un partigiano racconta testimonianza di giulio quazzola
DESCRIPTION
Testimonianza di Giulio Quazzola sulla Resistenza in Valsesia e l'eccidio dei Fej di RossaTRANSCRIPT
Un partigiano racconta
Testimonianza
di Giulio Quazzola
In piedi da sinistra: Capellari, Ferrari, Gigoli, Agnesetti, Elio, Baladda e Delgrosso Accovacciati da sinistra: Delgrosso Gustin, Mercalli Giannino, Quazzola Giulio
Da sinistra: Botelli, Cecu Deluca, Giulio Quazzola, Reale e Capellari
Prefazione
Questa è la storia di Giulio Quazzola, un ragazzo di appena sedici anni che
fu costretto, per non essere deportato in Germania, ad unirsi al movimento
partigiano valsesiano.
Lo fece anche per convinzione propria, vinto dall’ideale di libertà che
animava lo spirito dei giovani italiani che erano cresciuti sotto la tirannia
nazi-fascista, i quali miravano a vivere in un paese libero, privo di assurde
costrizioni.
Giulio Quazzola raccontò al figlio Pierangelo l’esperienza vissuta tra le fila
partigiane il quale la trascrisse e la presentò come ricerca scolastica.
L’allora Prof. Alberto Bossi ne fu positivamente colpito tanto che così
commentò lo scritto:
“…. Il lavoro mi è piaciuto molto per la sua semplicità, per il suo tono
dimesso e per l’onestà di impostazione. Io lo giudico positivo.
Per me è stato veramente interessante, dirò anzi che si è trattato di una
lettura avvincente. Soprattutto mi è piaciuta la “smitizzazione” dell’eroe e
l’inserimento del protagonista combattente nel cotesto di una forma
“normale”, reale, in forma umana. Ed è proprio qui, anzi direi solo qui il
valore dell’opera, in questo suo dono discorsivo e pacato, sdrammatizzato,
ma ugualmente ricco di interesse, tanto da diventare, ripeto ancora,
avvincente.
Le cose, tanto più valgono quanto più sono semplici….”
Il protagonista
Giulio Quazzola, nato a Varallo Sesia il 3 maggio 1928.
Partigiano combattente della 84^ brigata Garibaldi, “Strisciante Musati”
3° battaglione 3° plotone 3° squadra.
Grado: Capo Squadra.
Croce al merito di guerra per attività partigiana 1944 – 1945.
La Resistenza in Valsesia
Così mio padre, partigiano all’età di 16 anni, racconta.
Nel maggio del ’44 lavoravo a Milano, presso una succursale della “Isotta
Fraschini” dove si produceva materiale bellico.
Il nostro lavoro era controllato dai Tedeschi della Organizzazione T.O.D.
Un anno prima, nell’aprile del 1943, un bombardamento aereo aveva
distrutto la casa dove abitavo. Decisi allora, essendo privo di un tetto e
dovendomi adattare a dormire nelle baracche di legno montate per
l’occasione sui bastioni di Porta Romana, di licenziarmi e ritornare a
Varallo da mia madre.
Ebbi il torto di parlarne ai miei dirigenti che, anziché capire la mia
situazione, mi obbligarono a prepararmi per un trasferimento in Germania.
Trasferimento da me non gradito in quanto, in quel periodo, i tedeschi
deportavano in Germania prigionieri italiani, e di altre nazionalità,
obbligandoli a partecipare al loro fianco ad una guerra ormai inutile,
approvata e portata avanti solo da nazisti e fascisti che causò, per un anno
ancora, distruzione e morte di centinaia di innocenti.
Finsi di accettare il trasferimento, ma una sera, terminato il lavoro,
d’accordo con mio padre, che approvò la mia decisione, scappai a Varallo.
Come era prevedibile, in seguito mio padre dovette subire le conseguenze
di questo mio gesto, subendo maltrattamenti da parte dei fascisti milanesi.
Giunsi a Varallo, felice di ritrovarmi al mio paese dove si respirava aria di
libertà e dove potei riabbracciare mia madre e i miei fratelli. Mio fratello
Walter faceva parte, da tempo, delle formazioni partigiane Garibaldine e fu
lui a farmi incontrare i primi comandanti partigiani: Rastelli, Ranghin,
Martin Valanga, Chiodo.
Nel giugno ’44, Varallo fu invasa dalle Brigate Nere ed io mi arruolai nei
Partigiani insieme a molti altri giovani varallesi. Ricordo, fra questi, Cecu
Deluca, Donatello Depaoli, Nino Pallavera, Tullio Capellari ed altri che
poi morirono in combattimento al mio fianco. Tra questi: Gini, Rinotti,
Gheller e Bertolini.
Non ebbi torto a lasciare Varallo e a rifugiarmi sui monti. Infatti, appena le
Brigate Nere entrarono in Varallo, andarono a cercarmi a casa mia. Lì,
trovarono mia madre; la percossero, spaccarono i mobili e buttarono
all’aria tutta la casa. Mia madre, colpevole solamente di avere due figli
militanti nelle fila partigiane, fu messa al muro per essere fucilata. La
trascinarono in cortile, in via Scarognini 32 dove abitavamo, ma poi i
fascisti si limitarono ad ingiuriarla e uno di loro, con il calcio del mitra, le
diede un colpo in una gamba tanto che per diversi mesi ne portò le
conseguenze. Mio fratello maggiore, che faceva il parrucchiere a Varallo
Vecchio, sposato con una figlia, venne preso al mio posto e rinchiuso nelle
carceri di Vercelli. Nel frattempo, io avevo preso la via della montagna.
Con l’intento di sfuggire alla cattura, ci trovammo a centinaia, non ancora
organizzati e disarmati sul sentiero che portava al Passo del Turlo, per
raggiungere la Valle Anzasca.
Vista la drammatica situazione in cui ci trovammo, il giorno dopo, io e
altri cinque compagni, ritornammo in Valsesia. Dopo una lunga marcia, ci
fermammo sugli alpeggi di Rima dove ci stabilimmo in una baita deserta.
Per un po’ di tempo, due pastori biellesi, Ugo e Franco, ci rifornirono di
viveri. Le nostre scorte consistevano in 40 Kg di riso, 10 Kg di lardo e 20
Kg di farina gialla.
I fascisti facevano delle puntate nella valle, giungendo fino a Rimasco e
Rima. Un giorno mi trovavo con un compagno, Angelo Pianori, in un
alpeggio di proprietà della signora Giacomina di Rimasco, per raccogliere
delle informazioni, la quale ci offrì una scodella di latte. All’improvviso,
vedemmo una trentina di fascisti che avanzavano verso le baite. Non c’era
più tempo per fuggire. Farsi trovare in casa, voleva dire mettere a
repentaglio la vita della Giacomina e di sua mamma che viveva lì con lei.
L’idea brillante l’ebbe la Giacomina che, senza indugiare, ci fece indossare
abiti da donna (il classico costume valsesiana) e, con un fazzoletto in testa
e un bastone in mano, uscimmo dirigendoci verso le mucche che
pascolavano dalla parte opposta da quella dove giungevano i fascisti.
Questi si erano fermati, forse per riposare, e noi riuscimmo ad allontanarci
senza destare sospetti. I fascisti non entrarono nella baita, così ce la
cavammo tutti solo con un grande spavento.
Dopo un po’ di tempo, Rastelli ci mandò a chiamare, con l’ordine di
raggiungere Rimella dove ci destinarono ai vari distaccamenti. Io chiesi ed
ottenni di andare nella Compagnia di Martino Giardini (Valanga)
riconosciuto come uno dei migliori Comandanti partigiani. Lì trovai molti
amici di Varallo: Franco Ardizzone, Franco Gini, Peppo Chiodo, mio
fratello Walter e Lino Tosi. Mi diedero la mia prima arma, un fucile
modello ’91 alto quasi quanto me, e due caricatori. Martino mi chiese se
avessi già sparato prima di allora: risposi di no. Mi diede allora le prime
istruzioni, però non mi fece sparare perché bisognava restare nell’assoluto
silenzio essendo i fascisti presenti a Fobello.
Mi raccomandò, al momento di premere il grilletto, di appoggiarmi bene.
Rastelli Pietro “Pedar”
Due giorni dopo giunse per me la prova del fuoco. Mi mandarono con altri
partigiani nella zona sovrastante Nosuggio, dove era stato segnalato il
passaggio di una colonna tedesca che scendeva da Fobello. Il nostro
compito, se ben ricordo, era quello di aprire il fuoco sulla colonna tedesca
come azione di disturbo, poi di ritirarci e fare ritorno al Taponaccio.
Arrivati sul posto, ci dividemmo in due gruppi: uno in basso ed uno ad una
cinquantina di metri più in alto. Io facevo parte del secondo gruppo e con
me c’era Franco Gini, Davide Stromboli (Cucca) ed altri. Non dovemmo
attendere molto.
Scorgemmo prima le staffette e poi i camion tedeschi che scendevano in
direzione di Varallo. Quando giunsero all’altezza del primo gruppo posto
in basso, iniziò la sparatoria.
Io mi spaventai talmente tanto che mi venne voglia di scappare subito, ma
vedevo Franco Gini davanti a me, in piedi dietro un albero, che sparava
con il suo moschetto e i tedeschi che scendevano dai camion e sparavano
verso di noi. Allora provai anch’io, malgrado fossi impietrito dalla paura,
a schiacciare il grilletto. Subii un forte colpo alla spalla e il fucile mi
scivolò dalla mano sinistra. Mi ricordai allora cosa mi aveva detto
Valanga: “Prima di premere il grilletto appoggiati bene”.
Attilio Musati “Barba” che diede il nome alla 84° Brigata. Venne ucciso il 28/03/1944
durante l'assalto alla postazione fascista situata presso la chiesa della Madonna delle
Grazie di Varallo
Non sparai più perché mi tremavano le mani e le gambe; sentivo solo il
frastuono degli spari e i fischi delle pallottole. Avevo paura. Vidi alla mia
destra il gruppo in basso che si ritirava. Noi avremmo dovuto seguirli non
appena avessero superato la nostra linea. Guardai davanti a me, alla mia
sinistra, e vidi Franco Gini a terra dietro l’albero che lo proteggeva, che si
lamentava dicendo: “Mataij j’an ciapami!”.
Del sangue usciva copioso dalla sua spalla sinistra, tanto che il suo
giubbotto di colore zebrato si era, da quella parte, completamente
arrossato. Nessuno più sparava e i tedeschi ne approfittarono per
avvicinarsi al luogo dove giaceva Franco che nel frattempo era svenuto. Il
ferito era un pezzo di ragazzo di ottanta chili e aveva un anno più di me:
diciassette.
Cucca e altri partigiani si portarono su Franco e lo trascinarono indietro. La
montagna era ripida e io non ero di nessun aiuto al Cucca il quale decise di
caricarsi il ferito sulle spalle. Lo Stromboli era un uomo forte e lo portò
fino a quando crollò sfinito. I tedeschi, nel frattempo, si erano portati a
meno di cento metri di distanza da noi tanto che le loro raffiche si udivano
distintamente. Intanto, il grosso del nostro plotone aveva raggiunto la
sommità della montagna ed era al sicuro, ma non si era accorto di quanto
stava succedendo a noi più in basso.
Eravamo rimasti in tre o quattro e non riuscivamo più a trascinare il ferito.
Si decise allora di lasciare Franco in un fossato: il sangue usciva meno
copiosamente, ma per salvarlo ci sarebbe voluto un dottore. Lo coprimmo,
cercando di nasconderlo alla meglio, ripromettendoci di tornare a
riprenderlo appena i tedeschi se ne fossero andati. Raggiungemmo quindi
anche noi la sommità della scarpata e ci stendemmo esausti.
Ora il ricordo si fa confuso: i tedeschi non avanzarono, ma mantennero la
loro posizione dalla quale diedero fuoco ad una parte del bosco.
Mandammo ad avvertire il nostro Comandante che inviò altri uomini.
I tedeschi se ne andarono, ma nel frattempo Franco morì. In seguito,
parlando del fatto con un dottore, questi mi disse che per salvarlo
occorreva tamponargli la ferita e non muoverlo se non con una barella e
portarlo in ospedale. Nessuna di queste azioni, però, poteva essere attuata
in quel frangente.
Durante la notte scendemmo con il cadavere di Franco fin sulla strada e,
con un carretto a mano, lo portammo nel cimitero di Fobello. Alcuni civili
ci aiutarono, avvisarono la famiglia Gini. Arrivò il papà di Franco ed io
rimasi di guardia per tutta la notte.
Raccontai in seguito a Martin Valanga la paura che avevo provato,
pensando che mi rimproverasse, ma lui mi disse:
” La prova del fuoco è brutta per tutti. Tu sei il più giovane partigiano che
ho con me e sono sicuro che la prossima volta farai meglio”. Mi tolse il
’91 e mi diede il moschetto che era stato del mio amico Franco.
L’inverno del ’44 fu terribile. Neve, freddo, pochi vestiti, scarpe rotte,
poco mangiare … un fonografo a manovella ci teneva compagnia.
Avevamo un solo disco, “Valençia”, e se qualcuno si lamentava che aveva
fame, ecco che subito si metteva in moto il fonografo e si attaccava
“Valençia”. Avevamo sempre fame e perciò il fonografo era sempre in
funzione.
Il Comando, un giorno, decise di portare le formazioni in pianura e, un po’
alla oltra, plotone dopo plotone, ci trasferimmo nella zona di Lozzolo dove
Rastelli aveva stabilito il Comando della 84° Brigata “Strisciante Musati”
il cui nome era stato dato in ricordo di un valoroso comandante partigiano
di Valmaggia: Attilio Musati.
L’ultimo plotone che rimase in Valsesia era il nostro e lo comandava
Agnisetti Guerrino. Ne facevano parte il sottoscritto , Lino Tosi, Mercalli
Rizieri, Rinotti, Gheller, Volpe, Dellavalle, Domingo, Rosso, Bertolini,
Valzer e Pino Cucciola.
Ci stabilimmo all’Alpe Fej sopra Rossa. La notte fra il trentuno di ottobre e
il primo di novembre, passarono di lì, diretti a Fobello, Martin Valanga,
Annibale Tosi e Bruschi. Martin ci disse che avremmo dovuto fermarci
all’Alpe ancora una settimana, dopo di che dovevamo portarci nei pressi di
Gattinara.
Ci lasciarono e si diressero verso la Tracciora. Circa mezz’ora dopo la loro
partenza, sentimmo un colpo d’arma da fuoco provenire da quella
direzione e poi più nulla. Dopo un po’ arriva Annibale Tosi (mi sembra di
ricordare che fosse lui) e ci racconta che Valanga era stato ferito da una
scheggia.
Era successo questo. Arrivati sul crinale della Tracciora, si erano seduti
senza togliersi lo zaino dalla schiena. In quello di Martin c’era della
gelatina per esplosivi che, al contatto anche se non diretto con la neve
gelata e con altro materiale contenuto nello zaino, provocò l’esplosione.
Partimmo in direzione della Tracciora e, quando giungemmo sul luogo
dell’incidente, vedemmo che Martin aveva la schiena squarciata e un intero
caricatore del suo mitra “Beretta” conficcato nella schiena. Avvolgemmo il
suo corpo in un telo, costruimmo una slitta di fortuna e lo portammo
all’Alpe Fej e di lì al piccolo cimitero di Rossa. Qualcuno partì subito per
Lozzolo ad avvisare Rastelli e il giorno dopo demmo sepoltura a quel
povero corpo martoriato.
I funerali di Arturo Giardini “Martin Valanga”
Arrivarono da Lozzolo altri partigiani, mi ricordo di Aldo Vizzeri, ora
colonnello al distretto militare di Vercelli. Ripartirono poi tutti e restammo
all’alpe ancora in diciassette.
Era il sette di novembre e smontavo dal mio turno di guardia alle cinque. I
turni di guardia erano di due ore ciascuno; un partigiano montava la
guardia in direzione della Tracciora, uno verso Rossa. Quel giorno ero di
guardia dal lato di Rossa. Finito il turno, svegliai Dellavalle che prese il
mio posto, poi svegliai Lino Tosi e Rizieri Mercalli che dovevano uscire di
pattuglia a Fobello.
Di conseguenza, avendo una pattuglia che andava verso Fobello,
sentendoci al sicuro togliemmo la guardia sul versante della Tracciora.
Durante la notte, però, tedeschi e fascisti raggiunsero Fobello e, passando
per la Tracciora, giunsero al nostro alpe con l’intenzione di attaccarci alle
spalle, dimostrando una certa astuzia che a noi costò la vita a dieci
partigiani.
Il cippo eretto per ricordare i cinque partigiani catturati il 7 novembre 1944 all'Alpe Fej
ed in seguito torturati e fucilati: Pietro Renditore, Eraldo Bertolino, Antonio Marzola,
Vincenzo Occhi, Daniele Sebastiani
I fatti devono essersi per forza svolti così: i fascisti e i tedeschi (sapemmo
in seguito che erano una trentina) videro la nostra pattuglia salire all’Alpe
Fej verso la Tracciora e si nascosero lasciandoli passare indenni, intuendo
che con la pattuglia fuori, da quella direzione non avrebbero trovato alcuna
sentinella al campo pronta a dare l’allarme. E così fu.
In seguito, senza essere scorti, scesero all’Alpe Fej, si disposero a ferro di
cavallo attorno alle baite e attesero che spuntasse il giorno. Erano da poco
passate le sei e mezza. Io mi trovavo in una baita da solo, essendo i miei
compagni Tosi e Mercalli usciti di pattuglia. Ero disteso sul fieno e non
riuscivo a prendere sonno. Non mi ero nemmeno tolto le scarpe e sentivo
dentro di me qualcosa che mi rendeva nervoso. Forse era l’avvisaglia della
tragedia che stava per compiersi.
Sentii il boato della prima bomba a mano lanciata verso le baite e subito
dopo scoppiò il finimondo. Presi il fucile e mi diressi verso la porta.
L’aprii a metà e sentii due pallottole sfiorarmi. Ritornai in casa e mi portai
verso una piccola finestra dalla quale vidi il Rinotti (il nostro mitragliere)
che usciva dalla porta di un’altra baita per portarsi verso il luogo dove era
piazzata la nostra mitragliatrice. Fece due passi, dopo di che lo vidi
piegarsi in due.
28/08/1987 Cinquantenario dell'eccidio all' Alpe Fej.
Da sinistra in piedi: Pino Cucciola, Giulio Quazzola, Molino e Pierino Rastelli
Da sinistra seduti: Nino Pallavera e Cecchino Bana.
Dovevo assolutamente uscire da quella trappola. Sparai anch’io e due
fucilate furono la risposta. Aprii la porta e mi buttai fuori, vidi due uomini
in divisa con l’elmetto davanti a me, ad una distanza di circa dieci metri.
Mi buttai a sinistra, raggiunsi il muro dell’altra baita, lo rasentai e mi portai
nei pressi di quella posta più in basso. Sparavano da tutte le parti. Qui
trovai Dellavalle, Guerrino, Domino e Volpe. Guerrino sparava sulla
sinistra cercando di proteggere la porta per fare uscire chi era rimasto
dentro, ma nessuno uscì.
L’unica possibilità di fuggire, per noi, era di cercare di attraversare un
prato lungo una ventina di metri, ma sulla destra vedevamo distintamente
un fucile mitragliatore che falciava il prato. Guerrino, con suo “Berretta”,
sparava alle nostre spalle verso le altre baite per non lasciare avanzare i
fascisti. A me restavano ancora pochi colpi. Ne sparai alcuni verso il
mitragliatore posto alla nostra destra. Topolino tentò la sortita verso il
prato, ma fatti pochi passi fu falciato da una raffica. Subito dopo tentò
Domino il quale subì la stessa sorte.
Anche Guerrino era agli sgoccioli con i colpi: si voltò verso di me e mi
invitò a sparare verso il mitragliatore per cercare di proteggere la sortita di
Volpe il quale riuscì a passare. Guerrino mi disse:”Vai tu”. Uscii allo
scoperto e corsi a perdifiato riuscendo a raggiungere il lato opposto del
prato per poi buttarmi giù per il canalone. Mi voltai e vidi Guerrino correre
verso il sentiero. Pure lui ce l’aveva fatta. Mi rialzai e scesi, seguendo il
ripido canalone fino in fondo con l’intento di dirigermi verso Balmuccia e
tentare di raggiungere la strada statale.
Ero tutto sanguinante per la caduta, ma nessuna pallottola mi aveva ferito.
Una vecchietta, incurante di quanto succedeva più a monte, vedendomi si
spaventò e si mise a gridare. Dopo averla rassicurata, mi avviai verso
l’abitato di Rossa.
Una signora, della quale purtroppo non ricordo più il nome, mi medicò alla
meglio, poi tornai al coperto, nel bosco.
Mi restavano solo due colpi nel caricatore del moschetto. Più tardi, vidi
passare la colonna fascista in fila indiana. In mezzo ai militi, c’erano dei
partigiani fatti prigionieri durante l’incursione. Ritornai su all’alpe.
Bruciava tutto e c’erano delle persone di Rossa che tentavano di spegnere
il fuoco.
28/08/1987: famigliari dei caduti all'Alpe Fej ripresi durante la cerimonia del
cinquantenario dell'eccidio.
A terra, morti, riconobbi a mala pena, più per i vestiti che per i loro volti,
Rinotti, Gheller, Dellavalle, Domino. Infatti, nonostante fossero morti in
combattimento, i fascisti riversarono tutto il loro odio su quei poveri corpi,
martoriandoli e rendendoli irriconoscibili. Li raccogliemmo e li portammo
nel piccolo cimitero di Rossa. Dei quindici che eravamo stati attaccati, ci
salvammo solo io, Agnisetti, Volpe e Valzer.
Il giorno dopo rendemmo sepoltura ai nostri amici e compagni di lotta,
unitamente a molta gente del posto che, nonostante il pericolo, volle
prendere parte alla triste cerimonia. Subito dopo ci recammo a Balmuccia a
rendere omaggio agli altri cinque che i fascisti avevano catturato e fucilato
il giorno prima, dopo averli barbaramente torturati.
In seguito vidi altri morti, ma il ricordo dei quattro dell’Alpe Fej è tuttora
vivo in me.
Non andammo subito a Lozzolo. Rastelli, infatti, ci fece spostare a
Rimasco. Con me c’erano Agnesetti, Volpe, Bruschi, Vizzari ed altri due
di cui mi sfugge il nome, e lì ci fermammo una quindicina di giorni prima
di raggiungere Lozzolo, dove partecipai alla mia prima vera azione.
Su un motocarro Guzzi, scendemmo alle quattro strade per poi proseguire
per Brusnengo che era presidiata ai fascisti. Quattro di noi indossavano le
divise della Muti; io ero vestito da Balilla. Con noi c’era un tedesco che era
dei nostri. Ci comandava Ranghin.
Entrammo a Brusnengo dove passammo indisturbati le postazioni fasciste
fino a raggiungere le scuole dove c’era il magazzino dei fascisti. Senza
creare sospetti, Ranghin ed il tedesco scesero dal motocarro consegnando e
facendosi firmare dei buoni di prelievo. Dopo aver caricato formaggio e
biscotti, salutammo alla romana e ripartimmo, facendo ritorno al campo.
Passammo per fascisti con tutte le carte in regola grazie ad una
organizzazione perfetta.
Un grande rastrellamento, organizzato da tedeschi e fascisti nel mese di
gennaio del 1945, ci obbligò ad effettuare numerosi spostamenti. Per
questo motivo bisognava andare verso la pianura o fare ritorno in
montagna. Fummo una trentina a scegliere la montagna.
Partimmo dalla zona di Gattinara dove eravamo accampati raggiungendo
Postua e da lì salimmo al Gavala per scendere nella zona di Vocca. Arrivati
in cima allo spartiacque, scendemmo nel versante valsesiana, ma qui
fummo bloccati dalla neve alta più di due metri. La coltre bianca era
farinosa, tanto che per percorrere i duecento metri che ci separavano dalla
baita, impiegammo tutta la mattinata. La traversata in condizioni normali si
effettuava in circa sei ore, noi per raggiungere Vocca impiegammo tre
giorni e due notti e fummo costretti ad abbandonare gli zaini.
Arrivammo stremati all’Isola di Vocca: non avevamo toccato cibo da tre
giorni, ma nel paese c’erano i fascisti e non potevamo entrare per cercare
di recuperare qualche cosa da mangiare per sfamarci. Restammo qualche
ora a riposare nelle baracche delle miniere, poi risalimmo la montagna.
Spuntava l’alba. I fascisti ci videro quando eravamo quasi sulla sommità.
Spararono con i mortai, ma nessuno di noi rimase ferito.
Intanto ci eravamo divisi in tre squadre; una andò verso Rossa con Pino
Cucciola, una seconda verso Sabbia con Davide Stromboli, mentre il mio
gruppo a Morca. Avevamo pure due prigionieri, un tedesco ed un fascista.
Tenemmo il tedesco con noi e, al termine di una lunga marcia,
raggiungemmo una baita sopra Morca nella quale trovammo delle mele
quasi ghiacciate che però mangiammo con avidità prima di concederci un
meritato riposo. Durante la notte, Peppino Baladda pensò di raggiungere la
casa di Valter un nostro collaboratore. Ci riuscì e ci portò del cibo. Ci
trasferimmo, in seguito, in un’altra baita dove potevamo vedere il ponte di
Morca occupato da una postazione fascista e seguire i loro movimenti. Con
me c’erano Baladda, Cecu De Luca, i fratelli Del grosso ed altri tre più il
prigioniero tedesco al quale, dopo aver passato quelle terribili giornate con
noi, lasciammo una certa libertà. Con lui dividevamo la nostra scarsa
razione di cibo.
Erano tre o quattro giorni che eravamo fermi in quel posto, quando una
sera non trovammo più il tedesco. Al piano superiore, dove dormivamo,
trovammo solo i suoi stivali. Capimmo subito che era riuscito a fuggire.
Trovammo le tracce della sua fuga sulla neve; in mezz’ora avrebbe potuto
raggiungere la postazione del ponte e così fù. Notammo infatti dei
movimenti sospetti nella postazione fascista e per questo decidemmo di
scappare, girare sopra Morca ed appostarci di fronte al ponte. Uscimmo
uno alla volta a cento metri di distanza uno dall’ altro. Io rimasi per ultimo;
spensi il fuoco e cancellai il più possibile le tracce del nostro passaggio.
Uscii dalla baita, percorsi duecento metri e mi sentii male: svenni sulla
neve. Avevo solo sedici anni e non avevo la fibra di un uomo. Le fatiche e
la mancanza di nutrimento mi avevano giocato un brutto tiro.
Quando rinvenni, mi trovai ancora nella baita accanto al fuoco acceso. I
miei compagni mi dissero che ero rimasto svenuto sulla neve ed avevanono
già predisposto la postazione per ricevere i fascisti. Avevamo poche
munizioni e solo armi leggere, ma con nostro stupore vedemmo i fascisti
dirigersi dalla parte opposta a quella dove eravamo noi. Capimmo cosa era
successo e ne avemmo la conferma più tardi.
Il nostro prigioniero, raggiunta la postazione fascista, invece di indicare il
luogo esatto dove eravamo, mise i militi su una pista sbagliata. Avendo
vissuto con noi giorni terribili, diviso il poco cibo che ci permise di
sopravvivere, non ebbe il coraggio di fare la spia ai suoi alleati.
Io avevo le mani che mi facevano male; si trattava di un principio di
congelamento tanto che per quindici giorni non potei farne uso. Verso le
due di notte decidemmo di muoverci, ben sapendo che al mattino ci
avrebbero dato la caccia. Aggirammo l’abitato di Morca passando sopra la
postazione fascista al di la del ponte, per poi seguire il Sesia fino
all’altezza di Valmaggia. Era la notte del 22 gennaio 1945. Uno alla volta
attraversammo il fiume, nonostante l’acqua ci arrivasse alla cintola.
Guadagnammo l’altra sponda dove fummo investiti da un freddo bestiale
tanto che i panni e le scarpe gelarono quasi all’istante. Ci accovacciammo
sotto il muro della strada provinciale appena in tempo per evitare una
pattuglia di fascisti che ci passò ad un paio di metri senza accorgersi della
nostra presenza.
Attraversammo la strada e ci portammo presso la casa del Giuvanin Tulè
(lattoniere) dove riuscimmo ad asciugarci in qualche modo e poi, dopo una
marcia di circa un’ora, raggiungemmo l’Alpe Ceresoi. All’indomani ci
nutrimmo con un po’ di riso. Le mie mani erano gonfie e mi facevano
male. Durante il giorno non accendevamo il fuoco perché altrimenti
avremmo segnalato la nostra presenza.
I fascisti fecero una vasta battuta verso Morca. Convinti di trovarci
bruciarono diverse baite. Durante la notte, i miei compagni mi portarono a
Valmaggia. Le mie mani peggioravano e mi facevano sempre più male. Il
Giuvanin Tulè mi nascose in solaio e avvisò mia madre, la quale non venne
a trovarmi su consiglio dei nostri informatori che le dissero di essere
sorvegliata. Venne invece mia cognata Gina, moglie di mio fratello
maggiore, la quale mi apprestò le prime cure.
Ritornò il giorno dopo per portarmi una pomata, ma la cosa non passò
inosservata. Qualcuno fece la spia e così, mentre ero in cucina con Gina,
vidi i fascisti che venivano verso la casa dove eravamo. Riuscii a scappare
e nascondermi nel bosco ed in seguito a raggiungere i miei compagni a
Ceresoi.
Verso febbraio, mi trovavo ancora in pianura dalle parti di Sostegno.
Facevo parte del 3° Battaglione Musati e dovevamo trasferirci per dare
appoggio ad una formazione del Pesgu, comandata da suo fratello. Per
qualche strana coincidenza, capitammo in una gola tra le colline, dove
fummo accerchiati da fascisti e tedeschi. Unica via di scampo era risalire il
canalone, ma gli avversari erano ben appostati.
Mettemmo in posizione i due mitragliatori per proteggerci la ritirata.
L'operazione ci costò cara, tanto che lasciammo sul campo quarantadue
uomini, circa la metà visto che ci salvammo in una cinquantina.
Anche qui, come a Rossa, bisognava attraversare uno spiazzo aperto,
battuto dalle mitragliatrici del nemico. Sullo spiazzo c’era già qualche
ferito mentre qualcuno era riuscito a passare. Tra questi, il comandate
Collo che, dall’altra parte, sparava verso i fascisti e i tedeschi. Anch’io mi
lanciai nello spiazzo: a metà percorso mi gettai a terra e vidi davanti al mio
naso alzarsi spruzzi di terriccio provocato dalle pallottole. Una raffica mi
aveva sfiorato. Sentii un peso addosso: era il mio compagno che, rimasto
ferito, era crollato sopra di me.
Avevo da percorrere ancora una quindicina di metri prima di raggiungere
la salvezza, ma avevo anche un compagno ferito sulle spalle. Mi feci forza
e riuscii, trascinandomi carponi, a percorrere i metri mancanti. Il mio
compagno era stato ferito ad una gamba; lo sdraiai vicino ad una pianta e
gli dissi che sarei tornato a riprenderlo. Raggiunsi Collo e gli narrai
l’accaduto. Intanto c’erano già una decina di partigiani che erano riusciti a
mettersi in salvo. Eravamo ben coperti e resistemmo finché finimmo le
munizioni, dando la possibilità a molti altri di superare lo spiazzo.
Qualcuno proseguì, altri si fermarono con noi. Era subentrato il panico e
decidemmo di ritirarci, essendo ormai privi di munizioni. Intanto sul lato
destro, i fascisti cercavano di chiudere il cerchio. Li vedemmo arrivare, ma
non sparammo subito. Li lasciammo giungere a tiro, poi scaricammo
contro di loro le ultime munizioni rimaste. Furono sicuramente le più
efficaci perché, quando sparammo tutti insieme, le avevamo a non più di
venti metri. I fascisti indietreggiarono senza preoccuparsi dei feriti che
abbandonarono a pochi metri da noi, ma ormai dovevamo andarcene.
Con Collo, Chiaberta e Ganasa, tornammo a recuperare il ferito che avevo
dovuto abbandonare, ma non lo trovammo più. Lo incontrai dopo qualche
mese e seppi che era stato raccolto da due altri partigiani e aiutato a
fuggire e mettersi in salvo.
Il Comandante Collo mi ritenne esperto tanto da affidarmi il comando di
una squadra. Ne parlò con Rastelli e mi diede il comando della 3° squadra
del 3° plotone. Comandante del plotone era Lino Tosi. Avevo dodici
uomini con me e, tra gli altri, mio fratello Walter e Mario Fumagalli di
Varallo. Certo non potevo essere un gran che come comandante, non
avendo ancora compiuto diciassette anni. Così la prima azione della mia
squadra venne controllata dal “veciu” Ranghin.
I fratelli Walter e Giulio Quazzola
Dovevamo attaccare una colonna di tedeschi nei pressi di Gattinara, una
semplice azione di disturbo, poi ritirarci. Alle cinque del mattino eravamo
già in posizione. Ranghin lasciò fare tutto a me, corresse solo la posizione
della mitraglia che mi fece portare dieci metri più avanti. La mitraglia era
la mia vecchia Breda che proveniva da Rimella. Mitragliere era mio
fratello Walter, ma purtroppo la colonna non passò e così ritornammo al
campo.
Venne in seguito il grande attacco alla Valsesia. Il nostro battaglione era di
protezione, appostato sulle colline di Gattinara. Presero solo dieci uomini
per un’azione da effettuare nel centro di Romagnano. Scelsero anche me
per far parte di questa squadra, il comando della quale fu affidato a Davide
Stromboli (Cucca). Oltre a me, di Varallo c’era anche Peppino Baladda.
Attraversammo il Sesia per entrare a Romagnano, poi, uno alla volta, con
le scarpe in spalla per non fare rumore, percorremmo le strade del paese.
Erano le quattro meno un quarto e dovevamo portarci di fronte al collegio
Curioni, presidiato dai fascisti. Alle quattro doveva esplodere la carica di
tritolo messa dai guastatori del Pesgu durante la notte. Avevamo munizioni
a volontà.
Allo scoppio della carica, non ci trovavamo ancora sul posto. Ci portammo
avanti facendo fuoco a volontà, mentre dall’interno del Curioni i fascisti
rispondevano al fuoco. Erano ben barricati, ma circondati da tutti i lati,
sottoposti ad un micidiale fuoco incrociato.
Si fece giorno e decidemmo di salire in quattro ad una finestra di una casa.
Eravamo io, Cucca, Baladda ed un altro. Nella stanza trovammo una
vecchietta tutta spaventata. La rassicurammo e, mentre lei incominciava a
pregare, noi iniziammo a sparare. Eravamo in ottima posizione, ma anche
un buon bersaglio, tanto che la finestra e la stanza furono crivellati dai
colpi partiti dal collegio.
Tenemmo però la posizione. Sparavamo finchè le canne dei mitra erano
roventi. Cucca, con il mitragliatore, non lasciava raffreddare una canna che
già doveva cambiarla. Venne mezzogiorno ed i fascisti non davano segni di
resa poiché speravano nei rinforzi, ma tutte le strade di accesso al paese
erano tenute da formazioni partigiane e pure gli altri distaccamenti fascisti
erano stati attaccati contemporaneamente.
Nel pomeriggio venne a trovarci il Celsu Ranghin che mi disse di andare
con lui. Facemmo il giro del paese e salimmo sulla collina, alla destra del
Curioni, dove c’era una mitragliatrice dei nostri che sparava verso
l’edificio dentro il quale ce n’era una fascista che faceva fuoco verso di
noi.
Ranghin , conosciuto da tutti come un mitragliere scelto, ritenne che la
nostra mitraglia non era in buona posizione. Bisognava rischiare e portarla
almeno sei metri più avanti. Ranghin staccò l’arma e diede l’ordine di
sparare tutti insieme verso la mitragliatrice fascista. Io presi il treppiede e
lo portai sei metri più avanti, mentre le pallottole fischiavano da tutte le
parti. Mentre mi stendevo a terra, arrivò Ranghin che attaccò l’arma al
treppiede e sparò un paio di raffiche. Dalla finestra dalla quale faceva
fuoco la mitraglia nemica non avemmo più risposta. Era saltata. Alle otto
di sera i fascisti si arresero ed io feci ritorno al campo.
Venne il mese di aprile, il ventidue o ventitre. Al mattino presto eravamo
nelle campagne di Fara e i fascisti, con tutti i gerarchi, scappavano da
Vercelli. Li attaccammo sulla statale e loro si rifugiarono a Castellaccio. Li
assediammo per tutta la mattina. Rastelli, Pesgu, Lino Tosi ed altri
comandanti, andarono a parlamentare ed alla fine si arresero.
Fui tra i primi ad entrare e disarmarli. Prendemmo la macchina del
Prefetto, una Lancia Aprilia, ed io, Collo, Lino Tosi e Fulmine, salimmo a
Varallo. Erano undici mesi che non vedevo mia madre. Il tempo di
salutarla e ripartimmo per Fara. Al passaggio a livello di Grignasco,
l’automobile si rovesciò, ma anche quella volta andò bene perché
rimanemmo illesi.
Il mattino seguente entrammo a Novara dove c’erano ancora tedeschi e
fascisti. Alcuni comandanti partigiani erano in città per chiedere la resa. Io
e la mia squadra eravamo appostati ai bordi della statale per Varallo, nei
pressi del passaggio a livello di Borgo San Martino.
Alla stazione c’era un treno blindato dei tedeschi. La gente di Novara e
della Valsesia era lì con noi e faceva festa. Tutti ci volevano toccare, le
donne ci abbracciavano, circolavano fiaschi di vino: finalmente si respirava
aria di libertà.
Ad un certo punto, però, sentimmo delle raffiche di mitraglia. Ci fu un
fuggi fuggi generale. Ricordo che vicino alla nostra postazione c’era una
roggia, molti nella foga di fuggire vi caddero dentro, solo pochi riuscirono
ad evitarla. Ci trovammo con la strada deserta nel giro di un minuto. Con la
mitraglia puntata rimanemmo io, mio fratello, Mario Fumagalli e qualcun
altro; mi accorsi, però, che mancavano alcuni uomini della squadra. Un
autoblindo si fermò a poca distanza da noi, ma non sparammo. Sentivamo
che la guerra stava per finire e sinceramente, dopo averla scampata fino a
quel giorno, ci tenevamo a portare a casa la pelle.
Entrammo poco dopo a Novara, fatti segno di molti festeggiamenti. In
seguito, ci recammo in treno a Milano dove rividi mio padre. Ritornai
subito a Fara. Il tre di maggio compivo 17 anni. Mi lasciarono andare a
Varallo per tre giorni in licenza, poi, mi diedero il congedo.
Questa testimonianza venne pubblicata sul settimanale
“Il Monte Rosa” nel mese di marzo del 1974
Madri di partigiani ai funerali dei caduti della Resistenza,
svoltisi nel '45 al termine del conflitto, sulla strada che porta al cimitero di Varallo.
Da sinistra, la madre di Mercalli Giannino, quella dei fratelli Quazzola, di Fumagalli e di
Biffi.
Civiasco, agosto 1944
Testimonianza di Walter Quazzola
Il plotone in cui operavo, doveva spostarsi da Camasco per recarsi a Valduggia.
Giunti sopra Civiasco, in due scendemmo in paese per vedere se vi erano i
fascisti. Tutto sembrava tranquillo: ci dividemmo per chiedere informazioni. Io
entrai nel negozio di commestibili per cercare qualcosa da mangiare, non c’era
niente. Uscito dal negozio, mi trovai di fronte quattro fascisti con le armi puntate
che mi intimarono di alzare le mani. Si avvicinarono. Mi diedero del bastardo
mentre mi toglievano il mitra e una bomba a mano che tenevo appesa alla cintura.
Poi, uno di loro si mette ad urlare: “ Tenente, da questa parte, ne abbiamo preso
uno”.
Mi rifilano un calcio in una gamba e mi spingono in avanti fino alla piazza dove
veniamo accolti dal tenente e dal resto del suo plotone (circa trenta uomini).
Mi affronta e mi chiede: “Dove sono gli altri?” rispondo che sono solo e lui mi
rifila una gran sberla.
“Se non mi dici dove siete accampati, ti giustizio qui”.
Non mi impressiono e ripeto che sono solo, aggiungendo che mi sono perso e da
tempo non ho più contatti con i mie compagni.
“Bugiardo, parla che ti conviene; sotto tortura sarà peggio. Sei cattolico? No, tu
sei solo uno sporco comunista”.
Non rispondo. Lui si volta e ordina l’adunata. Mi caricarono sulle spalle una
cassetta di munizioni e mi ordinarono di incamminarmi verso Varallo.
“Vai, vai che organizzeremo in piazza uno spettacolo coi fiocchi”.
Mi avvio. All’imbocco della scorciatoia, cinque fascisti si avvicinano e mi dicono
di seguirli, mentre gli altri rimangono dietro di me.
A metà scorciatoia, il tenente ordina di fare una sosta. Tutti si siedono sul bordo
del sentiero. Io rimango in piedi con la cassetta delle munizioni sulle spalle.
Sento che a bassa voce dicono: “Questo l’abbiamo preso noi e fucilarlo sarà il
nostro plotone. Chissà se ci daranno una bella licenza e magari anche un bel
premio?”
Poi, il tenente si alza e si avvicina. Porgendomi una sigaretta mi dice: “Tieni,
bandito, fumati l’ultima sigaretta”. Non ci peso due volte e, come allunga la
mano, gli do uno spintone e mi butto giù per la scarpata. Mi rialzo, cado
nuovamente, rotolo perdendo l’ingombrante cassetta, mentre sento le pallottole
fischiare intorno a me. Raggiungo la strada, l’attraverso e mi infilo nuovamente
nella boscaglia, correndo a perdifiato in direzione di Roccapietra e poi verso il
fiume Sesia che attraverso per proseguire, senza fermarmi, fino a Parone. Sono
malconcio e sanguinante, ma non sento alcun dolore. Penso solo che mi è andata
veramente bene.
DOCUMENTI
Il congedo rilasciato a Giulio Quazzola
al termine delle operazioni belliche.
La croce al merito di guerra concessa a Giulio Quazzola
per il valore dimostrato durante la sua attività partigiana.
Il certificato di Patriota rilasciato a Giulio Quazzola
al termine delle operazioni belliche del Generale Alexander.
Il certificato di Combattente rilasciato a Giulio Quazzola nel 1984
dall'allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini.
Il Diploma d'onore rilasciato a Giulio Quazzola da Alessandro Natta,
nel 1985, Segretario del Partito Comunista Italiano.
Redazione in proprio a cura di:
A.N.P.I. sezione Varallo – Alta Valsesia in occasione del 40° della consegna della
medaglia V.M. alla Valsesia
Progetto: Enzo Tornoni
Fotocomposizione a cura di Daniela Sacchi e Michele Pizzorno