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Page 1: unità La Rivoluzione industriale - SEI Editrice · La Rivoluzione industriale ... guerra americana degli anni 1770-80 e 1780-90, ... Quali conseguenze negative avrebbe potuto avere

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La Rivoluzioneindustriale

in Inghilterra e in Europa

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F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012

SommarioLe ragioni del primato ingleseIl dibattito storiografico sul tenore di vitadegli operai inglesiIl Manifesto del Partito comunista

L’Inghilterra tra liberalismo teorico e residui di oppressione servileIl pensiero economico di Adam Smith

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R i fe r i me n t i s t o r i o g r af i c i

Nel riquadro l’interno di una filanda, dove venne impiegata prevalente-mente manodopera femminile.

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La rivoluzione industriale poté verificarsi in Inghilterra, ver-so la fine del Settecento, perché si era ormai condensato un ele-vato numero di fattori favorevoli. Solo questa fortunata combi-nazione di elementi rese possibile e vantaggiosa l’adozione del-le nuove tecniche di produzione.

Ma perché, ci si domanda spesso, la rivoluzione in-dustriale ebbe luogo prima in Inghilterra e non, suppo-niamo, in Francia, in Belgio o in Svizzera? Ovviamente larisposta immediata è che furono l’Inghilterra e la Scoziaa dare gli inventori la cui perizia e il cui ingegno reseropossibili tali innovazioni. Ma ciò solleva a sua volta altri in-terrogativi, ad esempio perché uomini del genere sareb-bero apparsi in Inghilterra e non altrove, e – cosa più im-portante – perché le loro invenzioni furono prese e messein pratica nel momento in cui lo furono? (Non c’è nulla diovvio in questo: moltissime invenzioni, compresa la mag-gior parte di quelle del periodo 1760-1830, vengonomesse nel mucchio dei rifiuti; persino per quelle valideoccorre il momento adatto per disseppellirle). Una ri-sposta a quest’ultimo punto è stata già suggerita quandoabbiamo usato l’espressione bisogno sociale. Le fon-derie di Pietro il Grande negli Urali non si svilupparonotecnicamente perché ciò non era necessario sul pianosociale, in quanto esse funzionavano con un numeroesorbitante di operai servi della gleba. D’altra parte le in-venzioni inglesi si susseguirono in una specie di conse-guenza logica, ciascuna dai bisogni sociali creati daquella che era apparsa in precedenza. Ma neanche que-sto è tanto ovvio come pare a prima vista e propone al-tre domande. Come acquisirono la loro capacità gli in-ventori inglesi? E gli entrepreneurs [imprenditori, n.d.r.],i quali si occuparono delle innovazioni e investironogrosse somme nei nuovi opifici e nelle macchine, dadove presero l’impulso, la versatilità e il fiuto degli affari,nonché la mano d’opera e il danaro per far ciò? […]

Da dove proveniva il denaro? Gli storici hannoespresso le opinioni più elaborate, sebbene in genere, aquanto pare, si ammetta che i profitti dell’impero e lalunga storia dell’espansione commerciale che si pro-trasse per oltre 150 anni avevano fornito una fonte da cuisi poteva attingere senza difficoltà. Paul Bairoch a que-sto riguardo ha aggiunto che la rivoluzione agricola [delSettecento, n.d.r.] rivestì un ruolo importante fornendotanto il capitale quanto gli entrepreneurs; invece BertrandGille ha posto l’accento sulla parte svolta dalle bancheprovinciali inglesi nel concedere crediti a breve termine.

Gli entrepreneurs industriali inglesi furono inoltre fa-voriti dai mercati in espansione e da una pronta disponi-bilità di mano d’opera. I mercati inglesi d’oltremare eranoin continuo sviluppo, che proseguì nonostante sia la

guerra americana degli anni 1770-80 e 1780-90, sia laperdita delle colonie americane. Il mercato interno era fa-vorito dall’aumento della popolazione, come in particolareavvenne nel periodo cruciale posteriore agli anni 1740-50.Esso fu inoltre agevolato dal sistema inglese delle comu-nicazioni. Le strade erano insufficienti – sicuramente peg-giori di quelle francesi – finché non furono migliorate daingegneri come Metcalfe, Telford, McAdam e dalle bar-riere a pedaggio verso la fine del secolo; ma a quell’epocaanche l’Inghilterra aveva una rete di canali; soprattuttoaveva il vantaggio di possedere un unico mercato interno,scevro [libero, n.d.r.] da sopravvivenze medievali come legabelle sulle strade, sui fiumi e sui ponti, che in Francia ein altri paesi ostacolavano la libera circolazione dellemerci. Inoltre l’aumento della popolazione […] e le con-seguenze sociali della rivoluzione agricola concorsero adassicurarle un adeguato rifornimento di mano d’operache non era rigorosamente vincolata alla terra. Si trattaperò di un argomento a doppio taglio, sul quale non si do-vrebbe insistere troppo. A lungo andare occorse certa-mente una grande eccedenza di mano d’opera, sia dal-l’Inghilterra che dall’Irlanda, per costruire i canali e glistabilimenti, e per procurare emigranti alle nuove città in-dustriali; se però tale eccedenza fosse stata troppogrande o troppo facilmente disponibile nel periodo criticodegli anni 1760-70 e 1780-90, per tutto il secolo l’Inghil-terra non sarebbe stata stimolata, più della Russia, o dellaFrancia dopo gli anni 1770-80, a intraprendere un lungoe costoso processo di rinnovamento tecnico.

Finalmente torniamo alla nostra domanda rimastasenza risposta: anche ammettendo questi vantaggi, per-ché gli entrepreneurs inglesi dimostrarono tanta versati-lità e tanta audacia (quasi come gli agricoltori olandesi ebelgi del Seicento) nel cogliere le occasioni che si pre-sentavano e nell’investire il loro denaro in simili avventuredel tutto nuove? David Landes, dopo essersi posto ladomanda, risponde mettendo in evidenza le qualità pe-culiari della società inglese del XVIII secolo che, egli so-stiene, era molto più aperta e inquieta di quella di qua-lunque suo concorrente industriale. Tale apertura,prosegue Landes, fece nascere uno spirito di intrapren-denza nella comunità degli affari e una tendenza ad as-sumere rischi in vista del profitto: il commercio inglese erapiù risoluto, più vigoroso e «più disposto alle novità» diqualsiasi altro; nessuna società, tranne forse quella olan-dese, era altrettanto «raffinata nel campo commerciale»;e nessuno stato era «più sensibile alle istanze della suaclasse mercantile».

G. RUDÉ, L’Europa del Settecento. Storia e cultura, Laterza,Roma-Bari 1993, trad. it. P. NEGRI

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Le ragioni del primato inglese1

Tenendo conto dell’esempio fatto dall’autore a proposito dello scarso sviluppo tecnico delle fonderie russe, spiegal’espressione «bisogno sociale».

Quali conseguenze negative avrebbe potuto avere un eccesso di manodopera disponibile?Quale incidenza negativa ebbe, sul commercio inglese e sullo sviluppo industriale britannico, la perdita delle colonie

americane?

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Engels, Marx e numerosi altri osservatori che vissero nel-l’epoca della Rivoluzione industriale focalizzarono la loro at-tenzione sulle terribili condizioni di vita e di lavoro nelle cittàbritanniche. Recentemente, alcuni storici hanno osservato cheinvece, nel giro di alcuni decenni, la situazione migliorò note-volmente e permise alla classe lavoratrice britannica di viveremeglio di come viveva prima dell’industrializzazione.

L’opinione pessimistica, sostenuta da numerosi os-servatori che vanno dai contemporanei agli storici mo-derni – da Engels, Marx, Toynbee, dagli Webb, dagliHammond e molti altri e, più recentemente, da Hobs-bawm – è che i primi stadi dell’industrializzazione bri-tannica, se per alcuni significarono anche il benessere,provocarono un netto deterioramento delle condizioni divita dei poveri appartenenti alla classe lavoratrice. L’opi-nione ottimistica, sostenuta da altrettanto numerosi os-servatori – da McCulloch, Tooke, Giffen, Clapham, Ash-ton e più recentemente da Hartwell – è che lo sviluppoeconomico, pur lasciando alcuni lavoratori in completamiseria, permise alla maggioranza di godere di miglioricondizioni di vita in seguito alla riduzione dei prezzi, allamaggiore stabilità dell’occupazione e alla moltiplicazionedelle occasioni di impiego remunerato. La polemica èstata viziata dal pregiudizio politico e dalle miopie chequesto spesso provoca. Capita di frequente che degliscrittori di sinistra che partecipano alle sofferenze del pro-letariato sostengano l’interpretazione pessimistica; ed èugualmente facile trovare degli scrittori di destra, più fi-duciosi nelle fortune assicurate dalla libera iniziativa delsistema capitalistico, che sostengono la tesi ottimistica.Engels, la cui opera Die Lage der arbeitenden Klasse inEnglan [La condizione della classe operaia in Inghilterra,n.d.r.] che apparve per la prima volta nel 1844, costitui-sce una delle denunce più vigorose e appassionate delsistema industriale, non nasconde le sue intenzioni po-litiche. In una lettera scritta a Karl Marx egli chiamò il suolibro «un atto d’accusa». «Davanti al tribunale dell’opi-nione pubblica mondiale», egli scrisse, «accuso la bor-ghesia inglese di strage, di furto continuato, e di tutti glialtri crimini previsti dal codice». La tesi del peggioramentodelle condizioni di vita si appoggiava ad una descrizionein certo modo leggendaria dell’età dell’oro che avrebbepreceduto la rivoluzione industriale, un’Inghilterra di con-tadini felici e prosperi e di artigiani indipendenti, liberi dallosfruttamento e privi di preoccupazioni. In realtà, il lavo-ratore a domicilio non era meno sfruttato dall’industriale-padrone che forniva alla sua famiglia il cotone da filare eil filato da tessere, che l’operaio di fabbrica dal proprie-tario; spesso, donne e bambini lavoravano per lo stessonumero di ore nelle faticose occupazioni dell’industria do-mestica, come davanti alle macchine in fabbrica. […]

Ancora una volta, come per quasi tutti i problemi distoria dell’economia relativi allo studio dei fenomeni dicrescita o di declino, o dei punti di svolta che ne segnanol’inizio o la fine, i dubbi nascono perché la documentazionestorica è insufficiente. In particolare, i dati quantitativi sono

scarsi o troppo diversi o troppo selettivi per essere deltutto sicuri. Dobbiamo ancora una volta ricostruire unmosaico in cui le tessere più importanti mancano e in piùindovinarne il significato. […] Tuttavia, il tratto più signifi-cativo dei dati sulla mortalità, se vogliamo utilizzarli comeindice del livello di vita, è che i tassi di mortalità smettonodi diminuire, anzi crescono, nel periodo in cui la rivoluzioneindustriale era in pieno corso e cominciava a far risentirein modo sensibile i propri effetti sul modo di vivere dellamaggioranza della popolazione. I tassi di mortalità, stimatiin base ai dati sui funerali, raggiunsero una media di 35,8per mille negli anni ’30 [del XVIII secolo, n.d.r.] e poi si ri-dussero continuamente (con un’interruzione negli anni’70, quando si ebbe una lieve ripresa) fino a toccare la me-dia di 21,1 per mille nel decennio 1811-20. Si trattava diun risultato impressionante. In seguito, ripresero a crescereun’altra volta fino a toccare il 23,4 per mille nel decennio1831-40 e rimasero più o meno costanti al di sopra del 22per mille (queste ultime sono cifre ufficiali basate sulle re-gistrazioni anagrafiche) negli ’40, ’50 e ’60.

La ragione principale dell’aumento del tasso di mor-talità agli inizi del 1800 va fatta risalire all’afflusso di po-polazione nelle città, dove il tasso di mortalità era elevato,in qualche caso crescente. […] Il fatto è che le città eranodiventate troppo grandi rispetto alla tecnologia allora ap-plicata alla vita urbana. «Oltre la metà dei decessi era cau-sata dalle sole malattie infettive… Le malattie infantili,prodotto della sporcizia, dell’ignoranza, della malnutri-zione e del sovraffollamento, portavano via prima che rag-giungessero i cinque anni un bambino su due fra quellinati in città» (R. Lambert). Man mano che le città si este-sero sulle campagne circostanti e si moltiplicò la popola-zione residente nei centri, i sistemi sanitari vigenti diven-tarono così inadeguati da costruire una minaccia semprepiù grave per la salute. […] In alcuni casi, le fognature dellecittà venivano scaricate nei fiumi da cui gli acquedotti at-tingevano l’acqua da distribuire. Ci vollero numerose epi-demie di colera e alcune allarmanti inchieste sulla situa-zione sanitaria per indurre le autorità centrali e locali adintraprendere un’azione positiva per rimuovere l’immon-dizia dalle strade e dai cortili, ad adottare la canalizzazionee costringere le società private di erogazione dell’acquaalla clorazione [ad aggiungere cloro, a scopo disinfettante,n.d.r.]. Perciò è corretto affermare che nella maggiorparte delle aree urbane l’ambiente umano si era visibil-mente deteriorato durante la prima metà del 1800 e cheprobabilmente non cominciò a migliorare in generale finoagli anni ’70 e ’80 [dell’Ottocento, n.d.r.].

P. DEANE, La prima rivoluzione industriale, il Mulino, Bologna 1990, pp. 318-324, trad. it. C. ROSIO

Quale pericolo corrono coloro che descrivono larivoluzione industriale in termini pessimistici?

Quale fenomeno viene valutato dall’autore mediantel’espressione «Si trattava di un risultatoimpressionante»?

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Il dibattito storiografico sul tenoredi vita degli operai inglesi

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Il piccolo testo noto come Manifesto del Partito comunistafu steso nei primi mesi del 1848 e fu subito tradotto nelle lin-gue europee. Si tratta di un’opera scritta con passione e capacedi catturare il lettore sia con il ritmo incalzante della prosa, siacon la potenza delle immagini utilizzate.

Nel 1847, la centrale londinese della Lega comunistadimostrò la fiducia che riponeva in Marx ed Engels affi-dando loro la stesura di un documento contenente un’e-sposizione definitiva delle sue opinioni e dei suoi scopi.Egli [Marx, n.d.r.] accolse con entusiasmo l’occasione chegli veniva offerta per compendiare esplicitamente la nuovadottrina che, negli ultimi tempi, aveva assunto nella suamente una forma definitiva. Consegnò il documento allaLega al principio del 1848 ed esso fu pubblicato, alcunesettimane prima dello scoppio della rivoluzione a Parigi,con il titolo di Manifesto del Partito comunista. Engels neaveva scritto la prima stesura sotto forma di domande erisposte, ma poiché essa non era sembrata abbastanzaefficace a Marx, questi riscrisse completamente il docu-mento. Secondo Engels, ne risultò un’opera originaleche non aveva quasi più nulla in comune con il testo pre-cedente; questi, tuttavia, era sempre eccessivamentemodesto per tutto quanto atteneva alla sua collabora-zione con Marx, e lo schema mostra in quale notevole mi-sura egli abbia partecipato alla sua elaborazione.

Quello che ne è risultato è il più grande fra tutti ipamphlets socialisti. Nessun altro movimento politicomoderno, nessun’altra causa politica possono preten-dere di avere prodotto un documento altrettanto elo-quente ed efficace. Il Manifesto possiede una prodigiosaforza drammatica, e dal punto di vista formale è un edi-ficio fatto di ardite e sorprendenti affermazioni storiche,innalzato a condanna dell’ordine esistente in nome delleforze vendicatrici dell’avvenire; la sua prosa ha quasisempre il carattere lirico di un grande inno rivoluziona-rio, il cui effetto, notevolissimo ancor oggi, dovette es-sere ancora maggiore in quell’epoca. Esordisce conuna frase minacciosa, rivelatrice del suo tempo e dellesue intenzioni: «Uno spettro si aggira per l’Europa – lospettro del comunismo. Tutte le potenze della vecchiaEuropa, il papa e lo zar, Metternich e Guizot, radicalifrancesi e poliziotti tedeschi si sono alleati per dargli confuror sacro una caccia spietata… Il comunismo è ormairiconosciuto una forza reale da tutte le potenze euro-pee». Il documento prosegue con una serie di tesi stret-tamente legate tra loro, brillantemente sviluppate edelaborate, e si conclude con un celebre ed esaltante ap-pello ai lavoratori di tutto il mondo.

La prima di queste tesi è contenuta nella frase inizialedel primo capitolo: «La storia di ogni società sinora esi-stita è storia di lotte di classi». In tutte le epoche che si ri-cordino l’umanità è stata divisa in sfruttatori e sfruttati, inliberi e schiavi, patrizi e plebei, e ai giorni nostri in prole-tari e capitalisti. Le scoperte e le invenzioni grandiose del-l’era moderna hanno trasformato la struttura economicadella società: le corporazioni hanno ceduto il posto alla

manifattura locale e questa, a sua volta, alle grandi im-prese industriali. Ogni fase di espansione è accompa-gnata da forme politiche e civili che le sono proprie. Lastruttura dello Stato moderno riflette la dominazione dellaborghesia: essa è in realtà un comitato che amministra gliaffari dell’intera classe borghese. La borghesia ha avutoa suo tempo una funzione sommamente rivoluzionaria;eliminando tutte le condizioni di vita feudali essa ha in-franto gli antichi rapporti pittoreschi e patriarcali, che le-gavano l’uomo ai suoi «superiori naturali» e non ha la-sciato tra loro altro vincolo che il nudo interesse, ilpagamento in contanti. […] Essa ha spogliato della loroaureola tutte quelle attività che per l’innanzi erano consi-derate degne di rispetto, essendo altrettanti servizi resi allacollettività, e le ha trasformate in semplice salariato: coni suoi intenti rapaci, essa ha degradato ogni forma di vita.Ciò è stato possibile dalla creazione di immense forzeproduttive nuove: la struttura feudale non corrispondevapiù al recente sviluppo ed è stata perciò infranta. Sotto inostri occhi si sta compiendo un processo analogo. Lecrisi commerciali di sovrapproduzione, periodicamente ri-correnti, indicano che anche il capitalismo non è ormai piùin grado di controllare le sue stesse forze produttive.Quando un sistema sociale è costretto a distruggere i suoiprodotti e ad impedire l’espansione troppo rapida etroppo avanzata delle proprie attrezzature, si può esserecerti che il suo fallimento e la sua condanna sono vicini.Ma la borghesia ha creato anche il proletariato, che è altempo stesso suo erede e suo giustiziere. […]

La rivoluzione non può essere identica in circostanze di-verse, ma i suoi primi provvedimenti dovranno consistereovunque nella nazionalizzazione della terra, del credito, deitrasporti, nell’abolizione del diritto di eredità, nell’aumentodelle imposte, nell’intensificazione della produzione, nella di-struzione delle barriere fra città e campagna, nell’introdu-zione del lavoro obbligatorio e dell’istruzione gratuita pertutti. Solo allora potrà cominciare seriamente la ricostruzionesociale. […] I comunisti non sono un partito o una setta, mal’avanguardia cosciente del proletariato stesso. Non sog-giacendo all’incubo di mete puramente teoriche, essi si sfor-zano solo di realizzare il loro destino storico, né intendononascondere le proprie intenzioni. Dichiarano apertamente dinon poter raggiungere i loro scopi che con il sovvertimentoviolento dell’ordine sociale esistente e con la conquista diogni potere politico ed economico. Il Manifesto si con-clude con le celebri parole: «I proletari non hanno nulla daperdere fuorché le loro catene. E hanno un mondo daguadagnare. Lavoratori di tutti i paesi, unitevi!». In seguitoalcuni studiosi hanno dimostrato in modo convincentequanto il Manifesto abbia attinto alla fonte di ben noti pro-grammi precedenti, specialmente a quello babuvista [diBabeuf, il rivoluzionario francese che organizzò la Con-giura degli eguali a Parigi, nel 1796, n.d.r.], ma tale fusioneha dato luogo a un compatto e organico insieme.

I. BERLIN, Karl Marx, La Nuova Italia, Firenze 1994, pp. 69-174, trad. it. P. VITTORELLI

Il Manifesto del Partito comunista3

Quale contributo ha dato Friedrich Engels alla stesura del Manifesto? Quale ruolo storico ha svolto, secondo Karl Marx, la borghesia?

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Vari storici hanno messo l’accento sulla libertà di cui go-deva la società inglese alla fine del Settecento e hanno indivi-duato in essa uno degli elementi decisivi, fra quelli che hannopromosso la nascita della Rivoluzione industriale proprio in In-ghilterra. In realtà, di tale libertà godeva solo una ristrettissi-ma élite, che dirigeva il Paese; le classi subalterne non solo vi-vevano in miseria, ma spesso erano persino soggette a vinco-li di tipo servile. Forse, proprio questa violenta oppressione suiceti più umili – insieme ai profitti derivanti dalla tratta degli schia-vi e ben più della libertà dell’élite – dovrebbe essere presa inconsiderazione come fattore decisivo nello sviluppo economi-co della Gran Bretagna.

Prima i coloni ribelli, in occasione della rivoluzioneamericana, e poi il Sud degli Stati Uniti, in occasionedel conflitto che lo contrappone al Nord, tacciano diipocrisia i loro antagonisti: si indignano per la schiavitùnera, ma chiudono gli occhi sul fatto che nell’ambitodella società da loro additata a modello continuano asussistere rapporti sostanzialmente schiavistici. Comesappiamo, Franklin paragona i minatori della Scozia aineri delle piantagioni americane e contesta così la pre-tesa del governo di Londra di ergersi a campione dellalibertà. Si tratta di un intervento chiaramente pole-mico, ma la cui validità è confermata da una testimo-nianza assai autorevole. Pur condividendo l’autoco-scienza orgogliosa dei suoi compatrioti o della classedirigente del suo paese, Adam Smith riconosce la per-manenza in Gran Bretagna di «residui di schiavitù»:nelle saline e nelle miniere vige un rapporto di lavoronon dissimile dalla servitù della gleba. Come gli ad-scripti glebae (i servi della gleba), ancora ben numerosiin Europa orientale, sono legati coattivamente alla terrada coltivare e venduti contestualmente ad essa, cosìnel paese che pure da un pezzo si è lasciato alle spallel’Antico Regime, gli adscripti operi sono in qualchemodo parte integrante dell’opus ovvero del work (la sa-lina o la miniera) e, nel caso questo sia venduto, pas-sano assieme alla loro famiglia al servizio del nuovo pa-drone. Non si tratta quindi di schiavitù vera e propria,della chattel slavery [schiavitù che considera lo schiavoun puro e semplice bene, di cui il padrone può libera-mente disporre, a suo totale arbitrio, n.d.r.], che con-sente di immettere separatamente sul mercato i singolimembri della famiglia alla stregua di qualsiasi altramerce. Gli adscripti operi possono contrarre matrimo-nio e godere di una reale vita familiare, possono anchepossedere un minimo di proprietà e, naturalmente,non rischiano di essere uccisi impunemente: «Le lorovite sono sotto la protezione della legge». Resta il fattoche, in Scozia, i lavoratori delle miniere di carbone edelle saline erano obbligati a portare un collare su cuiera scritto il nome del loro padrone. Sulla scia delgrande economista, anche Millar non può non «dolersidel fatto che qualche tipo di schiavitù debba ancora ri-manere nei domini della Gran Bretagna» e si augurache il Parlamento intervenga a porvi rimedio, sancendo

finalmente la «libertà dei lavoratori» anche nelle mi-niere e nelle saline scozzesi.

A giudicare dalle Lezioni di giurisprudenza di Smith,si tratterebbe degli «unici residui di schiavitù che per-mangono tra di noi». Ciò significa che gli altri rapportidi lavoro sono fondati sulla libertà? […] Possiamo de-sumere la risposta da Smith: «Il padrone ha il diritto dipunire il suo servo (servant) [il servitore domestico,n.d.r.] in modo moderato, e se il servo muore in seguitoa tale punizione, non è un omicidio, a meno che essanon sia avvenuta con un’arma offensiva e con preme-ditazione e senza provocazione». È difficile considerarequesti servi degli uomini liberi anche se, a detta delgrande economista, essi godono «quasi i medesimi pri-vilegi dei padroni, libertà, salari, ecc.». In realtà, a isti-tuire una radicale differenza è il potere di correzione chegli uni esercitano sugli altri; d’altro canto, è lo stessoSmith a inserire i menial servants [i servitori domestici,n.d.r.], assieme agli schiavi veri e propri, nell’ambitodella famiglia allargata del padrone. […]

Mentre sempre più aspra divenne la polemica tradue sezioni dell’Unione [il Nord e il Sud degli Stati Uniti,n.d.r.], Calhoun contrappone positivamente la condi-zione degli schiavi americani a quella dei detenuti in In-ghilterra nelle case di lavoro o nelle case per poveri: iprimi curati e assistiti amorevolmente dal padrone odalla padrona durante i periodi di malattia e nel corsodella vecchiaia, i secondi ridotti a una «condizione de-relitta e abietta»; i primi che continuano a vivere nellacerchia della famiglia e degli amici, i secondi sradicatidal loro ambiente e separati anche dai loro cari. Evi-dente è l’intento apologetico che presiede alla descri-zione o trasfigurazione dell’istituto della schiavitù. Ep-però, per quanto riguarda le case di lavoro in Inghilterra,non è solo Calhoun a sottolinearne l’orrore. […] Agli inizidel Settecento, Defoe cita con favore l’esempio «dellaworkhouse di Bristol, divenuta un tale terrore per imendicanti, che ora nessuno di essi osa più avvicinarsialla città». In effetti, la casa di lavoro è più tardi descrittada Engels come un’istituzione totale: «I paupers por-tano l’uniforme della casa e sono soggetti all’arbitrio deldirettore senza la minima protezione»; affinché «i geni-tori moralmente degradati non possano influire sui lorofigli, le famiglie vengono separate; l’uomo è inviato inun’ala, la donna in un’altra, i figli in una terza». L’unitàfamiliare è rotta ma, per il resto, sono tutti ammassatitalvolta fino al numero di dodici o sedici per una solastanza e su tutti viene esercitato ogni tipo di violenza,che non risparmia neppure i vecchi e i bambini e checomporta attenzioni particolari per le donne. In pratica,gli internati delle case di lavoro sono trattati come «og-getti di disgusto e di orrore posti al di fuori della leggee della comunità umana». […] Cadendo nel 1834, lanuova legislazione viene a coincidere con l’emancipa-zione dei neri delle colonie [britanniche, n.d.r.]. Si com-prende allora l’ironia per un verso dei teorici del Sud

L’Inghilterra tra liberalismo teorico e residui di oppressione servile

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schiavista negli Stati Uniti, per un altro verso dellemasse popolari inglesi nei confronti di una classe do-minante che, mentre si gloria di aver abolito la schiavitùnelle colonie, la reintroduce in forma diversa nellastessa metropoli. […] John S. Mill è incline a bagattel-lizzare [banalizzare, sminuire in modo eccessivo, n.d.r.]l’orrore delle case di lavoro allorché osserva: «Anche illavoratore che perde il posto perché ozioso e negli-gente non ha nulla di peggio da temere, nella più scia-gurata delle ipotesi, della disciplina di una workhouse».Ma all’opinione del filosofo liberale si può contrapporre

quella degli studiosi a noi contemporanei: una volta en-trati nelle case di lavoro, i poveri «cessavano di esserecittadini in qualsiasi significato genuino della parola»,dato che perdevano il «diritto civile della libertà perso-nale» (T. H. Marshall, 1976). E si tratta di una perdita ra-dicale: ai guardiani delle case di lavoro era conferito ilpotere discrezionale di infliggere ai detenuti le punizionicorporali ritenute più opportune.

D. LOSURDO, Controstoria del liberalismo, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 68-74

Quale differenza esisteva tra uno schiavo e un servo? Quali, invece, le affinità?Spiega l’espressione «intento apologetico», utilizzata a proposito della descrizione che il senatore americano sudista

J.C. Calhoun opera della schiavitù. Perché tale presentazione è detta trasfigurazione?Spiega l’espressione «istituzione totale», utilizzata per descrivere la casa di lavoro per poveri di Bristol.

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F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012

Al centro della riflessione di Smith si trova la concezione ti-picamente illuminista secondo cui l’umanità vive in un cosmoretto da leggi comprensibili, fondamentalmente orientate al be-nessere dell’uomo. Ogni individuo, pur inseguendo solo il pro-prio guadagno, in realtà contribuisce a far sì che tutti possanosoddisfare le loro necessità, come se esistesse una sorta di manoinvisibile che permette all’egoismo dei singoli di trasformarsiin strumento di felicità del prossimo.

Esiste, a proposito di Smith, un problema di tempi. Lasua grande opera – An Inquiry into the Nature of theWealth of Nations – fu pubblicata [...] nel 1776. A quelladata le officine e le miniere dell’età industriale erano giàchiaramente visibili nella campagna inglese e nei Low-lands scozzesi. [...] Ma, in realtà, di quella che finì conl’essere definita Rivoluzione industriale Smith vide benpoco: non le fabbriche realmente grandi, non le città in-dustriali, non i battaglioni di operai all’inizio e alla fine del-l’orario di lavoro, non il ceto politicamente e socialmenteemergente degli industriali. La parte di gran lunga mag-giore di questo sviluppo venne quando il suo libro era giàstato scritto. Smith descrive il lavoro di una fabbrica dispilli, ma si tratta di una fabbrica che non presenta affattole caratteristiche degli stabilimenti industriali dei decennisuccessivi. [...]

L’attenzione di Smith fu catturata non dal macchina-rio che caratterizzava la Rivoluzione industriale, ma dallamaniera in cui il lavoro veniva diviso, in modo tale che cia-scun operaio diveniva un esperto della sua minuscolaporzione del processo produttivo. «Un uomo svolge il filometallico, un altro lo drizza, un terzo lo taglia, un quartolo appuntisce, un quinto lo arrota nella parte destinataalla capocchia; per fare la capocchia occorrono due o tredistinte operazioni; il montarla è un lavoro particolare e illucidare gli spilli un altro, mentre mestiere a sé è persinoquello di incartarli». Da questa specializzazione, e cioèdalla divisione del lavoro, proveniva la grande efficienzadell’impresa contemporanea; congiuntamente alla natu-rale «propensione (dell’uomo) a trafficare, barattare escambiare una cosa con un’altra», essa stava alla basedi ogni commercio. [...]

Per Smith, la motivazione economica è incentrata sulruolo dell’interesse personale. Il perseguimento privato,concorrenziale dell’interesse personale è la fonte delmassimo bene pubblico: «Non è dalla benevolenza del

macellaio, del birraio e del fornaio», recita il brano più ce-lebre di Smith, «che ci aspettiamo il nostro desinare, madalla considerazione del loro interesse personale. Non cirivolgiamo alla loro umanità ma al loro egoismo...». Egliaggiunge più avanti che l’individuo «in questo caso,come in molti altri casi, [...] è condotto da una mano in-visibile a promuovere un fine che non entrava nelle sueintenzioni. [...] Non ho mai visto che sia stato raggiuntomolto (nel promuovere il bene della società) da coloroche pretendono di trafficare per il bene pubblico. [...]

La mano invisibile, la più celebre me tafora dellascienza economica, è appunto e solo questo: una me-tafora. Uomo dell’Illuminismo, Smith non aveva l’abitu-dine di ricorrere ad avalli [= appoggi, sostegni – n.d.r.] so-prannaturali per le sue argomentazioni. [...] E tuttavia, daun punto di vista puramente mondano, Smith compivaqui un passo di enorme portata. Fino a quel momentol’individuo preoccupato di arricchirsi era stato oggetto didubbio, sospetto e diffidenza; sentimenti che risalivano,attraverso il Medioevo, ai tempi biblici e alla stessa Sa-cra Scrittura. Ora costui, proprio in grazia del suo egoi-smo, diventava un pubblico benefattore. Davvero ungran riscatto e una grande trasformazione! [...]

In materia di politica pubblica, la sua raccomanda-zione più energica riguarda la libertà del commercio in-terno e internazionale. In misura considerevole – proba-bilmente eccessiva – il ragionamento di Smith deriva dalfascino esercitato su di lui dalla divisione del lavoro (dellafabbrica di spilli). Soltanto se c’è libertà di baratto e dicommercio alcuni operai possono specializzarsi in spilli,mentre altri si dedicheranno ad altri articoli e tutti s’in-contreranno nello scambio, in modo tale che i diversi bi-sogni dell’individuo saranno soddisfatti. Se non esiste li-bero scambio, ciascun operaio si dovrà preoccupare difabbricare i suoi spilli (a un basso livello di competenza);e le economie legate alla specializzazione andranno per-dute. Da ciò Smith conclude che quanto più ampia è l’a-rea dello scambio, tanto maggiori saranno le opportunitàdi specializzazione (tanto maggiore sarà cioè la divisionedel lavoro), e tanto maggiore, pari passu [= di pari passo– n.d.r.], l’efficienza – ovvero, come oggi si direbbe, laproduttività – del lavoro.

J.K. GALBRAITH, Storia della economia, trad. di F. GHIAIA, Rizzoli, Milano 1990, pp. 71-72 e 77-82

Il pensiero economico di Adam Smith5

È corretto affermare che Smith scrisse la sua opera maggiore sotto la diretta influenza della Rivoluzione industriale?Secondo Smith, che ruolo svolgono nella vita economica la divisione del lavoro e l’interesse personale?