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1 Università di PISA Corso di Laurea specialistica in Farmacia TESI DI LAUREA TERAPIA EPIGENETICA NELLA MALATTIA DI ALZHEIMER: REVISIONE CRITICA DEGLI STUDI CONDOTTI IN MODELLI ANIMALI Relatori: Candidata: Dr. Fabio Coppedè Genovesi Chiara Prof.ssa Annalina Lapucci

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Università di PISA

Corso di Laurea specialistica in Farmacia

TESI DI LAUREA

TERAPIA EPIGENETICA NELLA MALATTIA DI

ALZHEIMER: REVISIONE CRITICA DEGLI STUDI

CONDOTTI IN MODELLI ANIMALI

Relatori: Candidata:

Dr. Fabio Coppedè Genovesi Chiara

Prof.ssa Annalina Lapucci

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Indice:

1) Abstract…………………………………………………………………………pag 3

2) Introduzione……………………………………………………………………pag 4

3) Sintomatologia………………………………………………….…………….pag 6

4) Aspetti molecolari della patologia………………………………………..pag 8

5) Genetica della malattia di Alzheimer……………………………………pag 12

6) Terapia……………………………………………………………………….…pag 19

7) Epigenetica della malattia di Alzheimer……………………………….pag 22

8) Evidenze di modificazioni epigenetiche nella MA…………………….pag 34

9) Composti inibitori delle HDACs…………………………………………..pag 46

10) Inibitori delle HDACs in modelli animali di MA…………………….pag 55

11) Metilazione del DNA in modelli cellulari e animali di MA………..pag 63

12) Discussione e conclusioni………………………………………………..pag 73

13) Bibliografia…………………………………………………………………..pag 79

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Abstract:

La malattia di Alzheimer (MA) è una patologia neurodegenerativa,

progressiva e irreversibile che colpisce il cervello. Nell’anziano costituisce la

più comune forma di demenza, caratterizzata da una perdita progressiva

delle abilità cognitive che, con il progredire della malattia, rende la persona

incapace di eseguire e portare a termine anche le più semplici attività

quotidiane. Clinicamente la MA porta ad una progressiva

neurodegenerazione in specifiche regioni cerebrali tra cui lobi temporali,

parietali e regioni ristrette all’interno della corteccia frontale. Attualmente

non esistono farmaci per contrastare la neurodegenerazione e le terapie in

atto sono solamente sintomatiche. Numerose evidenze in letteratura

suggeriscono un coinvolgimento delle modificazioni epigenetiche alla base

della neurodegenerazione nella MA. Tra i meccanismi epigenetici quelli più

studiati, in quanto possibili strumenti di intervento farmacologico, sono la

metilazione del DNA e l’acetilazione degli istoni. In questo lavoro di tesi sono

discussi in maniera critica i risultati degli studi condotti in modelli animali

di MA con molecole aventi proprietà epigenetiche.

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Introduzione:

La malattia di Alzheimer (MA) è una patologia neurodegenerativa,

progressiva e irreversibile che colpisce il cervello. Nell’anziano costituisce la

più comune forma di demenza, caratterizzata da una perdita progressiva

delle abilità cognitive che, con il progredire della malattia, rende la persona

incapace di eseguire e portare a termine anche le più semplici attività

quotidiane. Clinicamente la MA porta ad una progressiva

neurodegenerazione in specifiche regioni cerebrali tra cui lobi temporali,

parietali e regioni ristrette all’interno della corteccia frontale (Alzheimer's

Association, 2014).

L’esordio della patologia è spesso subdolo, con il suo progredire però

appaiono sempre più evidenti le difficoltà nello svolgimento delle normali

attività, la perdita progressiva della memoria, la difficoltà nel linguaggio e i

disturbi comportamentali. Il declino progressivo delle funzioni intellettive

conduce il malato ad un peggioramento della vita di relazione dovuto alla

perdita del controllo dei propri stati comportamentali ed emotivi. Negli stadi

finali della malattia sopraggiunge la totale perdita di autonomia e in molti

casi la morte subentra per le complicanze legate al deperimento psico-fisico

del malato (Alzheimer's Association, 2014).

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La MA è responsabile approssimativamente dell’ 80% del totale dei casi di

demenza (Anand R. et al., 2014).

I fattori di rischio che possono predisporre allo sviluppo di questa patologia

sono stati distinti in due categorie: fattori di rischio non modificabili e

modificabili. Tra i fattori non modificabili rientrano la familiarità, l’età, il

sesso (infatti il rischio stimato per lo sviluppo di MA è di circa il 20% per le

donne e del 10% per gli uomini di età superiore a 65 anni) e la sindrome di

Down (Seshadri e Wolf, 2007).

I fattori di rischio modificabili sono invece rappresentati da livello di

istruzione, traumi cranici, patologie vascolari, esposizione a metalli, solventi,

pesticidi, fumo di sigaretta e alcool. Approssimativamente sono 200,000 le

persone di età inferiore ai 65 anni che sviluppano questa patologia, 5 milioni

sono invece gli individui nei quali la malattia compare al di sopra dei 65 anni

di età. È stimato che nel 2050 un nuovo caso di MA si registrerà ogni 33

secondi per un milione di nuovi casi all’anno (Alzheimer’s Association, 2014).

La MA prende il nome da Alois Alzheimer, neuropatologo tedesco, che per la

prima volta nel 1907 ne descrisse i sintomi e gli aspetti neuropatologici.

All’esame autoptico il medico notò segni particolari nel tessuto cerebrale di

una donna morta in seguito a un’ insolita malattia mentale e ne evidenziò la

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presenza di agglomerati, poi definiti placche amiloidi, e di fasci di fibre

aggrovigliate, gli ammassi neuro-fibrillari (Ramirez-Bermudez, 2012).

Sintomatologia:

La MA si manifesta negli individui in modi differenti, tuttavia i sintomi più

comuni sono:

Amnesia anterograda, caratterizzata dall’incapacità dell’individuo nel

ricordare eventi recenti, altri segnali sono il dimenticare date ed eventi

importanti, chiedere le stesse informazioni più volte e sempre maggiore

bisogno di contare su strumenti di ausilio alla memoria o su membri

della famiglia per cose che si era soliti gestire in proprio;

Cambiamenti nella pianificazione delle attività e nella capacità di

risoluzione dei problemi;

Difficoltà nel portare a termine compiti lavorativi e le attività

normalmente svolte nel tempo libero;

Confusione del tempo e dello spazio;

Difficoltà nel linguaggio e nella scrittura;

Formulazione di pensieri fuori luogo;

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Perdita della capacità di giudizio;

Ritiro dalla vita lavorativa e dalle relazioni interpersonali;

Cambiamenti della personalità, apatia e depressione.

L’evoluzione dei sintomi viene distinta in tre fasi:

1) Una fase di esordio della patologia, che ha una durata di 1-2 anni in cui il

sintomo cardine è rappresentato da un disturbo della memoria episodica con

difficoltà nel ricordare le informazioni apprese in tempi recenti, difficoltà

nell’organizzazione delle usuali attività professionali, lavori domestici e

incapacità nella risoluzione di problemi complessi. Il paziente in questa fase

è in genere consapevole delle proprie difficoltà e per tale motivo può andare

incontro a una sintomatologia depressiva.

2) Con il progredire della malattia si entra nella fase conclamata con durata

media di 2-4 anni. Questa fase è caratterizzata da una ridotta capacità di

ragionamento e di pensiero critico, il disturbo dell’eloquio verbale appare

sempre più evidente, insorgono deficit nella memoria visiva che portano la

persona a perdersi con facilità, prima in luoghi non familiari e in seguito

anche in luoghi noti alla persona. Compare agnosia visiva, ovvero la

incapacità nel riconoscere volti familiari, disturbi psichici e del

comportamento con veri mutamenti della personalità, i pazienti diventano

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intrattabili, questo determina il maggior carico assistenziale talora con

necessità di ricoverare il paziente.

3) Nella fase terminale della malattia, con una durata di 4-5 anni, il paziente

risulta incapace nello svolgimento di qualsiasi attività della vita quotidiana

ed è completamente dipendente sia per gli aspetti della cura della persona,

sia nell’alimentazione. I disturbi comportamentali sono di tipo severo con

incapacità nell’interazione con le persone e con l’ambiente circostante. La

morte sopraggiunge per patologie intercorrenti legate all’immobilizzazione

dopo una media di 8-10 anni dall’esordio della malattia (Alzheimer’s

Association, 2014).

Aspetti molecolari della patologia:

Le lesioni istopatologiche caratteristiche per questa malattia sono le placche

senili (SP) e i grovigli neurofibrillari (NFT), costituite rispettivamente da

depositi extracellulari del peptide β-amiloide e da aggregati intracellulari

della proteina Tau iperfosforilata (Anand R. et al., 2014).

La β-amiloide deriva dalla proteolisi della proteina precursore dell’amiloide

(APP). Il processo di degradazione della APP coinvolge tre enzimi: α-, β- e γ-

secretasi; le ultime due danno vita al cosiddetto “Amyloidogenic Pathway,,

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del peptide β-amiloide nella forma Aβ-40 e Aβ-42 (Figura1) (Salomone et al.,

2012).

In condizioni fisiologiche prevale la via di degradazione non-amiloidogenica

che è mediata dalla α-secretasi e che determina la formazione di due

sottoprodotti: il frammento α-APP e il frammento C-83, quest’ultimo è

ulteriormente metabolizzato dalla γ-secretasi la quale porta alla formazione

di un ulteriore frammento denominato P3, non tossico.

Nell’Alzheimer prevale invece la via di degradazione amiloidogenica nella

quale la β-secretasi taglia la APP rilasciando un frammento solubile, il cui

metabolismo successivo da parte della γ-secretasi determina il rilascio del

peptide β-amiloide formato da 40 o da 42 amminoacidi. Questi peptidi Aβ

non hanno le caratteristiche biologiche della forma naturale e tendono a

depositarsi in aggregati extracellulari sulla membrana dei neuroni. La

lunghezza dei peptidi Aβ è di fondamentale importanza, in quanto Aβ-42 ha

un potenziale neurotossico superiore al più abbondante peptide Aβ-40.

Inoltre il peptide Aβ-42 è neurotossico anche nella forma di oligomero, prima

dello stadio di assemblaggio in fibrille, alterando l’ attività sinaptica. È stato

osservato che gli oligomeri Aβ-42 inducono danno ossidativo e promuovono l’

iperfosforilazione delle proteine Tau portando ad effetti tossici nelle sinapsi

(Kumar et al., 2015). Essi determinano anche l’attivazione delle microglia che

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conduce alla produzione e al rilascio di citochine pro-infiammatorie come IL-

1β, TNF-α e IFN-γ, le quali a loro volta stimolano i neuroni vicini alla

produzione di ulteriore Aβ-42 (Dal Prà et al., 2014).

Un ulteriore aspetto istopatologico della MA è caratterizzato dalla formazione

di aggregati neurofibrillari, ovvero strutture localizzate all'interno delle

cellule neuronali costituite da aggregati intracellulari di una proteina

filamentosa a doppia elica iperfosforilata, la proteina Tau, una proteina

multifunzionale che svolge un ruolo importante nel montaggio e nella

stabilizzazione dei microtubuli. In condizioni normali, l'equilibrio tra

fosforilazione e defosforilazione di Tau modula la stabilità del citoscheletro.

Nella MA varie proteine chinasi e fosfatasi iperfosforilano la proteina Tau,

determinando un cambiamento strutturale e conformazionale che impedisce

il suo legame con la tubulina e quindi l’assemblaggio dei microtubuli (Kumar

et al., 2015).

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Figura 1: Processamento della APP. Tratta da Kumar et al., 2015.

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Genetica della malattia di Alzheimer:

La MA è una malattia complessa ed eterogenea di cui solo una piccola parte

dei casi (inferiore al 5%) è dovuta alla presenza di mutazioni in geni specifici

con una trasmissione che segue modelli di ereditarietà Mendeliana. Tuttavia,

la maggioranza dei casi di MA (circa il 95%) è dovuta al risultato tra

l’interazione di fattori genetici di suscettibilità e di fattori ambientali (Migliore

e Coppedè, 2009).

La MA viene inoltre classificata in due sottotipi in base all’età di esordio: una

forma precoce che si manifesta prima dei 65 anni, classificata come EOAD

(Early Onset Alzheimer’s Disease) e che interessa il 5% circa del totale dei

casi, ed una forma tardiva che si riscontra nel 95% circa dei pazienti che

sviluppano questa patologia, il cui esordio si manifesta dopo i 65 anni di età

e viene definita LOAD (Late Onset Alzheimer’s Disease). EOAD e LOAD sono

associati a diversi modelli di epidemiologia genetica (Karch et al., 2014).

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Forma familiare:

EOAD è la forma più rara causata da mutazioni che seguono la trasmissione

Mendeliana autosomica dominante altamente penetrante di tre geni: APP,

presenilina-1 (PSEN1) e presenilina-2 (PSEN2).

Il gene APP è localizzato sul cromosoma 21 e codifica per una proteina

integrale di membrana espressa in molti tessuti e altamente concentrata

nelle sinapsi dei neuroni, la cui funzione primaria non è ancora ben

conosciuta, tuttavia sembra coinvolta nelle funzioni di plasticità neuronale e

nella formazione delle sinapsi.

Mutazioni del gene APP portano all’aumento dei livelli di β-amiloide,

soprattutto Aβ-42 il principale componente delle placche senili. La maggior

parte di queste mutazioni sono posizionate in prossimità dei siti di taglio di

β- e γ- secretasi. Sono note oltre 30 mutazioni in APP responsabili di circa il

15% delle forme familiari (Karch et al., 2014).

I geni delle preseniline (PSEN1 e PSEN2) codificano rispettivamente per le

proteine presenilina 1 e 2. Le preseniline sono componenti del complesso

delle secretasi e dunque partecipano al taglio proteolitico dell’APP. Mutazioni

nei geni PSEN1 e PSEN2 portano a variazioni nel rapporto tra Aβ-42 e Aβ-40

(Rovelet-Lecrux et al., 2006). Sono note almeno 185 mutazioni dominanti nel

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gene PSEN1, responsabili di circa l’80% delle forme familiari di EOAD,

mentre le 13 mutazioni identificate nel gene PSEN2 sono responsabili di

circa il 5% dei casi (Karch et al., 2014). Insieme, le mutazioni di questi tre

geni, sono responsabili dell’ 1% dei casi complessivi di MA.

Forma sporadica:

La maggior parte dei casi di MA (90-95%) sono le cosiddette “forme

sporadiche” diagnosticate in individui di età superiore ai 65 anni. LOAD è il

risultato di complesse interazioni tra fattori genetici, epigenetici e ambientali

che si vanno a sommare al naturale declino fisiologico e cognitivo legato al

progredire dell’età (Migliore e Coppedè, 2009).

Un vasto numero di fattori genetici ed ambientali sono associati

all’incremento del rischio di MA, tuttavia i più comuni sono:

Età: Il principale fattore di rischio per la MA è rappresentato dal progredire

dell’età, infatti, la maggior parte degli individui a cui viene diagnosticata MA

presentano un’ età superiore ai 65 anni. Tuttavia, l’Alzheimer non fa parte

del normale processo di invecchiamento legato all’avanzare degli anni, che

da solo non è sufficiente per causare questa patologia (Alzheimer’s

Association, 2014).

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Malattie cerebrovascolari: L’encefalo è nutrito dalla più ricca rete di vasi di

tutto il resto del corpo e per tale motivo il suo stato di salute è strettamente

legato a quello di cuore e vasi sanguigni. Molti fattori di incremento dei rischi

cardiovascolari sono dunque associati all’aumento del rischio di sviluppare

Alzheimer o altre forme di demenza. Questi fattori includono il fumo,

l’obesità, l’aumento dei livelli di colesterolo e l’ipertensione. Cambiamenti

cerebrovascolari quali infarti emorragici, piccoli o grandi infarti corticali

ischemici e vasculopatie incrementano il rischio di sviluppare demenza. Ci

sono molti meccanismi attraverso i quali l’ictus cerebrale può condurre a

deficit cognitivo e a MA. In primo luogo l’ictus cerebrale può causare

direttamente danni in regioni cerebrali importanti nella funzione della

memoria, in secondo luogo può aumentare la deposizione di Aβ che, a sua

volta, può portare a declino cognitivo. Terzo, l’insorgenza di ictus può

indurre una risposta infiammatoria e una sovraespressione di proteine

chinasi associate ad apoptosi e morte neuronale, proteine chinasi che

sembrano essere coinvolte anche nella anormale fosforilazione delle proteine

Tau, contribuendo così alla formazione dei grovigli neurofibrillari (Wen et al.,

2007).

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Trauma cranico: Moderati o severi traumi cranici possono incrementare il

rischio di sviluppare MA o altre forme di demenza. Essi portano alla

distruzione delle normali funzioni cerebrali causate da un trauma o dalla

penetrazione nel cranio di oggetti estranei. Le categorie più a rischio sono

quelle in cui gli eventi si ripetono costantemente come i giocatori di football, i

giocatori di boxe, ecc. (Alzheimer’a Association, 2014)

Gene dell’apolipoproteina E (APOE): Negli ultimi anni sono stati analizzati

migliaia di polimorfismi con lo scopo di individuare fattori di suscettibilità

genetica per l’Alzheimer sporadico, prendendo in considerazione i geni il cui

ruolo biologico li vedeva possibili candidati per lo sviluppo della patologia.

Tra i geni maggiormente studiati troviamo geni i cui prodotti sono coinvolti

nel metabolismo del colesterolo, geni correlati con lo stress ossidativo e le

difese antiossidanti cellulari, geni della risposta infiammatoria e geni del

metabolismo dei folati. Circa 20 di questi geni sembrano costituire deboli

fattori di suscettibilità genetica, ma solo il gene dell’apolipoproteina E (APOE)

è emerso come chiaro fattore di rischio genetico legato ad un aumento del

rischio di MA di circa 3 volte nei soggetti eterozigoti e di 8-10 volte negli

omozigoti recessivi (Karch et al., 2014). Il gene APOE è situato sul

cromosoma 19, a livello funzionale è coinvolto nel metabolismo e nel

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trasporto delle lipoproteine, ma inoltre si ritiene svolga un ruolo

fondamentale nella clearance cerebrale di Aβ nella MA. Gli alleli più comuni

nell’uomo sono tre: ε2, ε3 e ε4 che differiscono per un solo amminoacido,

questi presentano effetti diversi sul rischio di predisporre alla forma di

insorgenza tardiva. La forma ε3 non influisce sul rischio di sviluppare MA,

la forma ε2 è un fattore di protezione, mentre al contrario l’allele ε4

incrementa il rischio di sviluppare malattia di Alzheimer. I ricercatori hanno

stimato che il 40-60 % delle persone con diagnosi di Alzheimer presentano

una o due copie del gene APOE ε4, tuttavia la presenza di questo allele non è

sufficiente allo sviluppo della malattia in quanto si riscontra anche in

soggetti non affetti da demenza (Alzheimer’s Association, 2014).

Gene TREM2: Recentemente, grazie a studi di associazione genome-wide, la

variante R47H del gene TREM2, coinvolto nella fagocitosi e in meccanismi

infiammatori, è stata associata ad un incremento del rischio di MA sporadica

simile a quello conferito dall’allele APOE ε4 (Guerreiro et al., 2013).

Fattori protettivi: In contrapposizione ai fattori di rischio vi sono numerosi

fattori di protezione che contribuiscono a ridurre la probabilità di sviluppare

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questa patologia. Tra questi troviamo la dieta, l’attività fisica e la

stimolazione cerebrale in età avanzata.

Un’alimentazione ricca di pesce, frutta e verdura porta un elevato apporto di

antiossidanti e acidi grassi polinsaturi, numerosi studi hanno dimostrato

una minore probabilità di sviluppare declino cognitivo a seguito di consumo

di questi alimenti e dunque un rischio inferiore di manifestare MA rispetto a

individui con bassa assunzione di queste sostanze (Morris et al.,2002;

Alzheimer’s Association, 2014).

Dati sperimentali ed epidemiologici suggeriscono che l’esercizio fisico

promuove la salute del cervello, questo perché attraverso l’attività fisica

aumenta il flusso sanguigno cerebrale e si attivano fattori di crescita che

promuovano cambiamenti strutturali cerebrali e portano ad un aumento

della densità (Colcombe and Kramer, 2003). Inoltre studi su roditori

suggeriscono che l’esercizio fisico diminuisce la percentuale di formazione

del peptide Aβ (Dishman et al., 2006).

E inoltre dimostrato che individui con elevati livelli di istruzione presentano

una minore incidenza nello sviluppo di demenza rispetto a individui con una

scarsa istruzione, in quanto l’attività cognitiva sembra diminuire il rischio di

declino cognitivo aumentando la riserva cognitiva. Quindi le persone che si

impegnano quotidianamente in attività cognitive stimolanti come

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l’apprendimento o la lettura avranno probabilità ridotte di sviluppare

demenza (Reitz at al., 2011).

Terapia:

Ad oggi purtroppo per questa patologia non vi è ancora una cura

farmacologica specifica, i farmaci che vengono impiegati in terapia sono volti

ad alleggerirne i sintomi, ma trattamenti rivolti a ritardare o arrestare la

progressione della malattia non sono ancora disponibili (Kumar et al., 2015).

Le terapie approvate dalla Food and Drug Administration (FDA) includono

questi farmaci:

inibitori dell’acetilcolinesterasi:

Nella malattia di Alzheimer si verifica uno scompenso chimico dovuto a una

carenza di acetilcolina (Ach). L’acetilcolina è un neurotrasmettitore, una

sostanza prodotta dal nostro organismo per trasferire gli impulsi nervosi, la

sua mancanza si traduce quindi in una perdita di efficienza delle funzioni

centrali. Questa, una volta prodotta, viene rilasciata a livello della fessura

sinaptica in modo da poter raggiungere i recettori postsinaptici e di

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interagire con essi depolarizzando la cellula e dando il via alla formazione di

un potenziale d’azione, subito dopo questa interazione l’Ach viene

immediatamente degradata dall’enzima acetilcolinesterasi.

Questo enzima è collocato in prossimità dei recettori colinergici e svolge la

sua azione attraverso la scissione dell’ Ach in acetato e colina, quest’ultima

viene prontamente riassorbita dal terminale presinaptico e utilizzata per la

sintesi di nuova acetilcolina.

L’azione di questo enzima è dunque estremamente importante in quanto

consente di interrompere la trasmissione dell’impulso nervoso. Per frenare

quindi la progressiva diminuzione di questo neurotrasmettitore vengono

impiegati farmaci che contrastano l’effetto distruttivo della

acetilcolinesterasi.

Attualmente i principi attivi inibitori dell’acetilcolinesterasi in commercio

sono: donezepil (Aricept®), rivastigmina (Exelon®), galantamina (Reminyl®

Razadyne®), tacrina (Cognex®) (la tacrina è raramente prescritta in quanto

presenta un grave effetto collaterale che produce danni al fegato). Questi

farmaci vengono prescritti solitamente in terapie allo stadio iniziale e medio

della MA e generalmente sono ben tollerati, gli effetti collaterali più frequenti

sono nausea, vomito, diarrea. Questi effetti si manifestano soprattutto

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all’inizio della terapia e di solito si riducono con il passare del tempo (Kumar

et al., 2015).

Farmaci che agiscono sul sistema glutammatergico antagonisti dei

recettori NMDA:

Il glutammato è una sostanza trasmettitrice che il cervello utilizza per lo

svolgimento di funzioni centrali. Nei malati di Alzheimer le cellule cerebrali

danneggiate liberano troppo glutammato e questo produce effetti dannosi. Il

glutammato in questa situazione stimola di continuo le cellule nervose fino

ad indebolirle e a provocarne la morte portando così ad un peggioramento

delle facoltà cerebrali. Il principio attivo utilizzato su questo sistema è la

Memantina (Namenda®) che interviene in questo processo di deterioramento

bloccando i singoli recettori. Le cellule nervose riconoscono così di nuovo i

normali segnali. Il trattamento con questo farmaco può stabilizzare per un

determinato periodo le capacità intellettive, può migliorare in alcuni casi

anche disturbi comportamentali quali nervosismo, irrequietezza ad

aggressività. Questo farmaco viene utilizzato negli stadi medio gravi di MA,

anch’esso è ben tollerato (Kumar et al. 2015).

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Epigenetica della malattia di Alzheimer:

Con il termine “epigenetica’’ si intendono modificazioni nell’espressione

genica ereditabili attraverso meiosi e mitosi che non includono modificazioni

della sequenza del DNA.

I meccanismi epigenetici quali metilazione del DNA, modificazioni delle code

degli istoni e processi di rimodellamento della cromatina controllano il

rilassamento o il compattamento della cromatina lungo l’intero asse del

cromosoma e dunque permettono o inibiscono l’accesso del promotore di un

gene ai macchinari di trascrizione, regolando così l’espressione genica senza

alterare la sequenza del DNA. In passato si era soliti pensare che le

modificazioni epigenetiche fossero importanti nelle fasi di sviluppo e

differenziamento cellulare e che venissero poi mantenute stabili nell’adulto

per il mantenimento dell’identità cellulare in cellule differenziate. Oggi è

invece evidente che queste modificazioni del DNA e della cromatina non sono

stabili come si pensava in origine, in quanto possono essere indotte da

fattori ambientali durante l’intero arco della vita in tessuti sani, rivestendo

un ruolo fondamentale nell’insorgenza e nella progressione di numerose

patologie, ivi comprese le malattie neurodegenerative.

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Le modificazioni epigenetiche sono costituite da meccanismi reversibili che

consentono alla cellula di esprimere o reprimere geni diversi in base alla sua

identità e agli stimoli ambientali che essa riceve. Per quanto riguarda i

neuroni è certo che le modificazioni epigenetiche sono alla base

dell’apprendimento e della memoria, pertanto ciò ha portato i ricercatori a

ipotizzare che potessero svolgere un ruolo di primaria importanza nel declino

cognitivo e nell’insorgenza di patologie neurodegenerative quali la malattia di

Alzheimer, la malattia di Parkinson, la sclerosi laterale amiotrofica (SLA), la

corea di Huntington e molte altre.

L’opportunità di poter condurre studi estesi su tutto il genoma, grazie ai

progressi della tecnologia, ha permesso di identificare molti fattori di

suscettibilità genetica per le forme sporadiche delle patologie

neurodegenerative, ma contemporaneamente ha anche dimostrato che la

variabilità interindividuale della sequenza del DNA da sola non può spiegare

la totalità dei casi.

Per questi motivi si è sviluppata l’ipotesi di una correlazione sempre

maggiore tra fattori genetici e ambientali che ci dimostra come questi ultimi

siano in grado di accendere o spegnere determinati geni all’interno delle

cellule interferendo con i meccanismi epigenetici di regolazione

dell’espressione genica. Da tutto ciò nasce dunque l’interesse nei confronti di

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molecole con proprietà epigenetiche come potenziali farmaci per la terapia di

malattie complesse (Coppedè, 2014).

Tra i meccanismi epigenetici quelli più studiati, in quanto possibili strumenti

di intervento farmacologico, sono la metilazione del DNA e l’acetilazione degli

istoni.

Metilazione del DNA:

La reazione di metilazione del DNA è mediata da enzimi chiamati DNA-

metiltransferasi (DNMTs) che utilizzano la S-adenosilmetionina (SAM) come

donatore di gruppi metilici che vengono aggiunti alla posizione 5’ dell’anello

pirimidinico della citosina, formando così la 5-metilcitosina (5-mC) (Figura

2).

La metilazione di queste regioni definite “CpG islands” (isole CpG) è associata

a repressione genica e tali isole CpG sono preferenzialmente localizzate nel

promotore di molti geni (Figura 2). Infatti, grazie al processo di metilazione

nella regione del promotore si possono indurre modificazioni conformazionali

della cromatina e inibire così l’accesso ai fattori di trascrizione alterando

l’espressione genica. Sono note diverse famiglie di DNMTs nei mammiferi: tra

queste, la DNMT1 è principalmente coinvolta nel mantenimento della

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metilazione del DNA durante lo sviluppo e la divisione cellulare, viene

pertanto chiamata metiltransferasi di mantenimento perché il suo ruolo è

quello di mantenere il corretto pattern di metilazione del DNA dopo la

replicazione. Troviamo poi la DNMT3A e la DNMT3B che sono responsabili

della metilazione de novo del DNA genomico (Li e Zhang, 2014).

Una volta avvenuta la metilazione questa è riconosciuta da proteine

chiamate “methyl-CpG-binding domain protein” (MBDs), come MeCP2,

MBD1 e MBD2 che contengono un dominio di repressione trascrizionale e

interagiscono con altre proteine allo scopo di permettere la repressione

dell’espressione genica.

La metilazione del DNA è un processo reversibile. Ad esempio, enzimi

appartenenti alla famiglia TET (ten-eleven traslocation) convertono la 5-

metilcitosina a 5-idrossimetilcitosina (5-hmC), una forma modificata della

citosina che mostra una bassa affinità per le MBDs ed è presente a livelli

elevati nel cervello (Li e Zhang, 2014). Molti autori ritengono tuttavia che la

5-hmC non sia soltanto un intermedio del processo di demetilazione del

DNA, ma che possa rappresentare essa stessa un marcatore epigenetico

(Münzel et al., 2011).

Il metabolismo dei folati gioca un ruolo di primaria importanza nel processo

di metilazione del DNA, poiché i folati agiscono come cofattori durante il

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trasferimento delle unità di carbonio necessarie per la produzione di SAM. In

particolare, il gruppo metilico viene trasferito dai folati all’ omocisteina

portando a produzione di metionina che viene poi convertita in SAM (Figura

3).

Numerose evidenze della letteratura hanno dimostrato che il metabolismo

dei folati è alterato in pazienti con malattia di Alzheimer portando numerosi

ricercatori ad ipotizzare che questo possa contribuire alle modificazioni

epigenetiche osservate nei cervelli MA post-mortem (Mastroeni et al. 2010).

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Figura 2: Metilazione del DNA mediata da DNA metiltransferasi (DNMTs) che

trasferiscono il gruppo metile dalla S-adenosilmetionina (SAM) al DNA. Tratta da

Coppedè, 2014.

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Figura 3: I folati introdotti con la dieta vengono assorbiti a livello intestinale ed

immessi in circolo prevalentemente sotto forma di 5-metil-tetraidrofolato (5-CH3-

THF). Una volta internalizzato nelle cellule, il 5-CH3-THF dona il gruppo metile

(CH3) per la conversione di omocisteina (hcy) in metionina (met). Quest’ultima viene

poi convertita in S-adenosilmetionina (SAM) ad opera dell’enzima metionina

adenosiltransferasi (MAT). Infine, le DNMTs trasferiscono il gruppo metile al DNA.

Tratta da Coppedè, 2014.

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Modificazioni delle code degli istoni:

Un altro meccanismo epigenetico che può influenzare l’espressione genica

coinvolge la modificazione delle code degli istoni. Gli istoni sono proteine che

costituiscono la componente strutturale della cromatina in quanto il

nucleosoma, che rappresenta l’unità funzionale e strutturale della

cromatina, è formato da circa 147 paia di basi di DNA che si avvolgono a

doppio giro su un ottamero di istoni. L’ottamero è costituito da due copie di

ciascun istone H2A, H2B, H3 e H4. I nucleosomi sono separati tra loro da

DNA linker e da istoni linker, come l’istone H1 che è coinvolto nella

compattazione della cromatina. Esistono diversi livelli di organizzazione della

cromatina, che si può trovare in una forma condensata inattiva definita

“eterocromatina” o in una forma non condensata e trascrizionalmente attiva

detta “eucromatina” (Luger et al., 1997).

Le code N-terminali degli istoni possono subire numerose modificazioni da

parte di specifici enzimi, che possono determinarne acetilazione, metilazione,

fosforilazione, ubiquitinazione o altre modificazioni post traduzionali (Figura

4). La combinazione di queste modificazioni insieme alla metilazione del DNA

sono responsabili della regolazione della struttura della cromatina e della

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sua accessibilità o meno ai complessi di trascrizione (Bannister and

Kouzarides, 2011).

Acetilazione degli istoni:

L’acetilazione è un meccanismo altamente dinamico ed è regolato

dall’opposta azione di due enzimi: istone acetiltransferasi (HATs) che

mediano l’acetilazione, e istone deacetilasi (HDACs) che deacetilano le code

acetilate. Le HATs utilizzano acetil coenzima A come cofattore catalizzando il

trasferimento del gruppo acetile (-COCH3) sul residuo amminoacidico della

lisina presente all’estremità N-terminale di tutti gli istoni che formano il

nucleosoma. Così facendo neutralizzano la carica positiva della lisina e

questo determina un indebolimento dell’interazione tra istoni e DNA.

L’acetilazione ha dunque come conseguenza una riduzione della

compattazione della cromatina e quindi un aumento dell’accessibilità ai

fattori di trascrizione (Figura 4).

Gli enzimi HDACs hanno invece azione opposta poiché rimuovono il gruppo

acetile dal residuo di lisina ripristinandone la carica positiva. Attraverso

questa modifica si ha stabilizzazione dell’architettura della cromatina

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associata quindi a repressione delle attività trascrizionali (Bannister and

Kouzarides, 2011).

Metilazione degli istoni:

La metilazione degli istoni rappresenta uno degli eventi epigenetici più critici

per la regolazione delle funzioni del DNA negli organismi eucarioti.

L’attuazione di questo processo può essere svolta da due grandi famiglie: le

istone lisina metiltransferasi (HKMTs) che catalizzano la metilazione della

lisina e le arginina metiltransferasi (PRMTs) che portano alla metilazione

dell’arginina. La lisina presente all’estremità N-terminale degli istoni può

essere metilata portando a stati di mono-, di-, e tri- metilazione associati a

diversi stati di condensazione della cromatina (Figura 4) (Zheng et al., 2014).

Anche i residui di arginina possono essere mono- o di-metilati ad opera delle

PRMTs (Krause et al., 2007) dando luogo ad un codice più complesso

rispetto alla sola acetilazione che, insieme alle altre modificazioni post-

traduzionali dei residui amminoacidici delle code degli istoni, è responsabile

del rilassamento o del compattamento della cromatina. Ad esempio,

acetilazione, monometilazione delle lisine 4, 36 e 79 dell’istone H3, e

fosforilazione della serina 10 dell’istone H3, sono in genere associati a

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cromatina decondensata. Al contrario, di- e tri-metilazione delle lisine 9 e 27

dell’istone H3 e della lisina 20 dell’istone H4 sono segnali repressivi associati

a cromatina condensata (Figura 4). Inizialmente la metilazione degli istoni,

così come la metilazione del DNA, era considerata un processo permanente,

successivamente sono stati scoperti enzimi con la capacità demetilante, le

istoni demetilasi (HDMs), che insieme alle istone metiltransferasi (HMTs)

regolano metilazione e demetilazione degli istoni (Zheng et al., 2014).

L’acetilazione e la metilazione degli istoni rappresentano le più note

modificazioni post-traduzionali. Sono poi note numerose altre modificazioni

reversibili degli istoni, quali la fosforilazione regolata da proteine chinasi e

fosfatasi, l’ubiquitinazione, e molte altre che complessivamente danno luogo

ad un complesso “codice istonico” (Bannister and Kouzarides, 2011).

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Figura 4: Principali modificazioni post-traduzionali dei residui amminoacidici delle

code istoniche ed esempi del “codice istonico”. Tratta da Coppedè, 2014.

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Evidenze di modificazioni epigenetiche nella malattia di

Alzheimer

Nonostante numerose modificazioni epigenetiche siano associate al

fenomeno fisiologico dell’invecchiamento, numerosi studi condotti in colture

cellulari, in modelli animali, in tessuto cerebrale post-mortem o in sangue di

pazienti affetti, suggeriscono l’importanza dei meccanismi epigenetici nello

sviluppo di MA di origine sporadica e di molti altri disturbi neurologici quali

depressione, schizofrenia, autismo, epilessia etc. Pertanto l’epigenetica è

stata recentemente individuata come potenziale obiettivo per lo sviluppo di

una terapia per questa e molte altre malattie neurologiche e

neurodegenerative (Adwan e Zawia, 2013; Coppedè, 2014). Di seguito

vengono riassunte alcune delle principali evidenze di alterazione della

metilazione del DNA e di modificazioni delle code istoniche potenzialmente

coinvolte nella MA.

Metilazione del DNA nella MA:

Numerosi studi mostrano come, a livello dell’intero genoma, i livelli globali di

metilazione del DNA in DNA estratto da cervelli post-mortem di soggetti

affetti da MA siano inferiori rispetto a quelli riscontrati in DNA proveniente

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dalle stesse regioni cerebrali di individui sani (Mastroeni et al. 2009; 2010).

In particolare, uno studio post-mortem condotto su una coppia di gemelli

monozigoti discordanti per MA riporta una significativa riduzione dei livelli di

metilazione del DNA a livello della neocorteccia temporale nel gemello

malato. Questi risultati sono coerenti con l’ipotesi che i meccanismi

epigenetici medino, a livello molecolare, gli effetti di fattori ambientali diversi

sul rischio di manifestare MA, nonostante le somiglianze genetiche

(Mastroeni et al., 2009). Questa tendenza all’ ipometilazione globale del DNA

nei cervelli di pazienti affetti da MA è stata ulteriormente confermata da uno

studio recente in cui sono stati analizzati i livelli dei due principali marcatori

di metilazione del DNA, ovvero la 5-metilcitosina e la 5-idrossimetilcitosina. I

risultati hanno mostrato un decremento significativo nell’ippocampo di 5-mC

e 5-hmC (rispettivamente del 19,6% e del 20,2%) nei pazienti con MA

rispetto ai soggetti di controllo (Chouliaras et al., 2013).

L’ipometilazione del DNA è stata inoltre correlata ad un incremento delle

placche amiloidi, ad una maggiore produzione di APP e ad un incremento

dell’attività di enzimi quali BACE-1 e presenilina 1 coinvolti nel processo

amiloidogenico della APP che porta alla produzione di Aβ-42 (Chouliaras et

al., 2013; Iwata et al., 2014). Studi condotti in vitro o in modelli animali di

MA, come pure in DNA estratto da cellule di sangue periferico, hanno

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suggerito che, oltre a cambiamenti globali nella metilazione del DNA, anche

cambiamenti gene-specifici possano avere un ruolo chiave nell’insorgenza

della malattia. Geni coinvolti nella produzione del peptide Aβ-42, quali APP,

BACE1, PSEN1 ed altri, sono stati il bersaglio di numerosi studi che hanno

tuttavia fornito risultati conflittuali (Coppedè, 2014). Studi recenti di tipo

epigenome-wide (EWAS), condotti in DNA estratto da regioni corticali di

pazienti MA post-mortem, hanno tuttavia identificato alcuni potenziali geni

candidati, quali ad esempio ANK1 coinvolto nel mantenimento dell’integrità

della membrana plasmatica (Lunnon et al., 2014), o geni candidati per la MA

sporadica quali ad esempio SORL1, ABCA7 e BIN1 (Yu et al., 2015).

Modificazioni degli istoni nella MA:

Un secondo e diffuso meccanismo di controllo epigenetico dell’espressione

genica abbiamo visto interessare le modificazioni delle code degli istoni, cioè

alterazioni nella metilazione, acetilazione e altre modifiche post-traduzionali,

che determinano un cambiamento nella conformazione della cromatina

(Kouzarides, 2007; Millan, 2013). Tra tutte le modifiche individuate finora

nel sistema nervoso quella che sembra essere associata con apprendimento,

memoria e dunque alla base della patogenesi della MA, è un’alterazione

dell’acetilazione. È stato infatti dimostrato come questa sia

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significativamente ridotta a livello del lobo temporale in pazienti con MA

rispetto ai soggetti di controllo e ciò è riconducibile all’azione delle istone

deacetilasi (HDACs) (Zhang et al., 2012). Il livello di acetilazione degli istoni

gioca un ruolo importante nella regolazione della condensazione della

cromatina e quindi della trascrizione genica (Roth et al., 2001). L’esatto ruolo

fisiologico delle HDACs nella cellula non è ancora stato del tutto compreso,

ed è attualmente uno dei maggiori campi di studio. La loro attività è

strettamente correlata con una moltitudine di meccanismi tra i quali il

reclutamento in diversi complessi come co-repressori e la modulazione

dell’attività deacetilasica. Si può parlare quindi di un’attività enzimatica, che

consiste nella deacetilazione degli istoni o altre proteine non istoniche e di

un’ attività funzionale che comprende la capacità di regolare la trascrizione e

altri processi biologici. Nei mammiferi esistono diciotto enzimi appartenenti

alla famiglia delle HDACs, questi sono suddivisi in quattro classi principali

ed espressi in maniera differenziale nelle varie aree cerebrali. In tabella 1

sono riassunte le loro principali funzioni e la loro localizzazione. Tra questi

enzimi, quelli appartenenti alle classi I, II e IV sono zinco-dipendenti, mentre

la classe III è nicotinammide-dipendente (NAD+-dipendenti) (Carey e

Thangue 2006; Chuang et al., 2009). La classe I è composta da HDACs 1, 2,

3 e 8, queste sono prevalentemente nucleari, ubiquitariamente espresse e

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funzionano come co-repressori della trascrizione. La classe II si divide in due

sottotipi: classe IIa e IIb, la prima include le HDACs 4, 5, 7 e 9 in cui è

presente un solo dominio deacetilasico, mentre la seconda è costituita da

HDACs 6 e 10, in cui ne sono presenti due. Gli enzimi della classe IIa fanno

da spola tra il nucleo e il citoplasma in risposta a determinati segnali

cellulari, mentre quelli appartenenti alla IIb sono principalmente localizzati

nel citoplasma (Xu et al., 2011). Nettamente differente è invece la classe III:

gli enzimi di questo gruppo sono le sirtuine (SIRT) strutturalmente e

funzionalmente distinte dalle altre HDACs in quanto NAD+-dipendenti. Sono

enzimi che presentano una differente localizzazione cellulare: citoplasmatica,

mitocondriale e nucleare. Appartengono a questa classe le sirtuine da 1 a 7,

di cui le SIRT 3, 4 e 5 sono proteine mitocondriali, le 1, 6 e 7 sono localizzate

nel nucleo, mentre la 2 è localizzata nel citoplasma (Michishita et al., 2005).

Alla classe IV appartiene invece un unico membro, la HDAC 11 anch’essa

localizzata nel nucleo. Le HDACs a cui è stata rivolta la massima attenzione,

in quanto si crede essere maggiormente coinvolte nella patologia di

Alzheimer, sono le HDAC 2 e 6. È stato infatti accertato come le capacità

cognitive siano alterate da un blocco epigenetico della trascrizione genica

mediato dalla istone deacetilasi 2, i cui livelli risultano aumentati in modelli

cellulari, in modelli murini di neurodegenerazione e in pazienti affetti da MA.

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Questo è stato associato con una ridotta acetilazione degli istoni di geni

importanti per l’apprendimento e la memoria che in queste condizioni

mostrano una ridotta espressione (Gräff et al., 2012). In particolare per

verificare se HDAC 2 è coinvolta nei meccanismi associati alla degenerazione

sono stati misurati i suoi livelli in topi CK-p25 (Cruz et al., 2003 ; Cruz et al.,

2006), questi modelli animali presentano una sovraespressione della

proteina p25, la quale attiva in modo anomalo una chinasi (CDK5) che è

implicata in processi neurodegenerativi in molte patologie, tra cui MA (Cruz

and Tsai, 2004). Dopo sei settimane di induzione della proteina p25 i topi

hanno mostrato una patologia MA-simile caratterizzata da perdita

neuronale, accumulo della β-amiloide, ridotta densità sinaptica soprattutto a

livello dell’ippocampo e della corteccia, aree importanti per la formazione

della memoria e per il suo immagazzinamento (Cruz et al., 2003; Frankland

and Bontempi,2005; Cruz et al., 2006). Attraverso l’utilizzo

dell’immunoistochimica e della analisi di Western Blot (tecniche biochimiche

che permettono di individuare molecole specifiche) sono stati trovati livelli

significativamente aumentati di HDAC 2 nell’ippocampo in topi CK-p25,

mentre al contrario livelli di HDAC 1 e HDAC 3, coinvolte anch’esse nella

formazione della memoria, non erano alterate (Gräff et al., 2012). È stato

inoltre osservato che HDAC2 è associata a regioni del promotore di numerosi

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geni, tra i quali troviamo: ARC, EGR1, HOMER1 e CDK5 implicati nell’

apprendimento e nella memoria e GLUR1, GLUR2, NR2A e NR2B coinvolti

nella plasticità sinaptica. Sono stati poi valutati i livelli di acetilazione di

alcuni istoni nella regione del promotore di questi geni tra i quali: lisina 5

dell’istone H2B, H3K14, H4K5 e H4K124 attraverso la tecnica

dell’immunoprecipitazione della cromatina (Chip), rivelando una

ipoacetilazione per tutti i residui delle code istoniche anche se in misura

diversa (Gräff et al., 2012).

Per una corretta comunicazione tra le cellule del sistema nervoso

fondamentale è la trasmissione dell’impulso tra il corpo cellulare e la

porzione terminale dei neuroni, questo è un passaggio critico che coinvolge i

microtubuli per il trasporto assonale. I microtubuli sono strutture

intracellulari dinamiche, sono polimeri di α-tubulina (Janke e Kneussel,

2010). Essi costituiscono assieme ai microfilamenti e ai filamenti intermedi il

citoscheletro. La loro funzione principale è l'organizzazione e il trasporto

intracellulare, ma assicurano anche una certa stabilità meccanica alla

cellula. La tubulina può essere sottoposta a varie modifiche post-traduzionali

come acetilazione, fosforilazione e tirosinazione (Hammond et al., 2008;

Fukushima et al., 2009). Queste modifiche regolano non solo l’interazione

tra microtubuli e proteine associate ad essi, ma anche la loro stabilità

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contribuendo a regolare la formazione delle sinapsi e il trasporto neuronale

(Dent and Gertler, 2003; Hammond et al., 2008; Fukushima et al., 2009).

L’acetilazione dell’ α-tubulina svolge un ruolo positivo nel trasporto assonale,

incrementando la stabilità nei microtubuli (Bulinski, 2007). L’ HDAC 6 è

l’enzima responsabile che media la deacetilazione della α-tubulina,

suggerendone un coinvolgimento nella malattia di Alzheimer confermato dal

fatto che pazienti affetti da questa patologia mostrano un ridotto livello di

acetilazione dell’ α-tubulina mentre presentano elevati livelli di HDAC 6

(Ding et al., 2008; Henriques et al., 2010). Questo enzima, come abbiamo

detto precedentemente, fa parte della classe delle HDACs II e più

precisamente della sottoclasse IIb, è localizzato principalmente nel

citoplasma dove regola i livelli di acetilazione della α-tubulina ma anche della

cortactina e delle proteine dello shock termico (Hsp90) (Zhang et al. 2003;

Zhang et al. 2007). Attraverso il suo legame sia con i microtubuli, sia con le

altre proteine, la HDAC 6 è in grado di facilitare il trasporto e la

concentrazione di aggregati proteici in aggreosomi costringendo le cellule ad

affrontare un accumulo anomalo di proteine mal ripiegate, che sono infatti

una caratteristica comune a molte malattie neurodegenerative ed è per

questo che la HDAC 6 è stata individuata come uno dei meccanismi chiave

di questi processi (Kawaguchi et al. 2003).

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Altra classe delle HDACs coinvolta in processi patologici sono le sirtuine.

Queste sono una famiglia di proteine deacetilasi altamente conservate che

dipendono, per la loro attività, dalla nicotinammide adenina dinucleotide.

Come abbiamo detto in precedenza vi sono sette sirtuine nei mammiferi e la

loro azione è stata collegata con l’ invecchiamento modulando il metabolismo

energetico, la stabilità genomica e la resistenza allo stress, queste possono

inoltre influenzare la progressione delle malattie neurodegenerative

attraverso la modulazione dell’attività dei fattori di trascrizione (Herskovits

and Guarente, 2013). Tra i vari tipi di sirtuine quella maggiormente studiata

è la SIRT1, questa ha come substrati, oltre agli istoni, anche proteine non-

istoniche come la p53 (un fattore di trascrizione che regola il ciclo cellulare

descritto come "il guardiano del genoma" riferendosi al suo ruolo di

preservazione della stabilità attraverso la prevenzione delle mutazioni) (Luo

et al., 2001) , la PGC1α (un co-attivatore della trascrizione) (Nemoto et al.,

2005) e il NF-κB (fattore di trascrizione che trascrive per mediatori pro-

infiammatori) (Yeung et al., 2004). Dunque mentre la deacetilazione degli

istoni conduce a uno stato di silenziamento genico (Sauve et al., 2006; Dali-

Youcef et al., 2007), la deacetilazione di proteine non istoniche ha una vasta

gamma di effetti biologici tra cui regolazione metabolica, promozione della

sopravvivenza e autofagia (Dali-Youcef et al., 2007; Brooks and Gu, 2009;

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Madeo et al., 2010). La SIRT1 è espressa a livello cerebrale nella corteccia,

nell’ippocampo, nel cervelletto e nell’ ipotalamo, tra i vari tipi di cellule

presenti a livello centrale è prevalentemente se non esclusivamente presente

nei neuroni (Ramadori et al., 2008). Studi hanno dimostrato che l’attivazione

della SIRT1 porta alla riduzione della morte cerebrale e dell’atrofia neuronale

evidenziando così l’effetto protettivo di questo enzima verso la MA, ciò è

confermato dal fatto che il suo deficit è associato con un incremento dei

livelli di proteine Tau fosforilate nei neuroni e quindi di conseguenza con un

incremento dei grovigli neurofibrillari (Kim et al., 2007; Julien et al., 2009;

Min et al., 2010). I target della SIRT1 sono dunque le proteine Tau e i peptidi

Aβ, le due caratteristiche patologiche più importanti della MA. Come

abbiamo detto la Tau è una proteina presente nei microtubuli dei neuroni e

permette l'assemblaggio, l'organizzazione e la stabilizzazione dei microtubuli.

Queste funzioni sono compromesse quando la Tau subisce fosforilazione

portando a una distruzione della struttura dei microtubuli. La degradazione

delle Tau fosforilate migliora le funzioni cognitive e riduce la morte neuronale

nei topi, tuttavia quando le Tau sono acetilate questa degradazione è inibita,

la SIRT1 è in grado di regolare il livello di Tau fosforilata tramite attività di

deacetilazione portando a una riduzione dei suoi livelli (Min et al., 2010).

Inoltre recenti studi mostrano come la somministrazione di resveratrolo, una

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sostanza che agisce sulla SIRT1, porti a una sovrespressione di questo

enzima che di conseguenza a una riduzione di Aβ sia in vitro sia in vivo

(Donmez et al., 2010). Il peptide Aβ è generato dalla proteina precursore

della amiloide, in condizioni fisiologiche la APP è processata dalla α-secretasi

generando prodotti solubili, se processata da β- e γ- secretasi viene invece

convertita in prodotti Aβ tossici. La sovraespressione della SIRT1 stimola la

produzione di α-secretasi (Donmez et al., 2010). Questo enzima riduce anche

il pathway della NF-κB, il principale fattore di trascrizione che codifica per

mediatori pro-infiammatori nel sistema nervoso e la sua attivazione aggrava

il danno neuronale, a questo livello la SIRT1 deacetila la subunità p65 del

NF-κB riducendo la sua attivazione e proteggendo quindi le cellule dalla

apoptosi (Chen et al.,2005).

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Tabella 1 Istone deacetilasi (HDACs) e alcuni inibitori nei mammiferi

* I livelli di espressione sono ottenuti da studi in regioni cerebrali di roditori (Broide et al., 2007; Zakhary et al.,

2010) e in ordine da alta espressione a bassa espressione. A, amigdala; Ce,cervelletto; Ch, plesso coroideo; Co,

corteccia; Cp, putamen caudato; Gp, globo pallido; Hi, ippocampo; Na, nucleo accumbens; M, midollo; Ob, bulbo

olfattivo; P, ponte; Sc, midollo spinale; Sn-c, substantia nigra pars compacta; Sn-r, substantia nigra pars

reticulata.

Istone deacetilasi classi/funzioni

proteine / localizzazione subcellulare / regioni di espressione* nel cervello e

nel midollo spinale

Inibitori HDAC (HDACi)

Classe I (zinco dipendente) Coinvolte in: regolazione della trascrizione di specifici geni attraverso la formazione di complessi trascrizionali stabili

HDAC 1/nucleo/Ce, Ob, A, Hi, Co, Ch, P, Sc, Hy, SN-c, Sn-r, M, Na, Cp HDAC2/nucleo/Hi, Ce, Ob, Co, A, Cp, Na, P, Sc, Sn-c, Hy, M, Sn-r HDAC3/navetta tra nucleo e citoplasma/Hi, Ce, Ob, Co, A, Sn-c, Hy, Cp, Na, Ch, M, Sc, P, Sn-r, Gp HDAC8/nucleo/Hi, Ce, Ob, A, Sn-c, Co, Hy, P, M, Sc

Pan-inibitori: tricostatina A, vorinostat, butirrato, fenilbutirrato, valproato Inibitori selettivi: MS-275 (HDAC1), 4b (HDAC1 e3)

Classe IIa (zinco dipendente) Navetta tra nucleo e citoplasma interagisce sia con le proteine del nucleo

che del citoplasma ha attività di istone deacetilasi interagendo con HDAC3

HDAC 4/nucleo-citoplasma/Ce, Hi, Ob, Co, A, Sn-c, Hy, P, M, Sc, Sn-r, Na, Cp, Gp HDAC 5/nucleo-

citoplasma/Ce, Hi, Ob, Co, Sn-c, Hy, Cp, Na, A, P, M, Sc, Ch, Sn-r, Gp, HDAC 7/nucleo-citoplasma/Ce, Hi, Ob, A, Sn-c, Co, Cp, Na, Hy, P, M, Sc HDAC 9/nucleo-citoplasma/Hi, Sn-c, Ob, Co, A, P, Ce

Pan-inibitori: tricostatina A, vorinostat, butirrato, fenilbutirrato, valproato

Classe IIb (zinco dipendente) HDAC6: prende parte alla

rete di microtubuli agendo sulla α-tubulina e proteine tau, gioca un ruolo fondamentale nella formazione di aggregati di proteine; HDAC 10:

deacetilasi citoplasmatica

HDAC 6/citoplasmaHi, Ob, Ce, Co, A, Sn-c, Hy, P, Cp, Na, M, Sc HDAC 10/citoplasma/Hi, Ob, Ce, A

Pan-inibitori: tricostatina A, vorinostat

Classe III (nicotinammide dipendente) SIRT1-3 hanno un’attività di deacetilasi; SIRT4 è una ADP-ribosiltrasferasi; SIRT5 è una deacetilasi e ha anche altre attività; SIRT6 ADP-ribosiltrasferasi e attività di deacetilasi; SIRT7 è una deacetilasi

Sirtuina (SIRT) 1e 6/nucleo/(SIRT1) Co, Hi, Ce, Hy, Sc SIRT2/citoplasma SIRT3, 4, 5/mitocondri SIRT7/nucleo

Pan-inibitori: nicotinammide Inibitori selettivi: AK-1, AGK-2, AK-7 (sirtuina2)

Classe IV (zinco dipendente) membro della sopravvivenza del complesso dei moto neuroni ha un ruolo funzionale nello splicing del mRNA

HDAC 11/nucleo/Hy, A, Ob, P, Co, Cp, Na, Hi, Sn-c, Sc, M, Sn-r, Gp

LAQ824

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Composti inibitori delle Istone deacetilasi:

Abbiamo visto come i livelli di acetilazione degli istoni siano importanti nella

regolazione della condensazione della cromatina e nella trascrizione genica,

le HDACs possono dunque rappresentare un target terapeutico per il

trattamento di numerose patologie. Gli inibitori delle istone deacetilasi

(HDACis) si sono infatti mostrati essere efficaci in molte malattie come il

diabete, malattie autoimmuni e soprattutto sono emersi come potenziale

strategia terapeutica per capovolgere i cambiamenti aberranti associati con i

tumori (Marks et al., 2001a; Bolden et al., 2006). Gli inibitori delle HDACs

hanno infatti dimostrato causare l’arresto della crescita, differenziamento

e/o apoptosi delle cellule tumorali alterando la trascrizione dei geni (Marks

et al., 2001b). Recentemente si sono rivelati utili nel trattamento di patologie

neurodegenerative come malattia di Alzheimer e malattia di Parkinson in

quanto agiscono da neuroprotettori portando a un miglioramento della

plasticità sinaptica, dell’ apprendimento e della memoria. Sembra una

contraddizione che una classe di farmaci studiati per la terapia del cancro,

dove le cellule perdono la capacità di andare in contro a morte cellulare,

possono risultare efficaci per patologie neurodegenerative, dove invece le

cellule muoiono prematuramente, a questo proposito negli ultimi anni sono

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emersi un certo numero di sistemi cellulari che trovano corrispondenza sia

nei processi tumorali sia in patologie neurodegenerative, come alterazioni nel

ripiegamento delle proteine e conseguente degenerazione, ciclo cellulare,

riparazione del DNA, stress ossidativo e infiammazione cronica (Devine et al.,

2011). Sebbene gli inibitori delle HDACs possano essere suddivisi in classi in

base alla loro struttura chimica o in base alla loro origine (naturale o

sintetica) tutti sono costituiti da un gruppo di riconoscimento, una catena

alifatica e da un gruppo funzionale con la capacità di chelare il catione sul

fondo del sito attivo. La lunghezza ottimale per la catena alifatica varia dai

cinque ai sei atomi di carbonio e l’attività inibitrice diminuisce drasticamente

con catene di lunghezza maggiore o minore. Le molecole con attività

inibitrice nei confronti delle HDACs vengono comunque suddivise, in base

alla struttura chimica in quattro classi principali: idrossammati, acidi grassi

a corta catena, peptidi ciclici, benzammidi e composti eterogenei (Figura 5).

PEPTIDI CICLICI:

Un certo numero di peptidi ciclici hanno attività di inibitori delle HDACs

attraverso l’interazione con lo zinco all’interno del sito catalitico causandone

così l’inibizione (Furumai et al., 2002). Tuttavia a causa della grande varietà

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della struttura chimica di questa classe lo sviluppo e la ricerca del loro

utilizzo come farmaci è stato un po’ difficoltoso, fanno parte di questa classe:

apicidin e romidespin (Figura 5). L’apicidin mostra una maggiore selettività

per HDAC2, HDAC3 e in misura minore per HDAC8 (Figura 6), questo è uno

dei più selettivi HDACi agendo con una potenza relativamente alta e

presentando una buona capacità nel superamento della barriera emato-

encefalica (Khan et al., 2008). Romidespin mostra una maggiore efficacia per

l’inibizione dell’ HDAC1, HDAC2 e in misura minore per HDAC4 (Figura 6)

(Khan et al., 2008). Questo composto è un profarmaco in quanto il ponte

disolfuro subisce reazione di riduzione all’interno della cellula e il tiolo che si

forma interagisce con l’atomo di zinco presente all’interno della tasca

catalitica della HDAC causando il blocco della sua attività (Furumai et al.,

2002). Grazie alla loro selettività per le isoforme HDACs questa classe

rappresenta un modello incoraggiante per lo sviluppo delle HDACi

permettendo, con il loro trattamento, di limitare i possibili effetti collaterali.

ACIDI GRASSI A CATENA CORTA:

I farmaci più conosciuti di questa classe sono: il valproato, il butirrato e il

fenilbutirrato (Figura 5), presentano profili di azione comune attraverso

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l’inibizione dell’azione delle HDACs di classe I e IIa (Figura 6) (Grayson et al.,

2010). Questa classe di composti è caratterizzata da una breve emivita

plasmatica, aspecificità e scarsa potenza dovuta alla breve catena alifatica

che determina la loro incapacità di accedere al catione zinco presente nel sito

attivo che è fondamentale per l’attività di deacetilasi (Lu et al., 2003). È

dunque probabile che essi utilizzino meccanismi diversi per svolgere la sua

azione di inibitori. Il valproato è uno dei farmaci antiepilettici più prescritti,

nel 2001 è stato scoperto essere inoltre un inibitore delle istone deacetilasi

grazie alla sua capacità di ridurre la repressione trascrizionale e causare una

iperacetilazione degli istoni sia in vivo che in vitro (Gottlicher et al., 2001;

Phiel et al., 2001). Ad oggi è conosciuto come pan-inibitore per le classi

HDAC I e IIa così come anche il butirrato (Figura 6) (Gurvich et al., 2004).

IDROSSAMMATI:

Questa classe di inibitori è molto affine per le HDACs di classe I e II (Figura

6), questi composti sono costituiti da tre elementi: dall’acido idrossammico,

da una catena idrofobica e da una coda polare; ognuno di questi può

interagire con differenti parti del sito catalitico delle HDACs. La struttura di

queste molecole consiste in un linker idrofobico che permette al gruppo

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idrossammico di chelare il catione zinco sul fondo della tasca catalitica,

mentre il resto della molecola blocca l’accesso alla tasca stessa (Marks et al.,

2004; Villar-Garea & Esteller, 2004). La maggior parte degli idrossammati

sono pan-inibitori, ovvero non hanno alcuna selettività specifica per le

HDACs e in generale i farmaci appartenenti a questa classe sono noti per

avere un tempo di dimezzamento relativamente breve (Hahnen et al., 2008). I

composti più importanti che fanno parte di questa classe sono la tricostatina

A (TSA) e l’acido suberoil-anilide idrossammico (SAHA) commercialmente

noto con il nome di Vorinostat (Figura 5) (Chuang et al., 2009). La

tricostatina A è stata originariamente sviluppata come antibiotico

antimicotico (Tsuji et al., 1976) e ad oggi conosciuta come pan-inibitore, è

nota per avere elevati livelli di tossicità a causa della sua non-selettività, per

tali motivi è spesso utilizzata come modello di riferimento per la

progettazione e lo sviluppo di nuovi composti HDACi (Harrison and Dexter,

2013); l’acido suberoil-anilide idrossammico è il più avanzato inibitore delle

istone deacetilasi, è ben tollerato, rapidamente assorbito e metabolizzato in

modo efficiente in due composti non farmacologicamente attivi (Ramalingam

et al., 2010).

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BENZAMMIDI:

Al contrario degli acidi grassi a catena corta, peptidi ciclici e idrossammati,

le benzammidi rappresentano una nuova classe relativamente selettiva che

mostra un lungo tempo di dimezzamento in confronto agli altri inibitori

(Glozak et al., 2005). I due maggiori farmaci all’interno di questa classe sono:

MS-275 e CI-994 (Figura 5) entrambi selettivi per l’inibizione della HDAC1 e

in misura minore della HDAC3 (Figura 6) (Grayson et al., 2010).

COMPOSTI ETEROGENEI:

Le classi viste finora mostrano la loro attività per le HDACs zinco-dipendenti,

la classe III è invece strutturalmente e enzimaticamente differente dalle

classi I, II e IV, quindi gli inibitori delle HDACs che interagiscono con esse

non rientrano in nessuno dei composti illustrati in precedenza. Fa parte di

questi la nicotinammide (Figura 5), un inibitore di tutte le sirtuine (SIRT1-7)

(Figura 6) grazie alla sua capacità di legarsi al sito NAD+ inibendo la

deacetilazione di substrati acetilati. Questa molecola oltrepassa con facilità

la barriera emato-encefalica quando somministrata per via orale,

caratteristica che pochi inibitori posseggono (Broide et al., 2007). Questa

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sostanza presenta una vasta gamma di funzioni biologiche tra cui

produzione di energia, sintesi di acidi grassi, colesterolo, steroidi,

trasduzione del segnale e mantenimento dell’integrità genomica (Maiese and

Chong, 2003). È il precursore di NAD+ e per tale ragione è in grado di inibire

la classe III delle HDACs attraverso il suo legame con il sito attivo delle

sirtuine (Avalos et al., 2005), negli ultimi anni c’è stato un crescente

interesse verso questa sostanza come agente neuroprotettivo in quanto è

stata dimostrata la sua capacità nel ripristinare la funzione cognitiva in

modelli transgenici per la malattia di Alzheimer (Green et al., 2008). Un altro

inibitore con specificità maggiore è la suramina (Figura 6) che mostra la sua

selettività attraverso l’inibizione delle sirtuine 1 e 2 (Gregoretti et al., 2004).

Inoltre sono poi stati identificati due composti con ancora maggiore

specificità: sirtinolo e AGK-2 (Figura 5) che inibiscono, rispettivamente,

sirtuina 1 (Figura 6) (Trapp et al., 2007) e sirtuina 2 (Figura 6) (Outeiro et

al., 2007).

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Figura 5. Classi chimiche di inibitori delle istone deacetilasi. Gli HDACi zinco-

dipendenti possono essere divisi in quattro classi in base alla struttura chimica:

idrossammati, acidi grassi a catena corta, peptidi ciclici e benzammidi. Gli HDACi

NAD+-dipendenti variano notevolmente nella loro struttura, sono I composti

eterogenei. Tratto da Harrison e Dexter, 2013.

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Figura 6. Target degli inibitori delle istoni deacetilasi. Tratto da Harrison e Dexter,

2013.

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Inibitori di HDACs in modelli animali di MA

Le HDACs svolgono un ruolo chiave nell’omeostasi dell’acetilazione di

proteine istoniche e non-istoniche che regolano attività cellulari

fondamentali come la trascrizione. Squilibri nei livelli di acetilazione di

queste proteine producono disfunzioni nella trascrizione, le quali sono

associate ad una vasta gamma di disturbi, tra cui la malattia di Alzheimer. Il

trattamento con vari inibitori delle HDACs corregge questi difetti e per tale

motivo il loro studio è emerso come una promettente strategia per

l’intervento terapeutico nelle malattie neurodegenerative (Chuang et al.,

2009). Anche se gli studi su esseri umani sono scarsi, quelli condotti su

modelli animali e colture cellulari hanno rivelato che la manipolazione

dell’acetilazione degli istoni, con inibitori delle HDACs, si traduce spesso

nella prevenzione di deficit cognitivi e nel recupero della memoria (Coppedè,

2014). Sono stati sviluppati molti inibitori per questi enzimi tra cui: acido

valproico, tricostatina A, sodio fenilbutirrato e SAHA, i quali interagiscono

con le proteine HDACs zinco-dipendenti causandone inibizione, mentre la

nicotinammide e altri composti maggiormente selettivi hanno la funzione di

inibire le HDACs NAD+-dipendenti (Figura 5).

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Il potenziale terapeutico degli inibitori delle HDACs nella MA è stato

inizialmente testato su modelli murini in cui è stata indotta una

sovraespressione della proteina p25 (topi CK-p25) (Fischer et al., 2005) che

risulta in accumulo di β-amiloide, fosforilazione della proteina Tau,

neurodegenerazione e danneggiamento della memoria (Cruz et al., 2003;

Fischer et al., 2005; Cruz et al., 2006). Somministrazioni intra-peritoneali di

sodio butirrato per quattro settimane sono state capaci di ristabilire le

capacità di apprendimento e di ripristinare il recupero della memoria in

questi modelli di topo CK-p25 affetti da MA in forma grave (Tabella 2).

Questa azione è correlata con sinaptogenesi suggerendo dunque l’effetto

neuroprotettivo e neuro-rigenerativo dell’attività di questi inibitori (Fischer et

al., 2007). Successivi studi hanno rivelato che somministrazioni di sodio

butirrato, in modelli di topi transgenici per la MA, sono collegate ad una

riduzione della fosforilazione della proteina Tau e ad un ripristino della

densità delle spine dendritiche nei neuroni dell’ippocampo (Ricobaranza et

al., 2012).

Ulteriori studi hanno impiegato un modello murino per la deposizione

dell’amiloide APP/PS1 (sono modelli di topo doppi transgenici che

manifestano mutazioni sia del precursore della proteina amiloide, che della

presenilina 1) i quali mostrano una riduzione dell’acetilazione dell’istone 4

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nell’ippocampo. La somministrazione di tricostatina A ristabilisce il deficit

dell’acetilazione dell’istone H4 e incrementa la formazione della memoria

associativa in questi modelli di topo (Tabella 2) (Francis et al., 2009).

Risultati simili sono stati osservati in altri modelli murini per la deposizione

dell’amiloide in cui la somministrazione per cinque settimane di

fenilbutirrato, attraverso iniezioni intra-peritoneali, ha condotto ad un

miglioramento della memoria a sedici mesi di età in topi Tg2576 (topi

transgenici con per il gene APP con doppia mutazione) (Ricobaraza et al.,

2009). Successivamente gli stessi autori hanno dimostrato che in seguito a

trattamento con fenilbutirrato è stata anche ripristinata la densità delle

spine dendritiche (Ricobaraza et al., 2012).

In un altro studio topi APP/PS1 delta 9 sono stati trattati per due/tre

settimane con sodio butirrato, valproato o con SAHA (Kilgore et al., 2010),

l’utilizzo di tali farmaci ha migliorato le funzioni cognitive e anche se questo

studio non ha permesso di analizzare i livelli di acetilazione degli istoni, ha

consentito la determinazione del valore di IC50 (concentrazione inibente,

ovvero la concentrazione di un inibitore enzimatico necessaria per inibire il

50% del bersaglio in esame, è perciò un parametro utilizzato per valutare

l’efficacia dell’inibizione di una sostanza) per tutti e tre questi farmaci,

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scoprendo che SAHA è stato l’inibitore più efficace con attività sulle HDACs

di classe I (HDAC 1, 2, 3 e 8) e di classe II (HDAC6) (Kilgore et al., 2010).

Studi condotti su topi APP/PS1 nei quali è stato raggiunto uno stadio grave

della patologia di MA sono stati trattati con iniezioni croniche intra-

peritoneali di sodio butirrato. A questo grado di patologia è stata osservata

una diffusa down-regulation dell’acetilazione degli istoni e dell’espressione

genica in varie regioni del cervello ed è stato appurato come questa

situazione sia parzialmente risanabile a seguito del trattamento con

l’inibitore delle HDAC il quale ha portato ad un miglioramento della funzioni

mnestiche in questi modelli murini (Govindarajan et al., 2011).

In tutti gli esperimenti precedentemente descritti sono stati impiegati pan-

inibitori, ovvero inibitori che non mostrano una specifica selettività ed è

importante sottolineare come tutti i casi di trattamento con queste sostanze,

in modelli murini, sono stati efficaci anche se somministrati in uno stadio

moderato della patologia (Govindarajan et al., 2011).

Un recente studio ha valutato gli effetti della somministrazione orale di MS-

275 (Entinostat), un inibitore delle HDACs di classe I che mostra selettività

per la HDAC1 (Hu et al., 2003; Khan et al., 2008; Bahari-Javan et al., 2012),

in topi APPPS1-21 (Zhang and Schluesener, 2013). In questo esperimento

questi modelli di topo sono stati trattati con tale farmaco per una durata di

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dieci giorni mostrando un miglioramento nel comportamento, una ridotta

neuroinfiammazione e una riduzione della deposizione delle placche amiloidi

sia nelle regioni dell’ippocampo che della corteccia (Zhang and Schluesener,

2013).

Un altro studio ha testato l’effetto di due nuovi inibitori con proprietà

farmacologiche migliori, emivita più lunga e maggiore capacità di

penetrazione della barriera emato-encefalica; la classe basata sulla

mercaptocetamide con attività sulle HDACs di classe II (codificata come W2)

e la classe basata sulle idrossamidi con attività su classi I e II delle HDACs

(codificata come I2). W2 riduce i livelli di Aβ-40 e Aβ-42 in vitro, mentre I2

agisce solo su Aβ-40 riducendolo. Sono stati esaminati i meccanismi

molecolari attraverso cui queste due sostanze svolgono queste attività di

riduzione ed è emerso che W2 riduce l’espressione genica dei componenti

della γ-secretasi e incrementa la degradazione della Aβ, in modo simile anche

I2 riduce l’espressione dei componenti della β- e γ-secretasi e aumenta la

degradazione di Aβ. È stato osservato come W2 sia in grado di ristabilire

l’apprendimento e la memoria in topi 3xTg per la MA (topi tripli transgenici

che sovra-esprimono proteina Tau iperfosforilata, forme mutate di

presenillina 1 e APP sviluppando deposizioni di β-amiloide e di grovigli

neurofibrillari con decorso spaziale e temporale MA-simile), inoltre è stato

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scoperto che questa sostanza diminuisce la fosforilazione delle Tau, dunque

questi dati suggeriscono che questi composti possono rappresentare una

nuova strategia terapeutica (Sung et al., 2013).

Solo a seguito di un recente studio si è scoperto che SAHA facilita il

potenziamento a lungo termine (Long Term Potentation, LTP) nell’ippocampo,

fenomeno di plasticità sinaptica che consiste nell’aumento dell’efficacia di

sinapsi come conseguenza di una particolare stimolazione, in topi wild-tipe

ma non riesce a migliorare la funzione cognitiva in topi Tg2567 (Hanson et

al., 2013), questo perché è stata dimostrata una scarsa disponibilità nel

cervello di SAHA dopo iniezione intra-peritoneale. Infatti quando questa

viene iniettata direttamente nell’ippocampo dei topi si ha un miglioramento

della memoria (Peleg et al., 2010). Questo quindi spiega la possibilità che

SAHA non sia in grado di attraversare facilmente la barriera ematoencefalica

e comunque non in quantità sufficienti a produrre i suoi effetti (Hanson et

al., 2013). Tuttavia ci sono esperimenti in cui la somministrazione di questa

sostanza in topi APP/PS1 delta 9 si è mostrata efficace quando

somministrata attraverso iniezioni intra-peritoneali per tre settimane (Kilgore

et al., 2010), per cui questi dati hanno bisogno di essere approfonditi

attraverso ulteriori indagini.

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In conclusione ci sono prove evidenti che l’utilizzo di HDACi produce un

miglioramento delle funzioni cognitive in modelli murini per la deposizione

dell’amiloide anche in uno stadio avanzato della patologia, tuttavia il

meccanismo mediante il quale esplicano i loro effetti non è ancora ben

conosciuto. A fronte di questi dati è ragionevole supporre che l’acetilazione

degli istoni e la regolazione dell’espressione genica rappresentano il bersaglio

dell’attività degli HDACi. I pochi studi che hanno indagato sull’acetilazione

delle proteine istoniche hanno rivelato una loro riduzione in modelli di MA e

hanno poi riscontrato come questi livelli siano stati ristabiliti a seguito

dell’azione di HDACi. La principale dimostrazione del fatto che alterazioni

dell’acetilazione degli istoni sono collegate a deficit della memoria deriva

dallo studio di modelli murini nei quali il declino cognitivo che si verifica

durante il processo di invecchiamento è stato collegato con una down-

regulation dell’acetilazione di H4K12 (Peleg et al., 2010). La tecnica di

immunoprecipitazione della cromatina seguita da sequenziamento e

combinata all’ analisi del trascrittoma ha rivelato che H4K12 è fondamentale

per l’innesco del processo di apprendimento indotto dall’espressione genica

(Peleg et al., 2010). A tale proposito è stato osservato che iniezioni intra-

ippocampali di SAHA in modelli murini permettevano di ripristinare

parzialmente l’acetilazione di H4K12 (Peleg et al., 2010).

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Tabella 2 Esempi degli effetti degli inibitori delle HDACs in modelli animali di MA.

Composti Modelli

sperimentali

Risultati Bibliografia

Sodio butirrato Topi transgenici per

MA (CK-p25)

Iniezioni intra-peritoneali

per 4 settimane

migliorano

apprendimento e

memoria

Fischer et al., 2007

Tricostatina A

Topi transgenici per

MA (APP/PS1)

Il trattamento acuto

ristabilisce i livelli

dell’acetilazione di H4

nell’ippocampo

Francis et al., 2009

Fenilbutirrato Topi trasgenici per

MA (tg2576)

Iniezioni intra-peritoneali

per 5 settimane

migliorano la memoria e

ripristinano la densità

delle spine dendritiche

Ricobarza et al.,

2009; Ricobarza et

al., 2010

Sodio butirrato,

sodio valproato o

vorinostat

Topi transgenici per

MA (APP/PS1)

Iniezioni intra-peritoneali

per 2-3 settimane

ristabiliscono la memoria

Kilgore et al., 2010

Sodio butirrato Topi transgenici per

MA (Tg2576)

Iniezioni intra-peritoneali

per 5 settiamane

riducono i livelli di

fosforilazione di tau e

ristabilisce la densità

delle spine dendritiche

nei neuroni

dell’ippocampo

Ricobaranza et al.,

2010

MS-275 (etinostat) Topi transgenici per

MA (APP/PS1)

La somministrazione

orale per 10 giorni

migliora la

neuroinfiammazione, la

amiloidosi cerebrale e il

comportamento

Zhang and

Schluesener, 2013

W2 (classe II di

HDACi)

Topi transgenici per

MA (3xTg)

Iniezioni intra-peritoneali

per 4 settimane

migliorano la funzione

della memoria e riducono

i livelli di Aβ e delle tau

fosforilate

Sung et al., 2013

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Metilazione del DNA in modelli di MA

Come abbiamo visto precedentemente, la metilazione del DNA è un processo

di modifica naturale che prevede l’aggiunta di un gruppo metilico alla

posizione 5’ dell’anello della citosina e rappresenta il meccanismo epigenetico

più comunemente studiato e meglio compreso, con funzione di regolare

l’espressione genica e di mantenere la stabilità del genoma. Studi condotti in

cervelli post-mortem di pazienti MA hanno mostrato una riduzione globale

dei livelli di metilazione del DNA nell’ ippocampo rispetto a cervelli di

individui cognitivamente sani, suggerendo che questa possa portare alla

riattivazione o a un’ alterata trascrizione di geni che in condizioni normali

dovrebbero essere silenziati (Mastroeni et al., 2010; Chouliaras et al., 2013).

L’ ipometilazione è associata quindi con un’ instabilità genomica e con un

incremento di eventi mutazionali, i quali possono essere indotti da un deficit

di sostanze essenziali o da inquinanti ambientali in specifici geni che

portano a una trascrizione aberrante (Hou at al., 2012).

Una delle più interessanti linee di ricerca nell’epigenetica della MA ipotizza

che un deficit nel metabolismo dei folati, richiesti per la produzione della S-

adenosilmetionina, possa indurre cambiamenti epigenetici rilevanti per

questa patologia. Il metabolismo dei folati fornisce il gruppo metilico

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necessario per la produzione di SAM, che è il maggiore agente metilante del

DNA, ed è stato osservato che, individui affetti da MA, presentano ridotti

valori di folati e un incremento dei livelli di omocisteina nel plasma

(Coppedè, 2010). Studi su roditori hanno suggerito che un’esposizione

precoce a sostanze neurotossiche o una dieta povera di folati e altre vitamine

del gruppo B, risultano in una serie di modificazioni epigenetiche a carico di

geni critici per la MA (Basha et al., 2005; Fuso et al., 2005; Wu et al., 2008).

I folati sono nutrienti essenziali, introdotti nell’organismo attraverso la dieta

e in special modo dal consumo di vegetali, frutta, cereali e carne. In seguito

ad assorbimento intestinale, per il loro metabolismo è richiesta la riduzione e

la metilazione nel fegato al fine di formare il 5-metil-tetraidrofolato (5-MTHF)

che viene rilasciato nel sangue e assorbito a livello cellulare dove verrà poi

utilizzato per la sintesi di precursori di DNA e RNA o per la conversione di

omocisteina in metionina che viene poi utilizzata per formare SAM (Coppedè,

2009). La metilenetetraidrofolato reduttasi (MTHFR) è il primo enzima nel

percorso di metilazione del DNA in quanto riduce il 5-10 metilen-

tetraidrofolato a 5-MTHF, successivamente la metionina sintasi (MTR),

trasferisce un gruppo metilico dal 5-MTHF all’ omocisteina, formando così la

metionina. Quest’ultima è poi convertita in SAM attraverso la reazione

catalizzata dalla metionina adenosiltrasferasi (MAT). La maggior parte di

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SAM è convertita in S-adenosilomocisteina (SAH) attraverso il trasferimento

del gruppo metile a diversi accettori biologici inclusi proteine e DNA. Se non

viene convertita in metionina, l’omocisteina può essere condensata con la

serina a formare la cistationina, in una reazione catalizzata dalla cistationina

β-sintetasi che richiede la vitamina B6 come co-fattore (la cistationina può

essere usata per la formazione di composti antiossidanti quali il glutatione)

(Figura 7) (Bailey and Gregory, 1999; Coppedè, 2009).

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Figura 7. Metabolismo dell’omocisteina. Tratto da www.homocompany.it

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È stato osservato che un deficit di folati conduce a deplezione di SAM e

quindi, come conseguenza, ad un incremento dei livelli di omocisteina, la

quale potenzia la tossicità del peptide β-amiloide (Ho et al., 2003).

Influenzando i livelli cellulari di S-adenosilmetionina, l’omocisteina può

indurre modificazioni epigenetiche a livello dei promotori dei geni legati alla

MA (Fowler, 2005).

Modificazioni epigenetiche in culture cellulari:

Molti studi condotti su cellule umane di neuroblastoma, suggeriscono che la

manipolazione di fattori ambientali può modificare epigeneticamente

l’espressione di geni coinvolti nella MA e quindi delle proteine da questi

codificate. In particolare sono stati analizzati i livelli di metilazione delle

“isole CpG” nel promotore di APP e PSEN1 ed è stato osservato che, in

condizioni di mancanza di folati e vitamina B12, lo stato di metilazione al

promotore del gene PSEN1 aveva subito una demetilazione con conseguente

deregolazione nella produzione delle proteine presenillina1, BACE1 e APP

(Tabella 3) (Fuso et al., 2005). Questo studio ha dunque confermato come

alcuni geni, responsabili della produzione del peptide β-amiloide nella MA,

possono essere regolati da meccanismi epigenetici dipendenti dalla

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disponibilità cellulare di folati e vitamina B12 (Fuso et al., 2005). Inoltre è

stato osservato che la somministrazione di SAM alle cellule di cui sopra

induceva un’opposta tendenza, in altre parole ripristinava i livelli di

metilazione e di espressione genica di PSEN1 portando a una riduzione della

produzione del peptide Aβ (Tabella 3) (Scarpa et al., 2003).

Modificazioni epigenetiche in modelli animali:

Studi condotti in modelli murini sottoposti a dieta carente in folati, vitamina

B12 e B6, hanno dimostrato come questa induca iperomocistinemia

portando ad un incremento dei livelli cerebrali di SAH, deplezione di SAM e

un aumento di presenillina1, BACE1 e Aβ (Tabella 3) (Fuso et al., 2008).

Inoltre è stato riscontrato come tale dieta induca ipometilazione di specifiche

regioni CpG nel promotore di PSEN1 in questi modelli animali e ciò è

correlato alla sua espressione genica (Fuso et al., 2009). Risultati simili sono

stati osservati anche in topi sottoposti a dieta povera di folati e condizioni di

stress ossidativo (Chan and Shea, 2007).

Un esperimento simile è stato condotto in modelli murini che esprimevano il

gene dell’APOE umana, vi erano topi che esprimevano l’isoforma ε4 umana

dell’apolipoproteina (ovvero quella associata ad un aumento del rischio di

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sviluppare MA), e altri che esprimevano le isoforme ε3 e ε2 (associate,

soprattutto la ε2, ad un ridotto rischio di sviluppare la patologia). Questi

modelli animali sono stati sottoposti ad una dieta priva di folati e vitamina E.

Lo studio ha rivelato che la presenillina 1 era sovraespressa sia in topi con

ε3 che ε4 e che la produzione di Aβ era aumentata in topi con isoforma ε4 e

che tutto ciò veniva attenuato a seguito di supplementazione di SAM (tabella

3) (Chan et al., 2009). Inoltre, questo regime dietetico portava ad un

aumento dei livelli di fosforilazione della proteina Tau in topi ε4 (Chan et al.,

2009).

I metalli pesanti sono contaminanti ambientali molto diffusi e sono stati

associati a numerose patologie quali ad esempio il cancro, le malattie

cardiovascolari, i disturbi neurologici e le malattie autoimmuni. In

particolare, molti studi hanno dimostrato che i metalli agiscono come

catalizzatori nel deterioramento ossidativo delle macromolecole inducendo la

produzione di specie reattive dell’ossigeno (ROS) e portando quindi alla

generazione di radicali liberi che possono influenzare i meccanismi

epigenetici (Hou at al., 2012).

A questo proposito, studi condotti esponendo femmine di roditori a piombo

durante la gravidanza, e monitorando poi l’espressione del gene APP nella

prole, hanno dimostrato che l’espressione di tale gene veniva

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transitoriamente indotta nei neonati ma, con un ritardo di circa venti mesi

dall’esposizione, si registrava una sovraespressione nelle aree cerebrali

(Tabella 3). Questa up-regulation era proporzionale all’aumento dell’attività

del fattore di trascrizione Sp1, uno dei regolatori del gene APP, inoltre

l’aumento dell’espressione di questo gene in età avanzata era accompagnato

da un aumento dei livelli di proteine APP e Aβ. Al contrario l’espressione di

questo gene e del suo fattore di trascrizione erano insensibili all’esposizione

a questo metallo in età avanzata (Tabella 3) (Basha et al., 2005). Lo stesso

gruppo di ricerca ha analizzato il materiale cerebrale di scimmie

antropomorfe esposte a piombo in età precoce; la sequenza di APP in questi

animali è omologa per il 96% a quella dell’uomo e ciò fa di esse un buon

modello per lo studio degli effetti patologici di Aβ (Podlisny et al., 1991).

Anche in questo studio gli animali erano esposti al piombo nell’infanzia ed in

seguito, mettendo a confronto i livelli di espressione di APP, BACE1 e SP1 tra

animali di controllo e quelli esposti al metallo, si è riscontrato che i livelli di

tutti e tre i geni erano elevati nei primati esposti al metallo (Tabella 3). La

quantificazione dei risultati ha indicato che i livelli proteici di APP erano

incrementati del 50%, i livelli di Aβ-40 del 50%, mentre quelli di Aβ-42 del

100% in maniera simile a ciò che era stato visto per i roditori (Wu et al.,

2008).

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Nel complesso questi dati suggeriscono che le influenze ambientali che si

verificano durante lo sviluppo cerebrale influenzano l’espressione e la

regolazione di APP in uno stadio più avanzato della vita (Basha et al., 2005;

Wu et al., 2008). Inoltre è stato osservato che l’esposizione al piombo

durante lo sviluppo del cervello in modelli murini e in scimmie inibisce le

DNA metiltrasferasi con conseguente ipometilazione dei promotori di geni

associati alla MA, come ad esempio APP, mentre altri geni vengono repressi,

suggerendo che le esposizioni ambientali in utero e nei primi mesi di vita

determinano l’ipometilazione di alcuni geni e l’ipermetilazione di altri con

possibili conseguenze per la salute in età adulta (Basha et al., 2005; Zawia et

al., 2009).

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Tabella 3 Modificazioni epigenetiche nella malattia di Alzheimer

Modello sperimentale Osservazioni Bibliografia

Cellule di neuroblastoma umano

La deprivazione di folati e vitamina B12, nella dieta, induce demetilazione al promotore del gene PSEN1 con conseguente incremento dell’espressione genica e quindi incremento della produzione di presenillina1, BACE1 e APP. La somministrazione di SAM al mezzo di crescita produce un incremento dei livelli di metilazione e quindi una down-

regukation dell’espressione genica di PSEN1 con

conseguente riduzione nella produzione di Aβ

(Scarpa et al., 2003; Fuso et al., 2005)

Modelli murini La deprivazione di folati, vitamina B12 e vitamina B, nella dieta, induce demetilazione delle regioni CpG del gene PSEN1 con conseguente aumento e incremento dei livelli cerebrali di presenillina1, BACE1 e Aβ. La somministrazione di SAM produce un incremento dei livelli di metilazione e quindi diminuzione nell’espressione di PSEN1 con conseguente riduzione nella produzione di Aβ

(Chan and Shea ,2007; Fuso et al., 2008)

Modelli murini che esprimono il gene APOE umano

La deprivazione di folati e vitamina E produce una sovraespressione di presenillina1 sia in modelli murini ε3 che ε4 con conseguente aumento, in topi ε4, nella produzione di Aβ e dei livelli di fosforilazione della proteina tau. La somministrazione di SAM riusciva a ristabilire parzialmente questa condizione.

(Chan et al., 2009)

Femmine di roditori esposte al piombo durante la gravidanza

Si verifica un aumento dell’espressione del gene APP nella prole con un ritardo di circa 20 mesi dall’esposizione che si traduce in un aumento

nella produzione della proteina APP e del peptide Aβ. L’espressione di APP risultava invariata a seguito di esposizione a Pb in età avanzata.

(Basha et al., 2005)

Scimmie antropomorfe esposte a piombo in età precoce

L’esposizione al Pb produce un aumento nell’espressione di APP, BACE1 e SP1.

(Jinfang et al.,2008)

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Discussione e Conclusioni:

Gli studi descritti in questo lavoro di tesi mettono in evidenza come uno dei

possibili bersagli per lo sviluppo di nuovi farmaci nella Malattia di Alzheimer

sia rappresentato dall’epigenoma. Infatti, molecole come gli inibitori delle

istone deacetilasi si sono dimostrati capaci di oltrepassare la barriera emato-

encefalica e ritardare l’insorgenza e la progressione dei sintomi in modelli

animali della malattia. Nonostante i risultati siano incoraggianti, sono

tuttavia necessarie ulteriori sperimentazioni prima che questi vengano

applicati all’uomo.

Attualmente solo pochi composti aventi proprietà epigenetiche sono stati

approvati per il trattamento di patologie umane. Questi includono

l’azacitidina e la decitabina, entrambi inibitori delle DNMTs, utilizzati per il

trattamento di sindromi mielodisplastiche, e tra gli HDACi il vorinostat ed il

romidepsin, utilizzati per il trattamento del linfoma cutaneo a cellule T (Juo

et al., 2015). Nonostante questi composti abbiano dato risultati incoraggianti

nel trattamento delle malattie ematopoietiche, i risultati dei trials clinici di

fase I e II per il trattamento dei tumori solidi non sono incoraggianti, in

quanto la monoterapia è spesso risultata scarsamente efficace ed associata

molte volte a tossicità severa (Juo et al., 2015). Al contrario, i risultati

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preliminari di studi preclinici in cui i composti epigenetici sono stati

combinati tra loro (esempio inibitori di HDACs e DNMTs), oppure combinati

a farmaci chemioterapici o ad immunoterapia sono incoraggianti per una

possibile futura applicazione anche al trattamento dei tumori solidi, tuttavia

non sono ancora chiari i dosaggi, i tempi ed i modi di somministrazione di

questi composti (Juo et al., 2015).

Quanto appreso dalla ricerca nel trattamento dei tumori solidi deve essere

esteso anche al potenziale trattamento di altre patologie, incluse le

neurodegenerative. Infatti, nonostante molti di questi composti abbiano dato

risultati incoraggianti in modelli cellulari e animali, i dati finora ottenuti non

possono ancora considerarsi sufficienti per applicare farmaci epigenetici al

trattamento di malattie neurodegenerative nell’ uomo. La fonte di maggiore

preoccupazione è la scarsa selettività degli HDACi; questi composti infatti

inibiscono molti enzimi simultaneamente e per tale motivo potrebbero

portare a gravi effetti collaterali, come peraltro evidenziato dai trials nel

trattamento dei tumori solidi. Da tenere in considerazione sono poi le

differenze anatomiche e metaboliche tra gli animali utilizzati e l’uomo, così

come le dosi, i tempi e le modalità di somministrazione che erano spesso

diversi negli studi condotti su modelli animali, rendendo difficile

l’individuazione della strategia più idonea da applicare agli esseri umani.

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Tutto questo suggerisce la necessità di indagini più approfondite per

garantire gli effetti di questi approcci terapeutici. Inoltre dobbiamo ricordare

che non tutte le HDACs sono espresse allo stesso modo nelle varie regioni

cerebrali colpite da MA e pertanto che alcune di esse sembrano avere un

ruolo maggiore nei processi di memoria e apprendimento compromessi dalla

patologia. Pertanto, un’importante linea di ricerca sta focalizzando la sua

attenzione alla comprensione dell’esatto ruolo delle varie HDACs nelle

diverse patologie neurodegenerative, in modo tale da poter individuare i

bersagli che permettano di mettere appunto una strategia farmacologica che

sia il più possibile mirata. A tale proposito, i dati attuali suggeriscono che le

HDACs di classe I siano di particolare importanza nella MA; per esempio

modelli murini mancanti della HDAC2 mostrano un miglioramento della

memoria, ed in linea con questi dati sono stati trovati livelli aumentati di

HDAC2 nel tessuto cerebrale post-mortem di pazienti affetti da MA (Guan et

al., 2009; Graff et al., 2012), suggerendo che tale enzima rappresenti un

bersaglio ottimale per il trattamento con HDACi. Risultati simili sono stati

ottenuti anche per la HDAC3 (McQuown et al., 2011), ma il contributo di

questo enzima alla MA rimane da dimostrare, come pure quello delle HDAC1

e HDAC8 (Bahari-Javan et al., 2012). Pertanto, tra le HDACs di classe I,

HDAC2 e HDAC3 potrebbero rappresentare i bersagli farmacologici più

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adeguati nella MA. Per quanto riguarda la classe II, l’enzima più studiato in

rapporto alla MA è l’HDAC6 che deacetila proteine non-istoniche quali

tubulina e HSP-90 (Simões-Pires et al., 2013). Questo punto è molto

importante poiché porta a chiedersi se l’effetto benefico degli HDACi sia

dovuto all’azione dell’acetilazione sulle proteine istoniche o all’azione

dell’acetilazione su proteine non-istoniche, quali ad esempio le tubuline.

Nonostante quindi tutte queste considerazioni indichino la necessità di

approfondimenti prima di poter trasferire le ricerche di laboratorio al

trattamento di esseri umani, il potenziale della terapia epigenetica nel

trattamento delle malattie neurodegenerative rimane elevato e uno dei più

promettenti tra quelli attualmente in studio.

Oltre al potenziale offerto da composti aventi proprietà di inibire le HDACs,

abbiamo discusso anche come composti in grado di agire sulla metilazione

del DNA, quali ad esempio folati e altre vitamine del gruppo B, o la stessa

SAM, abbiano dato risultati incoraggianti in modelli animali di MA. Tuttavia,

anche in questo caso i risultati dei trials clinici nell’uomo non hanno fornito i

risultati attesi. Infatti, una recentissima meta-analisi degli studi condotti per

valutare se la supplementazione con vitamine del gruppo B era in grado o

meno di ritardare il declino cognitivo in soggetti con decadimento cognitivo

lieve (MCI = Mild Cognitive Impairment: una fase preclinica della MA) o il

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decorso della malattia in individui con MA, ha evidenziato che non vi è

evidenza sufficiente di un effetto di tali vitamine sulle funzioni cognitive

generali, sulle funzioni esecutive e sull’attenzione in individui con MCI.

Parimenti, l’acido folico da solo o combinazioni di vitamine del gruppo B non

sono state in grado di stabilizzare o rallentare il declino cognitivo, funzionale

e comportamentale in soggetti con MA (Li et al. 2014). Questi studi pongono

pertanto l’attenzione su quale sia la finestra temporale, nel corso della vita

umana, dove un’ eventuale supplementazione potrebbe essere efficace,

suggerendo anche che intervenire nelle fasi tardive, laddove il declino

cognitivo o la patologia vera e propria sono già manifeste, forse non

rappresenti la migliore strategia. A questo punto si apre la prospettiva di una

possibile prevenzione nelle fasi più precoci della nostra vita, che tuttavia non

è priva di perplessità legate al fatto che questo potrebbe avere effetti

collaterali in alcuni soggetti (Coppedè, 2010). Ad esempio una

somministrazione eccessiva di acido folico e/o di composti donatori di gruppi

metilici potrebbe favorire la progressione di un tumore in individui con

lesioni preneoplastiche, indurre modificazioni epigenetiche negli embrioni di

donne in gravidanza, o mascherare condizioni patologiche in soggetti

anziani, e questo è uno dei motivi per i quali in Europa si discute ancora se

rendere obbligatoria o meno la fortificazione dei cibi con acido folico (Shorter

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et al., 2015). Vi sono tuttavia molti composti di origine naturale ricchi di

vitamine del gruppo B, polifenoli e flavonoidi, che potrebbero garantirci un

adeguato apporto di gruppi metilici ed un corretto funzionamento degli

enzimi che mediano le modificazioni epigenetiche nelle cellule. Il loro corretto

utilizzo nella dieta potrebbe pertanto rappresentare un’ottima strategia

preventiva nei confronti di molte malattie cronico-degenerative, garantendo

alle nostre cellule il corretto apporto di nutrienti per la corretta regolazione

dell’espressione genica, senza esporci ai rischi di dosaggi eccessivi con

molecole di sintesi (Coppedè, 2014).

In conclusione, il potenziale di composti aventi proprietà epigenetiche, sia di

origine naturale che di sintesi, rimane elevato nell’ambito della prevenzione

e/o della terapia di malattie degenerative quali la MA. Gli studi sono tuttavia

in fase iniziale e molto è ancora da chiarire prima di poter traslare la ricerca

di base alla terapia degli esseri umani.

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