silenzio trascendente del mistico. Dio vi si presenta dapprima come Bene, perch lo si accosta attraverso le sue creature, ed a titolo di Bene supremo che egli le crea. Il Dio di Dionigi asso-miglia allora allidea del Bene descritta da Platone nella sua Repubblica: come il sole sensibile, senza ragionamento e senza volont, per il solo fatto della sua esistenza, penetra con la sua luce tutte le cose, cos il Bene, di cui il sole sensibile non che una pallida immagine, si diffonde in nature, in energie attive, in esseri intellegibili ed intelligenti, che a lui debbono il loro essere e quel che sono, e la cui naturale instabilit trova in lui il suo

13 Cfr. DIONIGI LAREOPAGITA, La gerarchia celeste, VI. I nove ordini in senso discen-

dente sono: Serafini, Cherubini, Troni; Dominazioni, Potenze, Potest; Principati, Arcangeli, Angeli. Cfr. ANTONIO MELLONE, in Enc. dant., III, pp. 122-124.

14 Cfr. DIONIGI LAREOPAGITA, La gerarchia celeste, III, 2: Cos dal momento che lordine della gerarchia consiste nel fatto che gli uni siano purificati e gli altri purifichi-no, che gli uni siano illuminati e gli altri illuminano, che questi siano portati alla perfezione e questi altri rendano perfetti, secondo tale modo a ciascuno converr limitazione divina (trad. P. Scazzoso, cit., p. 91).

Enrico Cattaneo 346

punto fisso. Sviluppandosi per gradi, questa illuminazione divina generer naturalmente una gerarchia, il che significa contemporaneamente due cose unite e distinte: in primo luogo uno stato, nel senso che ogni essere definito per quello che e per il posto che occupa in questa gerarchia; poi una funzione, nel senso che ogni membro della gerarchia universale riceve linfluenza dallalto per trasmetterla, a sua volta, al di sotto di s. La luce divina e lessere che essa costituisce si trasmettono attraverso una cascata di luce i cui gradi sono descritti nei trattati: Della gerarchia celeste e Della gerarchia ecclesiastica15.

Nel pensiero di Dionigi, la creazione, anche nelle sue componenti

pi materiali, riflette dunque qualcosa delle propriet divine, ragion per cui Dio pu essere nominato non solo come Bene, Luce, Bellezza, Vita, Amore, ma anche come Fuoco, Acqua, Roccia, Leone, e cos via16. Tuttavia, ognuno di questi appellativi, anche quelli pi spirituali, applicato a Dio deve passare attraverso la negazione, perch lessenza di Dio al di l di ogni concetto, anche di quello di essere. Lessenza divina in se stessa inconcepibile e indicibile. Questo apofatismo estremo non pare che sia stato seguito dagli autori medievali, certa-mente non da Dante, anche se egli spesso sottolinea lindicibilit dellesperienza del divino17.

Dionigi insiste in particolare sullattributo di Amore. Come scrive sempre il Gilson,

questo termine designa precisamente per lui il movimento di carit col quale Dio riconduce a s tutti gli esseri in cui si rivela la sua bont. Considerata sotto questo aspetto, lilluminazione universale appare molto meno simile ad una cascata di luce che si disperderebbe sempre di pi, che simile ad unimmensa cir-colazione damore che si disperde dapprima in una molteplicit di esseri, soltanto per radunarli poi e ricondurli allunit della loro origine. Lamore quindi la forza attiva che in qualche modo trae fuori da loro stessi gli esseri venuti da Dio, per assi-curare il loro ritorno a Dio. [] In un universo che non che la manifestazione di Dio, tutto ci che esiste buono; il male dunque , per s, non essere; lapparenza di realt che esso rap-presenta dovuta solo a ci che esso offre come unapparenza di bene. Daltronde per questo che il male ci inganna, perch

15 GILSON, La filosofia nel Medioevo, cit., pp. 95-96. 16 Cfr. DIONIGI LAREOPAGITA, La gerarchia celeste, II, 5. 17 Piuttosto scettica sullinflusso di Dionigi su Dante MARTA CRISTIANI, in Enc.

dant., II, pp. 460-462.

Dante e i Padri della Chiesa 347

senza sostanza e realt. Dio quindi non lo causa, ma lo tollera perch egli regge natura e libert senza violentarle. In uno scrit-to perduto, Il giusto giudizio di Dio, Dionigi aveva dimostrato che un Dio perfettamente buono pu giustamente punire i col-pevoli poich essi lo sono per spontanea volont18.

Questa sintesi del pensiero dionisiano potrebbe essere anche una sintesi del pensiero dantesco, tanto i due mondi sono simili. Basti pen-sare alle parole che il Poeta pone sulla porta dellinferno:

Giustizia mosse il mio alto fattore;

fecemi la divina Potestate, la somma Sapenza e l primo Amore (Inf. III, 4-6)

Anche la citt dolente e la perduta gente, dunque, testimoniano a loro modo la giustizia, la sapienza e lamore di Dio. S. AGOSTINO

Questa prospettiva ci porta immediatamente a un altro grande Pa-

dre della Chiesa, il maggiore dellOccidente, cio Agostino di Ippona (354-430). I commentatori hanno osservato che, stranamente, Dante non d un rilievo particolare a questa figura, che pure ha impregnato di s tutta la teologia e la cultura medievale:

Nella Commedia manca un episodio agostiniano: taluno ha attribuito la cosa al platonismo del Santo, in contrasto con laristotelismo di Dante, e alla diversa concezione politica e sto-rica su Roma e lImpero19.

Tuttavia Agostino nominato allinterno della Candida Rosa: di

fronte al seggio della Beata Vergine Maria, nella parte opposta della rosa, il seggio di S. Giovanni il Battista e sotto di lui siedono, nellordine, S. Francesco, S. Benedetto e S. Agostino (Par. XXXII, 35)20. Gi sono stati studiati i passi della Commedia che hanno un preciso riscontro nelle opere agostiniane, segno che Dante le conosceva bene:

18 GILSON, La filosofia nel Medioevo, cit., pp. 96-97. 19 DANTE ALIGHIERI, Divina Commedia, a cura di Giovanni Fallani e Silvio Zennaro,

Roma, Biblioteca Economica Newton 1994, p. 636. 20 Secondo ANTONIO PINCHERLE, Agostino nominato qui assieme a Benedetto e

Francesco in quanto autori delle tre regole di vita religiosa sole ammesse nella Chiesa di quel tempo (Enc. dant., I, p. 82).

Enrico Cattaneo 348

La concezione della citt di Satana (Inf., III, 1) e della citt di Dio (Par., XXX, 130) agostiniana, come il simbolismo riguardante Lia e Rachele (messo in luce dal Pascoli) che si trova nel Contra Faustum (XXII, 52-53), come largomento per assurdo sul grande miracolo che avremmo avuto se il mondo si fosse con-vertito senza miracoli, che nel De civitate Dei (XXII, 5)21, come le tre forme di visione del Paradiso: corporale, spirituale o im-maginaria, e intellettuale, che nel Genesi ad Litteram (XII) e nel De civ. Dei (X, 9), come infine (sempre nel De civ. Dei XXII) la glorificazione e la natura del corpo risorto22.

A parte questi precisi riscontri23, si pu parlare di un agostinismo di Dante, nel senso che

alcune concezioni filosofiche agostiniane hanno avuto unin-fluenza decisiva sul pensiero di Dante ed in generale linflusso esercitato sul divino poeta da Agostino fu maggiore di quanto comunemente si crede24.

Uno dei concetti fondamentali delluniverso dantesco quello di

ordine: le creature sono varie e diverse, ma tra loro esiste un ordine, perch tutte rispecchiano a modo loro il Primo Principio:

[...] Le cose tutte quante

hanno ordine tra loro, e questo forma che luniverso a Dio fa simigliante (Par. I, 103-105)

Ne lordine chio dico sono accline tutte nature, per diverse sorti, pi al principio loro e men vicine;

onde si muovon a diversi porti per lo gran mar de l essere, e ciascuna con istinto a lei dato che la porti (Par. I, 109-114)

21 Si veda Par. XXIV, 106-108: Se il mondo si rivolse al cristianesimo, / dissio, san-

za miracoli, questuno / tal, che li altri non sono il centesimo. S. Agostino aveva scrit-to: Si vero [] ista miracula esse facta non credunt, hoc nobis unum grande miracu-lum sufficit, quod eis [= Apostolis] terrarum orbis sine ullis miraculis credidit (De civ. Dei XXII, 5).

22 DANTE ALIGHIERI, Divina Commedia, a cura di Fallani e Zennaro, cit., p. 636. 23 Si pu aggiungere che lespressione li dei falsi e bugiardi (Inf. I, 72) ha un preciso

riscontro in AGOSTINO, De civitate Dei II, 2, 18: deos falsos et fallaces. 24 Cfr. PIERO CHIOCCIONI, Lagostinismo nella Divina Commedia, Firenze, Olschki

1952, p. 31.

Dante e i Padri della Chiesa 349

Commenta Erich Auerbach:

La Civitas Dei in Paradiso la terra della giustizia; in essa le anime stanno in giusto ordine, in comune agire, godendo cia-scuna del suo posto e partecipi di un vero bene, la cui provvista inesauribile, anzi il cui godimento aumenta quante pi anime redente vi partecipano. Nel vario modo di apparire dei beati nelle sfere dei pianeti la diversit delle disposizioni e delle atti-vit si sviluppa come un ordine naturale che fa delluomo un cittadino; e cos egli pu, secondo le sue capacit, divenire un membro della comunit umana, il cui fine lattuazione dellordine divino in terra25.

Questo non solo un ordine fisico, ma anche morale, ed qui che entra in gioco la libert umana, con le sue scelte spesso contrarie alla propria natura, il che costituisce propriamente il dramma del-luomo:

Vero che, come forma non s accorda

molte fiate allintenzion dell arte, percha risponder la materia sorda,

cos da questo corso si diparte talor la creatura, cha podere di piegar, cos pinta, in altra parte,

e s come veder si pu cadere foco di nube, s l impeto primo satterra, torto da falso piacere

(Par. I, 127-135)

Se la grazia di Dio infinita, anche la sua giustizia infinita, ragion per cui il male e lingiustizia non possono rimanere impuniti, cos che anche gli abitanti della citt infernale, come abbiamo visto sopra, sia pure per libera scelta del male, rientrano nellordine della giustizia divina26.

Ora su questo tema dellordine universale, cosmico e morale, Dan-te ha trovato certamente una fonte in Agostino, che ha scritto un De ordine e un De musica, dove vi sono interessanti riflessioni filosofi-co-teologiche su quel tema. Anzitutto Agostino parla dellordine cosmico:

25 ERICH AUERBACH, Studi su Dante, Milano, Feltrinelli 1963, p. 120. 26 Sul tema della giustizia in Agostino e Dante, si veda ARDISSINO, Tempo liturgico

e tempo storico nella Commedia di Dante, cit., pp. 154-161.

Enrico Cattaneo 350

E quali sono le realt superiori, se non quelle nelle quali permane la somma, indiscussa, immobile, eterna uguaglianza (aequalitas)? L non esiste il tempo, perch non si d alcun mutamento. Di l i tempi sono costruiti, ordinati e misurati a imitazione delleternit, mentre il corso del cielo ritorna allidentico e riporta allidentico i corpi celesti e obbedisce alle leggi delluguaglianza, dellunit e dellordine, grazie ai giorni, ai mesi, agli anni, ai lustri e agli altri movimenti orbitali delle stelle. Cos le cose terrene, sottomesse a quelle celesti, uniscono in una successione armoniosa le orbite dei propri tempi al poe-ma, se posso dirlo, delluniverso27.

A questo poema delluniverso non sfugge neppure la sfera

morale: Cos Dio ha ordinato il cattivo uomo peccatore, non in modo cattivo. E diventato cattivo per sua volont, perdendo tutto quello che possedeva finch obbediva ai comandamenti di Dio, ed